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Notizie 1-15 ottobre 2023


Ecco perché, da sinistra, sto con Israele

di Sandro Bartolomeo*

Per anni la sinistra ha avuto un complesso di colpa verso la causa palestinese : insieme al mondo cattolico ( che conserva nel suo inconscio un pregiudizio anti-giudaico secolare) ha sempre ritenuto Israele un oppressore che ha rubato uno stato alla Palestina . Quale Stato? Israele nasce nella coscienza del mondo occidentale dopo la tragedia della shoa . In un territorio desertico, senza alcuna infrastruttura, hanno realizzato una delle nazioni (per dirla alla Meloni ) più moderne e avanzate del mondo.
   Tra i paesi arabi, mai nessuno ha riconosciuto Israele: il mancato riconoscimento ha accentuato le politiche aggressive di questo stato che, lungi dal volerle in alcun modo giustificare, vanno valutate se si vuole comprendere l’attuale situazione .
   Oggi Hamas attua la stessa politica di sterminio dei nazisti: non li chiama israeliani, li definisce ebrei (ovviamente in senso dispregiativo) come fa l’Iran, il regime che li arma e li finanzia e rappresenta il più schifoso tra i paesi medio-orientali, che ammazza giovani che chiedono libertà .
   L’Iran e altri paesi arabi proteggono i terroristi di Hamas il cui unico obiettivo (dichiarato ) è quello di distruggere Israele, perché attraverso Israele vogliono colpire il mondo e la cultura occidentale, distruggere quella prodotta dagli ebrei che hanno permesso al mondo occidentale di fare giganteschi passi in avanti.
   Sono questi i motivi per i quali io sto con Israele senza alcun tentennamento .
   E mi auguro, allo stesso modo, che in Israele vadano al potere persone più capaci e moralmente integre di Bibi, come mostrano le continue manifestazioni di milioni di persone ogni settimana, che mostrano che esiste un altro Israele democratico, civile, dialogante. Non è semplice trovare in altri Paesi arabi la stessa condizione: ecco perché la convivenza sarà difficile pur essendo l’unica soluzione possibile.
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* Già sindaco di Formia

(Fatto a Latina, 15 ottobre 2023)

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Governo di coalizione sotto shock e trauma

Il governo israeliano è l'unico responsabile non solo del più grande fallimento nella storia dello Stato di Israele, ma anche di tutto ciò che deve ancora accadere.

di Aviel Schneider

Ministri e deputati durante la presentazione del nuovo governo di emergenza nella sala plenaria della Knesset, il 12 ottobre 2023.
GERUSALEMME - Quattro giorni e la coalizione al governo tace. Non solo, tutti gli uffici e le agenzie che avrebbero dovuto spiegare la realtà alla società israeliana davanti alle telecamere e fornire i servizi necessari come la logistica, l'esercito, la sicurezza, l'aiuto psicologico e molto altro ancora erano come scomparsi dalla faccia della terra durante i primi giorni di guerra. Era come se tutti avessero lasciato il Paese e fossero sotto shock.
Nei primi giorni nessuno si è rivolto direttamente al popolo di Israele per rassicurarlo. Nessuno è andato negli studi dei telegiornali per spiegare, esprimere solidarietà, assumersi la responsabilità, rispondere alle domande. Zero. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato così gentile da rilasciare un breve video in cui prometteva che avremmo vinto. Il giorno dopo è andato in onda per una breve dichiarazione e questo è quanto.
Nessuno ha parlato al pubblico, nessuno ha parlato ai feriti, nessuno ha incontrato i sopravvissuti e le famiglie. Intere famiglie sono state rapite e massacrate e i funzionari governativi non si sono fatti vedere. Erano paralizzati e scioccati. Poi si sono svegliati. E quando si sono svegliati, cosa hanno fatto? Si sono rivolti ai media.
Gli israeliani assistono a una dichiarazione di Benjamin Netanyahu sulla guerra in corso il 9 ottobre 2023.
Il primo a rivolgersi al mondo e ai media è stato l'ex ministro dell'Informazione israeliano Galit Distel-Atbaryan. Quella a cui è stato affidato un ministero ridondante, fatto su misura per lei, e che si è lamentata da quando è entrata in carica.
Mi dispiace, ma questo ministro si è reso ridicolo davanti alle telecamere. Sapeva esattamente chi era responsabile del fallimento strategico della sua coalizione di governo: Danny Kushmaro, il 55enne giornalista, conduttore di news e presentatore televisivo di N12. E perché? Kushmaro ha osato dire che c'erano problemi nell'aeronautica israeliana e che i piloti di caccia contrari alle riforme legali volevano rifiutare il servizio di riserva volontario. Kushmaro, ha detto, era responsabile del fiasco nel sud, non il suo governo, non Benjamin Netanyahu.
   E chi è stato il primo ministro a recarsi nel sud per parlare con i residenti, oltre al ministro della Difesa israeliano Yoav Galant, che ha incontrato le unità militari del sud? Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir. Ben-Gvir è arrivato a Sderot solo mercoledì a mezzogiorno. Quattro giorni dopo il raid nel sud e gli attacchi missilistici, un ministro si è recato nel sud. Nessuno dei ministri ha avuto il coraggio di andare nella zona di fuoco. E cosa ci fa il ministro Ben-Gvir a Sderot? Accusa i media di diffondere fake news.
Superfluo: Il ministro Galit Distel-Atbaryan, che si è dimesso.
E quando qualcuno ha fatto notare a Ben-Gvir che questo non aveva senso, ha iniziato a gridare invece di esprimere compassione e pietà o di rivolgersi ai residenti preoccupati e ai cittadini traumatizzati. Ripetutamente, ha gridato contro chiunque lo criticasse davanti alla telecamera. Eppure Sderot è la roccaforte degli elettori del Likud di destra.
I primi due ministri ad andare davanti alle telecamere tre giorni fa e a scusarsi pubblicamente per il fallimento nel sud sono stati Yoav Kisch e Zachi HaNegbi. "Siamo responsabili della situazione del Paese. Dico a tutti noi che abbiamo commesso un'assurdità", ha dichiarato il ministro dell'Istruzione israeliano Yoav Kisch in un'intervista a Ynet. Questo lo rende il primo ministro della sua coalizione di governo che si è assunto  pubblicamente la responsabilità dopo l'attacco a sorpresa. "Nessuno si sottrarrà alla responsabilità. È successo nel nostro governo e ce ne assumeremo la responsabilità. Le famiglie possono dire quello che vogliono, io prometto loro una cosa: Hamas non esisterà dopo la guerra". Anche il presidente del Comitato di sicurezza nazionale e ministro Tzachi HaNegbi ha ammesso di essersi sbagliato nella sua valutazione  dell'organizzazione terroristica di Gaza che aveva espresso solo sei giorni prima dell'assassinio. Tutti gli altri sono rimasti in silenzio.
Tzachi Hanegbi, capo del Servizio di sicurezza nazionale, parla ai media nella base di HaKirya a Tel Aviv il 14 ottobre 2023
Il governo israeliano è l'unico responsabile non solo del più grande fallimento nella storia dello Stato di Israele, ma anche di quello che verrà. La coalizione di governo più grande e di destra di Israele è caduta in uno stato di shock, chiaramente visibile nei media. I ministri semplicemente non c'erano. Le uniche persone responsabili erano i cittadini stessi, quelli che si sono presi cura di loro stessi nelle prime ore di lotta e nei primi giorni di guerra. Chi poi si è dato da fare è stato l'esercito israeliano. Solo alla fine è venuto il governo. Il popolo non è arrabbiato solo con il suo governo, ma con l'intero parlamento israeliano. Continuo a sentire da tutte le parti della società israeliana che dopo la guerra e la vittoria l'intera leadership del popolo, la Knesset con i suoi 120 deputati, deve essere sostituita.

(Israel Heute, 15 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Betsalel Smotrich: "Dobbiamo ammetterlo a testa bassa: abbiamo fallito".

Il Ministro delle Finanze Betsalel Smotrich ha tenuto una conferenza stampa questa sera (domenica). Non ha cercato di sottrarsi alla responsabilità del governo per i gravi fatti accaduti in Israele la scorsa settimana.

"Cittadini di Israele, oggi mi trovo davanti a voi e mi assumo la responsabilità, la responsabilità di ciò che è accaduto e di ciò che accadrà. Sono tempi molto difficili, tempi difficili per tutti i cittadini di Israele. Il massacro che ci ha colpito sabato scorso, nel bel mezzo della festa di Simhat Torah, è stato il più grave che lo Stato di Israele abbia mai vissuto. Dall'inizio del sionismo e del rinnovamento ebraico in terra d'Israele non abbiamo mai raggiunto un livello così doloroso di insopportabile barbarie che il mondo non vedeva da molti anni, dai tempi della Shoah. Dobbiamo riconoscerlo con franchezza, dolore e a testa bassa: abbiamo fallito, la leadership dello Stato, i servizi di sicurezza, nel garantire la sicurezza dei nostri cittadini. Non abbiamo rispettato il più importante contratto non scritto tra uno Stato e i suoi cittadini. Un contratto che è scritto nel sangue e che oggi è macchiato di sangue".
   E ha aggiunto: "Abbiamo il cuore spezzato pensando alle famiglie degli ostaggi e dei dispersi, e ci impegniamo ad agire per il loro bene e per il loro ritorno a casa. Il popolo di Israele sta soffrendo e piangendo, ma non illudetevi: con l'aiuto di Dio, vinceremo".
   Dopo essersi congratulato con i soldati, con i riservisti e con tutti i valorosi cittadini che si sono comportati in modo eroico, ha ricordato l'unità che ha attraversato il popolo.
   "Verrà il momento di regolare i conti, sugli accordi di Oslo, sul disimpegno da Gaza e fino alla fuga da Gaza con tutte le decisioni tattiche e strategiche, compresi gli errori e i fallimenti degli ultimi giorni, quando tutto ci è saltato in faccia. Ora è il momento dell'unità e della vittoria. L'intero Stato di Israele è unito dietro Tsahal, dietro la difesa che porterà alla vittoria, con l'aiuto di Dio".
   Il Ministro delle Finanze ha detto che sta lavorando duramente con tutte le sue squadre per garantire la sicurezza economica della società israeliana in questi tempi di guerra.
   "Ho chiesto al Ministero delle Finanze di finanziare immediatamente e completamente l'evacuazione, l'alloggio e la sistemazione delle centinaia di famiglie sopravvissute ai crudeli massacri. Inoltre, ho ordinato la distribuzione di una prima indennità immediata a tutti i residenti evacuati dalle loro case, pari a 1.000 shekel a persona e fino a 5.000 shekel per famiglia. La scorsa settimana ho trasferito 30 milioni di shekel per le esigenze speciali delle autorità locali".
Il Ministro ha affermato che i budget per Tsahal sono illimitati e che una dotazione sarà utilizzata per ricostruire i kibbutzim devastati dagli attacchi di Hamas. "Ve lo dico chiaro e tondo", ha insistito Smotrich, "il confine di Gaza sarà ripristinato e fiorirà ancora più di prima, ogni comunità, ogni famiglia, ogni persona sarà curata".
   Ha promesso sostegno al mercato e all'economia per i negozianti, i dipendenti, i lavoratori autonomi e l'intero mercato israeliano. "Prometto che nessun cittadino sarà lasciato solo. La burocrazia sarà ridotta al minimo".
   Il Ministro ha voluto rassicurare la popolazione israeliana che l'economia del Paese è sufficientemente solida per affrontare la guerra.
   Per il Ministro, tutti i bilanci, compresi quelli distribuiti ai partiti della coalizione, devono essere mobilitati per un unico obiettivo: la vittoria al fronte e dietro le linee del fronte.
  
(LPH, 15 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Spade di ferro - Giorno 8

di Ugo Volli

In attesa dell’operazione di terra
  Israele e tutto il popolo ebraico attendono con il fiato sospeso. Tutto è pronto. La campagna potrebbe iniziare stanotte. Ma per stare ai fatti, bisogna dire che alla fine del sabato, otto giorni dopo le stragi, non è ancora cominciata la grande operazione militare di terra necessaria per eliminare i terroristi (ricordiamocelo, non solo Hamas, ma anche gli altri che hanno partecipato all’eccidio: la “Jihad islamica” che è un’invenzione iraniana e le “Brigate di Al Aqsa”, che sono il braccio militare del partito Fatah, il cui presidente è il dittatore dell’Autorità Palestinese, Mohamed Abbas detto Abu Mazen). Molti si chiedono la ragione di questo indugio.

Le ragioni per attendere
  Senza poter naturalmente sapere quali sono i calcoli del Gabinetto di Guerra e dello Stato Maggiore, possiamo supporre che ci sono tre ragioni: una diplomatica, una militare, una umanitaria. Sul piano diplomatico vi sono intense pressioni su Israele perché “mostri moderazione”, “eviti l’escalation” e così via. Più passa il tempo e persiste l’atteggiamento bellicoso dei terroristi e dei loro alleati (Hezbollah e Iran innanzitutto) e continuano i lanci di missili sul territorio israeliano, più chiara dovrebbe risultare a tutte le persone responsabili la necessità di un’operazione di terra per distruggere le operazioni terroriste. Sul piano militare Israele sa che Hamas ha previsto lo scontro terrestre e ha predisposto trappole, agguati, trabocchetti, bombe per uccidere i soldati. I bombardamenti prolungati servono anche per disattivare nei limiti del possibile questi strumenti di morte, per disarticolare le comunicazioni del nemico, per eliminare centri di comando e quadri militari, per esaurire materiali e risorse a sua disposizione, per permettere alle forze speciali, che hanno già cominciato a farlo, di esplorare a fondo il territorio. Più in generale, di fare pressione sui terroristi e non riceverne, di scegliere tempi e modi dell’intervento e non farseli imporre.

La questione umanitaria
  La terza ragione è che Israele aspetta che i civili che vivono nella zona che sarà investita dai combattimenti si allontanino. Questo è necessario perché le truppe dei terroristi non si trovano in trincee, fortificazioni, linee di difesa separate dalle case di abitazione, dalla scuole, dalle moschee e dagli ospedali, ma sono annidati in esse e spesso operano da gallerie scavate sotto i luoghi dove si radunano le folle che cercano protezione. Qualche anno fa perfino l’UNRWA, l’agenzia dell’Onu che si occupa esclusivamente di aiutare i palestinesi e funge quasi da loro ministero, protestò vivacemente quando fu messa di fronte al fatto che le sue scuole venivano usate come depositi di munizioni e nidi di cecchini. Si sa che il centro di comando principale di Hamas ha sede in gallerie sotterranee poste sotto il più grande ospedale di Gaza. Combattere i terroristi richiede di abbattere queste trappole. Israele ha rinunciato all’effetto sorpresa pur di avvertire i civili della zona dove si propone di operare che devono andarsene per non essere colpiti. Hamas, naturalmente, cerca di trattenerli come loro scudi umani, il che è un crimine di guerra. Lo sfollamento è lento e timoroso, ma Israele pazienta perché al contrario dei terroristi cerca in tutti i modi di non colpire i civili.

L’assedio
  La decisione israeliana di bloccare i rifornimenti elettrici, di carburante e di beni di consumo fra cui il cibo non contraddice questa scelta di evitare nei limiti del possibili di colpire i civili. Gli assedi hanno sempre fatto parte delle guerre, sono codificati dal diritto internazionale. Il loro senso è che in guerra le risorse che entrano in una località assediata sono usate innanzitutto per alimentare i combattimenti. Nessuno ha mai chiesto alla Gran Bretagna o agli Usa di rifornire Italia e Germania durante la seconda guerra mondiale. In una situazione di guerra tecnologica, elettricità che permette i collegamenti, carburante che alimenta i mezzi di trasporto, i collegamenti internet, ma anche l’acqua e il cibo sono strumenti di guerra come le armi. Bloccarle è essenziale. Chi come in questo momento l’Egitto e la Giordania preme per far entrare rifornimenti a Gaza, lavora per la continuazione della guerra.

Le azioni militari
  Nella giornata del sabato i combattimenti sono continuati come nei giorni precedenti. I terroristi hanno sparato i loro razzi, fra cui alcuni che sono arrivati al Nord fino a Haifa, quasi tutti fermati da Iron Dome. L’aviazione israeliana ha continuato a martellare le istallazioni terroriste e a colpire i quadri di Hamas, fra cui Ali Qadi, il comandante degli invasori di Israele di sabato scorso e dunque il primo responsabile delle atrocità. Vi sono stati degli scambi di colpi isolati al confine del Libano con Hezbollah e alcuni terroristi sono stati eliminati mentre tentavano di compiere attentati in Giudea e Samaria. La novità più significativa, come già accennato, è che alcune squadre speciali di incursori dell’esercito israeliano sono già entrati nella Striscia, recuperando alcune salme di israeliani rapiti ed uccisi e i loro oggetti e distruggendo le difese avanzate che hanno individuato.

(Shalom, 15 ottobre 2023)

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Tutti i kibbutz e i moshav del sud sono stati assaliti

Cosa è successo nei 20 kibbutzim e moshavim nella zona di confine con Gaza? Un riassunto degli eventi.

Un'immagine della distruzione nel kibbutz Be'eri dopo il mortale attacco di Hamas
Gli insediamenti ebraici e i kibbutzim intorno a Gaza hanno passato anni ad avvertire di un possibile attacco e di una catastrofe, ma i governi non hanno mai risposto, soprattutto negli ultimi mesi. Le forze di emergenza di tutti i kibbutzim e moshavim hanno chiesto armi e attrezzature, ma non è successo nulla. Quando è stato necessario, come la mattina di Shabbat, le truppe di emergenza erano sole e hanno combattuto come leoni per proteggere le loro famiglie. Ondate di terroristi hanno preso d'assalto i kibbutzim e queste truppe li hanno fermati finché le munizioni non sono finite o i soldati non sono arrivati sei ore dopo. Questi uomini e padri delle forze di emergenza sono caduti come eroi e nella storia dello Stato di Israele avranno un capitolo in più. Sono stati lo scudo tra i terroristi e le loro famiglie.
   Israel Heute ha preparato una raccolta di quello che è accaduto in quella mattina di Shabbat, lo Shabbat nero, intorno alla Striscia di Gaza e di come i 20 kibbutzim e moshavim hanno combattuto per la loro esistenza. Bisogna sapere che questi villaggi si trovano a soli 2000 metri dalla barriera di confine con Gaza. In jogging questa distanza può essere percorsa in 12 minuti. Con jeep e moto in pochi minuti. La barriera di confine è stata violata e aperta e così nelle prime ore dello Shabbat sono entrati non centinaia ma migliaia di terroristi, ma non solo questo. Palestinesi giovani e anziani sono corsi dietro ai terroristi come su un'autostrada aperta e hanno partecipato al massacro degli ebrei. A nord di Gaza, nel Kibbutz Zikim, e a sud nel Kibbutz Kerem Shalom, abbiamo fatto l’elenco di quello che le famiglie israeliane hanno vissuto la mattina presto dello scorso Shabbat.

  • Kibbuz Zikim – I terroristi hanno preso d'assalto Zikim con gli RPG ma sono stati fermati dalle forze di emergenza in uno scambio di fuoco. Due feriti tra le forze di emergenza.
  • Moschaw Nativ HaAsara – Terroristi hanno assaltato il moshav con deltaplani. Le truppe di emergenza li hanno attaccati e tre di loro sono stati uccisi. Numerosi israeliani sono stati uccisi.
  • Kibbuz Yad Mordechai – I terroristi sono stati scoperti in tempo la mattina di Shabbat. C'è stato uno scambio di fuoco intorno al kibbutz. Un membro del kibbutz è stato ucciso, ma il kibbutz è stato preservato
  • Kibbuz Eres – I terroristi sono stati scoperti in tempo la mattina di Shabbat. C'è stato uno scambio di fuoco intorno al kibbutz. Un membro del kibbutz è stato ucciso, ma il kibbutz è stato preservato.
  • Kibbuz Nir Am – terroristi hanno raggiunto l'ingresso del kibbutz, ma la forza di emergenza guidata da Inbal Libermann ha aperto il fuoco, uccidendo e cacciando i terroristi.
  • Kibbuz Miflasim – 30 terroristi hanno tentato di assaltare il kibbutz da tutte e tre le entrate, ma le forze di emergenza sono riuscite a uccidere e a scacciare i terroristi.
  • Moschaw Jachini – I terroristi sono entrati nel moshav e hanno ucciso quattro israeliani. La forza di emergenza è stata allertata, ma non disponeva di armi complete. L'unità speciale della polizia di Yamam e i soldati di Sayeret Matkal hanno fatto il lavoro e ucciso tutti i terroristi. /li>
  • Kibbuz Kefar Azza – L'intera forza di emergenza del kibbutz è stata colpita e circa 100 membri del kibbutz sono stati massacrati. Un terribile massacro.
  • Kibbuz Nachal Oz – Il comandante della forza di emergenza è disperso o rapito. Gli altri combattenti sono sopravvissuti al raid. Si sono lamentati di non aver ottenuto dall'esercito il permesso di avere in casa armi automatiche come le mitragliatrici. /li>
  • Kibbuz Alumin – I terroristi hanno fatto irruzione nel kibbutz e hanno ucciso 20 lavoratori ospiti provenienti dalla Thailandia e dal Nepal. Le forze di emergenza hanno combattuto i terroristi fino all'arrivo dell'esercito dopo sei ore.
  • Kibbuz Beeri – I terroristi hanno fatto irruzione nel kibbutz la mattina presto. Le forze di emergenza hanno combattuto senza sosta. Cinque uomini su dieci sono stati uccisi. In seguito, nel kibbutz si è verificato un massacro di oltre un centinaio di persone. Abbiamo visto immagini e video che non vi mostreremo mai. Non erano persone e nemmeno animali. Mostri!
  • Kibbuz Kissufim –Circa 70 terroristi hanno fatto irruzione nel kibbutz da tutti i lati. Scambi di fuoco con le forze di emergenza, di cui almeno quattro sono stati uccisi. Al momento si sa che 15 membri del kibbutz sono stati uccisi e quattro sono stati portati nella Striscia di Gaza.
  • Kibbuz Reím – La forza di emergenza, che contava non più di sei uomini, ha combattuto per ore contro 100 terroristi fino all'arrivo dei soldati. Cinque membri sono stati uccisi e cinque sono stati rapiti nella Striscia di Gaza.
  • Kibbuz Nirim – I terroristi hanno preso d'assalto il kibbutz e hanno prima sparato a cinque israeliani nelle loro case, poi la forza di emergenza è intervenuta e ha fermato l'incursione. Cinque combattenti israeliani hanno perso la vita.
  • Kibbuz Ein HaSchloscha – 15 membri della forza di emergenza hanno tenuto a bada l'incursione dei terroristi nel kibbutz per sei ore, fino all'arrivo dei soldati a mezzogiorno. Il comandante della forza di emergenza è caduto.
  • Kibbuz Nir Oz – Tutti i membri della forza di emergenza sono dispersi. Oltre 35 membri del kibbutz sono stati uccisi.
  • Kibbuz Magen – I terroristi hanno preso d'assalto il kibbutz, hanno distrutto la recinzione, ma sono stati fermati dalle forze di emergenza, e ne hanno ucciso uno.
  • Kibbuz Sofa – 12 terroristi hanno preso d'assalto il kibbutz e le forze di emergenza hanno combattuto fino all'arrivo dei soldati intorno a mezzogiorno. Si contano tre morti nel kibbutz.
  • Kibbuz Nir Itzchak – I terroristi hanno preso d'assalto il kibbutz. Le forze di emergenza hanno difeso il kibbutz, ma due di loro sono stati uccisi. Quattro combattenti della forza di emergenza sono dispersi e diversi membri del kibbutz sono stati rapiti e portati nella Striscia di Gaza.
  • Kibbuz Kerem Schalom – Dieci membri della forza di emergenza hanno ucciso oltre 20 terroristi. Due membri della forza di emergenza sono stati uccisi.
(Israel Heute, 15 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Voci e testimonianze da Tel Aviv e Gerusalemme nelle ore più buie

di Ilaria Ester Ramazzotti

A Jaffa, cuore antico della costa mediterranea dell’area di Tel Aviv, c’è un caffè ed enoteca normalmente molto affollato il giovedì sera, inizio del fine settimana israeliano. Si chiama Al Hambra Deli e si affaccia sul Jerusalem Boulevard, una delle arterie principali della città, proprio sul percorso della metropolitana leggera di Tel Aviv, recentemente inaugurata, e non lontano da uno stadio di calcio. Ma questa settimana le sue porte sono chiuse e un cartello affisso fuori recita così: “Amato quartiere, metà di noi è nell’esercito e l’altra metà sta proteggendo le sue case. Vi vogliamo bene e attendiamo di poter tornare. Lo staff”.
  La testimonianza è stata raccolta dalla Jewish Telegraphic Agency cinque giorni dopo l’attacco di Hamas che ha ucciso e ferito migliaia di persone nel sud del Paese. Da allora, nelle strade di Tel Aviv e Gerusalemme è calato un silenzio agghiacciante, interrotto solo dalle sirene che avvertono dell’arrivo di missili. Le scuole sono chiuse e i residenti si danno da fare per offrire aiuto in qualche modo, affrontando le conseguenze fisiche ed emotive del massacro e della guerra che Israele sta combattendo contro Hamas a Gaza.
  Nel frattempo, dall’inizio della settimana, gli scaffali dei supermercati si sono svuotati e le autorità hanno raccomandato agli israeliani di fare scorta di cibo per tre giorni. Shufersal, la più grande catena di negozi di alimentari, ha imposto limiti all’acquisto di pane, acqua in bottiglia, latte e uova. Soprattutto, continuano a emergere dettagli sulle atrocità commesse nel sud e 300.000 israeliani sono stati richiamati come riservisti nell’esercito. I razzi continuano a colpire le città israeliane e gli attacchi aerei israeliani colpiscono Gaza, mentre il Paese si prepara a quello che probabilmente sarà un conflitto prolungato.
  “Viviamo in uno stato di paura permanente – ha detto alla Jewish Telegraphic Agency Inès Forman, 29 anni, scrittrice franco-israeliana, descrivendo i giorni appena trascorsi a Tel Aviv -. Sento ansia e paura nel mio corpo ogni secondo in cui sono sveglia”. Forman si è impegnata a diffondere sui social media le notizie sul massacro del sabato precedente. Molti dei post di Instagram sul suo profilo riguardano l’arte o la letteratura, ma le immagini che ha condiviso nelle ultime 24 ore sono di tipo diverso: ha pubblicato i video ampiamente diffusi dei reporter che descrivono le scene viste nelle città al confine con Gaza, oltre a foto e video che condannano Hamas e i suoi sostenitori. “Stiamo lavorando per combattere le fake news... in pratica tutto il giorno”, spiega a proposito della sua nuova quotidianità, che prevede di svegliarsi alle cinque o alle sei del mattino e di lavorare fino a tarda notte. A parte lo scorso giovedì, quando ha partecipato al funerale della sorella minore di un’amica, Shira Eylon di 23 anni, che si credeva essere nelle mani dei rapitori fino al ritrovamento del suo corpo fra i morti del massacro del festival musicale vicino al Kibbutz Re’im. “Mia bella e pura fata, oggi hai ricevuto le ali. Ti amerò per sempre”, aveva scritto per lei la sorella maggiore su Instagram, annunciando la sua dipartita.
  “Non c’è nessuno che non abbia una persona cara che sia stata uccisa o qualcuno che conosce, un amico o una persona cara, che sia stato ferito o fatta prigioniero – ha sottolineato Melanie Landau, terapista australiana-israeliana di 50 anni che vive nel quartiere Baqa di Gerusalemme – Molte persone sono coinvolte in prima persona e sono in ansia per i loro cari”. Poi, ha aggiunto, ci sono anche momenti più “edificanti: la resilienza e la forza dello spirito umano sono state messe in luce durante questa settimana”. “Molte persone sono sovraesposte a molte immagini e credo che questo faccia parte della battaglia – ha evidenziato Landau -. Ma non dobbiamo perdere la fiducia nell’umanità e non dobbiamo farci trascinare da tutto questo”.
  A Tel Aviv, molti residenti hanno lasciato le loro case per recarsi all’estero o in un’area di Israele più lontana da Gaza, offrendo i loro appartamenti come alloggi per i rifugiati delle aree del nord e del sud del Paese che sono state evacuate. Diverse persone hanno descritto la città, normalmente affollata, come una “città fantasma”. Alcuni altri si sono invece trasferiti più all’interno della zona di Tel Aviv. Lotte Beilin, reporter trentenne britannico-israeliana, per esempio, alloggia nell’appartamento di un amico perché il suo palazzo è più vecchio e non ha un rifugio di sicurezza. “Le strade della città – riferisce sempre alla Jewish Telegraphic Agency, che ha raccolto tutte queste testimonianze – sono così silenziose che si sentirebbe cadere uno spillo”.
  In tutto il Paese sono inoltre in corso molte iniziative finalizzate a raccogliere i rifornimenti necessari alle centinaia di migliaia di soldati che sono arrivati alle loro basi privi di alcuni beni essenziali. Lee Mangoli, trentaduenne canadese-israeliana, insegnante di yoga a Tel Aviv, racconta: “Domenica scorsa ho iniziato a uscire dallo shock e ho capito che dovevo fare qualcosa per aiutare”. Così, con un’amica, ha iniziato a raccogliere cibo e altri prodotti di prima necessità, come shampoo e calze. Ben presto, il loro piccolo progetto “è esploso con l’arrivo di denaro dall’estero”. Sebbene non ci siano stati problemi nel raccogliere fondi, il suo gruppo ha incontrato difficoltà nel reperire le forniture. “Non riusciamo più a trovare la merce – evidenzia -. UPS e Fedex al momento non consegnano in Israele e alcuni articoli molto richiesti, come i coltelli multiuso Leatherman, sono quasi impossibili da reperire”.
  Per altri, come Becky Schneck, 36 anni, fisioterapista e madre di quattro figli piccoli, il peso della chiamata del marito come riservista nell’esercito, oltre alla chiusura delle scuole fino a nuovo avviso, è stato troppo schiacciante per permetterle di prendere in considerazione l’idea di offrirsi come volontaria. “Sono talmente impegnata da non poterci nemmeno pensare – svela -. Non ho la capacità emotiva per gestire tutto quello che sta succedendo a casa mia e anche quello che sta accadendo nel Paese”. I vicini della sua comunità di Tzur Hadassah, fuori Gerusalemme, si sono attivati per portare cibo alle famiglie come la sua.
  Non sempre è possibile portare avanti iniziative di volontariato, neppure per alcune organizzazioni. Masa Israel, un gruppo di riferimento per l’organizzazione di programmi di “anno sabbatico”, ha dichiarato poco dopo il massacro che nessuno dei suoi 5.700 borsisti è stato ferito, ma almeno uno dei suoi progetti è stato chiuso: si tratta del Yahel Social Change Fellowship, che impegna i suoi partecipanti in attività sociali e di volontariato in tutto Israele. “Con il cuore pesante, il consiglio e lo staff di Yahel hanno preso la difficile decisione di sospendere temporaneamente la Yahel Social Change Fellowship fino a quando la situazione non si sarà calmata”, ha dichiarato il direttore esecutivo Dana Talmi.
Altre e organizzazioni riescono invece ad andare avanti. All’Istituto di studi ebraici Pardes di Gerusalemme il personale “sta facendo del suo meglio per sostenere gli studenti per quanto umanamente possibile – ha detto il preside Meesh Hammer-Kossoy -. Nonostante la guerra, la Pardes è molto attiva. Ci riuniamo con determinazione per pregare regolarmente e cerchiamo di studiare nel miglior modo possibile”. Dei circa 80 studenti che studiano tutto l’anno, 18 hanno partecipato alle lezioni via Zoom dall’estero.

(Bet Magazine Mosaico, 15 ottobre 2023)

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Con Israele, il ricordo del rastrellamento del ghetto di Roma e l’appello di Herbert Pagani: “mi difendo, dunque sono”

di Lidano Grassucci

Il 16 ottobre del 1943, 80 anni fa, a Roma nazisti e fascisti presero 1259 persone, era un sabato il giorno che gli ebrei dedicano al Signore. Dalle 5 del mattino alle due del pomeriggio. La ricordiamo come rastrellamento di Roma, furono truppe tedesche ad agire con l’ausilio di italiani:  689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine.
Dopo il rilascio di un certo numero di componenti di famiglie di sangue misto o stranieri, 1 023 rastrellati furono deportati direttamente al campo di sterminio di Auschwitz.
Soltanto 16 di loro sopravvissero (15 uomini e una donna, Settimia Spizzichino morta nel 2000, non tornò nessun bambino).
Questa accadeva qui, tra noi, questo facemmo noi occidentali. Quel tempo e quegli orchi che fecero questo uccisero la libertà di tutti. Perché la libertà del popolo di Israele misura la libertà del mondo.
Oggi Israele è sotto attacco, che è attacco alla libertà dell’occidente. Noi stiamo raccogliendo le firme a sostegno di Israele attaccato, siamo arrivati a 160 sottoscrittori, porteremo firme e la bandiera di Israele al sindaco di Latina. Un segno di vicinanza ai liberi e non ai satrapi (si può sottoscrivere nelle nostre pagine Fb, o scrivendo al giornale con nome e cognome e la scritta aderisco) .
Pubblico a corredo di questo articolo un testo di Herbert Pagani.
Herbert Pagani era un ebreo di Tripoli, era un cantautore di sinistra, ma era anche ebreo e sionista, morto nel 1988. Questa la sua arringa per la sua gente, bellissima e vera, uscì in francese Plaidoyer pour ma terre. La scrisse nel 1975 quando l’Onu con una sua risoluzione paragonò il sionismo al razzismo. Credo che vada letta con rigore, credo che sia il manifesto di noi ragazzi di sinistra, pochi, che abbiamo amato e amiamo Israele. Senza ipocrisie, ma parole per tutti.

    Di passaggio a Fiumicino sento due turisti dire, sfogliando un giornale:
    “Fra guerre e attentati non si parla che di ebrei, che scocciatori…”
    È vero, siamo dei rompiscatole, sono secoli che rompiamo le balle all’universo.
    Che volete. Fa parte della nostra natura.
    Ha cominciato Abramo col suo Dio unico, poi Mosè con le Tavole della Legge,
    poi Gesù con l’altra guancia sempre pronta per la seconda sberla,
    poi Freud, Marx, Einstein, tutti esseri imbarazzanti, rivoluzionari, nemici dell’ordine.
    Perché? Perché l’ordine, quale che fosse il secolo, non poteva soddisfarli,
    visto che era un ordine dal quale erano regolarmente esclusi;
    rimettere in discussione, cambiare il mondo per cambiare destino,
    questo è stato il destino dei miei antenati;
    per questo sono sempre stati odiati da tutti i paladini dell’ordine prestabilito.
    L’antisemita di destra rimprovera agli ebrei di aver fatto la rivoluzione bolscevica.
    È vero. C’erano molti ebrei nel 1917.
    L’antisemita di sinistra rimprovera agli ebrei di essere
    i proprietari di Manhattan, i gestori del capitalismo…
    È vero ci sono molti capitalisti ebrei.
    La ragione è semplice: la cultura, la religione, l’idea rivoluzionaria da una parte,
    i portafogli e le banche dall’altra sono stati gli unici valori mobili,
    le sole patrie possibili per quelli che non avevano una patria.
    Ora che una patria esiste, l’antisemitismo rinasce dalle sue ceneri,
    o meglio, scusate, dalle nostre, e si chiama antisionismo.
    Prima si applicava agli individui, adesso viene applicato a una nazione.
    Israele è un ghetto, Gerusalemme è Varsavia.
    Chi ci assedia non sono più i tedeschi ma gli arabi
    e se la loro mezzaluna si è talvolta mascherata da falce
    era per meglio fregare le sinistre del mondo intero.
    Io, ebreo di sinistra, me ne sbatto di una sinistra che vuole liberare
    gli uomini a spese di una minoranza, perché io faccio parte di questa minoranza.
    Se la sinistra ci tiene a contarmi fra i suoi non può eludere il mio problema.
    E il mio problema è che dopo le deportazioni in massa operate
    dai romani nel primo secolo dell’era volgare, noi siamo stati ovunque
    banditi, schiacciati, odiati, spogliati, inseguiti e convertiti a forza.
    Perché? …perché la nostra religione, cioè la nostra cultura, erano pericolose.
    Qualche esempio?
    Il giudaismo è stato il primo a creare il sabato, il giorno del Signore,
    giorno di riposo obbligatorio. Insomma il week-end.
    Immaginate la gioia dei faraoni, sempre in ritardo di una piramide.
    Il giudaismo proibisce la schiavitù.
    Immaginate la simpatia dei romani,
    i più grossi importatori di manodopera gratuita dell’antichità.
    Nella Bibbia è scritto: “La terra non appartiene all’uomo, ma a Dio”;
    da questa frase scaturisce una legge, quella della estinzione automatica
    dei diritti di proprietà ogni 49 anni.
    Vi immaginate la reazione dei papi del medioevo e degli imperatori del Rinascimento?
    Non bisognava che il popolo sapesse.
    Si cominciò quindi col proibire la lettura della Bibbia, che venne svalutata come Vecchio Testamento.
    Poi ci fu la maldicenza: muri di calunnie che divennero muri di pietra: i ghetti.
    Poi ci furono l’indice, l’inquisizione e più tardi le stelle gialle.
    Ma Auschwitz non è che un esempio industriale di genocidio.
    Di genocidi artigianali ce ne sono stati a migliaia.
    Mi ci vorrebbero dieci giorni solo per fare la lista
    di tutti i pogrom di Spagna, Russia, Polonia e Nord Africa.
    A forza di fuggire, di spostarsi, l’ebreo è andato dappertutto.
    Si estrapola il significato e eccoci giudicati gente di nessun posto.
    Noi siamo in mezzo ad altri popoli come gli orfani affidati al brefotrofio.
    Io non voglio più essere adottato, non voglio più che la mia vita
    dipenda dall’umore dei miei padroni di casa, non voglio più affittare una
    cittadinanza, ne ho abbastanza di bussare alle porte della storia
    e di aspettare che mi dicano: “Avanti!”.
    Stavolta entro e grido; mi sento a casa mia sulla terra e sulla terra ho la mia terra.
    Perché l’espressione terra promessa deve valere per tutti i popoli
    meno che per quello che l’ha inventata?
    Che cos’è il sionismo?
    …si riduce a una sola frase: l’anno prossimo a Gerusalemme.
    No, non è lo slogan di qualche club di vacanza;
    è scritto nella Bibbia, il libro più venduto e peggio letto del mondo.
    E questa preghiera è divenuta un grido, un grido che ha più di duemila anni,
    e i padri di Cristoforo Colombo, di Kafka, di Proust, di Chagall, di Marx,
    di Einstein, di Modigliani, e di Woody Allen l’hanno ripetuta, questa frase,
    almeno una volta all’anno: il giorno della Pasqua.
    Allora il sionismo è razzismo?
    Ma non fatemi ridere.
    Il sionismo è il nome di una lotta di liberazione
    e come ogni movimento democratico ha le sue destre e le sue sinistre.
    Nel mondo ciascuno ha i suoi ebrei.
    I francesi hanno i còrsi, i lavoratori algerini; gli italiani hanno i terroni e i terremotati;
    gli americani hanno i negri, i portoricani; gli uomini hanno le donne;
    la Società ha i ladri, gli omosessuali, gli handicappati.
    Noi siamo gli ebrei di tutti.
    A quelli che mi chiedono: “e i palestinesi?”
    Rispondo “io sono un palestinese di duemila anni fa,
    sono l’oppresso più vecchio del mondo,
    sono pronto a discutere con loro ma non a cedergli la terra che ho lavorato.
    Tanto più che laggiù c’è posto per due popoli e due nazioni”
    Le frontiere le dobbiamo disegnare insieme.
    Tutta la sinistra sionista cerca da trent’anni degli interlocutori palestinesi,
    ma l’OLP, incoraggiata dal capitale arabo e dalle sinistre europee,
    si è chiusa in un irredentismo che sta costando la vita a tutto un popolo,
    un popolo che mi è fratello, ma che vuole forgiare la sua indipendenza sulle mie ceneri.
    C’è scritto sulla carta dell’OLP:
    “Verranno accettati nella Palestina riunificata solo gli ebrei venuti prima del 1917”
    A questo punto devo essere solidale con la mia gente.
    Quando gli arabi mi riconosceranno, mi batterò insieme a loro contro i nostri comuni oppressori.
    Ma per oggi la famosa frase di Cartesio “penso, dunque sono” non ha nessun valore.
    Noi ebrei sono cinquemila anni che pensiamo e ci negano ancora il diritto di esistere.
    Oggi, anche se mi fa orrore, sono costretto a dire “mi difendo, dunque sono”.

(Fatto a Latina, 15 ottobre 2023)

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«Ho quattro figli e tre sono al fronte. Noi nel kibbutz aiutiamo i soldati»

Angelica: «Eravamo 450 siamo rimasti in 200. Mio marito si occupa della sicurezza. Fabbrichiamo giubbotti antiproiettile»

Il kibbutz Sasa sta a un chilometro soltanto dall’”altro” fronte: quello con il Libano. È conosciuto in tutta Israele per due “specialità”: la produzione di mele e la straordinaria attività di promozione del dialogo interculturale tra ebrei, musulmani, cristiani e drusi. Ora ne ha una terza: sopravvivere alla minaccia di Hezbollah. Da sabato 7 ottobre, quando è iniziato il feroce attacco di Hamas nelle aree sul confine con Gaza, anche le comunità del nord sono state messe in allerta. Le forze di difesa israeliane si stanno attrezzando per affrontare un eventuale attacco dal Libano. Alcuni miliziani di Hezbollah si sono già infiltrati, cercando di attaccare il kibbutz Adamit, nei pressi di Rosh Hanikra: 4 guerriglieri su 5 sono stati fermati dall’esercito.
  «Quel Kibbutz si trova a pochi chilometri dal nostro. Tutti sono stati bombardati a raffica lunedì – ci racconta Angelica Edna Calò, membro del Kibbutz Sasa dal 1975, docente al Teh Hai College di Kiriat Shmone e fondatrice del Teatro Arcobaleno, che promuovere il dialogo –. A ogni sospetto andiamo nella stanza antimissili. E siamo fortunati ad averne una, perché la nostra è una casa relativamente nuova, le altre non ce l’hanno». Sono i “veterani” come Angelica e suo marito a tenere le redini del kibbutz, perché le famiglie con bambini sono state evacuate: chi al kibbutz Sdot Yam, a metà strada tra Tel Aviv e Haifa, chi da amici e parenti che vivono nel centro del Paese. « Normalmente in questo kibbutz vivono 450 persone, ma al momento siamo rimasti solo 200, di cui una ventina, coordinati da mio marito che è il responsabile della sicurezza, si occupano della difesa interna. All’esterno, e in tutta la zona limitrofa, ci sono una cinquantina di soldati. Ci aiutiamo a vicenda. Noi gli portiamo da mangiare, vestiti pesanti e coperte per la notte. In questa situazione di emergenza l’esercito da solo non ce la fa. Loro proteggono le nostre vite e noi facciamo di tutto il possibile per loro». Gli altri grandi assenti nel kibbutz sono i ragazzi tra i 20 e i 40 anni, che sono stati richiamati come riservisti. Dei quattro figli di Angelica, tre ora si trovano al confine con Gaza, e non sanno ancora se e quando entreranno. Il quarto si sarebbe arruolato, ma non può perché ha superato i quaranta anni (limite di età per partecipare alla riserva). Tutti gli israeliani, compatti, stanno partecipando allo sforzo per difendere il Paese.
  Un’adesione senza precedenti, che comporta anche qualche difficoltà. « Nell’unità di nostro figlio Kfir mancano, per ora, i giubbotti antiproiettili», dice Angelica. Suo marito, come molti altri padri di famiglia, sta cercando una soluzione alternativa: hanno trovato una fabbrica che, vista l’emergenza, è disposta a produrli a un costo accessibile. È già cominciata la raccolta fondi, una delle tante attività di supporto all’esercito da parte del popolo israeliano. « Negli ultimi mesi il governo era troppo preso a occuparsi di sé stesso o dei coloni, è si è dimenticato di tutti coloro che vivono nei kibbutz, al nord e al sud, nei punti, da sempre, più sensibili del Paese. Ancora non ss ha una lista definitiva né dei morti, né degli ostaggi, né dei dispersi. Per riprendersi da questo doppio trauma, quello dell’attacco esterno e quello della frattura interna a Israele, ci vorranno anni».

(Avvenire, 11 ottobre 2023)


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Non c’è dialogo con chi vuole cancellarci

Angelica Edna Calò Livne spiega il sentimento che prova un intero popolo in guerra

Alle prime luci dell’alba ho sentito gli sguardi, ho capito che il cingolato era esploso, dovevo cercare mio fratello vivo o morto. Intorno c’era fumo e infuriava la battaglia, non sapevo cosa fare. Tornai dal Golan verso il mio Kibbuz- Nir Oz, arrivai distrutto, impolverato, ferito nell’anima, Adina, mia moglie mi abbracciò e capii subito… Sasson non c’era più. Come lo avremmo raccontato a mia madre?”
10 giorni fa, la sera di Kippur, dopo 50 anni, Said, ebreo di origine irakena, racconta la tragedia di suo fratello, ucciso nella guerra del 1973.
Qualche giorno dopo, a Simchat Torà 2023, alle sei del mattino, una banda di terroristi Hamas mascherati e armati fino ai denti, entrano in casa sua, al Kibbuz Nir Oz, lo massacrano di proiettili e portano via Adina a Gaza, su una motocicletta, e trascinano via centinaia di altri chaverim, bambini, neonati strappati alle culle del kibbuz in pieno sonno.
Yariv, membro del mio kibbuz Sasa, figlio di Sasson e nipote di Said, è un ragazzo introverso, aveva 2 anni e mezzo quando suo padre morì sulle alture del Golan.
“Ti prego, racconta questa storia, mostra la foto di zia Adina, forse la ritroveranno, soffre di cuore, deve prendere le sue medicine!” In questi giorni funesti sentiamo decine e centinaia di storie strazianti, vediamo immagini
raccapriccianti immortalate nelle reti arabe: bambini e ragazzine torturate e mostrate come veri e propri trofei, davanti a una massa di barbari che ride sguaiata. Una cara amica di Madrid mi ha scritto : “Ciò che sta accadendo è una sconfitta per il mondo intero. Come esseri umani stiamo facendo tanti passi indietro…”
Ecco, questo è ciò che sento: una massa terroristi barbari e indemoniati ci hanno catapultato migliaia di anni addietro quando si immolavano gli esseri umani in nome di un dio pagano.
Eh ma questo è quello che succede a chi cresce in un campo profughi”, mi dicono. E chi li ha chiusi nei campi profughi? E chi ha deciso di usare i miliardi di euro e dollari di fondi ricevuti per addestrare alla guerra invece di trasformare Gaza in una delle più fiorenti cittadine del Mediterraneo con tanto di spiaggia, hotel principeschi e perfino un Casinò? Mentre noi godevamo di una sospirata calma e ci cimentavamo in nuovi studi e nuove ricerche loro si allenavano a torturare, a saccheggiare, a decapitare e a violentare sotto la guida del grande mentore: l’Iran.
Si, siamo traumatizzati, massacrati, attoniti, colmi di rabbia ma nel corso della storia abbiamo sviluppato un nuovo gene, quello della resilienza. Stiamo già arrampicandoci faticosamente su per la salita ma insieme ci risolleveremo dalle macerie e dai cuori dilaniati. E il colpo inferito a chi ci ha colpiti sarà duro. Siamo buoni, abbiamo dei valori ma per noi il valore piu’ alto è la vita.
Non c’è dialogo con chi vuole cancellarci dalla faccia della terra.

(Riflessi Menorah, 14 ottobre 2023)

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Gesù ti pensa e si occupa di te!

di Ernst Kraft*

Cari amici, è meraviglioso sapere che il Signore Gesù non pensa in modo piatto e generale alla Sua chiesa, ma conosce personalmente ogni individuo che ne fa parte.

    «Chiama per nome le sue pecore e le conduce fuori» (Giovanni 10:3).

Non cura soltanto il gregge, ma ha un livello di attenzione su ognuno.

    «Come un pastore, egli pascerà il suo gregge: raccoglierà gli agnelli in braccio, li porterà sul petto, condurrà le pecore che allattano» (Isaia 40:l1).

Un bambino non può sopportare tanto quanto un adulto. Ecco perché Gesù non ci mette tutti insieme facendo di tutt'erba un fascio. No, tutti sono trattati da Lui in modo personale. Conosceva, ad esempio, il peso interiore di Pietro e la sua sofferenza dopo il fallimento dovuto al suo rinnegamento. Gesù comprese Pietro, pensò a lui con compassione e rinnovò il suo coraggio (Giovanni 21:15-19).
   Il Salmo 115:12 dice:

    «L'Eterno si è ricordato di noi; egli benedirà, sì, benedirà la casa d'Israele, benedirà la casa d'Aaronne».

Il Signore, nell'amore e nella misericordia, provvede e pensa ai Suoi redenti. Ha pensieri di pace e non di sofferenza per noi.

    «Poiché io so i pensieri che medito per voi, dice l'Eterno: pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza» (Geremia 29:11).

Inoltre, non lo fa di tanto in tanto, cioè non si ricorda di noi nello stesso modo in cui noi ci ricordiamo di Lui. A Pietro, il Signore disse, quando Satana desiderava vagliare lui e gli altri discepoli come il grano:

    «Ma io ho pregato per te affinché la tua fede non venga meno; e tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli» (Luca 22:32).

Gesù pensò a Pietro, pregò per lui. Se c'è qualcuno che può comprenderti, questo è Gesù Cristo. Lui si occupò anche del suo apostolo Tommaso, che aveva così tanti problemi con i suoi dubbi (Giovanni 20:24-27).
   Gesù pensa a te, specialmente quando sei nel bisogno e i tuoi problemi sembrano insormontabili. Facciamo una riflessione semplice: Non ci occupiamo in modo particolare dei nostri figli quando sono ammalati? Quindi, quando siamo nella necessità e ci sentiamo abbattuti Cristo si preoccupa di noi prendendosi cura dell'intero nostro essere.

    «Perché non abbiamo un Sommo Sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre infermità; ma ne abbiamo uno che in ogni cosa è stato tentato come noi, però senza peccare» (Ebrei 4: 15).

Anche se Lui si occupa di noi in modo così amorevole e premuroso, spesso lo dimentichiamo nella nostra vita di tutti i giorni. Viviamo le nostre vite e ci ricordiamo di Lui solo quando le cose vanno male. I proverbi dicono:

    «Riconoscilo in tutte le tue vie, ed egli appianerà i tuoi sentieri» (Proverbi 3:6).

Dio ci ama immensamente e ci rinnova in Cristo ogni giorno.

    «Colui che non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma l'ha dato per tutti noi, come non ci donerà egli anche tutte le cose con lui?» (Romani 8:32).

Gesù sta aspettando una risposta da noi. Quando guarì i dieci lebbrosi, solo uno tornò per ringraziarlo e il Signore chiese dove fossero gli altri nove (Luca 17:17). L’amore sincero e la bontà del nostro Signore dovrebbero condurci alla reazione di cui leggiamo nel Salmo 116:12-14:

    «Che potrò ricambiare al Signore per tutti i benefici che mi ha fatti? Io alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore. Scioglierò i miei voti al Signore e lo farò in presenza di tutto il suo popolo.»

La gentilezza di Gesù, la sua pazienza con me, il suo amore, tutto dovrebbe coinvolgermi completamente, mi rivolgo di nuovo a lui nonostante la mia indifferenza, rinuncio alla mia tiepidezza, la mia vita crescerà solo se cedo al mio Signore Gesù Cristo.

    «Oppure disprezzi le ricchezze della sua bontà, della sua pazienza e della sua costanza, non riconoscendo che la bontà di Dio ti spinge al ravvedimento?» (Romani 2:4).

Se apriamo i nostri cuori al Signore Gesù, allora, in comunione con Lui, conosceremo certamente il Suo amore, che supera ogni conoscenza. Possiamo vivere gioiosamente e felicemente la conoscenza: Gesù si occupa di me. Lui mi ama e anch'io voglio amare Lui. Il Signore promette:

    «Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta le mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me» (Apocalisse 3:20).

Amiamolo, poiché Egli ci ha amati per primo (1 Giovanni 4:19). Maranatha, nostro Signore vieni!
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* Missionario a San Paolo, in Brasile

(Chiamata di Mezzanotte, gen/feb 2019)


 

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Tajani in Israele: “Hamas è come l’Isis, come le SS”

di Elisabetta Fiorito

Un viaggio lampo quello di Antonio Tajani a sostegno di Israele. Il ministro degli esteri parla in conferenza stampa a Tel Aviv dopo aver visitato i luoghi dei massacri e annuncia l’imminente operazione di terra. "C'è una grande concentrazione di truppe israeliane ai confini con la Striscia di Gaza. Ne ho visti tantissimi, centinaia di carri armati, quindi uomini pronti a intervenire. Ma l'evacuazione è in corso". Tajani spera che si possa fermare l’uccisione di vittime civili, ma diffida di Hamas. "Le iniziative per salvare vite umane ce ne sono tante, bisogna vedere se Hamas risponde positivamente: mi pare che abbia già risposto negativamente alla proposta egiziana e questa è la dimostrazione che Hamas vuole la guerra e vuole farsi scudo con il popolo palestinese per le sue attività criminali”. Il ministro non usa mezzi termini: “Hamas è come l'ISIS, come le SS, come la Gestapo, fanno le stesse cose, sono terroristi, degli assassini e stanno utilizzando come scudo il popolo palestinese, cosa che non è giusta, bisogna evitare che ci siano altri morti innocenti".
  Riguardo al fronte nord, per il ministro degli esteri è “giusto che Hezbollah rimanga dentro i confini del Libano, perché un attacco dal sud del Libano verso Israele sarebbe una terribile iniziativa destinata a infiammare il Medio Oriente e questo non lo vogliamo". E Tajani accoglie nel suo aereo quattro cittadini italiani che non erano ancora riusciti a partire.
  L’omologo israeliano Eli Cohen ringrazia Tajani. "L'Italia è uno stretto e importante alleato dello Stato di Israele. La visita qui oggi ne è un'ulteriore prova". Ringrazio per essere venuto al sud per mostrare al popolo di Israele, all'Italia e al mondo che l'Italia è con il popolo di Israele e sostiene il nostro diritto, senza riserve, di difendere i nostri cittadini contro l'organizzazione terroristica assassina Hamas".

(Shalom, 13 ottobre 2023)

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Il video dei bambini israeliani con i miliziani di Hamas. Un messaggio doppio e cinico

Mostrando i piccoli rapiti nei kibbutz i terroristi alzano il livello dell’odio

ROMA - Ringrazia Allah e bevi, bevi pure. Il bambino avrà 5 o 6 anni, i capelli spettinati, lo sguardo incerto. Abbozza una risposta e beve dal bicchiere che il terrorista di Hamas gli allunga. La pronuncia del bambino non è araba. É uno dei piccoli israeliani rapiti nei kibbutz vicini a Gaza, pare quello di Kholit, e portati nella Striscia. Il frame è una parte del video che Hamas ha diffuso sui suoi canali Telegram per mostrare i miliziani che “coccolano” i bambini ebrei rapiti. Uno dei terroristi addirittura culla un neonato muovendo la carrozzina dove il piccolo dorme. Sono sotto una veranda, forse ancora nel kibbutz dove sono state compiute le stragi, difficile identificare con certezza il luogo. Altri tengono i bambini in braccio, i piccoli zitti, spaventati, il terrorista con il volto coperto.
   In questi anni la propaganda degli estremisti islamici ci ha mostrato ogni efferatezza. Gole tagliate, attacchi sui civili, attentati, kamikaze con gli occhi sgranati. Ma mai prima di ora si erano usati i bambini del nemico. Un messaggio doppio e cinico. Li abbiamo noi, però li trattiamo bene… O questo vogliono fare credere. In un altro video postato dalla Striscia si vede un bimbo ebreo, avrà 3 o 4 anni, che piange e ripete ossessivo “mamma”. È circondato da ragazzini palestinesi, più o meno la stessa età. Lo deridono, uno lo colpisce con una verga. Ognuno di loro è una vittima. Tutti loro sono vittime dell’odio cresciuto più grande di loro, della propaganda che non accetta vie di pace, della violenza di un mondo di adulti che ha perso ogni ragione e ogni sensibilità. Le vittime di questa guerra sono bambini. Quelli ebrei uccisi nei kibbutz durante l’attacco di Hamas, quelli rapiti, quelli palestinesi in fuga sui carretti, senza futuro, o massacrati dagli attacchi su Gaza da parte di Israele. Quelli usati come scudi umani. Le bombe non lasciano scampo a nessuno in una guerra si fa mattanza, che allarga una ferita insanabile tra questi popoli. Cosa ci resta da fare? Il pericolo è abituarci all’orrore. All’uso dei bambini come arma. Spegnere i video non è la soluzione. Occorre saperli leggere, smontare, non cedere al loro intento propagandistico.  
VIDEO

(Quotidiano Nazionale, 14 ottobre 2023)

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Forze di Difesa Israeliane (IDF) esortano i civili a lasciare Gaza City

Hamas: «È propaganda. State a casa»

Come riporta The Times of Israel, l’ordine è arrivato all’alba del settimo giorno della guerra tra Israele e Gaza, con l’esercito che ha lanciato la sua diffusa offensiva aerea e un assedio totale sulla Striscia, che secondo le organizzazioni umanitarie internazionali l’ha lasciata sull’orlo di un disastro umanitario. Secondo le Nazioni Unite, 340.000 abitanti di Gaza sono stati sfollati da quando Israele ha iniziato la sua campagna, spinta dai terroristi guidati da Hamas che hanno imperversato nelle comunità del sud in un massacro che ha causato la morte di oltre 1.300 israeliani, e che si stima che altri 150-200 siano stati rapiti e portati nella Striscia.
   Come si legge nei comunicati di agenzia, in una notte segnata dalla tensione, le forze militari israeliane hanno portato a termine un’ampia operazione militare, prendendo di mira un totale di 750 obiettivi riconducibili al gruppo terroristico Hamas. Questo massiccio attacco ha interessato una varietà di bersagli, tra cui tunnel sotterranei, strutture militari, residenze utilizzate come centri di comando, depositi di armi e strutture di comunicazione. L’obiettivo principale è stato mettere sotto pressione i vertici di Hamas, ritenuti responsabili delle recenti tensioni nella regione.
   Come reazione a questa escalation, molte famiglie residenti a Gaza City hanno deciso di abbandonare le proprie abitazioni in preda al timore. L’esercito israeliano, come sopra indicato, aveva precedentemente emesso un avviso riguardante l’imminente inizio di operazioni militari nella parte settentrionale della Striscia di Gaza, spingendo i civili a cercare rifugio più a sud. Alcuni di loro sono stati costretti a intraprendere una marcia a piedi, portando con sé pochi effetti personali. Questa situazione ha messo a dura prova il sistema di soccorso, con il personale medico e i pazienti che si trovano nella zona a rischio a causa della mancanza di ambulanze e strutture di ricovero adeguate.
   L’invito dell’IDF alla popolazione civile di Gaza City a evacuare per garantire la loro sicurezza – nella sua dichiarazione di venerdì ha chiesto «l’evacuazione di tutti i civili di Gaza City dalle loro case verso sud per la loro sicurezza e protezione, e di spostarsi nell’area a sud di Wadi Gaza, come mostrato sulla mappa» – è stato accolto da diverse reazioni. L’IDF ha sottolineato la necessità di allontanarsi da Hamas, accusandoli di nascondersi sotto le abitazioni civili e negli edifici residenziali, mettendo così a rischio la vita della popolazione. Gli abitanti di Gaza City sono stati avvertiti che potranno farvi ritorno solo dopo un annuncio specifico che autorizzi il rientro.
   Nel frattempo, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA, ha spostato il centro delle proprie operazioni nella parte meridionale della Striscia di Gaza, in risposta all’avviso dell’esercito israeliano. L’UNRWA ha sottolineato l’importanza del rispetto delle leggi internazionali da parte di Israele e della protezione dei civili che si trovano nelle strutture UNRWA, tra cui scuole e rifugi, attualmente ospitanti oltre 200.000 persone.
   Nel frattempo, Hamas ha invitato la popolazione a non abbandonare le proprie case, respingendo l’avvertimento dell’esercito israeliano come “propaganda”. La situazione nella regione rimane estremamente tesa, con le tensioni che non accennano a diminuire, mentre il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha fatto un paragone tra Hamas e l’ISIS durante una conversazione con il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken.

(Bet Magazine Mosaico, 13 ottobre 2023)

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Al venerdì di rabbia i palestinesi non hanno risposto a Hamas

Bombe e volantini, i raid dentro la Striscia di Gaza sono già cominciati. Le evacuazioni e l’ultimatum dell’invasione.

di Cecilia Sala

GERUSALEMME - A Gerusalemme c’è il silenzio, e questa quiete – per Hamas – è sinonimo di sconfitta. Il venerdì della preghiera non è stato il grande venerdì della rabbia. L’appello dei terroristi rivolto a tutti i palestinesi per incendiare la città e la Cisgiordania non ha attecchito e il messaggio è: i palestinesi non sono disposti a morire per Hamas, e Hamas non incarna la causa palestinese. Questa non è la nostra guerra. E’ un segnale vistoso che in realtà era già arrivato all’alba del massacro di sabato: i miliziani fondamentalisti avevano chiamato tutti a innescare scintille di ribellione e di morte ovunque, in nome di Dio. I palestinesi non lo avevano fatto, e lo stesso appello è stato respinto ieri. C’è stato un numero di scontri inferiore a quello di molti venerdì a Gerusalemme senza un conflitto in corso. 
   Ma ci si sono stati episodi di una tipologia di tragedie che ormai è diventata cronica: un colone israeliano armato ha sparato a bruciapelo a un civile palestinese nel villaggio di Masafer Yatta. La polizia e i soldati ne hanno uccisi altri che consideravano un potenziale pericolo. Alcuni estremisti israeliani sono andati in giro per i territori occupati mascherati e con le pistole in pugno. Su un ponte di Tel Aviv è comparso per poco tempo un cartello rosso con una scritta bianca in ebraico che recita: “Vittoria significa che Gaza avrà zero residenti”. Ma ieri sono arrivate anche le reazioni israeliane più strazianti alla strage di sabato, sono quelle dei famigliari dei pacifisti rapiti o giustiziati nei kibbutz, come il figlio dell’attivista Vivian Silver che dice: “I bambini morti non si possono curare con altri bambini morti”. Senza mettere in discussione che Hamas vada distrutto.
   Nel giorno dell’ultimatum a Gaza, la rivolta chiamata da Hamas non c’è stata e nel paese il gruppo sembra più solo di quanto non fosse prima di questa settimana di sangue. Non soltanto la Cisgiordania non risponde alla chiamata diretta dei terroristi, dal Libano Hezbollah è stato finora riluttante ad aprire davvero un altro fronte a nord e anche tanti abitanti di Gaza non rispettano l’ordine che Hamas ha impartito loro: non abbandonate le vostre case ad al Zahraa o a Gaza City, perché la minaccia di un’invasione è “soltanto propaganda israeliana”. Che significa: ci servite come scudi umani per proteggere con i vostri corpi i nostri tunnel e i nostri mucchietti di razzi. Hamas preferisce più morti palestinesi per poter poi uccidere più ebrei in futuro ai palestinesi vivi. 
   Ieri l’operatore di Reuters, Issam Abdullah, è morto sotto un colpo dell’artiglieria israeliana mentre lavorava nel sud del Libano. Prima dell’alba, la Difesa israeliana ha dato il suo ultimatum. Ha pubblicato un appello corredato di mappa e rivolto a tutti gli abitanti del nord della Striscia: lasciate le vostre case e scappate verso sud. Nella mappa è segnato il confine – che taglia in due la Striscia per il lato corto – di Wadi Gaza: sopra non si può restare e si deve fuggire subito sotto quella linea. Significa evacuare tutti i circa 750 mila residenti di Gaza City e gli altri 450 mila che vivono nell’area attorno alla città, entro ventiquattro ore. Il portavoce del ministero della Salute di Gaza ha parlato con l’inviata dell’Independent e le ha detto che è “impossibile” evacuare tutti i feriti a sud. “Non ci sono letti liberi in nessun ospedale in nessuno dei posti dove (gli israeliani) ci dicono di trasferirci. La maggior parte dei feriti non possono essere stabilizzati in tempi così rapidi: se li spostiamo muoiono durante il tragitto”. 
   Già ieri e il giorno prima ci sono stati alcuni piccoli raid dentro Gaza con le truppe e i carri armati per “ripulire l’area e localizzare gli ostaggi”. Il portavoce delle Forze armate, Daniel Hagari, ha spiegato che quei soldati hanno anche raccolto dei reperti “che potrebbero aiutare nello sforzo che stiamo facendo per trovare i cittadini dispersi” a Gaza. Le fonti militari israeliane secondo cui l’invasione “ora è davvero imminente” si moltiplicano. Ieri sera Roy Sharon dell’emittente Kann News ha previsto massicci attacchi aerei prima dell’incursione di terra a Gaza, dicendo che potrebbe cominciare questa mattina. Sarebbe simbolico entrare nella Striscia esattamente una settimana dopo l’invasione all’inverso di Hamas che ha spedito i suoi uomini nel sud di Israele per massacrare civili ebrei. Netanyahu ieri sera ha detto alla nazione: “La controffensiva è appena cominciata

Il Foglio, 14 ottobre 2023)

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Gerusalemme oggi. La città vecchia durante la guerra




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Una settimana impossibile

GERUSALEMME - Alcune riflessioni su questa settimana impossibile in cui la nostra realtà è completamente cambiata. Ma il nostro popolo è di nuovo unito. Peccato che prima ci sia sempre bisogno di una catastrofe.

di Dov Eilon

Buongiorno, cari amici!
È da un po' di tempo che sono seduto davanti al mio computer, chiedendomi come iniziare il mio testo. Oggi volevo condividere con voi qualcosa dei miei sentimenti personali riguardo alla situazione impossibile in cui ci troviamo dallo scorso Shabbat. È quasi incredibile la rapidità con cui tutti noi ci siamo in qualche modo abituati a questa nuova realtà. Con questo non intendo dire che l'accettiamo, non è possibile, ma abbiamo già imparato abbastanza rapidamente come affrontare questa situazione, per quanto crudele possa essere.
   Noi israeliani siamo noti per adattarci rapidamente a una nuova realtà. Perché la vita deve andare avanti. Sì, abbiamo un'enorme volontà di sopravvivenza. Siamo in grado di mettere da parte tutte le nostre differenze e controversie da un momento all'altro. Improvvisamente siamo di nuovo un unico popolo, unito. Ed è questo che ci rende così forti.

Un convoglio di carri armati israeliani al tramonto vicino al confine meridionale israeliano con Gaza, 12 ottobre 2023
Solo una settimana fa stavamo discutendo se agli ebrei dovesse essere permesso di sfilare con la Torah in piazza Dizengoff a Tel Aviv per la festa di Simchat Torah. Incredibile. Perché agli ebrei non dovrebbe essere permesso di praticare liberamente la loro fede nel loro Paese? Non è proprio questo il motivo per cui siamo tornati in questo Paese? Ero scioccato da questo odio verso gli ebrei osservanti da parte degli ebrei non religiosi.
E poi è arrivata la catastrofe. La mattina di Shabbat, alle 6.30. Da allora viviamo in un mondo diverso. Abbiamo subito un colpo terribile. Nella mia testa mi sorprendono i pensieri. È possibile che questa catastrofe sia una punizione? D'ora in poi ricorderemo questa tragedia a ogni festa di Simchat Torah, la festa della gioia per la Torah. Per sempre questa festa sarà associata a questa tragedia.
Cosa staranno pensando ora gli oppositori non religiosi dell'ebraismo, anche loro ebrei. È terribile che ci siamo riuniti solo a causa di questa catastrofe. Se d'ora in poi saremo davvero un popolo unito, lo scopriremo probabilmente solo dopo questa guerra, che ci è stata imposta dai terroristi di Hamas.
   Al momento non ho idea di cosa succederà dopo. Sono stati mobilitati quasi mezzo milione di soldati, tra cui molti amici di mio figlio.
   Ogni giorno, la prima cosa che faccio è accendere la TV per aggiornarmi sugli ultimi eventi. Il numero degli assassinati e dei morti aumenta quasi ogni giorno di un altro centinaio di persone, incredibile. Oggi il numero è di almeno 1300 morti! Finora è stato identificato solo un terzo delle vittime civili.
Ieri abbiamo ricevuto la triste notizia che il fratello di un'amica d'infanzia di mia figlia è stato ucciso. Anche lui si trovava al festival musicale dove i terroristi hanno compiuto un massacro. Mentre fuggiva dai terroristi assassini, era ancora in grado di parlare al telefono con suo fratello. Stava fuggendo insieme a due ragazze e ha raggiunto un'auto con loro. Mentre scappava, è stato colpito da un proiettile allo stomaco, hanno raccontato le ragazze che erano con lui. Poi sono scappate, mentre Ofek è rimasto ferito nell'auto. Da allora è stato considerato disperso, fino a ieri.
Ofek Arbib aveva compiuto 21 anni. Era il fratello minore di una delle migliori amiche di mia figlia. Spesso stava a casa nostra insieme a sua sorella. Ofek è stato sepolto ieri sera nel cimitero militare della città di Holon. Che il suo ricordo sia in benedizione. Nei prossimi giorni faremo visita alla famiglia per porgere le nostre condoglianze durante la shiva.
   Oltre a questi tristi eventi, ci sono ora problemi quotidiani che in realtà sono del tutto irrilevanti. Dopo l'annuncio, forse un po' affrettato, dal fronte interno che ogni cittadino avrebbe dovuto fare scorte di cibo e acqua sufficienti per almeno 72 ore, i supermercati del Paese sono stati praticamente presi d'assalto. Mi sono recato al supermercato solo il giorno seguente per comprare alcune cose. Ma ero troppo in ritardo, il supermercato sembrava essere stato saccheggiato. Molti scaffali erano completamente vuoti. Non c'erano uova, né acqua minerale e soprattutto non c'era più carta igienica.
Come dopo un saccheggio.
Un supermercato a Gerusalemme.
“Ma cos’ha la gente con la carta igienica?" mi sono chiesto, ripensando ai tempi di Corona, quando uova e carta igienica erano i prodotti più ricercati. Poi sono riuscito ad accaparrarmi gli ultimi due pacchetti di carta igienica in una farmacia, naturalmente i più costosi: 100 shekel (l'equivalente di circa 25 euro) per un paio di rotoli. Ma non importa, abbiamo problemi più importanti.
   Da questo crudele Shabbat, in realtà, siamo stati solo a casa. Solo ieri, cinque giorni dopo l'inizio della guerra, nostro figlio è uscito di casa per andare a trovare un amico. Ieri sono andato brevemente al nostro centro commerciale per fare un po' di spesa e mi sono stupito di quanto fosse vuoto. La maggior parte dei negozi era chiusa, solo il piccolo supermercato era aperto. Non c'era nemmeno l'acqua minerale.
   Così la maggior parte del tempo siamo seduti a casa paralizzati davanti alla TV. Probabilmente dovremo fare i conti con questa catastrofe per molto tempo.
   Ma ora dobbiamo prima vincere questa guerra.
   Israele sta combattendo per la sua esistenza, anche 75 anni dopo la fondazione dello Stato. I terroristi devono essere sconfitti, o loro o noi.
   Nonostante tutto, vi auguro uno Shabbat benedetto. Sentitevi liberi di scrivere i vostri commenti qui sotto. E domani sera mi auguro di vedervi tutti alla nostra prossima riunione di Zoom. Fino ad allora, statemi bene!
   Shabbat Shalom!

(Israel Heute, 13 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Operazione Spade di ferro - Giorno 7

di Ugo Volli

Inizia la fase decisiva della guerra
  La guerra terrestre a Gaza ormai è prossima. Israele ha completato il richiamo dei riservisti e l’organizzazione dei contingenti che entreranno a Gaza. Ha anche avvertito in molti modi, con SMS, volantini, messaggi televisivi realizzati hackerando la tv di Gaza, perfino con telefonate personali, i civili della parte nord della Striscia, dove presumibilmente ci sarà il primo impatto dell’operazione, a lasciare il territorio e a rifugiarsi nella zona meridionale, a sud della città di Gaza. Va sottolineato come anche in questa circostanza estrema l’esercito israeliano segua le leggi internazionali e si sforzi di nuocere il meno possibile alla popolazione civile. D’altro canto questa guerra è necessaria: tutto il mondo ha capito che non è possibile più per Israele, che come tutti gli stati ha il compito primario di difendere la vita e l’incolumità dei suoi cittadini, convivere con un’organizzazione terrorista che ha fatto della strage di massa dei civili il suo metodo di “lotta”, macchiandosi di crimini mostruosi. Dopo aver pazientato per quasi vent’anni, sopportando perdite e lutti e limitandosi di fronte alle aggressioni più gravi a operazioni moderate di contenimento, Israele ha capito di dover eliminare completamente le organizzazioni terroriste da Gaza e lo farà.

Gli ostacoli
  Sarà una guerra lunga e difficile. I terroristi hanno trasformato l’intera striscia di Gaza in una fortezza, che ha al suo cuore una rete intricatissima di tunnel sotterranei che ospitano depositi di armi, centri di comando, piattaforme di lancio dei missili, caserme e residenze dei capi, ma anche carceri per gli ostaggi. Tutte le gallerie sono aperte al fuoco di armi istallate nelle pareti, minate, concepite per distruggere le truppe israeliane vi entreranno. Minati sono anche in superficie gli edifici e i rifugi, gli ingressi delle gallerie, ogni possibile punto di passaggio degli israeliani. Come si è visto nelle operazioni precedenti, i terroristi spareranno sui soldati israeliani da scuole, case d’abitazione, moschee, ospedali, sotto a cui tengono anche le loro risorse più preziose, perché le considerano più sicure per loro. Tutta la popolazione vi viene dunque usata come scudi umani da parte dei terroristi, che cercano così di impedire ai soldati di rispondere al fuoco per non colpire degli innocenti; oppure se lo fanno di poterli accusare di uccidere i civili. Questa è la ragione per cui Hamas cerca di impedire agli abitanti delle zone che saranno teatro dello scontro di rifugiarsi altrove: un calcolo cinico ai danni della propria stessa popolazione. La guerra di terra sarà dunque difficilissima, lunga, probabilmente sanguinosa da entrambe le parti: una terribile prova fisica ma anche psicologica per i soldati israeliani.

La guerra psicologica
  Per questa ragione i terroristi cercheranno e già cercano di condurre una guerra psicologica senza scrupoli. Essa si volge innanzitutto nei confronti della loro popolazione, invitata a ignorare gli avvisi di Israele. Poi si sviluppa nei confronti di Israele e degli ebrei, tentando di diffondere notizie false e di amplificare le minacce che pure esistono. Il lancio continuo di razzi e gli assalti ai confini (come oggi hanno tentato di fare i sostenitori del terrorismo dalla Giordania) fanno parte di questa operazione, che si estende nel resto del mondo con minacce e manifestazioni. Ma il lato più importante di questa guerra psicologica riguarda l’opinione pubblica degli altri stati e in particolare di quelli che hanno preso posizione per Israele in Europa e in America. I terroristi cercano di negare l’orribile evidenza dei massacri, testimoniata da mille filmati ed immagini, spesso riprese e diffuse in un primo momento da loro stessi. Si presentano come vittime, sottoposte alla violenza israeliana, non hanno paura di sostenere tesi contraddittorie, come non aver fatto male a donne e bambini e averli anzi spontaneamente rilasciati e accusare Israele di essere lui stesso responsabile con i bombardamenti delle loro istallazioni, della morte di numerosi ostaggi.

La retorica della moderazione
  Lo scopo di queste manovre è semplice. Dato che in prospettiva è chiaro che Israele prevarrà sul terreno, si tratta di paralizzarlo, di togliergli il tempo di condurre fino in fondo l’operazione per ripulire Gaza dal terrorismo. Hamas, l’Iran, la Russia, i loro alleati e difensori nei media e nella politica occidentale si sforzano dunque di costruire un fronte “per la pace” e “per la moderazione” che condanni e blocchi l’autodifesa israeliana in nome dei valori umanitari. Che gli assassini di vecchi e bambini invochino valori umanitari a propria difesa è un paradosso atroce, ma la retorica politica non è nuova a queste commedie. Si tratta di una campagna di guerra psicologica che è già iniziata oggi e certamente si rafforzerà quando inizieranno i combattimenti sul terreno.

(Shalom, 13 ottobre 2023)

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La grande solidarietà per Israele, davanti al Castello Sforzesco di Milano

di Michael Soncin

“Quando sentiamo parlare di miliziani, ecco, quelli non sono miliziani, sono terroristi. Hamas è dichiarato terrorista dall’Europa e dell’America. Io invito quindi i giornalisti a cambiare, a fare attenzione alle parole che usano. Quello che è successo in questi giorni è un vero Pogrom, non c’è altra parola”. A dirlo è stato Emanuele Segre Amar, membro della Comunità Ebraica di Torino, durante il suo ruolo di mediatore durante la giornata del 12 ottobre 2023 in via Beltrami a Milano, durante un presidio di solidarietà per Israele, in seguito al terribile attentato terrorista di matrice islamica perpetrato da Hamas.
  La serata ha visto una folta partecipazione di diversi esponenti dei partiti politici, destra e sinistra, tutti insieme, tutti uniti per Israele. Presenti anche dei giovani iraniani che hanno preso parola esprimendo fortemente il loro sentimento di vicinanza. L’evento è stato organizzato da Il Foglio assieme alla Comunità Ebraica di Milano con Azione – Italia Viva e +Europa.
  A rappresentare Il Foglio, quotidiano che senza tentennamenti è sempre stato dalla parte di Israele, c’era il Vicedirettore Claudio Cerasa. Il Senatore Claudio Borghi ha detto che “non si possono mettere sullo stesso piano dei terroristi, con uno stato democratico che in queste ore sta difendendo il diritto di quella popolazione, di poter convivere all’interno di uno stato che appartiene alla sua storia alla sua cultura”.
  Segre Amar ha poi fatto una puntualizzazione molto importante: “Io vorrei fare una richiesta a tutti i parlamentari che sono qui presenti: l’Inghilterra, la Germania, la Svezia, la Danimarca, la Francia, hanno proibito le manifestazioni dei palestinesi, non hanno permesso che ci siano le loro bandiere in giro. Facciamo la stessa richiesta al nostro governo. Di fronte a quanto è successo, un vero e proprio Pogrom, è il minimo di quanto possiamo fare. Dobbiamo distinguerci dalla Spagna, che invece ha rifiutato la decisione dell’Europa, continuando a mandare soldi ai palestinesi e sappiamo a cosa servono questi soldi”. Soldi che vanno a finanziare il terrorismo.
  Di forte impatto è stato il discorso del Presidente della Comunità Ebraica di Milano Walker Meghnagi: “È difficile parlare questa sera per me. È ora di dire basta, questi sono degli assassini. È una vergogna quello che hanno fatto. Episodi che ci fanno tornare indietro di 80 anni, quando cercavano gli ebrei per trucidarli. È quello che ha fatto Hamas. Noi non possiamo permettere questo. Io accuso l’Occidente, perché andavano fermati prima. Ci sono quasi 1500 morti, oltre 3000 feriti. All’asilo nido sono stati trovati 40 bambini uccisi con un colpo in testa, sgozzati, famiglia intere che si erano asserragliate nelle loro case. Hamas non rappresenta il popolo palestinese, non può rappresentarlo. Purtroppo, hanno trovato il corpo di mia nipote ieri, il corpo martoriato, insieme a lei hanno trovato anche il corpo di un ragazzo che ha studiato presso le nostre scuole. Ma sia chiaro, io parlo per tutti i morti. Chiediamo alle forze politiche di stare alleati con noi. Dobbiamo andare avanti, non finisce questa sera. Erano tutti ragazzi, erano tutti civili, non è una guerra. Erano lì a divertirsi”.
  La Senatrice Mariastella Gelmini di Azione ha calorosamente espresso la sua vicinanza e solidarietà ad Israele. “Abbiamo ancora tutti negli occhi l’immagine dell’orrore, di ciò che non avremo mai voluto vedere e che molto probabilmente rappresenterà l’abisso più profondo dell’orrore di questo secolo. Il 7 ottobre 2023 è stato per Israele un nuovo 11 settembre, è stato un altro Bataclan, con il doppio dei giovani morti, mentre erano insieme intenti a divertirsi. Ed è stato ed è il male assoluto. Ecco perché non c’è spazio per le ambiguità.
  La Senatrice Daniela Santanchè ha rivolto un messaggio al Sindaco di Milano Giuseppe Sala: “Si deve stare dalla parte di Israele, basta ambiguità. A Sala dico che si deve vergognare di mettere la bandiera della pace vicino a quella di Israele. Oggi la bandiera della pace è una sola, quella di Israele. Ma si deve vergognare di più perché oggi ha attaccato un membro della Comunità Ebraica di Milano, dicendo che il dottor Roberto Jarach, Presidente del Memoriale della Shoah, strumentalizza. Chi strumentalizza sono altri”.
  “Vista la terribile e pericolosa ignoranza vorrei leggervi due brani, per chi avesse dei dubbi sul movimento di Hamas”. A dirlo è stato il Senatore del Partico Democratico Emanuele Fiano, che ha menzionato alcune frasi dello statuto del movimento terroristico, sottolineando che “nessun altro movimento palestinese ha uno statuto del genere. È uno statuto antisemita, il cui scopo è l’eliminazione degli ebrei dalla faccia della terra. Coloro che si stupiscono oggi nel sentire quanto dico si stupiscono per ignoranza”.
  Alla fine della serata ha preso la parola il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Milano, Rav Arbib, il quale ha ringraziato tutti i presenti per la vicinanza. “Grazie a tutti. In questo momento abbiamo un gran bisogno di amicizia e solidarietà e stiamo oggi sentendo amicizia e solidarietà. Questo per noi è estremamente importante. Qualcuno prima ha detto che non abbiamo paura. Personalmente ho molto paura. Credo che tutti gli ebrei siano preoccupati e credo che tutta Israele sia molto preoccupata. Questo non significa che non siamo in capaci di reagire, di affrontare questa situazione, però è una situazione angosciante”.

(Bet Magazine Mosaico, 13 ottobre 2023)

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Parashà di Bereshìt: Perché Iddio creò l’uomo?

La prima parashà della Torà inizia con le parole ” All’inizio Iddio creò il cielo e la terra”.  

            R. Daniel Terni (Ancona, 1740-1814, Firenze) in Shem ‘Olàm, nel suo commento a questa parashà, cita i maestri in Pirkè Avòt (Massime dei padri, 5:1) che affermano che “Con dieci comandi (maamaròt) fu creato il mondo”. 
            R. Yoseph Colombo (Livorno, 1897-1975, Milano) in una nota alla sua traduzione dei Pirkè Avòt, scrive: “I dieci comandi a cui allude sono rappresentati dai seguenti passi: Genesi I, 1, 3, 6, 9, 11, 14, 20, 24, 29, e II,18, cioè dai nove vajomer del racconto biblico della creazione, più l’inizio dello stesso passo in cui i Rabbini dividono la prima parola bereshith in due bi rishith (Per me fu il principio). La possibilità cui si accenna che Dio avrebbe avuto di creare il mondo con un solo comando, allude alla creazione ex nihilo. Un importante concetto morale e metafisico è espresso in questo paragrafo. Gli uomini giusti con le loro azioni perfezionano il mondo; i peccatori lo mandano in rovina. Concezione idealistica: il mondo non è tutto fatto ma attende dall’uomo il suo compimento, il suo miglioramento. Ecco il fine elevato della vita umana sulla terra”.
            R. Terni cita lo Zòhar (Vaykrà, 11b) dove i maestri affermano che i dieci comandamenti sono paralleli ai dieci maamaròt con i quali fu creato il mondo. 
            Riguardo il primo dei dieci comandamenti r. Yehudà Halevi (Spagna, 1075-1141, Eretz Israel), autore del Kuzari, chiese a r. Abraham ibn ‘Ezra (Tudela, 1089-1164, Saragozza) il motivo per cui è scritto “Io sono l’Eterno tuo Dio che ti ho tratto fuori dal paese d’Egitto” (commento a Shemòt, 20:2) e non è invece scritto “Che ho fatto il cielo e la terra e ho fatto te”. R. Ibn ‘Ezra rispose che anche coloro che sono meno colti sanno che è stato il Signore che ci ha fatto uscire dall’Egitto, mentre una discussione sulla creazione del mondo è molto più difficile. 
            R. Terni cita anche r. Joseph ben r. Moshe di Przemysl il cui commento alla Haggadà di Pèsachintitolato Ketònet Passìm (stampata a Lublino nel 1685) contiene una derashà sulla festa di Shavu’ot (che inizia con le parole “kedè lehavìn”). In questa derashà vi è un’altra risposta alla domanda di r. Yehuda Halevi. Nel trattato ‘Eruvìn (13b) del Talmud babilonese è citata una discussione tra la scuola di Shammài e la scuola di Hillèl: È meglio che l’uomo sia stato creato, oppure sarebbe stato meglio che non fosse stato creato?  Alla fine conclusero: sarebbe stato meglio che l’uomo non fosse stato creato; ma ora che è stato creato esamini le sue azioni. Pertanto non era opportuno che la Torà scrivesse “Che ti ho creato” e per questo è stato scritto “Che ti ho fatto uscire”.         
            Se così, afferma r. Terni, perché Dio creò l’uomo? E risponde: le parole “Sia luce”, si riferiscono alle azioni degli uomini giusti. Questo significa che Dio creò l’uomo allo scopo che fosse giusto; e se è giusto certamente è meglio che sia creato piuttosto che non lo sia. E così è detto in Kohèlet (Ecclesiaste, 7:29): “Dio ha fatto l’uomo retto, ma gli uomini hanno cercato molti sotterfugi”.
 R. Terni offre anche una spiegazione alla posizione della scuola di Hillèl che afferma che è meglio che l’uomo sia stato creato. Il Santo Benedetto conta i buoni pensieri insieme con le susseguenti buone azioni, mentre non conta i cattivi pensieri insieme alle cattive azioni. E poiché contando anche i buoni pensieri vi sono più mitzvòt positive (248 moltiplicate per due cioè 496) di quelle negative (365),  la scuola di Hillèl sosteneva che vi era un vantaggio nella creazione dell’uomo.  

(Shalom, 13 ottobre 2023)
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Parashà della settimana: Bereshit (In principio)

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Attacco a Israele. P. Di Bitonto: “In coda per donare il sangue, ecco la forza di Israele”

di Daniele Rocchi1

Soldati, poliziotti, preti, donne, ultraortodossi, laici, cristiani, “tutti uniti”, in fila, per donare il sangue “in un momento decisivo che separa la vita dalla morte”. In Israele sotto attacco, a raccontare questa storia di solidarietà e amicizia è padre Benedetto Di Bitonto, sacerdote responsabile della comunità dei cattolici di lingua ebraica a Gerusalemme, che appartiene al Vicariato “San Giacomo per i cattolici di lingua ebraica”, parte integrante del Patriarcato latino di Gerusalemme. Donare il sangue è “un atto di amore cristiano” afferma il sacerdote che spiega: “in questo momento difficile negli ospedali ci sono tanti feriti che hanno bisogno di sangue”.
   “Per questo motivo, lunedì 9 ottobre, siamo andati con padre Tiago, padre Michael ed Eliam nel centro di raccolta sito nella vicina Arena, nella zona di Malha, a pochi minuti di distanza dalla nostra casa di Simeone e Anna. Davanti a noi una fila lunghissima, silenziosa, che attendeva già sulla scalinata che conduce al cortile del Palazzetto dello Sport. Siamo rimasti lì in coda per nove ore e mezza”. Ma padre Benedetto non rimpiange “neanche un minuto di essere stato lì, è stata davvero un’esperienza unica, come non ne avevo vissute nei quasi 13 anni che vivo in Israele. È risaputo che gli israeliani e le file non sono molto amici, ma ieri non solo tutti sono rimasti pazienti e non hanno cercato di spingere, ma anche quando c’è stato l’allarme e siamo dovuti correre a ripararci all’interno, ognuno è ritornato al proprio posto con eccezionale rispetto e gentilezza”.
   Il tempo di attesa è trascorso con i volontari del Magen David Adom (la Croce Rossa israeliana) che offrivano acqua alle persone in attesa mentre, aggiunge padre Benedetto, “nelle prime ore del pomeriggio la gente ha iniziato spontaneamente a offrire cibo: panini, mele, ghiaccioli che tingono lingua e labbra di blu. Iniziative private di persone che hanno deciso di venire a rendere più facile per gli altri il lento cammino verso la donazione. Ad un certo punto è arrivato un musicista con chitarra e impianto di amplificazione e ha iniziato a suonare per noi canti di incoraggiamento”.
   Il tutto condito da “pioggia, vento e un allarme missilistico che ci ha costretti a correre dentro la cucina di una vicina panetteria con il proprietario che con velocità e forza ha spinto tutti quelli che erano fuori ad entrare”. Tante ore trascorse insieme in coda ha trasformato il tempo di attesa in tempo di conoscenza e di condivisione: “nell’arena già cominciavamo a sentirci una famiglia con i nostri compagni, mentre si avvicinava il nostro turno. Alla fine è toccato a noi e siamo entrati: tre preti cattolici, un Hasid Gur, un ultraortodosso della comunità Hasidica, e un ragazzo laico che hanno trascorso insieme il tempo, in attesa di donare il sangue. Ecco come dovrebbe essere sempre la realtà, questo è il potenziale d’Israele” dice convinto padre Benedetto che conclude: “Invitiamo tutti coloro che possono a donare il sangue. Non dimenticheremo questo giorno, ma speriamo di dimenticare l’orrore di questo periodo”.

(SIR, 12 ottobre 2023)

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Gaza, il piagnisteo pacifista e la gigantesca ipocrisia su Hamas

Si nascondono dietro al pacifismo gli antisemiti moderni, ma non sanno rispondere nemmeno a poche domande su Hamas e sulla popolazione di Gaza.

di Maurizia De Groot

Come era ampiamente prevedibile, appena un carro armato israeliano si è avvicinato al confine con la Striscia di Gaza è partito il piagnisteo pacifista.
   Oddio ci sono i civili. Santo cielo l’assedio no. Togliere l’acqua è un crimine di guerra. Ci vogliono corridoi umanitari. Ma la più bella è: la popolazione non c’entra niente con Hamas.
   Ma non è Hamas che governa la Striscia di Gaza? E a qualcuno risulta che vi siano almeno due (due di numero) dissidenti politici? Qualcuno finito in galera perché non era d’accordo con i macellai islamici?
   A qualcuno risulta una protesta della popolazione? Non dico qualcosa come in Iran, ma un gruppetto di persone che protestava contro Hamas? C’è mai stato?
   Come? Hamas non lo permette? Nemmeno gli Ayatollah iraniani lo permettono, eppure in Iran sono 13 mesi che protestano. Vengono uccisi, torturati, i più fortunati vanno in prigione, ma non si arrendono.
   Volete la verità vera? Da Gaza alla Cisgiordania, la stragrande maggioranza dei palestinesi sta con Hamas, condivide le idee di Hamas e quindi è complice di Hamas. Altro che “la popolazione non è Hamas”. La popolazione è Hamas.
   Sono stati sommersi di denaro, miliardi di dollari destinati alle infrastrutture della Striscia di Gaza. Avete visto niente? Nemmeno un misero sistema fognario sono riusciti a costruire. E come farebbero altrimenti a lamentarsi e continuare così ad alimentare l’assurdo afflusso di denaro con il quale “drogare” la popolazione, renderla dipendente dagli aiuti e nel frattempo comprare migliaia di missili o materiale per la loro costruzione?
   No, quando parlate della Striscia di Gaza dovete intenderla come una nazione a se stante, un reame dove tutti sono con il re, con Hamas.
   Gaza è piccola, così piccola che è difficilissimo nascondere qualcosa al vicino di casa. Vediamo in quanti si fanno avanti per segnalare la posizione degli ostaggi. Sono tanti, almeno qualcuno dovrebbe farsi avanti. Vediamo se è vero che la popolazione non è Hamas o se, al contrario, è proprio la popolazione ad essere Hamas.

(Rights Reporter, 12 ottobre 2023)

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Antisionismo come abito buono dell’antisemitismo

di Andrea Cangini

Cos’è che distingue lo Stato di Israele da tutti gli altri? Cosa distingue Israele da, poniamo, la Cina? Facile: la sua natura ebraica. Sarebbe intellettualmente onesto, allora, ammettere una volta per tutte, anche di fronte a noi stessi, che, non in tutti, ma nella maggior parte dei casi l’antisionismo è solo l’abito buono dell’antisemitismo.

Pur se in un culmine di orrore e di violenza senza precedenti, sulla questione arabo-israeliana i discorsi sono sempre gli stessi. Discorsi spesso ipocriti, immancabilmente prevedibili. È l’eterno ritorno del sempre uguale, per dirla con Nietzsche. Può, pertanto, avere una qualche utilità rileggere oggi un estratto del breve discorso che pronunciai nell’aula del Senato il 20 maggio del 2021 in occasione dell’informativa dell’allora ministro degli Esteri Luigi di Maio sulla sicurezza nel Mediterraneo.
   Il popolo curdo rispetto alla Turchia, gli armeni del Nagorno-Karabakh rispetto all’Azerbaigian e, di fatto, alla Turchia, le minoranze uiguri, tibetana e mongola, oltre ai cittadini di Hong Kong, rispetto alla Cina, la minoranza Harratin in Algeria, Marocco e Mauritania, il popolo Sahrawi in Marocco, le popolazioni dell’Abkhazia e dell’Ossezia in Georgia e rispetto alla Russia, i Tamil nello Sri Lanka, la popolazione del Karen in Birmania…
   Potrei andare avanti a lungo, etnia per etnia, lingua per lingua, religione per religione, nell’elencare i popoli che si trovano oggi senza uno Stato, o i popoli che uno Stato lo hanno ma sono oppressi da un regime autoritario. E a questo triste e sterminato elenco potrei, anzi, dovrei aggiungere i cristiani. I cristiani perseguitati in Nigeria, in Congo, in Mozambico, in Camerun, in Burkina Faso, in Corea del Nord, in Somalia, in Pakistan, nelle isole Molucche… Ogni giorno, nel mondo, vengono uccisi dai 13 ai 18 cristiani e vengono uccisi in quanto cristiani.
   Eppure, le élite occidentali non sembrano occuparsene. Non vedo manifestazioni di piazza o raccolte di firme, non leggo vibranti editoriali, non assisto a ripetute e ferme prese di posizione da parte di leader politici, intellettuali, artisti, cantanti, attori, organismi internazionali e associazioni per i diritti umani in difesa dei cristiani perseguitati, o dei curdi, o degli armeni, o degli uiguri e via elencando.
   Reazioni del genere le vedo solo in un caso: il caso del popolo palestinese rispetto allo Stato di Israele, di cui Hamas nega il diritto di esistere. Il mainstream occidentale parteggia per i palestinesi, non c’è dubbio. E allora, se le cose hanno un senso, le possibilità sono due. Due sole: una particolare affinità delle élite occidentali e dei maitre à penser nei confronti del popolo palestinese, o una loro particolare avversità nei confronti dello Stato di Israele.
   Sbaglierò, ma non percepisco reali affinità. Il problema, dunque, è lo Stato di Israele in quanto tale. Ma cos’è che distingue lo Stato di Israele da tutti gli altri? Cosa distingue Israele da, poniamo, la Cina? Facile: la sua natura ebraica. Sarebbe intellettualmente onesto, allora, ammettere una volta per tutte, anche di fronte a noi stessi, che, non in tutti, ma nella maggior parte dei casi l’antisionismo è solo l’abito buono dell’antisemitismo.

(Formiche.net, 12 ottobre 2023)

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Così Sharon annunciò il ritiro dalla Striscia. La prova di speranza

Testo del discorso alla nazione fatto dal premier israeliano, Ariel Sharon, il 15 agosto 2005

Israeliani, il giorno è giunto. Diamo ora inizio alla fase più difficile e dolorosa: l’evacuazione delle nostre comunità dalla Striscia di Gaza e dal nord della Samaria. Per me, si tratta di un momento particolarmente difficile. Il governo israeliano ha deciso di procedere al disimpegno a malincuore, e la Knesset non ha certo approvato tale decisione a cuor leggero. Non ho mai nascosto che, come tanti altri, credevo e speravo che Netzarim e Kfar Darom rimanessero nostri per sempre, ma l’evolversi della realtà in questo paese, in questa regione e nel mondo ha richiesto una rivalutazione e un cambiamento di posizione.
  Gaza non poteva rimanere nostra per sempre: ci abitano oltre un milione di palestinesi, un numero che raddoppia a ogni generazione. Vivono in campi profughi affollati all’inverosimile, immersi nella povertà e nello squallore, in focolai di odio crescente, senza nessuna sorta di speranza all’orizzonte. Questa decisione costituisce un segno di forza, e non di debolezza. Ci siamo sforzati di raggiungere degli accordi con i palestinesi perché i due popoli potessero percorrere insieme il cammino della pace, ma si sono tutti infranti contro un muro fatto di odio e di fanatismo.
  Il piano di disimpegno unilaterale, che annunciai circa due anni fa, rappresenta la risposta israeliana a questa realtà. Il piano rientra nell’interesse di Israele, qualsiasi cosa possa succedere in futuro. Stiamo già riducendo gli scontri quotidiani e le relative vittime da entrambe le parti, e l’IDF (l’esercito israeliano, ndr) tornerà a dispiegarsi lungo le linee difensive dietro il muro di sicurezza. Coloro che continueranno a combattere contro di noi dovranno fare i conti con la risoluta risposta dell’IDF e delle forze di sicurezza.
  Adesso l’onere della prova ricade sui palestinesi: dovranno combattere le organizzazioni terroristiche, smantellarne le strutture e dimostrare di ricercare sinceramente la pace per potersi sedere accanto a noi al tavolo dei negoziati.
  Il mondo aspetta la reazione dei palestinesi, aspetta di vedere se tenderanno la mano in segno di pace o continueranno il fuoco terroristico. A una mano tesa in segno di pace risponderemo con un ramo di ulivo; ma se sceglieranno il fuoco, noi risponderemo con il fuoco, con più forza che mai. 
  Il disimpegno ci permetterà di rivolgere la nostra attenzione alla situazione interna: i nostri programmi nazionali cambieranno; nella nostra politica economica saremo liberi di colmare i divari sociali e di impegnarci in una vera lotta contro la povertà, miglioreremo il sistema scolastico e aumenteremo la sicurezza personale di ogni singolo cittadino del paese. I disaccordi emersi sul piano di disimpegno hanno provocato ferite profonde, inasprito l’odio tra fratelli e portato a dichiarazioni e azioni gravi. Io capisco tali sentimenti, il dolore e il pianto di chi è contrario. Tuttavia, rimaniamo una nazione sola anche quando ci combattiamo e affrontiamo.
  Residenti della Striscia di Gaza: finisce oggi un capitolo glorioso nella storia di Israele, e un capitolo fondamentale in quella delle vostre vite come pionieri, come gente che ha saputo realizzare un sogno e ha sostenuto l’onere della sicurezza e degli insediamenti per tutti noi. Il vostro dolore e le vostre lacrime costituiscono una parte indissolubile della storia del nostro paese. Qualsiasi disaccordo possiamo avere, non vi abbandoneremo, e a seguito dell’evacuazione faremo tutto quanto in nostro potere per ricostruire le vostre vite e le vostre comunità. Desidero dire ai soldati dell’IDF, ai funzionari della Polizia e della Polizia di frontiera israeliane quanto segue: la vostra missione è difficile, perché quelli che siete chiamati ad affrontare non sono nemici, ma fratelli e sorelle. Dovrete dare prova di grande sensibilità e pazienza: sono sicuro che ne sarete capaci. Voglio che sappiate che l’intera nazione vi sostiene ed è orgogliosa di voi.
  Israeliani, la responsabilità del futuro di Israele grava sulle mie spalle. Ho dato inizio al piano perché sono giunto alla conclusione che questo provvedimento sia vitale per Israele. Credetemi, il dolore che provo compiendo questo atto è pari soltanto all’incrollabile convinzione che fosse assolutamente necessario. Stiamo intraprendendo un nuovo cammino che presenta molti rischi, ma offre anche un raggio di speranza a tutti noi. Con l’aiuto di Dio, speriamo che sia un cammino di unità e non di divisione, di rispetto reciproco e non di animosità tra fratelli, di amore incondizionato e non di odio senza ragione. Da parte mia farò tutto il possibile perché sia così.
Ariel Sharon

Il Foglio, 12 ottobre 2023)

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Il 24 agosto 2005, a sgombero di Gaza ormai avvenuto, “Notizie su Israele” pubblicava la seguente riflessione.

La guerra continua

E' fatta! I territori "occupati" dagli insediamenti ebraici sono stati sgomberati. I "coloni" si sono lasciati "trasferire" più velocemente e più pacificamente del previsto. La comunità internazionale ha applaudito, i potenti della terra si sono congratulati con i capi d'Israele per la relativa calma con cui il tutto è avvenuto. «E' un avanzamento verso la pace», hanno detto, mentre in realtà è un arretramento del fronte in una situazione di guerra. Ed è una guerra feroce, quella che conducono gli arabi, simile a quella che Hitler scatenò contro la Russia. Una guerra in cui non è in gioco la terra, ma le persone. E' guerra contro un tipo umano, non contro una nazione. Proprio la calma in cui il "trasferimento" è avvenuto dovrebbe far riflettere e provocare forse qualche problema di coscienza, soprattutto negli spettatori internazionali che hanno guardato e applaudito lo spettacolo. I prepotenti "coloni" erano dunque gente tranquilla, a quel che sembra. Perché se ne sono dovuti andare? Perché il prodotto di anni di lavoro, case, aziende, piantagioni, tutti beni di cui anche altri avrebbero potuto godere, hanno dovuto essere distrutti? Si conosce la risposta: perché su quella terra deve nascere il futuro stato palestinese, il quale, dopo le dovute "prove di buona volontà" da parte dei vicini ebrei, vivrà in pace con l'attuale stato israeliano. E perché mai in uno stato arabo che vivrebbe in pace con lo stato ebraico non potrebbe vivere una piccola minoranza di ebrei, quando nel vicino stato ebraico vivono da anni centinaia di migliaia di arabi? Sembra che per far nascere uno stato palestinese sia assolutamente indispensabile che sulla sua terra non si trovi traccia di ebrei. E la cosa sembra ragionevole, anche a molti ebrei. Ma è questo il significato della parola "pace"? Vivere in pace per gli arabi significa non essere disturbati dalla presenza di ebrei? Si dirà che i "coloni" volevano il grande Israele, e che occupavano illegittimamente un territorio non loro. Potrebbe anche essere, ma quanto alle intenzioni, sarebbe stato sufficiente far sapere loro che erano desideri destinati ad essere vanificati; e quanto alla legittimità della loro presenza su quella terra, era una cosa che poteva e doveva essere verificata soltanto dopo avere costituito uno stato di diritto, e non prima. Su questo avrebbe dovuto esercitare la sorveglianza la comunità internazionale: avrebbe dovuto esigere che prima di tutto su quella terra si costituisca uno stato di diritto, in cui l'autorizzazione a vivere in certe zone sia stabilita dalla legge, e non dagli attentati terroristici. I capi delle nazioni avrebbero dovuto dire: «Nascerà uno stato palestinese soltanto quando gli arabi avranno dato prova di saper accettare sulla loro terra anche la presenza di ebrei, e non solo come turisti, ma anche come cittadini dello stato o come cittadini stranieri che hanno dei possedimenti in una nazione estera, come accade in tutte le parti del mondo.» Avrebbe dovuto essere questa la "prova di buona volontà" da richiedere ai palestinesi. Ma questo non è stato fatto. «Prima di tutto gli ebrei se ne devono andare, poi si potrà parlare», questa è la filosofia corrente. Nessuno s'illuda: la guerra continua.
Marcello Cicchese cfr
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Pochi mesi dopo il suo proclama agli israeliani, la sera del 4 gennaio 2006, nella sua fattoria di Havat Shikmim, nel nord del deserto del Negev, Ariel Sharon fu colpito da un ictus. Entrò in coma e vi rimase fino a che morì, l'11 gennaio 2014. E' un segno? In Israele i fatti politici che coinvolgono l'intera nazione hanno sempre un significato. Che inevitabilmente coinvolge Dio. Che con interesse sta a vedere come li interpretiamo. M.C.

(Notizie su Israele, 12 ottobre 2023)

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Così Hamas ha ingannato gli 007 di Israele. Come l’attacco è rimasto segreto

Quattro funzionari dell’intelligence israeliana hanno rivelato al New York Times tutto quello che è andato storto. Dall’eccessiva fiducia nei sistemi di sorveglianza al confine al depistaggio dei terroristi intercettati

Hamas il 7 ottobre ha colto di sorpresa Israele, scatenando una vera e propria mattanza. Ma come è potuto succedere? Come sono riusciti i terroristi palestinesi, partiti da Gaza, a sfondare così facilmente le difese di Gerusalemme? Come è stato possibile che gli 007 israeliani, ritenuti tra i più efficienti al mondo, non siano riusciti a capire cosa stava per succedere? Nei giorni scorsi, molti analisti hanno cercato di risolvere il mistero, ma nella stragrande maggioranza dei casi hanno offerto come spiegazioni mere speculazioni. Ronen Bergman e Patrick Kingsley del New York Times, invece, sono riusciti a parlare con quattro funzionari dell’intelligence israeliana. È il primo sguardo, dall’interno, sul fallimento dei servizi segreti israeliani. Un fallimento di cui si parlerà per decenni. Ma vediamo cosa non ha funzionato.

Intercettazioni
  Gli 007 israeliani non sono riusciti a monitorare i canali chiave utilizzati da Hamas per preparare l’attacco. Secondo un articolo di qualche giorno fa del Financial Times, i terroristi molto probabilmente hanno comunicato tra loro attraverso quelli che in gergo mafioso vengono definiti pizzini: messaggi in codice scritti su piccoli fogli.

Il depistaggio di Hamas
  E anche quando hanno intercettato le comunicazioni tra gli operativi di Hamas, i servizi israeliani non sono stati in grado di valutare correttamente il livello della minaccia. Tanto che Tzachi Hanegbi, consigliere per la sicurezza nazionale di Israele, sei giorni prima dell’attacco aveva affermato: “Hamas in questo momento è molto moderata, ha capito le implicazioni che ci sarebbero in caso di una nuova sfida”. Anche perché l’organizzazione terroristica ha di fatto depistato gli 007 di Gerusalemme: sapendo di essere intercettati, gli operativi di Hamas nelle loro conversazioni telefoniche hanno dato l’impressione di voler evitare a tutti i costi un’altra guerra con Israele, visto il disastroso esito del conflitto del maggio 2021. Una trappola che ha portato Israele a sottovalutare la minaccia in arrivo da Gaza.

Troppa fiducia nella tecnologia
  Secondo i due reporter del New York Times, all’origine del fallimento di Shin Bet e Mossad, ci sarebbe anche un’eccessiva confidenza negli strumenti di sorveglianza dei confini, che è stato facilmente neutralizzato da Hamas. Due funzionari hanno spiegato che il sistema di controllo si basa quasi interamente su telecamere, sensori e mitragliatrici azionate a distanza. “I comandanti israeliani – spiega il quotidiano Usa - erano diventati eccessivamente fiduciosi riguardo l’inespugnabilità del sistema. Pensavano che la combinazione di sorveglianza remota e armi, barriere e un muro sotterraneo per impedire ad Hamas di scavare tunnel verso Israele rendesse improbabile un’infiltrazione di massa, riducendo la necessità di avere un numero significativo di soldati lungo la linea di confine”. Peccato che il sistema di controllo da remoto potesse essere distrutto… da remoto. Hamas ha infatti sfruttato questo punto debole, utilizzando droni per attaccare le torri di comunicazione che trasmettevano segnali da e verso il sistema di sorveglianza e mettendolo fuori uso nelle prime fasi dell’invasione. Tanto che la maggioranza dei soldati israeliani stava ancora dormendo quando si è trovata a dover fronteggiare l’attacco di Hamas.

La concentrazione dei comandanti
  Un altro errore strategico, da parte di Israele, è stato quello di concentrare tutti i comandanti dell’esercito in un’unica base lungo il confine. Quando questa è stata espugnata da Hamas, i leader militari di Israele sul campo sono stati uccisi, feriti o presi in ostaggio. Di fatto i soldati dell’Idf si sono ritrovati nel caos, senza nessuno in grado di dare ordini precisi per contenere l’attacco.

(Quotidiano Nazionale, 11 ottobre 2023)


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Anni di astuzia, una barriera neutralizzata: come Hamas ha sfondato le difese di Israele

Tsahal è stato ingannato dal gruppo terroristico e ha fatto eccessivo affidamento su sistemi di sorveglianza a distanza e armi facilmente disattivabili da droni e cecchini.

Per molto tempo, Israele ha pensato che la barriera di sicurezza high-tech che lo separa dalla Striscia di Gaza - irta di filo spinato, telecamere e sensori e fortificata da una base di cemento, a prova di tunnel e mitragliatrici telecomandate - fosse inespugnabile.
   Ma dopo il sanguinoso attacco a sorpresa di Hamas, che ha ucciso più di 1.200 persone - la maggior parte delle quali civili - alti militari israeliani hanno parlato a condizione di anonimato per testimoniare l'esistenza di gravi carenze operative e di intelligence che hanno permesso ai terroristi di sfondare facilmente la barriera.
   Inoltre, i soldati israeliani di guardia quel giorno hanno fornito dettagli edificanti su come i terroristi hanno condotto questa complessa operazione per violare il "muro di ferro" di Israele intorno all'enclave in diversi punti.
La recinzione di confine tra Israele e Gaza, aperta in seguito ai bombardamenti dei terroristi palestinesi
Mentre Israele si riprende dal peggior massacro di ebrei in un solo giorno dai tempi dell'Olocausto, rimangono ancora degli interrogativi su come i terroristi siano stati in grado di violare la barriera ben attrezzata e di devastare l'area circostante per ore, fino a quando le forze di sicurezza sono intervenute in forze per fermare l'assalto. I soldati che hanno testimoniato a condizione di anonimato ci hanno assicurato che queste domande saranno poste ed esaminate, ma che per il momento Tsahal si sta dedicando alla guerra.
   Il massiccio attacco, all'alba di sabato scorso, è iniziato con il lancio di missili contro le aree civili israeliane, seguito dal fuoco dei cecchini e dagli esplosivi lanciati dai droni sulle torri di guardia e di comunicazione, e infine dai bulldozer che hanno divelto la doppia barriera alta sei metri in una trentina di punti.
   Più di 1.500 terroristi si sono poi precipitati nei varchi a bordo di furgoni e motociclette, affiancati da uomini in alianti e motoscafi sul lato del mare, per lanciare attacchi con armi da fuoco contro le comunità vicine. Intere famiglie sono state massacrate, rintanate nelle loro case. In alcuni luoghi sono stati trovati corpi atrocemente mutilati. Durante un festival musicale all'aperto, 260 persone sono state uccise con armi da fuoco o granate.
   I terroristi hanno anche rapito circa 150 uomini, donne e bambini, tenendoli in ostaggio a Gaza.
   Secondo le informazioni fornite martedì dal New York Times, che cita le conclusioni iniziali di quattro alti funzionari della sicurezza israeliana, il fallimento operativo era già completo quando l'allarme dato sabato mattina presto dai servizi di intelligence, che riferiva di un improvviso aumento delle comunicazioni di Hamas, non è stato seguito dalle guardie di frontiera, che probabilmente non l'hanno capito o semplicemente non l'hanno letto.
  Ma il fallimento principale è stato l'eccessivo affidamento a dispositivi di protezione e difesa telecomandati non idonei, che hanno permesso ai droni di Hamas di bombardare e disattivare le torri di comunicazione, i centri di sorveglianza e le mitragliatrici telecomandate situate vicino alla barriera, nonché le telecamere di sicurezza, che sono state disattivate dal fuoco dei cecchini. Tutto questo ha lasciato immediatamente la barriera completamente priva di protezione.
  C'erano pochissimi soldati vicino alla barriera, in parte perché le forze si trovavano in Cisgiordania e in parte per la fiducia riposta nei sistemi di difesa automatizzati, che hanno portato le autorità a ritenere che non fosse più necessario presidiare fisicamente la barriera.
  Secondo la stessa fonte, un gran numero di comandanti era raggruppato in un'unica base militare vicino alla barriera. Quando questa base è stata presa d'assalto dai terroristi e i suoi comandanti sono stati uccisi, feriti o rapiti insieme a molti soldati, alcuni dei quali sono stati falciati nel sonno, non è stato possibile trasmettere immediatamente le informazioni al resto dell'esercito.
  Sono passate molte ore prima che l'esercito si rendesse conto di ciò che era successo nelle città di confine e inviasse forze sufficienti per combattere i terroristi.
  Ai fallimenti operativi si è aggiunto un ancor più grave fallimento dell'intelligence, a partire dal sotterfugio perpetrato per diversi anni da Hamas, che ha convinto Israele di non essere alla ricerca di un conflitto e che, al contrario, era disposto a mantenere la calma, pur mantenendo discretamente i contatti con Israele.
Il ministro della Difesa Benny Gantz fotografato accanto alla barriera appena completata sopra e sotto il confine con la Striscia di Gaza
Secondo il NYT, ciò ha portato a una mancanza di sorveglianza di alcuni canali di comunicazione chiave di Hamas, basata sulla fiducia iniziale riposta nei leader di Hamas che hanno ripetuto più e più volte - su canali che sapevano essere ascoltati dagli israeliani - di non volere un conflitto aperto. Fino al giorno dell'attacco, l'establishment della sicurezza israeliana era convinto che Hamas non avrebbe corso alcun rischio, quindi l'invasione è stata una sorpresa totale per le guardie di frontiera.
"Una trentina" di palestinesi armati hanno rapidamente preso il controllo della base militare, che hanno tenuto per sette ore, ha analizzato la soldatessa, identificata con l'iniziale ebraica del suo nome "Yud", per il Dodicesimo Canale.
  I razzi sono piovuti per un'ora e i soldati hanno cercato di nascondersi mentre i terroristi invadevano la base.
  "Sono corso a piedi nudi verso il rifugio antiaereo. Dopo un'ora abbiamo sentito delle voci che parlavano in arabo. A quel punto hanno iniziato a sparare dall'ingresso".
  I terroristi hanno lanciato granate contro i soldati riuniti", racconta Yud, che è riuscito a nascondersi in una piccola stanza con altri compagni.
  Fino a quando un'unità d'élite dell'esercito israeliano non ha preso il controllo della base, "per ore la base era diventata un campo di Hamas".
   Yud racconta che l'esercito si era preparato a vari scenari, come l'infiltrazione di una manciata di uomini armati, una ventina al massimo, ma "non avrei mai immaginato che un giorno avrebbero preso d'assalto una base militare".

• GLI ATTACCHI DEI CECCHINI
Palestinesi prendono il controllo di un carro armato israeliano dopo aver attraversato la barriera di confine con Israele
All'inizio dell'attacco, i cecchini hanno "sparato contro i posti di osservazione" sparsi lungo la barriera di 65 chilometri, ha dichiarato all'AFP un portavoce dell'esercito israeliano.
Un'altra soldatessa, di stanza in un posto di osservazione nella base di Kissufim, ha riferito che i palestinesi armati "hanno sparato contro... le telecamere di osservazione, privandoci delle immagini".
La soldatessa, identificata con il suo nome di battesimo, "Lamed", ha raccontato a Twelfth Channel che è stato allora che sono cominciate ad arrivare notizie di un'incursione di orde di terroristi, "qualcosa di folle".
  Mentre la sua base militare veniva attaccata, "ci è stato detto che la nostra unica possibilità di sopravvivenza era quella di... correre al riparo".

• UN CLAMOROSO FALLIMENTO
Terroristi palestinesi di ritorno nella Striscia di Gaza con il corpo di quello che sembra essere un soldato israeliano,
L’attacco che ne è seguito è stato il peggiore nei 75 anni di storia di Israele e ha portato alla rappresaglia su Gaza e a una guerra che potrebbe durare a lungo.
Hamas ha continuato a far piovere razzi sul sud e sul centro di Israele, uccidendo e ferendo più persone che mai.
l Ministero della Sanità di Gaza, controllato da Hamas, ha dichiarato che più di 950 persone sono state uccise nell'enclave palestinese durante le rappresaglie israeliane.
Israele sostiene di colpire le infrastrutture terroristiche e, più in generale, tutte le aree in cui Hamas opera o si nasconde.
  L'esercito israeliano ha anche affermato di aver ucciso circa 1.500 terroristi sul suo territorio dall'inizio dell'infiltrazione.
  Come altri funzionari israeliani, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha promesso che Hamas non sarà mai più in grado di attaccare Israele, aggiungendo che l'annientamento del gruppo terroristico è essenziale per il futuro del Paese. Come il presidente statunitense Joe Biden, Netanyahu ha paragonato le atrocità di sabato contro i civili israeliani alle azioni dello Stato Islamico.
  "Questo è un enorme fallimento del sistema di intelligence e dell'apparato militare del sud", ha dichiarato il generale in pensione Yaakov Amidror, ex consigliere per la sicurezza nazionale.
  I sopravvissuti agli attacchi alle comunità vicine alla barriera di sicurezza con Gaza sono molto scioccati dal fallimento degli accordi di sicurezza.
   Inbal Reich Alon, 58 anni, residente nel kibbutz Beeri, racconta che anni fa, "dopo l'installazione della recinzione, ci sentivamo al sicuro".
   Ma, dice, "era un'illusione".

(Times of Israël, 11 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Hamas uccide 40 bambini israeliani nel kibbutz di Kfar Aza, alcuni decapitati

di David Spagnoletto

Hamas ha deciso di identificarsi con il Male Assoluto, che ha preso forma e sostanza nel kibbutz di Kfar Aza, a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza: 40 bambini uccisi a sangue freddo, alcuni dei quali, anche neonati, sono stati decapitati. Negare che la guerra sia il motore del mondo sarebbe un inutile esercizio di retorica e falso perbenismo. E soprattutto sarebbe inutile.
 Ma se l’uccisione fra eserciti nemici rientra nel campo dell’abitudine e della tollerabilità, lo stesso non può dirsi di quella indiscriminata di civili.
 Non possiamo e non dobbiamo farlo, perché perderemmo quel briciolo di umanità che ci è rimasta. Superare questo limite significherebbe non avere alcuna possibilità di ritorno o ritrattazione.
 Come ha sottolineato la premier Giorgia Meloni, andare casa per casa e deportare intere famiglie è un atto di puro odio. La rivendicazione territoriale è una giustificazione che ha solo note stonate, nonostante nei talkshow e approfondimenti sulle tv italiane si voglia far credere il contrario.
 I particolari del massacro del kibbutz di Kfar Aza erano circolati nelle chat di WhatsApp ieri mattina. Personalmente ero stato informato da un caro amico che vive a Tel Aviv. Mi diceva che aveva appena visto un video realizzato da un miliziano di Hamas mentre uccide un cane che era a spasso con una bambina. Alle parole “ti lascio immaginare cosa abbia fatto poi alla bambina”, ho chiesto di non proseguire il racconto.
 In questi giorni concitati e pieni di angoscia, avevamo deciso di soffermarci sui motivi per cui in Italia non si parlasse di questa atrocità nell’atrocità.
 Il tempo di andare a prendere mia figlia di tre anni all’asilo e tutto era cambiato. Le edizioni online dei nostri quotidiani raccontavano la barbara uccisione di 40 bambini da parte di Hamas nell’attacco nel kibbutz di Kfar Aza, alcuni dei quali decapitati, anche neonati.
 È sconvolgente dover scrivere che la vita di bambini e neonati non debba rientrare nei discorsi di rivendicazione politica, territoriale e religiosa.
 È sconvolgente dover scrivere e parlare della vita di un bambino, come fosse un capo di Stato, un leader politico o un generale.
 È sconvolgente che dopo le decapitazioni dei bambini e neonati, nonché l’uccisione di cani, ci siano ancora tante persone che appoggino l’azione di Hamas.
 La spiegazione possibile è solo una: volete la distruzione di Israele e di tutto il popolo ebraico.

(Progetto Dreyfus, 11 ottobre 2023)

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Sono 260 i giovani massacrati da Hamas al festival Nature Party e i familiari dei rapiti 

di Pietro Baragiola

Musica e danze hanno lasciato il posto a spari e tragedia la mattina di sabato 7 ottobre al Nature Party, il festival di musica elettronica nel deserto del Negev, vicino al kibbutz Re’im, non lontano dalla Striscia di Gaza.
   Il rave, iniziato la sera di venerdì e durato tutta la notte, era stato organizzato per celebrare la festività di Sukkot, una delle ricorrenze religiose più importanti nel mondo ebraico, e invece si è trasformato in un massacro: al sorgere dell’alba diversi terroristi di Hamas hanno usato parapendii a motore per infiltrarsi in Israele e massacrare a colpi di arma da fuoco i civili presenti.
   Gli organi di sicurezza hanno confermato che, durante questo attacco, hanno perso la vita almeno 260 persone mentre decine sono state catturate ed esposte in maniera crudele dai terroristi nei diversi video condivisi online.
   “Un bilancio di vittime che è destinato a crescere man mano che proseguono le ricerche” ha affermato un portavoce della organizzazione rabbinica ZAKA, responsabile del recupero dei cadaveri nelle aree colpite da attentati e altre calamità.
   Delle migliaia di partecipanti al festival sono ancora numerosi i dispersi e questo ha portato molti genitori e familiari a rivolgere un appello disperato agli organi di governo per avere delle risposte sul destino dei loro cari.

• LA STRAGE DI HAMAS
  Il rave di Sukkot o “Nature Party” quest’anno ha accolto oltre 3000 partecipanti tra i 20 e i 40 anni nel deserto. Il festival è iniziato venerdì 6 ottobre verso le 23, dando il via alle danze di migliaia di giovani strepitanti di celebrare la festa delle capanne, ballando tra i diversi gazebo montati apposta per l’evento.
   La gioia della festività è stata però interrotta bruscamente alle 6:30 di mattina, quando i partecipanti hanno sentito i boati di migliaia di razzi partiti da Gaza che sfrecciavano nel cielo sopra di loro (il festival si trovava a poco più di 3 chilometri dal confine). È scoppiato così il caos generale e, nonostante i tentativi dello speaker dell’evento di invitare i partecipanti a non andare in preda al panico, i giovani si sono lanciati di corsa verso le loro auto per scappare da quell’inferno.
   Il volo dei razzi è stato subito accompagnato dall’arrivo di decine di miliziani di Hamas che, senza la minima esitazione, hanno aperto il fuoco sulla folla in fuga. Molti giovani, non trovando un mezzo per scappare, sono fuggiti nel deserto dove diversi di loro sono stati uccisi o presi in ostaggio dai jihadisti.
   Il Nature Party è stato solo uno dei numerosi luoghi colpiti sabato mattina da quello che è stato considerato l’assalto più coordinato e letale della storia di Israele da parte dei terroristi di Hamas nelle comunità di confine: almeno 1000 persone sono state uccise in 22 località, tra cui comunità agricole e una città a 24 chilometri dalla frontiera.
   Alcuni dei civili dispersi sono stati ritrovati e soccorsi solo 30 ore dopo l’assalto e le loro testimonianze riportano scene di una brutalità inaudita.

• LE TESTIMONIANZE DEI SOPRAVVISSUTI
  “Non sapevamo dove nasconderci perché eravamo totalmente esposti, in mezzo al deserto” così racconta la sopravvissuta Tal Gibly all’emittente televisiva americana CNN. Un video girato dalla ragazza fa sentire i boati delle esplosioni che si avvicinano sempre di più all’area del festival mentre, ai primi spari, diverse persone iniziano a cadere a terra (non è chiaro se siano state colpite o se invece si siano buttate a terra nel tentativo di ripararsi dai proiettili). Gibly ha raccontato che, fortunatamente, è riuscita a salire su un’auto di passaggio ma le strade erano intasate perché, a meno di due miglia di distanza, i miliziani di Gaza avevano iniziato ad attaccare anche i carrarmati e i soldati israeliani.
   “È stato davvero terrificante. Non sapevamo dove andare per non incontrare quegli esseri spietati” ha spiegato Gibly, ancora terrorizzata dalla vicenda. “Ho molti amici che si sono persi nella foresta per diverse ore e sono stati colpiti come fossero bersagli al poligono”.
   In queste ultime ore i siti e i giornali di tutto il mondo stanno riportando le testimonianze agghiaccianti di chi è riuscito per miracolo a sfuggire al massacro del Nature Party.
   Molti giovani si sono nascosti nei frutteti, tra gli alberi o nei cespugli e c’è persino chi ha finto di essere morto. Esther Borochov ha raccontato alla rivista britannica Reuters che cinque uomini armati hanno iniziato a sparare contro la sua auto, costringendola a fuggire a piedi finché un altro automobilista non l’ha presa a bordo. Purtroppo, subito dopo, l’uomo è stato colpito a bruciapelo e il veicolo è finito in una buca. Così Esther e una sua amica si sono finte morte per due ore accanto al corpo del conducente per evitare di essere scoperte dai miliziani fino a quando non sono state portate in salvo dall’esercito israeliano.
   Anche Gili Yoskovich ha atteso immobile l’arrivo dei soccorsi, nascosta per tre ore in un frutteto mentre i miliziani di Hamas proseguivano con il loro massacro. “Passeggiavano da albero ad albero e sparavano. Vedevo gente morire ovunque ma sono rimasta in silenzio, non ho pianto e non mi sono mossa per tre ore intere”, ha raccontato Yoskovich alla rete britannica BBC.
   Secondo un rapporto del sito israeliano Ynet, i feriti sono stati evacuati in diversi ospedali del sud come il Barzilai Medical Center di Ashkelon. Sono ancora molti però i giovani che risultano dispersi e i video sui social mostrano la cattura di diversi di loro da parte dei miliziani di Hamas.

• L’APPELLO DELLE FAMIGLIE
  Un video diventato virale mostra una donna israeliana, Noa Argamani, e il suo fidanzato, Avinatan Or, mentre vengono rapiti. Nel filmato si vede Argamani che viene presa dai miliziani mentre cerca di rimanere aggrappata alla moto del compagno tra urla di disperazione e grida d’aiuto.
   Moshe Or, il fratello di Avinatan, ha rilasciato un’intervista alla CNN dopo aver visto il video: “Mio fratello è un ragazzo alto due metri, si allena quattro volte a settimana ed è molto forte ma neanche lui è riuscito a fermare quei criminali. Lo hanno trattenuto in quattro o cinque e hanno portato lui e Noa oltre la Striscia”.
   Sconvolgenti sono anche le immagini del rapimento di Shani Louk, la 30enne tatuatrice tedesca-israeliana, il cui corpo privo di sensi è stato trasportato dai terroristi come trofeo su un pick-up. Il video che la ritrae è di una violenza inaudita e mostra Shani seminuda, con le gambe spezzate mentre uno dei miliziani le sputa sulla testa e un altro le tiene i capelli urlando “Allahu Akbar (Dio è grande)”, in segno di vittoria.
   Diversi sostenitori di Hamas hanno falsamente affermato che il corpo martoriato appartiene ad un soldato israeliano ma quando la madre di Shani, Ricarda Louk, ha visto il filmato ha riconosciuto subito la figlia per via del tatuaggio su una delle sue gambe. Servendosi dei social, Ricarda, che vive a Israele, ha condiviso un video-appello nel quale mostra la foto della ragazza: “Mia figlia, Shani Nicole, cittadina tedesca è stata rapita da Hamas mentre partecipava con un gruppo di turisti a una festa nel sud di Israele. Mi è stato inviato un video dove ho potuto riconoscere mia figlia in un’automobile, priva di coscienza, mentre attraversava le strade di Gaza insieme a un gruppo di palestinesi. Vi chiedo di inviarci qualsiasi aiuto o notizia. Vi ringrazio molto”. Al momento non si hanno ancora notizie sulle condizioni di Shani e nessuno sa dove si trovi.
   Tra le vittime che si teme siano state rapite o uccise molte provengono da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Thailandia, Messico, Nepal e da altri paesi. Anche i genitori del 23enne americano-israeliano Hersh Goldberg-Polin stanno cercando disperatamente il figlio che, come dichiarato durante un’intervista al Jerusalem Post, è scomparso dopo aver mandato loro due brevi messaggi alle 8:11 di sabato mattina: “Vi amo” e “Mi dispiace”.
   I familiari delle persone scomparse hanno dichiarato di sentirsi abbandonati dalle autorità e molti non sono stati contattati dai funzionari neanche una volta. “È una situazione assurda. Chiediamo a questo governo di darci delle risposte anche se sappiamo che non saranno tutte risposte felici” ha dichiarato Uri David, le cui due figlie sono scomparse nell’attacco di sabato.
   Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno risposto a queste accusa dichiarando di aver creato una situation room per concentrarsi sulla raccolta di informazioni accurate riguardanti gli ostaggi israeliani che, secondo le dichiarazioni di Hamas e della Jihad islamica, sono più di 130.
   Il governo israeliano inoltre si è mobilitato scegliendo il generale di brigata Gal Hirsch come referente per risolvere la situazione dei cittadini scomparsi. Nelle ultime ore, l’IDF ha dichiarato che un’unità di comando navale d’élite ha catturato Muhammad Abu Ghali, il vice comandante della forza navale di Hamas a Gaza, che potrebbe essere usato come merce di scambio nelle trattative per il rilascio dei prigionieri. Al momento però sia Hamas che Israele negano la presenza di trattative di questo tipo.

(Bet Magazine Mosaico, 11 ottobre 2023)

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Una testimone racconta: “Gerusalemme è spaventata, ma c’è tanta solidarietà tra gli abitanti”

Gerusalemme, non abituata a essere colpita dagli attacchi palestinesi è spaventata, ma i suoi abitanti hanno annullato tutte le differenze sociali ed economiche e hanno messo in piedi una rete di solidarietà per aiutare chi ha bisogno di tutto, ma anche per consegnare il cibo ai negozi rimasti vuoti dopo che la manodopera araba non ha più potuto lavorare in seguito agli attacchi di Hamas di sabato scorso. A raccontarlo a Nova è Stefania, nome di fantasia, che ha chiesto di mantenere l’anonimato. “Vivo a Gerusalemme e ho tre figli, due sono in Israele e uno a Milano. Io sono venuta qui a trovarlo”. Dell’attacco Stefania è venuta a saperlo da “Red Alert”, una app per smartphone che segnala in tempo reale il lancio di missili verso il territorio israeliano con un allarme sonoro per ciascun razzo lanciato. “Sabato mattina mi sono svegliata con una pioggia di allarmi tale che ho pensato si fosse incantata l’applicazione, quindi ho preso il telefono, ho guardato le notizie e da quel momento è cambiato tutto: sono a casa con due cellulari, il computer, le notizie in Israele, le notizie da qua, perché è vero che qui sono a casa, ma la usa mio figlio non la sento più casa mia, vorrei tornare ad aiutare”.
  Il terribile “salto di qualità” da parte dei terroristi di Hamas è rappresentato non solo dalle incursioni nei Kibbutz, dalla quantità di persone sequestrate, dagli efferati omicidi di donne e bambini e dalla quantità di missili, ma anche da un obiettivo come Gerusalemme, in precedenza quasi sempre risparmiata dal lancio dei razzi palestinesi. Stefania racconta invece di avere “un’amica a Gerusalemme e uno dei missili che l’altro ieri è caduto le ha sventrato la casa. Di solito Gerusalemme non veniva mai colpita nelle occasioni precedenti e infatti tutti mi dicevano ‘tu sei a Gerusalemme, sei tranquilla perché lì non succede niente perché ci sono tanti arabi e moschee’. Qui però siamo su un livello che non si è mai visto, senza precedenti, dove, secondo me, non c’è il pensiero da parte loro su ‘colpire i miei o i tuoi’, colpiscono e basta”.
  Gerusalemme è particolarmente “spaventata i negozi sono chiusi, così come le scuole e le persone con cui parlo mi dicono che ci si affaccia alla finestra e c’è un silenzio di morte, si vedono solo ragazzi che escono da casa in divisa, riservisti che sono richiamati, non vedono altro”. I figli di Stefania non sono stati richiamati tra i riservisti per questioni di età, anche se sono giovani “ma per loro sono troppo vecchi”, però “tutti i miei amici hanno figli che sono stati richiamati e, comunque, anche quelli non richiamati, come i miei figli, hanno creato dei gruppi di sostegno per le popolazioni colpite. Gli sfollati hanno lasciato le loro case come si trovavano, molti in pigiama senza documenti, senza cibo, senza soldi e cambi di vestiti, per cui hanno bisogno di tutto, di cibo come di qualcuno che gli rifaccia la carta d’identità. Difatti mia figlia mi ha detto ieri che il ministero dell’interno ha fatto delle unità mobili che vanno da queste persone per rifare la carta d’identità, almeno per avere un documento”. Una rete di solidarietà che non parte solo dalle istituzioni, appunto, ma soprattutto dai cittadini: “Si è creata una rete di solidarietà pazzesca. Ogni volta che c’è un conflitto o una crisi in Israele c’è una grande solidarietà, non ci sono più destra e sinistra, poveri o ricchi religiosi o atei, si fa un momento ‘arimo’ che unisce tutti”.
  Passata l’emergenza tutti tornano a dividersi come prima. Divisioni che, però, non impediscono la convivenza tra ebrei e arabi. “Malgrado quello che qualcuno dice – sottolinea Stefania – la convivenza c’è, il problema è che quando succedono cose così chiudono i valichi, quindi i supermercati sono vuoti, ma non sono vuoti perché non c’è da mangiare, bisogna anche interpretare le cose. È vero gli scaffali ora sono vuoti, ma molta manodopera tipo magazzinieri e camionisti che lavorano per i supermercati sono arabi che, in questo momento non lavorano, non possono venire nelle città, quindi negozi e supermercati non hanno magazzinieri e non hanno autisti”. E infatti nella rete di solidarietà “ho sentito che ci sono anche ingegneri, avvocati e liberi professionisti che si sono tirati su le maniche e sono andati a fare i magazzinieri al supermercato piuttosto che gli autisti per portare il cibo”, conclude Stefania.

(Nova News, 11 ottobre 2023)

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“Nella mia enclave al confine col Libano. Tra poco la guerra arriverà anche qui”

Intervista a Luciano Assin. L’italiano vive nel kibbutz Sasa: “Hezbollah sta testando la pazienza di Israele”

di Fausto Biloslavo

Luciano Assin, milanese di nascita, 66 anni, vive nel kibbutz di Sasa, in Alta Galilea, a un passo dal confine con il Libano. I conflitti dal 1982 li ha visti tutti e risponde, via telefono al Giornale, con calma olimpica.

- Come vive la nuova guerra?
  «Questa è peggiore delle altre. Prima di tutto per le perdite. Se parliamo di 11 settembre israeliano abbiamo avuto più di mille vittime in un Paese di 10 milioni di abitanti. In proporzione sarebbero 10-12mila morti in un solo giorno in Italia».

- In uno dei kibbutz attaccati da Gaza hanno decapitato dei neonati. Immaginava tanto orrore?
  «Basta guardare i canali Telegram palestinesi per rendersi conto di questa realtà orrenda. È inconcepibile per il mondo occidentale, ma purtroppo fa parte del Medio Oriente. Non è molto diverso dalle nefandezze dell’Isis».

- Cosa si aspetta?
  «Questa è una manovra sicuramente coordinata. Teheran è il regista e gli attori sono Hamas ed Hezbollah. Vuol dire che esiste una seria possibilità che si apra un secondo fronte al nord, al confine con il Libano».

- Teme anche altri fronti?
  «In Siria vicino al confine con il Golan esiste una forza paramilitare addestrata da Hezbollah con l’arsenale che arriva direttamente dall’Iran».

- Negli ultimi due giorni ci sono stati lanci di razzi e infiltrazioni dal Libano. Peggiorerà?
  «Sono le prove generali. Serve a tastare la reazione israeliana. Scaramucce da cui Hezbollah prende le distanze dicendo che sono palestinesi, ma li fanno passare».

- I caschi blu non dovrebbero fare da cuscinetto?
  «Nel settore ovest, da dove sono arrivati i terroristi intercettati, ci sono proprio i caschi blu italiani. È una presenza di facciata. Anche se passasse davanti al naso una colonna piena di armi per Hezbollah non sarebbero in grado di fermarla e requisire tutto. Questa volta Hezbollah punterà a un’invasione. Da tempo hanno scavato gallerie per penetrare con forze di terra come dalla Striscia di Gaza. Israele, come deterrente, ha già chiarito che reagirà attaccando tutto il Libano».

- Come vi preparate al peggio?
  «Superata una determinata soglia di allarme scatta l’evacuazione di donne, bambini e anziani. In linea d’aria siamo ad un chilometro e mezzo dal confine. Abbiamo una forza di pronto intervento, ma ci si difende in attesa che arrivino i rinforzi dell’esercito».

- Con Gaza cosa bisogna fare?
  «L’opinione pubblica è convinta che bisogna arrivare al ko. Ovvero alla conquista completa della striscia di Gaza tagliando la testa del vertice di Hamas».

- E gli ostaggi israeliani?
  «Sono l’assicurazione sulla vita di Hamas. Forse ci sarà un accordo simbolico per uno scambio di donne e bambini con le recluse palestinesi. Ma non esiste alternativa all’operazione via terra».

(il Giornale, 11 ottobre 2023)

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Che cosa cambia nella strategia del Medio Oriente con l’aggressione di Hezbollah

Intervista a Danny Orbach

di Ugo Volli

Per avere uno sguardo approfondito e competente sulla situazione strategica di Israele Shalom ha sentito il prof. Danny Orbach, storico militare dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Orbach si è laureato in Storia presso l'Università di Tel Aviv e ha conseguito il Ph.D. in Storia a Harvard. Ha pubblicato lavori sulla storia tedesca, giapponese, cinese, israeliana e mediorientale, concentrandosi particolarmente sui temi legati alla resistenza militare, alla disobbedienza civile, alle ribellioni e agli omicidi politici. Presso Bollati Boringhieri è uscito Uccidere Hitler. La storia dei complotti tedeschi contro il Führer (2016).

Professor Orbach, come vede la situazione militare di Israele in questo momento?
  Bisogna partire dal fatto che il panorama del Medio Oriente è molto cambiato dopo il tentato genocidio compiuto nei giorni scorsi da Hamas. Bisogna chiamarlo proprio così, genocidio, perché questa è la sua natura. Ora Israele non può più pensare di convivere con Hamas, come si illudeva di poter fare. Non possiamo più avere a fianco un regime genocida, dobbiamo eliminarlo. Oggi il nostro compito è questo e Israele sta lavorando per questo scopo. Ma dobbiamo tener presente che non c’è solo la striscia di Gaza. Abbiamo a nord Hezbollah, che è meglio armato e organizzato di Hamas. Dobbiamo cercare di evitare che si apra un secondo fronte dal Libano e che altri israeliani siano massacrati. Sarebbe un altro shock intollerabile. E dobbiamo stare attenti alla Siria, alle organizzazioni terroristiche nei territori dell’Autorità Palestinese, alla possibilità di sommosse da parte degli estremisti fra gli Arabi Israeliani. Per fortuna per il momento non ci sono segnali di attività di questi possibili fronti. Si sono viste al contrario manifestazione di simpatia degli arabi israeliani nei confronti delle nostre forze armate, forse anche perché fra le vittime di Hamas vi sono diversi arabi. Il singolo fattore più importante però è stata la scelta del Presidente Biden di darci concretamente appoggio con una portaerei nelle nostre acque, che rende concreto il suo ammonimento a Siria e Hezbollah perché non si uniscano all’aggressione. Io credo che nei prossimi anni ci dovranno essere in Israele strade e piazze dedicate a Biden.

Torniamo allo scontro con Hamas. Che cosa farà ora Israele? Deve entrare a Gaza?
  Non possiamo convivere con Hamas, non possiamo permettere che l’organizzazione continui a controllare Gaza. Per ottenere questo scopo i bombardamenti non bastano. Dobbiamo entrare a Gaza e tenerla per un po’. Naturalmente chi ha programmato l’aggressione sapeva benissimo che avremmo dovuto reagire in questo modo e ha certamente preparato delle sorprese contro i nostri soldati. Non è mio compito dire come, ma io credo che noi dobbiamo entrare a Gaza evitando questa trappola, dobbiamo essere capaci di sorprenderli a nostra volta. Per ora è importantissimo l’assedio totale di Gaza che è stato proclamato. Non deve entrare a Gaza elettricità, carburante, cibo, acqua. Questo ci consente di fare su Hamas maggior pressione di quella che infligge a noi. Ci saranno forti pressioni per allentare il blocco, si invocheranno ragioni umanitarie. Hamas si riserva il diritto di ammazzare tutti i civili che trova, ma poi si nasconde dietro ai suoi civili e avanza ragioni umanitarie. Voglio dire ai lettori di Shalom, possibilmente a tutti gli italiani e agli europei che bisogna resistere a questi tentativi di sfruttare le ragioni umanitarie, bisogna tenere la pressione su Hamas. Questo è oggi il compito degli amici di Israele e di chi ha capito che cos’è accaduto.

Questo quadro mostra un rovesciamento della strategia israeliana nei confronti di Hamas?
  Sì. Per molto tempo noi abbiamo pensato che la presenza di Hamas a Gaza fosse un vantaggio, perché divideva il fronte palestinese e lo indeboliva. Ci siamo illusi che Hamas potesse essere un pericolo minore, con cui si poteva trattare e fare compromessi. Oggi questa strategia è crollata. Non possiamo più accettare l’esistenza di Hamas e distruggeremo l’organizzazione. Ciò comporta in prospettiva una riunificazione dei palestinesi, il che da un lato è una buona notizia per loro, dall’altro una cattiva, perché anche chi è moderato come me non potrà più accettare che i palestinesi abbiano autogoverno senza controllo e responsabilità. Dovremo impegnarci a rifondare una leadership accettabile per tutta la popolazione palestinese. Per farlo non dobbiamo farci prendere dal feticismo delle elezioni. Abbiamo visto che Hamas ha preso potere proprio dalle sole elezioni tenute dall’Autorità Palestinese, una ventina d’anni fa. Bisogna che nasca una leadership capace di garantire innanzitutto legge e ordine, la fine del terrorismo, una crescita economica e che vada verso la democrazia prendendo il tempo che ci vuole.

Ma l’Iran accetterà questi sviluppi? Non ha previsto di intervenire o almeno di coinvolgere Hezbollah?
  Non lo sappiamo. Secondo me il loro piano è costruito in modo da adattarsi alle circostanze. Se vedranno una possibilità di successo, se saremo deboli, interverranno. Se manterremo la nostra deterrenza resteranno fermi. Per questa ragione l’intervento americano è importantissimo.

Alcuni vedono dietro l’Iran la mano della Russia e parlano di una possibile guerra mondiale.
  Le guerre mondiali non nascono come tali. Quando nel 1939 la Germania nazista invase la Polonia e fu contrastata da Francia e Inghilterra quella era una guerra locale, europea. Nel 1941 il conflitto europeo si allargò a Est all’Unione Sovietica e si fuse con quello fra Usa e Giappone. Allora diventò mondiale. Oggi è lo stesso, abbiamo una guerra per ora fredda fra Cina e Taiwan, una calda con l’invasione russa dell’Ucraina e una a lungo controllata che è esplosa in questi giorni in Medio Oriente. Il rischio che si uniscano in una grande fiammata c’è. E l’elemento che può unificarle è l’Iran.

(Shalom, 11 ottobre 2023)

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Israele compatto: governo di unità nazionale. Il generale Hirsch alla ricerca di ostaggi

di Fiamma Nirenstein

Stamani alle 11,30 a Tel Aviv, al ministero della Difesa, verrà annunciato che Israele si rimbocca le maniche, forma un governo di coalizione con un gabinetto di guerra cui tutti partiti, salvo sorprese, parteciperanno. Netanyahu l'ha spiegato ieri sera con un drammatico comunicato denunciando non solo l'eccezionale gravità di quello che Israele ha attraversato, ma disegnando un vasto scenario di guerra in cui l'organizzazione terrorista deve essere annullata, e «ricorderà quel che ha fatto per molti anni». Ma ha accennato anche al riscaldamento del fronte con gli Hezbollah, e anche al fatto che gli Stati Uniti agiscono in queste ore con solidarietà armata verso Israele.
   È il segnale che questa che si sta combattendo è una battaglia per la sopravvivenza: non solo di Israele, ma di tutto il mondo civile come lo conosciamo. Israele affronta da 75 ani il suo difficile destino per garantire che nessuno possa mai più sognarsi di fare degli ebrei un popolo minacciato di morte; rappresenta la vittoria del mondo civile sul nazismo dopo la Shoah. Israele vive, per far sì che il popolo ebraico possa dopo secoli di oppressione usare la sua creatività, sviluppare scienza e cultura in pace, vivere. Non essere perseguitati, ammazzati. Tutto ciò è scosso alle fondamenta in queste ore: è la prima volta, dai tempi della Shoah, che in un solo giorno il popolo ebraico vede l'attacco, il pogrom, la deportazione, l'uccisione selvaggia, la mutilazione di tanti cittadini uno a uno, solo perché ebrei. Proprio come ai tempi delle persecuzioni nazifasciste.
   Anche alla sua fondazione Israele ebbe alcuni giorni di sconfitta: nel 1948 nel Gush Etzion, gli ebrei subirono una strage di 250 persone. Il veloce recupero ha consentito di fondare lo Stato. Adesso, come può recuperare Israele quasi mille morti e tremila feriti in un giorno? Come può restituire non solo sicurezza ai cittadini, ma anche dare al mondo la certezza che Israele è un investimento sicuro in stabilità, scienza, forza?
   Fra le lacrime la gente chiede dove erano gli elicotteri quando i terroristi giravano liberamente sui prati dei kibbutz. Perché non gli hanno sparato? Dove erano le forze militari e di polizia per i ragazzi in fuga dal party, decimati in ore di caccia mostruosa? Il numero dei morti e dei rapiti racconta una storia irraccontabile per lo Stato di Israele, Tzahal, le forze aeree e di sicurezza. E dall'altra parte, l'inestinguibile sete di sangue ebraico da parte dei vicini cui nel 2005 si è consegnata la Striscia, usata poi per costruire missili e attentati.
   «Ciò che è stato, non esisterà», ha detto Netnayahu. La strada evidente è distruggere Hamas, pagando il prezzo di un sempre esecrato ingresso di terra, sanguinoso e impopolare all'estero. Ma i rapiti? La disperazione delle famiglie è stata onorata con la nomina di un responsabile per la loro sorte di altissimo profilo come il brigadiere generale Gal Hirsch: ma è chiaro che l'importanza sempre attribuita da Israele a ogni ostaggio qui si scontra con una realtà che invoca una soluzione definitiva. Si dovranno chiudere i passaggi, distruggere le gallerie, i depositi di armi piazzati fra le case, i centri di Hamas. Israele deve fermare Hamas che ancora spara missili e manda terroristi. Da Nord Hezbollah si è fatto sentire forte: l'Iran è sullo sfondo e anche nel futuro di questa guerra, ancora decide se giocare tutta la partita.. Se Israele non esce da questa situazione con un messaggio che stabilisca la fine di Hamas e obliteri la trama con Iran e Hezbollah, avremo un fronte di guerra mondiale.
   Israele è cruciale come l'Ucraina. Al consiglio di sicurezza la Russia ha bloccato la condanna di Hamas. Tzahal non può che entrare a tutta forza, distruggere le strutture di comando di Hamas, insegnando al mondo che uccidere gli ebrei oggi non si può. Hamas deve essere obliterata prima che si aprano altri fronti. Il fronte interno si spaccherà sulla trattativa che in queste ore è in mano all'Egitto, ma è chiaro che il primo imperativo è spodestare Sinwar, Hanye, Deif. Al mondo, la grande sfida di ricordare la barbarie cui ha assistito e attribuirla alla sua propria malattia che gli è stata quasi mortale: l'antisemitismo.

(il Giornale, 10 ottobre 2023)

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Israele mobilita

Israele si prepara ad attaccare la Striscia di Gaza.
Trecentomila i riservisti richiamati anche dall'estero, la più grande mobilitazione dal 1948. "Il sangue dei miei fratelli è stato versato in un modo inumano, perché solo esseri non umani si comportano così. Ci siamo presentati in tanti, qui in Israele, e molti non avevano nemmeno l'obbligo di farlo. Ma siamo di fronte a un lutto enorme, un lutto profondo che non riguarda solo Israele ma l'intero popolo ebraico", dice al Corriere della Sera un giovane ebreo romano con doppia nazionalità.
Da Roma è in partenza anche la 22enne Noa Rakel Perugia, riservista in servizio attivo. “È mio dovere partire, anche se qui sono preoccupati e lo è la mia famiglia”, spiega al Messaggero. “Ho fatto il liceo scientifico a Roma, nella scuola ebraica Renzo Levi. Dormivo a casa dei miei genitori quando alle 5 del mattino di Shabbat, giorno di festa per noi, zia ci ha telefonato. Lei ha tre figli e il maschio è un ufficiale della fanteria, subito richiamato al fronte”. Due cittadini italo-israeliani, Lilach Clea Havron ed Eviatar Moshe Kisnis, risultano intanto dispersi. Si trovavano nel kibbutz Be'eri. "La nostra ambasciata, il nostro consolato e l'Unità di crisi della Farnesina sono al lavoro. Speriamo di ritrovarli, ma in questo momento non abbiamo altre notizie: è probabile che siano stati presi in ostaggio", ha dichiarato al Tg1 il ministero degli Esteri Antonio Tajani, che oggi riferirà in Parlamento.
Terribile la minaccia proferita da uno dei portavoce di Hamas: "A partire da questo momento, qualsiasi attacco contro il nostro popolo nella sicurezza delle proprie case, senza preavviso, sarà affrontato con l'esecuzione di uno degli ostaggi civili che abbiamo in custodia, che sarà trasmessa in video e audio".

(moked, 10 ottobre 2023)
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E' legittima "resistenza", quella di Hamas? C'è qualcuno che ripete il mantra Due stati per due popoli che vivano l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza? M.C.

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Israele: i soccorsi di United Hatzalah sul campo di guerra

Intervista al referente Raphael Poch

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United Hatzalah è un'organizzazione no-profit israeliana che opera su basa volontaria come Servizio Medico di Emergenza (EMS) in tutto il Paese. Addestrata a muoversi in scenari critici, fornisce servizio di pronto soccorso e funge da collante con gli ospedali. Da sabato mattina lavora incessantemente per aiutare civili e soldati impegnati nella guerra che Hamas ha scatenato contro Israele.
   “La situazione è tesa e la gente in ansia, mentre il Paese cerca di fornire una risposta congiunta all’attacco - spiega a Shalom Raphael Poch, referente di United Hatzalah - I nostri soccorritori sono ai confini del Paese. Abbiamo allestito cliniche mediche e stiamo lavorando congiuntamente alle unità dell’esercito per trasportare i feriti negli Ospedali con ambulanze ed elicotteri”.
   I terroristi hanno assaltato villaggi e città con sparatorie e incursioni, mentre dal cielo piovevano continuamente i razzi che l’Iron Dome cercava di intercettare. Anche i residenti si mobilitano per aiutare, chi facendo la spesa e chi donando il sangue, ma anche alcuni di loro hanno bisogno di aiuti. “Cerchiamo di soccorrere tutti, portando cibo e acqua ai civili, ma soprattutto ai soldati. Andiamo porta a porta per assicurarci che le persone abbiano tutto ciò di cui hanno bisogno”.
   Continui team di medici e infermieri sono schierati nelle zone rosse. L’allerta è scattata subito anche per United Hatzalah, che ha risposto al proprio dovere con tutti i rischi annessi. “Per salvare la vita di un poliziotto, un nostro volontario ha subito due ferite da arma da fuoco: una al ginocchio e una alla testa. È stato salvato, ma un altro nostro volontario non ce l’ha fatta”.
   Anche Raphael non ricorda un simile dramma dalla Guerra del Kippur. La violenza è inaudita e non conosce limiti. Si spara a donne, uomini, bambini, anziani e malati senza alcuna distinzione, persino ambulanze e soccorritori vengono presi di mira per rallentare il processo di soccorso e assistenza.
   “È qualcosa di nuovo. Siamo addestrati a questi scenari, ma è orribile vedere che uccidano qualsiasi persona senza remora alcuna. I nostri volontari corrono molti rischi, ma lavoriamo con tutte le precauzioni: giubbotti antiproiettile, protezioni e protocolli di sicurezza. Nella maggior parte dei casi sono efficaci, ma il numero di persone coinvolte è enorme e ci sono tante variabili”.
   Le risorse dispiegate in campo sono molteplici, altrettanto il bisogno di aiuto. Raphael si appella a chiunque voglia donare, affinché cure e mezzi possano giungere a chi in queste ore combatte la guerra per la libertà di Israele.

(Shalom, 10 ottobre 2023)

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Operazione Spade di ferro - giorno tre

di Ugo Volli

I tre compiti dei militari
  Nel discorso in cui proclamava lo stato di guerra, il primo ministro Netanyahu ha assegnato tre missioni immediate alle forze armate israeliane: eliminare le minacce all’interno di Israele; assicurare la sicurezza dei confini, in particolare al nord e all’est, con Libano e Siria; distruggere totalmente la potenza militare di Hamas. Sono compiti complessi, che implicano un uso coordinato di molti uomini e mezzi.

La sicurezza interna ad Israele
  L’aspetto più sconvolgente dell’aggressione di sabato mattina è stata l’irruzione di più di un migliaio di terroristi nel territorio israeliano, arrivati anche abbastanza lontano dal confine di Gaza. I terroristi hanno approfittato della notte, della vacanza in corso e della confusione probabilmente provocata da interferenze elettroniche sui sistemi di comunicazione per impadronirsi di diversi villaggi e kibbutz, della città di Sderot, del terreno dove si svolgeva una grande festa o rave, perfino di alcune basi militari. Qui hanno compiuto crimini orribili contro chiunque trovavano, sterminando più di 700 persone, rapendone forse 150, ferendone più di duemila, con crudeltà e efferatezza degna solo dei nazisti. Dopo la reazione dell’esercito, in alcuni luoghi si sono asserragliati con ostaggi, in altri casi hanno cercato di allontanarsi da Gaza per portare l’attacco più in là. Ripulire queste sacche di terrorismo, liberare gli ostaggi, soccorrere le vittime è stato un compito lungo e doloroso che più o meno è concluso. Si può dire che da stamattina non vi sono più luoghi occupati dai terroristi nel territorio israeliano, al massimo vi sono dei singoli individui che cercano di nascondersi e di fare danno. Ma sono ancora possibili nuove irruzioni, Per fortuna non vi sono state finora questa volta agitazioni da parte della popolazione arabo-israeliana, com’era accaduto per l’ultima operazione a Gaza, né vi è stata una vera ondata terrorista proveniente da Giudea e Samaria, nonostante gli appelli in questo senso di Hamas. Da Gaza partono ancora raffiche di missili in direzione di tutta Israele, ma i sistemi antimissile e i rifugi hanno contenuto finora i danni.

I confini
  La preoccupazione militare maggiore in questa fase è che Hezbollah, molto più forte e armato di Hamas, apra un secondo fronte dal Libano ed eventualmente dalla Siria, con una quantità di missili in grado di saturare le difese israeliane e dunque di fare gravi danni, e magari con un’invasione terrestre. Finora ciò non è accaduto: vi sono stati scambi di cannonate e incursioni di droni, e manifestazioni di qualche centinaia di persone che hanno cercato di sfondare la rete del confine; ma si è trattato per ora solo di episodi dimostrativi. L’esercito presidia la zona e da certe località israeliane la popolazione è stata precauzionalmente evacuata. Gli Stati Uniti hanno intimato alle potenze locali di non intervenire contro Israele e hanno schierato nel Mediterraneo sud-orientale un potente gruppo navale a dissuasione di ogni tentativo di nuova aggressione.

Distruggere la potenza militare di Hamas
  Il terzo compito è il più difficile. Gaza è per lo più costituita da zone urbane fittamente popolate, in mezzo a cui si annidano i terroristi. Israele deve colpirli cercando di non danneggiare inutilmente i civili, cui ha comunque ordinato di sgomberare la zona di guerra. Ma Hamas li usa come scudi umani. Scuole, moschee, ospedali ospitano depositi d’armi, punti di osservazione e di sparo, basi di lancio dei missili. Sarà impossibile eliminarle senza colpire anche gli schermi civili. Tutte queste istallazioni sono collegate da una rete sotterranea di tunnel, in cui hanno sede comandi, depositi caserme e dove certamente si sono rifugiati anche i capi di Hamas. Questi tunnel sono stati costruiti anche per essere trappole mortali per chi deve conquistarli: sono minati, con feritoie da cui i difensori possono sparare, possono essere fatti crollare, allagati o gasati. Vi sono porte segrete da cui possono partire agguati. Sono un enorme labirinto, come una seconda città sotto le case. Israele ha fatto il possibile per distruggerli coi bombardamenti, ma bisogna prevedere una guerra sotterranea estremamente difficile. L’aggressione iniziata sabato era stata minuziosamente preparata; non si può pensare che chi l’ha progettata non abbia previsto la reazione di Israele e il suo ingresso a Gaza; dunque anche questa battaglia dei tunnel dev’essere stata già organizzata dai terroristi e resa ancora più difficile.

Che succede ora
  Israele ha richiamato centinaia di migliaia di riservisti in vista della battaglia di Gaza, che inizierà appena pronto lo schieramento, forse già oggi o domani. Bisogna prevedere un’avanzata lenta e difficile. Nel frattempo l’aviazione bombarda con grandissima intensità tutti i punti noti in cui vi siano presenze o apparati di Hamas e degli altri gruppi. Sono bombardamenti molto massicci, che però probabilmente erano previsti. La capacità dei terroristi di sparare i loro missili da rifugi sotterranei ancora sembra quasi intatta. Nel frattempo si dovrebbe compattare il fronte interno, con l’ingresso di rappresentanti dell’opposizione nel governo e la solidarietà internazionale si rafforza.

Gli ostaggi
  Nell’impresa non facile, lunga e sanguinosa di dare un colpo decisivo a Hamas, un’incognita assai delicata e dolorosa è quella degli ostaggi, forse cento forse più, compresa una quindicina di cittadini stranieri, che i terroristi hanno portato a Gaza e che probabilmente sono stati rinchiusi anche loro nei tunnel. Saranno certamente usati come scudi umani, possibile moneta di scambio nelle trattative, oggetto di ricatti raccapriccianti. Il caso Shalit ha mostrato la difficoltà di salvare chi sia stato catturato da Hamas. Ma Shalit era uno solo qui ci sono decine di esseri umani che potrebbero essere sacrificati dai terroristi per ottenere vantaggi, come già facevano i dirottatori aerei. Dobbiamo preparaci a giorni, settimane, forse mesi ancora difficilissimi.

(Shalom, 10 ottobre 2023)

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Le testimonianze dei giovani italiani da Israele

di David Di Segni

Sono ore di tensione in Israele, da sabato mattina è stata trascinata in guerra dai terroristi di Hamas. Le strade sono vuote, gli allarmi scandiscono il tempo di giornate che sembrano non passare mai. C’è tensione e paura, tutti sono chiamati alla solidarietà e anche chi non veste la divisa si adopera per aiutare. Tanti i giovani italiani che ci raccontano la loro testimonianza in questo senso.
   “Stamattina, assieme a dei ragazzi, abbiamo organizzato una colletta di 9.000 Shekel - ci racconta Aron, che vive in Israele - Li useremo per fare la spesa, che raduneremo a Dizengoff per spedirla ai soldati”. Anche Diana ci parla da Tel Aviv dove abita. Ieri mattina è stata svegliata presto dai genitori e rapidamente l’incomprensione ha lasciato spazio all’incredulità e poi al timore. “Non avevamo capito l’entità del problema - spiega a Shalom – essendomi trasferita dall’Italia, mi sono sentita più allarmata rispetto a chi è cresciuto qui e che è abituato ai missili. Quando però ho visto i miei conoscenti israeliani preoccupati ho capito la gravità della situazione”.
   L’attacco a sorpresa ha fatto vacillare la sicurezza interna del Paese. Fidarsi del prossimo è difficile e lo si fa con diffidenza, si esce per l’indispensabile e quando lo si fa ci si sbriga a tornare in casa. Tutto è sospettabile, dal prendere un taxi all’incontrare persone sconosciute. “Oggi abbiamo cucinato e fatto spesa per i soldati - prosegue Diana - Un volontario è partito da Ramat Gan con la macchina per raccogliere a Tel Aviv il cibo raccolto dai volontari. Gli abbiamo detto di venire, preferendo avvicinarci a lui senza dare troppe specifiche sulla nostra posizione”.
   Sono tanti gli ebrei italiani che hanno un parente o un conoscente coinvolto nel conflitto. “Una mia amica era alla festa nel deserto e ha fatto in tempo a scappare. Da lontano ha visto un ragazzo ferito a terra, è tornata in stato di choc. Un soldato di conoscenza indiretta, invece, ha perso compagni e fidanzata, non vuole più vivere” ci racconta Ghila, mentre tanti sono i giovani chiamati o richiamati al servizio di leva. Tamir è uno di loro. Dall’Italia si è trasferito in Israele, dove ha prestato servizio militare per poi iscriversi all’università. Ieri è stato richiamato come riservista, e ci scrive: “Mi sono svegliato con le sirene a Givatym. Essendo Shabbat non sapevo da dove provenissero gli attacchi, lo si aspettava più da Hezbollah che da Hamas. La situazione è degenerata in fretta, si sta consumando una strage. Un mio comandante è stato ucciso. Che il Signore protegga tutti, facendoli tornare a casa”.
   C’è rabbia e tensione. Ma non manca né l’unità né la solidarietà, scattata in tutte le città. Chi offre riparo nei bunker e chi corre per donare il sangue. “Andrò anche io” ci dicono i giovani intervistati, mentre il mondo osserva lo svilupparsi di queste ore tese e drammatiche.

(Shalom, 9 ottobre 2023)

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La calma prima della tempesta

Un reportage dal nord

di Judith Jeries

Punto di vista sul confine tra Israele e Libano, Israele settentrionale
Vivo in Galilea. Sappiamo cosa sta per accadere, si può letteralmente sentire la tensione, in molti luoghi si può quasi tagliare la pesantezza dell'aria con un coltello. La domanda non è se, ma quando. I nostri cuori si spezzano alla vista di ciò che sta accadendo nel sud del Paese. Ci sentiamo paralizzati. Finora, negli ultimi anni, siamo stati risparmiati dagli attacchi, a parte alcuni incidenti isolati come quello di aprile, che ha colpito solo alcune città della Galilea occidentale.
Conosco famiglie che sono state sorprese dall'attacco missilistico di aprile e i cui figli sono ancora oggi traumatizzati. Vivono vicino al confine con il Libano e sanno che presto pioveranno di nuovo razzi. Non sono solo i bambini ad avere paura. Gli adulti sono ben consapevoli della differenza: questa volta gli Hezbollah avrebbero il controllo, e l'esperienza insegna che non fanno le cose a metà. Molti hanno ancora nelle ossa la guerra del 2006, durata un mese.
L'UNIFIL ha già lasciato il Libano meridionale e i residenti delle città israeliane vicine al confine hanno ricevuto il messaggio di evacuare le loro case. Gli elicotteri dell'esercito volteggiano in lontananza, ma per il resto regna una calma inquietante. È la calma prima della tempesta. Come si affronta questa situazione?
Un posto di guardia delle Nazioni Unite al confine israelo-libanese, nel nord di Israele
Ci si mette in ginocchio. Sono situazioni come questa che ti avvicinano a Dio. Perché ti rendi conto di quanto sei piccolo e di quanto deve essere grande Dio, che ha tutto nelle sue mani, anche la situazione attuale. Lui conosce lo sfondo, sa perché sta succedendo, come continuerà e come sarà il nostro futuro.
Questa situazione di "tutto o niente", in cui è in gioco l'esistenza dello Stato di Israele, fa saltare i nervi. Perdere non è un'opzione, anche la maggior parte degli arabi israeliani preferirebbe vivere sotto il dominio ebraico piuttosto che sotto quello musulmano.
   Questa crisi esistenziale offre la possibilità di riavvicinarsi al Creatore del cielo e della terra. Se ce la caviamo troppo bene, la nostra natura peccaminosa non si allontana con noncuranza da Dio? E non corriamo forse tremanti tra le braccia di Dio quando siamo in difficoltà e ci troviamo di fronte a una situazione che ci opprime totalmente?
La risposta è la preghiera.

(Israel Heute, 9 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Riflessioni sulle forze di sicurezza israeliane dopo l’attacco di Hama

Mentre l’opinione pubblica e i vertici dell’Intelligence israeliana si interrogano sul livello di preparazione delle forze di sicurezza, l’attenzione si concentra ora su diverse sfide cruciali. In primo piano c’è la missione di salvataggio degli ostaggi, un compito che oscilla tra l’uso della forza armata e la negoziazione.
   Nel frattempo il confine meridionale di Israele si trova sotto un’ombra crescente, con l’infiltrazione sempre più audace dei militanti di Hamas. Questi hanno guadagnato il controllo in alcune comunità israeliane, poste strategicamente lungo la recinzione di confine, creando una crescente preoccupazione per la sicurezza nazionale. Un’altra priorità indiscussa è l’eliminazione dei siti di lancio dei razzi che minacciano Israele. Tuttavia, nonostante queste sfide imminenti, l’obiettivo principale rimane il sostegno alle vittime di recenti tragedie e atti di violenza inimmaginabili che hanno sconvolto la nazione.
   Mentre il mondo osserva con attenzione, i media israeliani pongono domande ai leader politici e militari su come tutto ciò sia potuto accadere, nel cinquantesimo anniversario di un altro attacco a sorpresa da parte dei nemici di Israele dell’epoca: la guerra dello Yom Kippur dell’ottobre 1973, quando le forze israeliane furono colte di sorpresa dalle colonne di carri armati siriani ed egiziani.
   Come riportato da Reuters , il generale in pensione Giora Eiland, ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano, ha osservato: «Sembra sorprendentemente simile a quella situazione». Nel corso di un briefing con i giornalisti, ha aggiunto: «Israele è stato completamente colto di sorpresa da un attacco incredibilmente ben coordinato».
   Così, mentre la nazione si concentra sulle sfide immediate, un portavoce dell’esercito ha dichiarato che le discussioni sulla preparazione dell’Intelligence verranno affrontate in un secondo momento, sottolineando che l’attenzione è ora incentrata sulla situazione sul campo. «Affronteremo questa discussione quando sarà il momento opportuno», ha dichiarato durante un briefing con i giornalisti.
   In breve, c’è un momento per l’azione, un momento per il silenzio e un momento per l’analisi e la riflessione. La questione di come gli uomini armati palestinesi siano riusciti a oltrepassare il pesantemente fortificato confine tra Israele e la Striscia di Gaza, mentre migliaia di razzi continuavano a piovere su Israele da Gaza, sarà oggetto di approfondimento.
   Un’indagine, che si preannuncia lunga e laboriosa, che si concentrerà sull’apparente mancanza di previsione degli sforzi combinati dello Shin Bet, l’Intelligence interna israeliana, del Mossad, l’agenzia di spionaggio esterna, e delle forze di difesa israeliane.

(Bet Magazine Mosaico, 8 ottobre 2023)

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Il quadro dell’attacco e le vie per uscirne

di Ugo Volli

Un’operazione militare micidiale di grande livello organizzativo
  Il terribile attacco che Israele ha subito dalla mattina di sabato non è un semplice attentato terrorista, anche se in scala enormemente accresciuta rispetto al solito. È un vero e proprio atto di guerra non solo per le dimensioni delle perdite (oltre seicento cinquanta morti, duemila feriti in ospedale, più di cento israeliani rapiti), ma soprattutto per il modo estremamente sofisticato in cui è stato progettato ed eseguito. Chi l’ha guidato ha saputo sfruttare le circostanze esterne favorevoli (la ricorrenza della festa di Simchat Torà, ma anche la presenza di centinaia di giovani a un rave a poca distanza dal confine), ha coordinato con micidiale tempismo attacchi dall’aria (parapendii a motore), dal mare, da terra con l’uso ben organizzato di esplosivi e bulldozer per sfondare la barriera di sicurezza e di moto e veicoli per dilatare l’arco di azione dei terroristi, e ha mostrato di aver studiato bene routine, posizioni e punti deboli operativi delle forze di sicurezza israeliane e di conoscere bene i luoghi in cui penetrare per uccidere e rapire gli israeliani. Di più, ha probabilmente usato tecniche molto avanzate di guerra elettronica per neutralizzare i numerosi sistemi cibernetici di sorveglianza installati intorno alla Striscia e forse anche impedito le comunicazioni militari, tanto da non incontrare quasi opposizione organizzata per le prime ore. Infine è riuscito, nonostante le grandi dimensione dell’operazione, a non mettere in allarme i servizi di sicurezza, che dovrebbero sorvegliare giorno e notte le basi terroristiche. Israele avrà tempo dopo la fine della guerra per capire le ragioni del fallimento degli apparati informativi umani ed elettronici e magari potrà riflettere sulla rigidità organizzativa che ha reso così vulnerabili le forze di difesa.

L’origine dell’attacco
  Tutto quel che si è detto mostra che l’attacco non può essere attribuito a Hamas e alle altre sigle terroristiche, ma deve essere stato direttamente progettato e coordinato dall’Iran. Non solo l’Iran è il principale beneficiario dell’operazione perché essa indebolisce l’immagine militare vincente di Israele e richiede una reazione di Israele su Gaza che si presterà a rinnovare la propaganda contro lo Stato ebraico, rendendo difficile e rallentando l’intesa con l’Arabia Saudita che è il solo modo di bloccare l’imperialismo iraniano. Inoltre l’impero persiano ha molti conti da saldare e molte vendette da prendere. Ma solo il regime di ayatollah ha nella regione i mezzi e la competenza su droni, hacking dei sistemi informatici, coordinamento interforze. Hamas ha fornito la manovalanza del terrore, ci ha aggiunto la crudeltà, il sadismo, la barbarie. Ma il piano nasce certamente a Teheran, come dicono anche i ringraziamenti immediatamente resi pubblici da Hamas.

Le difficoltà della guerra
  Da questa origine deriva la maggior difficoltà della posizione di Israele. Sia perché l’Iran controlla a nord di Israele il regime siriano e soprattutto Hezbollah in Libano, molto meglio armati di Hamas e già sul piede di guerra. L’intervento di Hezbollah potrebbe essere questione di ore e prenderebbe Israele fra due fuochi, con una densità missilistica certamente superiore al limite di saturazione delle difese israeliane, con altri danni enormi. Ma anche se ciò non accadesse, le migliori forze dell’esercito israeliano dovranno restare bloccate in Galilea per contrastare il rischio di una seconda invasione. Inoltre, se la reazione di Israele portasse le sue truppe dentro Gaza, com’è probabile, si può essere sicuri che gli esperti iraniani abbiano preparato nuove trappole e che il prezzo da pagare per riprendere anche provvisoriamente il controllo della Striscia rischia di essere molto alto. Israele avrà così di fronte il problema strategico che ha già incontrato a partire dal 2014 in circostanze analoghe: quanto penetrare nel territorio nemico? Quali sono i costi necessari per arrivare fino al centro di Gaza e magari per avventurarsi nella rete dei tunnel dove Hamas tiene armi, truppe e anche gli ostaggi? È possibile smantellare l’organizzazione e il potere dei terroristi senza usare mezzi tecnicamente possibili, come i bombardamenti a tappeto, ma che non sono politicamente accettabili perché colpirebbero pesantemente la popolazione civile? Ma se Hamas venisse solo danneggiato, per quanto pesantemente, e non distrutto, si può essere sicuri che l’Iran gli fornirà i mezzi per riarmarsi. E tutto ricomincerà da capo.

Schiacciare la testa del serpente?
  La soluzione sarebbe colpire il centro direzionale, la testa del serpente, cioè l’Iran. Il quale però, secondo fonti americane, è in possesso di tutto ciò che serve per allestire la bomba atomica e si è fermato a sole due settimane di lavoro dalla sua realizzazione. Inoltre è un alleato cruciale per la Russia e gode della benevolenza dell’amministrazione Biden (e prima di Obama), nonostante le sue provocazioni anti-americane. Israele potrebbe tentare di distruggere l’arsenale nucleare iraniano ma solo con un colpo decisivo e non ripetibile, che avrebbe bisogno dell’appoggio Usa. Il rischio di una mossa del genere è una guerra regionale aperta.

Che fare allora?
  Non ci sono soluzione miracolistiche. Israele ha bisogno di ridimensionare il potere dei terroristi a Gaza, anche a costo di perdite militari. È una guerra d’attrito di cui non si può prevedere il termine. Dovrà cercare di liberare gli ostaggi e questo sarà difficilissimo, senza cedere al ricatto di Hamas, che proverà a usarli per liberare i terroristi condannati. Sarà necessario rivedere il funzionamento degli apparati di sicurezza e anche le politiche tenute finora rispetto a Gaza sulla base dell’erronea condizione di un carattere “moderato” di Hamas. Bisognerà stringere le alleanze con l’Arabia Saudita innanzitutto e poi con chiunque si opponga all’asse Iran/Russia. Sarà necessario superare le divisioni interne che hanno contribuito a dare un’impressione di vulnerabilità e probabilmente innovare il sistema politico e amministrativo. Bisognerà avere la pazienza di Giobbe e continuare a prevenire il terrorismo, giorno dopo giorno, senza cadere in trappole come quella di questi giorni. Non sono compiti piccoli e non si risolveranno neppure nell’arco delle parecchie settimane che serviranno per l’operazione militare. Ma ne va della vita dello Stato ebraico. L’appoggio interno e anche di noi ebrei della diaspora è indispensabile.

(Shalom, 9 ottobre 2023)

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Il nazi-islamismo di Hamas

di Niram Ferrett

L’eccidio che ha avuto luogo in Israele per mano di Hamas rappresenta il maggiore sterminio di ebrei avvenuto per mano armata dalla Seconda guerra mondiale ad oggi. Solo i nazisti furono in grado di ucciderne in una volta sola, a mano armata, un numero così elevato. Al momento, il bilancio delle vittime è sgomentevole, settecento morti, ma è destinato drammaticamente ad aumentare nelle prossime ore.
   Davide Cavaliere e David Elber, hanno entrambi paragonato qui su l’Informale le modalità omicide di Hamas a quelle delle Einsatzgruppen, le unità sterminatrici mobili delle SS.
   Il paragone non solo è calzante per le modalità omicide, l’implacabilità delle uccisioni, vere e proprie esecuzioni sommarie di civili e militari, nelle strade, nelle abitazioni, in ogni spazio pubblico, ma perché Hamas, costola palestinese della Fratellanza musulmana, accorpa al jihadismo le simpatie naziste del fondatore della Fratellanza, Hassan al Banna.
   Nel suo seminale, “Il jihad e l’odio contro gli ebrei, l’islamismo, il nazismo e le radici dell’11 settembre”, Matthias Kuntzel, ricorda che i Fratelli Musulmani distribuirono nel 1938 in occasione di una Conferenza parlamentare per i paesi arabi e musulmani che si tenne al Cairo le versioni in arabo del Mein Kampf e dei Protocolli dei savi anziani di Sion, sottolineando come “la loro distribuzione del Mein Kampf non fu l’unica occasione in cui i Fratelli Musulmani si schierarono con i nazisti. Al Banna collaborò con gli agenti egiziani del Terzo Reich”.
   Lo Statuto di Hamas del 1988 è intessuto di un antisemitismo che è figliato direttamente dai Protocolli e si sposa con l’antisemitismo di matrice coranica, riassunto nel versetto del Corano citato all’interno del documento, in cui si invitano i fedeli ad uccidere gli ebrei che si nascondono dietro rocce e alberi.
   Nel 2017, durante la grande mobilitazione di Hamas a Gaza con tentativi di ingresso in Israele impediti allora dalla presenza massiccia dell’esercito israeliano, la svastica venne dipinta su bandiere e aquiloni incendiari.
   L’antisemitismo feroce di Hamas è, ad un tempo, il prodotto dell’avversione islamica per gli ebrei la cui radice si trova sia nel Corano che negli hadit, sia dell’antisemitismo cospirazionista europeo, che ha nei Protocolli il suo incunabolo, e che fu un testo recepito totalmente dal nazismo.
   Hamas considera Israele terra islamica da rendere completamente judenfrei, libera dalla presenza ebraica, in questo è il perfetto continuatore delle politiche eliminazioniste del Terzo Reich che ha messo in atto su scala massiccia appena gli è stato possibile farlo.

(L'informale, 8 ottobre 2023)

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Non può essere vero!

Nei prossimi giorni centinaia di israeliani saranno ricoverati e questo avrà il suo impatto sul morale della società israeliana.

di Aviel Schneider

Il luogo in cui gli israeliani sono stati uccisi dai militanti di Hamas su una strada principale vicino alla città meridionale di Sderot
A dire il vero, non so come iniziare la mia lettera di oggi. Ma non importa con chi ho parlato ieri, amici, ex compagni, giornalisti o vicini di casa, tutti abbiamo mormorato la stessa cosa. "Non può essere vero quello che è successo nel sud!".
   In tutta la storia dello Stato di Israele, mai negli ultimi 75 anni sono stati uccisi così tanti israeliani in un solo giorno in una guerra in Israele come ieri nel sud, oltre 500 tra civili e soldati. Non nella guerra del Libano del 1982, né nella guerra dello Yom Kippur del 1973, né nella guerra dei Sei Giorni del 1967, né nella guerra d'indipendenza del 1948. Quello che è successo ieri nel Paese è insondabile per tutti noi. La situazione della sicurezza nazionale di Israele ha raggiunto un punto basso nella storia dello Stato, dal quale Israele deve urgentemente uscire. Altrimenti, i nostri nemici si renderanno conto molto rapidamente della debolezza di Israele e attaccheranno anche da altri fronti. Mentre scrivo queste righe, tutte le finestre di casa mia tremano. Da lontano sento i bombardamenti nella Striscia di Gaza, eppure vivo a 51 chilometri a nord-est della Striscia in linea d'aria.
   La sera prima, Anat e io siamo stati invitati da mia sorella ortodossa Ruthi e dalla sua numerosa famiglia per la cena di Shabbat e la seconda festa di Sukkot nella sua Capanna. Tutti i suoi figli sono studenti ortodossi di Torah e nessuno dei suoi ragazzi ha prestato servizio nell'esercito. Che momenti tranquilli e sereni abbiamo trascorso insieme intorno alla tavola riccamente imbandita. E poi, sei ore dopo, la mattina dopo è scoppiata la guerra. Quando la famiglia di Ruthi ha saputo che i nostri tre figli Tomer, Moran, Elad e il nostro genero Ariel erano stati chiamati nelle riserve, ci hanno mandato un WhatsApp dopo la fine dello Shabbat:
"Buona nuova settimana. Preghiamo per i vostri figli e per la speranza. Tutta la famiglia Deri prega per voi affinché tutti tornino dalla guerra sani e in pace"
Questo è il loro compito nella nostra famiglia e non litighiamo più per questo. I loro figli pregano e i nostri figli combattono.
Il modo in cui le centinaia di terroristi palestinesi sono riusciti a entrare in Israele attraverso la barriera di confine la mattina presto dello Shabbat senza essere individuati in tempo deve essere iscritto nella storia di Israele come uno dei suoi più grandi fallimenti. Il sistema di sorveglianza del confine di Israele è stato probabilmente disattivato da un drone e da attacchi informatici iraniani prima che i terroristi palestinesi entrassero in Israele. Se ciò è vero, ed è stato ammesso dallo staff militare israeliano, questo spiega il successo palestinese e il fallimento strategico di Israele.
Non sono gli attacchi missilistici su Israele il problema della guerra, ma l'attacco a sorpresa e il libero passaggio da Gaza verso gli insediamenti e i kibbutzim israeliani nel sud vicino a Gaza. In una passeggiata i palestinesi hanno invaso il Paese con jeep, moto e a piedi e hanno conquistato il sud. Ma la cosa più grave è il rapimento di numerosi israeliani, intere famiglie con i loro figli, civili, nonne con le loro badanti filippine, giovani del Nova techno party di Reím, soldati vivi o morti. Sul canale Telegram abbiamo mostrato alcuni dei tanti video di israeliani che vengono spediti a Gaza, in massa. Si parla di 180 israeliani, ma non mi stupirei se il numero fosse più alto.
Palestinesi prendono il controllo di un carro armato israeliano dopo aver attraversato la recinzione di confine con Israele a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza
Sembrava che l'intero sud fosse privo di soldati. Zero sicurezza! Ci sono volute ore per vedere dei soldati israeliani. Il mio amico Amnon, nel sud, ha salvato sua figlia Ronnie dalla festa della natura ieri e mi ha detto che tutte le strade intorno a Gaza erano aperte. Nessun soldato, nessun posto di blocco, niente. Con la posizione di Ronnie su Google è riuscito a salvare sua figlia dal caos nei campi vuoti vicino alla recinzione di confine. Era arrabbiato con l'esercito e non faceva altro che inveire e imprecare. Nessun soldato, nessuna sicurezza, niente dell'Israele che pensavamo di conoscere.
   Questa mattina tutti i media mostrano i familiari che implorano i loro figli rapiti a Gaza. Non so come il governo affronterà la questione, ma non posso immaginare che queste persone e queste famiglie siano trattenute a Gaza per anni. Questo limita anche i bombardamenti dei caccia israeliani a Gaza, perché lì ci sono ostaggi israeliani. Non solo, nei prossimi giorni centinaia di israeliani saranno ricoverati e questo avrà il suo impatto sul morale della società israeliana. Sono numeri che Israele non ha mai visto in nessuna guerra di questa portata. E questi numeri non potranno che aumentare perché la guerra sta iniziando ora. Israele si sta preparando a una massiccia invasione di terra di Gaza. E anche questo avrà il suo peso quando avrà luogo. Nel frattempo, la gente si sta conoscendo di nuovo. I manifestanti contro le riforme legali che minacciavano di rifiutare il servizio sono tutti in uniforme e nel sud. Le avversità uniscono il popolo.
Riservisti militari israeliani arrivano in un'area di sosta vicino al confine con il Libano
Una cosa è certa: le vecchie regole non devono più valere. Israele deve intervenire in modo diverso questa volta per disarmare Hamas e tutti gli altri terroristi di Gaza una volta per tutte. Israele ha perso il primo round del combattimento di ieri, Israele deve vincere i prossimi round con un knockout ad ogni costo, altrimenti non abbiamo il diritto di esistere. Nel frattempo, Israele ha staccato l'elettricità a Gaza, perché la ricevono da Israele, anche se attaccano Israele con i razzi da quasi 20 anni. Non pagano comunque le tasse. L'importazione di benzina e diesel a Gaza è stata bloccata, così come tutti gli altri beni commerciali. Quello che ho detto ieri nella riunione di Zoom lo ripeto qui, questa volta Israele deve intervenire senza pietà a Gaza, zero considerazione! Israele è ancora sotto shock e apprenderà solo nei prossimi giorni quale catastrofe ha colpito la popolazione e il Paese.

(Israel Heute, 8 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Una triste festa della gioia

Anche 24 ore dopo l'inizio dell'attacco a Israele, il Paese è sotto shock.

di Dov Elion

Detriti dopo che un razzo proveniente da Gaza ha colpito un edificio a Tel Aviv.
Ieri avremmo dovuto celebrare Simchat Torah, la festa della gioia per la Torah. Ma si è rivelata una festa triste, la più triste che abbiamo mai vissuto.
La giornata è iniziata alle 6.30 del mattino. Il mio cellulare ha fatto un forte rumore. "Ma è Shabbat e un giorno festivo, non ho nemmeno messo la sveglia", mi sono chiesto mentre saltavo giù dal letto, spaventato. Il mio cellulare continuava a suonare. Era la mia applicazione "Red Alert", che mi avvertiva dei razzi provenienti da Gaza. Non riuscivo a tenere sotto controllo il telefono, questo sgradevole tono di avvertimento continuava a suonare. Ho acceso la radio per assicurarmi che l'app funzionasse correttamente. E  anche la radio trasmetteva ininterrottamente allarmi missilistici.
Poiché era ancora mattina presto, non c'erano ancora notizie al telegiornale. In TV, come sempre di Shabbat e nei giorni festivi, si ripetevano i programmi della festa.
Mentre lo schermo mostrava i luoghi in cui erano stati lanciati gli allarmi per i razzi, si cantava la canzone "Shabbat al mattino, un bel giorno...".
Non essendo ancora completamente sveglio, ero un po' confuso. "Perché non ci sono notizie sui razzi?", pensavo, quando all'improvviso ho sentito diversi forti boati che hanno fatto tremare le nostre finestre. Finalmente sveglio, sono andato rapidamente nella stanza di nostro figlio, che è anche la nostra stanza di sicurezza, per chiudere la porta di ferro della finestra.
Poi si è svegliata anche mia moglie, che all'inizio non capiva perché fossi così agitato.
Sinceramente, non ho parole per descrivere le mie impressioni sulle tante immagini orribili che ci sono state mostrate in televisione e soprattutto in rete. C'erano allarmi di razzi senza pause, lo schermo era costantemente arancione con tutti gli avvisi di razzi. Io e la mia famiglia eravamo senza parole.
Come è possibile che Israele sia stato colto di sorpresa in questo modo? Com'è possibile che decine di terroristi potessero circolare per le strade della città di Sderot senza ostacoli e sparare liberamente? Dov'erano l'esercito e la polizia?
Terroristi nelle strade di Sderot, ero scioccato.
Le telefonate sono state trasmesse in TV, con cittadini spaventati in località del sud che imploravano aiuto, mentre i terroristi passavano per le case alla ricerca dei residenti. Terribile.
Siamo rimasti seduti in salotto senza parole. Mia moglie ha ricordato la sorpresa di esattamente 50 anni e un giorno fa, quando era una bambina che giocava all'aperto e fu sorpresa dalle sirene dell'allarme aereo e poi portata rapidamente al rifugio dalla madre.
In effetti, la giornata di ieri ci ricorda lo scoppio della Guerra dello Yom Kippur, in cui Israele fu sorpreso dai suoi vicini arabi.
Come è possibile che anche questa volta siamo stati colti di sorpresa? Dov'era il servizio di intelligence? Credo che dovremo aspettare la fine di questa guerra contro Hamas, che è appena iniziata, per avere una risposta.
Non c'era più traccia di Simchat Torah, la festa della gioia per la Torah. Eravamo ormai in una realtà completamente diversa. Solo un giorno prima, la Corte Suprema si era occupata della questione se fosse permesso tenere le gioiose processioni per la festa di Simchat Torah nella città di Tel Aviv. La città di Tel Aviv aveva detto che eventi come questo non avevano posto nello spazio pubblico, perché dopo tutto non volevano imporre la religione a nessuno.
Che controversia incredibile. Com'è possibile che a Tel Aviv, una città di Israele, si voglia vietare la pratica dell'ebraismo? Questa disputa è stata una continuazione di quanto accaduto durante lo Yom Kippur, quando attivisti non religiosi hanno interrotto la preghiera in piazza Dizengoff. Alla fine, il tribunale ha permesso le processioni della Torah a Tel Aviv il venerdì mattina, a patto che non passassero per piazza Dizengoff.
Poi sono arrivati i razzi. Le processioni festive sono state cancellate, ovviamente, per proteggere le vite umane. Israele è sotto attacco. Ora siamo di nuovo tutti insieme per difenderci dal nostro nemico.
Sembra che abbiamo bisogno di una crisi ogni tanto per riunirci di nuovo. L'organizzazione "Achim La Neshek", i Fratelli in Armi, che aveva invitato le persone a smettere di offrirsi come volontari per l'esercito a causa della controversa riforma giudiziaria, ha invitato i suoi membri a presentarsi alle loro unità per difendere il Paese. Grazie per questo.
Ma un obiettivo è stato raggiunto: le processioni con la Torah per le strade di Tel Aviv ieri non ci sono state.
Spero davvero che in questa crisi, forse la più grande della storia del nostro Paese, ci riuniremo di nuovo, e questa volta per il bene.

(Israel Heute, 8 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele dichiara formalmente guerra ad Hamas

Non è una formalità ma un chiaro messaggio al mondo che questa volta si fa sul serio e non si accetteranno critiche di sorta del tipo "risposta sproporzionata"

di Sarah G. Frankl

Domenica il governo israeliano ha formalmente dichiarato guerra ad Hamas, ponendo le basi per una risposta massiccia contro il gruppo terrorista islamico.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu aveva già detto sabato che il Paese era in guerra, ma la dichiarazione era retorica. La mossa di domenica da parte del gabinetto israeliano è una decisione ufficiale, per intenderci equivalente a una dichiarazione di guerra da parte del Congresso negli Stati Uniti.
La dichiarazione di guerra è stata presa in conformità con l’articolo 40 della Legge fondamentale di Israele, ha dichiarato l’ufficio stampa del governo israeliano. Israele non ha una costituzione scritta, ma le sue 13 leggi fondamentali hanno una funzione simile.
Prima della dichiarazione di domenica, Netanyahu aveva detto che Israele avrebbe “compiuto una potente vendetta” per l’attacco dei militanti palestinesi, mentre il più alto funzionario militare del Paese, responsabile delle attività nei territori palestinesi, aveva detto dopo gli attacchi che Hamas aveva “aperto le porte dell’inferno”. Israele ha bombardato Gaza con attacchi aerei che hanno ucciso più di 300 persone.

(Rights Reporter, 8 ottobre 2023)

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Tensioni anche a nord di Israele: Hezbollah colpisce tre siti israeliani

Come purtroppo si temeva, si sta muovendo anche il fronte nord

di Sarah G. Frankl

Hezbollah ha annunciato domenica di aver preso di mira tre postazioni israeliane nelle Fattorie di Shebaa, in un chiaro messaggio di solidarietà con i terroristi palestinesi di Hamas.
In un comunicato, Hezbollah Media Relations ha dichiarato che le Unità del Comandante martire Imad Mughniyeh hanno colpito tre postazioni israeliane nelle Fattorie di Shebaa.
“Sulla via della liberazione della parte rimanente della nostra terra libanese occupata e in solidarietà con la vittoriosa resistenza palestinese e il saldo popolo palestinese, i gruppi del comandante martire Hajj Imad Moghniyeh nella Resistenza islamica hanno effettuato un attacco questa domenica, 08 ottobre 2023, prendendo di mira 3 siti di occupazione sionista nella regione libanese occupata delle Fattorie Shebaa”, si legge nella dichiarazione, riportata da Al-Manar.
I tre siti sono stati nominati: Radar, Zibdin e Ruweissat Al-Alam. Nella dichiarazione si legge che i terroristi di Hezbollah hanno utilizzato un numero significativo di proiettili d’artiglieria e di missili guidati, che hanno colpito direttamente questi siti.

(Rights Reporter, 8 ottobre 2023)

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Il salmista ignoto (5)

di Marcello Cicchese

La serie di studi sul Salmo 119 presentata nei mesi scorsi ha come tesi che l'autore ignoto di questo salmo è una prefigurazione del Messia. La serie però si è interrotta "sul più bello", cioè quando sarebbe venuto il momento di trarne delle precise conseguenze da mettere in relazione col testo dei Vangeli, perché per un cristiano dire che l'autore del Salmo 119 è una prefigurazione del Messia è come dire che il salmista ignoto prefigura la persona di Gesù.
   Non è raro che i cristiani scorgano in certe parole dei salmi i tratti di Gesù, ma non mi è mai capitato di sentir fare un accostamento tra l'autore ignoto del Salmo 119 e la persona di Gesù. E anche per me non è facile sviluppare questo accostamento in tutta la sua portata, ma ne avverto l'importanza e una forte spinta a farne oggetto di ricerca e riflessione. Anche se in tarda età, mi sostiene quella secca parola di Gesù che da giovane mi ha portato alla fede: "Cercate e troverete" (Matteo 7:7).
   "Cercate Gesù dove lo si può trovare", si potrebbe dire a chi è in posizione di ricerca. Naturalmente il primo luogo in cui si può trovare Gesù è costituito dal complesso dei quattro Vangeli, seguito dal Nuovo Testamento in cui si trovano inseriti. Ma in questo caso più che di ricerca si deve parlare di disposizione all'accoglienza, perché la persona di Gesù si presenta in modo sufficientemente chiaro a coloro che odono la sua parola e la ritengono "in un cuore onesto e buono" (Luca 8:15). Ma anche chi ha incontrato Gesù nel Nuovo Testamento deve sentire il desiderio di ritrovarlo nelle pagine dell'Antico Testamento perché anche lì è presente, anche se non in forma manifesta, ma nascosta.
   Ma più che nascosta, si potrebbe dire allusiva, perché la Bibbia non è una letteratura misterica accessibile solo a pochi iniziati, ma richiede tuttavia una sincerità di fondo senza la quale essa si richiude, o  addirittura può inviare segnali devianti al lettore prevenuto.
   In questa ricerca di Gesù nell'Antico Testamento ho ritrovato ultimamente la registrazione di una mia predicazione di quindici anni fa. Era proprio sul Salmo 119, ma non si presentava in relazione a questo salmo perché come titolo aveva "L'afflizione". In quel tempo non pensavo a un accostamento tra il salmista e la persona di Gesù: infatti riascoltandola si riconosce che tratto il tema in modo "tradizionale", cioè ricerco e commento quei passaggi del salmo che istruiscono il credente e lo aiutano a vivere in  modo giusto i momenti di afflizione che  incontra nella sua vita.
   A un certo punto inserisco, come di sfuggita, una breve riflessione: "Questo salmo ricorda molto la persona del Signore Gesù Cristo e sono convinto che il Signore Gesù si è nutrito di questo salmo, che è particolarmente adatto alla sua persona". Considero questa riflessione come una informe intuizione di una convinzione che anni dopo ha preso a consolidarsi in modo più preciso. L'accostamento tra il salmista ignoto e la persona di Gesù  è ancora lungi dall'avere assunto forme ben delineate, ma una cosa certamente hanno in comune le due figure: la sofferenza.
   Sulla base dei racconti evangelici, la trattazione cristiana della sofferenza di Gesù ha sempre occupato un posto di primaria importanza, ma l'accento principale di solito è messo sulla sofferenza della morte in croce di Gesù, attraverso cui è avvenuta l'espiazione dei peccati e la riconciliazione dell'uomo con Dio. E naturalmente tutto questo non ha corrispondente nell'esperienza del salmista ignoto. La sofferenza legata alla morte di Gesù sulla croce ha fatto però trascurare la sofferenza legata alla vita di Gesù sulla terra. Gesù si è fatto "ubbidiente fino alla morte, e alla morte della croce" (Filippesi 2:8). L'ubbidienza di Gesù è arrivata fino alla morte perché è durata ininterrottamente tutta la vita, a cominciare dal momento della tentazione nel deserto. Da quel momento Gesù ha dovuto continuamente confermare la sua ubbidienza al Padre resistendo alle insidie di Satana e sopportando l'incomprensione del suo popolo. E questa ubbidienza continua è avvenuta in una sofferenza continua:

    "[Gesù] benché fosse figlio, imparò l'ubbidienza dalle cose che soffri" (Ebrei 5:28).

È la sofferenza ubbidiente di Gesù in tutta la sua vita sulla terra che si può vedere prefigurata nella sofferenza ubbidiente dell'autore ignoto del Salmo 119.

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Dalla Sacra Scrittura
    SALMO 119

    25   L'anima mia è avvilita nella polvere;
           ravvivami secondo la tua parola.
    40   Ecco, io desidero i tuoi precetti,
           ravvivami nella tua giustizia.
    28   L'anima mia, dal dolore, si consuma in lacrime;
           dammi sollievo con la tua parola.
    83   Poiché io sono divenuto come un otre affumicato;
           ma non dimentico i tuoi statuti.
    107 Io sono molto afflitto;
           Signore, rinnova la mia vita secondo la tua parola.
    109 La mia vita è sempre in pericolo,
           ma io non dimentico la tua legge.
    123 Si spengono i miei occhi desiderando la tua salvezza
           e la parola della tua giustizia.
    141 Sono piccolo e disprezzato,
           ma non dimentico i tuoi precetti.
    143 Affanno e tribolazione mi hanno còlto,
           ma i tuoi comandamenti sono la mia gioia.
    153 Considera la mia afflizione e liberami;
           perché non ho dimenticato la tua legge.
    176 Io vado errando come pecora smarrita; cerca il tuo servo,
           perché io non dimentico i tuoi comandamenti.

    23   Quando i potenti si siedono a sparlare di me,
           il tuo servo medita i tuoi statuti.
    51   I superbi mi coprono di scherno,
           ma io non mi svio dalla tua legge.
    61   Le corde degli empi mi hanno avvinghiato,
           ma io non ho dimenticato la tua legge.
    69   I superbi inventano menzogne contro di me,
           ma io osservo i tuoi precetti con tutto il cuore.
    70   Il loro cuore è insensibile come il grasso,
           ma io mi diletto nella tua legge.
    78   Siano confusi i superbi, che mentendo mi opprimono;
           ma io medito sui tuoi precetti.
    87   Per poco non mi hanno eliminato dalla terra;
           ma io non ho abbandonato i tuoi precetti.
    95   Gli empi si sono appostati per farmi perire,
           ma io medito sulle tue testimonianze.
    109 La mia vita è sempre in pericolo,
           ma io non dimentico la tua legge.
    157 I miei persecutori e i miei avversari sono tanti,
           ma io non devio dalle tue testimonianze.

    71   È stato un bene per me l'afflizione subita,
           perché imparassi i tuoi statuti.
    75   Io so, Signore, che i tuoi giudizi sono giusti,
           e che mi hai afflitto nella tua fedeltà.
    92   Se la tua legge non fosse stata la mia gioia,
           sarei già perito nella mia afflizione.
    93   Mai dimenticherò i tuoi precetti,
           perché per mezzo di essi tu mi dai la vita.

PREDICAZIONE

Marcello Cicchese
gennaio 2008


(Notizie su Israele, 8 ottobre 2023)

 

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7 ottobre 2023, Simchat Tora

Simchat Torah, la gioiosa festa della Torah, questa volta è una festa triste.

di Anat Schneider

Simchat Torah, una festa senza gioia
GERUSALEMME - Bum, bum, bum e ancora un Bum, sogno che i miei figli vanno in battaglia.
Un altro bum?
Sto sognando o lo sto solo immaginando? Apro gli occhi, sto per alzarmi dal letto e sento una voce:
"Buongiorno, c'è la guerra nel sud".
Il mio amato Aviel ha già il cellulare in mano e sta scoprendo cosa sta succedendo. Sogno e pensieri si mescolano in me, mi sveglio in una dura realtà,
E più apro gli occhi, più le notizie peggiorano. E più passa il tempo, più l'immagine peggiora.
Mi rifiuto di credere a quello che sento. Voglio tornare a dormire. Ma la realtà colpisce con forza. Anche se di solito evito di guardare i telegiornali, questa volta è sfuggito al mio controllo. Questa volta era fuori dal mio controllo.
Le voci, l'impotenza delle persone nel sud, intrappolate nelle loro case, nei rifugi dietro gli alberi. E la domanda angosciante: dov'è l'esercito? Le Forze di Difesa Israeliane non erano preparate, sono state colte totalmente di sorpresa.
Dov'è il governo?
Un governo così controverso. A quanto pare stanno ancora celebrando Simchat Torah, la festa della gioia per la Torah. Quale gioia? Il Tempio viene abbattuto, il popolo viene schiacciato.
E non c'è una voce della ragione, nemmeno una. Una voce che dia speranza, che ci porti alla ragione. Ma non c'è voce, non c'è risposta.
E i telefoni e i Whatsapp continuano ad andare avanti.
"Come state ragazzi?"
"Abbiamo saputo che è scattato l'allarme al Bar Giura".
"E i ragazzi che sono stati reclutati?".
Nella nostra stanza di sicurezza
Sì, proprio così, un allarme ogni cinque minuti. Ma la situazione è la stessa in tutto il Paese. E penso a Eden, che non ha una stanza sicura. Ha una figlia piccola. La chiamo.
"Vieni qui, presto, almeno qui abbiamo una stanza sicura".
Almeno siamo insieme.
E i miei figli, uno a Be'er Sheva, uno ad Ashdod e uno a Modiin.
In televisione parlano di mobilitare le riserve. Ho paura di chiederglielo, ma non ho scelta.
Sei stata arruolata, le chiedo a bassa voce?
"Sì, mamma".
Moran è stato chiamato immediatamente. Si è unito a noi per cinque minuti per prendere le sue cose. Anche il suo amico Eden è stato arruolato immediatamente.
A Tomer e a Elad è stato detto di tenersi pronti e di essere disponibili.
Non c'è più una voce ragionevole. L'unica voce è quella del cuore L'unica voce è quella del cuore che grida così forte ..... Forse possiamo trovare una buona clinica di riabilitazione per riprenderci tutti insieme dopo combattimenti, battaglie, guerre e spargimenti di sangue.
E l'unica voce di speranza ragionevole che mi circonda in questo momento è la voce di un bambino di un anno che chiede cibo, che piange quando vuole dormire.
Piange anche senza motivo.
Vuole giocare.
Ride, cade, alza le mani per essere portato in braccio.
Questa è Michaela, la mia nipotina.
Mi è stato promesso alla nascita che questa sarebbe stata l'ultima guerra.
E cosa dovrei prometterle?
Feste felici non esistono più.

(Israel Heute, 7 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Come è potuto accadere? Come ha potuto Israele essere così sopraffatto?

Le immagini che vediamo oggi dal sud di Israele erano un tempo considerate impossibili. L'immagine di "Israele invincibile" è andata in frantumi.

di Ryan Jones

Palestinesi festeggiano su un carro armato dell'IDF catturato. Immagini del genere prima erano considerate impossibili.
GERUSALEMME - Israele non è inespugnabile? L'IDF non è di gran lunga la potenza militare più forte del Medio Oriente? Molto più forte, in ogni caso, di una gracile organizzazione terroristica confinata in una piccola e impoverita striscia costiera.
Eppure, sabato mattina, Israele è stato sorpreso e per il momento sconfitto.
Non c'è dubbio che l'IDF reagirà, riprenderà tutti i territori perduti e infliggerà un duro colpo ai nostri nemici.
Ma fino a ieri non c'erano dubbi che i nostri confini fossero al sicuro, almeno dall'invasione, se non dal lancio di razzi.
Questa mattina, centinaia di famiglie israeliane hanno scoperto che ci sbagliavamo quando si sono svegliate vedendo uomini armati di Hamas marciare per le loro strade.
Hamas ha effettivamente conquistato il territorio israeliano!
Questa mattina, i confini di Israele si sono spostati a favore del nemico per qualche ora!
Non importa che i guadagni del nemico siano stati di breve durata. Non sarebbe mai dovuto accadere. Eravamo tutti convinti che non fosse possibile. Il nemico non dovrebbe essere in grado di invadere e catturare gli israeliani nelle loro case. L'IDF era troppo forte, troppo avanzato, perché Hamas potesse infliggerci un tale colpo.
I filmati degli israeliani condotti per le strade di Gaza ci hanno subito mostrato quanto ci sbagliavamo.
Anche per quelli di noi che sanno da dove viene realmente la forza di Israele, l'arroganza israeliana è contagiosa. Come la maggior parte degli israeliani, si crede che lo Stato ebraico sia potente di per sé. Che Dio sia dalla sua parte è solo un bis.
Ma Dio non può essere preso in giro.
Come nella guerra dello Yom Kippur, iniziata 50 anni fa con un devastante attacco a sorpresa, oggi Israele ha sentito la verga del rimprovero.
Ci sono molte lezioni che possiamo imparare dai terribili eventi di oggi. Umiltà, consapevolezza, preparazione. Soprattutto, speriamo e preghiamo che a Israele venga ricordato che può continuare a fare affidamento sul Signore.

(Israel Heute, 7 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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"Quanto sta succedendo in Israele è di una gravità senza pari"

Riportiamo un post inserito sui social che l'autore ci ha comunicato per conoscenza.

Interrompo l’abituale silenzio shabbatico perché quanto sta succedendo in Israele è di una gravità senza pari; al momento, secondo notizie che arrivano direttamente dalla direzione ospedaliera, ci sono oltre 100 morti israeliani (in gran parte civili) e 900 feriti (ma saranno di più perché bisogna informare i familiari prima di renderli ufficiali), senza contare le persone che sono state rapite. Non intendo pubblicare qui le terribili scene che ho visto, con morti trucidati nelle loro auto in autostrada, anziani, donne e bambini presi prigionieri, israeliani che si nascondono nei bidoni della spazzatura, terroristi entrati nelle case private… (non aggiungo altro), e alcuni villaggi completamente nelle mani dei terroristi. È vero che alcuni terroristi sono già stati fatti prigionieri, ma su questo più sotto dirò il mio parere, ma prima che i riservisti siano arrivati nei posti di combattimento sarà terminata la prima giornata di GUERRA.
E allora permettetemi di dire il mio pensiero che coloro che mi seguono forse già immaginano. Non più tardi di giovedì sera ho scritto: “non vorrei che oggi, a distanza di 50 anni, Israele ricadesse nell’errore di sentirsi troppo sicuro, come il 6 ottobre del 1973”. Già, avevo visto giusto, ahimè, e la colpa ricade tutta, sugli alti gradi dei militari che, come i giudici della Corte Suprema, costituiscono una casta, e sui politici, anche Netanyahu, che sono sempre andati dietro alla loro volontà timorosi di ciò che il mondo direbbe se… Pochi mesi fa osservai in un post che non si può pensare che dei giovanissimi militari rimangano per ore ed ore (allora, sul confine egiziano, in turni di 12 ore) sempre vigili. Come spiegare altrimenti che i terroristi siano penetrati in massa in Israele, armati di tutto punto? Ci saranno le solite commissioni d’inchiesta, ma i colpevoli non si auto-accuseranno. Come è possibile che i carristi si facciano prendere prigionieri, estratti letteralmente dal loro carro armato? Evidentemente hanno ordini categorici di non sparare se… Mancano le guide in Israele all’altezza della situazione.
Scusate la durezza del mio sfogo, ma da tempo avevo capito che coloro che aprivano i miei occhi su questa realtà avevano ragione; essere con Israele è dire anche questo.
Emanuel Segre Amar

(Notizie su Israele, 7 ottobre 2023)

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La Guerra del Kippur e una lettera per Roma: ‘’I ragazzi arrivavano di corsa con il talled in mano’’

Per ricordare il cinquantesimo anniversario della Guerra del Kippur, riportiamo di seguito una lettera pubblicata su “Shalom” nell’ottobre del ‘73 che ci restituisce la cronaca di quei drammatici giorni. Miki racconta nella missiva ai genitori in Italia cosa accade: il repentino passaggio dai momenti di preghiera durante Kippur al campo di battaglia, la sorpresa dell’attacco, la mobilitazione della popolazione israeliana animata da un forte senso di appartenenza e solidarietà: i giovani che vanno al fronte, i civili preparano rifugi e donano il sangue e i bambini che aiutano come possono.  

Gmar Hatima Tovà, Carissimi.
Giorno 6. Sono stata così felice di avervi potuto parlare stasera nonostante tutte le difficoltà sopravvenute all'ultimo momento. Non so quando potrò spedirvi la presente ma vi prometto che la prima lettera a lasciare Israele sarà la vostra.
Sapevamo da una quindicina di giorni che qualcosa si stava preparando nel Golan e quando sono stata per il week-end a Mayashrim era evidente che lo scoppio era molto vicino ma tutti pensavamo ad una azione localizzata e non ad una guerra.
Ieri sera Dany che mi è molto amico è arrivato in licenza dal Sinai dove serve in una postazione radar, poi Alex è arrivato dal Golan, ma nello stesso istante una jeep militare è venuta a prelevarlo e Noemi ha fatto solo in tempo a dargli un po' di biancheria pulita prima che raggiungesse la sua compagnia sul Golan. Ma eravamo senza radio e senza notizie, tutto era chiuso per motivi religiosi da ieri alle 2 del pomeriggio. Ciononostante tutto sembrava calmo ma quando sono uscita stamane invece di trovare le strade deserte c'erano macchine dell'esercito che hanno incominciato a circolare, dei camion, degli autobus con dei grandi manifesti «Esercito, servizio di difesa ecc... » Poi una serie di doppi «bang» degli aerei e allora la gente ha capito che una tale infrazione alla legge del Kippur significava che qualcosa di grosso stesse avvenendo.
Poi sono stata chiamata ad un punto di prelevamento per soldati in caso di emergenza e ho passato lì tutta la mattinata. Vedevo arrivare soldati correndo da tutte le parti e con tutti i mezzi di locomozione disponibili per aspettare i camion militari che regolarmente si fermano per portarli sui fronti.
È stato uno spettacolo straziante dato che la maggior parte di questi ragazzi erano accompagnati dalle famiglie ed alcuni arrivavano ancora con il talled in mano (erano appena stati prelevati dal Tempio) e se lo levavano in attesa del camion. C'era un giovane ufficiale che aveva indossato la camicia dell'esercito su un paio di blue jeans e una signora anziana, la nonna, che cuciva velocemente un distintivo militare sul pantalone regolare; è arrivata in tempo a finire mentre arrivava il camion. Purtroppo lo stesso camion era già lontano quando è giunto trafelato e correndo con tutte le sue forze un ragazzino con un paio di stivaletti e una sacca militare. Egli ha talmente pianto che la signora anziana lo ha preso in braccio ed era talmente commossa che piangeva quanto lui; è stato a questo punto che non sono più riuscita a trattenere le mie lacrime.
Il mio vicino è appena sceso per salutarmi con il suo cane lupo; entrambi hanno già fatto la guerra dei 6 giorni. Sua moglie faceva eroici sforzi per sembrare calma e naturale.
L'allarme ha interrotto il silenzio nel quale eravamo immersi e allora la radio ha annunciato che eravamo in guerra e che la trasmissione avrebbe avuto carattere continuo.
Degli ordini sono stati dati per l'oscuramento e i ragazzi che ne sono responsabili sono scesi in tutti i palazzi al fine di preparare i rifugi, come glielo hanno insegnato a scuola con riserve di lumi, candele e acqua.
Giorno 8. Dany è stato ferito e non potrò mai dimenticare il viaggio che ho fatto in compagnia di sua madre per andare all'ospedale di Gerusalemme; questa povera donna, ignara di quanto era successo al figlio e che pregava Dio con fervore per ritrovarlo «intero». Per fortuna Dany non è grave, gli hanno tolto chili di piombo dalla schiena, dalle braccia, ma lui non si dà pace preoccupandosi soltanto del luogo dove sarà rimandato uscendo dall’ospedale, in quanto la sua postazione è stata rasa al suolo di sorpresa.
La popolazione si dimostra pari all'esercito e non è poco. Ci sono troppi volontari dappertutto e la radio ripete continuamente che le banche del sangue hanno una riserva massima e prega i donatori di non presentarsi più per non ingombrare i servizi.
I bambini hanno funzione di postini e si incaricano di togliere le immondizie. Le donne si sono presentate nelle fabbriche al posto dei mariti e il primo sforzo dell'Italia in questo conflitto è forse quello rappresentato dalla mia automobile con la quale faccio trasporti di truppa.
Ieri ho accompagnato il Generale in un ospedale militare. È stata una cosa atroce vedere in una camera dei giovani senza braccia, senza gambe, alcuni ciechi che pregavano le signore venute con regali di non farlo più versando ogni lira al Governo.
Abbiamo bisogno di denaro, ancora denaro, null'altro che denaro.
E tu, mamma cara, aiuta Aviva quanto puoi e cerca di fare quanto facesti durante la guerra dei 6 giorni raccogliendo il massimo che puoi.
I nostri ragazzi sono meravigliosi e il loro morale è alle stelle.
Lavoro giorno e notte con tutto il cuore, non siate preoccupati per me, siamo al sicuro e sono io che mi preoccupo sapendo quanto tremiate per me.
Mamma manda soldi, papà fai il massimo per questo Paese per il quale darei la mia vita.
Giorno 9. Ho appena saputo della morte di Dany; non ce la faccio più a scrivere.
Telefonerò stasera
Miki

(Shalom, 6 ottobre 2023)


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La Guerra del Kippur e i 100 chili d’oro: “Sarà per Israele il petrolio degli ebrei romani”

Fu per libera scelta e non per cedere a un ricatto che cinquant’anni fa gli ebrei romani si mobilitarono per raccogliere 100 chili d’oro da destinare ad Israele durante la Guerra del Kippur. Accadde proprio nella ricorrenza della razzia del 16 ottobre 1943: con un senso di rivalsa nei confronti della storia, memori di ciò che avevano fatto i loro genitori e nonni e della raccolta dei 50 chili d’oro estorti dai nazisti agli ebrei romani, un gruppo di persone ebbe l’idea “di rispondere al petrolio arabo con l'«oro di Roma», quello dei braccialettini delle donne, delle catenine dei figli” come ci racconta la cronaca riportata a caldo da “Shalom” dell’epoca. In quelle ore arrivarono in migliaia in comunità e chi aveva donava per aiutare Israele. C’erano anche i sopravvissuti ai campi di sterminio. Ad un certo punto arrivò Settimia Spizzichino… Ripercorriamo la vicenda della raccolta dei 100 chili d’oro attraverso le pagine di “Shalom” di ottobre – novembre 1973…

La raccolta dei 100 chili d’oro

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Nata fra molte polemiche e alcune incertezze, l'iniziativa di raccogliere l'oro nella ricorrenza del 16 ottobre, ha dimostrato nei fatti la sua validità. Già dalle prime ore della mattina un flusso ininterrotto di persone ha cominciato ad affollare la stretta scala che porta ai locali del centro sociale che erano stati disposti per la raccolta.
   Un'enorme e vitale confusione di donne, bambini, gente semplice che portava il proprio «oro» di famiglia. Alcuni si sfilavano la fede (che veniva però rifiutata) altri facevano offerte inconsuete: chi un terreno e, nel caso di una signora vedova e nemmeno troppo abbiente, l'appartamento, la propria unica rendita.
   Ad un certo punto è venuta Settimia Spizzichino, l'unica donna fra i deportati del 16 ottobre che sia tornata dai campi di sterminio. Aveva parlato poco prima alla radio sulla sua tragica esperienza nella rubrica «Il Gazzettino» e aveva concluso con espressioni di speranza per la pace. Quasi tutti l'avevano ascoltata e le donne vedendola si commuovevano «Settimia, mi ha fatto piangere».
   Qualcuno aveva già regalato il suo oro, qualcuno ancora no, la tendenza era di rimanere sul posto a discutere e commentare, e i dirigenti si dovevano sbracciare a pregare la gente di fare largo e di recarsi a parlare altrove. I sacchetti di carta si riempivano e andavano a riempire altri sacchi mentre gli incaricati della Keren Hayesod si affannavano a scrivere le ricevute. In serata la raccolta aveva già superato il termine prefissato di 100 kg. Si è prolungata ancora nella mattinata seguente.
   Oltre all'oro da fondere sono stati raccolti e messi da parte per la vendita un numero considerevole di oggetti di pregevole fattura e perciò non adatti allo squaglio.

Il petrolio degli ebrei di Roma

Pochi li conoscono con il loro vero nome, ma li chiamano come già chiamavano i loro padri, con soprannomi coloriti che hanno dietro chissà quali storie lontane: i personaggi caratterizzanti del vecchio ghetto di Roma, personaggi che non riflettono la composizione media dell'ebraismo italiaпо, professionisti, piccoli e medi borghesi, ma costituiscono proletariato ed in qualche caso sottoproletariato. In più sono tra i non molti autentici romani rimasti a Roma. È tra loro che ha trovato terreno l'idea-sfida di raccogliere in un giorno - nello stesso giorno in cui esattamente trenta anni prima i tedeschi razziavano il ghetto deportandone gli abitanti – il doppio dell'oro estorto dai nazisti alla fine di settembre del 1943 con la mendace promessa di lasciare salva la vita degli ebrei. 50 chili d'oro chiesero ed ebbero i nazisti, 100 chili si sono ripromessi di raccoglierne gli abitanti del ghetto, oggi. «Non possiamo sempre subire ha detto qualcuno di loro - quei tempi sono finiti e non lasceremo che ritornino». Così hanno deciso, forzando la mano dei dirigenti della Comunità, assai perplessi, di dare il via all'operazione di raccolta destinata a Israele.
   I rapporti tra questi ebrei romani e Israele sono improntati tutti al sentimento, ma dietro a questo sentimento c'è la consapevolezza che Israele rappresenta la salvaguardia non tanto della vita quanto della dignità ebraica: e qui a Roma la dignità ebraica è stata per troppi secoli calpestata dai Papi perché il ricordo non diventasse atavico e strutturale. Non sanno forse molte parole d'ebraico, nessuna forza al mondo li spingerebbe a lasciare la città in cui si perdono le loro origini, ma sono sordi agli eleganti «distinguo» dei comunisti sull'antisemitismo.
   Loro che sionisti non sono hanno avvertito che nella guerra contro Israele c'è qualcosa di più che un confronto politico e militare.
   La loro risposta alla quarta guerra mediorientale non è stata forse in un primo momento così emotivamente drammatica come nei giorni del giugno 1967 quando sembrava che Israele dovesse soccombere trascinando nella caduta tutto il popolo ebraico, ma via via che i particolari del potenziale bellico arabo sono venuti alla luce l'emozione di allora è tornata. Gli ebrei della «piazza» non hanno forse molte sottigliezze politiche, ma hanno sentito delle potenti batterie missilistiche fornite agli arabi dall'URSS insieme con i carri armati, le artiglierie, e tutte le armi sofisticate della guerra moderna. E soprattutto sanno di quanto denaro dispongono gli arabi.
   Da qui l'idea-sfida di rispondere al petrolio arabo con l'«oro di Roma», quello dei braccialettini delle donne, delle catenine dei figli.
   Il 16 ottobre 1973 sono affluiti a migliaia. Forse non avevano in tasca le 10.000 lire da lasciare, ma l'oro si, perché il popolo romano ha sempre amato i monili, quelli che si possono portare al Monte di Pietà nei momenti difficili e ritirare prima delle feste, delle nascite, dei matrimoni dei «bar-mizwà», le maggiorità religiose dei figli.
   Questa risposta popolare ha prima stupito i dirigenti comunitari, poi li ha sommersi nell'ondata emotiva.
   Il traguardo dei 100 chili d'oro è stato raggiunto. Sarà per Israele il petrolio degli ebrei romani. Ma un petrolio infinitamente più faticato.

(Shalom, 6 ottobre 2023)

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Fino al prossimo 8 ottobre, in Calabria i rabbini per la raccolta dei cedri

Il "frutto sacro" è utilizzato nella rievocazione del periodo trascorso nel deserto dal popolo ebraico, dopo l'Esodo biblico dall'Egitto, prima di raggiungere la Terra di Israele .

Decine di rabbini si sono dati appuntamento nelle ultime settimane a Santa Maria del Cedro, in provincia di Cosenza, per la raccolta a scopo rituale dei cedri destinati alla "Festa delle Capanne", che, iniziata il 29 settembre in tutte le comunità ebraiche sparse nel mondo, si concluderà domenica prossima, 8 ottobre.
   Il "frutto sacro" è utilizzato nella rievocazione del periodo trascorso nel deserto dal popolo ebraico, dopo l'Esodo biblico dall'Egitto, prima di raggiungere la Terra di Israele, promessa da Dio ai discendenti di Abramo.
   Nel tempo, a Santa Maria la coltivazione del cedro si è radicata sempre più, con la nascita di numerose aziende agricole specializzate. Il frutto, grazie all'attività di promozione svolta dall'omonimo consorzio, ha anche ottenuto a maggio scorso l'iscrizione nel registro delle Denominazioni d'origine protette, con il nome di "Cedro di Santa Maria del Cedro Dop".
   Le imprese cedricole destinano soltanto il 25-30% della produzione al settore alimentare, mentre la parte restante va alla ben più remunerativa vendita ai rabbini. L'acquisto da parte degli ebrei avviene per singolo frutto, con prezzi che variano dai 15 ai 40 euro, secondo gli accordi tra le parti e, soprattutto, in base alla qualità del prodotto, stabilita con canoni estetici riguardanti la forma (dritta e simmetrica) e la purezza (buccia priva di graffi, muffe e funghi, che renderebbero il cedro non adatto all'alimentazione degli ebrei.
   Durante la raccolta, tra agosto e settembre, i cedricoltori staccano dalle piante soltanto i frutti migliori indicati loro dai rabbini dopo un'attenta valutazione. Una seconda selezione viene fatta poi a tavola, con i rabbini che analizzano ogni singolo frutto servendosi anche di lenti di ingrandimento. I cedri, così scelti, vengono dunque acquistati, conservati con attenzione in apposite cassette dotate di imbottiture in spugna, caricati su camion e trasportati in aeroporto per poi volare oltreoceano, destinazione New York. Da qui, vengono venduti alle comunità ebraiche sparse nel mondo.
   L'attività delle aziende cedricole è fiorente. L'unico problema che devono affrontare è la mancanza di manodopera, sia fissa che stagionale

(TGR Calabria, 6 ottobre 2023)

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Ve-zot Ha-Berakhà: Non vi fu, ne vi sarà mai nessuno come Moshè

di Donato Grosser

Alla fine di questa parashà, l’ultima della Torà, è scritto: “Non è mai più sorto in Israele un profeta come Moshè, al quale l’Eterno si rivelò faccia a faccia, come evidenziato da tutti quei segni e miracoli che l’Eterno lo mandò a fare nel paese d’Egitto, al Faraone, a  tutti i suoi ministri e a tutto il suo paese; né simile a lui per quegli atti potenti e per tutte quelle gran cose, che Moshè fece alla presenza di tutto Israele” (Devarìm, 34: 10-12).
            Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel suo commento alla Mishnà (Sanhedrin, decimo capitolo) elenca i tredici principi basilari della Torà che impegnano ogni persona d’Israele. Questi principi sono riassunti nel piyùt (poesia) “Igdàl” che viene cantato il venerdì sera nelle sinagoghe alla fine della tefillà di ‘Arvìt. Il settimo principio afferma che non vi fu né vi sarà mai un profeta come Moshè.
            Il piyùt inizia con la parola “Igdàl” che significa “sia esaltato il Signore”. Con la parola “Nimtzà” viene  presentato il primo principio, quello dell’esistenza del Creatore. Con la parola “Echàd” che Egli è uno e unico. Con “En lo demùt ha-guf” che l’Eterno non è corporeo. Con “Kadmòn” che Egli è eterno. Con “Hinò adòn ‘olàm” che non si deve pregare altro che a Lui. Con “Shèfa’ nevuatò” che l’Eterno comunica con gli esseri umani tramite i profeti. Con “Lo kam be-Israel” che non vi fu mai profeta come Moshè. Con “Toràt emèt” che la Torà è tutta di origine divina. Con “Lo yachalìf” che la Torà è immutabile. Con “Tzofè ve -yodèa’” che l’Eterno è onnisciente. Con “Gomèl” che l’Eterno ricompensa i giusti e punisce i malvagi. Con “Yishlàkh” che alla fine dei giorni l’Eterno manderà  il Mashìach. Infine con “Metìm yechayè” che quando l’Eterno vorrà, avrà luogo la resurrezione dei morti. 
               Riguardo al settimo principio, il Maimonide scrive che bisogna sapere che Moshè è il supremo di tutti i profeti che lo hanno preceduto e di tutti quelli che lo hanno seguito. E tutti sono inferiori al suo livello. Ed egli è l’eccelso di tutto il genere umano, che comprese del Signore più di quanto comprese e comprenderà ogni altro essere umano esistito o che esisterà. E che Moshè giunse al limite dell’elevazione umana, al punto di raggiungere un livello angelico.  
            Le differenze tra la profezia di Moshè e di quelle degli altri profeti sono quattro: la prima differenza è che gli altri profeti non comunicano direttamente con l’Eterno ma con degli intermediari angelici. Moshè invece comunicava senza intermediari come è detto: “Faccia a faccia”. La seconda differenza è che la visione profetica agli altri profeti giunge  in sogno oppure di giorno quando il profeta è preso da una “trance”, va in estasi e perde il controllo dei sensi. A Moshè invece la profezia arrivava di giorno mentre era sveglio e si trovava nella tenda dell’assemblea. La terza differenza è che quando a un profeta arriva una visione profetica, anche se gli arriva tramite un angelo, perde le forze e cade terrorizzato come se fosse di fronte alla morte, come avvenne con Daniel (10: 8-16). A Moshè invece la parola divina arrivava nello stesso modo in cui due persone parlano l’uno con l’altro, senza alcun tremore, grazie alla capacità del suo intelletto di connettersi con il divino. La quarta differenza è che a tutti i profeti, la profezia non arrivava quando la desideravano, ma solo a seguito della volontà divina. Alcuni profeti attesero per anni di ricevere la profezia. Moshè invece poteva ricevere la profezia quando voleva. Questi sono i motivi per cui cantiamo: “Non sorse mai in Israele nessun profeta come Moshè”.

(Shalom, 6 ottobre 2023)
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Parashà della settimana: Vezot ha berachà (Questa è la benedizione)

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Non c’è Stato d’Israele democratico che non sia anche Stato ebraico

Il fervore messianico dell’estrema destra vorrebbe abbandonare il concetto di “democratico”, ma il fervore messianico dell’estrema sinistra vorrebbe cancellare il concetto di “ebraico” contraddicendo se stessa.

La Dichiarazione d’Indipendenza occupa un posto d’onore nelle celebrazioni israeliane. Benché non sia una Costituzione, si tratta di un documento fondativo, riconosciuto come tale nella Legge Fondamentale su Libertà e Dignità umana. Questa riconoscimento è basilare.
La frase “stato ebraico” compare più volte nella Dichiarazione d’Indipendenza. Non compare invece la parola “democratico”, ma il testo della Dichiarazione stabilisce che Israele “assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso; garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura; salvaguarderà i Luoghi Santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”. Ciò mette in chiaro che Israele non è solo democratico, ma anche liberale nella sua essenza....

(israele.net, 6 ottobre 2023)

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Quando re Hussein avvertì Israele sulla Guerra del Kippur

50 anni dopo dagli archivi i dettagli sull'incontro con Golda Meir

TEL AVIV - Nell'imminenza della guerra del Kippur - lanciata simultaneamente dagli eserciti di Egitto e Siria nell'ottobre 1973 - Israele ricevette un avvertimento da re Hussein di Giordania.
   Era il 25 settembre quando Hussein incontrò a Tel Aviv la premier di Israele Golda Meir.
   "Le forze siriane - disse - hanno completato i preparativi, aviazione e missili inclusi. Devono avere la sembianza di esercitazioni, ma secondo le mie informazioni si apprestano a lanciarsi in avanti". La Meir gli chiese se i siriani avrebbero sferrato un attacco da soli, o assieme con l'Egitto. "Fra loro c'è piena collaborazione", rispose il sovrano hashemita. Al termine di quel drammatico incontro, il segretario della Meir Eli Mizrahi scrisse un documento che sarebbe stato poi affidato agli archivi di Stato. Da tempo il suo contenuto era di dominio pubblico: ossia che la Giordania aveva messo in guardia Israele della minaccia incombente.
   Adesso quel testo storico è reperibile sul web. Si è appreso così che nei messaggi segreti re Hussein era chiamato con il nome in codice 'Lift'. Nel 50esimo anniversario di quella guerra, il mese scorso gli archivi hanno infatti messo a disposizione del pubblico 3.500 dossier con centinaia di migliaia di pagine. Un evento che ha riattizzato aspre polemiche sulle responsabilità del governo Meir. Da questi documenti si apprende fra l'altro che da mesi Hussein avvertiva, con crescente insistenza, sia gli Stati Uniti sia Israele della tempesta in arrivo. In codice aveva anche un altro nominativo: 'Yanuka', poppante. Ciò perché era stato proclamato re a soli 17 anni. Il 12 giugno 1973 'poppante' incontrò a Washington l'ambasciatore d'Israele Simcha Dinitz e lo aggiornò sui tentativi di Siria ed Egitto di trascinare il suo Paese in un attacco contro Israele, per recuperare i territori perduti nel 1967 nella guerra dei Sei giorni. Il re disse che i progetti - a cui si opponeva - prevedevano lo schieramento in Giordania di forze egiziane e siriane, sotto comando egiziano. In extremis, il 25 settembre Hussein cercò ancora di avvertire Israele. Ma anche nei giorni seguenti l'intelligence militare stimava che fossero basse le probabilità di una guerra. Gli spostamenti sul fronte egiziano - fu assicurato alla Meir, secondo Eli Mizrahi - avevano "carattere difensivo". Dagli archivi risulta che all'alba del 5 ottobre il capo del Mossad Zvi Zamir volò all'estero e che poi la aggiornò nel cuore della notte. Aveva incontrato a Londra - secondo un libro pubblicato di recente dal Mossad - 'l'Angelo': il funzionario egiziano Ashraf Marwan, intimo del presidente Anwar Sadat. E 'Angelo' confermava l'imminenza della guerra. Seguirono ore convulse, con un richiamo parziale di riservisti. Poi alle ore 14 del 6 ottobre partì il blitz siro-egiziano sul Golan e nel Sinai che avrebbe spiazzato Israele, costringendolo ad affrontare la sfida militare più grave della sua storia.
   L'apertura degli archivi ha rispolverato vecchie ruggini fra i servizi di sicurezza. Al capo dell'intelligence militare Eli Zeira e al capo dell'aviazione Benny Peled viene attribuita da alcuni un'errata sicumera nell'analizzare le capacità offensive arabe. Altri, come il direttore di Haaretz Aluf Ben, accusano invece il governo Meir di miopia politica: di non aver cioè saputo (o voluto) verificare, già in una consultazione ministeriale del 18 aprile 1973, la disponibilità ad un accordo da parte del presidente egiziano Sadat.

(ANSAmed, 4 ottobre 2023)

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Pio XII. Il Papa anti-Cristo

Abbiamo ricevuto da Gerusalemme e pubblichiamo molto volentieri questo poderoso articolo di un nostro sincero e costante amico. NsI

di Fulvio Canetti

Come dimenticare quel Signore vestito da stregone e portato su di una sedia dorata, che dall’alto di questa inviava segnali con le mani alla folla raccolta nella basilica di San Pietro in Roma? È consuetudine vaticana quella di chiudere le porte della basilica quando il Papa si presenta alla folla dei fedeli, a cui impartisce le sue formule di benedizione. Avevo allora circa dieci anni quando insieme alla mia mamma (z.l.) eravamo in visita proprio nella basilica di San Pietro. Ricordo benissimo che, all’arrivo del Papa, le porte si chiusero, mentre io e la mamma, senza renderci conto di cosa stesse accadendo, venimmo a trovarci fuori dalla basilica. Eravamo gli unici due sul sagrato, dove non c’era anima viva. L’atmosfera che si respirava, sembrava quella delle favole, dove ogni cosa finisce bene. E la nostra storia grazie a D-o finì proprio bene perché ambedue fummo salvati da quelle formule magiche di benedizioni, in odore di idolatria. Ma chi era questo Eugenio Maria Giovanni Pacelli figlio di Filippo, un avvocato della Sacra Rota vaticana? Era il Papa Pio XII, salito al soglio pontificio nel marzo del 1939 A.D. con il benestare dei regimi totalitari nazi-fascisti e delle frange oltranziste della Curia di Roma. Fu un ottimo biglietto di presentazione da esibire nelle cancellerie d’Europa, nel momento in cui la Germania nazista si apprestava a dichiarare guerra al mondo, avendo già pronto nel cassetto il programma assassino dello sterminio del popolo ebraico (Shoà). È impensabile che un Papa come Pio XII non conoscesse la situazione drammatica del momento, come già accaduto con gli accordi di Monaco del 1938 firmati dal primo ministro britannico Chamberlain. È stata la capitolazione delle libertà europee, portata avanti da una società senza D-o, che potremmo definire anti-cristiana. Pio XII è stato definito dal giornalista britannico John Corwell ‘’Il Papa di Hitler’’, da David Kertzer ‘’Un Papa in guerra’’, ma sarebbe più giusto definirlo il Papa anti-Cristo, che, cavalcando la tigre del Nazismo, ha reciso completamente le radici ebraiche di Gesù, a favore di un paganesimo barbaro e violento, che ha portato l’Europa alla rovina morale. 
   Forti del loro potere assoluto i Signori della guerra, hanno cercato di emulare l’esempio di Babele, ma hanno fatti i conti senza l’oste cioè senza D-o, che ha ascoltato il grido di dolore del suo popolo, scendendo nel mondo per rendere giustizia ai figli prediletti. Pio XIIl’anti-Cristo ha avuto il coraggio di tacere sul genocidio di esseri umani, sperando nella vittoria delle tenebre sulla luce, ha avuto il coraggio di non condannare le leggi razziali del 1938 in sintonia con il re di Piemonte, ha avuto il vile coraggio di rapire bambini ebrei nascosti nei conventi durante la Shoà, privando costoro per sempre delle loro famiglie. Eppure è stata proposta per questo signor Papa una solenne beatificazione! Il coraggio della vergogna di certo non manca nei circoli del potere Pontificio, che si ammanta di una falsa umanità finalizzata unicamente al proprio interesse.
   Si stanno aprendo ora con notevole ritardo, gli archivi vaticani riguardanti il periodo del suo pontificato e si comincia a vedere da documenti finora inediti, che questa sua presunta ‘’santità’’ cede il passo alla ‘’leggenda nera’’ cioè a quella di un Papa animato da indifferenza se non da compiacimento verso la tragedia delle vittime. Sapeva tutto quello che c’era da sapere sui Lager di sterminio nazisti, come testimoniano le lettere private sfuggite alla distruzione, ma nessuna parola ‘’ pubblica’’ di condanna osò proferire: silenzio assordante. Non protestò contro la violenta occupazione nazista di Roma, ma per confondere le anime, bisognava mettere alle sue mancanze una facciata di moralità ‘’cristiana’’, offrendo rifugio nei conventi a ebrei e antifascisti. Di certo un rifiuto di aiuto sarebbe stata un’accusa manifesta nei confronti del Papa e la cornice di umanità sarebbe venuta a cadere, mettendo in luce la connivenza con le forze del male. Questa scelta politicamente ‘’obbligata’’ è diventata poi il cavallo di battaglia dei suoi difensori, per occultare le sue inadempienze morali verso il prossimo e verso D-o.  Pio XII nei fatti ha scelto la strada politica, tralasciando quella morale, un comportamento questo indegno e vergognoso per il principe della religione sedicente cristiana.

(Notizie su Israele, 6 ottobre 2023)

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L’Arabia si avvicina: tra Israele e i sauditi un accordo è possibile? Forse sì…

Incontri defilati e non ufficiali. Colloqui segreti che si sono moltiplicati in questi mesi. L’obiettivo? Un avvicinamento concreto tra sauditi e israeliani (a mediare ci pensano gli inviati della Casa Bianca). Molti i possibili vantaggi per tutte le parti. Ma gli ostacoli sono numerosi: primo fra tutti, la questione palestinese, su cui i sauditi chiedono concessioni tangibili da parte di Israele.

di Giovanni Panzeri

La svolta potrebbe essere epocale ma la tela su cui sono chini i tessitori è ancora lontana dall’essere terminata. Israele, Usa e Arabia Saudita: un accordo porterebbe grandi vantaggi ma la strada per ottenerlo è ancora irta di ostacoli. Secondo un report del New York Times, i recenti tentativi da parte della Casa Bianca di verificare l’interesse dei Sauditi verso un accordo che preveda, tra le altre cose, il riconoscimento diplomatico dello Stato d’Israele sarebbero andati incontro a un certo successo.
   Parlando ai suoi sostenitori il 28 Luglio il Presidente Joe Biden avrebbe affermato che “potrebbero esserci segni di avvicinamento tra le parti”, evitando di entrare nei dettagli. E il giorno prima, sempre secondo il New York Times, Jake Sullivan e Bret Mcgurk – rispettivamente il consigliere di Biden per la Sicurezza Nazionale e il coordinatore responsabile per il Medio Oriente della Casa Bianca – si sarebbero recati per la seconda volta a Jeddah, incontrando il principe ereditario Bin Salman ed altri delegati sauditi per discutere della possibilità di un accordo.
   Inoltre secondo un recente scoop della testata Axios, i due inviati americani avrebbero incontrato più volte in segreto il direttore del Mossad David Barnea, per discutere della stessa questione. I termini dell’accordo sono stati, inoltre, apertamente discussi nell’incontro tra il Segretario di stato americano Blinken e il Ministro per gli affari strategici del governo israeliano, Ron Dermer, come riporta il Times of Israel del 25 agosto.

• I vantaggi di un possibile accordo
  Le tre nazioni avrebbero diverse ragioni per stringere un simile accordo: per parte loro gli Stati Uniti vorrebbero limitare le crescenti relazioni tra i sauditi e la Cina, inoltre un accordo sponsorizzato dagli Usa tra Israele e Arabia Saudita ristabilirebbe il loro prestigio nella regione, soprattutto se corredato da concessioni ai palestinesi e dalla fine della guerra in Yemen. L’Arabia Saudita dal canto suo vorrebbe stringere una formale alleanza difensiva con gli Stati Uniti, avere mano libera nel perseguire lo sviluppo nucleare in campo civile (una questione che ha precedentemente incontrato l’opposizione sia degli Stati Uniti che di Israele), e acquistare nuovi sistemi d’arma dagli USA, come il sistema di difesa missilistico antibalistico THAAD. Infine, un eventuale accordo rappresenterebbe una vittoria significativa per Netanyahu, che cerca da anni di guadagnare il riconoscimento formale di Israele da parte degli altri stati mediorientali, e inoltre permetterebbe di collegare l’Arabia Saudita alla ferrovia ad alta velocità pianificata tra la città di Kiryat Shmona e Eilat, sul Mar Rosso.

• Ostacoli significativi
  Ad oggi, però, un effettivo accordo tra le parti rimane improbabile, e rimangono grossi ostacoli e punti da chiarire. I due nodi principali sono essenzialmente collegati e sono la questione palestinese e la complicata situazione della politica interna di Israele: in particolare, la composizione del governo israeliano rende praticamente impossibili significative concessioni ai palestinesi, mentre l’attuale polarizzazione della politica israeliana, dovuta alla controversa riforma giudiziaria, rende poco probabile la formazione di un governo alternativo.
   Altri fattori che potrebbero presentare problemi sono l’opposizione in seno al partito democratico americano, e gli interessi sauditi nell’evitare di sabotare le proprie relazioni con la Cina, nel caso di un nuovo inasprimento dei rapporti con l’Iran. In questo senso sono interessanti alcuni recenti sviluppi, come l’ormai prossima entrata dell’Arabia Saudita e dell’Iran nei BRICS, e l’apertura da parte dei sauditi alla partecipazione cinese nello sviluppo del suo programma nucleare civile, orientata, per ammissione degli stessi sauditi, a fare pressione sugli USA.

• Le condizioni palestinesi
  Sempre secondo il New York Times, i Sauditi sarebbero disposti a considerare un accordo dietro ad una sola, eventuale, promessa da parte di Bibi Netanyahu di non annettere la Cisgiordania e fermare i coloni (un’opzione ipotizzata dagli americani, non dal governo israeliano). Avrebbero anzi chiarito agli inviati americani, a seguito dell’intervento diretto di Re Salman, che un accordo con Israele sarebbe possibile solo dietro significative e concrete concessioni ai palestinesi. L’Autorità palestinese ha recentemente presentato ai sauditi e a Washington una lista di condizioni per dare il suo supporto a un eventuale normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele. Secondo il Times of Israel queste condizioni includono “il riconoscimento dello stato palestinese da parte degli USA, soprattutto nell’ambito delle Nazioni Unite, la riapertura di un consolato americano per i palestinesi a Gerusalemme, l’abrogazione della legislazione statunitense che dichiara la AP, Autorità Palestinese, un’organizzazione terroristica, il trasferimento della West Bank sotto il controllo palestinese, e la demolizione degli insediamenti illegali”.
   Gli Stati Uniti hanno dichiarato che la AP dovrebbe rivolgere le sue proposte a Gerusalemme, visto che parte di esse richiederebbero comunque l’approvazione israeliana, e ha invitato i palestinesi a moderare le proprie condizioni, sottolineando come “richiedere il passaggio di alcuni territori dell’area C, sotto completo controllo Israeliano, alle aree A o B” – dove alla AP è riconosciuta una limitata autonomia- “sarebbe più realistico”. Come riportato da Haaretz lo scorso 30 Agosto, inoltre, i sauditi avrebbero offerto alla AP il rinnovamento dei finanziamenti alle istituzioni palestinesi, accompagnati da “significativi passi verso la realizzazione dello stato palestinese” in un eventuale trattato tra Israele e l’Arabia Saudita, se la AP si fosse dimostrata in grado di “contenere” la violenza nella West Bank. Haaretz riporta anche che l’Autorità Palestinese sta tenendo una serie di incontri e consultazioni con Egitto e Giordania per creare un fronte unito e fare pressione affinché qualunque trattato che preveda la normalizzazione dei rapporti con Israele includa “passi concreti verso uno stato Palestinese”.

• La posizione israeliana
  La posizione e le recenti dichiarazioni da parte del governo israeliano sembrano mettere seriamente in questione la natura di queste discussioni. Mentre Israele è interessato a un accordo con l’Arabia Saudita, sembra che il governo stia scommettendo sul fatto che il sostegno saudita alla causa palestinese sia puramente formale, e che, alla fine, i sauditi si accontenteranno di qualche concessione superficiale, che consenta loro di salvare la faccia, accompagnata dal consenso israeliano allo sviluppo di un programma nucleare. Durante il recente incontro tra Blinken e Dermer, gli ufficiali USA hanno dichiarato che i corrispettivi israeliani “non si rendono conto della reale situazione” e che “significative concessioni ai Palestinesi” saranno necessarie per raggiungere un accordo. Le componenti ultra-ortodosse del governo di Netanyahu ribadiscono da tempo, tuttavia, che per loro si tratta di chalomot! sogni!, e che qualunque accordo che preveda concessioni ai palestinesi è inaccettabile. “Non faremo nessuna concessione ai Palestinesi – ha ribadito il ministro delle Finanze israeliano Smotrich – tutto questo è pura finzione”.

(Bet Magazine Mosaico, 5 ottobre 2023)

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Azerbaijan. Nagorno Karabakh: l’intelligence francese riporta la collaborazione di Israele

di Giuseppe Gagliano

Secondo fonti dell’intelligence francese il comando militare dell’Azerbaigian ha avuto modo di rivolgere un sentito ringraziamento a Israele, nazione questa che ha dato un supporto militare ed di intelligence di grande rilevanza nel conflitto del Nagorno Karabakh. Il ministro della Difesa israeliano Eyal Zamir ha infatti avuto modo di recarsi a Baku sia per testimoniare la sua vicinanza e per assicurarsi della buona riuscita delle operazioni di supporto e sostegno a Baku.
   Baku ha avuto la fondamentale collaborazione sia del Mossad che dell’intelligence militare israeliana Aman’s Unit 8200. Inoltre Israele ha avuto modo di consegnare numerose armi e tra questi droni prodotti dalla Israel Aerospace Industries (IAI), dalla Rafael Advanced Defense Systems e dalla Israel Military Industries (IMI). Sempre secondo l’intelligence francese sono atterrati in Israele 15 aerei cargo azeri, per la precisione presso l’infrastruttura aerea militare di Ovda, nel deserto del Negev. Complessivamente negli ultimi sette anni sono atterrati presso questa infrastruttura aerea ben 92 aerei cargo azeri. Infine Israele avrebbe fornito anche supporto nel contesto della cyber warfare attraverso l’NSO Group.

(Notizie Geopolitiche, 5 ottobre 2023)

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Israele, 3,36 miliardi di dollari di investimenti nel settore della cybersicurezza nel 2022

di Silvia Valente

Le minacce senza confine «del nostro mondo interconnesso si vincono soltanto collaborando». E l’intensa cooperazione tra Italia e Israele nel campo della cybersicurezza, a livello sia istituzionale che privato, ne è un esempio virtuoso. Ma restano ancora molte opportunità da sfruttare nella sinergia tra i due governi e tra i due mercati. Questa l’opinione di Alon Bar, Ambasciatore d’Israele in Italia, che ha inaugurato il Padiglione Nazionale Israeliano presso CyberTech Europe 2023, il più grande evento europeo dedicato alla cybersicurezza, organizzato in collaborazione con Leonardo e giunta alla sua quinta edizione.

Raggiunge quota 745 milioni il capitale investito
  In particolare, Israele continua a distinguersi per le sue eccellenze tecnologiche anche nel mondo della cybersecurity, come rileva il Report dello Start-Up Nation Central. Con 55 hub, 459 aziende e 69 investitori attivi nel settore, 26 cicli di investimenti conclusi tra il quarto trimestre del 2022 e i primi tre mesi del 2023, ma soprattutto con 745 milioni di dollari di capitale investito.
   Sebbene i livelli di investimenti in cyber siano in riduzione rispetto al picco assoluto del 2021 (con 7,86 miliardi), i 3,36 miliardi del 2022 e i 650 milioni del primo trimestre 2023 hanno pareggiato se non superato i valori registrati negli anni pre-pandemici.
   L’ambito della cloud security ha raccolto il maggior flusso di investimenti, raggiungendo quota 324 milioni di dollari. Seguono, con distacco e a pari merito tra loro, la application security e la identity security con i rispettivi 80 milioni, mentre la data security si è fermata a 65 milioni. Tale classifica si spiega chiaramente guardando ai più grandi investimenti del primo trimestre 2023 che vede dominare l’investimento da 300 milioni di tre operatori di mercato per la cloud security platform Wiz.

Meno M&A  
  Anche a livello di operazione di fusioni e acquisizioni il picco nel mercato cyber israeliano si è raggiunto nel 2021, con 29 M&A per un valore di 3,14 miliardi di dollari. Eppure il comparto ha goduto di un trimestre relativamente forte in termini di somma totale di operazioni eseguite, con circa la metà delle exit totali nel 2022, 2020 e 2019. È interessante notare che ciò è avvenuto in assenza di IPO nel settore per oltre un anno. 
   Il report sulle startup israeliane evidenzia inoltre come la maggioranza delle aziende del mondo della cybersicurezza (51%) ha già realizzato prodotti. Nondimeno la maggior parte delle azioni del settore (27%) hanno tra gli 11 e i 50 dipendenti.

(Milano Finanza, 5 ottobre 2023)

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Presto saranno introdotti voli diretti tra Israele e Messico

Miri Regev
Il Ministro dei Trasporti israeliano Miri Regev ha raggiunto un accordo con il suo omologo messicano Jorge Nuno Lara e con il suo vice ministro Rogelio Jimenez Pons, responsabile per l'aviazione, per istituire voli diretti tra Israele, Città del Messico e Cancún, ha annunciato giovedì il Ministero dei Trasporti israeliano. Queste nuove rotte aeree ridurranno in modo significativo i tempi di percorrenza, che attualmente richiedono scali che prolungano il viaggio tra le 18 e le 30 ore.
   Per il momento, gli israeliani che desiderano recarsi a Città del Messico o nella località balneare di Cancún devono intraprendere viaggi che prevedono più scali in Europa, Stati Uniti o Canada.
   "I voli diretti tra Israele e Messico faranno risparmiare ai passeggeri molte ore e molto denaro", ha dichiarato Miri Regev, esprimendo il suo entusiasmo per questa nuova iniziativa. Va notato che la compagnia aerea nazionale israeliana, El Al, non ha in programma di lanciare voli diretti. La compagnia messicana Aeroméxico potrebbe quindi essere l'unica opzione.
   Durante la sua visita in Messico, la signora Regev ha avuto modo di ispezionare gli aeroporti di Città del Messico, in particolare il nuovo aeroporto internazionale "Felipa Angeles" e l'aeroporto internazionale di Cancún. Ha inoltre incontrato il ministro dei Trasporti di Città del Messico, Andres Lajo, per discutere delle sfide comuni in materia di trasporti, come la gestione della congestione e le soluzioni di trasporto intelligenti.
   Inoltre, Jorge Nuno Lara e Rogelio Jimenez Pons hanno ricevuto un invito ufficiale a partecipare a una conferenza internazionale sui trasporti, incentrata sull'intelligenza artificiale, che si terrà in Israele a novembre.

(i24, 5 ottobre 2023)

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‘’Shades of Israel’’: tre mostre per un ponte culturale tra Puglia e Israele

di Michelle Zarfati

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Un rapporto davvero stretto quello tra la Puglia e Israele. Nato nel 2021, e consolidato sempre di più anche grazie alla collaborazione tra Pugliapromozione e il Museo Ebraico di Lecce nell’ambito del FESR, in occasione della stagione 2023-2024. Un progetto prestigioso che intensifica sempre di più il ponte culturale, commerciale e turistico tra Italia e Israele. E sarà proprio una mostra la prova di questo rapporto. Grazie ad un percorso di arte israeliana contemporanea itinerante, a cura di Fiammetta Martegani, città e musei pugliesi ospiteranno alcuni esempi di arte israeliana nel Bel Paese.
   Tre mostre, dislocate e collocate in tre luoghi diversi racconteranno questo interessante e ricco rapporto tra l’Italia e lo Stato Ebraico. Rispettivamente le opere degli artisti israeliani potranno esser visionate a Lecce, presso il Museo Ebraico. Lì sarà visitabile “My Altneuland”, collettiva di dieci artisti israeliani contemporanei rappresentanti le diverse voci, religioni e identità di Israele. A Trani, presso il Castello Svevo dove si può visitare “Ludmilla”, personale di Maria Saleh, un’artista dalle mille sfaccettature e nazionalità: arabo israeliana-ucraina, già vincitrice nel 2023 del premio Rapoport come miglior artista israeliana dell’anno. Ed infine a Polignano presso Fondazione Pino Pascali, dove i visitatori potranno ammirare “Terra Infirma”, personale di Tsibi Geva, considerato tra i più importanti artisti israeliani contemporanei. Geva ha già rappresentato Israele nel corso della Biennale di Venezia del 2015. Artisti talentuosi ed ecclettici che porteranno un po' d’Israele in Puglia, con voci e tecniche diverse.
   Tutte e tre le esposizioni prendono il via adesso, nel periodo di Sukkot - la Festività ebraica delle Capanne – una festa carica di significato, che sottolinea ancor di più le idee di unione, fratellanza e scambio culturale. Una ricorrenza simbolica che intensifica la metafora di come l’arte e la cultura in generale possano essere un importante mezzo culturale di scambio per poter dialogare con le diverse culture.

(Shalom, 5 ottobre 2023)

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A Gerusalemme il ponte sospeso sull' 'Inferno'

Una escursione con suggestioni storiche nella valle della Geenna

di Aldo Baquis

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TEL AVIV - Sulla carta, il nuovo ponte sospeso inaugurato di recente a Gerusalemme promette emozioni forti. Oltre ad essere il ponte sospeso più lungo in Israele è situato in un posto altamente evocativo: in una vallata chiamata 'Gay ben-Hinnom' da cui è scaturito poi il termine inquietante di 'Gehennom' ('Geenna', in italiano) che nella letteratura biblica è indicato come uno di tre ingressi all'Inferno.
   Più precisamente, l'accesso sarebbe dissimulato fra due palme situate appunto nella valle di Hinnom, da dove secondo le scritture si leva costantemente una colonna di fumo.
   La valle si trova in prossimità delle mura della Città Vecchia, ai piedi del Monte Sion. L'ambiente circostante è molto sereno.
   Prima occorre superare la 'Cinemateque' di Gerusalemme, poi scendere per un sentiero e quindi aggirare un villaggio bucolico dove per la gioia dei bambini è stato ricreato un panorama di sapore biblico, con piccoli appezzamenti di terra coltivati con sistemi di duemila anni fa, dove qualche cammello sonnecchia sotto a un tendone.
   In tempi remoti, secondo la letteratura, qua invece bambini venivano immolati al dio Moloch. Quel posto si chiamava allora 'Tofeth', la fornace. Da qui tremila anni fa - attraversando nel 'Gay ben Hinnom' il confine fra i terreni della tribù di Giuda e quella di Beniamino - passarono gli uomini di David, messisi in marcia con spade sguainate in un braccio di ferro con il re Saul. E sempre qui, a partire dal 1948, correva il confine fra Israele e lo stato di Giordania, che sarebbe stato cancellato nel 1967 con la guerra dei sei giorni.
   Ma come il Rubicone e come il fiume Giordano anche la valle di Hinnom è sul terreno poca cosa rispetto alla celebrità accumulata nei secoli e oggi può essere attraversata comodamente a piedi, anche senza ponti. Ciò nonostante col sostegno delle autorità è stato realizzato un ponte sospeso lungo 200 metri e largo 130 centimetri, costato secondo la stampa l'equivalente di cinque milioni di euro. Si parte da una sorta di rampa per raggiungere, pochi minuti dopo, la parte opposta, dove c'è un'altra rampa. In alto, ma difficile da raggiungere, il monte Sion. Scrutando in basso dal ponte sospeso, nessuna traccia delle due palme con la colonna di fumo né dell'altare al dio Moloch, se mai c'è stato. Tuttavia per il turista di passaggio potrebbe egualmente diventare una meta obbligata da dove mandare a casa una foto-ricordo davvero invidiabile: 'Tanti saluti dalla Geenna'.

(ANSAmed, 3 ottobre 2023)

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Gli israeliani laici sono molto arrabbiati

Deve essere stipulato un nuovo patto tra israeliani religiosi e laici. E presto.

di Benjamin Kerstein 

Israeliani laici protestano durante lo Yom Kippur a Tel Aviv contro quella che considerano una coercizione religiosa
Durante il mio primo anno in Israele, io e la mia ragazza siamo stati portati da una guida turistica a Mea She'arim, uno dei quartieri più religiosi di Gerusalemme. La mia ragazza era vestita con una gonna e maniche lunghe, ma i suoi avambracci erano parzialmente esposti. Mentre stavamo tornando verso il centro della città, un'auto si è fermata accanto a noi e un uomo Haredi è saltato fuori, ha spinto la mia ragazza per i polsi e ha gridato: "Cosa, non sei decente?".
Prima che riuscissi a capire cosa stesse succedendo, l'uomo è risalito in macchina ed è partito a tutta velocità.
   Ero inorridito. Quell'uomo aveva il diritto di fare obiezioni, ma non quello di mettere le mani addosso a una giovane donna (violando così la sua stessa etica) e poi fuggire come un topo spaventato. Se avesse sostenuto le sue ragioni e affrontato le conseguenze delle sue azioni, avrei potuto avere rispetto per lui, ma non fece così.
   La sera successiva, la mia ragazza ed io ci siamo ritrovati nella piazza davanti al Muro del Pianto e abbiamo visto migliaia di persone salutare il santo Yom Kippur. Il venerato Rabbi Ovadia Yosef, ormai novantenne, celebrava la funzione. Sussurrava una preghiera in un microfono, il responsabile della preghiera la ripeteva e le migliaia di persone rispondevano - un grande ronzio di voci che si levava nella fresca aria autunnale.
   In quel momento ho capito quanto sia particolare l'ebraismo israeliano. A differenza dei ristretti raduni che conoscevo negli Stati Uniti, i raduni qui erano epici, sia per le dimensioni che per la storia. Un raduno simile non sarebbe possibile in nessun altro luogo. Avvertivo che il mondo ebraico ruotava intorno a questo asse.
   Mi resi conto allora di amare questo ebraismo come in gioventù non l’avevo mai amato, e persino odiato. Provo quindi solo gratitudine.
   Racconto queste due esperienze, avvenute a distanza di 36 ore l'una dall'altra, per dare una misura dell'ambivalenza con cui io - e molti altri israeliani - affrontiamo l'immenso e sempre più ampio divario tra israeliani religiosi e laici.
   Questo divario si è manifestato in tutta la sua evidenza durante lo Yom Kippur di quest'anno, quando un gruppo di attivisti di sinistra ha impedito a un'organizzazione ortodossa di tenere un servizio di preghiera pubblico separato per genere in piazza Dizengoff a Tel Aviv. Ho assistito a una piccola parte dello scontro - ma non alla violenza che si è verificata alla vigilia della festa - e ho scritto poco dopo che il mio unico sentimento era la tristezza. Mi sembrava di vedere due tribù contrapposte - di un  nuovo regno di Israele e un nuovo regno di Giuda - con tutto ciò che ne consegue.
   La reazione all'incidente si è divisa, come l'incidente stesso. I religiosi e i loro alleati di destra hanno per lo più denunciato gli attivisti come violenti, oppressori e persino antisemiti. La sinistra ha difeso gli attivisti e ha attaccato quello che considera un crescente estremismo religioso che minaccia il liberalismo e la democrazia israeliana.
   Io sono una persona laica e ammetto che, pur non approvando la decisione degli attivisti di interrompere la funzione anziché limitarsi a protestare, capisco i loro sentimenti. Il motivo dovrebbe essere ovvio: so da questa spiacevole esperienza a Gerusalemme (e da altre) che molti israeliani religiosi sono decisi a imporre i loro valori e le loro usanze agli altri in modi decisamente brutti. Questi valori e costumi inoltre sono spesso del tutto illiberali e insensibili o addirittura ostili alla democrazia. Quando questi israeliani religiosi accusano gli israeliani laici di aver imposto agli altri i loro valori e costumi , si tratta di una palese ipocrisia.
   Immagino che i religiosi che si sono riuniti in piazza Dizengoff non appartengono agli  Haredim, molti di loro vivono a Tel Aviv e non volevano imporsi a nessuno. Questo è un controargomento legittimo, ma bisogna capire che non ha importanza per gli israeliani laici. La separazione dei sessi potrebbe essere  un simbolo che li ha offesi tanto quanto gli avambracci scoperti della mia ex ragazza avevano offeso quell’uomo. Come gli ebrei religiosi di piazza Dizengoff, anche lei non voleva offendere nessuno, ma è stata trattata come se lo avesse fatto, e per le stesse ragioni.
   Ma il problema va oltre. In poche parole, gli israeliani laici sono stufi. A torto o a ragione, sono arrabbiati e non ne possono più. Sentono che per decenni sono stati gravati da un onere ingiusto nel servizio militare e in altri settori della vita, mentre i soldi delle loro tasse vengono sottratti e dati a persone religiose che li odiano e li considerano falsi ebrei. Questo può essere vero o meno, ma è così che si sentono e deve essere affrontato.
   Fino ad ora è stato mantenuto un patto sociale scomodo ma stabile: gli israeliani laici avrebbero continuato a tollerare una situazione che a loro non piace; in cambio il governo avrebbe protetto le loro libertà fondamentali dall'invasione religiosa e preservato il carattere di Israele come democrazia liberale essenzialmente laica.
   Agli occhi degli israeliani laici, quel contratto si è rotto, e a romperlo sono stati i religiosi. Vedono la campagna del governo per la riforma giudiziaria come un tentativo di rompere l'ultima linea di difesa dell'Israele laico - la Corte Suprema - e di imporre loro una tirannia teocratica che non vogliono e non tollereranno. Il senso di tradimento è immenso e la reazione immediata è la rabbia. Di fronte a questo, le sfumature del servizio di preghiera di Dizengoff scompaiono.
   Anzi, tutte le sfumature scompaiono. È inutile sottolineare che la maggior parte degli israeliani religiosi presta servizio nell'esercito o in qualche altra forma di servizio; che loro e anche molti haredim lavorano e pagano la loro giusta quota di tasse; che gli israeliani religiosi sono socialmente impegnati e fanno opere di beneficenza che vanno a beneficio di tutti noi; che non c'è nulla di intrinsecamente sbagliato nel fatto che uno Stato ebraico riconosca che i grandi studiosi della Torah sono un tesoro nazionale che dovrebbe essere sostenuto dallo Stato; e così via.
   È inutile sottolineare tutto questo, perché è un fatto che va avanti da molto tempo. Si basa su risentimenti, che almeno in parte sono giustificati. Ora niente più si ferma. A meno che il governo non rinunci alla sua campagna di riforma giudiziaria e faccia qualche concessione alla popolazione laica. Ma non c'è alcun segno che questo possa accadere a breve.
   Considero questo una tragedia, come è giusto che sia. Sì, ho avuto brutte esperienze con la religione in Israele, ma ho anche avuto esperienze trascendenti, come quella notte al Muro del Pianto. Ce ne sono state anche altre: la meravigliosa anarchia della funzione sefardita dello Yom Kippur nella sinagoga a due passi dal mio condominio. La vista di centinaia di ebrei tradizionali vestiti di bianco che sfilavano per le strade di Beersheva dopo aver rotto il digiuno. La mia ammirazione per le menti straordinarie di uomini come Yosef, che era un genio riconosciuto della Torah prima ancora di essere un adolescente. Quante volte ho appoggiato la fronte al muro, ho messo le mani sulla testa per bloccare i suoni e le immagini e sono entrato in un altro mondo. Tutto questo significa molto per me.
   Ma se vogliamo che continui a significare qualcosa, la destra israeliana deve mettere da parte i propri risentimenti e accettare quello che sta accadendo. Sono al governo, sono al potere, è una loro responsabilità. Il ruolo pubblico dell'ebraismo deve essere mantenuto, ma devono essere fatte anche delle concessioni. Le riforme giudiziarie devono essere abbandonate o modificate in modo sostanziale. Occorre trovare una soluzione al problema della coscrizione per gli haredim, che sia il servizio nazionale o qualcosa di simile. Una parte dei fondi che attualmente sovvenzionano le yeshivas e gli insediamenti dovrebbe essere dirottata per sovvenzionare gli alloggi, l'istruzione, le cure mediche e l'alimentazione di base per tutti gli israeliani. Già solo questo contribuirebbe a sanare le nostre ferite.
   Spero, ma non sono ingenuo. Non credo che il divario religioso-secolare possa mai essere completamente colmato. Le credenze e i valori delle due comunità sono semplicemente troppo diversi. Ma un consenso che permetta a  tutti di convivere è possibile. Per molto tempo l'Israele laico è stato disposto a tollerare il vecchio accordo, ma ora non è più disposto a farlo. Può essere in parte giusto e in parte sbagliato. Può essere giusto o ingiusto. Non importa. È necessario creare un nuovo accordo, ed è responsabilità di chi è al potere il farlo.
   Lo scontro di piazza Dizengoff dovrebbe essere il campanello d'allarme di cui hanno bisogno: è ora di cominciare.

(Israel Heute, 4 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Gli studenti della scuola ebraica ricevono il loro primo siddur

di Michelle Zarfati

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Radici, identità ebraica e tanto entusiasmo è quello che contraddistingue gli studenti della scuola elementare ‘Vittorio Polacco’, che proprio ieri hanno ricevuto il loro primo siddur (libro di preghiera).
   Gli studenti delle classi seconde, assieme ai loro genitori, hanno preso parte all’ormai consolidata cerimonia di consegna dei libri alla presenza del Rabbino Capo Riccardo Di Segni, del Presidente della Comunità Ebraica Victor Fadlun, dell’Assessore alla scuola Daniela Debach e all’Assessore alle politiche giovanili Ruben Benigno.
   Un momento speciale, il preludio di un percorso scolastico all’insegna dell’ebraismo e del rispetto per la propria identità culturale. “Ogni anno ci mettiamo sotto il talled e benediciamo i nostri bambini, eppure in realtà sono loro che benedicono loro” ha detto durante la cerimonia Rav Roberto Colombo.
   “Questi ragazzi sono il nostro bene più prezioso, sono orgoglioso della scuola” ha aggiunto il Presidente della Comunità Ebraica Victor Fadlun.
   Durante la cerimonia gli studenti hanno intonato un medley di canzoni ebraiche e dopo la berachà generale assieme a tutti i presenti la mattinata si è conclusa con lo Shemà cantato all’unisono sul nuovo siddur regalato agli studenti. Una tappa fondamentale non solo nel curriculum scolastico dei ragazzi ma anche per il loro bagaglio religioso e culturale.

(Shalom, 4 ottobre 2023)

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Alla CyberTech Europe 2023 Israele presenta le sue soluzioni cyber all’Italia ed all’Europa

L’Ambasciatore d’Israele in Italia, Alon Bar, ha presenziato alla cerimonia di inaugurazione del Padiglione Nazionale Israeliano presso CyberTech Europe 2023, il più grande evento europeo dedicato alla cybersicurezza, organizzato in collaborazione con Leonardo.

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Giunta alla sua quinta edizione e ospitata presso il centro congressi “La Nuvola” di Roma, la conferenza si svolge il 3 e 4 ottobre ed ha visto ieri la presenza, tra gli altri, del Ministro italiano della Difesa, Guido Crosetto, del Vice Presidente della Commissione Europea, Margaritis Schinas, del CEO di Leonardo, Roberto Cingolani, e del Direttore Generale dell’Agenzia Nazionale per la Cybersicurezza, Bruno Frattasi.
  Israele, Paese leader nel settore, è rappresentato da numerose e aziende consolidate e startups innovative. Queste ultime – AimBetter, Cinten, ItsMine, Orchestra Group, Perception Point, Rescana, Seraphic Security, Sling e Symmetrium- sono ospitate nel Padiglione Nazionale Israeliano, mentre le grandi aziende -Checkpoint, CyberArk, Cybergym, SentinelOne,Terafence, XM Cyber- sono visitabili presso boots dedicati.
  “La cooperazione tra Italia e Israele nel campo della cybersicurezza è intensa, sia a livello istituzionale che privato, e va rafforzandosi sempre più“, ha esordito l’Ambasciatore Bar. “Israele, paese leader nel settore, è lieto di poter condividere la sua esperienza e le sue soluzioni più all’avanguardia con l’Italia, perché le minacce senza confine del nostro mondo interconnesso si vincono soltanto collaborando“.
  “La sinergia tra l’ecosistema Israeliano e l’Italia è notevole. Ci sono molte opportunità di collaborazione tra i due governi, e tra i due mercati” ha dichiarato Amir Rapaport, fondatore di CyberTech.
  “La quinta edizione del Padiglione Nazionale Israeliano presso CyberTech Europe 2023 sta andando alla grande: ad ora, le nostre 10 startup hanno già tenuto oltre 100 meeting con realtà italiane, tra cui aziende, infrastrutture critiche, enti nel settore della sanità e molto altro ancora“, ha sottolineato Ophri Zohar Hadar, Capo dei Settore Cyber, Fintech and Insurtech presso l’Israel Export Institute.
  Hanno fatto visita al Padiglione Israeliano l’On. Giorgio Mulè, Vice Presidente della Camera dei Deputati, l’On. Lorenzo Guerini, Presidente del Copasir, l’On. Giovanni Donzelli Vice Presidente del Copasir, la Senatrice Licia Ronzulli, l’On. Marco Osnato, Presidente Commissione Finanze della Camera, e il Generale Del Col, in rappresentanza del Consiglio Supremo di Difesa presso il Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica.

(Ares Osservatorio Difesa, 4 ottobre 2023)

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Il ruolo dei conventi e monasteri durante la Shoah, fra aperture e invito alla chiusura

di Ilaria Myr

“Nel periodo delicato fra il settembre e il novembre del 1943, dopo l’ingresso dei nazisti in Italia, gli ebrei capirono che non potevano tenere in funzione le organizzazioni di assistenza ai correligionari, come la Delasem e le varie attività delle diverse comunità. E prima di farsi travolgere completamente dagli eventi alcuni responsabili ebrei si attivarono per continuare a dare assistenza, mettendosi in contatto con un rappresentante ecclesiastico locale. Questo dimostra che gli ebrei non furono passivi davanti alla sorte avversa, ma che ci fu una presa di responsabilità attiva». Parola dello storico Michele Sarfatti, autore di un articolo appena uscito sul fascicolo 98 del luglio 2023 della rivista Quaderni di storia, diretta da Luciano Canfora, che rivela il ruolo attivo di alcune comunità ebraiche in quel periodo e che arricchisce di contenuti il dibattito oggi in corso sul ruolo della Chiesa nel salvataggio degli ebrei, alla luce dei nuovi documenti resi consultabili negli Archivi Vaticani.

• Cosa avvenne a Genova, Firenze e Roma
  Nella sua ricerca lo storico ha indagato ciò che è avvenuto a Genova, Firenze e Roma, scoprendo fatti fino a oggi non conosciuti. Ripercorrendo la storia dell’Italia dal 25 luglio 1938 all’8 settembre 1943, Sarfatti ricorda l’opera di assistenza del mondo ebraico attiva già da poco dopo l’emanazione della legislazione antiebraica.
   “Nel 1939 l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane (UCII), presieduta da Dante Almansi, aveva istituito al proprio interno, con la necessaria autorizzazione del governo, un dipartimento avente il compito di facilitare l’uscita dall’Italia degli ebrei stranieri e di assisterli in attesa della partenza: la Delegazione per l’assistenza agli emigranti – Delasem, diretta da Lelio Vittorio Valobra, vicepresidente dell’UCII3 (nella foto a Genova con un gruppo dell’associazione) – scrive nell’articolo -. La Delasem aveva sede a Genova (la città ove abitava Valobra) ed era in contatto con le varie Comunità ebraiche e con i principali campi di internamento e comuni di residenza forzata, istituiti dall’Italia dopo l’ingresso in guerra nel giugno 19404. Nel 1941 Valobra estese la rete ai territori ex-jugoslavi annessi o occupati; invece il soccorso nei territori occupati in Francia sudorientale fu gestito da comitati locali”.
    Nel settembre 1943, fu proprio Valobra a chiedere di incontrare a Genova il cardinale Pietro Boetto arcivescovo della città, o forse il suo segretario, don Francesco Repetto (a destra nella foto). “Repetto ha ricordato che Valobra, “in maniera riguardosa e pure in uno slancio di fiducia, venne a tastare il terreno per conoscere se il Cardinale avrebbe accettato di assumere l’assistenza agli ebrei, specialmente stranieri, in Italia, svolto [recte: svolta] fino allora dalla Delasem”, che egli riferì il colloquio a Boetto chiedendo “se si doveva accettare la domanda della Delasem, oppure declinarla”, che il cardinale rispose di accettarla" – continua Sarfatti nell’articolo -. In sostanza, Valobra propose e Boetto accettò la gestione dell’opera di distribuzione del soccorso ebraico agli ebrei. Fu un patto di fiducia e di impegno. L’arcivescovo incaricò del lavoro il proprio segretario”.
   Valobra passò i fondi della Delasem e gli indirizzi delle persone assistite a Repetto, che costituì una rete collegandosi a tutte le curie d’Italia e sollecitando l’aiuto di tutti nel salvare gli ebrei.
   «È assolutamente doveroso riconoscere la generosità e la risposta pronta di curie, conventi e monasteri, ma è anche importante riconoscere che gli ebrei non furono imbelli e passivi», commenta a Bet Magazine-Mosaico lo storico.
   Una vicenda simile accade a Firenze, dove, subito dopo l’occupazione tedesca, si era costituito un gruppo di persone generose (fra cui il rabbino capo Nathan Cassutto), che forniva assistenza ai profughi ebrei. Fu questo gruppo ad attivarsi per trovare alloggi ai fuggiaschi. “Mancava la possibilità di ospitare i fuggiaschi nei locali della Comunità; con la mirabile attività dei singoli componenti del Comitato, con l’aiuto della Autorità ecclesiastica e dei generosi privati, furono trovati alloggi temporanei o anche stabili per decine di persone; fu mantenuta una mensa; furono dati biglietti ferroviari a molti – scrive Sarfatti -. Padre Cipriano Ricotti, del convento domenicano di San Marco, ha ricordato che il 20 settembre, o poco prima, fu convocato dal cardinale Elia Dalla Costa, che, alla presenza del suo segretario Giacomo Meneghello, (che aveva incaricato di coordinare questa nuova attività), chiese “se me la sentivo di dedicarmi all’assistenza degli Ebrei. Subito mi consegnò una lettera di presentazione, scritta di suo pugno, perché più autorevolmente potessi bussare alle porte dei conventi””.
   Infine Sarfatti ricostruisce quello che accadde a Roma, dove due frati cappuccini – Marie Benoit, detto Benedetto (a sinistra nella foto), e Giovanni da San Giovanni in Persiceto – si attivarono in modo importante dopo essere entrati in contatto con rappresentanti della comunità ebraica locale, sia prima che dopo la retata del 16 ottobre.
   Nei tre casi, emerge il ruolo attivo della comunità ebraica e la risposta altrettanto pronta e reattiva delle realtà ecclesiastiche locali.

• Quando la Curia chiese di allontanare i rifugiati dai conventi
  Di fronte a queste prove di assistenza da parte del mondo cattolico, cercato e voluto dal mondo ebraico, suscita dunque perplessità la scoperta fatta da Sarfatti sfogliando i giornali del periodo della Repubblica Sociale Italiana. «Mentre facevo le ricerche mi sono imbattuto in un articolo, pubblicato da qualche quotidiano il 10 gennaio 1944 – fra cui il Corriere della Sera, che titolaDivieto di ospitare estranei nei monasteri e nei conventi’ -, che in breve parlavano di una disposizione della Curia vaticana per fare uscire dai conventi persone che vi erano ospitati – spiega a Bet Magazine -. Non mi è ancora dato sapere chi fossero le persone che dovevano essere allontanate dai conventi, la mia sensazione è che ci si riferisse principalmente ai militari italiani che si erano nascosti. Quello che però è certo èche la disposizione allarmò il mondo ebraico, tanto che Valobra, rifugiatosi in Svizzera, comunicò il contenuto al Joint Committee a New York. È anche molto probabile che leggendo la disposizione, qualche ebreo avesse deciso di non cercare rifugio nelle strutture cattoliche. A oggi non ci sono noti allontanamenti di ebrei dalle strutture ecclesiastiche, ma la ricerca è ancora in corso».
   La scoperta di Sarfatti, che per primo ha posto l’attenzione su questa direttiva della Santa Sede, fa dunque riflettere sul fatto che non solo non ci fu – almeno per quanto se ne sa al momento – una direttiva del Pontefice per l’accoglienza dei fuggitivi, inclusi gli ebrei, ma che anzi ci fu una direttiva che chiedeva invece l’allontanamento e l’espulsione.

• La Chiesa durante la Shoah: un convegno alla Pontificia Università Gregoriana
  Le rivelazioni dell’articolo di Sarfatti vengono pubblicate a pochi giorni dal convegno internazionale alla Pontificia Università Gregoriana sul ruolo della Chiesa durante la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, alla luce dei nuovi documenti consultabili solo da poco. Il convegno si terrà dal 9 all’11 ottobre ed è intitolato New Documents from the Pontificate of Pope Pius XII and their Meaning for Jewish-Christian Relations: A Dialogue between Historians and Theologians (“I nuovi documenti del Pontificato di Pio XII e il loro significato per le relazioni ebraico-cristiane: un dialogo tra storici e teologi”).
   Il convegno, che si svolgerà sia in italiano che in inglese nell’Aula Magna dell’ateneo, è suddiviso in sette sessioni per tre giorni: la prima sessione, che si terrà lunedì 9 ottobre, affronterà le politiche adottate da Pio XII nei confronti del fascismo, del nazismo e del comunismo.
   La seconda sessione, martedì 10 ottobre, esplorerà la visione del mondo del Vaticano in generale e sulla Shoah in particolare, con riferimenti ai punti di vista che plasmarono le decisioni dei funzionari, prelati e laici facenti parte della cerchia del Papa. Nella terza sessione verranno trattate la teorizzazione e la messa in atto delle leggi razziali, prima in Germania e poi in altre nazioni europee, tra cui l’Italia. La quarta sessione sarà dedicata al salvataggio degli ebrei, con particolare attenzione all’80° anniversario del rastrellamento del Ghetto di Roma.
   Mercoledì 11 ottobre si terranno la quinta, sesta e settima sessione. Innanzitutto verranno illustrate le reazioni dei diplomatici papali di fronte alla crisi dei rifugiati e agli orrori della Shoah. In seguito verranno raccontati episodi in cui il Vaticano aiutò criminali di guerra nazisti condannati in tribunali militari internazionali. Infine, verrà ripercorso il graduale cambiamento interno alla Chiesa che portò alla dichiarazione Nostra Aetate del 1965, quando il Concilio Vaticano II pose fine all’impostazione antisemita che per secoli ne ha segnato i rapporti con il mondo ebraico.
   Tra gli ospiti, figurano Rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma; Iael Nidam-Orvieto, Direttrice dell’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme; Claudio Procaccia, Direttore del Dipartimento Cultura della Comunità Ebraica di Roma; e gli storici della Fondazione CDEC di Milano Liliana Picciotto e Michele Sarfatti. Mentre al termine dei lavori, i discorsi conclusivi saranno tenuti dalla Presidente UCEI Noemi Di Segni e da Raphael Schulz, Ambasciatore israeliano presso la Santa Sede.

(Bet Magazine Mosaico, 3 ottobre 2023)

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Netanyahu: "Agiremo contro le intimidazioni ai fedeli"

"Condanno con fermezza tutti i tentativi di intimidire i fedeli e adotterò azioni immediate e decise contro tutto questo". Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu riferendosi agli sputi da parte di alcuni ebrei ortodossi contro pellegrini cristiani in processione con la croce sulle spalle in Città Vecchia a Gerusalemme. "Israele - ha aggiunto su X - è impegnato a salvaguardare il sacro diritto di culto e di pellegrinaggio ai luoghi santi di tutte le fedi. Un comportamento offensivo verso i fedeli è sacrilego e inaccettabile. Non sarà tollerata ogni forma di ostilità verso chiunque impegnato in riti religiosi".
   Vari esponenti del governo e religiosi hanno condannato gli sputi per terra che alcuni ebrei ortodossi diretti al Muro del Pianto per la festa di Sukkot hanno indirizzato ieri, nei pressi della Porta dei Leoni in Città Vecchia a Gerusalemme, a pellegrini cristiani in processione con una croce in spalla. Il ministro degli Esteri Eli Cohen - che ha condannato su X quanto accaduto - ha denunciato che "questo atto non rappresenta i valori dell'ebraismo. La libertà di religione e di culto sono valori fondamentali in Israele". "Centinaia di migliaia di turisti cristiani - ha proseguito - vengono in Israele a visitare i loro e i nostri luoghi santi. Invito tutti i cittadini di Israele a rispettare la tradizione".
   Anche uno dei due rabbini capo di Israele, l'askenazita David Lau, ha detto di "condannare fermamente il fatto di danneggiare qualsiasi persona o leader religioso". Poi ha aggiunto che questi comportamenti "ripugnanti non devono, ovviamente, essere associati in alcun modo alla Halachà". Il ministro degli Affari religiosi Michael Malkieli dopo aver condannato gli sputi ha sottolineato che "questa non è la strada della Torah" e che "non c'è un singolo rabbino a sostegno e legittimazione di un atto così spregevole". Il ministro del Turismo Haim Katz ha quindi attaccato Elisha Yered, un colono israeliano sospettato - hanno ricordato i media - di essere coinvolto nell'uccisione di un adolescente palestinese, secondo cui sputare ai cristiani è "un antico costume ebraico". "Sostenere che lo sputare ai cristiani sia un antico e anche accettabile costume è orribile. Queste azioni di un pugno di estremisti - ha detto Katz - fanno odiare l'ebraismo, danneggiano l'immagine di Israele e il turismo".

(ANSAmed, 3 ottobre 2023)

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Deserto del Negev: un vigneto tra presente, passato e futuro

di Jacqueline Sermoneta

Archeologia, enologia e innovativa ricerca genetica camminano di pari passo in un progetto israeliano unico nel suo genere: la rinascita nel sito archeologico di Avdat, nel deserto del Negev, di due varietà di vite autoctone risalenti a 1.500 anni fa, reimpiantate nello stesso vigneto in cui venivano coltivate anticamente.
   Lo studio è guidato dai ricercatori dell’Università di Haifa e dell’Università di Tel Aviv, in collaborazione con l’Autorità israeliana per le antichità (IAA),
   La storia inizia nel 2017, quando gli archeologi dell’IAA scoprirono alcuni semi durante i lavori di scavo effettuati nell’antica città di Avdat. Grazie all’innovativa ricerca sul DNA, è stato possibile identificare l’appartenenza dei semi a due note varietà di vite millenaria: Sariki e Beer.
   Il 13 settembre scorso è avvenuto il reimpianto delle viti, alla presenza del ministro israeliano per la Protezione ambientale, Idit Silman, nella città di Avdat, oggi parco nazionale, dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità da parte dell’UNESCO. "Questa è la storia della bellissima Terra di Israele. – ha detto Silman - Il fatto che un milione di litri di vino all'anno venisse prodotto nel deserto ed esportato nel continente europeo 1.500 anni fa, è emozionante e allo stesso tempo stimolante. Oggi disponiamo della capacità tecnologica di piantare viti antiche, utilizzando metodi antichi e moderni nel deserto, e la sua importanza è sottolineata in un periodo di cambiamenti climatici. Le conoscenze, l’esperienza e l’innovazione israeliane possono essere un esempio per molti Paesi che devono affrontare le sfide climatiche”.
   Storicamente, la città, fondata nel III secolo a.e.v. dai Nabatei, era considerata un importante centro di produzione ed esportazione di vino nel Mediterraneo. Dal IV al VII secolo, la fama di questo vino si diffuse in tutto l’Impero Bizantino e oltre.
   Il vigneto appena reintrodotto lungo il “Sentiero dei torchi” del parco archeologico, segue la stessa struttura storica-agricola degli impianti realizzati tra il I-VII secolo , rispecchiando i principi di sostenibilità che caratterizzano un vigneto desertico. Il progetto prevede, inoltre, di integrare queste due varietà a quelle già coltivate in condizioni climatiche estreme come Chardonnay, Chenin Blanc, Sauvignon Blanc, Malbec, Merlot, Cabernet Sauvignon e Petit Verdot. Attualmente il Consorzio del vino del Negev, guidato dalla Merage Israel Foundation, comprende oltre 40 aziende agricole distribuite tra il Negev settentrionale ed Eilat.
   “Lo Stato di Israele è un pioniere su scala mondiale nello studio del deserto. – ha affermato Guy Bar Oz dell’Università di Haifa - Questo vigneto, reimpiantato anche per la ricerca, unisce passato, presente e futuro. Inoltre, incarna, in modo tangibile, il peso specifico inerente allo sviluppo agricolo sostenibile e il suo effetto sui prodotti locali. Con l’impianto di queste varietà di vite storiche e con una coltivazione attenta all’ambiente, il vigneto contribuirà a far comprendere le condizioni degli antichi sistemi agricoli, esalterà il potenziale dell’intraprendenza umana alla luce dei limiti di una regione arida e il contributo unico del deserto alle caratteristiche dell’uva da vino del Negev”.

(Shalom, 3 ottobre 2023)

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Sudafrica: una comunità ebraica viva e vibrante… Nel ricordo di Nelson Mandela

Corruzione, crisi energetica, instabilità politica e un forte antisionismo nel governo. Eppure la società civile del Sudafrica non conosce antisemitismo, dicono i 60 mila ebrei (quasi tutti ashkenaziti), orgogliosi della vivacità della propria comunità, ma preoccupati per il suo calo numerico. In attesa delle elezioni del 2024

di Ilaria Myr

«Forse l’immagine è un po’ scura: sa, qui in Sud Africa l’elettricità manca ormai da 15 anni per almeno 12 ore al giorno, e se non si ha un generatore privato si sta al buio… Disservizi di questo tipo, che impattano profondamente sulla vita quotidiana, insieme a una diffusa corruzione dei governanti fanno sì che molti ebrei sud-africani emigrino all’estero, per dare ai figli un futuro più certo e migliore». Ci parla da una stanza semibuia illuminata solo da una lampada Howard Sackstein, imprenditore ebreo di Johannesburg molto attivo nella vita comunitaria della città e del Paese: è stato un membro fondatore del Jewish anti-apartheid movement, che lottò attivamente contro il regime discriminatorio, ed è attualmente presidente del giornale ebraico SA Jewish Report. È quindi sicuramente una persona molto adatta per aiutarci a conoscere più da vicino la comunità ebraica sudafricana, che oggi conta circa 60.000 membri, situati principalmente a Johannesburg (circa 30.000) e a Cape Town (13.000), con piccole comunità a Durban, Pretoria e qualche gruppo sparuto a Port Elizabeth.

• Una storia recente
  Una piccola premessa storica. Le sue origini risalgono ai primi decenni del XIX secolo, quando un piccolo numero di immigrati ebrei, principalmente dal Regno Unito e dalla Germania, inizi a stabilirsi in quelle che oggi sono le province del Capo Occidentale e del Capo Orientale del Sudafrica. Nel 1880, la popolazione ebraica complessiva era stimata in 4000 persone. Successivamente, un enorme afflusso di immigrati ebrei dall’Europa orientale – principalmente dalla Lituania e dintorni – vide la comunità crescere drammaticamente nel mezzo secolo successivo, prima che nuove leggi specificamente mirate a limitare l’ulteriore immigrazione ebraica fossero approvate nel 1930 e nel 1937. La maggior parte degli ebrei sudafricani oggi fa risalire le proprie origini all’arrivo degli immigrati dell’Europa orientale. Negli anni Trenta si verificò un ulteriore afflusso dalla Germania a seguito della persecuzione nazista e alla vigilia della Seconda guerra mondiale la popolazione ebraica contava poco più di 90.000 persone. Negli anni successivi ci furono molte immigrazioni – da Israele e da alcuni stati dell’Africa meridionale, tra cui Zimbabwe, Zambia e Namibia – tanto che nel 1970 si contavano 118.000 membri, e si moltiplicarono le istituzioni e organizzazioni ebraiche.
   Durante il periodo dell’Apartheid molti furono gli ebrei che lasciarono il Paese per protesta e altri si impegnarono nelle attività anti-apartheid. Ma è vero che non mancarono quelli che, come altri bianchi, si arricchirono e prosperarono, così come è noto che Israele vendeva armi al regime.

• Un presente fervido e attivo
  Oggi la comunità ebraica sudafricana è una realtà vibrante e attiva, molto organizzata al suo interno, molto coesa pur nella sua varietà, che nel tempo non ha perso in vitalità, nonostante le diverse ondate migratorie; oltre che negli anni dell’Apartheid, infatti, molti ebrei sono partiti – in Israele, ma anche negli altri Paesi anglofoni – durante il periodo della transizione alla democrazia, nei primi anni Novanta, non sapendo che cosa sarebbe diventato il Paese. A Johannesbourg e Cape Town ci sono molte scuole ebraiche con orientamenti diversi e movimenti giovanili e moltissime sono le associazioni operative. «Siamo una comunità molto vivace, che organizza continuamente attività di tutti i tipi: ricreative, di intrattenimento, di volontariato, si potrebbe occupare il proprio tempo libero solo con le iniziative della comunità! – spiega orgoglioso Howard -. Durante il Covid, poi, il SA Jewish Report ha creato una vera e propria comunità digitale, con webinar dedicati ai più svariati temi: da quelli sanitari, tenuti da medici, a quelli più estetici, con parrucchieri che spiegavano come farsi la tinta, e molto altro. Ci hanno seguito milioni di persone da tutto il mondo, ebrei e non ebrei, ed è stato un vero successo. E ancora oggi, finita l’emergenza, continuiamo a mantenere queste attività in vita». Sempre durante la pandemia, era in funzione il servizio ebraico di assistenza Hatzolah, che forniva a domicilio infermieri, bombole di ossigeno, termometri e saturimetri e l’ambulanza nei casi più urgenti.
   A causa delle migrazioni, però, quella sudafricana è una comunità anziana, con un ‘buco’ nella fascia 40-60 anni, e ancora oggi fa i conti con le partenze di giovani famiglie che vedono nel Paese un futuro troppo difficile. Corruzione, crimine e caos caratterizzano ormai da anni la vita quotidiana, come è evidente anche dalla mancanza di elettricità menzionata all’inizio dell’articolo. «L’African national Congress, che ha portato il Paese alla liberazione dall’Apartheid, ha fallito nella sua missione – commenta amaro Howard -. Tutte le aziende controllate dallo Stato sono fallite, e ai cittadini non viene fornito nessuno di quei servizi che normalmente dovrebbe ricevere dalle amministrazioni, come elettricità, sicurezza, salute. Ognuno deve pagare di tasca propria, ma gli stipendi qui non sono alti, e anche per chi, come un giornalista, guadagna bene, cioè 1500 dollari al mese, comprare un generatore autonomo di elettricità a 80.000 dollari o affittarlo a 3.000 all’anno è oneroso. Per questo molti giovani decidono di andare via».

• Antisionismo e antisemitismo
  Se si parla di Sud Africa, però, non si può non menzionare il forte antisionismo del governo e delle istituzioni, a cominciare dalle università. Nel marzo di quest’anno, ad esempio, l’Università di Cape Town ha invitato in video-conferenza due membri dei gruppi terroristici islamici Hamas e PIJ (Palestinian Islamic Jihad) – noti per inneggiare alla morte di tutti gli ebrei -, a rivolgersi agli studenti. Scoppiano le polemiche contro l’ateneo, che però non prende posizione: “Non siamo responsabili di quali relatori vengano invitati agli eventi ospitati da associazioni studentesche, le quali sono autonome”. E questo è solo uno dei numerosi episodi di odio e ostilità nei confronti di Israele che – spesso senza una conoscenza diretta della complessa realtà israeliana – viene visto come nazione che applica nei confronti dei palestinesi il regime di apartheid. «C’è una storica amicizia fra il partito più potente al governo, l’African National Congress, e il movimento palestinese, ed essendo l’Anc da molti anni al potere, ha permesso al movimento di boicottaggio di Israele BDS di essere sempre più rappresentato al suo interno – spiega a Bet Magazine Karen Milner, chairman del Southafrican Jewish Board of Deputies, l’organismo che rappresenta le istanze ebraiche presso il mondo politico e opera per la sicurezza dell’ebraismo locale -. Eppure all’inizio Nelson Mandela sosteneva Israele e la legittimità del sionismo ed era convinto che per avere la pace nella regione fosse fondamentale garantire la sicurezza a Israele: lui stesso vi si recò in visita nel 1999. Ma con il tempo il partito ha abbandonato queste posizioni di apertura».
   Un esempio della politica di oggi dell’Anc è il downgrade dell’ambasciata sudafricana in Israele, che, pur non chiudendo, non ha più un diplomatico operativo, con conseguenti problemi per i sudafricani che ci abitano. Non si deve poi dimenticare che il Sud Africa è uno dei BRICS, quei Paesi con economia emergente che si propongono di costruire un sistema commerciale globale attraverso accordi bilaterali che non siano basati sul dollaro. Ne fanno parte anche Brasile, Russia, India e Cina, e dal gennaio 2024 anche Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia Saudita: tutti Paesi, questi, accomunati da una politica antioccidentale, in cui rientra anche l’odio per Israele perché, come spiega Howard Sackstein, «Israele è visto come una creatura coloniale dell’Occidente, ed è quindi un nemico».
   Questi sentimenti antisionisti, però, sono in contraddizione con quelli della società civile, che anzi in molti casi nutre una simpatia nei confronti di Israele, o non ha alcun interesse per la questione. Senza dubbio una parte del merito va al Jewish Board che fa in modo che le attività contro Israele non impattino sulla vita degli ebrei. «Il nostro obiettivo non è necessariamente di difendere Israele ma di difendere gli ebrei nel Paese – spiega Milner -; quindi se c’è un boicottaggio all’università pensiamo che possa avere un impatto sugli studenti ebrei e quindi cerchiamo di fare in modo possano continuare a vivere in libertà senza alcun problema, anche grazie alla collaborazione degli atenei. E anche quando il BDS ha cercato di agire nei confronti dei business di israeliani ed ebrei, abbiamo agito anche in modo duro, anche legalmente se necessario».
   Per tutti questi motivi, si può dire che l’antisemitismo in Sud Africa sia praticamente inesistente, con soglie molto inferiori rispetto all’Europa: sopravvivono gli stereotipi dell’ebreo ricco e potente – più forti fra la popolazione nera, essendo gli ebrei bianchi -, ma in generale c’è simpatia e rispetto, anche grazie all’impegno della comunità ebraica nei confronti dei bisogni della società, tramite organizzazioni come Afrika Tikkun, che lavora sui giovani e la povertà, e The Angel Network, che fornisce cibo alle zone più povere del Paese.

• La sfida del futuro
  Mantenere una comunità vibrante e attiva come lo è oggi, a fronte di una diminuzione dei suoi membri: è questo il challenge più grande per la comunità sudafricana, che deve fare i conti con emigrazioni sempre più frequenti. «Molto dipenderà anche dal risultato delle elezioni del 2024, che saranno determinanti per tutti nel Paese – commenta Milner -. Se l’Anc perderà la sua posizione dominante, non è detto che sarà un bene… ».

(Bet Magazine Mosaico, 3 ottobre 2023)

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L’Iran sconvolto dalla possibile normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita

Il presidente dell’Iran, Ebrahim Raisí, ha attaccato una possibile normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, e ha affermato che la “liberazione” di Gerusalemme è la questione “più importante” nel mondo musulmano.
   Raisí ha attribuito il possibile instaurarsi di relazioni diplomatiche tra Riad e Gerusalemme “alla volontà delle potenze esterne alla regione”, alludendo agli Stati Uniti, paese che media tra i due rivali mediorientali.
   “Il modo per combattere il nemico non è la resa o il compromesso, ma piuttosto il confronto e la resistenza che costringono il nemico a ritirarsi”, ha detto Raisí.
   Il leader islamico, noto come il “macellaio di Teheran” per le sue azioni contro i prigionieri politici durante il suo mandato come procuratore di quella città, ha sostenuto che “la liberazione di Gerusalemme e della Palestina” è “la questione più importante” nel mondo musulmano.
   L’Iran sostiene le organizzazioni terroristiche palestinesi a Gaza e guida il cosiddetto Asse di resistenza contro lo Stato ebraico, che comprende Hamas, il gruppo terroristico sciita libanese Hezbollah e la Siria.
   Israele e Arabia Saudita si stanno avvicinando alla firma di un accordo per stabilire relazioni diplomatiche, mediato dagli Stati Uniti, che potrebbe vedere Riyadh rinunciare alla sua richiesta di lunga data di uno Stato palestinese prima della normalizzazione.
   I negoziati, mediati dagli Stati Uniti, sono andati avanti negli ultimi mesi e sono stati affrontati anche dallo stesso Bin Salmán durante il suo discorso alle Nazioni Unite la settimana scorsa.
   Iran e Arabia Saudita hanno concordato a marzo con la mediazione cinese di normalizzare le loro relazioni diplomatiche, interrotte dal 2016.

(IT ES Euro, 3 ottobre 2023)

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Israele e Palestina, c’è un unico modo per raggiungere la pace

Mancano le forze soltanto per iniziare un commento a un articolo così intriso di melensi buoni sentimenti, errate valutazioni e minacciose previsioni. Ma val la pena di leggerlo tutto per poi chiedersi: mi ha convinto? Se la risposta è sì, la cosa è preoccupante. Per chi legge, ma anche per Israele, se i sì sono molti. E forse potrebbero essere molti fra i democratici a tutto tondo, fra gli ammiratori del “grande scrittore israeliano Abraham B. Joshua”, per il quale la democrazia è la stessa ragion d’essere di Israele. Dichiara infatti l’articolista: “Israele potrà essere sicuro e sopravvivere a lungo solo se rimane ebreo e democratico”, e poi: “Se smette di essere un paese democratico non merita di esistere”. Capita la conclusione? E’ nel nome della democrazia che viene rimesso in gioco il diritto di Israele ad esistere. Il risalto in colore è aggiunto. M.C.

di Giorgio Pagano

Il frastuono delle armi è in tutto il mondo, non solo in Ucraina. In Palestina è assordante da molti anni. Dal 2022 la tensione si aggrava sempre più. Centinaia di giovani palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano, nel tentativo di arginare la rinascita della resistenza armata palestinese all’occupazione. Anche cittadini israeliani vengono uccisi da ragazzi disperati, che hanno conosciuto solo la vita nei campi profughi, gli insediamenti dei coloni, la violenza loro e quella dei militari. Hanno torto, ma non basta perorare “negoziati di pace” per convincerli. Bisogna andare alla radice: l’occupazione della Palestina da parte di Israele, la colonizzazione.
   Il grande scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua lo ha spiegato nel suo testamento, la breve novella “Il Terzo Tempio”. Il Terzo Tempio è il nuovo santuario che gli ebrei vogliono costruire dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme a opera dei babilonesi e poi dei romani. Ma, dice Yehoshua, non può avvenire a scapito dei luoghi santi costruiti dalle altre religioni: altrimenti la conseguenza sarà “incendiare il mondo con una terribile guerra”.
   La chiave di volta del futuro di Israele sta nel rapporto con i palestinesi. Senza questo rapporto Israele si nega al futuro. Ce lo conferma il sanguinoso conflitto in atto.
   Questa convinzione sta crescendo negli stessi ebrei. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra non sembrano più in grado di contenere la mobilitazione popolare. I manifestanti criticano la riforma della giustizia approvata dal governo, perché – ha sostenuto Gali Baharv-Miara, procuratrice generale di Israele – porterebbe a “un colpo fatale al sistema democratico”. A una dittatura: controllo del potere giudiziario, dei media e delle forze armate, privazione di ogni diritto per i palestinesi. Tamir Pardo, dal 2011 al 2016 direttore del Mossad, i servizi segreti di Israele, ha denunciato: “Netanyahu vuole trasformarci in una teocrazia. Israele potrà essere sicuro e sopravvivere a lungo solo se rimane ebreo e democratico. Se rimane ebreo, ma diventa teocratico, non sarà più democratico. Se smette di essere un paese democratico non merita di esistere”.
   Ma l’opposizione al governo non si limita a questa critica. Molti ebrei mettono in dubbio ormai il carattere realmente democratico di uno Stato che ha occupato e colonizzato, per mezzo secolo, la terra di un altro popolo, attuando un sistema di apartheid. Uno Stato ebreo e democratico non può essere grande: perché deve riconoscere l’esistenza di un altro Stato confinante, quello palestinese. L’ex generale Amiram Levin ha dichiarato: “Non c’è mai stata democrazia in Cisgiordania da cinquantasette anni. C’è un’apartheid totale”.
   A distanza di trent’anni dagli accordi di Oslo Unione europea e Stati Uniti non possono non prendere definitivamente atto che l’idea dei “negoziati di pace” è rimasta sulla carta, e che ha permesso a Israele di proseguire indisturbata nel suo obiettivo di espansione delle colonie.
   Numerosi documenti delle Nazioni Unite e di importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Amnesty International a Human Rights Watch, sono giunti a questa conclusione: il superamento dei “negoziati di pace” a favore della decolonizzazione e dell’autodeterminazione del popolo palestinese. Bisogna affrontare le cause alla radice, altrimenti il regime coloniale andrà avanti, e la Cisgiordania diventerà una prigione come Gaza. Con il rischio di “incendiare il mondo”.
   O l’Occidente saprà cogliere questa priorità, anche sulla spinta dell’altro Israele, o non ci sarà una soluzione duratura fondata sulla pace, la sicurezza umana, la giustizia non solo per i palestinesi ma anche per gli israeliani.
   Anche la città della Spezia deve tornare a svolgere un ruolo di pace. Nel protocollo d’intesa, in vista del gemellaggio, sottoscritto nel 2005 dai tre sindaci di Jenin (Palestina), Haifa (Israele) e La Spezia era scritto che l’obiettivo di fondo era “rendere possibile l’esistenza di due Stati, quello israeliano e quello palestinese, liberi, sovrani e capaci di vivere in sicurezza, democrazia e pace”. La pace tra palestinesi e israeliani deve essere obiettivo strategico della città di Exodus, da realizzarsi facilitando il dialogo tra persone, associazioni della società civile, governi locali.
   Fin dai primi anni dei miei viaggi in Palestina e in Israele ho conosciuto l’esperienza dei “Parents Circle”, un’organizzazione di base di palestinesi e israeliani che hanno perso parenti stretti, soprattutto figli, nel conflitto, e che si battono per la riconciliazione e la pace. “Apeirogon” è un grande romanzo di Colum McCann, che racconta l’epica storia vera di due uomini divisi dal conflitto e riuniti dal dolore della perdita: Bassam Aramin, che ha perso la figlia Abir, e Rami Elhanan, che ha perso la figlia Smadar. Per Bassam e Rami il nemico comune è l’occupazione.
   Dice Bassam:
    “L’Occupazione agisce in ogni aspetto della tua vita, ti sfinisce, ti amareggia in un modo che nessuno da fuori riesce davvero a capire. Ti sottrae il domani. Ti impedisce di andare al mercato, all’ospedale, alla spiaggia, al mare. Non puoi camminare, non puoi guidare, non puoi raccogliere un’oliva dal tuo stesso albero che si trova dall’altra parte del filo spinato. Non puoi nemmeno alzare lo sguardo al cielo. Lassù hanno i loro aeroplani. Possiedono l’aria che sta sopra e il suolo che sta sotto. Per seminare la tua terra devi avere il permesso. […] La maggior parte degli israeliani nemmeno lo sa che succedono queste cose. Non che siano ciechi. É che non sanno quello che viene fatto in loro nome. Non viene permesso loro di vedere. I loro giornali, le loro televisioni queste cose non gliele dicono. Non possono entrare in Cisgiordania. Non hanno alcuna idea di come viviamo. Ma questo succede ogni giorno. Ogni singolo giorno. Non lo accetteremo mai. Nemmeno tra mille anni, lo accetteremo. […] Porre fine all’Occupazione è la nostra sola speranza per la sicurezza di tutti, israeliani e palestinesi, cristiani, ebrei, musulmani, drusi, beduini, non importa”.
Dice Rami:
    “Per quanto sembri strano, in Israele non sappiamo cosa sia davvero l’Occupazione. Sediamo nei caffè e ci divertiamo, e non dobbiamo farci i conti. Non abbiamo la minima idea di cosa significhi dover superare un checkpoint ogni giorno. O vedere confiscata la terra della nostra famiglia. O svegliarci con un fucile puntato sulla faccia. Abbiamo due ordini di leggi, due ordini di strade, due ordini di valori. Alla maggior parte degli israeliani questo sembra impossibile, una bizzarra distorsione della realtà, ma non è così. È che noi, semplicemente, non lo sappiamo. Per noi la vita è bella. Il cappuccino è buono. La spiaggia è libera. L’aeroporto è lì a due passi. Non abbiamo alcun accesso all’effetto che fa vivere in Cisgiordania o a Gaza. Nessuno ne parla. Non ti è permesso mettere piede a Betlemme, a meno che tu non sia un soldato. Guidiamo lungo le nostre strade percorribili solo dagli israeliani. Scansiamo i villaggi arabi. Costruiamo strade sopra e sotto di loro, ma solo per farne gente senza volto. Forse la Cisgiordania una volta l’abbiamo vista, durante il servizio militare, o magari la vediamo di tanto in tanto in tv, il nostro cuore sanguina per una mezz’ora, ma non sappiamo quello che succede là veramente. Finché non accade il peggio. E a quel punto ti si capovolge il mondo.
    La verità è che non può esserci occupazione che sia compassionevole. Non esiste proprio. È impossibile”.
Le testimonianze di Bassam Aramin e di Rami Elhanan sono la conferma, incarnata nelle forme concrete della vita, del discorso giuridico e politico che è diventato più che mai necessario: de-occupazione, de-colonizzazione, diritto dei palestinesi all’autodeterminazione.

(Città della Spezia, 3 ottobre 2023)
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Giorgio Pagano mente quando scrive che La Spezia sarebbe la città di Exodus (Portovenere fu in realtà la città di Exodus); se non conosce i fatti della propria città, come può pretendere di conoscere quelli di una terra lontana? Emanuel Segre Amar

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La pace con i sauditi è facile: vogliono solo il Monte del Tempio

Come può il cambio di un padrone di casa musulmano con un altro promuovere la restaurazione di Israele?

di Ryan Jones

GERUSALEMME - Per quanto sacro possa essere il Monte del Tempio per il popolo ebraico, Israele non ha problemi a contrattare su di esso se spera di ottenere un vantaggio politico. Dopo aver liberato l'altopiano sacro dal dominio ostile dei musulmani nel 1967, Israele lo ha prontamente riconsegnato a un ente musulmano ostile, il Waqf giordano.
   Ora i sauditi affermano che per loro la cosa più importante in un accordo di pace con Israele è una maggiore influenza sul Monte del Tempio e garanzie per i "diritti" dei musulmani nel sito.
   I media israeliani hanno riportato questa settimana un recente sondaggio del Washington Institute su ciò che i sauditi, in media, sperano di più da una normalizzazione delle relazioni con Israele.
   Molti potrebbero supporre, e i palestinesi certamente speravano, che uno Stato palestinese fosse in cima alla lista dei sauditi. Ma non è così.
   Secondo il sondaggio, ciò che i sauditi desiderano di più da un accordo di pace con Israele (46% degli intervistati) è vedere "garantiti i diritti dei musulmani alla Moschea di Al-Aqsa" (cioè il Monte del Tempio).
   I progressi verso uno Stato palestinese è la priorità assoluta solo per il 36% dei sauditi intervistati dal Washington Institute.
   L'elenco delle priorità è completato dagli aiuti militari americani (18%) e dalla cooperazione con gli Stati Uniti nello sviluppo dell'energia nucleare saudita (16%).
   Da un lato, i sentimenti sauditi facilitano il raggiungimento di un accordo di normalizzazione, ha osservato l'esperto israeliano Asher Fredman, ricercatore senior presso il Misgav Institute for National Security and Zionist Strategy.
   Freeman ha dichiarato a Israel Hayom che i risultati mostrano che per soddisfare l'opinione pubblica saudita, Israele deve solo fare ciò che sta già facendo, ovvero mantenere il libero esercizio della religione per i musulmani sul Monte del Tempio.
   Riyadh cerca da tempo di avere una maggiore influenza sul Monte del Tempio, anche se molti sauditi affermano che il sito non è così importante per l'Islam.
   L'Arabia Saudita controlla già il primo e il secondo luogo sacro dell'Islam, quindi perché non il terzo? Anche questo è un aspetto che Israele probabilmente preferirebbe. È molto meglio lavorare con un regime saudita amichevole che con il velenoso Waqf giordano influenzato dai palestinesi.
   Ma questo solleva ancora una volta la questione: Israele è davvero sovrano nella sua terra, e soprattutto nella Città Santa di Gerusalemme, se non controlla il Monte del Tempio, se gli ebrei non possono ancora pregare nel luogo più sacro dell'ebraismo?
   Cos'è Gerusalemme senza il Monte del Tempio, il luogo in cui Dio ha inciso il suo nome?
   E cos'è Israele senza Gerusalemme?
   L'anno scorso, quando il Ramadan coincideva con la Pasqua e il Monte del Tempio era teatro di forti tensioni, un sondaggio dell'Israel Democracy Institute ha rivelato che la maggior parte degli ebrei israeliani era stanca di dover continuamente trattare per il loro luogo più sacro e chiedeva una vera sovranità. La metà degli intervistati ha dichiarato che gli ebrei dovrebbero almeno essere autorizzati a pregare sul Monte del Tempio.
   Scambiare un padrone di casa musulmano con un altro, anche se migliore sotto ogni aspetto, fa forse progredire la ricostruzione di Israele?

(Israel Heute, 2 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele è in guerra, sempre sotto attacco. Ma l'Occidente condanna solo la risposta contro i terroristi

di Paolo Salom

Israele è in guerra. Ormai da mesi. Il lontano Occidente finge di non accorgersene, di non vedere. Le rare volte che un attacco palestinese a israeliani inermi arriva sui giornali, in fondo all'articolo si fa il "bilancio" generale dei morti dell'una e dell'altra parte, senza ovviamente fare distinzioni. Così, a un lettore distratto (o poco edotto sulla questione: quasi tutti), appare con chiarezza una sproporzione tra le vittime: quelle di parte arabo-palestinese sono sempre più numerose. Dunque, a ben vedere, la situazione è sempre la stessa: Israele è lo Stato più forte e aggressivo, i palestinesi, poverini, sotto occupazione, si difendono come possono ma subiscono le perdite più ingenti, spesso giovanissimi se non addirittura "bambini".
  Questa è la narrativa nel lontano Occidente. Pochi arrivano - e non sempre per loro pigrizia - a scavare nelle notizie per capire cosa davvero sia successo. Che più o meno è sempre questo: un gruppo di terroristi (o anche un aggressore solitario) prendono di mira una vettura di civili israeliani, o semplici passanti, sparano, accoltellano, uccidono senza riguardo dell'età dei loro "obiettivi", che sono quasi sempre esseri umani inermi, raramente soldati (perché in grado di difendersi visto che sono armati). Dopo l'attentato, scatta la caccia all'uomo, proprio come accadrebbe in qualunque altro Paese del mondo. Quando i responsabili dell'attentato sono individuati, nascosti nelle città rifugio della cosiddetta Cisgiordania (ovvero Giudea e Samaria, gli unici nomi reali di quelle regioni), vengono arrestati o, più spesso, eliminati dal momento che l'intervento di Tsahal suscita una battaglia con l'uso di armi, pietre e persino bombe piazzate lungo le strade.
   Gli attacchi in verità hanno proprio quello scopo: istigare un'azione dell'esercito di Israele nei territori così da provocare la regolare indignazione del lontano Occidente, lesto nel condannare "l'eccessivo uso della forza". E qui arriviamo al punto. Israele, da decenni, lotta contro un nemico irriducibile, sostenuto da Paesi vicini e lontani che hanno tutto l'interesse nel creare queste continue crisi. E lo fa con una mano legata dietro la schiena. Non c'è dubbio che, volendo, Israele sarebbe in grado di distruggere i suoi avversari. Il prezzo da pagare sarebbe alto, certo: molti soldati, e molti civili arabi, potrebbero rimanere uccisi o feriti. Questa è la logica spaventosa della guerra. E basta dare uno sguardo ai fatti del mondo per rendersi conto che, altrove, certi scrupoli umanitari non sono nemmeno considerati.
   Israele invece pone sempre e comunque la protezione della vita umana - qualunque vita umana: persino quella dei nemici - al di sopra di ogni altra valutazione. Il minimo che il lontano Occidente potrebbe fare è riconoscerlo e dire con chiarezza, a coloro che ispirano e organizzano le violenze, che non avranno più il sostegno necessario alla vita di tutti i giorni, la protezione politica. Invece, il silenzio a questo proposito è assordante. Mentre le condanne dell'operato di Tsahal - o del governo di Gerusalemme - non si contano. È questo il punto, ed è questo che per noi non è accettabile: Israele è un faro per l'umanità. È il nostro rifugio. Va protetto. A qualunque costo.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, ottobre 2023)

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Papa Pio XII, le relazioni ebraico-cristiane e la storia

Un convegno internazionale all’Università Pontificia Gregoriana per parlare del Vaticano durante l’Olocausto e delle relazioni tra Chiesa e ebrei in Italia e in Europa, grazie a nuovi documenti che emergono dagli archivi.

di Laura Forti

Avrà luogo nel mese di ottobre, dal 9 all’11, nell’Aula Magna dell’Università Pontificia Gregoriana un convegno importante dal titolo “Nuovi documenti dal Pontificato di Pio XII e loro significato per le relazioni ebraico-cristiane”. Si tratterà di un dialogo tra storici e teorici di massimo livello internazionale. L’obbiettivo è gettare una nuova luce sul controverso pontificato di Pio XII, nato Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli, insignito papa nel 1939, l’anno successivo alle leggi razziali, considerato a volte un papa amico degli ebrei e inviso al nazismo, che considerava un’eresia, altre invece un papa connivente che conosceva la realtà di Auschwitz ma non cercò di fermare lo sterminio e la persecuzione.
  Ma la conferenza cercherà di andare oltre il cliché, i due estremi da tifoseria da stadio, ovvero la «leggenda rosa» (Pio XII Defensor civitatis, non solo amico ma difensore e protettore dell’ebraismo) alla «leggenda nera» (il «Papa di Hitler», animato da indifferenza, se non addirittura compiacimento verso la tragedia).
  Il convegno dovrebbe offrire quindi spazio semmai per un ragionamento complessivo su alcuni aspetti dell’azione della Santa Sede nell’«età dei totalitarismi», come già aveva tentato di fare la bella lettura critica offerta da David Bidussa nel suo importante saggio La misura del potere. Pio XII e i totalitarismi tra il 1932 e il 1948 (Solferino, Milano 2020) nel quale l’autore ragionava sul rifiuto da parte di Pacelli e della Chiesa dell’«ateismo materialista»  tra gli anni Trenta e Quaranta e poneva all’interno di questo contesto anche la «questione ebraica», intesa come radice del «disordine», fantasma introiettato della definitiva rottura dei vecchi schemi.
  Il personaggio Pio XII in effetti è estremamente controverso.  Uno dei suoi primi atti appena salito al pontificato fu, nell’aprile del 1939, quello di togliere dall’Indice i libri di Charles Maurras, animatore del gruppo politico di estrema destra Action française, che aveva molti simpatizzanti cattolici anche se alcuni storici tendono a leggere questo episodio non tanto in chiave antisemita quanto anticomunista, dato che è avvenuto in un periodo storico in cui anche l’Italia incominciava a dar concreta applicazione alle leggi per la difesa della razza.
  Nella sua prima enciclica “Summi Pontificatus” del 20 ottobre 1939, Pio XII, senza nominare espressamente fascismo e nazismo, lamentò le conseguenze dell’attuale crisi spirituale e la diffusione delle «ideologie anticristiane» e di un «paganesimo corrotto e corruttore». Tra le righe Pio XII condannava ogni discriminazione razziale, affermando la «comune origine in Dio» di tutto il genere umano; introdusse il concetto di convivenza pacifica e, soprattutto, elevò il suo straziante lamento per la Polonia, nazione fedele alla Chiesa.
  Durante la guerra, vari e ripetuti furono gli appelli del Papa in favore della pace. Va ricordato in particolare il radiomessaggio natalizio del 1942, in cui Pacelli a dire il vero denunciò anche lo sterminio delle persone su base razziale. Mussolini commentò  con sarcasmo: «Il Vicario di Dio non dovrebbe mai parlare: dovrebbe restare tra le nuvole. Questo è un discorso di luoghi comuni che potrebbe agevolmente essere fatto anche dal parroco di Predappio»
  D’altra parte dopo l’8 settembre e la fuga dei Savoia dalla capitale, Pio XII rimase a Roma, all’interno del Vaticano. Non elevò alcuna protesta per la cruenta occupazione nazista della città, che causò la morte di alcune centinaia di difensori, tra militari e civili.
  Durante il corso della guerra, nonostante le numerose informazioni ricevute, non condannò mai ufficialmente né si impegnò pubblicamente per fermare le deportazioni. Offrì però rifugio presso la Santa Sede a molti ebrei e a esponenti politici antifascisti tra cui Alcide De Gasperi e Pietro Nenni; non sempre però i tedeschi rispettarono l’extra-territorialità di alcune altre aree a Roma di pertinenza della Santa Sede: nel 1943 ad esempio fecero irruzione nella basilica di San Paolo fuori le mura e vi presero alcuni prigionieri.
  Diversi autori hanno espresso forti critiche verso il comportamento tenuto dalla Santa Sede dopo l’attentato di via Rasella e l’Eccidio delle Fosse Ardeatine (23 – 24 marzo 1944). Si è speculato che, almeno cinque ore prima dall’uccisione della prima vittima della rappresaglia tedesca, la segreteria di Stato vaticana fosse in possesso di informazioni e avrebbe potuto intervenire.
  Ma l’argomento inquadrato dal Convegno è ancora più vasto e trascende la figura di Pio XII  perché ci si propone di analizzare un quadro ancora più ampio e complesso, quello del Vaticano durante l’Olocausto, nonché esplorare le relazioni tra Chiesa e ebrei, in Italia e in Europa, grazie a nuovi documenti che emergono dagli archivi – rimasti chiusi per anni e anche recentemente causa Covid – grazie a una collaborazione nuova ed inedita tra istituzioni e ricercatori.
  Si comincerà con l’affrontare le motivazioni e le decisioni di Pio XII durante il fascismo, ma anche il suo atteggiamento verso il comunismo e il nazismo, cercando di comprendere a pieno il suo ruolo come capo della Santa sede. Se sapeva perché non parlò, perché non prese una posizione chiara? Come venne gestita dal Vaticano l’applicazione delle leggi razziali, nate dalla Germania nazista e presto divulgate in tutta Europa? Chi salvò veramente gli ebrei e perché? Forse questi nuovi documenti ce lo diranno. Come sarà interessante esplorare il dopo guerra, quando il Vaticano fu chiamato ad aver un ruolo nei processi ai criminali nei tribunali militari e dovette schierarsi; fino a ripercorrere il cammino che ha condotto alla formulazione della dichiarazione “Nostra Aetate” nel 1965 quando, a venti anni dalla Shoah, il Secondo Concilio Vaticano ha respinto l’antisemitismo e sottolineato una profonda connessione tra mondo cristiano ed ebraico; o su come il periodo della Shoah abbia influito su successivi processi di dialogo.
  La caratteristica interessante sarà proprio vedere riuniti studiosi laici e teologi, provenienti dalla chiesa, uniti a cercare punti di contatto e ad analizzare scientificamente contraddizioni, in un intento comune, quello di arrivare a una verità. Uno spazio aperto quindi per studio e discussione. Un’occasione che Liliana Picciotto, definisce “un punto di svolta nella storia delle relazioni ebraico-cristiane del nostro tempo”.
  Non solo. “L’apertura degli archivi vaticani nel marzo 2020 ha rappresentato un nuovo capitolo, un segnale di apertura e trasparenza da parte di Roma” afferma la dottoressa Suzanne Brown-Fleming, direttrice del programma Accademico internazionale al Jack, Joseph and Morton Mandel Center for Advanced Holocaust Studies. L’attesa di poter visionare questi materiali è durata decenni ed avere finalmente accesso ai documenti è non solo importante dal punto di vista dello studio e della ricerca, ma rende anche giustizia morale alla memoria dei sopravvissuti e alle loro famiglie.

(JoiMag, 2 ottobre 2023)

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Il fascino dell'antica sinagoga tunisina di Kélibia svelato al MAHJ di Parigi

di Claudia De Benedetti

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A Kélibia, città costiera nel nord-est della Tunisia, uno scavo archeologico ha portato alla luce i resti di un'antica sinagoga ai piedi dell'antica fortezza romana. Al MAHJ, Museo di Arte e Storia Ebraica di Parigi, Mounir Fantar, esperto dell’Istituto nazionale del patrimonio tunisino, ha tenuto la scorsa settimana una conferenza nell’ambito del ciclo di incontri intitolato ‘Arte e archeologia dell’ebraismo’ in cui ha spiegato le caratteristiche salienti dell’importante scoperta.
   I lavori stradali effettuati nella zona del porto della località balneare costituiscono la prima prova di un'antica presenza dell'ebraismo nella regione di Cap Bon. Il ritrovamento di un mosaico in perfetto stato di conservazione ha condotto gli archeologi a sostenere che vi sia stato un insediamento ebraico risalente al V secolo. La decorazione è stata successivamente attribuita al pavimento di un edificio, verosimilmente una sinagoga, in cui è di notevole fascino la presenza di dodici candelabri a sette braccia, alcuni dei quali affiancati da cedri, palme e da una iscrizione latina che attesta il carattere ebraico del luogo. Menorah e iconografia legata alla festa di Sukkot sono quindi oggetto di studio in un’area geografica di grande interesse dal punto di vista storico e archeologico.
   Il piccolo porto di Kélibia deve il proprio nome al porto fenicio di Clupea, che sorgeva nella zona in cui anche romani e bizantini hanno lasciato traccia del loro passaggio. La cittadina, oltre a essere caratterizzata da alcune tra più belle e incontaminate spiagge della Tunisia, ha importanti monumenti, a testimonianza del suo antico e affascinante passato. La fortezza, perfettamente conservata, fu edificata per proteggere la costa e consentire di avvistare le navi provenienti dal Mediterraneo. Domina un’altura di oltre cento metri, vi sono vestigia di edifici romani e di una cappella verosimilmente di origini bizantine, all’interno della quali sono esposti documenti storici e manoscritti. Dal faro, situato nell’area a sud del forte, nei giorni di cielo limpido, è possibile osservare il del litorale di Capo Bon e l’isola di Pantelleria che dista poco meno di 70 chilometri dalla costa tunisina. Nei pressi del forte si trovano anche le vestigia di un’antica villa romana con mosaici che rappresentano scene di caccia. Kélibia e l’area di Capo Bon sono infine note per le vaste coltivazioni di viti, tabacco e legumi.

(Shalom, 2 ottobre 2023)

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