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Notizie 16-31 ottobre 2022


Serie di attacchi in Israele: civile ucciso a Kiryat Arba

di Sofia Tranchina

Un clima di crescente tensione sconvolge Israele da qualche mese. A seguito di una serie di attacchi del Lion’s Den (un gruppo di fuoco palestinese)  in cui sono rimasti uccisi 19 israeliani, è stata avviata una campagna antiterrorismo in Cisgiordania che ha portato il 26 ottobre all’arresto di tre membri del gruppo terroristico presso Nablus.
  Sabato 22 ottobre a Gerusalemme Est un ventenne ortodosso è stato accoltellato alla schiena e gravemente ferito in un parco di Sheshet HaYamim street.
  Secondo la ricostruzione, l’accoltellatore, un sedicenne di Anata, sarebbe fuggito dalla scena a piedi, ma sarebbe poi stato identificato presso un campo da calcio a 800 metri di distanza con ancora in mano il manico del coltello, da un agente che gli ha successivamente sparato.
  Sabato 29 ottobre, invece, nel quartiere di Kiryat Arba un terrorista di Hebron armato di fucile M-16 ha aperto il fuoco sulla folla, ammazzando un civile israeliano e ferendone altri prima di venire ucciso da un ufficiale fuori servizio.
  Il terrorista è stato identificato come Muhammed Kamel al-Jaabari, un residente di Hebron affiliato al gruppo terroristico delle Brigate al-Qassam di Hamas, riferisce il Jerusalem Post. Suo fratello Waal era già stato arrestato per terrorismo ed era stato rilasciato durante lo scambio di prigionieri per la liberazione di Gilad Shalit del 2011. Secondo alcune voci, Muhammed al-Jaabari era malato terminale di cancro.
  L’attacco è avvenuto di sera fuori da un minimarket vicino al checkpoint di Ashmoret.
  La vittima è Ronen Hanania, ebreo israeliano di 50 anni residente di Kiryat Arba. Suo figlio, un ragazzo di 19 anni, era lì con lui ed è rimasto gravemente ferito.
  Come ha raccontato il figlio a Canale 12, l’aggressore ha sparato nella loro direzione quando sono tornati alla macchina dopo aver fatto la spesa: «il proiettile è entrato e la sua testa si è aperta. L’ho visto morire».
  Tra gli altri, è rimasto gravemente ferito anche Ofer Ohana, un medico del Magen David Adom, che era andato sulla scena dell’attacco a prestare soccorso insieme al collega Yisrael Lior, che ha raccontato: «mentre correvo a prendere le attrezzature mediche, ho sentito il medico con cui mi trovavo gridare “sono ferito. Mi hanno sparato”»
  Secondo la ricostruzione dei fatti il terrorista ha sparato alla folla ed è scappato, ma è tornato sul posto otto minuti dopo per aprire nuovamente il fuoco sui medici che fornivano cure di emergenza alle vittime, ferendo anche un paramedico palestinese. L’aggressore è stato poi investito dal coordinatore della sicurezza militare e ucciso con arma da fuoco da un ufficiale dell’IDF fuori servizio.
  Le immagini circolate sui social media hanno mostrato che, dopo l’attacco, sono iniziati i festeggiamenti a Hebron, con dolci, fuochi d’artificio e canti a sostegno del terrorista Muhammad Deif.
  Poco dopo l’attacco, vicino all’insediamento di Ma’ale Amos, in Cisgiordania, dei palestinesi hanno scagliato pietre contro un israeliano di 27 anni, che è stato portato a Shaare Zedek con un trauma cranico.
  Diverse ore dopo, vicino alla città palestinese di Bani Na’im sono stati sparati colpi di arma da fuoco da un veicolo di passaggio contro le truppe israeliane. Gli uomini armati sono riusciti a fuggire in auto.
  Domenica 30 ottobre, in un doppio assalto vicino al Mar Morto settentrionale, sono stati feriti cinque soldati israeliani.
  Secondo quanto riportato da Haaretz, l’aggressore Barakat Musa Younes Odeh, 49 anni, ha lanciato la sua macchina contro alcuni soldati all’incrocio di Nabi Musa, ed ha poi proseguito verso l’incrocio di Almog dove ha colpito altri soldati che aspettavano a una fermata dell’autobus.
  L’aggressore ha poi cercato di scappare ma un civile e la polizia l’hanno fermato con colpi di arma da fuoco. La polizia l’ha poi trasportato in condizioni critiche all’Hadassah Medical Center, dove è stato successivamente dichiarato morto.
  Un alto funzionario della sicurezza ha fatto notare che questo è solo l’ultimo di dozzine di allarmi che sono scattati negli ultimi giorni per attacchi in Giudea e Samaria.
  Il Primo Ministro Lapid ha detto infatti in una dichiarazione: «Il terrore non ci sconfiggerà, agiremo con forza», mentre il ministro della Pubblica Sicurezza Omer Barlev ha asserito: «Il terrore palestinese non ci spezzerà. Continueremo a combatterlo con determinazione e forza, giorno e notte».

(Bet Magazine Mosaico, 31 ottobre 2022)

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Domenica 6 novembre marcia in memoria della deportazione degli Ebrei

Firenze: inizio alle 17.30 in via del Corso

Domenica 6 novembre marcia in memoria della deportazione degli Ebrei Dal 2013 la Comunità di Sant'Egidio ricorda la deportazione degli Ebrei di Firenze, avviata il 6 novembre del 1943, attraverso un pellegrinaggio della memoria nelle strade del centro storico. Il corteo quest'anno partirà da via del Corso, domenica 6 novembre 2022, alle ore 17.30, con appuntamento in via del Corso 10, e percorrerà le vie del centro fino alla sinagoga di via Farini, dove i partecipanti al corteo saranno accolti dai responsabili della Comunità Ebraica per una cerimonia nel piazzale.
  La cittadinanza è invitata. L'appuntamento è alle 17.30, ma in caso di temporale la manifestazione si svolgerà direttamente alla sinagoga alle ore 18.Può essere utile ricordare alcuni dati. Il 6 novembre 1943 il comando nazista avviò a Firenze la cattura e la deportazione degli Ebrei fiorentini. Vennero arrestate oltre 300 persone. Il 9 novembre furono caricate sui treni diretti verso Auschwitz, dove arrivarono il 14 novembre. Solo 107 superarono la selezione per l'immissione nel campo: gli altri vennero immediatamente eliminati.Nell'elenco dei deportati figuravano anche otto bambini nati dopo il 1930 e 30 anziani, nati prima del 1884.I tedeschi avevano completato l'occupazione di Firenze nel settembre 1943. Qui i nazisti poterono contare per la razzia sul sostegno attivo dei fascisti, in particolare su quello della banda Carità.Degli Ebrei deportati nei lager dal 6 novembre del '43 in poi, solo 15 tornarono indietro: otto donne e sette uomini.

(nove da Firenze, 31 ottobre 2022)

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L'ambasciatore dell'Ucraina in Israele ha affermato di essere costantemente in contatto con le autorità statunitensi 

Per convincere le autorità israeliane a iniziare a fornire assistenza tecnico-militare all'Ucraina.

L'ambasciatore ucraino in Israele Yevgeny Korniychuk ha affermato di avere un contratto a tempo indeterminato con le autorità israeliane e di discutere possibili forniture di aiuti militari. Tuttavia, questa non è la cosa più notevole della sua affermazione.
È interessante notare che Korniychuk (ancora una volta, l'ambasciatore in Israele) ha dichiarato di essere in “costante contatto con le autorità statunitensi” sulla stessa questione.
Ambasciatore ucraino:
La nostra ambasciata tiene consultazioni settimanali con i nostri partner americani. Incontro con l'inviato statunitense Tom Nydes come parte di uno sforzo per allineare Israele con la posizione occidentale di sostenere l'Ucraina.
La dichiarazione è degna di nota per il fatto che il "diplomatico" ucraino agisce al di fuori di qualsiasi diplomazia. Ed è stato a lungo biglietto da visita del Ministero degli Esteri ucraino. 
Korniychuk, infatti, dice direttamente che sta chiedendo agli Stati Uniti di fare pressione su Israele affinché inizi a cedere al regime di Kiev оружия e equipaggiamento militare.
L'ambasciatore ucraino ha rilasciato la sua dichiarazione in un'intervista all'edizione americana di The Hill.
Korniychuk:
Scherzando, chiamo Tom Nydes la nostra arma segreta. Lui ed io stiamo discutendo varie misure di sostegno e la posizione di Israele, che differisce dalla posizione del resto del mondo democratico. Abbiamo bisogno del supporto tecnico-militare di Israele.
Quindi l'ambasciatore ucraino ha effettivamente confessato di aprire un'ingerenza negli affari di uno stato straniero.

(Top War, 31 ottobre 2022)

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I valichi di frontiera in Cisgiordania e Gaza verranno chiusi in vista delle elezioni in Israele

Membri dell’Idf e diverse unità di polizia di frontiera saranno dispiegate nell'area di Hebron, nella Cisgiordania meridionale e vicino a Gerusalemme.

I valichi di frontiera tra Israele e la Cisgiordania e Gaza verranno chiusi a partire dalla mezzanotte del primo novembre fino alle 11:59 della stessa giornata, mentre verranno rafforzate le misure di sicurezza in Cisgiordania, dove si prevede verranno inviati militari e membri delle forze di polizia aggiuntivi. Lo hanno reso noto le Forze di difesa di Israele (Idf), in vista delle elezioni che si terranno domani in Israele. Membri dell’Idf e diverse unità di polizia di frontiera saranno dispiegate nell’area di Hebron, nella Cisgiordania meridionale e vicino a Gerusalemme. L’obiettivo è prevenire attacchi ed episodi di violenza.

(Nova News, 31 ottobre 2022)


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Israele al voto: alla ricerca della “Mamlachà” perduta. Il senso dello Stato

Una maggioranza risicata, con anime troppo diverse. E così, dopo un anno di acrobazie, il governo Bennett si è sfaldato. A novembre si vota per la quinta volta in tre anni. Ma ancora una volta, il “collante” dei politici è solo uno: sbarrare la strada a Netanyahu. Che è sempre più popolare.

di Avi Shalom

TEL AVIV - Il primo novembre Israele torna al voto, per la quinta volta in tre anni. Visto a volo d’uccello, il Paese è spaccato in due culture politiche di medesime dimensioni, divise da una ostilità profonda. Né una né l’altra sono in grado di dar vita a un governo dotato di una maggioranza stabile. Nel giugno 2021 il nazionalista moderato Naftali Bennett ha cercato di guidare una coalizione eterogenea, basata su ben otto liste diverse: di centro, di destra e di sinistra. Per la prima volta ha anche incluso nella maggioranza il partito islamico Raam. Ma alla Knesset aveva una maggioranza risicata e dopo 12 mesi di acrobazie, piroette e contorcimenti il governo si è sfaldato. Il Paese è retto da quanto resta di quella coalizione, guidata dal centrista laico Yair Lapid, mentre il partito di Bennett (Yemina) si è sfaldato del tutto. Ora il Paese va avanti a forza di inerzia, guidato da un premier a mezzo servizio che non può prendere iniziative importanti né nella sicurezza, né in economia, né in campo sociale. La situazione sarebbe più confortante se i sondaggi indicassero almeno che dopo novembre lo stallo politico sarà finalmente superato, che allora si formerà un governo netto: di destra, oppure di centro. Ma capace di sopravvivere per una legislatura intera di quattro anni. Invece i pronostici prevedono un nuovo pareggio sostanziale. E nemmeno si esclude la eventualità di seste elezioni. Lo scoraggiamento, specialmente fra i giovani, è diffuso. La classe politica si dimostra non all’altezza della situazione.
  Uno sviluppo dovrebbe sicuramente destare allarme: la confusione generale nei corridoi della Knesset viene infatti registrata con attenzione nella Regione. I Paesi degli accordi di Abramo – pur inorriditi dall’ipotesi di un Iran nucleare – hanno perso lo slancio di un anno nella riappacificazione con Israele. Hamas e la Jihad islamica hanno innescato una linea più marcata di opposizione, con una lotta armata di erosione contro Israele sia da Gaza, sia in Cisgiordania. Il presidente palestinese Abu Mazen comprende fin troppo bene che il vuoto di idee a Gerusalemme esclude dal prossimo futuro qualsiasi ipotesi di soluzione politica. E peraltro, a 87 anni di età di cui 16 passati alla guida della Autorità nazionale palestinese, il presidente palestinese pensa più che altro a restare a galla. Al nord di Israele gli Hezbollah stanno accentuando la propria presenza militare al confine fra Libano e Israele e in Siria a ridosso delle alture del Golan. Hanno messo da parte 100-150 mila razzi di vario genere con cui minacciano di mettere a ferro e fuoco l’intero territorio israeliano, nonché i suoi giacimenti di gas naturale nel Mar Mediterraneo. E da Teheran giungono minacce quasi quotidiane nei confronti della “entità sionista”.

• Alla ricerca di una mitica “Unità nazionale”
  Non pochi analisti politici avvertono la gravità del momento. Uno di questi è Ari Shavit, ex columnist di Haaretz caduto in disgrazia e ora analista nel quotidiano della “intelligenzyà” nazional-religiosa Makor Rishon. La parola chiave, nella sua visione, è “mamlachà”: il concetto della visione dello Stato. Di una entità a cui tutte le forze politiche dovrebbero fare riferimento, e per il cui bene supremo dovrebbero rinunciare a parte delle proprie istanze. “Mamlachà” era la bacchetta magica usata, a suo tempo da David Ben Gurion, per superare le feroci lacerazioni interne maturate fra destra e sinistra nella lotta clandestina contro il Mandato britannico. Ma nei decenni il concetto si è eroso e ormai i partiti sembrano sempre più interessati a difendere con le unghie e con i denti i propri interessi immediati, anche a scapito dell’interesse generale dello Stato. “Dobbiamo dar forma – ha fatto appello Shavit a luglio – ad una ‘mamlacha’ di sostanza, basata su impegni profondi e sinceri da parte delle forze politiche. Occorre determinazione. E se necessario, sacrifici”. Gli esempi – ha argomentato Shavit – non mancano certo. Giugno 1948: Menachem Begin non rinunciò forse a rispondere al fuoco quando forze fedeli a Ben Gurion mandarono a picco, di fronte a Tel Aviv, la nave Altalena, che clandestinamente portava armi alla destra nazionalista ebraica? E nel giugno 1967, il premier laburista Levy Eshkol non compì forse un “gesto eroico” quando incluse nel governo il leader della destra nazionalista Begin, perché Israele si presentasse in piena coesione alla guerra dei sei giorni? Shavit continua ad elencare i gesti nobili di coesione nazionale: prende ad esempio il settembre 1984, quando il laburista Shimon Peres e il leader del Likud Yizthak Shamir (ex dirigente del gruppo clandestino nazional-rivoluzionario Lekhy, irriso dal Mandato britannico come “la Banda Stern”) formarono un governo di unità nazionale che salvò in extremis il Paese da una bancarotta. Altro esempio: la drammatica estate del 2005, quando seimila coloni della striscia di Gaza accettarono di lasciare, senza impugnare le armi, le proprie case su ordine del premier Ariel Sharon, allora in fase di graduale distacco dal Likud.
  “Al momento della verità, in quelle e altre occasioni, emerse una leadership nazionale” conclude Shavit. Perché la cosa non potrebbe ripetersi adesso?

• Il fattore Netanyahu, ovvero la radicalizzazione del Likud
Netanyahu baby sitter
La cosa non si ripeterà, viene osservato da più parti, perché in queste elezioni la posta in gioco appare essere appunto la “mamlacha”: il concetto di Stato. Impegnato in un processo per corruzione, frode e abuso di potere, Netanyahu da anni ha assunto un atteggiamento di radicale antagonismo verso il potere giudiziario. Da partito liberal-conservatore qual era all’epoca di Begin e Shamir, dal 2015 il Likud ha via via maturato una vocazione nazional-populista visceralmente ostile alle élite, reali o presunte tali. Fa eccezione per i poteri economici forti, verso i quali resta invece ossequioso.
   In questa campagna elettorale la retorica dei deputati del Likud concentra le critiche verso il sistema giudiziario, dalla Corte Suprema di Gerusalemme in giù. La tesi centrale è che il processo a Netanyahu – tuttora in corso, in una atmosfera rovente – è stato architettato a tavolino per estrometterlo dalla politica.
  Un anticipo dei progetti del Likud è giunto da un suo dirigente, David Amsalem, che spera di essere nominato ministro della Giustizia se il partito uscirà vincente dalle elezioni. La Knesset, ha precisato alla televisione Canale 13, promulgherà una legge in base alla quale la Knesset potrà tornare a votare una legge che sia stata annullata dalla Corte Suprema. Le nomine dei giudici saranno prerogativa di esponenti politici. I ministri, ha aggiunto, potranno nominare nei loro dicasteri consiglieri legali di propria fiducia. Secondo alcuni osservatori, è prevedibile inoltre che il Likud chiederà di congelare il processo a Netanyahu fintanto che questi svolga la carica di premier.
  Parole di allarme sono giunte dall’ex premier laburista Ehud Barak. “Negli ultimi anni – ha scritto su Yediot Ahronot – Netanyahu è uscito di controllo. I suoi collaboratori qualificano come ‘traditori’ tutti i suoi rivali. La sua ‘macchina del veleno’ (un termine coniato da Lapid per caratterizzare l’insieme globale dei messaggi diffusi sul web da siti e da influencer vicini all’ex premier, A.B.) è impegnata a denigrare tutti i rivali, con sistemi che ricordano quelli del crimine organizzato piuttosto che una campagna politica legittima’’. La sottomissione del potere giudiziario al volere dei politici va vista con allarme, secondo Ehud Barak, anche perché “in Israele non c’è una costituzione, né esistono i check and balances del sistema politico statunitense’’.
  Fra le forze laiche centriste i timori verso il “nuovo Likud” sono cresciuti ulteriormente quando Netanyahu ha fatto ricorso al proprio peso politico per indurre due liste di destra radicale (entrambe filo-Likud) a unirsi fra di loro in vista delle elezioni di novembre. Si tratta del Sionismo religioso di Betzalel Smotrich, espressione del movimento dei coloni, e di Otzmà Yehudit (Potenza ebraica) guidata da Itamar Ben Gvir. Questi è un discepolo del rabbino Meir Kahane, l’ideologo del movimento di estrema destra e xenofobo Kach che fu dichiarato organizzazione terroristica nel 1994 (dopo la strage di palestinesi alla Tomba dei Patriarchi di Hebron compiuta dal colono Baruch Goldstein).
  Dice Barak: “Gli slogan ‘No a Bibi’ e ‘No a Ben Gvir’ non sono una ossessione, o una espressione di fede. No: sono appelli che nascono dal buon senso, da una lettura ponderata della realtà e della dinamica pericolosa che il patto fra quei due metterebbe in moto. Sono un appello a fissare una linea precisa fra quanti credono in un governo di sostegno razionale alla ‘mamlacha’, e un patto di carattere oscuro fra corruzione e messianesimo’’. Secondo Barak nel Likud ci sono anche correnti molto diverse. “Una volta che Netanyahu non fosse più alla sua guida, il Likud – conclude – potrebbe essere un alleato legittimo per ogni coalizione governativa”.
  Intanto però il Paese va altrove. Nei sondaggi il Likud è di gran lunga il partito preferito dagli israeliani, mentre i laburisti guidati a suo tempo proprio da Barak rischiano di non entrare affatto in parlamento. E Netanyahu – malgrado il processo (e forse paradossalmente proprio grazie ad esso) – resta indiscutibilmente il personaggio politico più popolare in Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 31 ottobre 2022)


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Netanyahu punta a tornare al governo con l'ultradestra di Ben Gvir

Martedì le quinte elezioni in tre anni, Bibi cerca la rivincita su Bennet e Lapid ma si rischia un nuovo pareggio con ennesimo ritorno alle urne.

GERUSALEMME – Israele si prepara ad andare alle urne e il risultato potrebbe essere uno dei governi più a destra di sempre. Alle quinte elezioni in tre anni, per lo Stato ebraico le precedenti tornate elettorali si sono trasformate in un referendum pro o anti-Benjamin Netanyahu, che dopo aver servito come primo ministro per oltre un decennio, un anno fa ha dovuto cedere il posto al “governo del cambiamento” guidato dall’odiato rivale Naftali Bennett e ora dal centrista Yair Lapid. Da allora, Bibi, come lo chiamano sia i supporter che i detrattori, ha lavorato per tornare al potere. Secondo i sondaggi, gli scenari più probabili del dopo voto potrebbero essere un nuovo stallo, con nessuna delle due coalizioni in grado di assicurarsi 61 parlamentari sui 120 della Knesset, oppure una maggioranza risicata proprio per Netanyahu. Che però, nelle ultime settimane si è visto rubare le luci dalla ribalta – e anche decine di migliaia di potenziali elettori – da destra.
  “Dopo tanti anni, è arrivato il nostro momento.” A un evento elettorale in un cinema di Gerusalemme, Itamar Ben Gvir, il nuovo volto dell’ultra-destra di Israele, galvanizza i suoi sostenitori, grazie a quelle che lui definisce posizioni senza compromessi. La lista di cui fa parte, candidata alla Knesset sotto l’ombrello del “Partito Sionista Religioso,” potrebbe arrivare a prendere fino a 15 seggi, un risultato che la trasformerebbe nel terzo gruppo per numero di parlamentari. Se in Israele i sondaggi sono famosi per la poca attendibilità – nel 2019 il neonato partito libertario Zehut sulla carta era arrivato a ottenere fino a otto seggi e poi non riuscì a passare la soglia di sbarramento del 3,25% - il successo dell’ultradestra rappresenta comunque un potenziale terremoto politico, con lo stesso Netanyahu che invita gli elettori a votare Likud, pur garantendo che Ben Gvir e l’altro leader del Partito Sionista Religioso, Bezalel Smotrich, riceveranno posizioni di primo piano nel governo.
  Non poco se si pensa che fino a due anni fa, Ben Gvir era considerato politicamente un paria dagli stessi partiti di destra. Il suo Otzma Yehudit (“potere ebraico”) è un diretto erede di Kach, già bandito dalla Knesset per le sue posizioni razziste. Lo stesso Ben Gvir è noto per aver in passato caldeggiato l’espulsione da Israele di tutti i cittadini arabi ed esposto nel suo soggiorno un ritratto di Baruch Goldstein, che nel 1994 massacrò 29 fedeli musulmani in preghiera alla Tomba dei Patriarchi. A consentirgli di entrare nell’arena politica dalla porta principale è stato lo stesso Netanyahu, che prima delle elezioni della primavera 2021 spinse Otzma Yehudit – che fino ad allora aveva raccolto neanche il 2% dei consensi elettorali – ad allearsi con il Partito Sionista Religioso e con il gruppo omofobo Noam per evitare di disperdere i suoi voti. La lista allora raccolse sei seggi.
  Ben Gvir dice di essersi “ammorbidito” negli ultimi anni e di avercela soltanto con coloro che non sono “leali allo Stato ebraico” (il ritratto di Goldstein sarebbe stato rimosso dal soggiorno nel 2020). Parte della sua piattaforma prevede la pena di morte per i terroristi e la revisione delle regole di ingaggio dei soldati, per permettere loro di sparare liberamente contro chi tira pietre.
  Così anche nella destra pro-Bibi, c’è chi dietro le quinte caldeggia una coalizione senza Smotrich e Ben Gvir, magari con il supporto dell’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, che guida il partito Unità Nazionale e già una volta ha accettato di allearsi con il Likud in un accordo che prevedeva la rotazione dalla premiership tra lui e Netanyahu – uno scenario che poi non si verificò con il governo che cadde pochi mesi dopo la sua formazione.
  In giro per la campagna elettorale intanto Ben Gvir viene trattato da molti come una rock star. All’evento di Gerusalemme si notano tanti ragazzini, quasi tutti riconoscibili come membri della comunità dei nazional religiosi, ma nel pubblico ci sono anche tanti spettatori con i tradizionali abiti ultraortodossi. Fuori dalla sala però, a ricordare come almeno la metà di Israele, inclusi tanti religiosi, consideri Ben Gvir ancora un personaggio inaccettabile, un gruppo di manifestanti protesta contro l’evento, sventolando cartelli “Sionisti-religiosi contro il razzismo.” Un simbolo di quanto anche in Israele la società resti profondamente spaccata. Una spaccatura che molti si aspettano farà precipitare a breve lo Stato ebraico verso nuove elezioni. Per la sesta volta.

(la Repubblica online, 30 ottobre 2022)

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«Il merito non è uno slogan»

“In quanto ebreo, che pensa di Giorgia Meloni? «Non ho pregiudizi. I rimasugli fascisti non mi pare siano in Giorgia Meloni, che anche qui in Israele è vista con grande obiettività. La giudicheremo sui risultati»”.  Intervista a Roger Abravanel.

di Giulia Cazzaniga 

- Roger Abravanel, oltre che director emeritus di McKinsey, la possiamo definire … ideologo della meritocrazia? Ha proposto iniziative, collaborato anche con la politica e scritto numerosi saggi, con proventi in beneficenza. Tra questi, “La ricreazione è finita: scegliere la scuola, trovare il lavoro, con Luca D'Agnese” (Rizzoli).
  «Vada per ideologo. Qualcuno mi ha definito "campione della meritocrazia". Mi occupo di questo tema da molto di più di 15 anni. Cercare la felicità, il successo grazie alla eccellenza negli studi è un valore che ha accompagnato la mia vita».

- Fece un master Insead, l'Harvard europea, con una borsa di studio, poi è stato selezionato tra i 40.000 alunni dell'università come uno dei 50 che «hanno cambiato il mondo». Lei si considera un aristocratico 2.0?
  «Mio padre non ha potuto lasciarmi patrimoni, confiscati dalla rivoluzione libica contro gli italiani ed ebrei, ma mi ha spinto a laurearmi al Politecnico di Milano a 21 anni, fare il militare, poi il master e poi a McKinsey per 35 anni dove la meritocrazia è stata un valore essenziale».

- La chiamiamo su un numero estero. Dove si trova? 
  «A Tel Aviv, ragioni personali e di lavoro. Qui 20 anni fa aprii l'ufficio della McKinsey e dal 2006 sono membro di prestigiosi consigli di amministrazione. Qui è tutto un fervore di meritocrazia, istruzione, scienza e opportunità per i giovani: viene spesso dimenticato dai media che mostrano solo la politica e il conflitto con i palestinesi».

- Ha visto che è successo in Italia al ministero dell'Istruzione? Giorgia Meloni ha voluto che si chiami anche «del merito». Che cosa ha pensato a caldo? 
  «L'importante è che non sia una parola giustapposta solo in chiave politica, una sorta di slogan populista. Non è la prima volta. Luigi Di Maio propose il ministero della meritocrazia, Mariastella Gelmini fece il Fondo per il merito, bloccato dalla Corte dei conti”.

- Lei affiancò Gelmini ai tempi della riforma e delle prove Invalsi, Istituto nazionale di valutazione delle scuole. 
  «Tolse l'istituto dal commissariamento, rese le prove obbligatorie. Poi, negli anni, è diventata una forma di meritocrazia delle carte bollate: i dati non vengono utilizzati per valutare le scuole né per certificare il merito degli studenti. Le borse di studio purtroppo finiscono a mediocri figli di evasori, visto che al Sud c'è il doppio dei "100 e lode" alla maturità rispetto al Nord, uno scandalo che denuncio da anni eppure non cambia. Oggi avrei molte domande per Giorgia Meloni per capire se intende veramente portare avanti l'idea del merito nella scuola o il suo è l'ennesimo slogan».

- Ce ne dice alcune? 
  «La prima è se intende finalmente valutare le scuole - per esempio con la performance didattica degli studenti misurata con i test Invalsi - e gli insegnanti. Occorre valutare i presidi che a loro volta sono gli unici a potere valutare gli insegnanti, Ma da noi non è possibile perché sono stati privati del potere e quando Matteo Renzi ha provato a restituirglielo con la "buona scuola” sindacati e insegnanti lo hanno bloccato dicendo che voleva fare i "presidi sceriffi”. La signora Meloni vuole riprendere una giusta idea di un suo avversario politico? Da madre, potrebbe poi anche scardinare la comunicazione attuale: spiegare che i test Invalsi servono perché se una classe ha pessimi risultati è frutto della scarsa qualità insegnante, e viceversa». 

- Tra i critici, c'è chi ha scritto che l'operazione suona come un gioco di magia da bambini: non basta un nome per mettere a posto le cose. 
  «Su questo sono d'accordo, gliel'ho detto, Il problema è avere chiaro l'obiettivo, al di là dell'ideologia e realizzare iniziative concrete. Circolava l'idea di una libertà di scelta tra scuola di élite e di rigore negli studi, come i licei delle grandi città, e una scuola di socialità dove si fa poco. Per fortuna Meloni l'ha accantonata: sarebbe una fuga dal problema e creerebbe un "giardinetto del merito" dove il merito c'è già, senza attaccare il vero dramma che sono le scuole di massa, istituti tecnici e professionali e i licei al Sud. Un disastro sponsorizzato da sindacati, molti docenti e politici di sinistra».

- Alcuni docenti si ribellano al grido di «la scuola non è un gioco a quiz». 
  «È una frase tipica, contro i test come Invalsi e Pisa. Altro che quiz. Il mondo anglosassone ha test a risposta multipla molto seri. In Europa, e in Asia, si utilizzano esami di maturità durissimi. Peccato che in Italia significano poco, Certo, per mettere mano all'esame di maturità occorrerà tempo, è complicato. Idealmente tornerei alla commissione esterna, quello sì. Ma iniziamo a usare i dati Invalsi che sono uno standard nazionale».

- Ora le leggo cos'ha detto Maurizio Landini, segretario generale della Cgil: «II ministero del merito è uno schiaffo in faccia alle disuguaglienze». 
  «Sono proprio gli oppositori del merito che alla fine aumentano le diseguaglianze. All'estero tutti i sindacati hanno capito che una società di eguali, dove la scuola crea pari opportunità, è un'utopia». 

- Carlo Calenda si è opposto a Landini, parlando di merito come antidoto alla società classista o a una società appiattita sull'ignoranza.In questa difesa la troveremo d'accordo, no? 
  «Sì, anche se non si tratta di aumentare il "sapere", ma di imparare ad apprendere e inserirsi nel mondo del lavoro con le competenze soft. L'apprendistato e l'alternanza scuola lavoro da noi sono lontani anni luce dall'Europa di lingua tedesca». 

- Carlo Cottarelli - a favore del merito - ha detto che se tutti devono avere uguali possibilità allora si deve partire dal tempo pieno nelle scuole. Un suo giudizio? 
  «II tempo pieno è una cosa sacrosanta, assurdo che non ci sia. Dopodiché, non ha a che vedere né con le pari opportunità né con la meritocrazia. Oggi non c'è né al Nord né al Sud, eppure le scuole hanno risultati molto diversi», 

- Giuseppe Conte: la scuola non è il luogo della selezione, ma del riscatto. 
  - (Ride) «Ah, questa è splendida, Siamo ancora alla sinistra del secolo scorso, Riscatto da cosa, intende? Da una provenienza sociale debole? Ovvio che la scuola serva a questo, ma se poi non si valutano gli insegnanti di che riscatto parliamo? E l'apoteosi dell'ipocrisia e del populismo». 

- Il ministero dell'Istruzione è l'unico a cui cambiare il nome? 
  «Se lo fanno per la scuola - con obiettivi e azioni - è ancora più importante farlo all'università. Nel nuovo secolo le università sono diventate le protagoniste dell'economia della conoscenza creando aziende e milioni di posti di lavoro grazie ai loro top laureati e alla loro ricerca: per questo sono nate le classifiche dei migliori istituti, ma l'Italia non è nelle top 100. La Svizzera, che è come la Lombardia, ne ha due». 

- Mancano quindi università di eccellenza? 
  «Non solo. Mancano le università che laureano giovani a 21-22 anni formati per entrare nel mondo del lavoro come classe dirigente. Se abbiamo troppo pochi laureati non è solo perché abbiamo poche grandi 
  aziende, ma anche perché le università non formano al lavoro né certificano il merito. C'è un concetto sbagliato nell'istruzione universitaria italiana, soprattutto nelle cosiddette lauree "deboli": si pensa che la laurea debba solo "fare cultura" e si guarda con disprezzo al mondo delle imprese e del lavoro».

- Quanta responsabilità è dei docenti? 
  "La maggioranza dei nostri docenti rifiuta le classifiche e la competizione che è l'essenza della meritocrazia: all'estero le università sono templi della meritocrazia, da noi i bastioni del nepotismo. Il nuovo premier vuole affrontare il problema dell'assenza di meritocrazia nelle nostre università?». 

- Il rovescio della medaglia della meritocrazia è - si è letto anche questo negli ultimi giorni - un moralismo calvinista per cui se non ce la fai è colpa tua? 
  «Se si fa un sondaggio nei Paesi davvero meritocratici - soprattutto mondo anglosassone, Nord Europa e Asia - sette persone su dieci ti diranno che i loro risultati, successi o insuccessi, dipendono in primis da sé stessi il resto da fattori esterni come la fortuna, le raccomandazioni e la mancanza di opportunità. In Italia, solo 1 su 10 lo direbbe. In parte è giustificato dalla mancanza di opportunità che il Paese offre ai giovani, che infatti vanno all'estero perché sanno che il loro impegno può pagare». 

- Mentre qui ce la fa chi è più ricco, raccomandato o fortunato? 
  «Questo per colpa di una profonda mancanza di fiducia. La mancanza di fiducia è il vero cancro della società e dell'economia. E della mancanza di meritocrazia. Non si crede nella competizione seria per eccellere, perché non c'è fiducia che la competizione sia "giusta", qualcuno che aggira le regole si trova sempre. Non è sempre così, ma gli italiani lo credono e questo è ciò che conta».

- Dopo tutti questi anni, lei di fiducia ne ha ancora, che qualcosa possa migliorare in questo senso? 
  «Ho fiducia nei giovani, nei tantissimi che mi scrivono le loro storie impressionanti. Altro che fannulloni: hanno voglia di cambiare, capiscono i limiti italiani e si rimboccano le maniche. Sono loro le vere élite». 

- Pensa che questo governo abbia la possibilità di andare nella giusta direzione? 
  «Quando Meloni era ministro della Gioventù, lesse i miei libri e mi chiamò per un incontro. Era impressionata dal mio racconto su Singapore, dove sono riusciti a rendere il settore pubblico più meritocratico grazie anche a un programma sui giovani. Poi non successe nulla, probabilmente perché non aveva tutto il potere e l'esperienza. Adesso ha entrambi e mi aspetto molto di più”.

- In quanto ebreo, che pensa di lei? 
  «Non ho pregiudizi. I rimasugli fascisti non mi pare siano in Giorgia Meloni, che anche qui in Israele è vista con grande obiettività. La giudicheremo sui risultati». 

(La Verità, 31 ottobre 2022)

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Miriam, un personaggio profetico (2)

di Gabriele Monacis

Sono quattro i brani della Torah - il nome in ebraico dei primi cinque libri della Bibbia - che parlano della vita di Miriam, dalla sua giovinezza fino alla sua morte. Il primo brano è in Esodo 2. La sorella di Mosè, appostata in un canneto del fiume Nilo, segue con lo sguardo il canestro fatto di giunchi che sua madre aveva costruito e cosparso di bitume e pece e in cui aveva posto Mosè, a pochi mesi dalla sua nascita, per evitare che morisse annegato nel fiume, come aveva ordinato di fare il faraone a tutti i maschi dei figli di Israele. Il canestro, galleggiando sulle acque del Nilo, raggiunge piano piano nientedimeno che la figlia del faraone, che era scesa al fiume con le sue ancelle per fare il bagno. La principessa d’Egitto, forse attirata dal pianto del bambino, vede il canestro nel canneto e lo manda a prendere. Lo apre, vede il bambino in lacrime e ne ha compassione. Capisce subito che doveva essere un figlio degli ebrei. E qui entra in gioco Miriam, che aspettava proprio questo momento per mettere al sicuro la vita del suo fratellino. Con il coraggio e la determinazione di una madre che vuole proteggere il proprio figlio con ogni mezzo, Miriam si fa avanti e propone alla figlia del faraone di cercare una balia tra le donne ebree affinché venga allattato. La figlia del faraone le rispose: «Va'». E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino (Esodo 2:8).
  Miriam aveva saputo cogliere il momento giusto per farsi avanti, facendo leva sulla compassione che la figlia del faraone provava per quel bimbo solo e disperato. Con quest’atto di sensibilità, intelligenza e grande tempismo, Miriam aveva contribuito a cambiare il destino del suo fratellino di pochi mesi: non più un destino di morte, come voleva il faraone per tutti i maschi ebrei, ma un futuro di vita, voluta, ironia della sorte, proprio dalla figlia del faraone. Sì, è vero che il futuro di Mosè sarebbe stato alla corte egiziana e non in una famiglia ebrea, ma il Signore aveva scelto proprio quel bambino, quell’intruso di corte nato ebreo ma cresciuto nella casa del faraone, per attuare il suo piano di liberazione per l’intero popolo di Israele dopo quattrocento anni di schiavitù. Dopo essere stato svezzato da sua madre, questo bambino crebbe e diventò come un figlio per la figlia del faraone, che gli diede il nome Mosè. L’entrata di Mosè nella casa del faraone, cioè nel cuore dell’Egitto, sancirà l’inizio del percorso di uscita dall’Egitto di Israele, il popolo che secondo la Parola di Dio, è Suo figlio. Al faraone, infatti, Dio dirà:

    Israele è il mio figlio, il mio primogenito". Perciò io ti dico: Lascia andare il mio figlio, affinché mi serva” (Esodo 4:22,23).

A dire il vero, nel brano di Esodo 2 non viene mai usato il nome proprio Miriam per indicare la sorella di Mosè. Tradizionalmente, la ragazza di cui parla il secondo capitolo dell’Esodo è associata a Miriam, e non c’è motivo di dubitare che ciò non sia corretto. Oltre all’espressione “sorella di Mosè”, c’è un’altra parola nel versetto 8 che viene riferita a Miriam. In italiano, la traduzione è semplicemente “fanciulla”. Nell’originale ebraico la parola è עלמה (almà) che nella Bibbia ebraica ha un valore più specifico rispetto a quello della parola fanciulla, un termine generico che significa semplicemente “giovane donna”.
  Il sostantivo עלמה (almà) compare meno di dieci volte in tutto l’Antico Testamento. In italiano viene tradotto con “fanciulla” o “vergine”. Sono tre le donne associate a questa parola nella Bibbia. La prima è Rebecca in Genesi 24:43. La storia di Genesi 24 racconta di come il servo di Abramo, incaricato dal suo padrone di trovare una moglie per il figlio Isacco, incontra Rebecca presso un pozzo, mentre lei è con una brocca in spalla per attingere dell’acqua alla sorgente. Dopo qualche domanda alla diretta interessata, il servo di Abraamo scopre che questa fanciulla è della famiglia del suo padrone. Così, tutto contento e pieno di riconoscenza al Dio d’Abraamo, il servo va a casa di Betuel, padre di Rebecca, e chiede di poterla portare al suo padrone, affinché diventi la moglie di Isacco. Proprio questo racconto è il contesto in cui è inserita la parola almà: Rebecca prima che diventasse la moglie di Isacco. Dalla sua storia emerge il significato del termine almà, cioè giovane donna vergine prossima al matrimonio. Perché questo era lo stato civile di Rebecca dopo che incontrò il servo di Abraamo e prima che lasciasse la casa paterna per sposare Isacco.
  La seconda almà della Bibbia ebraica è Miriam, nel già citato brano di Esodo 2:8. La terza almà la troviamo in Isaia 7:14, che qui riportiamo:

    Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio e gli porrà nome Emmanuele”.

Secondo le parole del profeta Isaia, questa almà, in italiano tradotto “vergine”, sarebbe stata oggetto di un segno che Dio avrebbe dato alla casa di Davide: l’almà avrebbe concepito un figlio. Un segno miracoloso, quindi, in quanto un’almà, non essendo moglie di alcuno, non è in grado di concepire e partorire un figlio da sola.
  In Isaia, questa almà non ha un nome, ma il Vangelo di Matteo afferma che l’adempimento di questa profezia è avvenuto in una donna di nome Maria, nome che nell’originale ebraico è, guarda caso, proprio Miriam. Ella concepì e partorì Gesù, il Messia, prima di diventare la moglie di un uomo di nome Giuseppe. Ecco le parole del Vangelo:

    Or tutto ciò avvenne affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore, per mezzo del profeta che dice: «Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, il quale sarà chiamato Emmanuele che, interpretato, vuol dire: "Dio con noi"»” (Matteo 1:22,23).

Al di là della traduzione italiana della parola almà, che sia essa “vergine” o più generalmente “fanciulla”, il fatto che Miriam, sorella di Mosè, venga indicata con questo termine in Esodo 2:8 ha in sé una certa rilevanza. La Scrittura non ci dà informazioni sulla vita personale di Miriam. Non sappiamo né se fosse sposata, né se avesse o meno dei figli. Quindi è difficile spiegare perché la Scrittura le attribuisce questa parola. Possiamo solo constatare che l’autore di questo brano ha scelto deliberatamente di attribuire il termine almà a Miriam, e ciò dovrebbe essere un motivo di riflessione per noi lettori. Qual era, infatti, l’intenzione dell’autore quando decise di dire che Miriam era un’almà? È una semplice casualità o c’è di più?
  Quando ci si interroga sulla Parola di Dio, bisogna sempre tenere in considerazione una certa intenzionalità nelle cose che sono scritte. Specialmente se consideriamo che la mente, la volontà ultima che sta dietro a ciò che è scritto, è quella di Dio stesso. Partendo dunque dal fatto che nella Parola di Dio la casualità non esiste, e che anche un singolo termine è lì dove si trova per un motivo preciso, ci si chiede allora quale sia il messaggio che la Parola di Dio intende recapitarci nel caso che stiamo esaminando. Per capire, dunque, il messaggio legato al termine almà attribuito a Miriam, dobbiamo considerare le storie delle altre donne a cui questo termine è riferito.
  Non potendo confrontare Miriam con Rebecca, in quanto la Scrittura non fornisce nessuna informazione sulla vita personale di Miriam, prendiamo in esame l’almà di cui si parla nella profezia di Isaia 7:14 e l’adempimento di tale profezia in Matteo 1:22,23, secondo cui l’almà di cui parla Isaia è Maria, la madre di Gesù. Confrontando queste due almà – Miriam, sorella di Mosè, e Maria, madre di Gesù – troviamo delle somiglianze piuttosto interessanti. Innanzitutto hanno lo stesso nome. Maria infatti non è il nome originale ebraico, bensì Miriam. E poi c’è una somiglianza anche nel ruolo che hanno avuto queste due donne nei confronti del bambino di cui si sono prese cura. Miriam, sorella di Mosè, ha fatto in modo che il suo fratellino non perisse nelle acque del Nilo, come voleva il faraone d’Egitto. Anche l’altra Miriam, madre di Gesù, dopo averlo partorito, l’ha protetto dall’ordinanza di Erode, il quale, sentendosi beffato dai magi che non erano tornati da lui per dirgli dove era nato Gesù, decise di far uccidere tutti i maschi dai due anni in giù che erano nati a Betlemme e in tutto il suo territorio. Così non fu per Gesù, portato in salvo in Egitto dai suoi genitori.
  Agendo così, le due Miriam non hanno solo impedito che morisse un bimbo nato nella propria famiglia e a cui volevano molto bene; ma hanno contribuito alla realizzazione del piano di salvezza di Dio per un gruppo molto più ampio di persone. Mosè non era solo il fratellino di Miriam, ma era colui che Dio aveva scelto per guidare l’intero popolo di Israele fuori dalla schiavitù d’Egitto, colui con cui Dio avrebbe parlato faccia a faccia, una relazione speciale tra Dio e uomo che nessun altro della sua epoca aveva. Gesù non era solo figlio di Maria, ma secondo le parole dell’angelo che annunciò che ella avrebbe partorito un figlio, egli si sarebbe dovuto chiamare Gesù perché egli salverà il suo popolo dai loro peccati (Matteo 1:21).
  Grazie al termine almà che troviamo nella storia di Esodo 2, la figura di Miriam, sorella di Mosè, acquista una prospettiva profetica e diventa rappresentante di una realtà che va oltre l’epoca in cui è vissuta. La storia di Miriam non è solo quella di una sorella che si è adoperata per salvare la vita di suo fratello, bensì quella di una donna che accetta il ruolo di madre nei confronti di un bambino minacciato di morte dall’autorità in carica nella sua epoca, ma che Dio aveva scelto affinché diventasse il mediatore tra Lui e il popolo, colui tramite il quale Dio avrebbe salvato il suo popolo da un futuro di morte, voluta anch’essa dalla malvagità del re che governava in terra a suo tempo. Questa immagine non descrive solo la realtà di Miriam, sorella di Mosè, ma anche quella di Miriam, madre di Gesù, il quale è stato mandato da Dio durante il regno dello spietato Erode, per salvare il suo popolo dai peccati e per essere il mediatore tra Dio e l’uomo.
  Miriam è un nome in cui il concetto di madre è intrinseco anche dal punto di vista delle lettere che compongono questo nome. In ebraico infatti Miriam si scrive מרים, con la lettera mem in apertura e in chiusura del nome: la prima mem è la forma che si usa quando la lettera mem è all’inizio o in corpo di parola. La seconda mem è in forma finale, cioè quando questa lettera è l’ultima della parola. La lettera mem è la lettera che caratterizza la parola ebraica אם (em), che significa appunto madre. La lettera alef non è caratterizzante della parola madre, in quanto presente anche nella parola ebraica אב (av), che significa padre.
  Ecco il primo tratto distintivo della figura di Miriam che la Scrittura le attribuisce attraverso la parola almà: il suo essere madre, colei che dà la vita e la protegge con tutta sé stessa, proprio come colei che mise al mondo Gesù il Messia: assunse il ruolo di madre quando era almà.
  Ma se dal brano di Esodo 2 è chiaro che fu Mosè l’oggetto della protezione materna di Miriam, meno immediato è capire come l’idea di madre, vista anche come colei che dà alla luce un individuo, sia legata alla figura di Miriam, sorella di Mosè. In che senso questa figura rappresenta, in una prospettiva profetica, colei che mette al mondo qualcuno, proprio come fa una madre? Ci occuperemo di questo aspetto della figura di Miriam nelle prossime occasioni.

(2. continua)

(Notizie su Israele, 30 ottobre 2022)


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Le notizie di oggi sono interamente dedicate a un tema che il direttore di La Verità indica correttamente come "la riparazione di un'ingiustizia basata sulla menzogna". Da quel giornale, a cui vanno i dovuti ringraziamenti che merita, riportiamo tre articoli pubblicati oggi, intervallati da due lettere di "no vax" estratte dal documento "Gli invisibili" . Il lettore potrà trarne le riflessioni che il suo senso di giustizia e la sua coscienza gli propongono.


Meloni smonta la gabbia covid. Mattarella si mette di traverso

Stop anche al bollettino giornaliero. Finalmente si ripara a un'ingiustizia basata sulla menzogna e sul ricatto morale privo di basi scientifiche. Però il Presidente della Repubblica non ci sta e straparla di «morbo ancora da sconfiggere».

di Maurizio Belpietro

I fatti. Il 10 di ottobre Janine Small, dirigente del gruppo Pfizer, durante un'audizione all'Europarlamento confessa che, prima di mettere in commercio il vaccino anti Covid, la multinazionale americana non ha effettuato alcun test per verificare se il farmaco evitasse la diffusione del virus. Anzi, alla domanda del deputato olandese Rob Roos ridacchia, come se le fosse stata chiesta una bestialità, precisando che la sua azienda si è mossa alla velocità della luce per trovare un farmaco contro il coronavirus, Il pensiero sottinteso nella risposta è chiaro: non avevamo tempo di verificare se il siero impedisse a una persona vaccinata di contagiare altre persone. Peccato che sulla base di questo assunto, e cioè che una volta offerto il braccio alla patria si potesse circolare liberamente in quanto certi di non essere untori, si sono prese contromisure nei confronti di chi non si era sottoposto all'iniezione. Grazie a un falso, ribadito anche dal presidente del Consiglio del precedente governo, si è sostenuto che la vaccinazione garantiva di ritrovarsi tra persone che non erano contagiose. E così, forti di questa certezza, le autorità hanno tolto alcune importanti libertà, garantite dalla Costituzione, a milioni di italiani. A chi non era in possesso del certificato vaccinale fu impedito di entrare in locali pubblici e anche di frequentare bar e ristoranti all'aperto. Stop agli ingressi ai musei e anche all'utilizzo dei mezzi pubblici e obbligo per tutti i non vaccinati di sottoporsi al tampone per poter lavorare. Sulla base di un assunto falso, e cioè che chi si era sottoposto all'iniezione non poteva essere un untore mentre tutti gli altri potevano esserlo, furono sospesi i medici e gli infermieri senza green pass. Sì: niente lavoro per loro, neppure con un tampone che accertasse di non essere contagioso, e ovviamente niente stipendio. Ricordo lo stupore di alcuni giornali liberal, cioè di sinistra, americani. I quali si interrogarono chiedendosi fino a che punto una democrazia potesse spingersi con la scusa dell'interesse collettivo. Perché questa era la motivazione: chi si vaccina non lo fa per sé, ma per gli altri. Una specie di ricatto morale, ma basato sulla menzogna, perché anche un vaccinato poteva contagiarsi e contagiare, come poi abbiamo capito osservando il bollettino dei ricoveri. E non era vero neppure che un vaccinato aveva una carica virale lieve, quasi impercettibile e dunque non pericolosa per gli altri. Il Covid lo potevano e lo possono trasmettere coloro che hanno fatto tre o quattro dosi, così come lo trasmette chi non ne ha ricevuta neppure una. E la ragione sta in quella risatina isterica di Janine Small, la quale ha ammesso che Pfizer, immettendo il farmaco sul mercato (operazione che alla multinazionale è valsa miliardi di utili) non aveva fatto alcun test che provasse la capacità del siero di impedire la diffusione del contagio.
  Se ho fatto questa lunga premessa, nota a molti lettori, è per spiegare che finalmente ieri il governo Meloni ha posto fine a un'intollerabile limitazione delle libertà imposta da Roberto Speranza a carico del personale medico e infermieristico. Oltre 3.000 medici e altre migliaia di infermieri, ancora costretti a restare a casa, finalmente potranno tornare in corsia e si vedranno restituito il loro lavoro. Il ministro della Sanità ha infatti annunciato la decisione di abolire la sospensione a carico dei dipendenti non vaccinati, riammettendoli in servizio. Una scelta saggia e di buon senso. Non solo perché le evidenze scientifiche ormai mostrano che si contagia e ci si contagia indipendentemente dal numero di iniezioni a cui ci si è sottoposti, e dunque nessuno può essere ritenuto un untore, ma anche perché gli ospedali sono in affanno a causa della carenza di personale. Ha senso obbligare i sanitari a doppi e tripli turni quando si costringe a restare a casa chi potrebbe rafforzare gli organici? E come si fa a giustificare l'assunzione, seppur temporanea, di medici stranieri, che neppure parlano l'italiano, quando abbiamo in casa dottori e infermieri pronti a fronteggiare l'emergenza?
  Fin dal primo giorno del nuovo governo avevamo sollecitato Giorgia Meloni a porre fine a queste assurdità e a cancellare le multe ai non vaccinati e finalmente ieri la decisione è stata annunciata. Ovviamente eravamo convinti che il provvedimento non avrebbe fatto contenti tutti, in particolare eravamo arcisicuri che il compagno Speranza avrebbe storto il naso. Certo non ci aspettavamo che a mettersi di traverso fosse Sergio Mattarella, il quale ieri, quasi a rappresentare un contropotere, si è profuso in una specie di altolà, invitando a tenere alta la guardia, perché il Covid non è ancora sconfitto. Per quanto ci riguarda, ci faremo una ragione della contrarietà del capo dello Stato; tuttavia, vorremmo ricordagli che ci sono Paesi europei, tra questi la Spagna, in cui non è mai stato istituito alcun obbligo vaccinale a carico dei sanitari e che, nonostante questo, hanno avuto meno morti e meno contagi di noi. Dunque, forse non è vero quel che diceva Giuseppe Conte e cioè che l'Italia è un modello a cui guardano tutti. Forse, per dirla con Giorgia Meloni, qualche cosa non ha funzionato. Di certo le balle non hanno aiutato.

(La Verità, 29 ottobre 2022)


Mio marito è morto 25 giorni dopo la puntura

Sono una «no vax» perché hanno voluto che io fossi questo. Perché non si può essere altrimenti. O bianco o nero, o dentro o fuori, o destra o sinistra. O no vax o sì vax. Si può essere tutto tranne che un essere pensante, che si pone e cerca di porre delle domande e che avverte, nonostante l'oscurità che ci è stata imposta, il meraviglioso germe del dubbio prendere forma. L'essere deve subire lo svilimento così da assottigliarsi a poco a poco, a suon di dosi, carte verdi e restrizioni, fino solo all'esistere. Esistere, non essere.
  Come tanti sono affetta da due patologie autoimmuni, una delle quali mi è stata causata, probabilmente (ma tanto nessuno me lo dirà), da un farmaco sperimentale prescrittomi per l'artrite reumatoide. Perciò avevo paura a sottopormi al vaccino. Ma non è questo il punto. Forse il punto potrebbe essere che mio marito a 57 anni è morto d'infarto circa 25 giorni dopo l'inoculazione del siero monodose Johnson & Johnson, che ha fatto esclusivamente per me, per tutelare una «fragile», anche se non credo che nessuno troverà mai una connessione. Il referto autoptico ancora non c'è nonostante l'autopsia sia stata eseguita il 20 giugno 2021.
  Ma forse il punto non è nemmeno questo. Perché non è solo la morte di mio marito, ma l'insieme dei decessi legati al vaccino. Il problema non è che a me non fanno l'esenzione, ma che non la danno quasi a nessuna delle persone affette da problemi di salute e perché non c'è stato mai nessuno screening preventivo. Ci hanno lanciati allo sbaraglio, come in una roulette russa, armati di un foglio da compilare, una penna e tutta l'ignoranza di chi si affida alla scienza. A me la speranza l'hanno tolta.
  Ma non è nemmeno questo il punto. Il punto è che questa mia resistenza silenziosa (sono praticamente rinchiusa dentro casa non potendo fare nulla senza la carta verde) serve perché sia data voce a chi, affetto da patologie pregresse, deve «scegliere» la continuità al lavoro piuttosto che la salute o a chi piange la morte di chi non c'è più o a chi combatte contro gli effetti avversi del vaccino o a chi semplicemente piange la ormai perduta libertà dell'individuo.
Lettera firmata

(La Verità, 8 febbraio 2022)



I giornalisti svizzeri denunciano le bugie su vaccini e contagi. Qui i media tacciono

Dopo l'ammissione di Pfizer, «Dìe Weltwoche» smaschera le balle di «esperti» e autorità su cui si sono basati diktat e abusi

di Patrizia Floder Reitier

Nel silenzio dei grandi mezzi di comunicazione, c'è qualche altra voce, oltre alla Verità, che denuncia il gigantesco inganno di Pfizer e dei governi nel far credere che il vaccino avrebbe protetto dal contagio. Il settimanale svizzero Die Weltwoche se ne occupa, titolando in prima pagina: «La grande bugia della vaccinazione».
  All'interno, un ampio servizio spiega perché dopo l'ammissione di produttori e autorità, dopo «i giorni dell'orrore per l'Ue» e il crollo della «narrativa della panacea vaccinale contro il Covid, che produttori, scienziati e governi di tutto il mondo hanno adorato», la storia della pandemia vada riscritta» sebbene «i responsabili stiano facendo tutto il possibile per evitare una revisione/riparazione».
  Il settimanale in lingua tedesca sottolinea, al pari nostro, quanto sia scandaloso il silenzio dopo un terremoto così devastante. I responsabili della gestione della pandemia «e i loro servitori nei media stanno facendo tutto il possibile per negare la notizia. Gli organi di informazione tacciono», tuona la Weltwoche, chiedendo se siamo in Europa o in Cina. Giornali, radio e televisioni «nascondono le "bombe" cadute a Bruxelles la scorsa settimana, secondo la logica: quello di cui non scriviamo non esiste».
  Quando non negano di aver diffuso notizie false sul vaccino, sostenendo che «la vaccinazione Covid è la grande svolta. Protegge dal contagio e dalla trasmissione. Ora stiamo tenendo sotto controllo la pandemia», la maggior parte dei media minimizza. Ripiegano su versioni del tipo dicevamo che «serve solo a prevenire il decorso severo della malattia», ma non è così, ricorda il settimanale svizzero, citando alcune false rassicurazioni che vennero fatte e riprese, senza eccepire, dagli organi di stampa.
  Come quella, nel 29 marzo 2021, di Rochelle Walensky, medico e direttore dei Centers for disease control and prevention (Cdc) che dichiarò: «I nostri dati indicano che i vaccinati non contagiano e non si ammalano».
  Al canale televisivo statunitense Msnbc, aggiungiamo noi, l'esperta disse pure che il fatto che non trasmettano il virus «non si vede solo negli studi clinici ma è anche nei dati del mondo reale». Il presidente americano, Joe Biden, aveva già sostenuto il 13 marzo 2021: «Le persone completamente vaccinate hanno un rischio molto, molto basso di contrarre il Covid-19».
  L'altissimo numero di reinfezioni nei vaccinati e la loro capacità di contagiare sono invece da parecchio tempo sotto gli occhi di tutti, pur silenziati dalle autorità. L'immunologo Anthony Fauci, il 17 maggio 2021 sostenne: «Chiunque sia vaccinato può essere sicuro che non sarà contagiato». Il 2 giugno 2021 incalzava: «Con la vaccinazione, proteggi te stesso, la tua famiglia e rompi la catena del contagio».
  Menzogne gigantesche, Pfizer non aveva mai fatto ricerche a riguardo e la campagna vaccinale, che doveva servire come terreno sperimentale, tragicamente rivelò che il farmaco non era in grado fermare la trasmissione. Alla popolazione è stato fatto credere che «vaccinandosi contro il Covid si sarebbe protetta dalle infezioni e avrebbe messo fuori combattimento il virus», ma era una falsa promessa.
  Per avere un'ulteriore conferma, scrive Die Weltwoche, basta ascoltare la risposta data da Wolfgang Philipp, direttore della Health emergency preparedness and response authority (Hera), l' Autorità per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie, all'eurodeputato rumeno Cristian Terhes.
  Il politico, che ha chiesto le dimissioni di Ursula von der Leyen «visto che il suo operato in tema di acquisti dei vaccini Pfizer è attualmente oggetto di indagine penale da parte della Procura europea», voleva sapere perché la Commissione Ue ha mentito sull'efficacia del vaccino, ma il numero uno di Hera l'ha liquidato in modo sprezzante.
  «Se vuoi un vaccino che prevenga la trasmissione, allora buona fortuna! Avremmo potuto averlo, ma non è ancora arrivato», gli ha detto il massimo stratega della vaccinazione anti Covid nella Ue. Nell'articolo si sottolinea che Philipp, microbiologo di formazione ed ex immunologo presso l'Università di Basilea, con queste parole dichiara che «i produttori e i politici che hanno acquistato il vaccino devono essere stati consapevoli», di che cosa mancasse al vaccino.
  Eppure, vennero attuate misure discriminatorie, la vaccinazione «ti permetteva di vivere», chi non era vaccinato «era tagliato fuori» e «se c' era qualche legittimazione per questo, ora è sparita», affonda la Weltwoche. Le discriminazioni non possono mai essere legittimate, sosteniamo invece noi,
  Riprendendo le dichiarazioni di Terhes, quando ha affermato che «Ursula von der Leyen ha acquistato dieci dosi del vaccino per ciascun cittadino dell'Unione sulla base di contratti che non sono mai stati presentati al pubblico», il settimanale, oltre a parlare di enorme spreco di denaro dei cittadini, si chiede «perché vaccinare all'infinito se il vaccino funziona?».
  Aggiunge: «Chi si vaccina contro il morbillo è protetto. Chi si vaccina contro la poliomielite è protetto. Chi si vaccina contro il Covid, evidentemente non lo è». La caratteristica prestazionale promessa, l'effetto protettivo, non era presente in questi farmaci fin dall'inizio.
  Quindi è improprio definirla vaccinazione. Anche i contratti tra governo e produttori, conclude il settimanale, «potrebbero essere illegali, perché la vaccinazione contro il Covid-19 è inutile per la popolazione nel migliore dei casi, e nel peggiore persino dannosa.

(La Verità, 29 ottobre 2022)


Sono un'infermiera fatta fuori e ignorata dal Tar

Sono un'infermiera che ad agosto, poco prima delle ferie (la tempistica non credo sia stata casuale), e stata raggiunta dall'infame provvedimento della sospensione causa mancata vaccinazione, nel mio caso ancora più spregevole dal momento in cui nel mio reparto c'erano altre colleghe non vaccinate che però non hanno subito alcuna conseguenza e che addirittura mi risulta che abbiano lavorato almeno fino all'entrata in vigore del super green pass, ma non è mia intenzione giudicare le colleghe che, comunque, non escono bene da questa situazione. Ovviamente anch'io come altri colleghi ho fatto ricorso al Tar dove peraltro è stato ammesso il fatto che non fossi l'unica nel mio reparto a non essere vaccinala; la mia insomma è stata una discriminazione nella discriminazione persino benedetta dal Tar, il quale al riguardo ha sentenziato che ciò non depotenzia la mia sospensione. Sarà... Ma sicuramente depotenzia l'intero impianto su cui si regge questo incubo, e svilisce l'intero comparto sanitario poiché se, il famigerato provvedimento fosse stato genuinamente concepito a tutela della salute degli individui, tutti i sanitari avrebbero dovuto essere sospesi simultaneamente, ma ciò non è stato possibile per ragioni molto ovvie. Già da questo era facile supporre che le misure erano sostanzialmente volte a punire.
  Gli effetti, o meglio i danni, che queste sospensioni hanno a livello emotivo, psicologico e ovviamente economico, sono immensi e incalcolabili, le ripercussioni all'interno di una famiglia pesanti. Ora sentire che tutti coloro che hanno sostenuto strenuamente queste misure indegne che poco c'entrano con la tutela della salute cominciano a battere in ritirala fa arrabbiare e indignare ancora di più. È come se dicessero: «Dai non te la prendere, abbiamo solo scherzato». Cari signori, avete giocato con la vita delle persone e non crediate che andare in qualche talk show a modificare o rettificare quanto sostenuto fino a oggi serva a cambiare la rotta, ormai l'iceberg l'avete davanti, a pochi metri dal naso.
  Non so se tornerò mai a indossare la divisa, ma so che in questo momento i principi delle professioni sanitarie sono stati traditi; e in una sanità che attua delle vere e proprie ritorsioni contro i suoi stessi operatori e soprattutto mette i pazienti dinanzi a un aut aut - «o ti vaccini o non ti curo» - non mi riconosco più.
Lettera firmata

(La Verità, 10 febbraio 2022)



L'8 settembre dell'Ordine dei medici. Basta con inganni e umiliazioni

Noi sanitari sospesi saremo reintegrati. Nessuno ci chiederà scusa. Neanche l'Ordine, adesso favorevole allo stop ai diktat. Una conversione giusta quanto tardiva. Che, tuttavia, non eliminerà gli errori di questi anni.

di Silvana De Mari

    «Era merda. E ci hanno obbligati a mangiarla. Proni e schiavi, come nelle scene più raccapriccianti del film capolavoro di PPP. Convinti con forza coercitiva istituzionale che si trattasse di ambrosia. Era merda e scorre nelle nostre vene. A noi, e solo a noi, piove nel corpo e nello spirito una tempesta di dolori mai conosciuto. Dalle cardiopatie ai reumatismi. Dai chiodi nelle ossa alle confusioni nella testa. E quelle maledette vertigini, che ti terremotano le gambe e il petto! Il sughero nelle mani ha sostituito la carne. Cedono gli equilibri e si affanna il petto. Dicono che sia normale, ma normale non è! Prima di questa farsa satanica, non c'era! Li chiamano vaccini, nei laboratori dell'inferno, ma sono solo aggiustamento di tiro! In peggio! Della serie, se non crepano col virus, tranquilli, ci pensiamo noi con la "cura". Ci siamo cascati in molti. Per amore, spesso. Per salvare, spaventati dalla possibilità che potesse accadere l'irreparabile, nonni, figli, amori. Oggi, invece che in panetteria, facciamo code in farmacia. A consumare i loro confetti di vario colore! E il veleno continua. Triste, questa lunga fine del mondo! Venti di guerra provocata e imposta. Oceani di veleni sintetici. Invasioni di virus alieni. L'umanità buona non ce la farà! Chissà, quei segreti ... forse, e non forse, l'unico farmaco buono resta solo la preghiera. Almeno, rilassa...»
Sono queste le parole durissime con cui Nino Spirli, uomo politico, giornalista e scrittore, che, dopo la scomparsa di Jole Santelli, è governatore della Calabria. Ha subito tre dosi di «vaccino», e si è battuto anche per una vaccinazione più diffusa, perché è stato ingannato. Un inganno in cui sono caduti molti, dato che l'inganno è stato fatto in maniera spettacolare. L'inganno è stato fatto sulla bontà, sull'altruismo, sul ricatto, sul senso civico, sul non voler essere considerati «imboscati» o «parassiti». È stato un colossale inganno. Le parole di Spirli sono durissime? Durissime, ma non certo esagerate, non certo sopra tono. Sono le parole normali di chi è stato ingannato con l'inganno più viscido e ignobile. Il corpo di un uomo che prima era sano ora è malato di patologie mai sentite, per le quali nessuno ha la cura. Si intitola Gli invisibili il documentario dedicato alle persone danneggiate dai cosiddetti vaccini anti Covid. Il termine «vaccino» è assolutamente improprio per farmaci di questo genere. Si tratta di farmaci in fase sperimentale, sperimentati per soli due mesi. Spirli non è un medico. E’ stato ingannato. Innumerevoli altri sono stati ingannati, o ancora peggio costretti, sotto il ricatto di perdere il lavoro insieme alle libertà più elementari.
  È sconvolgente ascoltare le loro testimonianze. Già resi invalidi della prima iniezione sono stati costretti alla seconda e alla terza dai medici dei centri vaccinali. Questi medici meritano il titolo di medico? Il primo dovere di un medico non è salvare l'umanità, salvare gli anziani nelle Rsa, salvare i fragili, se anche questo fosse vero e non lo era. Il primo compito è non nuocere. Quando noi facciamo un atto medico dobbiamo farlo nell'unico interesse del paziente, non nell'interesse della società, del mondo, dell'universo, degli anziani nelle Rsa, dei fragili.
  Altrimenti la nostra medicina non è medicina ma arbitrio, tortura.
  È stato distrutto l'habeas corpus, il riconoscimento, già presente nel Medioevo, dell'assoluto diritto del cittadino sul proprio corpo. La domanda e: com'è possibile che dei medici si siano fatti ingannare? Com'è possibile che medici, docenti di facoltà di medicina, presidenti di Ordini dei medici, abbiano potuto pensare anche solo per due minuti e mezzo che farmaci sperimentati per soli due mesi potessero essere messi senza pericoli enormi sul mercato? Com'è possibile che dei medici non siano stati capaci di leggere le schede tecniche dei farmaci e rendersi conto che in nessun punto era segnalato che bloccavano la trasmissione di malattia?
  Com'è possibile che dei medici abbiano permesso l'inoculazione di questi farmaci al di là delle indicazioni date sui foglietti illustrativi, in italiano basso chiamati bugiardini, indicazioni che li limitano a persone sane, con esclusione di donne in gravidanza, tra i 16 e i 60 anni?
  Quando è stato aperto un centro vaccinale all'Ospedale Sant'Anna di Torino sono state violate le schede tecniche che ricordavano come il farmaco non fosse stato sperimentato in gravidanza e quindi non potesse essere usato in gravidanza. Sono andata a protestare e a spiegare quanto fosse pericoloso davanti al centro vaccinale.
  C'erano ad ascoltarmi la giornalista Patrizia Corgnati e una decina di persone di Torino Manifestazioni. Totale: undici persone. Avevo due macchine della polizia e una della Digos a controllarmi: totale 12 persone, dodici tutori dell'ordine, nessuno dei quali è andato a disturbare i nigeriani che ai giardinetti vendevano innocua eroina tagliata con fentanil, sicuramente di buona qualità.
  In questo momento i colleghi che lavorano al Sant'Anna mi avvertono che gli aborti spontanei sono aumentati, esattamente come aumentati sono i malori improvvisi, i malori non improvvisi e preceduti da malattie tragiche, le malattie autoimmuni, disturbi invalidanti. Dati statistici informano che, dove l'uso dei cosiddetti vaccini Covid è stato alto, già si registrano cali della fertilità. Com'è possibile che i medici abbiano ignorato gli avvertimenti di Peter Doshi che aveva segnalato già all'inizio l'inutilità di questi farmaci a impedire la trasmissione della malattia e aveva calcolato che il loro solo scopo dimostrato era diminuire la violenza della malattia di pochissimo, del 15%, per un periodo osservato di due mesi, a fronte di effetti collaterali spaventosi e solo in parte conosciuti.
  Tra gli innumerevoli morti, tra gli innumerevoli danneggiati, c'è un numero enorme di persone giovani che lo avevano fatto per senso civico, senso di responsabilità. Vorrei ringraziare il quotidiano La Verità e la trasmissione televisiva Fuori dal coro di Mario Giordano per aver accolto la voce dei dolenti. Mi chiedo se ci sarà un giorno in cui tutto questo sarà processato. Nel caso, sul banco degli imputati devono esserci anche le due massime cariche, il presidente della Repubblica e Mario Draghi, allora presidente del Consiglio, che hanno mentito al popolo.
  Il presidente del Consiglio è cambiato, ma il presidente della Repubblica è sempre lo stesso, e oggi ha trionfalmente spiegato che i morti sarebbero stati molto di più senza la magnifica campagna vaccinale, un'affermazione senza prove. I medici sospesi per inadempienza dell'obbligo vaccinale, me compresa, saranno reintegrati, ma nessuno ci chiederà scusa. Se mai un giorno il processo ci sarà, sul banco degli imputati devono anche esserci i presidenti degli Ordini dei medici.
  Filippo Anelli, presidente della Federazione degli Ordini dei medici (Fnomceo), ci ha regalato queste bizzarre parole: «Mi pare che il ministro abbia un'idea caratterizzata dal senso di responsabilità e da un ragionamento che tiene conto dell'andamento della pandemia. Si va verso una gestione ordinaria, di normalizzazione, e in questo senso rendere il bollettino settimanale mi pare coerente». E, sul reintegro dei sanitari non vaccinati, Anelli ora parla di «buon senso e saggezza. Sono oltre 3.000 i medici sospesi che potranno tornare a lavorare in ospedale o comunque a disposizione della direzione».
  Ma dov'era Anelli finora, quando i sanitari renitenti alla puntura sono stati puniti e lasciati a casa senza stipendio? Certo, meglio una conversione, seppur tardiva, dell'oltranzismo dimostrato da Mattarella.
  Ma le parole del capo di Fnornceo sono un tentativo di far sembrare che la gestione pandemica abbia una qualche valenza medica e non solamente politica, fingendo di ignorare che i dati dell'ultima estate sono peggiori di quelli della penultima, che le persone inoculate si ammalano e sviluppano molto facilmente long Covid, si sorvola in maniera signorile sul fatto che tutte le affermazioni fatte fino a ora sono false.
  Col «vaccino» non si è tornati alla normalità, si torna alla normalità col governo Meloni, non è vero che bastava vaccinare il 70% degli italiani, non è vero che l'efficacia dei vaccini era del 95%, non è vero che bastava una dose, nemmeno due e nemmeno tre, non è vero che il «vaccino» o cosiddetto tale bloccava il contagio, non è vero che un «vaccinato» non possa finire in terapia intensiva e morire.
  È vero che l'inoculazione di questi farmaci ha fatto morire persone, e gli Ordini dei medici sono corresponsabili di aver reso obbligatori farmaci potenzialmente mortali e in fase sperimentale. Se mai il processo ci sarà, sul banco degli imputati devono anche esserci giornalisti o cosiddetti tali che hanno latrato insulti a chi cercava affannosamente di dire la verità, che hanno tappato la bocca nei talk show. Aggiungo qualche riga alle parole del governatore della Calabria.
  Non sono certa che questo processo avrà mai luogo. Si invoca una seconda Norimberga, ma per avere il processo di Norimberga è stato necessario vincere una guerra mondiale. Le colpe non saranno perseguite, ma gli ostaggi saranno liberati.
  È l'unica soluzione possibile dove non si abbia la possibilità di vincere una guerra mondiale. Non sono certa che arriverà mai la giustizia degli uomini, ma sono certa che arriverà quella di Dio. L'oppressione dei deboli e negare la giusta mercede, per esempio levando il lavoro ai non inoculati, insieme all'omicidio volontario, sono peccati che gridano vendetta a Dio. L'ira di Dio esiste: la sua giustizia fa parte della sua misericordia.

(La Verità, 29 ottobre 2022)

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Libano, firmato l'accordo sul gas. Hezbollah annuncia la "fine della mobilitazione straordinaria contro Israele"

Il leader del movimento sciita Nasrallah ha definito "una vittoria" l'intesa sulla spartizione delle risorse energetiche tra lo Stato ebraico e Beirut

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME – Per la prima volta nella storia, Israele e Libano si accordano sulla definizione di un pezzo del proprio confine. Il primo ministro israeliano Yair Lapid e il presidente del Libano Michel Aoun hanno firmato il documento ciascuno nella propria capitale. Eppure, sia pure parziale e limitato alla definizione delle acque territoriali, l’accordo mediato dagli Stati Uniti è stato definito cruciale dai leader di entrambe le nazioni. Il movimento sciita di Hezbollah, nemico giurato dello Stato ebraico che in Libano rappresenta un vero e proprio Stato nello Stato, lo ha salutato definendolo “una grande vittoria” e ha dichiarato la fine della mobilitazione eccezionale contro Israele in relazione alla questione (negli scorsi mesi il gruppo aveva più volte minacciato Israele e inviato dei droni verso una delle sue piattaforme di estrazione).
  “Non capita tutti i giorni che un Paese nemico riconosca lo Stato di Israele, in un accordo scritto, davanti alla comunità internazionale,” il commento di Lapid.  “Abbiamo sentito parlare degli accordi di Abramo. Oggi ci troviamo in una nuova era. Questo potrebbe essere l'accordo di Amos Hochstein,” ha affermato il capo negoziatore libanese e vicepresidente del Parlamento Elias Bou Saab, facendo riferimento al Segretario Usa per l’energia, l’architetto dell’intesa.
  Grazie alla definizione del confine marittimo, Israele e Libano potranno sfruttare senza controversie i giacimenti di gas già noti nel braccio di Israele ha cominciato negli scorsi giorni a estrarre il gas dal giacimento Karish, che l’intesa conferma in territorio israeliano. Al Libano sono andati invece i diritti su Kana che si divide tra le acque territoriali dei due paesi, ma Beirut dovrà corrispondere allo Stato ebraico royalties per il gas estratto nella porzione che si trova nel suo territorio. La speranza è che il tratto di mare possa in futuro rivelare altre risorse, che aiutino ad alleviare la grave crisi economica del Paese dei Cedri e magari diminuirne la dipendenza dall’Iran.
  “L'energia, in particolare nel Mediterraneo orientale, non dovrebbe essere motivo di conflitto, ma uno strumento di cooperazione, stabilità, sicurezza e prosperità,” ha commentato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. “Questo accordo rappresenta un passo avanti verso la realizzazione della visione per un Medio Oriente più sicuro, integrato e prospero.”
  Nel corso della giornata però, sia il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah che Aoun hanno  voluto precisare che l’intesa non rappresenta in alcun modo la normalizzazione dei rapporti con Israele. “La demarcazione del confine marittimo meridionale è una questione tecnica che non ha implicazioni politiche o effetti che contraddicono la politica estera libanese", ha puntualizzato Aoun, mentre Nasrallah ha promesso di vigilare contro ogni mossa, che possa avere “anche solo il sentore” di normalizzazione.
  A suggerire la differenza di approccio anche quanto riportato da media e leader dei rispettivi paesi a proposito della firma finale sul documento apposta dalle due delegazioni che per l’occasione si sono recate alla base dell’Unifil a Niquora (in territorio libanese). Secondo fonti israeliane, i due gruppi si sarebbero trovati nella stessa stanza, secondo fonti libanesi invece non sarebbe avvenuto alcun incontro.
  L’intesa è stata siglata in un momento politico particolare per entrambe le nazioni, con Aoun che terminerà il mandato lunedì e Israele che si recherà alle urne martedì.
  Pur tra tante difficoltà il significato della firma rimane innegabile, per le prospettive in campo economico e l’innegabile elemento di deterrenza che la condivisione dei profitti di un giacimento rappresenterà rispetto a un possibile attacco di Hezbollah contro Israele.
  “Se una parte viola l'accordo, entrambe perdono", ha sottolineato Hochstein.

(la Repubblica, 28 ottobre 2022)


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Türkiye ha annunciato di esser  lieta che Libano e Israele abbiano firmato un accordo  

Il Ministero degli Affari Esteri afferma  di aver accolto favorevolmente l'accordo concluso sotto la mediazione degli USA e l'accordo per la definizione del confine marittimo tra Israele e Libano  firmato ieri a seguito di colloqui  tra due paesi.
  "L'accordo prevede anche un modello di operazione congiunta e di compartecipazione alle entrate attraverso una terza parte per alcune aree di concessione di idrocarburi sulla piattaforma continentale delle due sponde. Questo modello, che non ha esempi simili nel mondo, può costituire un precedente positivo per la regione e soprattutto per i turchi e i greco-ciprioti", si legge nella nota.
  "Lo scorso luglio, la Repubblica turca di Cipro del Nord ha proposto alla parte greco-cipriota una cooperazione sulla comprensione di attività congiunte determinando tassi di compartecipazione alle entrate eque in un modo che non danneggerebbe i diritti esistenti delle compagnie petrolifere internazionali, e si è offerta di istituire un comitato congiunto per questo scopo", si ricorda nella nota.
  "La Türkiye continua a sostenere le proposte di cooperazione sugli idrocarburi avanzate dalla Repubblica turca di Cipro  del Nord nel 2011, 2012, 2019 e 2022"., continua la nota riferendo alla proposta della Türkiye  di tenere una Conferenza  sul Mediterraneo Orientale  nel 2020.

(TRT italiano, 28 ottobre 2022)

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Quattro anni dopo l’attentato alla sinagoga di Pittsburgh. Biden: “L’antisemitismo è in forte aumento”

Le vittime dell’attentato del 2018 alla sinagoga di Pittsburgh
Giovedì 27 ottobre il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha portato messaggi commemorativi e ha dichiarato l’intenzione di combattere l’antisemitismo, in occasione dei quattro anni da quando un uomo armato ha ucciso undici fedeli ebrei e ferito altri sette nella sinagoga Tree of life a Pittsburgh, in Pennsylvania.
  “Una tranquilla mattinata di Shabbat è stata distrutta da spari e odio, e un luogo di preghiera è diventato un luogo di carneficina”, ha detto Biden in una nota. “Mentre affliggiamo l’atto di antisemitismo più mortale nella storia americana, siamo con la comunità di Squirrel Hill – e le comunità ebraiche in tutta l’America e nel mondo – nella risoluzione di combattere l’antisemitismo e l’odio in tutte le sue forme”, ha detto. “Questo è particolarmente vero poiché assistiamo a un brutto aumento dell’antisemitismo in America”.
  Elencando le azioni che l’amministrazione ha intrapreso per affrontare l’antisemitismo, Biden ha sottolineato la nomina dell’esperta dell’Olocausto Deborah Lipstadt come Inviata speciale per monitorare e combattere l’antisemitismo, un ruolo a livello di ambasciatore. Inoltre, ha citato il più grande aumento mai registrato nei finanziamenti per la sicurezza delle sinagoghe e di altri istituti religiosi e altre azioni annunciate il mese scorso allo United We Stand Summit.
  “I rabbini insegnano che ‘ciò che viene dal cuore, entra nel cuore'”, ha detto Biden, citando il rabbino Moses ibn Ezra dell’undicesimo secolo. “In questo giorno difficile, i nostri cuori sono con le famiglie delle vittime, i sopravvissuti e tutti coloro che sono stati colpiti dalla sparatoria di Tree of Life. Possano i loro ricordi essere una benedizione e possiamo continuare a colmare il divario tra il mondo che vediamo e il futuro che cerchiamo”.
  Il 27 ottobre 2018, Robert Bowers fece irruzione nella sinagoga nel quartiere di Squirrel Hill a Pittsburgh armato con un fucile AR-15 e altre armi, aprendo il fuoco. È stato arrestato dopo che una squadra tattica della polizia lo ha rintracciato e gli ha sparato due volte alla spalla e una alla gamba. È stato l’attacco più mortale mai compiuto contro la comunità ebraica statunitense.
  Il presidente della Camera Nancy Pelosi ha dichiarato in una nota: “Il nostro Paese ha la responsabilità morale di combattere il flagello dell’antisemitismo, di garantire che ogni americano possa vivere libero da discorsi fanatici e dalla violenza alimentata dall’odio”. “Eppure, anche mentre celebriamo questo giorno oscuro, parole, simboli e atti di odio disgustosi continuano a tormentare gli ebrei e altre comunità in tutto il paese. L’anniversario di oggi mette in evidenza il nostro obbligo collettivo di condannare e respingere l’antisemitismo in tutte le sue forme, dalle vili cospirazioni amplificate da una celebrità all’estremismo violento infiammato dall’estrema destra”.
  Sebbene Pelosi non lo abbia menzionato per nome, probabilmente si riferiva al rapper Kanye West, che ha suscitato indignazione e contraccolpo per le recenti osservazioni antisemite.
  In un tweet di mercoledì, Pelosi ha scritto: “L’osservanza di questo anniversario di 4 anni dalla sparatoria mortale della sinagoga dell’albero della vita evidenzia che dobbiamo sempre condannare l’antisemitismo e il bigottismo qui e in tutto il mondo, anche da celebrità come Kanye West”.

(Bet Magazine Mosaico, 28 ottobre 2022)

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28 ottobre 1922: la marcia su Roma e gli ebrei italiani

Oggi a Palazzo Braschi a Roma 100 anni dalla marcia su Roma. Le scelte degli ebrei italiani con Aldo Cazzullo, lo storico Michele Sarfatti, moderati dal giornalista Tommaso Giuntella.

di Rav Riccardo Di Segni

Il 28 ottobre ricorre un anniversario importante, un secolo dalla marcia su Roma. Un evento che ha cambiato la storia d’Italia e del mondo, e che ha inciso profondamente e negativamente sull’ebraismo italiano. Ho espresso il desiderio che anche la comunità ebraica di Roma ricordasse questa data con un momento di riflessione, affidata a storici competenti, e ne spiego le ragioni. In nessun modo si tratta di una celebrazione, magari sollecitata dalla politica, come qualche sprovveduto potrebbe pensare. È invece il ricordo di una data triste, che va ricordata come altre date tristi della nostra storia, di cui l’elenco è lungo. Tenendo presente che quell’evento ha una sua connotazione particolare, non è il momento di una strage o di una retata nazista, ma ne è la sua lontana preparazione; e assume un’ulteriore connotazione quando se ne studia la partecipazione ebraica. Probabilmente la maggioranza degli ebrei era distante e piuttosto indifferente a quegli avvenimenti. Ma altri ebrei ebbero un ruolo attivo, nelle schiere fasciste, in quelle antifasciste e nell’apparato dello stato. Basti pensare alla figura del generale Pugliese che comandava la difesa di Roma, e che era pronto a far scattare lo stato d’assedio, che il re tuttavia all’ultimo momento rifiutò di firmare. C’erano ebrei fascisti in marcia, altri a sostegno, e tenaci oppositori dall’altra parte. Tutto questo a segno di una totale integrazione nella società, con ruoli spesso di primo piano. E quasi tutti inconsapevoli della reazione di rigetto che sedici anni dopo sarebbe stata provocata proprio da quel movimento che per alcuni sembrava il rimedio a tutti i mali.
  A un secolo di distanza la situazione dell’ebraismo italiano è notevolmente differente, anche per le conseguenze di quella storia. Gli ebrei italiani oggi sono la metà di quanti erano nel 1922; la composizione “etnica” è radicalmente cambiata per i flussi migratori; non ci sono alti ufficiali nelle forze armate; nella camera dei deputati non c’è più un ebreo, nel 1922 erano 9; al senato c’è una senatrice a vita, nata ebrea, e una nuova senatrice ebrea eletta; nel 1922 c’erano 20 senatori ebrei.
  Qualche riflessione allora sembra opportuna, se non doverosa.

(Shalom, 28 ottobre 2022)

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Una Commissione ONU obiettiva e imparziale come l’Inquisizione Spagnola

di Ugo Volli

Viene presentato in questi giorni all’Assemblea Generale dell’Onu un rapporto molto pubblicizzato della commissione d’inchiesta nominata dal Consiglio dei Diritti Umani per indagare su Israele. Questa è l’ottava commissione sul tema (mentre non vi è notizia di  analoghi organismi per indagare su quel che la Cina fanno agli Uiguri, la Turchia ai curdi, l’Etiopia ai Tigrini, la Russia all’Ucraina, eccetera). Ma a differenza delle altre commissioni precedenti, che duravano un anno e avevano competenza solo sui territori disputati di Giudea, Samaria e Gaza, essa estende la sua competenza anche al territorio “storico” dello stato di Israele (quello precedente alla Guerra dei Sei Giorni), con l’intento evidente di mettere in discussione la legittimità stessa dello stato ebraico e della sua appartenenza all’Onu, come ha dichiarato esplicitamente anche uno dei tre membri della commissione, Miloon Kothari; inoltre non avrà limiti temporali e ha l’incarico non di accertare qualche momento specifico del conflitto, ma “le radici della violenza”, il che significa l’autorizzazione a un discorso propagandistico senza legami con la realtà.
  Il rapporto è stato già pubblicato la settimana scorsa e all’Assemblea Generale sarà certamente oggetto di una mozione di approvazione, con la solita maggioranza terzomondista-comunista precostituita all’Onu. Sarà interessante vedere come voterà in questa occasione il rappresentante italiano, se le direttive del nuovo ministro degli esteri Tajani saranno diverse da quelle del passato, in cui l’Italia votava regolarmente le mozioni contro Israele o al massimo si asteneva.
  Questo rapporto si focalizza in particolare sul conflitto con Hamas dell’anno scorso, ma non nomina mai l’organizzazione terrorista e non usa parole come “terrorismo” o “missili”. Il problema non è insomma per la commissione l’esistenza di bande pesantemente armate che attaccano la popolazione civile provocando lutti e distruzioni, ma “l’annessione de facto” che Israele avrebbe praticato sui territori contesi, che la commissione senza giustificazione giuridica considera automaticamente “palestinesi”. Le ragioni per sostenere questa “annessione de facto” (che contrasta clamorosamente con l’esistenza stessa su quel territorio di un’Autorità Palestinese fornita di governo, forze di polizia, presidente, università, uffici territoriali) sarebbero “l’espropriazione di terre e risorse naturali, la creazione di insediamenti e avamposti, il mantenimento di un regime di pianificazione e costruzione restrittivo e discriminatorio per i palestinesi e l’estensione della legge israeliana in modo extraterritoriale ai coloni israeliani in Cisgiordania”. La “discriminazione verso i palestinesi” sarebbe poi la stessa che lo stato di Israele dal 1948 avrebbe praticato contro i suoi stessi cittadini arabi: è una riproposizione della tesi dei gruppi palestinisti per cui non c’è distinzione fra Giudea e Samaria e Tel Aviv o Haifa: sarebbe tutta “occupazione”, naturalmente illegale. E’ evidente che il rapporto non si occupa di quel che è davvero accaduto nel conflitto con Hamas, o di dare dei suggerimenti realistici per arrivare a una convivenza pacifica fra ebrei e arabi in Giudea e Samaria, ma solo di fornire armi polemiche alla propaganda palestinista di delegittimazione dello stato di Israele.
  La reazione di Israele a queste affermazioni non si è fatta attendere: il primo ministro Lapid ha dichiarato che il rapporto è “parziale, falso, incitante e palesemente sbilanciato”;  gli Usa hanno raccolto le firma di 23 stati sotto una lettera che ne chiede lo scioglimento. Ciò deriva anche dalla sia composizione: il presidente è la sudafricana Navanethem (detta Navi) Pillay che dal 2008 fino al 2014 ha presieduto l’”Alta Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani”, in una maniera così scandalosamente parziale (e principalmente anti-israeliana), da indurre gli Stati Uniti a uscirne, provocando una grave crisi nell’elefantiaco apparato delle Nazioni Unite dedicato ai diritti umani. Accanto a lei vi sono l’architetto srilankese Miloon Kothari, che si definisce “studioso e attivista” ed è entrato nella setta degli “esperti” delle Nazioni Unite sui diritti umani facendo il primo “relatore speciale dell’Onu sull’adeguatezza degli alloggi”. Diverse sue dichiarazioni hanno suscitato polemiche per l’evidenza di un pregiudizio antisemita. Il terzo componente è l’avvocato australiano Chris Sidoti, un altro membro di lungo corso del gruppetto anti-occidentale e anti-israeliano da cui l’Onu trae i suoi esperti. Non a caso Hiller Neuer dell’organizzazione “UN Watch” che monitora le politiche anti-istraeliane dei vari organismi dell’Onu ha sostenuto che “questa commissione di inchiesta è obiettiva, imparziale e credibile più o meno come l’Inquisizione spagnola”.

(Progetto Dreyfus, 26 ottobre 2022)

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Alberta, Canada: il primo ministro taglia i rapporti con il World Economic Forum

di Miriam Gualandi

Danielle Smith
Continua a far parlare di sé il primo ministro canadese dell’Alberta, Danielle Smith, che ha recentemente annunciato di voler tagliare i legami della provincia da lei amministrata con il World Economic Forum, la fondazione nata nel 1971 per iniziativa di Klaus Schwab.

• I motivi della decisione
  Smith ha affermato, come riporta la Cbc, di avere intenzione di annullare un accordo di consulenza sanitaria, poiché non vuole avere a che fare con un gruppo che parla di “controllare i governi”“Trovo sgradevole”, ha detto lunedì scorso durante una conferenza stampa, “quando i miliardari si vantano di quanto controllo hanno sui leader politici… le persone che dovrebbero dirigere il governo sono quelle che votano per loro”. 
  In particolare, Smith si riferisce alla collaborazione stipulata tra l’Alberta Healt Services, l’agenzia governativa  che fornisce servizi sanitari in tutta la provincia, con il Wef. A luglio 2020 infatti, l’agenzia aveva ricevuto l’invito da parte del World Economic Forum a unirsi alla Global Coalition for Value in Healthcare, al fine, come si legge sul sito di “plasmare la futura assistenza sanitaria sulla scena internazionale”.
  Danielle Smith non è però di questo avviso, visto che ospite del canale Western Standard, non ha nascosto la propria insoddisfazione rispetto al lavoro svolto soprattutto durante l’emergenza sanitaria dall’Alberta Healt Services.
  Incalzata più volte dalla stampa, che ha chiesto alla premier se questo allontanamento dal Wef significhi l’accettazione di quelle che vengono definite “teorie del complotto online” secondo cui Schwab e tutto ciò che ruota attorno al World Economic Forum non è altro che una “cabala globale di leader mondiali” che hanno usato la pandemia per “distruggere il capitalismo” e “installare una distopia disfunzionale socialista”, Smith non ha risposto direttamente ma ha sottolineato che in futuro prenderà consigli “dalle nostre infermiere di prima linea, medici, paramedici e operatori sanitari per risolvere i problemi locali che abbiamo.”

• Le critiche
  Non sono mancate chiaramente le critiche: Shannon Phillips, Membro dell’Assemblea legislativa dell’Alberta, ha affermato che quelle di Danielle Smith sono “fissazioni bizzarre”.
  Stessa posizione della politologa Lori Williams, la quale sostiene che Smith voglia chiudere un accordo potenzialmente “salvavita” per gli abitanti dell’Alberta “semplicemente perché è sospettosa su una delle organizzazioni coinvolte”.

• I trascorsi
  Danielle Smith non è certo nuova a posizioni che suonano “anticonformiste” rispetto al pensiero unico: neanche un mese fa avevano fatto molto discutere le scuse che aveva formalmente porto ai cittadini non vaccinati, che avevano di fatto subito discriminazioni di ogni sorta per oltre due anni.
  Passo indietro invece sulla Russia e l’Ucraina: in un recente comunicato la Premier si è scusata per le dichiarazioni rilasciate in passato, in cui affermava che il Paese avrebbe fatto meglio a rimanere militarmente neutrale, ribadendo invece il pieno sostegno alla causa Ucraina.

(byoblu, 26 ottobre 2022)

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Ben-Gvir, Michaeli e Shaked: comprimari decisivi per le elezioni israeliane?

di Ugo Volli

• Alla vigilia delle elezioni

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La lunga campagna elettorale iniziata con lo scioglimento della Knesset (il parlamento unicamerale di Israele) il 30 giugno scorso e forse anche un paio di settimane prima, quando è apparso chiaro che l’eterogenea coalizione che sosteneva il governo Bennett aveva perduto la maggioranza parlamentare, è ormai quasi conclusa: lunedì prossimo in Israele si vota. E’ stata una campagna lunga ma poco coinvolgente, anche perché è la quinta in quasi quattro anni: circa una trentina di mesi di campagne elettorali da quando, il 14 novembre 2018, Avigdor Liberman, ministro della difesa, lasciò il governo Netanyahu per dissensi sul cessate il fuoco raggiunto a Gaza, provocando poi la caduta del governo con la successiva uscita di Bennett, scontento per non essere stato nominato al suo posto. In tutte queste elezioni, non è cambiato il punto centrale degli schieramenti, pro o contro la leadership di Bibi Netanyahu, come se Israele non avesse giganteschi problemi di scelte politiche e di sicurezza e l’elettorato non dovesse concentrarsi altro che su una questione di persone. I protagonisti poi sono stati più o meno gli stessi: Netanyahu, Lapid, Liberman, Bennett (che questa volta è mancato essendosi autosospeso dalla politica dopo il fallimento governativo), Gantz (che mancava alle prime elezioni, essendo ancora nel periodo di “raffreddamento” richiesto agli ex generali in pensione prima di poter partecipare alla lotta politica). E anche i comprimari non sono molto cambiati, troppo numerosi per nominarli tutti qui data l’estrema personalizzazione della politica israeliana. Vale la pena però di raccontare alcune di queste persone, che possono servirci da guide per capire dove sta andando la politica israeliana.

• I comprimari: a destra Ben-Gvir, il più odiato dai progressisti
  La prima persona che vale la pena di citare è uno dei più probabili vincitori delle prossime elezioni, quello che dovrebbe aumentare di più i suoi voti. Si tratta di Itamar Ben-Gvir, avvocato di 46 anni, leader del partito Otzma Yehudit (che significa “Forza ebraica”) Dopo aver partecipato molte volte alle elezioni a partire dal 2013, Ben-Gvir è stato eletto per la prima volta nel 2021 con un’alleanza di destra che vinse sei seggi. Ora al suo gruppo, alleato con quello sionista religioso di Bezalel Smotrich i sondaggi assegnano oggi fra i 12 e i 14 seggi alla Knesset, facendone la terza formazione dopo il Likud di Netanyahu e Yesh Atid di Lapid. Ben-Gvir è il politico israeliano oggi più controverso, c’è chi lo accusa di razzismo, chi di fanatismo anti-arabo, chi di fascismo, chi di essere un successore del partito Kach rabbino Kahane, il solo partito ebraico sciolto d’autorità. Sono tutte accuse che l’interessato respinge. A settembre scorso per esempio ha dichiarato “Non desidero la morte degli arabi, né sostengo la loro deportazione, ma ho un problema con coloro che ci lanciano bombe molotov o feriscono i soldati dell'IDF. Ho anche un problema con chi è alla Knesset e va contro il nostro Paese”. Certamente Ben-Gvir è un nazionalista, che per esempio si è molto impegnato nel sostegno dei proprietari delle case del quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme nella controversia con gli occupanti arabi. Si sa che vi sono state pressioni da parte americana per ottenere da Netanyahu l’impegno a non inserirlo in un suo futuro governo. Ma sicuramente Ben-Gvir, da personaggio marginale che era, diventerà uno dei protagonisti della politica israeliana.

• II comprimari: a sinistra Merav Michaeli nemica dei religiosi e dei “coloni”
  Il leader del glorioso partito laburista, Merav Michaeli, ministro dei trasporti dell’attuale governo, non sembra avere altrettanta fortuna elettorale. Per il suo partito, come per il gemello Meretz, i sondaggi prevedono un difficile superamento della soglia elettorale (dunque quattro seggi o nessuno). Ma Michaeli non ha voluto unire le forze con il Meretz e ha cercato di promuoversi spingendosi più a sinistra possibile, almeno per i criteri israeliani, dunque abbandonando l’atteggiamento moderato e governativo che una volta caratterizzava il suo partito, per collocarsi all’estrema sinistra. Per esempio, ha annunciato di voler obbligare i trasporti pubblici a funzionare anche di sabato, rompendo una tradizione di rispetto per le regole ebraiche dello shabbat che risale a Ben Gurion. Sempre da ministro dei trasporti ha annunciato che intende porre il veto a ogni investimento nelle infrastrutture pubbliche delle città e dei villaggi di Giudea e Samaria, perché “tanto quelle zone non fanno parte di Israele e non bisogna buttare via i soldi per svilupparle”. Hanno fatto anche rumore le sue teorie sulla famiglia: i figli non dovrebbero essere semplicemente affidati ed educati dai loro genitori; alla nascita dovrebbe essere lo Stato a decidere dove e da chi debbano essere cresciuti. Michaeli potrebbe contare molto, ma soprattutto come spauracchio per spingere gli avversari a venire a votare.

• II comprimari: Ayelet Shaked che probabilmente non ce la farà
  La terza persona da tener d’occhio è Ayelt Shaked, attuale ministro dell’Interno, che per qualche anno è stata fra i personaggi più popolari della destra. Come numero due del partito Yamina (A destra), Shaked ha però seguito la scommessa perduta Naftali Bennett ed è entrata nel suo governo eterogeneo che ha retto appena un anno, pur lasciando qualche volta trasparire il suo dissenso. In questa campagna elettorale Shaked ha dichiarato di essere disposta nella nuova Knesset ad aderire a un governo Netanyahu e ha cercato di ottenere il suo supporto, ma senza successo. Ora i sondaggi le attribuiscono il 2% dei voti circa (il limite per entrare alla Knesset è il 3,25), che sarebbero perduti per il blocco di destra e potrebbero anche essere decisivi in elezioni così incerte; ha avuto molte pressioni per il ritiro, che finora ha respinto fieramente. E’ probabile che il malinconico ritiro di Bennett concluda anche la sua carriera.

(Shalom, 27 ottobre 2022)

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Israele alla prova del XXI secolo

di Emanuel Pietrobon 

Terremoti, l’unico fenomeno naturale – o indotto dall’Uomo – in grado di rivoltare l’equilibrio imperante nel sistema internazionale in un momento dato. Possono essere delle pandemie, dei cataclismi alla base di distruzioni indicibili e grandi moti migratori, delle implosioni imperiali, ma, molto spesso, coincidono con le guerre.
  La guerra è il terremoto geopolitico per antonomasia, lo strumento più utilizzato, da sempre, per riscrivere la distribuzione del potere all’interno di un micro- e/o di un macrosistema. Giacché le guerre accelerano tendenze pre-esistenti, alterano la geografia e cambiano destini apparentemente ineluttabili. Se è vero historia magistra vitae, come sosteneva Cicerone, allora tutto sembra indicare che non v’è nulla di più geopoliticamente traumatico di una guerra.
  Le guerre creano e distruggono ordini mondiali. E, allo stesso tempo, forgiano e sfaldano legami che si pensava fossero inossidabili. Prova provante della natura rivoluzionaria dei grandi conflitti è l’Ucraina, la trincea principale dell’epocale battaglia tra il Momento unipolare e la Transizione multipolare. Trincea che, rimanendo in tema di legami, ha accelerato un fenomeno destinato ad incidere profondamente sulla geografia del potere dell’Eurafrasia: la rottura tra Israele e Russia.

• Il dilemma dell’allineamento
  La guerra in Ucraina verrà ricordata come il grande terremoto geopolitico del XXI secolo. Una sorta di “super-11 settembre” destinato a traghettare l’umanità verso mete inesplorate e pericolose, scenari da hic sunt leones, e sul cui dinamitardo impatto hanno scommesso in ugual misura la Russia e gli Stati Uniti – la prima nella speranza di sveltire la Transizione multipolare, i secondi nell’aspettativa di prolungare il Momento unipolare e di preparare il terreno per il vero scontro del XXI secolo, quello tra l’Aquila e il Dragone.
  Il dilemma amletico di tutti, grandi e piccoli, è solo e soltanto uno dall’alba del 24.2.22: dalla parte del decadente Momento unipolare o con le travolgenti forze della Transizione multipolare? Scegliere non è facile, non può essere fatto nottetempo, perché allinearsi ad aggravamento della competizione tra grandi potenze in corso potrebbe significare (tentativi di) cambi di regime, colpi di stato, guerre ibride, instabilità, sabotaggi, terrorismo.
  Allinearsi con un blocco anziché con un altro, o provare a non allinearsi affatto, potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte, tra la pace e la guerra. E ciò vale per tutti, dagli imperi alle periferie. Verità di cui ha piena cognizione Israele, potenza semi-solitaria par excellence, per il quale la risposta alle tendenze catalizzate dalla guerra in Ucraina, dallo scontro Stati Uniti-Cina alla radicalizzazione della Russia, costituisce la sfida del XXI secolo.

• Israele su un campo minato
  Il peggioramento delle relazioni bilaterali tra Russia e Israele rappresenta sicuramente una delle tendenze geopolitiche più significative alle quali la guerra in Ucraina ha dato impulso. In collisione già nell’anteguerra per motivi di incompatibilità strategica, e non soltanto in Siria, i due paesi si sono allontanati di pari passo con l’incedere del conflitto nelle terre ucraine. Senza che l’eredità del duo Putin-Netanyahu e il fattore Giacobbe potessero far nulla per drenare l’ematoma.
  Le guerre sono il banco di prova in cui testare la solidità di un’amicizia e la serietà di un’inimicizia. E Israele, in qualità di porzione d’Occidente incuneata nel Levante e di provincia del Mondo russo, da questo banco non aveva mai avuto chance di sottrarsi. Anche perché scegliendo di entrare nell’alleanza di Ramstein, la coalizione dei volenterosi 2.0, il governo Bennett-Lapid aveva effettuato una scelta di campo chiara e netta. Dalla parte dell’Occidente, contro la Russia.
  Vero è che Israele non ha inviato armamenti in Ucraina, e continuerà a declinare ogni richiesta in tal senso per ragioni politiche – meglio un equilibrio precario ad un non equilibrio – e di sicurezza – l’imperativo di evitare che armi protette dal segreto industriale cadano in mani ostili –, ma anche ai sordi è giunta voce della fornitura di intelligence e di combattenti irregolari – volontari e mercenari – a favore delle forze armate ucraine. Circostanza che ha fortemente indispettito Mosca, per la quale Tel Aviv è ad un passo dalla cobelligeranza. Passo (falso) che Tel Aviv si guarda bene dal commettere.

• Alla prova della Terza guerra mondiale a pezzi
  Israele avrebbe più da perdere che da guadagnare da un ingresso a gamba tesa nella guerra senza limiti tra NATO e Russia. Lo ignora, o non gli interessa, una parte considerevole del mondo religioso – che ha facilitato l’arrivo in Terra Santa di circa dodicimila ebrei ucraini nei primi sette mesi di guerra –, ma ne hanno piena cognizione la classe politica e gli ambienti strategici. Giacché dall’intesa russo-israeliana dipendono, tra le varie cose, l’efficacia della lotta al terrorismo palestinese e del contrasto all’espansionismo iraniano in Medio Oriente.
  Le relazioni tra Mosca e Tel Aviv sono ad un punto di svolta. Di nuovo. Come durante la Guerra fredda, epoca che vide i sovietici in prima linea nel supporto della causa palestinese e gli israeliani a combattere i comunisti nelle più importanti guerre mondiali dell’epoca – dal Nicaragua all’Afghanistan. Un presente che sa tanto di ritorno al passato.
  L’intesa amichevole con la Russia è e continuerà ad essere parte integrante del corollario di sicurezza nazionale di Israele, che grazie al tacito assenso del Cremlino può operare – ossia colpire – liberamente tra Levante e Mesopotamia, ma l’aggravamento della competizione tra grandi potenze comporterà inevitabilmente delle scelte.
  Le scelte di Israele deriveranno dalla consapevolezza che l’Ucraina è diventata l’ultima trincea delle guerre irano-israeliane e che la Russia, trasfigurata dalla mentalità di guerra, ha cominciato a vedere il mondo in bianco e nero. Saranno plasmate dal timore di un asse Mosca-Teheran. E saranno anche obbligate dalle volontà dell’Alleato maggiore, gli Stati Uniti, la cui inderogabilità è stata tastata con mano da Israele in occasione della morte dell’ambasciatore cinese Du Wei. La Terza guerra mondiale a pezzi sarà il Golia del Davide israeliano.

(Inside Over, 27 ottobre 2022)

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A2A e SIBF, a Tel Aviv nuovo hub dedicato all'innovazione

A2A e il fondo di investimento tecnologico israeliano SIBF hanno firmato un memorandum d’intesa che prevede la realizzazione di un hub congiunto dedicato all’innovazione con base a Tel Aviv. L’accordo - spiega una nota - favorisce inoltre la condivisione di know how ed expertise per la valutazione delle reciproche opportunità di investimento in startup, sia italiane che israeliane, con un forte focus sul tema della transizione ecologica.
  Grazie a questo accordo A2A diviene l’unico partner italiano di SIBF e amplia il proprio orizzonte di innovazione allargando il perimetro delle attività in Israele, uno degli ecosistemi del settore più avanzati al mondo. Con questa operazione, in linea con il proprio Piano Industriale, il Gruppo compie un ulteriore passo avanti nella strategia di Open Innovation -basata su un ampio modello sinergico di scouting, progetti di sperimentazione, challenge, attività di corporate entrepreneurship - e nel programma di Corporate Venture Capital (CVC) nato per promuovere gli investimenti in startup early stage strategiche.
  Il memorandum rafforza inoltre le relazioni già esistenti fra A2A, la Israeli Innovation Authority e la Missione economica israeliana in Italia.
  SIBF – Southern Israel Bridging Fund – è un primario fondo di venture capital israeliano dedicato alle tecnologie di frontiera con un solido track record internazionale, che investe in start-up hi-tech innovative e società tecnologiche in Israele e all’estero. SIBF lavora a stretto contatto con le società in portafoglio per supportare la loro crescita grazie ad un network di partner ed alla vicinanza geografica che consente di monitorare meglio i processi, e con un approccio pratico a beneficio sia delle aziende che dei suoi investitori. Il fondo conta ad oggi 50 startup in portafoglio e 450M$ di investimenti.
  "L’innovazione ricopre un ruolo fondamentale per A2A ed è una leva trasversale a tutti i business del Gruppo” - ha dichiarato Nicoletta Mastropietro, Direttore Digital & Innovation di A2A -. “Il perimetro di attività su cui ci concentriamo è ampio e il programma di corporate venture capital che stiamo portando avanti dal 2019, ci fornisce un supporto fondamentale per avanzare nei nostri obiettivi di transizione green. La collaborazione con SIBF, attore di primissimo piano in ambito tech, crediamo rappresenti un ulteriore tassello importante per intercettare soluzioni innovative che indirizzino le sfide del nostro business”.
  "Siamo soddisfatti di questo importante accordo con A2A che ci permette di creare una relazione fra i nostri reciproci ecosistemi di innovazione” – ha commentato Or Ben Shoshan, Managing Partner di SIBF -. “Abbiamo scelto A2A perché è una delle aziende protagoniste in Italia nella transizione energetica e l'economia circolare, un partner di rilievo per portare l'innovazione delle nostre startup in Italia".

(teleborsa, 27 ottobre 2022)



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Spartizione gas, accordo Libano-Israele. Lapid: «Un successo politico»

Il presidente della Repubblica libanese Michel Aoun ha firmato parte dei documenti necessari per spartizione confini marittimi e risorse di gas. Hezbollah annuncia discorso.

Il presidente della Repubblica libanese Michel Aoun ha firmato il 27 ottobre a Beirut parte dei documenti necessari per formalizzare l’atteso accordo con Israele, paese formalmente nemico del Libano, per la definizione del confine marittimo tra i due paesi e la conseguente spartizione delle risorse energetiche nel Mediterraneo orientale.
  L’annuncio della firma è stato dato poco fa in una conferenza stampa congiunta tra il vice presidente del parlamento libanese Elias Abou Saab e l’inviato speciale americano Amos Hochstein, giunto ieri sera a Beirut. Il governo israeliano ha poi approvato l’intesa. «Questo è un successo politico- ha detto il premier Yair Lapid - Non tutti i giorni uno Stato nemico riconosce Israele, con un accordo scritto, di fronte alla comunità internazionale».

• Nessun incontro fra le due delegazioni
  Il vice presidente del parlamento libanese Elias Abou Saab ha precisato che la seconda parte dei documenti che saranno scambiati, grazie agli Stati Uniti, con Israele, saranno firmati da delegati libanesi nella cerimonia prevista oggi pomeriggio nella base Onu di Capo Naqura lungo la Linea Blu di demarcazione tra i due paesi. L’inviato Usa Hochstein presenzierà la cerimonia di scambio dei documenti. Le due delegazioni israeliana e libanese siederanno in due stanze distinte della base Onu e non si incontreranno, proprio per evitare che questo accordo venga percepito come una normalizzazione politica e diplomatica tra due paesi, in stato di belligeranza sin dalla loro nascita più di 70 anni fa.

• Accordo con Israele, oggi discorso leader Hezbollah
  Hasan Nasrallah, il leader degli Hezbollah libanesi anti-israeliani, terrà oggi alle 16 locali (le 15 in Italia) un discorso televisivo, trasmesso da una località sconosciuta per ragioni di sicurezza, in corrispondenza con la cerimonia di scambio dei documenti tra Libano e Israele per lo «storico» accordo della definizione dei confini marittimi e la spartizione delle risorse energetiche nel Mediterraneo orientale. Il Partito di Dio, sostenuto dall’Iran, ha di fatto approvato l’accordo con Israele, firmato oggi dal presidente libanese Michel Aoun, stretto alleato del movimento sciita libanese. Media locali sottolineano come Nasrallah, leader di una formazione politica armata che da decenni basa la legittimità popolare sulla retorica della lotta contro Israele, pronuncerà oggi un discorso in cui tornerà a minacciare Israele di ritorsioni armate in caso di «violazioni» dell'accordo.

(Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2022)

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Levata di scudi di giornalisti arabi e palestinesi a difesa dei colleghi antisemiti che elogiano Hitler

Anziché dire ai colleghi di assumersi le loro responsabilità e non fare le vittime, preferiscono accusare i "sionisti" di voler "mettere a tacere la narrativa palestinese".

Dopo che la scorsa settimana la Thomson Reuters Foundation ha preso l’iniziativa di revocare alla giornalista Shatha Hammad il premio Kurt Schork per il giornalismo internazionale, la stampa palestinese ha immediatamente preso le difese della collega senza dare alcun peso ai suoi post anti-ebraici e filo-hitleriani che hanno causato la decisione della Fondazione.
Anziché denunciare o perlomeno prendere le distanze dall’antisemitismo esplicito che permeava il profilo Facebook di Hammad, rivelato da HonestReporting, i mass-media in lingua araba hanno accusato i “sionisti” di voler “mettere a tacere la narrativa palestinese”.
In un’intervista esclusiva a Quds News Network, un sito di notizie collegato all’organizzazione terroristica Hamas, la stessa Hammad ha denunciato quella che descrive come una “guerra aperta contro i giornalisti palestinesi” e lancia un appello a “fronteggiare” le “istituzioni sioniste” che hanno scoperto il suo sconcertante elogio dello sterminio di ebrei perpetrato da Adolf Hitler.

(israele.net, 27 ottobre 2022)

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Canada, nuova premier chiede scusa ai non vaccinati per discriminazioni

"Sono profondamente dispiaciuta", ha detto la nuova premier ai canadesi non vaccinati che hanno combattuto la discriminazione.

La nuova premier canadese dell'Alberta Danielle Smith ha riferito che sta lavorando a un piano per graziare i cittadini multati o arrestati per aver infranto i protocolli anti Covid. Si è scusata con i canadesi non vaccinati che hanno subito “discriminazione“.
  “Sono profondamente dispiaciuta per chiunque sia stato inappropriatamente sottoposto a discriminazione a causa del vaccino“. E’ quanto dichiarato sabato da Danielle Smith. “Sono profondamente dispiaciuta per qualsiasi dipendente del governo che è stato licenziato dal lavoro a causa del suo stato di vaccinazione e darò loro il benvenuto se vogliono tornare“.
  Il discorso di Smith è la prima occasione in cui un leader di una provincia canadese si scusa per aver discriminato i non vaccinati, secondo Rebel News. Il Canada ha applicato alcune delle legge anti Covid più severe al mondo. Tra queste il rendere obbligatorie le vaccinazioni nei luoghi di lavoro regolamentati a livello federale. O ancora chiudere le attività per mesi. E persino arrestare i cittadini se fossero stati trovati a violare i protocolli di blocco.
  La Smith ha pronunciato un discorso all’assemblea generale annuale dello United Conservative Party sabato e ha detto ai media che sta valutando la possibilità di graziare tutti coloro che sono stati arrestati o multati per aver infranto gli ordini di blocco, e per non essersi vaccinati.

(MeteoWeb, 24 ottobre 2022)
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Di notizie come questa naturalmente i nostri grossi media non danno informazione. Ma forse non dipende solo dai media: forse c'è una maggioranza che certe notizie proprio non gradisce di sentirle. M.C.

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Israele: Energean autorizzata ad avviare produzione nel giacimento di Karish

La notizia è stata resa nota dal ministero dell’Energia israeliano.

Il ministero dell’Energia di Israele ha autorizzato la compagnia energetica Energean ad avviare la fase di produzione nel giacimento di gas offshore di Karish. La notizia è stata resa nota dal ministero dell’Energia israeliano. Per il premier Yair Lapid, estrarre gas da Karish consentirà al Paese di rafforzare la propria “stabilità energetica” oltre all’economia. Il giacimento di Karish, situato a 80 chilometri dalla costa israeliana di Haifa, è adiacente a Kana, un bacino che attraversa l’area oggetto della disputa tra Libano e Israele.
  Nei mesi scorsi il movimento sciita libanese filo-iraniano Hezbollah ha più volte minacciato attacchi nel caso in cui il giacimento diventasse operativo. Il via libera è giunto a due giorni dall’attesa firma dell’accordo sulla demarcazione del confine marittimo tra Israele e Libano, prevista per domani, 27 ottobre. In base all’intesa, Israele acquisirà l’intero giacimento di Karish, compresi i diritti di esplorazione a sud della linea 23 all’interno della propria zona economica.

(Nova News, 26 ottobre 2022)

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Una nuova fase per le relazioni tra Europa e Medio Oriente

di Maria Luisa Fantappie

In atto da un decennio, il graduale disimpegno degli Stati Uniti in Medio Oriente ha lasciato agli attori regionali – Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele – un più ampio margine di manovra per ridefinire le rispettive linee di influenza, innescando un processo di assestamento che fa oscillare la regione tra diplomazia regionale e rischio di un ritorno al conflitto. Impegnata in un altro conflitto in Ucraina, l’Europa si trova meno attrezzata per affrontare le sfide di questa fase di assestamento – avendo aumentato la sua dipendenza energetica dal Medio Oriente e dal Nord Africa e quella securitaria dall’alleanza atlantica, di cui la Turchia fa parte.

• Il ritorno alla diplomazia regionale in Medio Oriente
  La buona notizia è che le divisioni che hanno caratterizzato l’ultimo capitolo di storia in Medio Oriente si sono attutite. Vi è un cauto ritorno alla diplomazia regionale. Iran e Arabia Saudita hanno aperto canali di comunicazione dopo anni di conflitto per procura, le tensioni tra paesi del Golfo si attenuano e Turchia, Emirati e Arabia Saudita lavorano a migliorare le loro relazioni. Con gli storici accordi di Abramo, Israele normalizza i rapporti diplomatici e commerciali con i paesi del mondo arabo. Tuttavia, per come si presentano oggi, i processi di cooperazione regionale non appaiono l’incipit di un’architettura tesa a creare condizioni di sicurezza regionale, come avvenne con il processo che portò alla nascita dell’Osce.
  La diplomazia in corso è per lo più di tipo transazionale, finalizzata ad aumentare il ventaglio di scelte strategiche, oppure a creare dei blocchi di influenza contrapposti, e potrebbe generare effetti di polarizzazione piuttosto che di cooperazione. Israele punta alla formazione di un blocco anti-iraniano normalizzando le relazioni con il mondo arabo attraverso gli Accordi di Abramo (già firmati da Marocco, Bahrein e Emirati) che tenta di estendere ad altri paesi del Golfo, come Egitto e Giordania, così da isolare Teheran. L’Iran, da parte sua, cerca di sfuggire all’isolamento accelerando la sua diplomazia con il mondo arabo, stringendo relazioni con il Qatar e gli Emirati, mostrandosi favorevole al dialogo con l’Arabia Saudita.
  La Turchia di Erdogan è ottimamente posizionata, soprattutto dopo la guerra in Ucraina che la rende un indispensabile alleato Nato, lavora a rafforzare i rapporti con Israele, a riaddolcire quelli con il Golfo e l’Egitto, e ad espandersi militarmente sul fronte del nord della Siria e dell’Iraq.
  L’Arabia Saudita è prudente nell’investire sul dialogo con l’Iran ma, rafforzata dalla crisi energetica in corso, si proietta sulla sfera globale, sperimentano dinamiche di multipolarismo tra Stati Uniti, Russia e Cina.
  Si tratta di un processo di assestamento tra le potenze regionali nel corso del quale non è da escludere l’esplodere di conflitti. Le tensioni tra Israele e Iran potrebbero maturare in scontri per procura, in operazioni israeliane in territorio iraniano, in rappresaglie iraniane con attacchi su basi Usa, così come in reciproci attacchi cibernetici. L’Iran, sotto pressione interna per via delle rivolte ed esterna per via del programma nucleare, potrebbe slittare su posizioni difensive, facendo leva sui gruppi alleati in Yemen, Iraq, Siria e Libano, allentando il suo impegno nel dialogo con Riyadh.
  La mancata estensione della tregua in Yemen (il più importante teatro di scontro tra Iran e Arabia Saudita) costituisce già una prima avvisaglia in questa direzione. Unico membro dell’Alleanza Atlantica in Medio Oriente, la Turchia di Erdogan ha ampio margine di manovra per continuare le operazioni militari nel nord dell’Iraq e per avviarne un’altra nel nord-est della Siria, così da consolidare il consenso interno delle frange nazionaliste prima delle elezioni. Altri potenziali elementi di crisi, non armati ma ugualmente pericolosi, provengono poi dall’Iraq, dalla Siria, dal Libano e dallo Yemen: ci si riferisce all’epidemia di colera, alla desertificazione, al narcotraffico.

  • La diplomazia europea frammentata
  Questa fase di assestamento pone all’Europa una serie di sfide sia sul fronte umanitario, sanitario e climatico, come ricordato sopra, che su quello politico. Ad esempio, occorre conciliare gli interessi strategici (l’atlantismo verso la Turchia, i negoziati sul nucleare con l’Iran, la dipendenza energetica verso i paesi del Golfo) con questioni di principio, come la difesa dei diritti dell’uomo. Questi nodi, che rischiano di moltiplicarsi soprattutto dopo il conflitto in Ucraina – che l’Europa ha vissuto e descritto come conflitto in difesa di questi stessi principi – non possono che essere sciolti in sede multilaterale.
  Al contrario, la tendenza dominante nei diversi membri dell’Unione sembra quella di rafforzare le relazioni bilaterali con paesi della regione, a discapito della costruzione di un approccio multilaterale. La Francia si è particolarmente distinta nel suo tentativo di sostenere un ciclo di summit di leader regionali in Iraq, il primo dei quali si è tenuto a Baghdad nell’agosto del 2021, sfortunatemente in modo prettamente unilaterale.
  Sicuramente, può essere fatto di più per inquadrare questo sostegno nel contesto di un’azione europea, o di un gruppo di lavoro composto da Stati interessati a specifiche tematiche. Tale unilateralismo francese potrebbe incoraggiare il nuovo governo italiano a rispondere con altrettanto unilateralismo, scatenando un circolo vizioso in cui le politiche degli Stati membri si neutralizzerebbero a vicenda invece di sommarsi in un fronte comune. Gli Stati europei dovrebbero inoltre offrire sostegno continuativo alle cariche europee impegnate nei negoziati sul nucleare iraniano, nell’evitare l’inasprimento del conflitto tra attori regionali, e in appoggio ai processi diplomatici in corso come quello tra Iran e Arabia Saudita e per la tregua in Yemen.
  La sfida più grande rimane quella di formulare una politica che vada al di là delle necessità securitarie e energetiche dei singoli paesi membri, capace di costruire una relazione con le società di questa regione che guardi oltre gli interessi che legano i paesi europei alle leadership dei loro stati. Un’Europa frammentata in interessi nazionali rischia di offrire agli attori regionali di un Medio Oriente in fase di assestamento l’occasione di approfondire ulteriormente le divisioni, e nelle capitali mediorientali finisce per rafforzare (a buon diritto) la lettura identitaria e coloniale della politica, togliendo sostanza e forza al concetto di multilateralismo e di Europa.

(Affari Internazionali, 26 ottobre 2022)

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La datazione geomagnetica dà prova dei racconti biblici sulle guerre conto i regni di Giuda e Israele

di Ilaria Ester Ramazzotti

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La geofisica al servizio dell’archeologia. Una ricerca scientifica condotta in Israele con un nuovo strumento di datazione geomagnetica conferma i racconti biblici sulle campagne militari contro i regni di Giuda e Israele. Si tratta di uno studio congiunto dell’Università di Tel Aviv e dell’Università Ebraica di Gerusalemme e che ha coinvolto venti ricercatori di diversi paesi ricostruendo il campo magnetico terrestre registrato nei resti bruciati in diciassette siti archeologici israeliani. Lo riporta il Jerusalem Post.
  La ricerca interdisciplinare è stata pubblicata il 24 ottobre sulla rivista scientifica PNAS (Proceedings of the [US] National Academy of Sciences) e si basa sulla tesi di dottorato del professore Yoav Vaknin, supervisionata dai professori Erez Ben-Yosef e Oded Lipschits dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Tel Aviv e Ron Shaar dell’Istituto di Scienze della Terra dell’Università Ebraica di Gerusalemme.
  “Sulla base della somiglianza o della differenza di intensità e direzione del campo magnetico, possiamo corroborare o smentire ipotesi che affermano che specifici luoghi sono stati bruciati nel corso della stessa campagna militare – ha spiegato Yoav Vaknin, dottorando dell’Università Ebraica -. Inoltre, abbiamo costruito una curva di variazione dell’intensità del campo nel tempo che può servire come strumento di datazione scientifica, simile al metodo di datazione al radiocarbonio”.
  I risultati mostrano che la narrazione nella Bibbia ebraica delle campagne militari di egiziani, aramei, assiri e babilonesi è effettivamente corretta. Un esempio della ricerca mostra che i babilonesi non furono gli unici responsabili della sconfitta del regno di Giuda, visto che alcuni luoghi nel Negev sopravvissero fino a diversi decenni dopo, quando furono probabilmente distrutti dagli edomiti.
  “Il nuovo strumento di datazione è unico perché si basa su dati geomagnetici provenienti dai siti, le cui date esatte di distruzione sono note da fonti storiche – ha affermato Oded Lipschits dell’Istituto di archeologia dell’Università di Tel Aviv -. Combinando informazioni storiche precise con una ricerca archeologica avanzata e completa, siamo stati in grado di basare il metodo magnetico su una cronologia ancorata in modo affidabile”.
  Ron Shaar, che ha guidato gli aspetti geofisici dello studio, nonché lo sviluppo del metodo di datazione geomagnetica, ha detto riportato dal Jerusalem Post che: “Il campo magnetico terrestre è fondamentale per la nostra esistenza. La maggior parte delle persone non si rende conto che senza di essa non potrebbe esserci vita sulla Terra poiché ci protegge dalle radiazioni cosmiche e dal vento solare”.
  “Inoltre, sia gli esseri umani che gli animali lo usano per orientarsi. Il campo geomagnetico è generato dal nucleo esterno della Terra, a una profondità di 2.900 chilometri, da correnti di ferro liquido. A causa del movimento caotico di questo ferro, il campo magnetico cambia nel tempo. Fino a poco tempo, gli scienziati credevano che rimanesse abbastanza stabile per decenni, ma la ricerca archeo-magnetica ha contraddetto questa ipotesi rivelando alcuni cambiamenti estremi e imprevedibili nell’antichità”.
  “La nostra posizione qui in Israele è particolarmente favorevole alla ricerca archeo-magnetica” a causa “dell’abbondanza di reperti archeologici ben datati. Negli ultimi dieci anni abbiamo ricostruito i campi magnetici registrati da centinaia di reperti archeologici. Combinando questo set di dati con i dati dell’indagine di Yoav Vaknin sugli strati storici di distruzione, siamo stati in grado di formare una curva di variazione continua che mostra cambiamenti rapidi e bruschi nel campo geomagnetico – ha concluso Shaar -. Questa è una notizia meravigliosa, sia per gli archeologi che ora possono utilizzare i dati geomagnetici per determinare l’età dei materiali antichi, sia per i geofisici che studiano il nucleo terrestre”.

(Bet Magazine Mosaico, 26 ottobre 2022)

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Campionessa di ciclismo in fuga dall’Afghanistan correrà per una squadra israeliana

Fariba Hashimi
Una squadra di ciclismo israeliana ha annunciato lunedì di aver reclutato l’atleta afghana in esilio Fariba Hashimi, il giorno dopo aver vinto il suo campionato nazionale, tenutosi in Svizzera da quando l’evento sportivo femminile è stato bandito dai talebani al potere. Lo riporta il Times of Israel.
  Hashimi, 19 anni, e sua sorella Yulduz, 22 anni – che si è classificata al secondo posto nell’evento – sono fuggite dall’Afghanistan pochi giorni prima che i talebani ultraconservatori entrassero a Kabul l’anno scorso e prendessero il controllo del paese, attuando una repressione dei diritti delle donne.
  Ora, mentre si sta costruendo una nuova vita in Italia, Fariba Hashimi ha accettato l’invito a unirsi alla squadra del Women’s WorldTour Israel – Premier Tech Roland, estesa dal proprietario della squadra Sylvan Adams, secondo una dichiarazione a nome della squadra.
  La dichiarazione affermava che anche Yulduz si unirà alla squadra il prossimo anno, “con l’annuncio di una squadra continentale U23 in lavorazione”.
  “Stiamo facendo la storia qui mentre queste due donne coraggiose diventano le prime del loro paese a raggiungere questo livello di questo sport”, ha detto Adams. “Fa parte del nostro impegno aiutare i giovani ciclisti di tutto il mondo, dai paesi in via di sviluppo alle zone di guerra”.
  “Non posso mentire: è così eccitante ma è anche una pressione”, ha detto Fariba Hashimi. “Onestamente, non pensavo che avrei avuto questa opportunità di correre per una squadra del WorldTour e la possibilità di correre al Tour de France.
  “Affronterò la sfida a testa alta e gareggerò per tutte le donne in Afghanistan. Il mio paese oggi è pericoloso per molte delle donne che ci vivono. Le donne non sono libere di vivere e prosperare come desiderano, ma se mi vedranno guidare nel TDF con i colori afgani vedranno che tutto è possibile”.
  Adams, un filantropo israelo-canadese, è stato coinvolto negli sforzi per salvare gli afgani dopo l’acquisizione del potere dei talebani lo scorso agosto.

(Bet Magazine Mosaico, 25 ottobre 2022)

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Blinken a Herzog, 'preoccupazione per Cisgiordania, urgente de-escalation'

WASHINGTON - Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha manifestato al presidente israeliano, Isaac Herzog, la "preoccupazione" degli Stati Uniti per "l'attuale inasprimento delle tensioni, la violenza e la perdita di vite israeliane e palestinesi in Cisgiordania". Blinken, ha fatto sapere il Dipartimento di Stato dopo un incontro tra i due a Washington, ha sottolineato "la necessità che tutte le parti si adoperino con urgenza per una de-escalation".
  Blinken e Herzog - ha precisato il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price - hanno parlato delle "opportunità di espandere e rafforzare le relazioni di Israele con i Paesi arabi" e delle "preoccupazioni di sicurezza condivise" come "la guerra di aggressione della Russia in Ucraina" e "l'influenza malvagia dell'Iran nella regione".
  Herzog, che ha poi incontrato la presidente della Camera Usa Nancy Pelosi, ha precisato di aver parlato con Blinken della "realtà in evoluzione in Medio Oriente, di normalizzazione e dell'aggiunta di altri Paesi al cerchio della pace regionale", sottolineando come gli Usa siano "un attore importante nella nostra regione".

(Adnkronos, 26 ottobre 2022)

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La preghiera dei rabbini del mondo davanti all’Arco di Tito

di David Di Segni

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La preghiera è quella di ogni pomeriggio, minchà. Il luogo è assai diverso dalla consueta sinagoga in cui si svolge la funzione: questo pomeriggio, infatti, rabbini di diverse nazionalità, si sono riuniti assieme alla Comunità di Sant'Egidio davanti all'Arco di Tito. Questo monumento, collocato nei pressi del Colosseo, rappresenta un luogo dalla forte simbologia: evoca infatti la deportazione degli ebrei da Gerusalemme a Roma nel 70 dopo l’era volgare per opera del generale Tito, futuro imperatore. Un evento che segnò la distruzione del Bet Ha Mikdash, il Santuario di Gerusalemme, e l’inizio della diaspora.
  L’ultima volta che gli ebrei romani pregarono vicino all’Arco di Tito era il dicembre 1947, sotto la guida del Rabbino capo David Prato, in occasione della risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU che sanciva la ripartizione della Palestina sotto mandato britannico tra uno stato ebraico e uno arabo, aprendo così la strada alla nascita dello Stato d’Israele. Una rivalsa dopo quasi duemila anni dalla deportazione. Questa volta l’occasione è diversa, ma altrettanto importante.
  "Oggi siamo qui e portiamo segni di vitalità, riuscendo a capovolgere il senso di questo luogo e della storia. Siamo in un’epoca di rinnovamento per correggere i mali del passato" ha affermato il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni.
  "Questo luogo rappresenta guerra, distruzione, schiavitù. Siamo qui a pregare per la pace, assieme alla Comunità Ebraica di Roma - ha commentato il vescovo Ambrogio Spreafico - Da qui parte un messaggio dagli uomini e le donne che operano e sperano nella pace".

(Shalom, 25 ottobre 2022)

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Israele ha consegnato all'Ucraina i sistemi SmartShooter progettati per distruggere i droni

Israele ha trasferito in Ucraina sistemi avanzati per combattere droni e obiettivi a terra.

Nonostante Israele abbia ufficialmente annunciato che non trasferirà le sue armi in Ucraina, si è saputo che in realtà l'esercito israeliano ha già fornito all'Ucraina un gran numero di sistemi SmartShooter abbastanza innovativi. Questi ultimi sono progettati per distruggere bersagli terrestri non protetti (veicoli non corazzati, manodopera, ecc.), nonché per distruggere i droni, che sono di gran lunga il problema più grande per Kiev.
L'uso del sistema israeliano SmartShooter in Ucraina è stato registrato la scorsa settimana, tuttavia inizialmente si presumeva che si stesse parlando di un dispositivo improvvisato per sparare a bersagli a terra. Tuttavia, fonti israeliane hanno confermato il fatto che si tratta del sistema israeliano, trasferito all'esercito ucraino.

"SmartShooter è un sistema israeliano che funziona secondo il principio "un colpo - un bersaglio". Il sistema è controllato dall'intelligenza artificiale e da un sistema di sensori avanzati. Gli sviluppatori israeliani del sistema sono orgogliosi del fatto che il sistema colpisce con precisione l'obiettivo e non ci sono situazioni in cui viene commesso un errore. Il sistema è stato presentato per la prima volta nel 2022 in una mostra militare a Parigi ed è stato attivato per la prima volta nel settembre 2022 dall'IDF a Hebron per aiutare a disperdere le proteste palestinesi. All'epoca, il sistema utilizzava palline di spugna anziché munizioni vere. Anche allora, questo sistema è stato presentato come in grado di colpire i droni. La descrizione del funzionamento del sistema afferma che è in grado di colpire con precisione i droni e che il sistema è in grado di funzionare come un drone intercettore, nonché in vari ruoli aggiuntivi come il combattimento nelle aree urbane, il pattugliamento e la protezione delle frontiere. Il mirino SmartShooter è in grado di colpire con precisione i droni e la soluzione integrata può fungere da dispositivo tattico per intercettare gli UAV sul campo di battaglia.


(AVI.PRO, 25 ottobre 2022)

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Francia, laboratorio del nuovo antisemitismo: come uscirne (o almeno provarci)

Trasmettere i valori positivi dell’ebraismo è l’unica sfida per un futuro che sia vitale. Ma anche rafforzare il dialogo con società e istituzioni per contrastare i pregiudizi e favorire un’educazione alla convivenza. Perché, malgrado i truci episodi di cronaca, l’identità ebraica non si deve ridurre alla sola lotta contro l’antisemitismo. Tra speranze e disillusioni: intervista a Yonathan Arfi, neo-presidente del CRIF francese

di Ilaria Myr

“Il vostro professore, sporco ebreo, deve smettere di fare il furbo. Gli faremo un Samuel Paty a lui e a suo padre, il vecchio rabbino sionista. Non vogliamo ebrei nelle scuole superiori. Rimani nelle tue sinagoghe. Ci prenderemo cura di lui quando lascerà il liceo”. Questo è il contenuto di una lettera anonima consegnata a una scuola nella regione francese dell’Essonne, a pochi giorni dal secondo anniversario dell’assassinio brutale di Samuel Paty (l’insegnante decapitato a Conflans, vicino a Parigi, 16 ottobre 2020 dopo aver mostrato in classe le caricature di Maometto ai suoi studenti). Minacce chiare, brutali, che hanno costretto a mettere l’insegnante di 30 anni sotto protezione della polizia con agenti fissi davanti a casa sua e all’istituto dove insegna.
  È solo l’ultimo in ordine di tempo di una serie di attacchi antisemiti che ormai, da 20 anni a questa parte, racconta un odio antiebraico diffuso e capillare nel Paese dei Lumi, che purtroppo, per chi come noi, guarda dall’esterno, sembra ormai triste attualità, ma che per gli ebrei che vi abitano è invece un avvelenamento costante delle vite. I dati, del resto, parlano chiaro: nel 2021, secondo l’Ifop, sono stati registrati 589 atti antisemiti, con un aumento di quasi il 75% rispetto al 2020.
  Eppure, nonostante ciò, la comunità ebraica francese rimane la più grande d’Europa, con quasi 500.000 membri. Certo, in molti hanno lasciato la Francia per Israele, soprattutto dopo la stagione degli attentati del 2015 a Charlie Hebdo e all’Hyper Cacher spinti dalla paura dell’antisemitismo – si conta che sui quasi 300.000 ebrei francesi che vivono ora in Israele, circa 30.000 sono emigrati negli ultimi 10 anni – ma da allora i numeri si sono molto ridotti: dagli anni di Charlie, la media annuale è stata di circa 2.000-3.000 persone all’anno, con un aumento a 3.500 l’anno scorso. E poi non pochi sono ritornati in Francia, per difficoltà principalmente lavorative e culturali. Mantenere viva e attiva la comunità ebraica francese, nonostante le difficoltà – primo fra tutti un antisemitismo diffuso – è il primo obiettivo del CRIF, l’organo che rappresenta le organizzazioni ebraiche in Francia, che da giugno ha un nuovo presidente, Yonathan Arfi, 42 anni. Insediato da poco, in occasione dei vent’anni dall’attentato in un ristorante ebraico in Rue des Rosiers, ha portato il CRIF sotto i riflettori per avere chiesto pubblicamente al presidente Macron di fare tutto il possibile per fare giustizia su questo fatto, rimasto ad oggi impunito.

- Quali sono a suo avviso le principali sfide che l’ebraismo francese deve affrontare?
  Una delle prime sfide è di non ridurre l’identità ebraica alla lotta contro l’antisemitismo: essere ebrei non è essere “anti-antisemiti”, ma è invece far parte di un progetto positivo con dei valori che condividiamo nella società francese e che ci permettono di partecipare al dialogo con la collettività. Siamo dei francesi come gli altri, con una particolarità in più: la nostra identità ebraica, con la quale contribuiamo all’interesse generale.
  Una criticità che ci troviamo ad affrontare è che, quando ci sono atti antisemiti, la tentazione è di concentrare il nostro impegno nella lotta contro questi fatti. Ma così facendo si svuota l’ebraismo della sua sostanza e rischiamo di non avere nel futuro più niente da trasmettere alle nuove generazioni.
  Dobbiamo invece trovare gli strumenti per comunicare un ebraismo positivo e per parlare della sua storia e del suo spessore politico: in Francia l’ebraismo è vivo da 2000 anni, gli ebrei sono cittadini francesi dal 1791, abbiamo una storia in tutti gli ambiti e quindi per noi è importante riaffermare il nostro contributo positivo alla storia della Francia, malgrado l’antisemitismo.
  Una seconda sfida, altrettanto importante, è costruire una rete di alleanze nella società, di trovare cioè degli attori pronti a essere coinvolti al nostro fianco sul tema dell’antisemitismo, perché sappiamo che non risolveremo l’odio antiebraico senza il coinvolgimento degli altri francesi.
  Abbiamo bisogno che la società nel suo insieme abbia una maggiore consapevolezza di questo argomento.

- Quali sono i suoi obiettivi principali?
  Lo scopo del Crif è di migliorare la vita degli ebrei francesi, quindi ci battiamo perché essa sia più semplice e armoniosa. Il nostro impegno passa dalla lotta contro l’antisemitismo alla difesa della memoria della Shoah, dal miglioramento della convivenza con gli altri cittadini alla lotta contro l’antisionismo e l’odio contro Israele.
  Fra i punti prioritari per i mesi che vengono c’è un asse per me fondamentale: l’educazione. Mi rendo sempre più conto che abbiamo bisogno di lavorare con gli insegnanti e con le associazioni dei genitori perché ci sia una migliore sensibilizzazione nei confronti della storia degli ebrei da un lato e della lotta contro l’antisemitismo dall’altro.
  Sul piano strategico, inoltre, penso che, pur continuando il lavoro di collaborazione con le istituzioni, si debba investire di più sulla relazione con i diversi attori della società francese. Per questo a fine agosto abbiamo lanciato sul nostro sito le Interviste Crif, che due volte alla settimana danno la parola a diverse personalità che vanno ad arricchire il dibattito civico attorno a temi essenziali.

- La Francia sembra essere trascinata da 20 anni in una spirale di antisemitismo sempre crescente. E che le istituzioni facciano fatica a riconoscere la matrice antisemita dei gravi episodi di violenza…
  La Francia è stata il laboratorio di un nuovo antisemitismo, che ha colpito dagli anni 2000 in Europa occidentale in nome dell’islamismo, dell’odio nei confronti di Israele e del complottismo: tutti, questi, nuovi volti dell’antisemitismo. E la Francia è il paese in cui questo fenomeno ha colpito più presto e in maniera più forte rispetto agli altri: pensiamo all’assassinio di Ilan Halimi, nel 2006, all’attacco alla scuola ebraica di Tolosa, nel 2012, e a quello all’Hyper Cacher, nel 2015. E poi all’assassinio di Sarah Halimi e Mireille Knoll: tutti casi che hanno fatto della Francia un caso particolare, ma in realtà le dinamiche sono le stesse in tutto il resto dell’Europa, e oggi anche negli Stati Uniti, dove si assiste a una crescita importante di atti antisemiti.
  Sicuramente è stato difficile inizialmente fare capire che gli atti antisemiti non facevano parte della violenza ordinaria, che bruciare un palazzo qualsiasi o una sinagoga non fosse la stessa cosa: fin dal principio degli anni 2000 ci siamo quindi battuti per fare capire che a monte c’era invece un sentimento di odio nei confronti degli ebrei.
  Oggi la difficoltà maggiore è trasmettere il carattere antisemita nei casi di episodi di odio contro Israele, che nutrono l’antisemitismo.

- Nell’ultimo decennio molti ebrei francesi hanno lasciato la Francia per Israele a causa dell’antisemitismo. Cosa può fare il Crif per fermare questa tendenza? O la Francia è destinata a restare senza ebrei?
  La decisione di vivere in Israele è una scelta individuale e quindi l’obiettivo è di fare in modo che le persone facciano la loro scelta nella maniera più serena possibile, senza dovere partire per paura. Certo, è indubbio che molta gente sia partita per Israele a causa dell’antisemitismo e perché vede in Israele una lotta comune contro questo fenomeno, che invece da noi non c’è. Ma penso fermamente che la comunità ebraica in Francia abbia un futuro e che sarà sempre una comunità forte. Continuare a dare un messaggio positivo contribuirà a costruire un domani per gli ebrei.

(Bet Magazine Mosaico, 25 ottobre 2022)

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Milano - Milena Vukotic al Parenti: «Venite a spasso con una risata vi porterò oltre ai pregiudizi»

di Ferruccio Gattuso

Milena Vukotic
Due occhi grandi spalancati sul mondo: è anche con questa caratteristica che Milena Vukotic si è fatta conoscere dal pubblico (di teatro, cinema e tv) diventando una sorta di icona. Attrice per registi come Fellini, Scola, Strehler ma anche per Paolo Villaggio, che le fece incarnare il personaggio (mai rinnegato, anzi) della moglie di Fantozzi, Pina. L’attrice ora veste il volto memorabile dell’anziana protagonista di A spasso con Daisy, di Alfred Uhry (Pulitzer 1988, film nel 1989 con pioggia di Oscar e protagonista Jessyca Tandy), regia di Guglielmo Ferro, da questa sera al Parenti.

- Cosa l’ha conquistata di questo ruolo?
  «L’umorismo atavico da donna ebrea che si porta dentro: quella capacità di saper ridere del mondo e di sé ma con profondità. Gli ebrei sono maestri di spirito, ma conservano sempre, in sottofondo, un messaggio. È una commedia leggera ma con il cuore profondo, densa di significati».

- Quali?
  «Si parla di razzismo e pregiudizi, di rapporti tra genitori anziani e figli, del tempo che scorre. Daisy viene raccontata dai 72 ai 90 anni di età: sulle prime non accetta l’autista nero che le viene imposto dal figlio, alla fine della sua esistenza dirà a quell’uomo: tu sei il mio migliore amico».

- Come si rende in scena una storia che tratta di spostamento fisico (in auto) e temporale?
  «Non va dimenticato che è nata per il teatro. Le scene di Fabiana Di Marco si dividono tra un salotto di casa borghese e una pedana che evoca l’abitacolo di un’automobile».

- Lo spettacolo sta piacendo al pubblico.
  «Ogni sera percepisco un grande entusiasmo negli spettatori. Questa è una storia che mostra come la vita riservi sorprese fino all’ultimo. Nel post-pandemia vedo che la gente ha tanta voglia di storie come queste».

- Quale è il suo rapporto con Milano?
  «Milano negli anni non è mai cambiata nella sua natura: sempre attiva, piena di energia. E, naturalmente, mi ricorda Giorgio Strehler».

(Leggo, 25 ottobre 2022)

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"There was a time...”: a Londra in mostra gli scatti delle famiglie ebraiche prima del 1939

di Michelle Zarfati

“Per ricordare giorni felici, che poi sono stati più felici”, si legge sul retro di una fotografia che raffigura una squadra di nuoto ebraica, scattata pochi istanti dopo la sua vittoria in un campionato. L'immagine, databile fine anni ’20, appartiene a Hubert Nassau e ritrae il team viennese di Hakoah. Il messaggio scritto dietro la foto venne inviato originariamente a Fritz Lichtenstein sette anni dopo la sconfitta del Terzo Reich. Come Lichtenstein, Nassau riuscì a sfuggire al progetto nazista di annientare gli ebrei europei, emigrando in Gran Bretagna alcuni mesi dopo l'Anschluss. La foto di Nassau - e una altrettanto sorprendente della sua futura moglie, la collega ebrea rifugiata Lisette Pollak, che dimostra la sua abilità ginnica negli anni '30 - sono alcuni dei pezzi pregiati della nuova suggestiva mostra "There was a time...': Jewish Family Photographs Before 1939", in esposizione alla Wiener Holocaust Library di Londra.
  La mostra attinge dall'archivio di Wiener che raccoglie oltre 700 faldoni di documenti di famiglia, la più grande collezione relativa ai rifugiati ebrei dall'Europa nazista nel Regno Unito. Donato negli anni dai profughi ebrei e dalle loro famiglie, il tesoro comprende vaste raccolte di fotografie: ritratti, istantanee e album. “Fotografie come queste sono troppo spesso trascurate o utilizzate come illustrazioni per altri materiali piuttosto che considerate seriamente come documenti e opere artistiche importanti. Questa mostra mira a cambiare questo modo di pensare" ha spiegato Helen Lewandowski, assistente curatrice della biblioteca. “Sono rimasta affascinata dai diversi modi in cui gli scatti quotidiani siano stati utilizzati per modellare l'identità, affermare il libero arbitrio e l'appartenenza ma soprattutto facilitare la memoria per le famiglie ebraiche”.
  Naturalmente, non mancano immagini estremamente commoventi, specialmente per le storie che celano al loro interno. Un elegante ritratto mostra Dorothea Jacoby in una foto scattata probabilmente nel 1911 da suo marito, Ludwig poco dopo il loro matrimonio. La coppia ebbe due figli: Henny e Hans-Bernd. Mentre Henny riuscì a fuggire in Gran Bretagna nel 1938, Dorothea, suo marito e suo figlio furono deportati ad Auschwitz nel 1943 e successivamente assassinati. Una didascalia non datata sul retro della fotografia, che potrebbe essere stata scritta da Henny, dice semplicemente "Es war einmal", traducibile come "C'era una volta" e usato prevalentemente per narrare l’inizio di una fiaba. Il titolo della mostra adotta una traduzione più letterale e ambivalente traducibile come "C'era un tempo".
  C’è poi la storia della famiglia di Ludwig Liebermann che fu più fortunata di quella di Jacoby. Dopo aver prestato servizio nella Prima guerra mondiale, Liebermann ottenne un dottorato in chimica e lavorò in varie aziende industriali in Germania e all'estero. Ma nel 1936, sei anni dopo il suo matrimonio con Susan Friedmann, Liebermann fu avvertito dal suo manager che, poiché l'azienda non sarebbe più stata in grado di proteggere un dipendente ebreo, non sarebbe dovuto tornare dal suo prossimo viaggio di lavoro all'estero. L'anno successivo, Susan e i suoi figli lo raggiunsero in Gran Bretagna. Dopo la loro naturalizzazione nel 1947, Susanne e Ludwig Liebermann decisero di anglicizzare i loro nomi in Susan e Louis Linton. Le immagini raccolte da Liebermann per i suoi due figli, Eva e Albert, coprono il periodo dal 1890 al 1970, anche se molte sono dal 1905 al 1906 e catturano l'infanzia di Ludwig a Berlino. Altri lo mostrano giovane fuori dall'esercito ma ancora in divisa, con la madre sulla loro barca nel 1919, studente all'Università di Berlino, e nel suo primo impiego come ricercatore chimico. Altri ancora, presi nel decennio precedente al 1937, mostrano Liebermann come un orgoglioso giovane padre. Ma c'è anche un agghiacciante assaggio di ciò che accadrà: una foto lo cattura in piedi accanto a un poster elettorale nazista da cui il volto di Hitler osserva la scena con sguardo minaccioso. Prima della sua morte nel 1980, Liebermann aveva scritto minuziosamente le didascalie su tutti i suoi scatti.
  Sebbene non sia stato semplice ricostruire le storie specialmente di coloro le cui informazioni si sono perse nel tempo, i curatori della mostra non si sono arresi riuscendo a ricostruire le storie dei personaggi nelle fotografie.
  Sono moltissimi volti e le storie che si celano dietro l’esposizione, ma anche la triste consapevolezza che molte delle persone ritratte nella mostra non sono riuscite ad uscire indenni dall’enorme tragedia che colpì gli ebrei europei durante la Shoah. Tuttavia, quegli scatti rubati durante i momenti felici che precedettero gli eventi sconvolgenti del nazismo fermano il tempo e catturano i ricordi felici in un fermo immagine, almeno per l’illusione di un momento in cui tutto sembra eterno.

(Shalom, 25 ottobre 2022)

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Opposti estremismi: l'antisionismo ebraico in Italia, tra marxismo e fascismo

Ebrei contro Israele: una panoramica, da fine '800 a oggi.

di Nathan Greppi

''Due ebrei, tre opinioni: questo detto la dice lunga su quanto le comunità ebraiche, lungi dall'essere entità monolitiche, da sempre ospitano al loro interno idee e correnti di pensiero politiche e religiose diametralmente opposte tra loro, che possono arrivare anche a scontri molto accesi. Ciò si vede anche nell'appoggio dato dagli ebrei della diaspora all'esistenza d'Israele che, seppur condiviso dalla stragrande maggioranza, in rari casi viene invece osteggiato.
  Per quanto riguarda l'ebraismo italiano, questo fenomeno presenta delle peculiarità: a differenza di quanto avviene in Israele o negli Stati Uniti, da noi i gruppi ortodossi e chassidici che si oppongono a Israele per motivi religiosi, come i Satmar e i Neturei Karta, sono quasi completamente assenti. In compenso, oltre ai casi di ebrei di estrema sinistra che avversano Israele per ragioni politiche, in Italia in passato erano presenti dei loro equivalenti anche nell'estrema destra.

• PERIODO PRE-INDIPENDENZA
  Quando il sionismo nacque, alla fine dell'800, nei primi tempi ricevette una tiepida accoglienza da parte degli ebrei italiani. Questi, a differenza delle loro controparti nell'Europa orientale, erano molto più integrati nel tessuto sociale del loro paese, ed erano meno esposti alla minaccia dell'antisemitismo. Per questo, fatta eccezione per alcuni intellettuali come Dante Lattes che esprimevano un interesse positivo per le idee di Theodor Herzl, almeno fino all'introduzione delle Leggi Razziali nel '38 la maggior parte di loro non sentiva il bisogno di uno Stato-nazione ebraico.
  In questo contesto, fu soprattutto durante il periodo fascista precedente al 1938 che alcuni ebrei italiani si distinsero per un'ostilità feroce nei confronti del movimento sionista: questo perché molti di loro erano essi stessi fascisti, e in quanto tali cercavano di dimostrare una fedeltà assoluta allo Stato italiano. Tra i loro esponenti di spicco vi era il banchiere torinese Ettore Ovazza (tra l'altro zio del giornalista Alain Elkann, che gli ha dedicato il suo romanzo del 1985 Piazza Carignano ), che nel 1934 fondò la rivista La Nostra Bandiera, che inveiva pesantemente contro i sionisti e gli ebrei che non erano abbastanza leali verso il regime. La testata venne chiusa con l'avvento delle Leggi Razziali e Ovazza, pur avendo cercato fino all'ultimo di mostrarsi fedele a Mussolini, nel 1943 venne ucciso dalle SS assieme alla moglie e ai figli, a Intra.

• DOPOGUERRA E CONFLITTI ARABO-ISRAELIANI
  Dopo il 1948, e in particolare dopo la Guerra dei sei giorni, se l'antisionismo ebraico di matrice fascista era definitivamente scomparso, quello successivo si è basato principalmente sul modo in cui il conflitto tra Israele e i palestinesi veniva visto e interpretato da comunisti e socialisti.
  Un ambito che da sempre, seppur schierato prevalentemente dalla parte d'Israele, ospita a più riprese anche eccezioni, è quello dei movimenti giovanili: già negli anni '50, sulla rivista ufficiale HaTikwa dell'allora FGEI (Federazione Giovanile Ebraica d'Italia, ribattezzata UGEI nel 1995) era possibile imbattersi occasionalmente in firme di estrema sinistra che prendevano le parti degli arabi, che nel corso del tempo sono diminuite fino a scomparire.
  È in seno alla FGEI che nel 1955venne fondato il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (oggi Fondazione CDEC). Lo storico Guido Valabrega, che fu segretario del CDEC dal 1959 al 1963 ed è scomparso nel 2000, a partire dal '67 divenne un acceso oppositore d'Israele, nonostante il suo passato di sostenitore del partito socialista israeliano Mapam. Membro in Italia prima del PCI e in seguito di Rifondazione Comunista, scrisse diversi saggi di storia del Medio Oriente da una prospettiva antisionista e filopalestinese. Non sono mancati casi analoghi neanche negli anni '80 quando, dopo i massacri di Sabra e Chatila, la scrittrice Natalia Ginzburg pubblicò sull'Unità numerosi editoriali contro le politiche israeliane. Proprio nel 1982, durante la Guerra in Libano, diversi ebrei firmarono un manifesto intitolato Perché Israele si ritiri, che riportava come prima firma quella di Primo Levi, e tra le altre anche quella della giornalista Fiamma Nirenstein. Tuttavia, dopo l'attentato alla Sinagoga di Roma il 9 ottobre di quell'anno, diversi ebrei di sinistra come le già citate Ginzburg e Nirenstein (quest'ultima anni dopo passò dalla parte del centrodestra di Berlusconi) fecero marcia indietro, schierandosi con Israele e le loro comunità contro i loro detrattori.

• ULTIMO VENTENNIO
  Anche dopo la fine della Guerra Fredda e la sconfitta del comunismo, non sono mancati casi di ebrei legati a quell'area politica che hanno preso posizione contro Israele, sempre da una prospettiva terzomondista e antioccidentale: il caso più famoso è quello dell'attore teatrale Moni Ovadia, che nel 2013 lasciò la Comunità Ebraica di Milano in polemica con il sostegno a Israele della maggioranza dei suoi membri. Intervenendo spesso anche nei talk show televisivi, Ovadia è diventato uno dei portavoce in Italia dei movimenti filopalestinesi e del BDS, prendendo parte a diverse iniziative per boicottare Israele.
  Anche tra i rappresentanti dei partiti eredi del PCI e della sinistra extraparlamentare non mancano casi simili: Barbara Spinelli, giornalista e già eurodeputata dal 2014 al 2019 per la coalizione "LAltra Europa con Tsipras", pur essendo di madre ebrea già nei primi anni 2000 attaccava Israele sulle pagine de La Stampa, dove nel gennaio 2005 scriveva che l'antisemitismo contro gli ebrei della
  diaspora era stato dilatato dalle "condotte coloniali dello Stato Ebraico". Mentre nel gennaio 2020, su Il Fatto Quotidiano, paragonava Israele all'Apartheid in Sudafrica e i palestinesi ai nativi americani nelle riserve. Mentre nei paesi anglosassoni i gruppi ebraici antisraeliani sono molto attivi, in Italia l'unico degno di nota è la Rete ECO (Ebrei contro l'occupazione), fondata nel 2001 e vicina al BDS. In alcuni casi hanno anche giustificato attacchi contro le comunità ebraiche italiane: lo fecero dopo il luglio 2014, quando due ragazzi affissero uno striscione sulla cancellata della Sinagoga di Vercelli con scritto "Stop bombing Gaza, Free Palestine, Israele assassino". In tale occasione, la Rete ECO giustificò il gesto dei due, esultando quando nel maggio 2017 vennero assolti dall'accusa di istigazione all'odio razziale. Tra i loro affiliati vi erano alcuni dei 350 accademici che, nel 2016, firmarono una petizione contro gli scambi tra le università italiane e il Technion di Haifa.
  Parallelamente a questi casi, se ne può citare almeno uno in cui l'ostilità nei confronti d'Israele sconfina in quello che il filosofo tedesco Theodor Lessing definiva "ebreo che odia se stesso": il giornalista Massimo Fini, in passato firma importante di quotidiani come Il Giorno e oggi editorialista de Il Fatto Quotidiano. Nonostante sia figlio di un'ebrea russa, Fini, per il quale destra e sinistra non esistono più, ha spesso attaccato non solo Israele ma anche l'ebraismo, affermando in un articolo del 2005 sul giornale veneziano Il Gazzettino che "non mi sento ebreo [ ... ] perché vedo nel monoteismo la radice dell'intolleranza e del totalitarismo. Ancor meno mi piace che un popolo si consideri 'eletto da Dio' perché vi trovo, in nuce, le radici di quel razzismo di cui poi proprio gli ebrei sarebbero stati così atrocemente vittime". Un anno dopo, intervistato dal quotidiano leghista La Padania, attribuiva a Israele il rifiuto di dialogare con Hamas.
  È chiaro che l'ostilità verso Israele e il sionismo da parte di ebrei riguarda principalmente chi si colloca agli estremi dello spettro politico, soprattutto a sinistra ma a volte anche a destra. Comunisti e fascisti, terzomondisti e nazionalisti, sempre schierati dalla parte sbagliata della storia. In un certo senso, questo fenomeno ha anticipato il modo in cui la guerra in Ucraina è stata recepita in Italia, dove posizioni filorusse e anti-NATO sono state espresse sia a destra che a sinistra.
  Non a caso Moni Ovadia, ospite ai primi di maggio ad un evento di Michele Santoro, dipinse l'Ucraina come un paese nazista citando come riferimento la giornalista americana Lara Logan, vicina alla destra radicale e licenziata da Fox News per le sue esternazioni antisemite: a marzo diceva che Charles Darwin era stato pagato dalla famiglia di banchieri ebrei Rothschild per inventare la teoria dell'evoluzione. Mentre nel novembre 2021, paragonò l'immunologo americano Anthony Fauci allo scienziato nazista Josef Mengele. Questo è ciò che succede quando gli estremi si toccano.

(Bollettino Comunità Ebraica di Milano, ottobre 2022)

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Israele: Herzi Halevi sarà nuovo capo dell'esercito

Herzi Halevi
Il governo israeliano ha confermato che il generale Herzi Halevi, ex capo dell'intelligence militare del paese, sarà nominato capo militare delle Forze di difesa israeliane (IDF). L'attuale capo militare, il generale Aviv Kochavi, che terminerà il proprio mandato a gennaio, si è congratulato con Halevi, affermando di accogliere "con favore l'approvazione da parte del governo della nomina del generale Herzi Halevi a 23° capo di stato maggiore dell'Idf".
  "Herzi è un ufficiale eccellente ed esperto, e sono sicuro che continuerà a guidare l'Idf nelle sfide previste", ha aggiunto, prima di augurare al suo successore "grande successo" nel suo futuro professionale. Il ministro della Difesa Benny Gantz aveva proposto la nomina di Halevi all'inizio di settembre, sottolineando il bisogno di stabilità dell'Idf.

(Adnkronos, 24 ottobre 2022)

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Guerra in Ucraina: aumenta la pressione diplomatica su Israele

di Francesco Paolo La Bionda

Martedì 18 ottobre il governo ucraino ha inviato a Israele una richiesta ufficiale chiedendo di inviargli sistemi di difesa aerea, come l’Iron Dome, per proteggersi dalla pioggia di missili e droni di fabbricazione iraniana che la Russia sta riversando sulle infrastrutture ucraine, in particolare quelle energetiche. Nella missiva, l’Ucraina ha sottolineato che l’esperienza che gli iraniani stanno acquisendo con l’utilizzo sul campo delle loro armi gli permetterà di fare progressi nella loro fabbricazione, aumentando i rischi per lo Stato ebraico.
  Il giorno dopo, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha risposto pubblicamente annunciando che il paese non avrebbe fornito sistemi di armamento a Kiev, pur dicendosi disponibile a inviare invece sistemi di allerta missilistica, assieme ad altri dispositivi salva-vite. La decisione è arrivata dopo che il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitri Medvedev aveva avvertito che se Gerusalemme avesse fornito armi agli ucraini, le relazioni bilaterali con Mosca sarebbero state irrimediabilmente compromesse.

• Un difficile equilibrio diplomatico, fra Russia e occidente
  Fin dall’inizio del conflitto nell’Europa orientale, Israele si è trovata in una posizione difficile, dettata dalla necessità di mantenere relazioni funzionali sia con lo schieramento occidentale sia con i russi.
  La delicatezza del rapporto con Mosca non è dettata solo dalla presenza nello Stato ebraico di un milione di immigrati russofoni e dei loro discendenti, arrivati in massima parte dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, ma anche dallo schieramento militare russo in Siria, dove il Cremlino supporta il regime di Bashar al-Assad con migliaia di truppe.
  In particolare, a preoccupare Gerusalemme è la possibilità che la Russia utilizzi i suoi sistemi di difesa aerea per abbattere gli aerei militari israeliani che regolarmente colpiscono le milizie iraniane e quelle loro alleate, incluso Hezbollah, in territorio siriano. Nonostante anche Teheran sia alleata di Damasco, Mosca ha finora permesso a Israele di colpire i pasdaran senza intervenire, anzi coordinandosi con l’aviazione israeliana per evitare incidenti. Eventualità che se dovesse cambiare potrebbe consentire all’Iran di stabilire una presenza incontestata al confine stesso di Israele.
  Allo stesso tempo, i rapporti strettissimi con gli Stati Uniti e l’occidente hanno richiesto che Gerusalemme prendesse posizione almeno sulla carta. Così, già il 25 febbraio scorso, con l’Ucraina appena invasa, l’allora ministro degli Esteri israeliano Lapid aveva condannato formalmente le azioni di Mosca. Parole a cui hanno fatto seguito, ad aprile, le condanne per i crimini di guerra commessi dai russi e a 
  settembre quella per la mobilitazione dei riservisti.

• Mosca non risparmia le minacce
  Dal canto sua la Russia ha reagito a ogni mossa dello Stato ebraico in favore dell’Ucraina con minacce più o meno esplicite all’estero e soffiando sul fuoco dell’antisemitismo in patria. Così, dopo il pronunciamento di Lapid a febbraio, il Cremlino ha risposto condannando l’annessione delle alture del Golan da parte di Israele. Riferimento significativo dato che l’alleato siriano di Mosca rivendica ancora come suoi quei territori.
  Ma la Russia ha giocato anche la carta dell’antisemitismo, sia aumentando la retorica contro gli ebrei nei media filogovernativi sia con uscite sconvolgenti come quando a maggio il ministro degli Esteri Lavror, intervenuto durante una puntata di Zona Bianca su Rete4, rispolverò la vecchia teoria priva di fondamento delle radici ebraiche segrete di Hitler.
  Infine, Mosca usa come ostaggi gli ebrei russi, che a decine di migliaia si stanno già preparando a emigrare in Israele.  A luglio, sulla base di una nuova legge è stata ordinata la chiusura della filiale locale dell’Agenzia ebraica, l’ong che si occupa appunto dell’emigrazione ebraica in Israele. La vicenda è finita in tribunale e la serrata è stata per ora posticipata.

• La collaborazione russo-iraniana testa la pazienza israeliana
  La decisione di Mosca di rifornirsi di armi iraniane, sebbene inutilmente negata da Teheran, ha però messo alla prova la prudenza e la pazienza di Gerusalemme. A peggiorare il quadro dal punto di vista israeliano è la presenza, secondo fonti statunitensi, di addestratori iraniani in Crimea, dove avrebbero insegnato alle truppe russe a utilizzare i droni kamikaze da lanciare contro i bersagli ucraini.
  Il 20 ottobre l’attuale primo ministro israeliano Yair Lapid è intervenuto con decisione sul tema, dichiarando durante una conferenza stampa che la cooperazione tra Russia e Iran rappresenta un “serio problema non solo per Israele, ma anche per l’Ucraina, l’Europa e il mondo intero”.

• Parte di Israele e del mondo ebraico chiede una presa di posizione netta
  Non tutti in Israele, dove l’opinione pubblica è schierata in maggioranza a favore dell’Ucraina, e nelle comunità ebraiche si trovano d’accordo con l’equilibrismo diplomatico di Gerusalemme. Diverse personalità hanno pubblicamente chiesto una presa di posizione netta a favore dell’Ucraina e dell’Occidente, esponendo motivazioni sia morali sia strategiche.
  Il noto filosofo Bernard-Henri Lévy, ebreo francese, il 19 ottobre ha dichiarato che Israele dovrebbe supportare “incondizionatamente” l’Ucraina, dato che entrambi i paesi affrontano avversari, peraltro in combutta, che vogliono negarne la legittimità come nazione.
  Il giorno dopo in Israele invece, Alon Liel, che è stato direttore generale del ministero degli Esteri israeliano, ha definito quello dello Stato ebraico “un tradimento dell’Occidente”, aggiungendo che se il conflitto in Ucraina dovesse finire con una vittoria occidentale, la posizione di neutralità israeliana sarà ricordata negativamente.

(Bet Magazine Mosaico, 24 ottobre 2022)

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Siria, il ministero della Difesa israeliano: “Distrutte il 90 per cento delle infrastrutture iraniane”

Il 90 per cento delle infrastrutture militari iraniane in Siria risulta essere stato distrutto. Lo hanno affermato funzionari del ministero della Difesa israeliano, secondo cui Israele, negli ultimi anni, è riuscito a limitare “quasi completamente” la capacità dell’Iran di trasferire armi verso la Siria, fabbricare armi nei territori siriani e stabilire una base per le milizie fedeli a Teheran nel Paese, danneggiando anche le “rotte del contrabbando”.
  Secondo le stesse fonti, citate dal quotidiano “The Jerusalem Post”, anche il piano dell’ex comandante delle Forze Quds iraniana, Qassem Soleimani, ucciso il 3 gennaio 2020 a seguito di un raid degli Usa, è fallito grazie ai continui attacchi aerei delle Forze di difesa di Israele contro i gruppi iraniani in Siria.
  Inoltre, nonostante la tensione tra Israele e Russia, dopo le minacce russe a Israele in caso di trasferimento di armi all’Ucraina, il meccanismo di de-conflitto per prevenire un’escalation russo-israeliana in Siria continua, hanno fatto sapere i funzionari israeliani.

(Nova News, 24 ottobre 2022)

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Sanità - Accordo tra Italia e Israele nella neuropsichiatria infantile

COMO – Storico accordo tra Italia e Israele nel campo della neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza. I due Paesi avranno, infatti, un canale di collaborazione privilegiato grazie al Protocollo d'intesa sottoscritto dal Centro italiano Villa Santa Maria e dallo Schneider Children's Medical Center of Israel.
  L'accordo prevede che i due Centri collaborino a una serie di iniziative nel campo della ricerca scientifica e della formazione, condividendo il proprio know-how nei rispettivi settori, anche per promuovere attività di crescita e sviluppo professionale per gli operatori sanitari. Villa Santa Maria, Centro Multiservizi di Neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza con sede a Tavernerio, in provincia di Como, è una struttura specializzata nella cura e nella riabilitazione di bambini e adolescenti affetti da autismo e disturbi neuropsichiatrici.
  Negli ultimi anni, l'Ente si è distinto nel campo della ricerca sui Disturbi dello spettro autistico, consolidando la propria posizione di punto di riferimento a livello internazionale in questo ambito. Lo Schneider Children's Medical Center of Israel, con sede a Petah Tikva, nel distretto centrale di Israele, è l'unico ospedale terziario completo del suo genere nel Paese e in Medio Oriente, e riunisce l'intera gamma di discipline pediatriche sotto lo stesso tetto. Dalla sua fondazione, nel 1991, lo Schneider Children's ha rivoluzionato la pratica della medicina pediatrica nel Paese ed è stato riconosciuto come una delle Istituzioni pediatriche più importanti al mondo.
  La collaborazione tra le due strutture riguarderà diversi ambiti: medicina e salute digitale, malattie rare e analisi genetiche, benessere del paziente, riabilitazione sensomotoria, epilettologia tramite l'analisi dell'elettroencefalogramma e Disturbi dello spettro autistico. "Pur incarnando realtà diverse, i nostri due Centri sono accomunati da una filosofia molto simile: entrambi parliamo la lingua dei bambini, entrambi affrontiamo le loro condizioni con un approccio olistico, entrambi agiamo con l'obiettivo generale di migliorare la qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie – spiega la dottoressa Gaetana Mariani, presidente e Direttore Generale di Villa Santa Maria -. Condividiamo, inoltre, un metodo multidisciplinare che fa leva sulla cultura e sulla natura come strumenti per la promozione del benessere dei pazienti, per cui la nostra collaborazione rappresenta sicuramente una base di partenza ideale per raggiungere insieme grandi risultati". "Entrambi crediamo che il nostro ruolo non si limiti alla cura dei bambini malati, ma riguardi anche un impegno perché i bambini sani di oggi crescano per diventare gli adulti sani di domani – aggiunge la dottoressa Sivan Achituv, Vicedirettore dello Schneider Children's Medical Center of Israel -.
  Si tratta di una sfida molto grande considerando il mondo in continua evoluzione che ci circonda, in cui i giovani adulti sono affetti da un numero maggiore di malattie fisiche e mentali rispetto al passato. Crediamo che la nostra collaborazione nei settori dei disturbi neuropsichiatrici e del benessere dei pazienti possa aiutarci a raggiungere questo importante obiettivo per i bambini e le loro famiglie".

(ITALPRESS, 24 ottobre 2022)

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Israele: approvata la costruzione del museo Albert Einstein a Gerusalemme

di Luca Spizzichino

Il governo israeliano ha approvato l'edificazione di un museo dedicato ad Albert Einstein. L’edificio, che sorgerà all'interno dell'Università Ebraica di Gerusalemme, ospiterà gli archivi completi dello scienziato.
  Einstein lasciò in eredità i suoi scritti e il suo archivio all'università della capitale dello Stato Ebraico. La maggior parte di questi è conservata negli archivi Albert Einstein presso il campus di Givat Ram. Il museo verrà costruito proprio all'interno del campus e non presenterà soltanto la vita e le opere di Einstein, ma anche i suoi legami con l'ebraismo e Israele. Inoltre il museo sarà centro per l'educazione scientifica e tecnologica.
  Ad annunciare l’attuazione di questo progetto l’ex premier israeliano Naftali Bennett attraverso un video pubblicato sui social. “Il museo servirà da luogo di pellegrinaggio per chiunque voglia familiarizzare con Einstein. - ha affermato - Gli adolescenti israeliani, i turisti e gli scienziati di tutto il mondo potranno trarre ispirazione da lui”.
  Einstein diede importanti contributi alla teoria della meccanica quantistica e vinse il premio Nobel per la fisica nel 1921. Spinto dal crescente antisemitismo, anche a livello accademico, insieme ad Hersch Lauterpacht fondò il World Union of Jewish Students nel 1924, al fine di combattere l’odio antiebraico e far sì che non fosse limitata l’ammissione di studenti ebrei nelle università, fenomeno diffuso in tutta Europa. Dal 1925 al 1933 fu presidente dell’associazione ed ebbe come vicepresidenti personaggi del calibro di Chaim Bialik, Sigmund Freud e Chaim Weizmann. Dopo la morte di quest’ultimo nel 1952, ad Einstein fu proposto da Ben Gurion di diventare il secondo presidente dello Stato di Israele. Ma lo scienziato, sionista convinto e tra i fondatori proprio dell'Università Ebraica di Gerusalemme, tuttavia declinò l'offerta.
  "Sono profondamente commosso per l'offerta ricevuta dal nostro Stato d'Israele, ma allo stesso tempo - scrisse nella lettera di risposta - sono rattristato e imbarazzato perché non posso accettarla”. “Sono tanto più dispiaciuto - aggiunse - giacché la mia relazione con il popolo ebraico è diventata il legame umano più forte che io abbia, da quando sono diventato consapevole della nostra situazione precaria in mezzo alle nazioni del mondo".

(Shalom, 24 ottobre 2022)

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Israele-Libano: via libera alla firma dell’accordo di demarcazione dei confini marittimi

L’Alta corte di giustizia dello Stato di Israele ha respinto oggi le numerose petizioni che avevano cercato di bloccare l’accordo sulla demarcazione dei confini marittimi con il Libano, aprendo la strada al governo per approvarlo e firmarlo entro la fine di questa settimana. Lo riferisce il quotidiano israeliano “Jerusalem Post”. A causa della decisione presa in un tempo molto breve, le motivazioni del tribunale per il rigetto delle petizioni saranno pubblicate in un secondo momento. Le petizioni erano state presentate da due organizzazioni non governative – Kohelet e Lavi – e dal religioso sionista e deputato Itamar Ben-Gvir. Lo scorso 20 ottobre, il presidente dell’Alta corte, Esther Hayut, e i giudici Uzi Vogelman e Noam Sohlberg hanno ascoltato le discussioni del caso che doveva essere risolta prima del giorno delle elezioni fissato per il primo novembre.
  L’accordo raggiunto l’11 ottobre costituisce un passo che potrebbe aprire le porte a nuove esplorazioni di petrolio e gas nel Mediterraneo orientale. L’intesa sulla bozza dell’accordo è stata raggiunta dopo un intenso lavoro del mediatore Hochstein, nell’ultimo anno e nel solco della mediazione statunitense avviata nei primi anni 2000, interrotta e ripresa successivamente, nel 2020. In base all’accordo, il giacimento offshore di Karish si trova interamente nelle acque israeliane. Il Libano, dal canto suo, avrà tutti i diritti di esplorazione e sfruttamento del giacimento di Qana, situato più a nord-est, parte del quale si trova nelle acque territoriali di Israele. Ma “Israele sarà remunerato” dalla società che gestisce Qana “per i diritti su eventuali depositi”, secondo quanto stabilito nel testo.
  Lo scorso 19 ottobre la commissione Esteri e Difesa della Knesset, il parlamento israeliano, ha avviato le discussioni dell’accordo. Nonostante il dibattito, alla Knesset non verrà chiesto di approvare l’accordo, che tornerà al governo per l’autorizzazione definitiva la prossima settimana. L’opposizione ha chiesto al governo uscente di portare l’accordo davanti al parlamento, accusando il primo ministro Yair Lapid di aver ceduto gli interessi di Israele al movimento sciita libanese filo-iraniano Hezbollah. Il procuratore generale Gali Baharav-Miara ha stabilito che il governo non ha bisogno di chiedere l’approvazione della Knesset o un referendum sull’accordo. Il consigliere legale della Knesset, Sagit Afik, ha dichiarato oggi all’Alta corte di giustizia che, sebbene sia meglio per il governo chiedere la piena approvazione della Knesset per l’imminente accordo marittimo con il Libano, non è legalmente richiesto.

(Nova News, 23 ottobre 2022)

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«La medicina è ammalata. Si fermi subito la follia di obblighi e green pass»

Intervista a Susanna Tamaro. La grande scrittrice racconta il suo libro di riflessione sul Covid, nato da profonda indignazione. «Il nuovo ministro? Inizi chiedendo perdono».

Mi ha turbato molto la sudditanza delle persone: abbiamo smesso di ragionare Non ho mai chiesto a nessuno se fosse vaccinato: non si deve discriminare

di Francesco Borgonovo

Susanna Tamaro ha pubblicato il libro che molti avrebbero potuto e forse dovuto scrivere, ma non hanno scritto per paura o per conformismo. Si intitola Tornare umani (Solferino), e Maurizio Caverzan su queste pagine ne ha anticipato i contenuti. E’ un testo a tratti doloroso, ma sempre onesto e coraggioso. Potrebbe essere interpretato come l'esame di coscienza di una nazione dopo la pandemia, ma anche come un inno pieno di speranza alla ricostruzione, alla riconciliazione. In ogni caso, è una proposta che non va lasciata cadere, e che l'autrice approfondisce in questa conversazione. La versione integrale dell'intervista è andata in onda nel corso di Orsobruno, trasmissione radiofonica quotidiana di Byoblu, che si può recuperare sul sito www.byoblu.com.

- Lei è stata se non l'unica, una delle pochissime intellettuali italiane a pubblicare un libro di questo genere. I più si sono adeguati al pensiero prevalente. Perché secondo lei?
  «Premetto che io sono una persona che vive fuori dal mondo e dalla politica, da tutto. Però questa epidemia mi ha spinta a osservare con molta attenzione quello che stava succedendo. E ciò che mi ha più turbato a un certo punto è stata proprio la sudditanza delle persone che avrebbero dovuto dire: "Un momento, ragioniamo, pensiamo ... ". Invece sentivo gente dire: "Sono felice di avere il green pass in tasca" o cose del genere, per me assolutamente abominevoli. E le poche persone che obiettavano, come Massimo Cacciari o Giorgio Agamben, venivano messe all'angolo da un sistema dei media agguerrito in una maniera preoccupante».

- Anche la stampa si è fatta troppo spesso strumento del potere e ha alimentato questo discorso dominante.
  «Sì. E stato un canto trionfale, senza possibilità di riflessione, e questo è sempre molto preoccupante in un Paese democratico, dove bisognerebbe riflettere. E una scienza che si propone come assoluta è una scienza che apre le porte a una tirannia, naturalmente, perché la scienza è tale quando sa che può sbagliare e lo ammette. Invece c'è stato un monoblocco, tutti in massa si sono messi a convincere che bisognava agire in una determinata maniera. Sono rimasta molto turbata nel vedere l'inerzia prima dello scoppio dell'epidemia, che era prevedibilissimo, e poi l'esplosione dell'irrazionalità. Quando un Paese diventa irrazionale, si mette su una china pericolosissima».

- Quel che continuo chiedermi è: come è stato possibile? Gli intellettuali hanno taciuto, per lo più, e la stampa si è subito schierata. Ma anche la popolazione si adeguata... Come siamo diventati «disumani» secondo lei?
  «lo vivo da tantissimi anni in un paese piccolo, di provincia. Ho avuto modo di vedere ancora più chiaramente questa cosa, stava deflagrando il tessuto sociale. In un paese conosci tutti, vedi famiglie spaccate, amicizie rotte, sulla base del "sei vaccinato?" lo non ho mai chiesto a nessuno se fosse vaccinato, perché non mi è mai interessato. Perché non si può discriminare. Se cominciamo così, facciamo come nella ex Jugoslavia, dove - lo ricordo nel libro - prima facevano le feste di compleanno a casa dei vicini di altra etnia e poi si sono massacrati a vicenda durante la guerra. Questo è dentro di noi: tutti abbiamo una parte nera dell'anima che aspetta di infiammarsi ed esplodere. E poi ci sono le paure arcaiche, come quella della peste, e il fatto che abbiamo rimosso il discorso sulla morte dalla nostra società. Nessuno pensa più che, democraticamente, siamo tutti destinati a morire. Gli eventi di questi anni hanno sollevato il velo sulle menzogne della nostra società. E questo ha fatto paura».

- Il filosofo Byung-Chul Han parla di «società senza dolore». Una società che teme la sofferenza della carne perché non possiede altro, non ha un'anima, ed è interessata soltanto al funzionamento del corpo.
  «Certo, totalmente. Noi siamo solo una macchina da mandare avanti il più a lungo possibile. Ma una volta si sapeva che ognuno ha un destino, che c'è la "tua ora". E la cosa normale era morire di una "buona morte", con l'anima in pace. Invece adesso assistiamo a questo prolungamento della vita, anche esagerato in qualche modo, salvo poi invocare metodi di eliminazione perché a un certo punto viviamo troppo a lungo. Ognuno ha un proprio destino, che è sia genetico e sia dipendente dalle condizioni di vita, e poi c'è la "nostra ora" che - come la saggezza antica ha sempre saputo - non si può rimandare. Ci si deve curare certo, e far tutto il possibile per restare in salute, ma dobbiamo anche stabilire un rapporto con la morte».

- In compenso i morti sono stati molto usati. Si diceva: «Come vi permettete di criticare quando abbiamo migliaia di morti?».
  «Questo è stato un abuso terribile. Però vorrei anche precisare una cosa. lo vivo in Umbria, ma ho molti amici a Bergamo e in Lombardia. Qui c'era questa sensazione stranissima, tutti chiusi in casa terrorizzati con la polizia a controllare, mentre lì la situazione era davvero grave. Quando a gennaio la Cina ha iniziato a mandare quelle immagini terribili ai telegiornali, un governo di persone responsabili si doveva domandare: "Ma la Cina, che è un Paese che culturalmente di solito non si espone, se manda questo messaggio cosa ci sta dicendo?". E allora bisognava essere pronti a capire che questa cosa era già da noi, invece c'è stata grande leggerezza e ci sono stati contesti, come purtroppo le Rsa, che sono diventati una bomba biologica, dove ci sono stati tanti, troppi morti».

- Non solo abbiamo dato una lettura irrazionale ed emotiva, abbiamo passato ciò che accadeva attraverso uno strano filtro morale, abbiamo diviso il mondo in buoni e cattivi.
  «Anche questo è molto pericoloso, questo manicheismo estremo spacca le civiltà, e ha avviato una guerra civile nel nostro Paese, e su questa guerra civile bisogna ragionare e bisogna anche indagare e chiedere perdono. Sono state fatte cose terribili all'Italia, nel silenzio generale. Questa separazione tra buoni e cattivi la reputo una cosa gravissima. Guardi, io sono vaccinata, perché ho avuto tre polmoniti gravi, un enfisema, sono asmatica e dunque ho pensato: "Ok, mi vaccinerò d'estate cosi in inverno sarò protetta". In realtà, io avrei dovuto vaccinarmi in aprile, quando sarebbe toccato alla mia fascia d'età. Ma ho pensato, "Se mi vaccino in aprile, probabilmente essendo il vaccino fatto in fretta e furia, quanto mi proteggerà? E quanto durerà la protezione?". Dunque mi son vaccinata in agosto per essere protetta in inverno. Ho fatto Pfizer, in quanto fragile. Ma ero convinta di essere protetta, all'inizio si diceva che avrebbe dato protezione al 98%, poi ho scoperto che non era così ... ».

- Di Pfizer parla anche nel libro. Scrive: «Pfizer fu condannata per essersi approfittata di una epidemia di meningite infantile in Nigeria, nel 1996, per sperimentare nuovi farmaci. Per la morte di un bambino povero, chi potrà mai reclamare? Questo è il livello etico dei nostri salvatori». Quanto è accaduto è curioso: abbiamo presentato questa azienda come i cavalieri bianchi pronti a salvarci.
  «C'è questa cosa arcaica dentro di noi: abbiamo bisogno di un'entità benefica che ci salvi dal male e dalla morte. La narrazione ha alimentato tutto questo, ad esempio il fatto che i vaccini siano arrivati il 25 dicembre... Non è stato casuale. Questo ha favorito un'identificazione con la salvezza che forse era, come dire, un po' esagerata».

- Abbiamo favorito la nascita di una sorta di nuova religione.
  «Sì, con i suoi sacerdoti, i suoi beneficiari e via dicendo. Questo libro l'ho scritto per indignazione umana e civile. Mi ha offeso prima l'impreparazione, ancora prima del caos, che in fondo in una epidemia ci può anche stare, perché ci si spaventa tutti. Però poi è entrato in atto un meccanismo perverso: il controllo sociale. Un meccanismo, appunto, di divisione delle persone. Che è stato costruito senza avere nulla in mano, perché abbiamo visto che questi vaccini forse aiutano persone fragili e anziani ma su tutti gli altri... Non solo: i vaccinati si ammalano oltre a contagiare. Quindi tutte le misure prese suonano non reali, ma piuttosto repressive».

- A questo proposito, nei giorni scorsi abbiamo visto l'audizione di Pfizer al Parlamento europeo, in cui Janine Small ha ammesso candidamente che il vaccino non era mai stato testato riguardo la capacità di garantire immunità. Di nuovo però la stampa non ha ripreso la notizia o, peggio, ha fatto di tutto per smontarla. Non abbiamo imparato proprio nulla da questi anni? C'è stato un peggioramento e non siamo più riusciti a recuperare?
  «Sì, è molto inquietante che sia rimasta ancora questa cappa di negazione della realtà, quando ormai tutti hanno avuto il Covid anche più volte pur essendo vaccinati. lo conosco tante persone che non si sono vaccinate, sane, le quali si sono ammalate meno di Covid rispetto ai vaccinati e con sintomi uguali ai vaccinati o anche meno forti. Questo è evidente, e anziché accanirsi bisognerebbe cercare di riflettere, perché se non si riflette siamo sempre nell'angolo».

- I sacerdoti di quella che io chiamo Cattedrale sanitaria le direbbero: «Lei non è uno scienziato, dunque non può parlare». Le sto citando la frase che veniva ripetuta ogni volta per mettere a tacere i critici...
  «Certo, ma la realtà parla tutti i giorni e ho notato che chi sta in campagna come me è più capace di accorgersi di queste cose perché ha un rapporto ancora reale con quello che succede intorno, non è condizionato dai media in assoluto. lo questa prepotenza della scienza non la tollero. I grandi scienziati di una volta, come Sabin, mai avrebbero esibito questa arroganza. Magari è stato un bellissimo esperimento questo dei vaccini e servirà per il futuro. lo non sono contraria ai vaccini, sono importantissimi, ma la gestione fatta in questo modo è stata estremamente sinistra. Anche perché non ha tenuto conto della salute dei cittadini. Penso che ogni persona normale non desideri ammalarsi dunque tutti si sarebbero vaccinati senza alcun obbligo o forzatura; e chi fa delle vite solitarie non ha bisogno di vaccinarsi, perché deve essere costretto se il rischio del vaccino è più grande di quello della malattia? Non hanno lasciato la libertà di pensiero alle persone, non hanno concesso di decidere secondo il proprio stile di vita e il potenziale di rischio».

- C'è un capitolo molto interessante, nel suo libro, che parla del perdono. Lei sostiene che i politici dovrebbero chiederlo ai cittadini. Secondo lei aiuterebbe a superare questo trauma pazzesco che abbiamo avuto?
  «Sì, sicuramente aiuterebbe perché capiamo che ci sia stata una situazione terribile, imprevista, con errori umani, ma la persecuzione nei due anni successivi è stata molto grave. Queste ferite che abbiamo avuto come cittadini in un Paese democratico sono enormi; dunque, soltanto una richiesta di perdono potrebbe sanare questo dolore e questo senso di tradimento da parte di uno Stato che fino a qualche tempo fa era civilmente democratico. Abbiamo subito cose terribili. Persone che hanno perso il lavoro, cose molto gravi. Siamo stati l'unico Paese europeo ad avere questo problema».

- Ci sono ancora persone sospese dal lavoro perché sottoposte a obbligo fino al 31 dicembre.
  «Sì, ma non solo. Io ho un caro amico in Rsa e non posso andare a trovarlo perché non ho il green pass. Hanno tagliato i rapporti sociali, è una follia assoluta».

- Al nuovo governo si chiede di provvedere subito a togliere queste limitazioni che non hanno senso. Però, guardando a certe dichiarazioni sul green pass del nuovo ministro della Salute, Orazio Schillaci, mi vengono dei dubbi sul fatto che verrà chiesto perdono.
  «Sarebbe un bel gesto perché aiuterebbe a ricucire la società, a ridare fiducia nel ministro della Salute, a ricucire una sanità distrutta, perché abbiamo visto in questi anni una sanità ridotta ai minimi termini. Un'altra cosa che mi ha molto colpito è che nel 2022 si considerino "fragili" i sessantenni. Forse potevano esserlo negli anni Cinquanta... ».

- E allora perché li consideriamo fragili?
  «Se un sessantenne, come dice Garattini, prende dalle 15 alle 20 pillole al giorno, è chiaro che è già malato. Non solo: è la medicina a essere ammalata, perché non ha fatto educazione sanitaria, non ha curato l'ambiente. E questa è solo la punta dell'iceberg, c'è stato negli anni un uso di pillole smodato al posto dell'educazione sanitaria, e questa è una cosa di cui il nuovo ministro della Salute dovrebbe occuparsi».

- Pensa che succederà qualcosa del genere? Pensa che il nuovo ministro potrà segnare questo cambio di passo, anche rispetto al passato recente?
  «In tutte le situazioni della vita noi sbagliamo e si può sempre ricominciare. Chiedere perdono vuol dire compiere una eliminazione dell'orgoglio e aprire la porta alla rinascita. Non si tratta di umiliare, ma di pensare a un futuro in cui le cose possano andare in modo diverso. Bisogna chiedere perdono per tutte le persone che avevano malattie autoimmuni gravi e o si vaccinavano o perdevano il lavoro... Sono cose inammissibili. O chi è stato senza green pass e ha dovuto fare una vita da reietto per mesi e mesi. .. E stata una cosa veramente folle».

- Qui la responsabilità della classe medica è stata grande. Sembra che a tanti di loro sia piaciuto parecchio apparire in televisione, tanti che alcuni ancora lo fanno, magari per parlare di politica.
  «Premetto che dopo il giugno del 2020 ho chiuso la televisione e non l'ho più guardata, ma nei primi mesi di pandemia l'ho guardata. Mi faceva impressione perché dicevano tutto e il contrario di tutto, c'era un protagonismo... Poi c'erano medici che proferivano delle specie di maledizioni: "Il virus durerà 1.000 anni, no 2.000... ". Ma tutti i virus che entrano nell'ospite convivono con lui per sempre. Conviviamo col virus della rabbia dei cani da 20.000 anni... Dicevano anche cose terroristiche. Come dico nel libro incitare alla paura fa malissimo alle difese immunitarie, perché se hai paura le difese crollano. Sarebbe stata meglio una campagna positiva. Si poteva invitare a portate i bambini e gli anziani fuori, al sole, per esempio. Invece è stato tutto difensivo e aggressivo e questo non è il modo giusto di gestire la salute pubblica».

- Mi sembra che ci sia un filo conduttore in tutto questo discorso, ovvero la mancanza di contatto con la realtà. Abbiamo perso il radicamento, la capacità di toccare le cose, di vivere la natura e coltivare la nostra parte spirituale. Se pensiamo anche a certe derive linguistiche del politicamente corretto, ai mutamenti che impongono, alla cultura della cancellazione ... Vediamo un continuo rifugiarsi in un mondo artefatto, costruito a tavolino, una burocrazia ideologizzata. Come si fa a ricostruire, a recuperare un rapporto con la realtà?
  «Dobbiamo ricordarci che la nostra grande cultura e civiltà deriva dal mondo ebraico, greco e cristiano. Questo lo abbiamo archiviato rapidamente e ci siamo genuflessi alla Silicon Valley e a tutti i suoi presunti benefici. Abbiamo buttato a mare una cultura basata su un'umanità profonda per riverire l'efficienza e il guadagno. Ritornare alle radici è fondamentale perché senza veniamo spazzati via rapidamente. Bisogna ritornare a parlare della complessità dell'uomo, dell'esistenza di una cosa misteriosa che si chiama anima. Una cosa di cui abbiamo sempre avuto consapevolezza, come ci dicono le prime sepolture della storia umana. Bastano anche cose semplici. Se uno ha un pollaio, nota che i polli stanno bene al sole, mangiano i vermi e stanno bene. Se io stipo tanti polli in un pollaio, li tengo chiusi, poi dovrò per forza fare iniezioni per mantenerli sani. Noi siamo come i polli dal punto di vista fisiologico: bisogna curare la salute, quella semplice, e disintossicare. Anche dalla follia dell'informazione. Penso, tanto per dirne una, anche all'uso di Twitter che è una cosa perversissima. Credo che i politici non dovrebbero usarlo, perché rischiano ogni volta di dimostrare la loro pochezza. Questo è un mondo finto, costruito, artificiale. Dobbiamo tornare a educare i bambini non nell'ideologia ecologica, che è anche molto deprimente, ma insegnando loro a toccare e vedere, a osservare. Queste tre cose fanno l'umanità. Bisogna cominciare dall'educazione e cominciare a dire che queste ideologie sono stupidaggini».

- Se volessimo concludere con una massima potremmo dire: «Curate i vostri polli»...
  «Già... Ricorderei anche che siamo la patria di San Benedetto che è il grande salvatore della civiltà europea dal crollo dell'Impero romano. Ci ha insegnato l'ora et labora che è la via di salvezza dell'Europa, non a caso San Benedetto è patrono d'Europa. Ci dimentichiamo troppo spesso di lui e dei suoi grandi insegnamenti, dobbiamo tornare alla profondità della nostra cultura».

(La Verità, 23 ottobre 2022)

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Miriam, un personaggio profetico

di Gabriele Monacis

Miriam è un personaggio biblico che solitamente non è annoverato tra quelli che hanno fatto la storia del popolo di Israele, forse perché sorella del ben più noto fratello Mosè, che guidò il popolo fuori dall’Egitto, colui al quale Dio parlò faccia a faccia e che molte volte fece da mediatore tra il Signore e il suo popolo in momenti di grande tensione.
  Ma tornando a Miriam, è vero che la troviamo nella Bibbia come un personaggio che compare e scompare nella narrativa più ampia della storia di Israele, senza sapere molto su di lei, se non che era la sorella di Mosè e Aaronne. Ma è questo sufficiente per immaginarsi una Miriam dal carattere sommesso e sempre all’ombra dei fratelli più famosi? In che modo la Bibbia parla di questa donna e in quali contesti la inserisce? Proviamo ad abbozzare una risposta sulla base di ciò che dice la Bibbia nei confronti di Miriam, senza entrare nel dettaglio dei brani che parlano di lei, cosa che faremo in occasioni future.
  Prendiamo ad esempio il libro del profeta Michea, dove Miriam è menzionata solo una volta. Attraverso il suo profeta, il Signore ricorda il tempo in cui il popolo di Israele fu liberato dalla schiavitù in Egitto e fu guidato nel deserto. Verrebbe da pensare che questa guida fu affidata dal Signore al solo Mosè. E invece no. Ecco il versetto di Michea 6:4 in cui il Signore parla a Israele:

    Io ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, ti ho redento dalla casa di schiavitù e ho mandato davanti a te Mosè, Aaronne e Miriam”.
Nonosante in molti casi il Pentateuco descriva Mosè e Aaronne come le guide effettive del popolo di Israele, in questo versetto Michea gli affianca Miriam e fa capire che lei, in termini di leadership, non era meno dei suoi fratelli.
  Sembrerebbe proprio che questo personaggio femminile non fosse affatto un personaggio secondario, sempre all’ombra degli uomini di famiglia. Anzi, anche nel periodo del profeta Michea, cioè secoli dopo l’esodo di Israele nel deserto, Miriam aveva conservato una certa autorità agli occhi del popolo, tanto che Michea ne parla come un punto di riferimento per la propria generazione, al pari dei suoi fratelli Mosè e Aaronne.
  Prendiamo in esame ancora il brano che parla dell’uscita di Israele dal Mar Rosso, nel capitolo 15 di Esodo. La gran parte di questo capitolo è dedicata al canto di Mosè, anche noto come canto del Mare, dal suo nome in ebraico. Alla fine di questo canto, nei versetti 20 e 21, Miriam compare improvvisamente, come una figura molto carismatica, in un momento unico della storia di Israele, quando questo uscì miracolosamente dal mare camminando sull’asciutto. La profetessa Miriam, così la chiama la Scrittura, prende in mano il timpano, uno strumento simile al tamburo, si mette a capo di tutte le donne di Israele, anche loro con timpani e danze, e le guida a cantare al Signore, perché si è grandemente esaltato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere. (Esodo 15:21).
  Questo evento può essere considerato il primo esempio di adorazione del Signore a livello collettivo nella storia di Israele: il popolo, o parte di esso, si mette a cantare, suonare e danzare al suo Dio dopo che Egli gli ha mostrato la Sua potenza aprendo il mare in due e facendoglielo attraversare incolume. Prima di questo giorno, erano sempre state persone singole ad adorare il Signore in un determinato momento e luogo del loro cammino con Dio, come fecero Abramo, Giacobbe e molti altri. All’uscita dal mar Rosso, invece,  si registra il primo caso in cui un gruppo di persone all’interno del popolo si riunisce insieme per adorare Dio, che ha liberato Israele dalla spada dei suoi nemici e lo ha fatto uscire per intero dal mare aperto in due, senza che nessuno perisse.
  Ed è molto significativo che a persuadere il popolo ad adorare il Signore in forma collettiva, con timpani danze e canti, non fu Mosè, guida del popolo e autore del canto, ma proprio sua sorella Miriam, che con il suo carisma fu capace di trascinarsi dietro un numero considerevole di donne danzanti e cantanti al Signore.
  Purtroppo questo suo talento di trascinatrice non fu sempre usato da lei in modo positivo. Nel capitolo 12 di Numeri, leggiamo che Miriam mormorò contro suo fratello Mosè perché si era preso una moglie cusita; e in questa ribellione nei confronti di Mosè, colui che il Signore si era scelto, si portò dietro anche suo fratello Aaronne. Il popolo, questa volta, sembra osservare in silenzio questo scontro all’interno della famiglia che prende le decisioni, temendo forse che, una volta scoppiato il bubbone tra capi, ci si trovasse tutti in una empasse in cui nessuno sapeva cosa fare. “E se già loro non sono uniti, come farà ad esserlo il popolo? Come faremo a muoverci tutti insieme senza il loro aiuto?” avranno pensato in silenzio i figli di Israele, in cuor loro. Colui che non rimane in silenzio in questa circostanza è il Signore, che non lascia affatto correre questo mormorio partito da Miriam. Così scende in una nuvola, chiama tutti e tre i fratelli all’appello e redarguisce Miriam e Aaronne. Come conseguenza di questa ribellione, Miriam finisce per diventare lebbrosa e viene relegata fuori dall’accampamento di Israele per sette giorni.
  Questo evento tragico nella vita di Miriam fu ricordato da suo fratello Mosè qualche tempo dopo, quando di fronte alla nuova generazione di Israele che si apprestava ad entrare nella terra promessa, Mosè li esortò a stare in guardia contro il flagello della lebbra, ad aver cura di fare come il Signore aveva ordinato ai sacerdoti e a ricordare quello che Dio fece a Miriam durante il viaggio, all’uscita dall’Egitto, riferendosi appunto al giorno in cui venne colpita dalla lebbra. (Deuteronomio 24:8,9)
  Dunque, anche quando si ribellò al Signore e diventò lebbrosa, Miriam costituisce un esempio, anche se in negativo, da tener presente per coloro che vennero dopo di lei. Parlando alla nuova generazione di Israele che sarebbe entrata nella terra promessa da lì a poco, Mosè sottolinea l’importanza per il popolo d’Israele di conservare la memoria di Miriam. Il popolo avrebbe dovuto impegnarsi a tramandare alle generazioni future l’insegnamento che si poteva trarre dalla vita di questa donna, nel bene e nel male, per non fare il suo stesso errore, in attesa che un giorno il Signore avrebbe rivelato il perché di tale memoria tramandata.
  Anche il profeta Geremia, all’inizio del capitolo 31, ribadisce quanto sia importante ricordare Miriam, in attesa del giorno in cui il Signore sarà Dio di tutte le famiglie di Israele.
    Così dice l'Eterno: «Il popolo scampato dalla spada ha trovato grazia nel deserto; io darò riposo a Israele». (Geremia 31:2).
Con queste parole, Geremia ricorda la storia dell’esodo, in cui Israele è scampato dalla spada degli egiziani e ha trovato riparo nel deserto, dopo l’uscita dal mar Rosso. Dio richiama alla mente di Israele questo evento storico per promettergli che nella sua storia ci sarà un nuovo esodo, in cui Israele scamperà dalla mano dei suoi nemici, troverà riparo e il Signore gli darà riposo. Due versetti dopo questo, il Signore fa ancora delle promesse a Israele:
    Io ti riedificherò e tu sarai riedificata, o vergine d'Israele. Sarai di nuovo adorna dei tuoi tamburelli e uscirai in mezzo alle danze di quelli che fanno festa”.
Il Signore promette che Israele prenderà ancora in mano i tamburelli e danzerà ancora tra quelli che saranno nella gioia. Questa promessa è rivolta alla “vergine d’Israele”, un’espressione di genere femminile che ricorda il gruppo di donne guidate da Miriam.
  Non solo, dunque, Geremia ritorna sulla storia dell’esodo, ma usa anche due parole particolari che si trovano nel brano in esodo considerato in precedenza. In ebraico, le parole tradotte qui con “tamburelli” e “danze” sono le stesse che troviamo quando Miriam fu alla testa delle donne di Israele che adorarono il Signore con “timpani” e “danze”. Ecco che di nuovo, dopo le parole di Mosè in Deuteronomio, Geremia riporta alla mente del popolo il ricordo di Miriam e di ciò che ha fatto per Israele. Questo ricordo riemerge come qualcosa che ha segnato profondamente la storia di Israele, e la promessa è che lo farà di nuovo in futuro.
  Il Signore chiede quindi ad Israele di non dimenticare il personaggio di Miriam per due motivi: il primo è per non seguire il suo esempio negativo di ribellione verso uno come Mosè, colui che il Signore si è scelto. Il secondo è per aspettare il giorno in cui Israele si troverà in un contesto simile a quello dell’esodo, quando scamperà alla spada, troverà riparo nel deserto e il Signore gli darà riposo. Allora, come già successo al popolo quando era con Miriam all’uscita dal mar Rosso, Israele prenderà in mano nuovamente i tamburelli, danzerà e farà festa, per adorare il Signore che lo ha liberato dai suoi nemici, proprio come aveva fatto con gli egiziani.
  Ma se allora la memoria di Miriam è così importante, Israele si è forse già trovato nella situazione in cui avrebbe dovuto trarre insegnamento dalla memoria di questa donna? E se sì, quando? A questa domanda proveremo a rispondere nelle prossime occasioni.

(1. continua)

(Notizie su Israele, 23 ottobre 2022)


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Le ambizioni geopolitiche della Turchia

Due studentesse, di ritorno da una Study Mission a Istanbul, fanno un punto sui recenti sviluppi della politica estera di Erdogan e sulle strategie e problematiche che questa sottende.

di Ana Kamber, Francesca Fortunato

Turchia e Israele hanno riallacciato i rapporti diplomatici il 17 agosto di quest’anno. In un momento in cui la Turchia, nel bene e nel male, ha assunto un ruolo di grande importanza nello scacchiere della politica mondiale. Con la quarta rete diplomatica del mondo, la Turchia oggi gioca un ruolo fondamentale nel fragile e complesso ordine geopolitico, prova è il suo intervento nel recente accordo per l’esportazione del grano tra la Russia e l’Ucraina. La decisione turca di re-instaurare i rapporti diplomatici con Israele non è pertanto del tutto una sorpresa.

• I rapporti con Tel Aviv
  La Turchia è stato il paese musulmano che ha avuto i rapporti diplomatici più consolidati con Tel Aviv e la prima nazione musulmana a formalizzare i rapporti con Israele già nel 1949, un fatto che sicuramente fa riflettere sull’importanza che la religione riveste nella politica turca e come si è evoluta nel tempo. Come si colloca l’Islam all’interno della sfera pubblica turca è tutt’altro che semplice. Dal 2002, il paese è stato governato dal partito AK che affonda le proprie radici ideologiche nei valori islamici riuscendo però ad associarli efficacemente con politiche economiche neoliberali. Il clima politico che ne è scaturito è un amalgama di islamismo e laicismo, un atteggiamento che è emerso chiaramente anche dal modo in cui sono stati affrontati i rapporti diplomatici con Israele. I rapporti tra le due potenze hanno cominciato a sfilacciarsi dopo un violento confronto avvenuto nel 2010, quanto attivisti turchi hanno tentato di sfondare un blocco navale imposto da Israele nella striscia di Gaza. Nonostante un breve riavvicinamento nel 2016, sono poi peggiorati di nuovo dopo la decisione del Presidente Trump di riconoscere Gerusalemme quale capitale ufficiale di Israele.  La dichiarazione di Erdogan a favore dei Palestinesi e le feroci critiche espresse nei confronti di Israele, che ha accusato di genocidio nel maggio 2018, dopo i violenti scontri lungo il muro di divisione con Gaza seguiti allo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, sono stati solo l’inizio di una rottura dei rapporti diplomatici durata quattro anni.

• L'Iran
  Oggi, gli aspetti più pragmatici dei rapporti internazionali della Turchia vengono di nuovo a galla. Israele e Turchia si sono attivate per rinsaldare i propri legami perché temono entrambe l’allargamento dell’influenza iraniana nella zona. Un timore che per la Turchia ha connotati anche religiosi, essendo un paese a maggioranza sunnita, a differenza dell’Iran dove prevalgono gli Sciiti. È interessante notare la persistente sfiducia che cova ancora tra Iran e Turchia, nonostante gli sforzi fatti per intrattenere rapporti più stretti, per esempio l’incontro tra il Presidente Erdogan e il Presidente iraniano Ebrahim Raisi a luglio per promuovere una maggior cooperazione a livello economico. È probabile che i due paesi continueranno a manifestare una fratellanza di facciata fronteggiandosi però in molti campi e perseguendo spesso interessi di natura opposta.

• La Siria
  Un altro punto chiave da non sottovalutare è la crisi perdurante in Siria. Erdogan, in nome della stabilità e sicurezza regionali, continua a minacciare una offensiva nella Siria settentrionale per allargare quella che lui definisce la “Zona di Sicurezza” nonostante gli avvertimenti contrari di Usa, Russia e Iran. La questione siriana è anche fortemente interconnessa con la questione curda, dato che l’Unità di Protezione Popolare curda (YPG), che la Turchia considera un gruppo terrorista, è attiva nelle città del nord della Siria. Dopo aver minacciato l’avvio di azioni militari contri i curdi, Erdogan ultimamente ha abbassato i toni, e si è dichiarato disposto ad aprire una discussione con la Siria.

• Tra la Russia e l'Ucraina
  Se si tiene conto della crisi economica che colpisce la Turchia, l’instaurazione e il mantenimento di rapporti diplomatici con svariati attori economici è di fondamentale importanza per il paese.  La Turchia sta infatti lavorando a stretto contatto con due fazioni opposte, raddoppiando le importazioni di petrolio dalla Russia e al tempo stesso vendendo droni all’Ucraina, prodotti dal marito della figlia di Erdogan. Erdogan ambisce ad essere un grande leader capace di garantire alla propria nazione quella stabilità economica di cui ha bisogno mettendo a frutto i buoni rapporti che intrattiene con gli altri paesi.
  Si può perciò capire come la politica estera turca dipenda da questo delicato equilibrio tra la necessità di perseguire valori islamici, senza trascurare le esigenze strategiche, e la volontà turca di giocare un ruolo preminente a livello internazionale.

(eastwest, 22 ottobre 2022)
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Non concordo con molte affermazioni contenute in questo articolo:
- le “politiche economiche neo-liberali” erano quelle del primo periodo delle presidenze (uso il plurale perché è stato presidente con diverse cariche) di Erdogan, ma da quando la politica economica della Turchia è stata gestita in famiglia Erdogan molte cose sono cambiate, con pessimi risultati.
- “l’amalgama islamismo laicismo” in realtà non esiste, mentre esistono zone diverse nelle quali prevale il laicismo (Istanbul) o l’islamismo (zone rurali, sud e Ankara ad esempio).
- Erdogan non “minaccia un’offensiva nella Siria settentrionale”, ma la sta conducendo, con intensità variabile, da molti anni.
- i risultati, dopo anni di controllo severo della nazione, dimostrano chiaramente che non è affatto un “leader capace di garantire la stabilità economica”; il suo islamismo sfrenato che gli fa spendere in Turchia e in tante altre nazioni cifre enormi (ad esempio per costruire moschee enormi), il suo ego che gli ha fatto costruire una residenza degna dei reali inglesi hanno rovinato l’economia della Turchia che, nel primo periodo della sua presidenza, stava migliorando notevolmente.
Emanuel Segre Amar

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Siria: missili israeliani contro l’aeroporto internazionale di Damasco

Le difese aeree della Siria si sono attivate per sventare un presunto attacco missilistico israeliano contro la capitale Damasco e le regioni meridionali. Fonti militari riferiscono all’agenzia di stampa ufficiale siriana “Sana” che “la maggior parte dei missili del nemico sono stati intercettati e distrutti”.
L’agenzia parla di “danni materiali”, senza però fornire ulteriori dettagli. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), gruppo basato a Londra ma presente sul terreno con una rete di attivisti, “i missili israeliani hanno colpito l’area vicino all’aeroporto internazionale di Damasco e al Rif Dimashq meridionale”. L’ultimo attacco di questo tipo risale al 17 settembre scorso. Secondo il Sohr si tratterebbe del 26esimo bombardamento israeliano in Siria nel 2022.

(Nova News, 22 ottobre 2022)

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Israele blocca invio di armi a Kiev dopo avvertimenti da parte della Russia

di Aurelio Tarquini

Il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo ha avvertito lunedì che qualsiasi “mossa sconsiderata” di Tel Aviv per inviare armi all’Ucraina “distruggerebbe tutte le relazioni interstatali” tra Russia e Israele. Martedì i media israeliani hanno riferito che il primo ministro Yair Lapid (nella foto) avrebbe parlato con il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba per discutere della vendita di sistemi di difesa aerea.
  Il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha annullato una chiamata con il suo omologo ucraino Oleksii Reznikov senza alcuna spiegazione, ha affermato l’ambasciatore ucraino in Israele Yevgen Kornichuk.
  In un’intervista con i media locali, l’ambasciatore ha espresso “profonda delusione” da parte di Tel Aviv per la mossa.
  I media israeliani hanno riferito in precedenza che il primo ministro Yair Lapid e il ministro degli Esteri ucraino avrebbero parlato al telefono giovedì, con Kuleba che dovrebbe fare una richiesta formale per i sistemi di difesa aerea israeliani. Una fonte dei servizi di sicurezza ha detto al giornale che la richiesta non sarebbe stata soddisfatta nel prossimo futuro.
  In vista delle imminenti elezioni legislative israeliane del 1° novembre, sia Gantz che il suo principale rivale, l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, si sono espressi pubblicamente contro l’invio di armi in Ucraina.
  In un’intervista con MSNBC martedì, Netanyahu ha offerto rari elogi per l’approccio “prudente” del governo di coalizione israeliano alla crisi e si è espresso allo stesso modo contro le consegne di armi, dicendo che potrebbero in qualche modo trovare la strada per l’Iran.
  “Sulla questione delle armi c’è sempre la possibilità – ed è successo più e più volte – che le armi che abbiamo fornito in un campo di battaglia finiscano in mani iraniane usate contro di noi”, ha detto, indicando le armi di fabbricazione israeliana usate da “Iranian -forze sostenute” nelle alture del Golan occupate da Israele.
  I resoconti dei media e le dichiarazioni di alti politici israeliani arrivano a seguito dell’avvertimento pubblico a Israele da parte di Dmitry Medvedev di non andare avanti con qualsiasi piano riportato di inviare armi a Kiev.

(Faro di Roma, 21 ottobre 2022)

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Alla Comunità Ebraica si ricorda il senatore Giuseppe Brusasca, Giusto tra le Nazioni

Domenica 23 ottobre alle 16, nei locali di vicolo Salomone Olper, incontro con Clotilde Gallizia Brusasca e con la storica Anna Maria Samuelli.

Clotilde Gallizia Brusasca
CASALE MONFERRATO - Un pomeriggio al complesso ebraico di Casale Monferrato in memoria di Giuseppe Brusasca, monferrino (era nato Cantavenna, frazione di Gabiano nel 1900),avvocato,politico, partigiano, senatore della Repubblica, ma anche Giusto tra le Nazioni per la sua azione a favore degli ebrei durante la Shoà che ha fatto sì che il suo nome sia iscritto allo Yad Vashem di Gerusalemme.
  A ricordarlo, domenica 23 ottobre alle ore 16, nei locali di vicolo Salomone Olper saranno Clotilde Gallizia Brusasca,testimone dei fatti che hanno coinvolto la sua famiglia, e la storica Anna Maria Samuelli. Lo faranno presentando un video che ci racconta la piccola-grande storia di questo eroe capace di lottare contro l’indifferenza. Un documentario che ripercorre la vita del Senatore Brusasca e la sua scelta, durante la Seconda guerra mondiale, di mettere in salvo alcune famiglie ebree in un gesto che ribadisce la solidarietà, umanità e il suo amore disinteressato per il prossimo.
  Clotilde Gallizia Brusasca, nata a Milano nel 1933, ha trascorso gli anni della guerra sfollata nella campagna del Monferrato con la famiglia paterna. Dall’autunno del 1944 fino all’aprile 1945 ha vissuto nascosta e ha visto in prima persona gli orrori della guerra. Ha conseguito la laurea in giurisprudenza all’università degli studi di Milano. Nel 1957 ha sposato Alberto Gallizia, suo compagno di università, e si è definitivamente stabilita nel capoluogo lombardo.
  Ha dedicato tutta la sua vita alla famiglia e al volontariato, che a tutt’oggi rappresenta la sua occupazione principale. Nel 2012 ha ricevuto l’Ambrogino d’Oro per il suo impegno nel sociale.
  Anna Maria Samuelli ordinaria di filosofia e storia nei licei, si è occupata della formazione e dell’aggiornamento degli insegnanti. Ha collaborato con le riviste “Storia e Dossier” e “Servitium”.
  Giuseppe Brusasca nacque nel 1900 a Cantavenna, frazione di Gabiano, da una famiglia di proprietari terrieri. Si iscrisse al Politecnico di Torino, ma dopo la Prima guerra mondiale passò alla Facoltà di Giurisprudenza e si laureò nel 1923. Tre anni più tardi consegui anche una laurea in Scienze politiche.
  Nel 1919 aderì al Partito polare italiano e in quegli anni si iscrisse alla Federazione universitaria cattolica italiana e alla Gioventù di Azione cattolica. Fu eletto consigliere comunale a Casale Monferrato nel 1923 per il PPI, ma a seguito di minacce fasciste si stabilì a Milano ove esercitò la professione forense. Nel 1942 fu incaricato da Alcide De Gasperi di organizzare la Democrazia cristiana nella provincia di Alessandria. Entrò poi a far parte del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, in rappresentanza della DC. Per il suo aiuto ad espatriare in Svizzera prestato a delle famiglie ebree, nel 1969 fu riconosciuto Giusto tra le nazioni.
  Fece parte della Consulta nazionale e venne eletto all’Assemblea Costituente. Ricoprì incarichi di governo come sottosegretario di Stato, nei gabinetti De Gasperi, all'Industria e Commercio (1946-1947),alla Difesa (1947),agli Affari esteri (1947-1951),per l'Africa italiana (per la sistemazione del personale in relazione alle soppressioni del Ministero) tra il 1951 e il 1953. Durante il governo di Antonio Segni fu sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio (1955-1957) con delega per i servizi dello Spettacolo.
  Nel 1951 fu nominato commissario per il coordinamento degli aiuti alle vittime dell’alluvione nel Polesine. Negli anni Cinquanta gli furono affidate missioni governative all'estero e incarichi dalle Nazioni Unite (in merito all’Eritrea e alla guerra di Corea). Nel 1968 venne eletto al Senato.
  Morì a Milano nel 1994.

(Casalenews, 22 ottobre 2022)

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Gerusalemme: a Yad Vashem la commemorazione delle deportazioni degli ebrei italiani

GERUSALEMME - Si terrà domani, 23 ottobre, allo Yad Vashem di Gerusalemme la commemorazione annuale per il 79° anno dall’inizio delle deportazioni degli ebrei italiani.
La celebrazione inizierà alle 16.00 con la cerimonia nell’Ohel Izkor. Accolti nella Sinagoga interverranno Sergio Barbanti, ambasciatore d’Italia in Israele, Michael Racah, presidente della Hevràt Yehudé Italia beIsrael e Giordana Tagliacozzo, che interpreterà il monologo “Tosca racconta”.
Seguirà la conferenza “Le deportazioni dall’Italia” a cura di Na’amà Galil, responsabile del reparto Commemoration & Community Relations dello Yad Vashem. Presenta Orly Nir, vicedirettrice del reparto Commemoration & Community Relations dello Yad Vashem.
È previsto trasporto organizzato a pagamento da Tel Aviv a Gerusalemme (andata e ritorno). Per la prenotazione occorre scrivere alla mail office@hevraitalia.org.

(aise, 22 ottobre 2022)

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Scoperta a Gerusalemme un’iscrizione di 550 anni fa con il nome di un cavaliere di Berna

di Jacqueline Sermoneta

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Rinvenuta su un muro della Tomba del Re David sul Monte Sion, a Gerusalemme, un’iscrizione con il nome e lo stemma di famiglia del cavaliere bernese Adrian von Bubenberg. Il condottiero si recò in pellegrinaggio in Terra Santa nel 1466.
  A riferirlo gli archeologi della Israel Antiquites Authority (IAA), che da tempo lavorano su un progetto di ricerca con lo scopo di portare alla luce e documentare graffiti e iscrizioni lasciati sui muri dai pellegrini cristiani e musulmani: ad oggi sono state scoperte più di 40 iscrizioni parietali in diverse lingue, nonché stemmi araldici di cavalieri medievali.
  "Nel periodo mamelucco, tra il 1332 e il 1551, il complesso degli edifici apparteneva ai frati francescani e veniva utilizzato come ostello per i pellegrini che lasciavano il loro segno sui muri - spiegano Michael Chernin e Shai Halevi dell'IAA, che guidano il progetto - I metodi tecnologici sviluppati oggi, grazie alla fotografia multispettrale, ci consentono di rilevare tracce invisibili all’occhio umano e sbiadite dal tempo”.
  Nato nel 1424 il nobile Adrian von Bubenberg esercitò per lungo tempo l’incarico di scoltetto (che corrisponde all’attuale sindaco) di Berna. Passò alla storia nel 1476, quando a capo dell’esercito confederato svizzero sconfisse nella battaglia di Morat l'esercito di Carlo il Temerario, duca di Borgogna. Alla sua morte nel 1479 von Bubenberg fu sepolto nella cattedrale di Berna e in suo onore fu eretto un monumento.
  "La ricerca condotta a Gerusalemme abbraccia religioni e culture di tutto il mondo. – ha detto Eli Escusido, direttore dell'IAA - Credenti, pellegrini e visitatori hanno lasciato tracce che i ricercatori dell’Israel Antiquites Authority rivelano e registrano quotidianamente". “La scoperta – ha aggiunto Escusido - crea un ‘quadro affascinante’ del passato della città”.

(Shalom, 21 ottobre 2022)

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La ripresa dei rapporti fra Damasco e Hamas un punto a favore di Assad

L’incontro fra il presidente siriano e la delegazione palestinese è un momento “storico” che archivia anni di tensioni. Rilanciato “l’asse di resistenza” contro Israele che include Teheran, Hezbollah e gli Houthi in Yemen. Khalil al-Hayya, responsabile di Hamas per le relazioni col mondo arabo, parla di “giorno glorioso e importante”.

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DAMASCO - Un momento “storico” che sembra aver archiviato anni di tensioni e di congelamento dei rapporti fra alleati di un tempo, favorito dall’opera di mediazione dell’Iran e degli Hezbollah libanesi. Un riavvicinamento, per i più pragmatici, dettato dagli ultimi sviluppi politici e diplomatici in Medio oriente legato agli accordi di Abramo e alla crescente unione di intenti fra Israele e alcuni Stati dell’area, su tutti gli Emirati Arabi Uniti e Kuwait (oltre all’Arabia Saudita, seppur in posizione più defilata). Sono queste le ragioni che hanno spinto, dopo un decennio di muro contro muro, una delegazione di alto livello di Hamas - il movimento palestinese che domina la Striscia di Gaza - a far visita a Damasco e incontrare il presidente Bashar al-Assad. 
  Ad annunciare la ripresa delle relazioni è stata la stessa delegazione di Hamas il 19 ottobre, durante la visita nella capitale siriana e a conclusione dello “storico incontro” con Assad. Un tempo il gruppo palestinese era fra i più stretti alleati del Paese arabo e a Damasco aveva mantenuto a lungo un quartier generale dove in passato hanno trovato spesso rifugio sue figure di primo piano. Una unità di intenti legata alla comune contrapposizione a Israele. Nel 2012 Hamas aveva lasciato la Siria dopo aver sostenuto le proteste di piazza contro il governo e il suo leader, sfociate poi in una sanguinosa guerra per procura con mezzo milione di morti.
  Khalil al-Hayya, responsabile di Hamas per le relazioni col mondo arabo, parla di “giorno glorioso e importante”, nel quale “torniamo nella nostra casa Siria” per riprendere “un lavoro comune” interrotto da qualche tempo. “Questo è un nuovo inizio - ha aggiunto - per una azione congiunta palestinese e siriana” per poi confermare che tanto Hamas quanto Assad hanno entrambe concordato di “lasciarsi alle spalle il passato e di guardare al futuro”. 
  La ripresa delle relazioni fra Damasco e Hamas segna un punto ulteriore a favore di Assad. Nell’ultimo periodo il leader siriano ha dato il via libera alla ripresa dei rapporti con la Turchia dietro impulso di Mosca e in una prospettiva di interessi comuni, in particolare nel contenimento delle sacche jihadiste ancora attive nel nord-ovest e pericolosamente vicine ai confini turchi. La sua intesa con Hamas contribuisce al rilancio del tradizionale “asse di resistenza” contro Israele che include anche Teheran, gli Hezbollah libanesi e più di recente gli Houthi nello Yemen. 
  In queste ore anche la presidenza siriana ha commentato l’incontro fra Assad e la delegazione di leader palestinesi, pur senza fare esplicito riferimento alla “ripresa dei rapporti con Hamas”. Si è però dato ampio risalto a una foto dello stesso Assad e di al-Hayya (nella foto) che si tengono per mano in compagnia di altri funzionari della delegazione palestinese. 
  Una fonte del movimento palestinese ha sottolineato che il “disgelo” fra Hamas e Damasco è stato mediato da Teheran ed Hezbollah, dopo che nell’ultimo decennio la leadership siriana aveva accusato la formazione palestinese di “tradimento”. Lo stesso Assad, pur senza nominarli esplicitamente, in un discorso del 2013 li aveva paragonati ad avventori che trattano il Paese come un “hotel” da abbandonare in tutta fretta “quanto le condizioni si fanno difficili”. Nel 2017 Hamas ha detto di aver rotto i legami con la Fratellanza musulmana, fra le realtà che hanno alimentato l’opposizione interna siriana in guerra con l’esercito governativo negli anni più bui e sanguinosi del conflitto siriano. 

(AsiaNews, 21 ottobre 2022)

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Consigliere di Zelensky: "Israele ha scelto la parte sbagliata della storia"

Il consigliere senior del presidente ucraino, Mikhail Podolyak, ha criticato, ieri, la decisione israeliana di non fornire all'Ucraina sistemi di difesa aerea, secondo i media israeliani.  Podolyak ha sottolineato la sua delusione e quella dell’Ucraina, nella decisione israeliana dicendo ai giornalisti che "Israele ha scelto di essere dalla parte sbagliata della storia", aggiungendo che "causa grande delusione nella società ucraina".
  Inoltre, ha insistito sul fatto che 'Israele sembra aver abbandonato il desiderio di essere dalla parte giusta della storia", e ha persino ammonito che "la condotta complicherà in modo significativo le relazioni tra i nostri paesi per i decenni a venire".
  Lamentando ulteriormente il rifiuto israeliano di fornire armi all'Ucraina in un momento di alta cooperazione iraniana-russa, il consigliere presidenziale ucraino ha designato sia l'Ucraina che Israele come entità minacciate dal punto di vista esistenziale.
  Podolyak ha dichiarato: "Non sappiamo a cosa porterà in futuro la partnership militare tra Russia e Iran e quali tecnologie, compreso il nucleare, Mosca può condividere con Teheran, ma possiamo dire con sicurezza che i risultati della loro cooperazione si faranno sentire non solo da Kiev, ma anche da Gerusalemme". 
  Ha inoltre descritto Israele e Ucraina come entrambe complite da una minaccia esistenziale, affermando: "Il fatto che autocrazie come Russia e Iran mostrino una cooperazione militare molto più efficace di due democrazie ["Israele" e Ucraina] che si trovano in uno stato esistenziale minacciato dovrebbe causare a tutti noi un grande dolore".

• Paura israeliana per le conseguenze della fornitura di armi a Kiev
  La sicurezza e l'establishment militare temono, secondo Haaretz, che fornire all'Ucraina sistemi di difesa aerea porti all'abbattimento di aerei russi e all'uccisione di piloti, spingerà il presidente russo Vladimir Putin a puntare il dito contro Israele.
  Secondo Haaretz, i funzionari della sicurezza e dell'esercito hanno ricordato che "non esiste uno scenario" che spingerebbe Israele a fornire a Kiev il sistema antimissilistico Iron Dome, considerandola un'arma "strategicamente importante" per la sua sicurezza. Questo perché un'azione del genere avverrebbe "a spese della propria difesa aerea", secondo i funzionari.
  Inoltre, fonti di sicurezza israeliane hanno precisato che l'Iron Dome non è adatto alle esigenze dell’Ucraina, Ciò è dovuto sia al vasto territorio del paese – Iron Dome è progettato per un'intercettazione relativamente a corto raggio – sia al fatto che lo spazio aereo ucraino, a differenza dello spazio aereo israeliano, è controllato dal nemico”.
  Il 17 ottobre, il vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa Dmitry Medvedev ha messo in guardia Israele dal fornire armi all'Ucraina, sottolineando che qualsiasi mossa per potenziare l'arsenale di Kiev danneggerà gravemente le relazioni bilaterali. 
  "Sembra che Israele si stia preparando a fornire armi al regime di Kiev. Una mossa molto sconsiderata. Distruggerebbe tutte le relazioni bilaterali tra i nostri paesi", ha avvertito Medvedev. 

• Iron Dome israeliano inutile contro i missili russi
  La discussione sull'Iron Dome è in corso da diversi mesi e sembra che né l'Ucraina né Israele potrebbero decidersi.
  L'Ucraina non ha bisogno del sistema israeliano Iron Dome, aveva avvertito a luglio il ministro della Difesa di Tel Aviv, contraddicendo i precedenti commenti dell'ambasciatore di Kiev in Israele.
  L' ambasciatore ucraino in Israele Yevgen Korniychuk aveva annunciato a giugno che Kiev desiderava acquistare il sistema di sicurezza aerea Iron Dome. "Abbiamo bisogno dell'assistenza israeliana... intendo di supporto tecnico-militare; abbiamo bisogno di Iron Dome... che ci permetterà di salvare le nostre donne e bambini civili dai bombardamenti missilistici russi sul nostro territorio".
  A luglio, tuttavia, il ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov aveva ribadito a un vertice di Forbes che l'Iron Dome non sarebbe adatto all'Ucraina.

(l'AntiDiplomatico, 21 ottobre 2022)

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Uno sguardo al mercato azionario israeliano

di Dino Martin

La Borsa di Israele rappresenta una nicchia di mercato non tanto considerata dagli emittenti di ETF, almeno in Europa. Peccato, perché il mercato israeliano è uno dei più innovativi che esistono tra Europa e Medio Oriente, rendendolo sicuramente un'opportunità di investimento interessante per chi cerca mercati sottovalutati nei fondamentali.
  Naturalmente la raccomandazione è sempre quella di valutare un ingresso su questi indici regionali con porzioni di capitale contenute rispetto al patrimonio complessivo.

• Un ETF per ottenere un'esposizione alla Borsa di Israele
  Bisogna spostarsi sul listino americano per trovare un ETF (nello specifico emesso da iShares) che replica l’indice Msci Israel. Il grafico dell’indice Msci ci dice che la borsa israeliana dal 2009 ad oggi ha vissuto una fase non direzionale. Due picchi di prezzo nel 2010 e nel 2015. Minimi importanti (a cui aggiungere il sell off Covid) sempre nella stessa zona di prezzo distante circa un 10% dai prezzi attuali. Potremmo definirlo un enorme trading range.
  Un quadro tecnico interessante anche considerando le valutazioni della borsa di Tel Aviv. Secondo gli ultimi dati forniti da Msci riferiti a settembre 2022, l’indice israeliano ha multipli prezzo utili pari a 8 (la metà dell’indice Msci World), con un rapporto prezzo dividendi superiore al 4% (il doppio di Msci World).
  Questa appetibilità fondamentale si riflette però in performance decisamente peggiore dell’azionario globale negli ultimi 10 anni. Investire in Israele ha “bruciato” valore al ritmo di 0,5% all’anno con un tasso di rendimento annuo composto del 6% dell’azionario globale.

• Cosa contiene l'indice Msci Israel
  L’ETF di iShares si compone di oltre 100 titoli con i primi 10 che rappresentano il 50% dell’intero universo. Check Point Software, Nice, Bank Leumi, i nomi semi sconosciuti al pubblico italiano che occupano le prime tre piazze per percentuale di peso.
  A livello settoriale domina la tecnologia con il 28% dell’intero portafoglio, seguita da finanziari al 25%, real estate e industriali al 10%. Un paniere che quindi mixa stile growth a stile value, ma che vede finanza e tecnologia come baricentri delle performance future.
  Il Beta rispetto allo S&P500 americano di 0,98 conferma che la borsa israeliana si muove molto in sintonia con Wall Street.
  Per quello che riguarda l’aspetto valutario, il rischio cambio è 100% shekel israeliano. Negli ultimi mesi la svalutazione è stata piuttosto importante a causa di una banca centrale che sui tassi è sembrata più timida della FED. Il costo del denaro è salito nell’ultimo meeting al 2,75%, ma l’impressione che hanno i mercati è che un picco nei tassi non sia lontano. Questa potrebbe essere una buona notizia per un mercato azionario, che dopo il vigoroso recupero post Covid è sceso del 25% e che senza ombra di dubbio ha margini di sottovalutazione importanti.

(Investire.biz, 21 ottobre 2022)

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La Commissione d’inchiesta ONU critica Israele ma si scorda di Hamas e del terrorismo palestinese

di Paolo Castellano

Il 20 ottobre, la Commissione d’inchiesta dell’ONU sulla violazione dei diritti umani in Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza, ha pubblicato un secondo report accusando Israele di aver violato il diritto internazionale. Lo riporta Israel National News.
  Nel suo documento, la commissione guidata dal precedente funzionario dei diritti umani ONU, Navi Pillay, ha chiesto durante il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di porre fine alla “permanente occupazione” dei territori arabo palestinesi da parte di Israele e chiede che i diversi stati membri dell’ONU procedano nei confronti dei leader israeliani.
  Il report di 28 pagine, che sarà presentato il 27 ottobre all’Assemblea Generale dell’ONU, accusa Israele di “violazione del diritto internazionale rendendo permanente il suo controllo sulla Cisgiordania” e di “annessione delle terre considerate palestinesi di Gerusalemme e della Cisgiordania, e anche il territorio siriano sulle alture del Golan”.
  «Le azioni di Israele, costituite de facto, includono l’espropriazione del territorio e le risorse naturali, la creazione di insediamenti e avamposti, il mantenimento di un piano restrittivo e discriminatorio e la costruzione di un regime per i palestinesi e l’estensione extraterritoriale della legge israeliana agli insediamenti israeliani in Cisgiordania», le accuse del documento.
  Inoltre, il report ONU accusa Israele di portare avanti “politiche discriminatorie contro i cittadini arabi, depredando le risorse naturali e commettendo violenze contro le donne palestinesi”.
  Gli autori invocano un urgente parere consultivo dalla Corte Internazionale di Giustizia “sulle conseguenze legali del continuo rifiuto di Israele di fermare la sua occupazione”, e un’investigazione di un pubblico ministero della Corte Penale internazionale.
  Il precedente report della Commissione d’inchiesta, rilasciato lo scorso giugno, ha accusato Israele di “crimini di guerra” durante l’Operazione Guardiani delle Mura del maggio 2021.
  Il documento è stato condannato da Israele e anche dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.
  In risposta all’inchiesta del 20 ottobre, la delegazione ONU di Israele ha rilasciato una dichiarazione: «I commissari che hanno fatto commenti antisemiti e che hanno partecipato proattivamente nell’attivismo anti-israeliano, entrambe le cose prima e dopo tali cariche, non hanno nessuna legittimità e nemmeno credibilità riguardo alla questione».
  La dichiarazione aggiunge che l’inchiesta continua “a danneggiare la credibilità delle Nazioni Unite e i suoi meccanismi dei diritti umani”. La delegazione ha sottolineato che il documento non menziona Hamas e gli atti di terrorismo.
  Pillay, che è stata nominata capo della Commissione d’inchiesta nel luglio del 2021, ha una storia di dichiarazioni anti-israeliane.
  Nel 2014, ha criticato Israele per “aver bersagliato” le scuole e gli ospedali avviati dall’ONU a Gaza, mentre ha omesso di menzionare tre scuole ONU a Gaza che sono state utilizzate come depositi di razzi, una clamorosa violazione del diritto internazionale che chiaramente fa parte della categoria dei crimini di guerra.
  Settimane prima, Pillay aveva aperto un dibattito ONU d’emergenza a Gaza dicendo che c’era una “forte possibilità” che Israele stesse violando il diritto internazionale a Gaza, e che ciò sarebbe potuto equivalere a crimini di guerra.

(Bet Magazine Mosaico, 21 ottobre 2022)

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Gaza, imprenditori sudafricani cercano opportunità di investimento

MOZAMBICO - Una missione composta da circa 20 uomini d'affari della provincia sudafricana del Limpopo è da mercoledì nella provincia di Gaza alla ricerca di opportunità di investimento, nell'ambito del partenariato e della cooperazione economica esistente tra le due regioni. Gli uomini d'affari, guidati dal ministro sudafricano dell'Agricoltura e dello sviluppo rurale, Thabo Mokone, sono interessati ad esplorare le varie potenzialità economiche della provincia di Gaza, soprattutto nei settori dell'agricoltura, dell'allevamento e dell'industria di trasformazione.
  Durante il tour, il governatore della provincia di Gaza, Margarida Chongo, farà visitare agli investitori il progetto Nguluzane (dedicato al bestiame), il progetto dedicato alla lavorazione degli ortaggi, il complesso agroindustriale Chókwè (CAIC), Massingir Citros e l'impianto di lavorazione degli anacardi, tra le altre opportunità locali nonché siti turistici. “Siamo qui perché vogliamo lavorare con Gaza nei settori dell'agricoltura e dell'allevamento, vorremmo parlare del potenziale che esiste per la produzione alimentare, perché non possiamo avere fame dove c'è la terra.
  Gli imprenditori cercheranno di capire cosa si può fare per lo sviluppo di questa provincia”, ha spiegato Mokone. Durante i quattro giorni di visita, gli uomini d'affari sudafricani visiteranno, oltre al distretto di Xai-xai, i distretti di Chongoene, Massingir, Chibuto, Bilene e Chókwè.

(InofoAfrica, 21 ottobre 2022)

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Compie 100 anni il primo kibbutz del movimento Hashomer Hatzair

di Michelle Zarfati

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Il primo kibbutz fondato dal movimento giovanile ebraico sionista Hashomer Hatzair celebra il suo 100° anniversario. Si tratta di Beit Alfa, un kibbutz situato nel nord di Israele: fondato nel 1922, il kibbutz ha affrontato sfide incredibilmente difficili sin dall'inizio, tra paludi, terreno accidentato, zanzare, caldo terribile durante l'estate e minacce da parte di infiltrati arabi.
  Oggi, il simbolo più significativo del kibbutz è il suo membro più anziano: Sonia Nahorai, 98 anni, pioniera e fondatrice di Beit Alfa. Nahorai vive ancora nel kibbutz insieme a molti dei suoi discendenti. Non solo fondò il kibbutz, ma lavorò la terra e respinse gli arabi che cercarono negli anni di destabilizzare gli equilibri all'interno di Beit Alfa. Ora, mentre il kibbutz celebra il 100° anniversario, Sonia lo festeggia assieme a quattro generazioni della sua famiglia che accompagnano la sua vita in questo luogo.
  “Sono arrivata in Israele dalla Polonia quando avevo solo 10 anni” ha raccontato Nahorai. “Abbiamo iniziato come pionieri e ora siamo un paese indipendente e forte. È straordinario vedere come sta crescendo la quarta generazione della mia famiglia nel kibbutz”.
  La vita di Sonia non è stata sempre facile, anzi, proprio come il luogo in cui vive, nel corso degli anni ha dovuto affrontare gravi perdite. Come uno dei suoi figli, il capitano Nadav Nahorai, un pilota dell'aviazione israeliana, che perse la vita 1968 durante un bombardamento delle forze irachene in Giordania. Nadav fu costretto ad abbandonare il suo aereo e, mentre si paracadutava a terra, venne ucciso a colpi di arma da fuoco dai residenti locali.
  Eran, il figlio settantenne di Sonia, ha detto che sua madre e gli altri pionieri hanno plasmato il confine orientale di Israele. “Quando sono arrivati, l'intera valle era una grande palude. Hanno combattuto la malaria e hanno formato quello che ora è uno dei confini di Israele”. Oltre a Eran, a Beit Alfa vivono anche 15 nipoti di Sonia e nove dei suoi pronipoti.
  “Mia nonna è stata una vera pioniera. L'educazione dei bambini del kibbutz è molto legata alla nostra storia" ha spiegato Yarai, nipote di Sonia.
  Nir Meir, capo del Movimento dei Kibbutz, ha aggiunto: "I pionieri di Beit Alfa hanno affrontato continui attacchi durante le rivolte palestinesi del 1929 e hanno resistito con forza e determinazione agli attacchi contro il loro kibbutz isolato”.

(Shalom, 21 ottobre 2022)

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L'Ucraina ha chiesto a Israele tutti i possibili sistemi di difesa aerea, ma ha ricevuto un rifiuto categorico

Dopo l'inizio di attacchi su larga scala da parte delle forze armate russe su obiettivi in Ucraina utilizzando i droni Shahed-136 (M214 Geranium-2), Kiev ha cercato di giocare la carta iraniana contro Tel Aviv. Le autorità ucraine hanno inviato una richiesta ufficiale a Israele per l'acquisto di un'ampia gamma di sistemi di difesa aerea/missilistica di fabbricazione israeliana per creare una difesa aerea a più livelli.
  Va notato che l'appetito dell'Ucraina sembra davvero impressionante. L'elenco includeva un'ampia varietà di complessi. Kiev voleva ottenere i sistemi di difesa aerea Barak-8 (simile all'S-350 Vityaz russo), Iron Dome, David's Sling (simile all'S-300), Hetz-3 (simile all'S-400/500) e persino l'ultimo sistema di difesa aerea laser "Raggio di ferro".
  La risposta di Tel Aviv alla richiesta è stata fulminea. Israele si è rivelato non così avido di denaro come molte persone pensavano, e la retorica anti-iraniana non ha aiutato nemmeno l'Ucraina. Tel Aviv ha risposto a Kiev con un rifiuto categorico. Inoltre, la decisione è stata espressa direttamente dal ministro della Difesa israeliano Benny Gantz.
  "Sono il ministro della Difesa e sono responsabile dell'esportazione di armi israeliane. Voglio essere chiaro: non venderemo armi all'Ucraina", ha detto alla stazione radio israeliana Kol Chai.
  Ha sottolineato che dall'inizio del conflitto in Ucraina, Israele ha fornito a Kiev solo attrezzature mediche.
  Di recente, il capo del ministero della Difesa ucraino Oleksiy Reznikov ha cercato ancora una volta di contattare il suo omologo israeliano. Il dipartimento militare ucraino ha chiesto un colloquio telefonico tra Reznikov e Gantz, ma in Israele la richiesta è stata accolta senza comprensione ed è stata respinta il 18 ottobre. L'ultima volta che Reznikov e Gantz hanno parlato è stato ad aprile. Successivamente, la conversazione è stata posticipata già 5 volte. Pertanto, Israele dimostra in ogni modo possibile di non essere interessato a tale cooperazione.

(Reporter, 20 ottobre 2022)

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Non perdiamo la pluralità dell’ebraismo italiano

Anna Segre dirige da 12 anni Ha Keillah, dove lavora dal 1992. In questa intervista ci dà il suo punto di vista sull’ebraismo italiano, e sul ruolo che esso può e deve giocare nella società oggi.

- Anna, da quanti anni dirigi Ha Keillah?

Di fatto dal settembre 2010, anche se nei primi due anni, non essendo ancora pubblicista, non avevo il ruolo ufficiale di direttrice responsabile (che, dopo le dimissioni del precedente direttore, David Sorani, era stato affidato a Vicky Franzinetti). Due cifre tonde: sono direttrice responsabile da dieci anni e sono in redazione da trenta, cioè dal settembre 1992, quando sono tornata a vivere stabilmente a Torino dopo un triennio parzialmente romano per motivi di lavoro di mio padre. Posso dire che la mia carriera di giornalista amatoriale (mi definirei così, dato che in realtà sono un’insegnante di lettere) è iniziata a Roma: in quel triennio sono stata redattrice e poi direttrice di Ha Tikwà, organo della Federazione Giovanile Ebraica d’Italia.

- Ogni giornale si caratterizza per una sua voce e un suo pubblico: qual è stata la voce di Ha Keillah in tutti questi anni, e a quale pubblico si rivolge?
  Ha Keillah è l’organo del Gruppo di Studi Ebraici di Torino, di orientamento progressista (nel senso di sinistra). Il giornale è nato nel 1975 per dare voce a quella che allora era una minoranza nel Consiglio della Comunità ebraica (il GSE è poi diventato maggioranza dal 1981 al 2007 e dal 2015 partecipa a una gestione condivisa della Comunità), ma fin dall’inizio non si è occupato solo delle vicende comunitarie torinesi. C’è sempre stata attenzione a Israele, alla politica italiana, all’Ucei, alla memoria della Shoah, alla storia degli ebrei in Italia, e in particolare in Piemonte, a libri, film, mostre e a molto altro. Fin dall’inizio hanno occupato uno spazio rilevante le discussioni e riflessioni su pensiero ebraico, Torà, halakhà, ecc.; nel corso degli anni abbiamo avuto il piacere di ospitare i contributi di molti rabbini, principalmente di Torino, ma non solo.

- Dunque il tuo è un giornale legato a un territorio preciso?
  No, con il tempo il giornale è uscito dall’ambito torinese, conquistando lettori in altre Comunità ebraiche italiane e anche in Israele e altrove, ed ha avuto un ruolo da protagonista nell'ambito dell’ebraismo italiano, essendo percepito in qualche modo come il giornale degli ebrei progressisti (o di sinistra, o come li vogliamo definire) in Italia. È significativo notare che in alcune occasioni negli anni ’90 e nei primi anni 2000 sono nate liste di candidati per i congressi dell’Ucei che avevano “Keillah” nel proprio nome. Inoltre dal 2002 Ha Keillah è online e quindi visibile potenzialmente da chiunque, grande responsabilità di cui siamo consapevoli. Ancora oggi il nucleo più consistente di lettori è a Torino e c’è un’attenzione particolare alle vicende della locale Comunità ebraica, ma il nostro obiettivo, soprattutto negli ultimi anni, è “detorinesizzarci” (abbiamo recentemente lanciato un appello in questo senso, e abbiamo attualmente un redattore che vive a Roma).

- Dal tuo punto di osservazione immagino che in tanti anni ti sarai fatta anche un’idea sull’ebraismo italiano. Innanzitutto, quando hai iniziato a dirigere il giornale com’era la situazione?
  Come dicevo, dirigo Ha Keillah solo da dodici anni, che sono relativamente pochi. Più interessante il confronto con la situazione di venti o trent’anni fa, quando ho avuto anche occasione di conoscere più da vicino l’ebraismo romano e l’Ucei, di cui i miei genitori sono stati entrambi Consiglieri tra gli anni ’90 e i primi anni 2000; in particolare ho vissuto da vicino l’esperienza di mia madre che si occupava del bilancio: prima dell’8 per mille l’Unione dipendeva dai contributi delle Comunità che arrivavano con il contagocce, non avrebbe potuto permettersi propri organi di informazione come ci sono oggi e molte altre iniziative culturali, di cui allora già si parlava ma che apparivano come progetti un po’ utopistici. In compenso mi pare che il coinvolgimento dei singoli, in particolare nelle piccole e medie Comunità, nella vita dell’Unione fosse più attivo, ma riconosco che potrebbe essere un’impressione errata basata solo sulla mia esperienza personale.

- E oggi? Ritieni che ci siamo rafforzati o indeboliti? In altre parole, quali sono i punti di forza e quelli di debolezza dell’ebraismo italiano, oggi?
  Personalmente sono sempre stata una paladina del modello italiano di ebraismo unitario, formalmente ortodosso ma in grado di accogliere tutti. So che questo modello crea molti problemi e non sono sicura che sarà possibile salvarlo ma le alternative non mi convincono: siamo troppo pochi per permetterci di dividerci. Nonostante tutto credo che questo modello sia un punto di forza, anche se richiede compromessi che non tutti sono disposti a fare. La nostra debolezza sta nei piccoli numeri ma anche nella nostra litigiosità, e in particolare nell’incapacità da parte di molti di rispettare le opinioni altrui.

- Cosa intendi?
  È importante che gli ebrei delle diverse Comunità si parlino tra di loro: spesso, a meno che non abbiano parenti stretti in altre città, sanno pochissimo gli uni degli altri, e questo è un peccato. Ho accennato prima agli organi di informazione dell’Ucei; devo dire che ho vissuto la nascita di Pagine ebraiche e di Moked come la realizzazione di un sogno: non più tanti piccoli giornali comunitari o legati a singole organizzazioni ebraiche ma uno spazio comune di confronto tra tutti gli ebrei italiani; e sono stata molto onorata che mi sia stato permesso di partecipare a questa avventura con alcuni articoli su Pagine ebraiche e uno spazio settimanale su Moked. Purtroppo con il tempo la rosa dei collaboratori si è ristretta e la varietà di opinioni che c’era all’inizio è venuta meno. Io stessa tendo ad autocensurarmi quando scrivo per Moked: ho uno stile da Ha Keillah e uno stile da Moked, e non solo per la diversa dimensione degli articoli. In parte è giusto che cerchiamo di fare uno sforzo di chiarificazione quando ci rivolgiamo a persone con opinioni diverse dalle nostre, e che impariamo a non dare per scontate cose che non sono scontate per tutti. Ma ci sono anche argomenti che semplicemente rinuncio a trattare, e non dovrebbe essere così. All’inizio pensavo che con la nascita di Pagine ebraiche un giornale come Ha Keillah fosse divenuto superfluo ma ora vedo che invece è ancora necessario.

- E quanto all’Ucei, in particolare?
  Con il nuovo statuto dell’Ucei il ruolo delle Comunità medie e piccole è stato indubbiamente mortificato: Torino, per esempio, era abituata ad avere due o tre Consiglieri dell’Unione su quindici, adesso per statuto non può averne più di uno su cinquanta (per circa 800 iscritti, in proporzione siamo rappresentati non solo meno delle Comunità più piccole ma anche meno di Roma e Milano; onestamente non mi sembra giusto). Posso dirti che oggi gli ebrei torinesi non sanno assolutamente nulla di quello che succede all’Ucei, e credo che anche in altre Comunità medie e piccole accada lo stesso: non abbiamo più le elezioni per liste, ogni Comunità manda il suo rappresentante e non c’è più alcun tipo di dibattito. Questo non mi sembra un bene. Potrebbe essere forse utile se almeno servisse a litigare un po’ meno, ma vedo che non è così, anzi: si possono avere opinioni diverse e rispettarsi come persone (e in passato accadeva spesso), ma quando le idee appaiono tutte simili le campagne elettorali finiscono per fondarsi solo sulla denigrazione degli avversari.

- Storicamente, si tende a ritenere che la comunità di Torino, nel panorama nazionale, sia quella più impegnata politicamente, con un netto orientamento progressista. Non a caso, durante il fascismo, il regime avviò la campagna antisemita arrestando un gruppo di ebrei torinesi. È una lettura corretta? Ed è ancora così?
  A me pare una lettura corretta. Naturalmente nessuno può dire con esattezza quanti ebrei votano questo o quel partito ma l’impressione che ricavo dai discorsi che si ascoltano e dalle attività culturali che si organizzano in Comunità è in effetti quella di un orientamento progressista prevalente. Nei momenti di grande litigiosità che hanno lacerato la Comunità una decina di anni fa mi aveva colpito una sorta di gara tra i due gruppi rivali (o, per lo meno, tra alcuni loro membri, perché in realtà c’era una certa trasversalità in entrambi) a dichiararsi progressisti e accusare gli avversari di non esserlo. Quello che certamente si può dire è che a Torino ci sono state personalità importanti dell’antifascismo (giustamente hai ricordato gli arresti del 1934, anche se non possiamo dimenticare che per reazione a Torino era nato poi anche un giornale ebraico fascista), della Resistenza e poi della politica italiana; basti ricordare Umberto Terracini, che è stato Presidente dell’Assemblea Costituente, o Rita Montagnana, una delle poche donne elette in quell’assemblea; in anni più recenti sono stati deputati anche Giorgina Levi, che sarà poi la prima direttrice di Ha Keillah, e Silvio Ortona, che del nostro giornale diventerà uno dei collaboratori più assidui. Non è detto, però, che questi nomi (tutti del PCI, ma credo sia un caso) siano la prova di un orientamento generale degli ebrei torinesi.

- A proposito di regime e di libertà: durante l’ultima campagna elettorale si è affacciato più volte il tema del pericolo per la democrazia. Ora che gli italiani si sono espressi, tu vedi un pericolo di questo tipo?
  Sì. Non credo che tornerà il fascismo con l’olio di ricino e il manganello, ma questo, a mio parere, non significa che non ci siano motivi per preoccuparsi. In particolare in quanto insegnante mi chiedo se sarà ancora considerato doveroso parlare ai ragazzi di cosa è stato il fascismo e del male che ha fatto all’Italia, o se invece in qualche modo verremo più o meno esplicitamente ostacolati, scoraggiati, o accusati di essere “di parte” se diciamo mezza parola di troppo. E cosa ne sarà del 25 aprile? E della Giornata della Memoria? Personalmente non capisco come potremmo mettere sullo stesso piano chi andava a caccia dei nostri genitori e nonni per avviarli allo sterminio (o chi si proclama erede dell’ideologia di chi dava loro la caccia, che forse è ancora peggio, perché oggi nessuno può dire di non sapere cosa è stata la Shoah) e chi li aiutava e difendeva. E poi, forse, c’è da temere per la laicità della scuola pubblica e delle istituzioni. E che idea ha della democrazia chi proclama che un leader che è stato votato dalla maggioranza dei cittadini ha il diritto di fare quello che gli pare, compreso soffocare tutte le voci di opposizione? Anche questo (cioè il sostegno a Orban e il modo in cui è stato giustificato) non è propriamente tranquillizzante. Naturalmente sarei ben contenta di sbagliarmi, ma credo sia bene stare in guardia.

- Torniamo al giornale. Dopo tanti anni, prevale più l’entusiasmo o la fatica di dirigere una testata ormai storica dell’ebraismo italiano?
  Confesso che prevale la fatica, anche perché non sempre riesco a conciliare tutte le cose da fare nel giornale con i miei impegni lavorativi; infatti dopo aver mandato in stampa il numero di luglio ho smesso di occuparmi degli aspetti organizzativi, che sono passati, almeno per il momento, nelle mani di Bruna Laudi, Presidente del Gruppo di Studi Ebraici. Penso che sarebbe una buona cosa se il giornale passasse in mani più giovani ed entusiaste delle mia, e, in generale, se il giornale potesse avere più lettori e collaboratori, in particolare giovani. La prima direttrice, Giorgina Arian Levi, che ho menzionato prima, è stata direttrice di Ha Keillah per 12 anni; io ho appena completato il mio dodicesimo anno: lo leggo come un segno.

- Progetti per il futuro?
  Mi piacerebbe scrivere per lettori diversi dai soliti, e quindi sarebbe interessante collaborare con altri giornali ebraici italiani. E poi, anche se so che è quasi impossibile continuo a coltivare il sogno di un giornale che possa essere la casa comune di tutti gli ebrei italiani (o, almeno di tutti gli ebrei diciamo progressisti). L’attuale ricchezza di testate (a proposito: Riflessi mi piace molto, complimenti!) è senza dubbio un segno di vivacità e pluralismo dell’ebraismo italiano ma implica anche un dispendio di energie che forse potremmo impiegare in modo più utile e soddisfacente per noi.

(Riflessi Menorah, 20 ottobre 2022)

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Gli ebrei in Sicilia nel XV secolo: un esempio di convivenza e integrazione culturale

Il saggio di Andrea Cerra per Rubbettino ricostruisce le vicende della comunità di Catania.

L'antica Giudecca a Catania
La comunità ebraica di Catania, a differenza di quanto accadde in Castiglia e Aragona, vide l'applicazione dell'Editto di Granada in Sicilia soltanto tre mesi dopo. Non a caso, il ceppo giudaico originario definisce la Sicilia 'Achèr Israel', ovvero 'Altro Israele'. Ciò ci permette di ipotizzare un particolare ruolo della comunità ebraica relativamente al tessuto economico e sociale siciliano e, specificatamente, catanese.
  L'ipotesi generale intorno alla rilevanza economica e sociale della comunità ebraica catanese è confrontata ne La città sepolta. Politica e istituzioni degli ebrei a Catania nel XV secolo di Andrea Cerra (Rubbettino, prefazione di Asher Salah) con l'accurata storiografia, sia in forma bibliografica che in forma archivistica, allo scopo di elaborare nuove ipotesi interpretative che diano ragione della sopravvivenza di modelli culturali e comunitari ebraici nell'area etnea.
  La Sicilia, “Achèr Israel”, sembra così, se non un luogo ideale, un contesto nel quale da secoli gli ebrei convivevano con le altre etnie presenti utilizzando forme organizzative, di amministrazione della giustizia, di culto proprie, e assumendo un ruolo di rilievo all’interno dei diversi tessuti urbani, al contempo separati e profondamente uniti al milieu cittadino nel quale erano radicati.
  Il volume ricostruisce le vicende della comunità ebraica di Catania nel XV secolo, nel più ampio contesto delle giudecche siciliane, sino all’applicazione dell’editto di Granada. Ne emerge un’immagine nitida della communitas judaica etnea, degli spazi fisici che occupava e del ruolo istituzionale, economico e sociale che ricopriva; l’affresco di una comunità operosa e integrata, seppure inevitabilmente caratterizzata da forti tratti distintivi.
  “Nello scrivere la storia della presenza ebraica a Catania nel tardo Medioevo è necessario talvolta rinunciare all’ottimismo che accompagna di regola le ricostruzioni storiografiche di un passato non tanto remoto da essere completamente avvolto dalle incertezze dei miti fondativi” spiega Asher Salah nella prefazione. “Chi desidera avvicinarvisi si trova invece spesso costretto ad adottare la prospettiva dell’archeologo che riesuma i reperti incongruenti di una civiltà travolta da un improvviso quanto brutale cataclisma. L’immagine della “città sepolta”, scelta da Andrea Giuseppe Cerra, sulle orme di C.W. Ceram, per descrivere quanto rimane della Catania ebraica medievale, non va dunque intesa solo come metafora del lavoro dello storico intento a ricostruire la storia sulla base di testimonianze inevitabilmente frammentarie e incomplete, ma corrisponde, in senso assai letterale, all’immensa lacuna lasciata nelle fonti da una lunga serie di eventi catastrofici”.
  Andrea Giuseppe Cerra è dottore di ricerca in Scienze Politiche presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania. Ha condotto studi sull’istituto autonomistico siciliano, sulla storia di genere nell’età risorgimentale e sulla dimensione politico-istituzionale di alcune comunità ebraiche in Sicilia. Nel 2020 è stato Doctorant invité all’Université Paris Nanterre. È membro del Comitato di redazione delle riviste Annali della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice e Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee.

(la Repubblica, 20 ottobre 2022)

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Accuse di sionismo: quattro scrittori francesi rinunciano al festival letterario a Beirut
  
Rinomati autori francesi si sono ritirati dalla partecipazione a un festival letterario organizzato dalla Francia in Libano che si apre mercoledì, a seguito delle accuse di “sionismo”, ma l’evento è mantenuto, hanno annunciato gli organizzatori.
  Cento autori francofoni da tutto il mondo partecipano a Beirut Books, un evento culturale senza precedenti durante il quale verranno annunciati dalla capitale libanese i quattro finalisti del premio Goncourt 2022. Ma quattro membri del prestigioso Goncourt (Eric-Emmanuel Schmitt, Tahar Ben Jelloun, Pascal Bruckner e Pierre Assouline) hanno deciso di non partecipare a questo evento.
  Il ministro della Cultura libanese, Mohammad Mourtada, vicino al movimento sciita Amal, aveva accusato alcuni autori partecipanti al festival l’8 ottobre, senza nominarli, di sostenere il “sionismo”, prima di ritirare il suo comunicato dai social network. Mourtada, la cui formazione è alleata del potente movimento terroristico di Hezbollah, filo-iraniano, nemico giurato di Israele, non ha specificato a quali autori si riferisse. Ma ha detto che “non avrebbe permesso ai sionisti di venire tra noi e diffondere il veleno del sionismo in Libano”.
  Lo scrittore francese di origine libanese Sélim Nassib ha annunciato in un comunicato che avrebbe rinunciato anche a partecipare al festival, affermando che le osservazioni del ministro lo avevano “profondamente disgustato”. Nassib doveva presentare il suo ultimo romanzo, Le Tumulte, il cui eroe è nato a Beirut in una famiglia ebrea.
  Mercoledì, il quotidiano Al-Akhbar, vicino a Hezbollah, ha pubblicato un articolo di benvenuto per il ritiro degli autori, dal titolo: “Beirut resiste ai sionisti”.
  “Il Ministero della Cultura ci ha assicurato il suo pieno sostegno per l’organizzazione di questo festival, che mira a sottolineare il ruolo di Beirut come capitale culturale”, ha detto all’AFP Sabine Sciortino, direttrice dell’AFP, Istituto francese del Libano che organizza l’evento.
  “L’ambiziosa programmazione del festival continua”, ha detto. “La Goncourt Academy ci ha assicurato che onorerà l’impegno preso, il presidente Didier Decoin si recherà a Beirut per annunciare i finalisti del premio”, il 25 ottobre.
  Libano e Israele sono tecnicamente in guerra e le campagne prendono regolarmente di mira autori accusati di “normalizzazione”. Nel 2016, il prestigioso autore franco-libanese Amin Maalouf, vincitore del Premio Goncourt, è stato oggetto di una campagna in Libano per aver rilasciato un’intervista a un media israeliano.

(Bet Magazine Mosaico, 20 ottobre 2022)

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Un secolo fa nasceva Beit Alfa, il primo kibbutz fondato dal movimento giovanile sionista laburista

Sonia Nahorai, 98 anni, fece parte della generazione di pionieri che fondò il kibbutz, bonificò le terre e respinse gli attacchi arabi.

Se il primo kibbutz in assoluto, Degania, venne fondato a nel 1909 sulle sponde meridionali del Kinneret (o Lago di Tiberiade), il primo kibbutz fondato dall’Hashomer Hatzair, il movimento giovanile sionista laburista, celebra fra pochi giorni il 100esimo anniversario della sua fondazione.
Beit Alfa, situato nel nord di Israele alle pendici del monte Gilboa, venne fondata nel 1922 su terreni acquistati nei pressi di un villaggio arabo all’epoca già da tempo abbandonato, e sin dall’inizio si trovò ad affrontare sfide titaniche: paludi, terreni duri e sassosi, zanzare e malaria, caldo terribile durante l’estate e ripetute aggressioni ad opera di bande di arabi....

(israele.net, 20 ottobre 2022)

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Al via il convegno “I Tesori della Siracusa ebraica”

di Michelle Zarfati

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Sin dall'antichità, Siracusa ha ospitato una fiorente comunità ebraica. Dopo una fase molto fiorente in età greca e romana, nel medioevo la città si dimensionò notevolmente, concentrandosi soprattutto sull’isola di Ortigia, odierno centro storico di Siracusa. Stesso destino anche per la comunità ebraica locale, allora composta da circa 3mila persone, che si spostarono in un piccolo rione sul margine settentrionale. Oggi questo quartiere viene ancora chiamato la "Giudecca". Le fonti scritte hanno inoltre portato alla luce anche l'esistenza di un ospedale, di una sinagoga e di un Mikvé (bagno rituale). È ancora possibile trovare tracce dell'antica comunità ebraica a Siracusa.
  Nel corso degli anni, molti accademici si sono interessanti alla storia di questa comunità, che rappresenta un vero unicum all’interno del panorama italiano. Studiosi di fama mondiale, grazie alle loro ricerche, hanno fatto riaffiorare interessanti documenti d’archivio e iscrizioni ebraiche che attestano la presenza della sinagoga medievale nel quartiere della Giudecca.
  Proprio partendo da questi spunti, il 20 ottobre si tiene il convegno “I Tesori della Siracusa Ebraica” organizzato dall’Associazione Siracusa III Millennio, dalla Società Dante Alighieri di Gerusalemme e di Siracusa e dalla casa editrice Austeria. Un interessante simposio nato dall’esigenza di divulgare gli studi e le scoperte fatti negli ultimi anni. Gli atti del convegno verranno successivamente pubblicati dalla libreria editrice Austeria.
  Molte le voci autorevoli che prenderanno parte al seminario. Dopo l’inaugurazione della libreria, l’avvocato François Moyse, presidente di AEPJ, giungerà da Lussemburgo per lo svelamento di una targa del Consiglio d’Europa che inserirà Siracusa, dopo Venezia, tra gli itinerari ebraici. A seguire ci sarà una conferenza stampa alla quale parteciperanno Giulio Disegni vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane; Annie Sacerdoti e Claudia De Benedetti del board AEPJ (European Association for the Preservation and Promotion of Jewish Culture and Heritage); il prof. Dan Bahat, archeologo, e il prof. David Cassuto, architetto, giunti da Gerusalemme; il Rabbino Capo della comunità ebraica di Napoli Rav Cesare Moscati.
  Con i suoi numerosi e variegati reperti archeologici, catalogati da Nicolò Bucaria per la Fondazione per i beni culturali ebraici italiani, la Sicilia rappresenta una tappa fondamentale per ricostruire la storia dell’Italia ebraica.

(Shalom, 19 ottobre 2022)

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Israele: "Niente armi a Ucraina, solo aiuti medici e umanitari"

"Voglio mettere in chiaro il fatto che non stiamo vendendo armi all'Ucraina". A dichiararlo è stato il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz parlando con l'emittente radiofonica Kol Chai. "Finora sono stati inviati solo aiuti medici e umanitari e le cose andranno avanti così. Sono il ministro della Difesa e sono responsabile delle esportazioni di armi israeliane", ha aggiunto.
Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba aveva preannunciato la richiesta di sistemi di difesa aerea alle autorità israeliane per difendere il Paese contro gli attacchi russi. "Se la politica di Israele è veramente quella di contrastare in modo consistente le azioni distruttive dell'Iran, allora è tempo che Israele si schieri a fianco dell'Ucraina", aveva detto, alludendo all'uso di droni kamikaze iraniani nel Paese.

(Adnkronos, 19 ottobre 2022)


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Ucraina, l’esperto: “Ecco perché Israele è riluttante a rifornire militarmente Kiev”

L’impiego di droni e missili iraniani da parte della Russia nella guerra in Ucraina per colpire sia obiettivi civili e militari sta facendo aumentare la pressione su Israele per rifornire Kiev di sistemi difensivi altamente avanzati. Il dibattito si è intensificato soprattutto questa settimana dopo le dichiarazioni su Twitter rese lo scorso 16 ottobre dal ministro israeliano per gli Affari della diaspora, Nachman Shai, secondo cui, alla luce del coinvolgimento dell’Iran sarebbe giunto il momento per lo Stato ebraico di sostenere militarmente l’Ucraina. Tuttavia, secondo l’esperto e consulente per la sicurezza di origini israeliane, Lion Udler, sarebbe riluttante a inserirsi nel conflitto ucraino rifornendo direttamente Kiev con i propri sistemi d’arma.
  In un messaggio sul suo profilo Telegram, Udler ricorda che Israele e Russia “condividono di fatto un confine in Siria che entrambi vogliono mantenere calmo e in pace”, inoltre, secondo l’esperto, Israele opera in territorio siriano contro l’Iran e le sue milizie, “in coordinamento tecnico militare con la Russia per evitare incidenti”. Il consulente per la sicurezza nota anche un altro fattore che impedisce a Israele di fornire i propri sistemi di difesa antimissile: la segretezza. Infatti, come nota Udler, “i sistemi di difesa aerea israeliani sono prodotti con componenti hi-tech che solo Israele produce e sono classificati altamente segreti”.
  Secondo l’esperto, “i sistemi più avanzati non vengono venduti a nessuno” proprio per la ragione della segretezza. Udler ricorda che anche le due batterie di difesa aerea del tipo Iron Dome, vendute agli Stati Uniti – principale alleato dello Stato ebraico e principale finanziatore del suo programma di difesa missilistica – “non sono di ultimissima generazione”, come quelli a disposizione delle Forze di difesa israeliane (Idf). Un altro fattore riguarda le garanzie di sicurezza per Israele in caso di una reazione da parte della Russia.
  Israele non è un membro della Nato e, come osserva Udler, “in caso di conflitto non c’è alcuna garanzia” che avrà un aiuto. Inoltre, in caso di fornitura di sistemi avanzati all’Ucraina, anche la Russia potrebbe fornire sistemi antimissili all’Iran e anche alla Siria. L’Iran ha già in dotazione il sistema missilistico di difesa aerea S-300, le cui consegne da parte della Russia sono state completate nel novembre del 2016 alla luce di un accordo da 800 milioni di dollari firmato tra i due Paesi nel 2007. Per quanto riguarda la Siria, a seguito del coinvolgimento della Russia nella guerra civile al fianco del presidente Bashar al Assad, Damasco ha ottenuto nel 2018 alcune batterie di S-300, suscitando forti preoccupazioni in Israele, che nel 2013 era riuscito a convincere il governo russo a non consegnare batterie altamente avanzate al governo di Damasco. Mosca ha anche schierato nel 2015 in Siria il sistema difesa antimissile tecnologicamente avanzato S-400 per proteggere i suoi principali centri militari in Siria: la base aerea di Hmeimim, nella provincia di Latakia, e la base navale di Tartus.

(Agenzia Nova, 19 ottobre 2022)

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Bizzarrie diplomatiche: per l’Australia Gerusalemme non è più la capitale di Israele

di Ugo Volli

• Gerusalemme secondo l’Australia
  L’Australia ritira il riconoscimento che aveva concesso un paio d’anni fa al fatto che Gerusalemme sia la capitale di Israele e ritorna alla bizzarra teoria per cui questa capitale sarebbe Tel Aviv, incassando naturalmente il plauso dell’Autorità Palestinese, per la quale va bene ogni cosa che costituisca un danno per lo stato ebraico. Ma il danno è puramente simbolico, perché l’Australia non aveva mai trasferito la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e dunque il cambiamento è puramente virtuale: questione di parole. Vale la pena di notare però che in anni tutti pieni di successi diplomatici e aperture di relazioni con nuovi paesi a partire dagli “Accordi di Abramo”, questa è la prima cattiva notizia per Israele sul fronte diplomatico. Bilanciata senza dubbio dall’annuncio recente del nuovo primo ministro della Gran Bretagna, Liz Truss, di avere intenzione di spostare l’ambasciata del suo paese da Tel Aviv a Gerusalemme. Proposito cui si sono peraltro pubblicamente opposti il primate cattolico di Inghilterra, cardinale Vincent Nichols e soprattutto con molta veemenza quello anglicano, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby.

• Perché la questione della capitale?
  Che ogni stato abbia diritto di scegliersi una capitale entro i suoi confini, è ovvio. L’Italia non ha chiesto a nessuno il permesso per trasferirla da Torino a Firenze nel 1866 e poi da Firenze a Roma nel 1871. I numerosi nuovi stati che si sono costituiti negli ultimi decenni hanno deciso liberamente quale era la loro. La Germania unita ha spostato la capitale da Bonn a Berlino, la Croazia l’ha scelta a Zagabria, il Kossovo a Pristina, il Vietnam ha privilegiato Hanoi su Saigon: si tratta di esempi di stati formati o uniti dopo crisi, guerre, dissidi internazionali. Bisogna sottolineare che le istituzioni dello stato israeliano (parlamento, governo, corte suprema, banca centrale ecc.) hanno tutte preso sede a Gerusalemme da subito dopo la conclusione della guerra civile (quando la città vecchia di Gerusalemme era stata conquistata e devastata dai giordani e quella nuova assediata). Solo la sede centrale del Ministero della Difesa, col comando militare, è rimasta a Tel Aviv, per ragioni di sicurezza) Bisogna anche dire che tutte le istituzioni statali sono nella parte nuova della capitale, cioè in quel territorio che appartiene a Israele dal 1948 e non nei quartieri liberati nel 1967, come la città vecchia. Dunque la capitale è al di qua della “linea verde” che molti stati, inclusa la Comunità Europea e gli Usa vorrebbero fosse la base di un futuro accordo di pace coi palestinesi.

• Ma Gerusalemme fa eccezione
  E però tutto questo non basta. Ci sono stati dei piccoli scandali o incidenti dimostrativi, come quando lo stato italiano ha mandato documenti ai suoi cittadini residenti in città (e per giunta nella zona nuova) indicando nel loro indirizzo “Gerusalemme, Palestina” o in maniera più ipocrita “Gerusalemme, XXXX” come se non se ne potesse neppure nominare lo stato. O come quando gli Usa hanno rifiutato di specificare sul passaporto dei suoi cittadini nati a Gerusalemme che essi venivano da Israele. In sostanza molti paesi a proposito della capitale di Israele si rifiutano di riconoscere non solo lo status quo che si è formato con la Guerra dei Sei Giorni, cinquantacinque anni fa, ma anche il risultato della guerra di indipendenza, di vent’anni precedente. I fatti poi non interessano a nessuno: gli ambasciatori vanno a presentare le credenziali nel palazzo presidenziale che sta nel bel mezzo di Gerusalemme, ma poi tornano a vivere a Tel Aviv. Le ragioni di questa strana miopia non sono probabilmente solo le pretese musulmane su Gerusalemme, difficilmente sostenibili in quanto la città non è mai stata capitale di alcuno stato islamico e neppure di una sua provincia, ma anche quelle cristiane. Il Vaticano non ha mai davvero rinunciato all’idea di fare di Gerusalemme un’enclave internazionale, su cui poter esercitare la sua influenza; e questa speranza è condivisa con molte altre Chiese, anche per ragioni teologiche: l’autogoverno ebraico di Gerusalemme falsifica le affermazioni tante volte ripetute nei secoli, di condanna degli ebrei all’esilio eterno.

• Quel che importa davvero
  I problema della capitale è dunque oggi soprattutto simbolico. Quel che conta davvero per stabilire i diritti di uno stato sono le alleanze, i rapporti sul terreno, l’economia, la tecnologia, la capacità di autodifesa. Ma essa ha certamente anche una sostanza politica, che va guardata in faccia. Chi vuole affermare il pieno diritto degli ebrei al loro stato, e dunque considera il popolo ebraico una nazione legittima, accetta che la sua capitale sia Gerusalemme, com’è dai tempi di Re Davide, tremila anni fa; chi lo rifiuta o lo limita, esclude anche questa designazione. È un fatto che nel mondo attuale il primo gruppo sia costituito soprattutto da politici di destra (Trump è stato decisivo su questo problema) e il secondo da politici e governi di sinistra. Il caso dell’Australia, per esempio è chiarissimo: il governo che ha riconosciuto Gerusalemme era conservatore; alle elezioni di quest’estate hanno vinto i progressisti e sono loro ad aver deciso, come un segnale politico di discontinuità in politica internazionale, di togliere tale riconoscimento. Lo stesso vorrebbero fare molti democratici americani. E’ una vicenda che dà da pensare anche rispetto alle vicende italiane.

(Shalom, 19 ottobre 2022)

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Israele vuole aprire campi di transito in Azerbaigian per gli ebrei russi

di Francesco Paolo La Bionda

Il governo israeliano ha dichiarato di voler aprire campi di transito temporanei in Azerbaigian per gli ebrei russi che cercano di trasferirsi in Israele a seguito della guerra in Ucraina.
  Il 2 ottobre scorso, ha infatti approvato una proposta di legge per facilitarne l’immigrazione, di cui i sta verificando la più grande ondata degli ultimi vent’anni. Secondo il Ministero israeliano per l’Aliyah e l’Integrazione, che ha redatto la proposta insieme al Ministero delle Finanze, dall’inizio della guerra sono arrivati in Israele circa 24.000 immigrati dalla Russia. Altri 55.000 sono ora attesi e il governo ha stanziato una cifra pari a 25 milioni di euro per sostenerne le prime necessità una volta arrivati nel paese.
  Tra gli interventi previsti c’è l’istituzione di punti di raccolta in Azerbaigian e Finlandia a cura dell’Agenzia Ebraica, un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro che collabora con il governo israeliano per aiutare gli ebrei di tutto il mondo a reinsediarsi in Israele. Nel paese caucasico, che ha eccellenti relazioni bilaterali con lo Stato Ebraico, tuttavia le parti coinvolte stanno mantenendo il riserbo. Sia l’ambasciata israeliana sia l’ufficio dell’Agenzia ebraica non hanno rilasciato dettagli.
  Solo poche delle centinaia di migliaia di persone che hanno lasciato la Russia dall’inizio del conflitto, con un’impennata nelle ultime settimane a seguito della mobilitazione parziale dei riservisti, sono fuggite in Azerbaigian, perlopiù cittadini russi di etnia azera.

(Bet Magazine Mosaico, 19 ottobre 2022)

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Il Globalista: Israele e Libano fanno pace sul mare

Dopo oltre dieci anni di tentativi, è stata raggiunta un'intesa sui confini marittimi e sui diritti di esplorazione e sfruttamento dei giacimenti di gas che si trovano offshore

di Anna Bagaini

Israele e Libano hanno finalmente raggiunto un’intesa storica che pone fine all’annosa questione sui confini marittimi e sui diritti di esplorazione e sfruttamento dei giacimenti di gas che si trovano offshore. 
  Dopo più di un decennio di tentativi mediati dagli Stati Uniti, l’inviato speciale del presidente Biden, Amos Hochstein, ha provato ad adottare un approccio diverso, suggerendo alle due parti di scardinare la logica dello zero sum game (ovvero, quel modello di interazione per cui la vincita di una fazione è determinata dalla perdita della controparte) e di concentrarsi invece su ciò di cui avevano più bisogno. Si è quindi raggiunto un accordo che ha riconosciuto a Israele il diritto ufficiale di sfruttare Karish, mentre Qana è stata assegnata al Libano. 
  Il Paese, sprofondato in una grave crisi dal 2019, ha deciso di riporre le speranze nello sfruttamento del gas che può fornire un’ancora di salvezza di circa sei miliardi di dollari. Considerando la situazione economica ed energetica, il fallimento delle trattative non era un’opzione. Ciò di cui Israele ha bisogno, invece, è la promozione dei suoi interessi economici e di sicurezza, obiettivi che ha deciso di perseguire assicurando al Libano le proprie risorse di gas. Gerusalemme ha promosso così le sue priorità in tre modalità chiave: ha evitato una crisi umanitaria in Libano, ha ridotto la dipendenza di Beirut da Hezbollah e ha incentivato il Paese a mantenere la quiete lungo i confini condivisi. Inoltre, sembrerebbe aprirsi la strada per una stabilizzazione delle relazioni tra i due Paesi, riducendo così il pericolo di un’altra guerra tra Israele e Hezbollah, una minaccia che da tempo incombe sulla regione. Israele prevede di iniziare a sfruttare Karish entro la fine del 2022 e, sebbene sia relativamente piccolo in termini di produzione globale, il giacimento darà un surplus di gas che gli consentirà di esportare ogni anno circa dieci miliardi di metri cubi nell’Unione Europea. 
  L’Europa deve diversificare rapidamente le sue fonti di approvvigionamento energetico per fronteggiare l’incremento dei prezzi a seguito dell’invasione russa in Ucraina. Da qui, il nutrito interesse per il gas israeliano. Il 10 novembre Israele tornerà al voto e, da un punto di vista elettorale, l’accordo non sembra spostare l’ago della bilancia a favore di uno dei due sfidanti: l’attuale primo ministro Yair Lapid e il leader del Likud Benjamin Netanyahu. 
  Da un lato, l’accordo è un ottimo risultato per Lapid perché proietta all’opinione pubblica l’immagine di un premier capace. D’altro canto, offre a Netanyahu un’opportunità per accusare il governo di essere capitolato di fronte alle minacce di Hezbollah. Morale, i sondaggi vedono gli elettori israeliani dividersi quasi equamente tra i due blocchi politici: il fronte anti-Bibi (soprannome di Netanyahu) e il blocco pro-Bibi. Dopo cinque tornate elettorali in meno di quattro anni, nulla sembra scalfire il ripetersi dello stallo politico da cui Israele tenta disperatamente di uscire.

(Vanity Fair, 19 ottobre 2022)

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La scienza convertita in culto pagano

Lasciate stare la medicina: il vaccino è divenuto religione. Per chi vi aderisce, ricevere dosi all'infinito è un atto di fede. E, per spiegare l'incomprensibile, si incolpa l'infedele. [Il risalto in colore è stato aggiunto].

di Boni Castellane 

La scienza. La scienza non è mai stata la protagonista di questa storia. La scienza nella pandemia ha sempre svolto un ruolo da non protagonista, un ruolo senza dubbio importante ma non centrale. Chi è in grado di parlare seriamente di cosa sia effettivamente «scientifico» e cosa no - gli epistemologi e non i presentatori televisivi - ha sempre sostenuto sin dall'inizio che per affrontare una pandemia è fuori luogo appellarsi all'autorità. Non soltanto perché il concetto stesso di «autorità scientifica» si basa sulla conferma costante per prova-ed errore ed è per definizione sottoposto a provvisorietà, ma soprattutto perché, fin dall'inizio della pandemia, non sono mai esistiti dati certi. Ogni fonte ufficiale, dalla più autorevole e istituzionale ai centri di ricerca inventati all'ultimo momento dai nomi strani e dai portavoce pittoreschi, ha fornito numeri diversi su tutto, e ogni Paese ha contato le cose in maniera diversa, e ancora oggi ogni Paese ha un modo diverso per trovare i contagi, un modo diverso per contare i morti, un modo diverso per calcolare i posti in ospedale. Non c'è niente di «scientifico» in tutto questo, o meglio, nella migliore delle ipotesi, c'è il tentativo di associare principi e metodi scientifici a situazioni emergenziali di chiara derivazione bellica. 
  In questi giorni stanno proponendo la quinta dose a 120 giorni dalla quarta, sorvolando sulla contraddizione con il principio medico sempre affermato di non sollecitare eccessivamente il sistema immunitario. Con indifferenza si continua, da una parte, a dire che il sistema immunitario non andrebbe stimolato artificialmente e, allo stesso tempo, ti viene allungata la quinta siringa di terapia Rna in due anni. La Pfizer dichiara ufficialmente, al Parlamento europeo, che il vaccino non è mai stato pensato per garantire immunità, rendendo così infondato ogni concetto di «lasciapassare vaccinale», e la cosa viene bovinamente accettata dai media, dalle istituzioni e dai vaccinati come se fosse un dettaglio. Di fronte all'ammissione che i vaccini non impediscono il contagio, le persone si sono semplicemente divise tra quelli che lo sapevano già e lo dicevano da subito e quelli che lo sapevano già ma non lo ammetteranno mai . 
  Non c'è niente di scientifico in tutto ciò, si è trattato fin dall'inizio di una sperimentazione globale emergenziale i cui risultati, paradossalmente, sono e rimarranno per sempre segreti. Ogni giorno escono smentite, dati in contrasto con i precedenti, numeri che sconfessano altri numeri e nessuna reazione ufficiale significativa, nemmeno sulle morti in eccesso, nemmeno sulle reazioni avverse ormai evidenti a tutti: chi si è votato al vaccino si vaccinerà fin quando glielo ordineranno, per partito preso, per adesione, per fede. Stiamo dunque assistendo ad una trasformazione complessiva del paradigma bellico, il quale non può più essere usato per il Covid perché nel frattempo è scoppiata una guerra vera. 
  Nei confronti della pandemia il paradigma è diventato quello religioso di stampo pagano. Esiste una divinità malvagia per difenderci dalla quale occorre accogliere nel proprio sangue una divinità buona che però ha bisogno di continui sacrifici per mantenere la sua azione protettiva. Si tratta né più né meno di una religione, di un approccio pagano e dualistico, di una regressione ai primordi religiosi dell'umanità, di illuministi che sconfessano l'illuminismo. Sono riemersi gli archetipi del male ignoto e della richiesta d'aiuto reiterata alla divinità che può aiutare impedendo il contagio, oppure non aiutare non impedendo il contagio o addirittura punire con le reazioni avverse al vaccino. E quali sono i criteri in base ai quali interpretare tutto ciò? 
  Naturalmente quelli religiosi: «Ho fatto la quarta dose ma ho ripreso il Covid per la terza volta per colpa di chi non si è vaccinato». Si ricorre apertamente al fatalismo ed alla condanna dell'infedele per spiegare l'incomprensibile. Il mistero abita la maggior parte della vita umana e quando qualcuno ha ritenuto di aver trovato la via della salvezza non ha esitato a obbligare tutti a salvarsi e a condannare a morte chi aveva dubbi. E si tratta sempre e solo di questa roba qui, lasciate stare la scienza.

(La Verità, 19 ottobre 2022)
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Il vaccino è divenuto religione. Di questo si tratta, né più né meno: di culto a una divinità straniera, sostenuto da promesse e minacce avvolte in un alone di impenetrabile mistero inaccessibile ai profani. Si richiede la fede, e se questa manca si sollevano spaventi di tutti i tipi: se non bastano quelli sanitari si ricorre a quelli politici. Sottomissione ci vuole. Sottomissione di tutti, non basta che ci siano soltanto alcuni convinti e volenterosi, non basta che sia la maggioranza, tutti devono rendere il culto dovuto alla divinità, perché altrimenti la furia della sua punizione si abbatterà su tutti. Guai dunque a coloro che con la loro incredula e caparbia disubbidienza osano sfidare il dio vaccino. Com'è possibile che tanti cristiani evangelici, con la Bibbia in mano, non si siano ancora accorti che il mondo, dominato da entità diaboliche, pone oggi i credenti in Cristo davanti a una scelta di valore religioso? "Chi si è votato al vaccino si vaccinerà fin quando glielo ordineranno, per partito preso, per adesione, per fede", dice l'autore, ed è un fatto che si sta verificando. "Ma quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà egli la fede sulla terra?" (Luca 18:8). M.C.

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L'Australia ha revocato il riconoscimento di Gerusalemme ovest come capitale di Israele

L’Australia ha revocato il riconoscimento di Gerusalemme ovest come capitale di Israele. Lo ha detto lunedì durante una conferenza stampa la ministra degli Esteri Penny Wong, del governo Laburista, specificando che la questione dovrebbe essere risolta nell’ambito di negoziati di pace tra Israele e Palestina.
  Nel dicembre del 2018 il governo dell’allora primo ministro conservatore Scott Morrison, sostenuto da una coalizione formata dal partito Liberale e dal Partito Nazionale d’Australia, aveva riconosciuto Gerusalemme ovest come capitale di Israele; non aveva tuttavia spostato l’ambasciata australiana da Tel Aviv a Gerusalemme, sostenendo che prima israeliani e palestinesi avrebbero dovuto raggiungere un accordo di pace.
  Lo status di Gerusalemme è uno dei punti più importanti dei contrasti fra israeliani e palestinesi. Gli israeliani più integralisti ritengono che debba essere la capitale del loro stato perché anticamente ospitava il Tempio, il luogo più sacro per l’ebraismo, e perché era la capitale del loro vecchio regno. I palestinesi rivendicano di averla abitata quasi da soli per secoli e di essere stati cacciati con la forza. L’annuncio dell’Australia seguì di alcuni mesi la controversa decisione dell’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump di trasferire l’ambasciata del paese da Tel Aviv a Gerusalemme.

(il Post, 18 ottobre 2022)


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Israele convoca l'ambasciatore dellAustralia a Gerusalemme

L'Olp applaude alla decisione.

TEL AVIV - Il governo israeliano ha convocato per oggi l'ambasciatore australiano dopo la decisione di Canberra di tornare indietro sul suo riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele stabilito nel 2018.
  Lo ha annunciato il ministero degli esteri. Il premier Yair Lapid criticando la mossa del governo laburista ha spiegato che questa si è basata su "un report sbagliato dei media". Ieri il britannico Guardian aveva preannunciato la decisione di Canberra.
  Il segretario generale dell'Olp Hussein al-Sheikh ha invece salutato la decisione dell'Australia di rivedere la propria posizione su Gerusalemme capitale di Israele. Una decisione - ha aggiunto su Twitter - accompagnata da un "appello per la Soluzione a 2 stati nella legittimità internazionale". E - ha proseguito - dall'affermazione che "il futuro della sovranità su Gerusalemme dipende da una soluzione definitiva sulla legittimità internazionale".

(ANSA, 18 ottobre 2022)

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Rastrellamento al ghetto: un plauso alle parole della Meloni

Alberto Marchetti, vicesegretario nazionale di Democrazia Liberale, ha dichiarato quanto segue:
  “Democrazia Liberale ha accolto con grande compiacimento la dura e inequivoca condanna espressa dall’onorevole Giorgia Meloni, in occasione dell’anniversario del rastrellamento nel ghetto di Roma compiuto dalla ‘furia nazifascista’, che ha portato alla deportazione e poi alla strage degli ebrei romani.
  Una presa di posizione netta che avvicina la leader di Fratelli d’Italia ai valori liberali su cui si basano le moderne democrazie occidentali e che rappresenta un significativo passo avanti verso un vero processo di pacificazione nazionale di cui, pur a distanza di tanti anni, si avverte ancora il bisogno.
  Democrazia Liberale auspica che in Italia possa finalmente finire il tempo dello scontro ideologico strumentale e che il dibattito politico, ferme restando le differenze culturali, possa svolgersi su un piano di reciproco rispetto, abbandonando i pregiudizi e invece confrontandosi, anche duramente, sulle idee, sui progetti, sulle proposte e sulle istanze sociali che ciascuna forza politica si propone di rappresentare e promuovere”.

(l'Opinione, 18 ottobre 2022)

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Israele: un’opportunità di investimento in biotecnologie non sfruttata

di Lee Michaelis

Con precisione militare e ingegno accademico, Israele sta costruendo un fiorente ecosistema biotecnologico sulla scia di una rinomata industria high-tech. Molto più dell’iconica Teva Pharmaceuticals, i venture capitalist farebbero bene a prestare attenzione all’innovazione derivante da questa opportunità di investimento in gran parte non minata.
  “Tutto è incentrato sull’innovazione”, ha affermato Michael Rice, partner fondatore di LifeSci Advisors, in un’intervista con Biospazio. “Sono solo persone incredibilmente motivate.”
  In Israele, tutti gli uomini e le donne ebrei, drusi e circassi sono arruolati nell’esercito all’età di 18 anni. Queste unità sono molto specializzate nella tecnologia, in particolare l’unità 8200, la più grande unità tecnologica d’élite dell’esercito.
  “Da alcune di queste unità sono nate alcune delle aziende di maggior successo al mondo”, ha affermato Rice.
  Avi Veidman, CEO di Nucleai, ha prestato servizio nei servizi segreti israeliani per 20 anni. Durante questo periodo, ha istituito un dipartimento che interpretava automaticamente le immagini satellitari utilizzando metodi computerizzati, intelligenza artificiale e visione artificiale. Oggi, Veidman sta sfruttando tale esperienza per attaccare il cancro.
  “Negli ultimi cinque anni, invece di cercare avversari dallo spazio, sto cercando cellule tumorali su scala molto più piccola su diapositive di patologia”, ha detto Biospazio.
  Nucleai utilizza la biologia spaziale per creare applicazioni di analisi delle immagini basate sull’intelligenza artificiale per migliorare lo sviluppo di farmaci e supportare le decisioni terapeutiche.
  Gli imprenditori israeliani si ritirano dalle forze di difesa israeliane e portano la loro conoscenza della tecnologia all’avanguardia e l’attitudine ad affrontare compiti impegnativi nell’ambiente delle start-up. Questo dà anche alle persone “il rigore di lavorare in condizioni incerte”, ha detto Veidman.
  Sarebbe corretto presumere che questa competenza nell’alta tecnologia si sia tradotta in aziende entusiasmanti nello spazio AI/ML come Nucleai, Compugen, Ltd. e Immuni. Ma l’industria in generale rispecchia ampiamente gli spazi terapeutici che sono universalmente caldi.
  Nello spazio neurodegenerativo, troverai Terapia delle cellule di tempesta cerebrale, con sede a Tel Aviv e in tutto il mondo. Nello spazio frizzante dell’mRNA c’è Anima Biotech, con sede in Israele e nel New Jersey. Purple Biotech e Nuvectis Pharma operano in immunologia e oncologia di precisione. Anche l’assistenza sanitaria digitale è un obiettivo primario.
  Yochi Slonim, M.Sc., co-fondatore e CEO di Anima Biotech, ha spiegato la logica per la costruzione di una società di tecnologia per piattaforme in Israele.
  “Israele è molto bravo in tecnologia. Pertanto, c’è una possibilità molto migliore di costruire una società di tecnologia di piattaforma come Anima piuttosto che cercare di costruire un’azienda attorno a un farmaco che si immette sul mercato che beneficia maggiormente della capacità di raccogliere molti soldi”, ha affermato. Per le prime fasi della scoperta tecnologica di farmaci, Israele offre “persone di grande talento e puoi effettivamente costruire un’azienda a un costo inferiore”.

• Punti di forza: approfondimento accademico e assistenza sanitaria centralizzata
  Il talento biotecnologico in Israele proviene da istituzioni come The Weizmann Institute of Science, noto sia per la biologia che per l’informatica, e l’Università di Tel Aviv.
  I ricercatori di Tel Aviv hanno recentemente fatto scoperte autismoschizofrenia e glioblastoma. Nel 2019, un team guidato da Tal Dvir ha stampato con successo il primo cuore umano 3D al mondo utilizzando le cellule del paziente.
  Il mondo ha avuto un posto in prima fila su un altro dei vantaggi di Israele durante la pandemia di COVID-19: un sistema sanitario centralizzato con un’elevata visibilità dei dati.
  Israele ha aperto la strada nello sforzo globale di vaccinazione, immunizzando 50 percento della sua popolazione entro febbraio 2021. Ciò ha consentito studi del mondo reale che ha contribuito a informare il resto del mondo.
  “Uno dei vantaggi significativi del sistema sanitario in Israele è l’abbondanza di dati medici e la sua accessibilità”, ha affermato il dott. Anat Cohen-Dayag, presidente e CEO di Compugen, una società di immuno-oncologia in fase clinica che utilizza l’IA e l’apprendimento automatico per scoprire nuovi bersagli farmacologici per le immunoterapie contro il cancro.
  “Ogni persona in Israele ha un’assicurazione sanitaria in uno dei quattro HMO del paese, uno dei quali è il secondo HMO più grande del mondo”, ha affermato.
  Inoltre, le cartelle cliniche in Israele sono state digitalizzate per oltre due decenni.
  “Questa è una fonte senza precedenti di dati delle cartelle cliniche. Quando colleghi i dati, rispondi [and] diagnostica con cartelle cliniche digitali, è possibile generare scoperte. Applicando l’intelligenza artificiale, l’apprendimento automatico e altri approcci computazionali, puoi iniziare a sbloccare nuove scoperte”, ha continuato Cohen-Dayag. “Questo è qualcosa in cui credo che Israele possa essere un giocatore significativo”.

• Il problema del capitale
  Israele, che ha dichiarato la sua indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1948, sta affrontando sfide commerciali inerenti a un paese giovane.
  Rispetto al mercato biotecnologico statunitense, Slonim ha affermato che Israele è indietro di circa 20 anni. Questo perché l’infrastruttura non esiste ancora, ha detto. “Puoi contare su una mano i fondi che stanno investendo in Israele”.
  Cohen Dayag è d’accordo.
  “Siamo molto forti quando si tratta di innovazione e la scienza che esce da Israele è di prima classe”, ha affermato.
  “Ciò che ci manca è l’esperienza nell’aumento e nello sviluppo di farmaci in fase avanzata. Uno dei motivi è che in Israele non abbiamo un’industria farmaceutica consolidata con le grandi aziende internazionali che esistono negli Stati Uniti e in Europa. Ciò è necessario per costruire un ecosistema biotecnologico, che consenta l’accesso a talenti, strutture, know-how e competenze oltre la fase dell’innovazione”.
  Molte aziende con sede in Israele ottengono finanziamenti dall’Autorità per l’Innovazione del governo. Ma condurre studi clinici e navigare nel percorso normativo della FDA è costoso e richiede molteplici fonti di reddito.
  “Una delle grandi sfide per Israele è proprio il capitale. Non ci sono molti investitori nel settore che hanno tasche profonde come altri investitori statunitensi. Quando hai un investitore statunitense che convalida, cambia davvero la carnagione della società”, ha affermato Rice.
  Sebbene ci siano forse una mezza dozzina di fondi di rischio con sede in Israele, “non c’è semplicemente capitale sufficiente per guidare tutta questa innovazione”, ha aggiunto. “C’è così tanta innovazione nella fase iniziale che ha bisogno di capitale. E questa è l’opportunità”.
  Alcune giovani aziende stanno già sfondando. Nucleare ha chiuso con 33 milioni di dollari Tondo di finanziamento di serie B a marzo co-diretto da Sanofi Ventures e Section 32, un fondo di rischio con sede in California fondato dal fondatore di Google Ventures, Bill Maris. Nucleai ha 70 persone sparse tra Israele, Chicago e Boston.
  Un’altra sfida fondamentale è la distanza. Ma la pandemia di COVID-19 potrebbe aver in parte risolto questo problema.
  Prima della pandemia, Slonim trascorreva l’80% del suo tempo viaggiando per conferenze in tutto il mondo per incontrare partner e investitori.
  “COVID ha effettivamente cambiato tutto in meglio”, ha detto. “Il mercato israeliano delle scienze della vita è stato in realtà uno dei grandi beneficiari di quella situazione [the move to Zoom] perché all’improvviso, tutti sono stati messi in condizioni di parità”.

• Esperienza gestionale necessaria
  Un altro ostacolo che Israele deve superare è l’attuale mancanza di esperienza di gestione delle biotecnologie.
  “Negli Stati Uniti, queste aziende di grande successo hanno generalmente amministratori delegati che lo hanno già fatto molte volte e hanno raccolto capitali molte volte prima. Hanno affrontato alcuni dei problemi che si presentano nel ciclo di vita di un’azienda”, ha affermato Rice. “Israele non ce l’ha”.
  È qui che entra in gioco una rete sanitaria chiamata 8400. Composta da leader dell’industria biomedica israeliana, ospedali, università, investitori e governo, la missione congiunta della rete è trasformare l’industria della tecnologia sanitaria nel prossimo motore di crescita del paese e un attore significativo nel industria globale.
  Il nome 8400 risuona con 8200, che l’amministratore delegato e co-fondatore Daphna Murvitz ha definito la fondazione della “nazione di avvio” high-tech di Israele. Uno degli obiettivi di 8400 è trasferire questa infrastruttura di innovazione e talento anche all’industria biotecnologica israeliana.
  “Se il governo israeliano e la comunità degli investitori vedessero l’industria della tecnologia sanitaria come un vero e proprio motore di forte crescita per l’economia israeliana, da cui attingere e da affrontare, allora avremmo i processi e il successo dell’alta tecnologia e dell’informatica israeliana nel mondo della tecnologia sanitaria/biotecnologia”, ha affermato Murvitz. Al centro dello sviluppo di questo motore di crescita c’è la leadership esecutiva.
  Un programma di tutoraggio boutique gestito da 8400 mette in contatto i CEO israeliani che hanno guidato round di finanziamento sia in Israele che a livello globale con i massimi leader nei settori biotecnologico e sanitario israeliano. Questi nuovi leader sono seguiti su tutto, dai consigli di amministrazione, alla raccolta fondi, dal design al valore, alla commercializzazione e alla creazione di reti globali.
  Un programma gemello mette in contatto gli amministratori delegati israeliani con i massimi esperti nordamericani in una modalità di consulenza più ad hoc.
  Il governo israeliano è anche molto favorevole all’innovazione nella fase iniziale delle scienze della vita, “ma questo non è sufficiente per costruire un’industria leader”, ha affermato Murvitz. “Il settore biotecnologico e farmaceutico israeliano ha ancora molta strada da fare prima di raggiungere le risorse high-tech di Israele di fama mondiale”.
  Fortunatamente, questo sta cominciando a cambiare.
  “Quello che stiamo vedendo sempre di più… è la fusione dell’alta tecnologia e delle scienze della vita sanitaria in ciò che chiamiamo tecnologia sanitaria”, ha affermato. “Vedi molti stimoli e stimoli provenienti dall’alta tecnologia alla tecnologia sanitaria”.
  Il SpearHealth il programma, ad esempio, è stato lanciato da 8400 e seleziona i migliori talenti tecnologici e aziendali e fornisce loro una solida base per passare dall’alta tecnologia alla tecnologia sanitaria.

• Il futuro
  Questi sono tutti passi positivi, ma Israele ha ancora del lavoro da fare per diventare un mercato biotecnologico a tutti gli effetti.
  “La maggior parte dell’innovazione viene acquisita nelle fasi iniziali e non viene sviluppata in Israele, ed è qui che dobbiamo apportare un cambiamento per costruire un’industria biotecnologica sostenibile e fiorente”, ha affermato Cohen-Dayag.
  Per Slonim, il futuro del mercato biotecnologico israeliano si trova all’intersezione tra scienze della vita e tecnologia e implica sfruttare questa innovazione in fase iniziale.
  “Penso che questa sia la strategia giusta per il mercato israeliano delle scienze della vita, per concentrare davvero l’attenzione sulla capacità di innovare velocemente nell’ambito dell’innovazione dove gli altri non sanno come andare, non sanno dove andare o non hanno il talento per andare”, ha detto.
  Per quanto riguarda gli investimenti, molto si basa sullo slancio.
  “Abbiamo solo bisogno di alcune storie di successo”, ha detto Rice. “Una volta che ottieni un paio di storie di successo, tutti iniziano ad affluire.”

(GAMINGDEPUTY ITALY, 17 ottobre 2022)

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La pax marittima tra Israele e Libano impone Tel Aviv come potenza energetica

di Nello Del Gatto

Dove non riescono la politica e la guerra, può l’economia. Potrebbe essere questa la sintesi che ha portato all’accordo sul gas tra Israele e Libano, siglato dai due paesi la settimana scorsa. Già, perché formalmente, ancora oggi, il paese dei cedri e quello della stella di Davide sono in guerra e non c’è mai stato un trattato di pace se non una tregua nel 2006 ancora in vigore.

• Un passo storico verso la pacificazione?
  L’accordo, infatti, non è stato sottoscritto in presenza da entrambi, ma tramite un mediatore statunitense che, come un novello messaggero, ha fatto la spola tra Gerusalemme e Beirut per limare un documento che prevede, oltre allo sfruttamento di giacimenti di gas di notevole portata e importanza non solo economica, anche la definizione dei confini marittimi tra i due stati confinanti – ma non quelli terrestri, ancora oggetto di dispute. 
  Se non fosse che soprattutto il Libano si trova alla “canna del gas”, in preda a una crisi economica e finanziaria di proporzioni immani, l’accordo sottoscritto l’11 ottobre tra le parti probabilmente non avrebbe avuto corso e non staremmo parlando di un momento storico. 
  Al di là della portata economica dell’evento, che permetterà al Libano di risollevarsi e a Israele di guadagnare soldi e accreditarsi come potenza mondiale energetica raggiungendo anche l’autosufficienza, la cessazione della disputa sui confini marittimi è sicuramente una pietra miliare nella geopolitica dell’area e un passo avanti importante verso una pacificazione. Anche se non mancano i punti interrogativi.

• I limiti e le critiche all’accordo 
  I due governi che hanno sottoscritto l’accordo, infatti, sono entrambi in scadenza e provvisori. Quello israeliano cesserà subito dopo che uscirà il nuovo governo dalle elezioni che si terranno il primo novembre; il presidente libanese Michel Aoun cesserà il giorno prima. E, ovviamente, le opposizioni alle due leadership hanno espresso riserve sul fatto che si sia firmato un accordo di tale portata in un regime di precarietà politica, che non permette passaggi parlamentari. Il gabinetto israeliano ha approvato a larga maggioranza, con la sola astensione di un ministro, l’accordo definito come storico dal premier Yair Lapid: “Il progetto di accordo è pienamente conforme ai principi presentati da Israele in materia di sicurezza ed economia. Questo è un risultato storico che rafforzerà la sicurezza di Israele, porterà miliardi nell’economia israeliana e garantirà stabilità al confine settentrionale”. 
  Le critiche sono giunte soprattutto dalla destra e da Netanyahu (in testa ai sondaggi elettorali, anche se questo accordo spinge Lapid più avanti), preoccupati sia del fatto che siano state fatte concessioni ai libanesi, sia che Hezbollah, il gruppo armato foraggiato dall’Iran (nemico giurato di Israele e di stanza nel paese dei cedri) ne possa giovare. 
  Le autorità libanesi hanno garantito al mediatore americano Amos Hochstein – e quindi a Israele –  che nessun provento derivante dallo sfruttamento dei giacimenti oggetti dell’accordo andrà al gruppo terroristico. Il quale, dal lato suo, non si è opposto e ha promesso che vigilerà

• La fine di una disputa marittima 
  Il prossimo 20 ottobre si dovrebbe arrivare alla firma definitiva attraverso uno scambio di lettere tra Libano e Stati Uniti e Israele e Stati Uniti, poi con lettere dal Libano e Israele all’Onu, depositando l’accordo sui confini marittimi, comprese le coordinate. Le parti hanno convenuto di non presentare ulteriori grafici o coordinate alle Nazioni Unite fotografando la situazione attuale, partendo, quindi, dallo status quo. 
  L’accordo dovrebbe mettere la parola fine su una lunga disputa su circa 860 chilometri quadrati del Mar Mediterraneo, che copre i giacimenti di gas di Karish e Qana. Il primo si trova, come deciso nell’accordo, in acque israeliane; il secondo in quelle libanesi. Con l’accordo, Israele potrà sfruttare il suo giacimento e prenderà delle royalties dallo sfruttamento di quello libanese. Grazie a questo, entrambi i paesi potranno risollevare una situazione economica che, se per il Libano è disastrosa, per Israele è sicuramente migliore. 

• Il futuro di Israele come potenza energetica 
  L’accordo imporrà Tel Aviv come potenza energetica: Karish, infatti, è solo l’ultimo di una serie di giacimenti di gas nei quali Israele sta lavorando. Si stima che il solo giacimento Leviathan, scoperto 130 chilometri a ovest della città portuale di Haifa nel 2010, contenga 535 miliardi di metri cubi di gas naturale. Il Leviathan è il secondo più grande giacimento di gas nel mar Mediterraneo, dopo la scoperta nell’agosto 2015 del giacimento di Zohr al largo delle coste dell’Egitto. Nei primi anni 2000 gli israeliani scoprirono anche il bacino, più piccolo, Tamar, entrato in funzione nel 2013. 
  Seppur le esplorazioni e lo sfruttamento dei giacimenti oggetto dell’accordo saranno immediati, ci vorranno anni perché questi aiutino sia i due paesi, sia l’Europa ad affrancarsi dalla dipendenza del gas russo
  Israele, insieme a Cipro e Grecia, sta costruendo il gasdotto mediterraneo EastMed, che dovrebbe connettere i giacimenti mediterranei – in particolare Leviathan e il cipriota Aphrodite – con l’Europa, per un terzo in terra e il resto in mare. Non a caso, l’Unione europea ha dichiarato strategico e di interesse comune il progetto in costruzione, finanziandolo con oltre 36 milioni di euro.
  L’Italia si è dapprima ritirata e poi successivamente ha accettato il progetto EastMed, che ha un costo stimato di 6 miliardi di euro e si estenderà per quasi 2000 chilometri, ad una profondità di tre chilometri, pompando 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno. L’italiana Edison è socia al 50% nel consorzio IG Poseidon (con la greca Depa) che sta realizzando il progetto, mentre tra le società che gestiranno il gasdotto figura l’Eni. 
  Alternative più rapide a EastMed sono il trasporto da Israele all’Egitto da dove, dopo la liquefazione, il gas israeliano viene spedito in Europa, come avviene tutt’ora. E poi l’interconnettore EuroAsia, un cavo sottomarino che muoverà l’elettricità generata in Israele (dal gas o dalle fonti rinnovabili) verso Cipro e la Grecia.

(afffarinternazionali, 18 ottobre 2022)

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I droni iraniani in Ucraina possono far cambiare linea ad Israele?

di Davide Frattini

Da un lato le aperture di Tel Aviv con il ministro laburista che vuole inviare armi a Kiev e mettere da parte la neutralità; dall’altro le elezioni e il possibile ritorno di Netanyahu, vicino a Putin

La settimana scorsa lo sceicco è volato da Abu Dhabi a Mosca per una chiacchierata amichevole con Vladimir Putin. Questa mattina uno sciame di droni iraniani ha bersagliato i palazzi di Kiev, lo stesso modello di velivoli kamikaze che nove mesi fa sono stati lanciati contro gli Emirati Arabi e che da sempre è stato progettato per colpire Israele.
  La guerra in Ucraina sembrava lontana ma arriva a toccare gli incroci geopolitici del Levante, dove i russi si sono piazzati dall’ottobre del 2015 nell’intervento per sostenere Bashar Assad, il dittatore siriano, e controllare lo sbocco sul Mediterraneo. 
  Così Dmitri Medvedev, fedelissimo di Putin, sceglie di far la voce grossa contro un ministro israeliano che forse non ci sarà neppure nel prossimo governo. 
  Domenica Nachman Shai, responsabile per gli Affari della Diaspora, aveva twittato che è il giunto momento di metter da parte la neutralità e fornire armamenti agli ucraini.
Il richiamo del politico laburista ha per ora poca sostanza: gli israeliani tornano a votare tra un paio di settimane, i sondaggi non danno un vincitore certo (per la quinta volta di fila), al potere potrebbe tornare Benjamin Netanyahu che in questi mesi non ha mai condannato l’invasione russa e sulla relazione personale con Putin ha costruito prestigio interno e campagne elettorali. Di sicuro le forniture iraniane costringono lo Stato Maggiore a rivedere la strategia.
  Fino ad ora ha vinto una scelta pragmatica: i russi hanno permesso all’aviazione israeliana di colpire in Siria lasciando disattivi i sistemi sofisticati di contraerea che gestiscono, un’intesa ottenuta da Netanyahu che ha consentito nel 2021 di sparare 586 missili sui bersagli: le armi che Teheran cerca di passare all’Hezbollah libanese via terra siriana, gli stessi missili e droni lanciati su Kiev. Ancora incroci di guerra. Queste sortite si sono gradualmente ridotte quest’anno, il Cremlino avrebbe voluto dagli israeliani una posizione meno ambigua, anche se la condanna netta dell’attacco putiniano da parte di un primo ministro è arrivata solo poche settimana fa: Yair Lapid aveva già criticato Mosca da ministro degli Esteri, adesso è premier. Però ad interim.
  L’equidistanza israeliana ha irritato anche gli ucraini e ha spinto Volodymyr Zelensky a ricordare le sue origini ebraiche. Per ora l’intelligence starebbe passando informazioni a Kiev proprio sui droni iraniani, che il Mossad e i servizi segreti militari hanno studiato a fondo. Quello che il ministero della Difesa non concede è il sistema antimissilistico Iron Dome che il Paese sotto assedio ha richiesto più volte.

(Corriere della Sera, 17 ottobre 2022)


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“Israele fornirà armi a Kiev”, Medvedev: “Mossa avventata, distruggerà relazioni tra nostri Paesi”

L’Iran appoggia la Russia? Israele manderà armi a Kiev e da Mosca si parla di “distruzione delle relazioni diplomatiche”.

I droni kamikaze ed i missili iraniani usati dall’esercito russo per colpire l’Ucraina sono oggi al centro delle polemiche con l’UE e non solo. “La consegna da parte dell’Iran di missili balistici alla Russia è una chiamata per Israele, perché fornisca aiuto militare all’Ucraina”. Lo ha dichiarato con un tweet il ministro israeliano per la Diaspora, Nachman Shai.
  Il messaggio, che è stato retwittato da alcuni media ucraini, fra cui il Kyiv Independent, ha mandato Mosca su tutte le furie con il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitri Medvedev che su Telegram scrive: “Sembra che Israele fornirà armi al regime di Kiev. Una mossa molto avventata. Distruggerà tutte le relazioni tra i nostri Paesi”.
  Medvedev lancia poi una stoccata a Israele accusando come sempre Kiev di essere un regime filo-nazista: “Se vengono fornite armi, allora è tempo che Israele dichiari Bandera e Shukhevych propri eroi”.

(Fatti & Avvenimenti, 17 ottobre 2022)

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Israele: Lapid e Netanyahu ai ferri corti su accordo con Libano

TEL AVIV - L'accordo con il Libano sui confini marittimi dei due Paesi e lo sfruttamento del gas continua a dividere Israele. Il capo dell'opposizione Benjamin Netanyahu - che ha duramente attaccato l'intesa - ha rifiutato l'invito del premier Yair Lapid ad un incontro di aggiornamento sulla sicurezza dell'accordo definendolo "futile". Netanyahu ha giustificato il diniego ricordando che il partito di Lapid ha bollato nei giorni scorsi l'opposizione del Likud come "irresponsabile"."Da una parte Lapid - ha denunciato il Likud in un tweet rilanciato da Netanyahu - rifiuta di portare all'approvazione della Knesset il suo accordo di resa a Nasrallah (leader degli Hezbollah libanesi, ndr) con la scusa che non piace all'opposizione e, dall'altra, invita la stessa opposizione ad un futile incontro a cose già fatte". "La condotta di Lapid è antidemocratica, insistiamo - ha aggiunto il Likud - che l'accordo sia sottoposto alla Knesset".

(ANSA, 17 ottobre 2022)


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Israele: perché un accordo con il Libano?

di Fabio Marco Fabbri

La complessa politica estera israeliana, nel quadro del “formale boicottaggio” esercitato da molti Paesi arabi, le cui fila si stanno assottigliando sotto la strategica “normalizzazione dei rapporti”, sta avendo risultati eccellenti. Recentemente, la “normalizzazione dei rapporti” di Israele con Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Marocco ha fluidificato un sistema di dinamiche politico-economiche, che hanno favorito la consapevolezza, tra molti Stati della Lega Araba, dell’utilità di un legame costruttivo con Gerusalemme, formale o informale che sia. Per esempio, è noto che l’asse geostrategico tra la capitale israeliana e Washington, che ha aggregato Abu Dhabi, Riyadh e Manama, ha creato una convergenza geopolitica in opposizione a Teheran. Fattore, questo, che definisce un assetto politico ed economico che implica una vasta area d’interessi. I Paesi del Golfo, oramai consci dello sbilanciamento dell’area verso Israele, attenuano anche le politiche di sostegno economico e politico verso la “causa palestinese”.
  In questo quadro, con “tendenze” stabilizzatrici che caratterizzano l’area del Vicino Oriente e che contrastano con ciò che sta accadendo “nell’Europa orientale”, Israele e Libano – con la mediazione di Washington e Parigi – hanno tracciato la delimitazione degli spazi marini del Mediterraneo orientale, determinando le rispettive zone di controllo, che ricordo sono ricche di giacimenti di gas. Questa bozza d’accordo è stata guidata dal mediatore statunitense Amos Hochstein, di origine israeliane, il quale – oltre a essere un diplomatico e uomo di affari, anche in Ucraina – è altresì il coordinatore internazionale per gli affari energetici degli Usa. Tuttavia, Israele e Libano restano in uno stato di tensione che, spesso, è sfociato in azioni di guerra. Eppure, l’accordo dell’11 ottobre è stato accolto da entrambe le parti con grande soddisfazione. Così, il presidente libanese, Michel Aoun, con pacata soddisfazione ha commentato il successo ottenuto con l’approvazione del testo, sottolineando che sono state accolte le richieste libanesi sui diritti di sfruttamento dei giacimenti degli idrocarburi e su altre risorse marine, sperando in una veloce formalizzazione di quanto stabilito. Da parte sua Israele, per voce del capo del Governo, Yair Lapid, ha esaltato “l’accordo storico”, che garantisce una maggiore sicurezza allo Stato ebraico, una stabilità del confine settentrionale e anche importanti introiti, valutati da Israele in oltre tre miliardi di dollari.
  Seppur circoscritto all’area marittima, il testo rappresenta un punto di inizio nei rapporti tra Libano e Israele. Così le riserve di Cana, situate all’estremo nord-est, sono state assegnate al Libano, mentre il giacimento offshore di Karish va sotto il controllo di Israele. Il vicepresidente del Parlamento di Beirut e influente negoziatore, Elias Bou Saab, ha affermato che questo accordo porterà beneficio a entrambi gli Stati e sarà una base di dialogo anche per i confini terrestri ancora contesi. Israele ha la consapevolezza che un Libano in bancarotta non giova alla sua sicurezza e negherebbe la possibilità di scambi utili in ogni settore. Inoltre, una sua autonomia energetica, magari proiettata verso il business, oltre a compensare le speculazioni sul prezzo degli idrocarburi causati dalla crisi ucraina, allontanerebbe Beirut da Teheran.
  Ma perché il partito sciita libanese degli Hezbollah, acerrimo nemico di Israele, non si è opposto a questo accordo? Il suo rappresentante, il segretario generale Hassan Nasrallah, avrebbe potuto minare i negoziati pretendendo vantaggi inaccettabili per Israele. Poteva agire con atti terroristici, che avrebbero impantanato i negoziati. Avrebbe potuto chiedere il rispetto della “linea 29” come confine marittimo con Israele, che non sarebbe stato accettato dai negoziatori israeliani. Ma non lo ha fatto. Ed è proprio sull’atteggiamento del partito Hezbollah che si è creata una disputa tra il primo ministro Lapid, al potere da questa estate e il suo predecessore, Benjamin Netanyahu. Esiste, quindi, anche un sub-scenario in questo articolato accordo. Sul palcoscenico si pone il leader del partito sciita Hezbollah, Nasrallah, che – ufficialmente – non può manifestare ai suoi sostenitori una palese approvazione della conclusione di un accordo con il “nemico sionista”. E dall’altra c’è Netanyahu, che giudica l’accordo “una capitolazione storica”, inaccettabile per un Paese come Israele dove, il primo novembre, si terranno le elezioni legislative. Netanyahu ha affermato che, se vincerà le elezioni, tumulerà l’accordo, considerato un incoraggiamento per il partito sciita libanese Hezbollah a essere più aggressivo e pretenzioso.
  Basterà il business, frutto dello sfruttamento della spartizione delle risorse di gas dei giacimenti di Cana e Karish, a rinnegare, in caso di vittoria del partito di Netanyahu, questo ardito accordo? Ma se e è vero che ogni Stato ha la politica estera che si merita, e che ogni Paese ha la politica estera alla quale è condannato, quale sarà il merito o la condanna per queste audaci diplomazie?

(l'Opinione, 17 ottobre 2022)


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Accordo confine marittimo Israele e Libano: facciamo chiarezza

Che cos’è l’accordo sul confine marittimo fra Israele e Libano

di Ugo Volli

• Un accordo controverso
  I giornali hanno parlato di una proposta di accordo fra Israele e Libano, sul confine marittimo fra i due stati,patrocinata dagli Stati Uniti, che risolverebbe una lunga disputa fra loro. Si tratta di un tema complicato sul piano tecnico e controverso su quello politico. Lapid, primo ministro senza maggioranza e in attesa delle elezioni, l’ha definito “storico” e sta cercando di farla approvare solo dal consiglio dei ministri senza passare dalla Knesset (il parlamento israeliano) dove sarebbe probabilmente bocciata; il suo vice Bennett l’ha definita un passo tecnico opportuno, ma certo non storico; tutta l’opposizione guidata da Netanyahu la presentata come una resa di Israele ai terroristi di Hezbollah, pericolosa e sbagliata. La decisione su chi dovrà votare sull’accordo sarà presa dalla Corte Suprema; è possibile che la votazione avvenga comunque prima delle elezioni del 1 Novembre.

• Le ragioni del conflitto
  Per capire di che cosa si tratta, bisogna partire da alcune premesse. La prima è questa: il Libano è ancora tecnicamente in stato di guerra con Israele, non lo riconosce e non ne accetta i confini, che sono semplicemente linee del cessate il fuoco stabilite a Rodi nel 1949 in un accordo di armistizio. Inoltre è dominato militarmente e politicamente dal più potente gruppo terrorista dipendente dall’Iran, gli Hezbollah che hanno acquisito molta esperienza bellica in Siria e possiedono circa 150 mila missili puntati su Israele, parecchi di precisione. La seconda premessa è giuridica: le frontiere marittime fra due paesi si stabiliscono tracciando la perpendicolare alla linea di costa nel punto di confine. In questo caso però tale punto è un promontorio con varie insenature (Rosh Hanikrà), per cui tale linea non è facilissima da stabilire. Israele l’ha marcata decenni fa con una linea di boe, ma essa non è mai stata riconosciuta dal Libano. Bisogna aggiungere che il mare costiero si divide secondo la legge internazionale in acque territoriali (fino a 12 miglia, poco meno di 20 km dalla costa) e Zona economica esclusiva per altre 188 miglia, fino a circa 300 chilometri dalla costa. La differenza è che la prima è territorio nazionale di piena proprietà degli stati, che possono impedire a chiunque di entrarvi e imporvi la propria legge, mentre la seconda è mare libero al passaggio, ma lo stato di riferimento è il solo ad avere il diritto di sfruttarlo per la pesca, le estrazioni di minerali dal fondale ecc. La terza premessa economica è che negli ultimi decenni nel Mediterraneo orientale sono stati scoperti ricchi giacimenti di gas, di cui alcuni nella zona economica di Israele, altri di Cipro o dell’Egitto. Mentre la delimitazione dei diritti con questi paesi è stata semplice e consensuale, il Libano ha cercato di rivendicare i più settentrionali dei giacimenti israeliani, in particolare quelli chiamati Karish, al largo di Haifa e Kana, più a nord. Bisogna aggiungere che il Libano è stata portato da una dirigenza incompetente e filoterrorista alla bancorotta finanziaria, senza carburante per le macchine e il riscaldamento, per cui ha estrema urgenza di ottenere qualunque vantaggio finanziario.

• Il conflitto e la trattativa
  La disputa sui confini marittimi, che per decenni era rimasta sulla carta, si è dunque accesa. Il Libano ha rivendicato una linea orientata più verso sud di quella delle boe israeliane, che dunque gli avrebbe trasferito la sovranità un una fetta di mare in più, che comprendeva buona parte di Kana, poi ha proposto una terza linea ancora più meridionale, che gli avrebbe dato il controllo anche di Karish. Israele ha rifiutato queste proposte e allora da un lato gli Usa sono intervenuti come mediatori, dall’altro Hezbollah ha iniziato a minacciare in maniera sempre più violenta una guerra, inviando droni vicino alle piattaforme petrolifere ed esibendo il suo armamento missilistico. Israele ha sospeso le operazioni di estrazione da Karish, già programmate, e poi ha annunciato che le avrebbe riprese, contrastando la propaganda bellica di Hezbollah con contro-minacce. La mediazione americana a questo punto ha abbandonato la linea israeliana e ha smentito anche una vecchia ipotesi di mediazione formulata vent’anni fa dal suo ambasciatore Frederic Hof, per accettare interamente la prima linea del Libano, correggendola anche per assegnargli l’intero deposito di Kana. Lo sfruttamento è assegnato a una compagnia internazionale (si parla di Total) che dovrebbe però anche a Israele delle royalties, in compensazione della rinuncia, mentre Karish resterebbe a Israele. Il Libano ha accettato la proposta, precisando che ciò non significa né il riconoscimento di un confine né quello dello Stato di Israele e che nessuna compensazione verrà da lui a Israele.

• La valutazione
  Chi in Israele è favorevole all’accordo dice che esso è positivo perché lo sfruttamento di Kana comporterà dei vantaggi economici per entrambi gli stati e inoltre potrebbe diminuire la dipendenza del Libano dall’Iran e l’influenza di Hezbollah. Gli Usa hanno anche offerto garanzie che il flusso finanziario non sarebbe andato a Hezbollah. Il fatto è però che l’ostacolo per Kana era Hezbollah e che l’accordo, come hanno dichiarato gloriandosene sia il movimento terrorista che l’Iran, si è fatto perché soddisfa le sue condizioni. Anche il governo libanese ha ringraziato Hezbollah per il risultato ottenuto. Insomma il governo israeliano ha ceduto una parte del territorio nazionale cedendo al ricatto di un movimento terrorista, anche se in cambio di un certo vantaggio economico, e questo costituisce un precedente molto grave, perché incide sulla deterrenza israeliana e mostra che Israele, minacciato di guerra, cede. Altrettanto grave è il precedente di approvare una cessione territoriale senza passare dalla Knesset o addirittura da un referendum, come esige una legge fondamentale approvata proprio per impedire accordi del genere che non godessero dell’approvazione popolare. Che poi questo avvenga ad opera di un governo di minoranza, che resta in carica solo per l’ordinaria amministrazione e alla vigilia delle elezioni, è davvero una ferita grave per la democrazia israeliana.

(Progetto Dreyfus, 16 ottobre 2022)

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Noi al fianco di ebrei e Israele. Il messaggio di Malan (FdI)

Il senatore di Fratelli d’Italia: “È la sinistra che tollera certe posizioni assunte dai suoi esponenti contro ebrei e Israele. Noi siamo coerenti”. La Russa? “Parole di netta condanna verso gli orrori nazi-fascisti”.

dii Federico Di Bisceglie 

La nuova destra di Giorgia Meloni è vicina alla Comunità ebraica e allo Stato d’Israele. Senza esitazioni. Tanto che, proprio la premier in pectore, nella giornata in cui ricorre l’anniversario del feroce rastrellamento del ghetto di Roma, ha chiamato la presidente della comunità ebraica romana Ruth Dureghello esprimendole vicinanza nel ricordo di quello che Meloni ha definito “un orrore, che deve essere da monito perché certe tragedie non accadano più”. Ma la vicinanza di Meloni agli ebrei non nasce oggi. “In Fratelli d’Italia certe posizioni contro gli ebrei non sarebbero tollerate. Cosa che invece accade a sinistra”. Il piglio non è polemico, ma di consapevolezza e constatazione. Lucio Malan, senatore di Fratelli d’Italia assicura che lui per primo non avrebbe “mai aderito al partito” se non fosse stato certo “dell’amicizia profonda e del rispetto che Giorgia Meloni ha degli ebrei e dello Stato d’Israele”.

- Malan, a destra però non è sempre stato così. 
  Fratelli d’Italia è un partito conservatore, ma estremamente moderno. Noi abbracciamo tutti i valori contenuti nella nostra Costituzione. Chi copre d’insulti gli eroi della Brigata Ebraica non sono certo simpatizzanti di partiti di destra. Anzi, è la sinistra a essere molto tollerante nei confronti di esponenti che assumono posizioni irricevibili.

- A causa dei suoi post nei quali metteva in dubbio l’esistenza dello Stato d’Israele, l’esponente dem Raffaele La Regina ha dovuto rinunciare alla candidatura. Mi pare un segnale chiaro, no?
  Sì, ma è stato un caso isolato. Anzi, lui ha espiato anche le colpe di altri che, in passato, hanno detto cose ben peggiori.

- Nella telefonata tra Meloni e Dureghello c’era più della formalità di rito. 
  Certo. Ma non mi meraviglia affatto. Le parole espresse da Giorgia Meloni alla presidente della Comunità ebraica manifestano ancora una volta una vicinanza non formale, ma sostanziale. Tanto più in occasioni come queste, che ci fanno tornare alla memoria l’efferatezza dei crimini nazi-fascisti, figli dell’abominio delle Leggi razziali.

- All’indomani dell’elezione di Ignazio La Russa a presidente del Senato – fra striscioni, scritte offensive sui muri e attacchi mediatici – si è scatenato un polverone. Come se lo spiega?
  Ci sono due spiegazioni. Alcuni esponenti di sinistra rimangono ancorati a un passato divisivo dal quale cercano di individuare qualche legame con la storia di FdI. Il secondo motivo è che, in assenza di argomenti sul presente, si rinvanga il passato.

Il presidente del Senato ha detto che il rastrellamento di Roma rappresenta una “pagina buia della nostra storia”. Se lo aspettava?
  Non c’è nulla di cui sorprendersi. L’intervento del presidente del Senato è stato molto ben formulato. Peraltro da alcune espressioni forti utilizzate da La Russa, emerge lampante il senso di profonda condanna verso questi orrori.

(Formiche.net, 16 ottobre 2022)

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