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Notizie 1-15 settembre 2023


“Una famiglia ebraica nella Shoah si salva in Svizzera”

Articolo che Paola Fargion ha scritto di ritorno dal percorso di Memoria in Svizzera 10-12 settembre 2023. Scrittrice di narrativa ebraica, è da anni impegnata sul tema della Memoria e della Shoah a livello nazionale e internazionale. Paola Fargion è la fondatrice del progetto “Il Ricordo e la Vita”.

di Paola Fargion

• Svizzera, salvezza e Albero della Riconoscenza
  Il Notaio Raoul Luzzani era un uomo giusto. Elegante ma sobrio, colto e di profilo discreto, fu Presidente nel Novecento di molte istituzioni pubbliche e private in tutto il territorio comasco: dall’Ospedale Sant’Anna al Collegio Notarile e l’Opera Pia di Ossuccio, sempre in provincia di Como.
  Era nato nel 1878 e tutta la sua famiglia proveniva da Pognana Lario, un paesino affacciato sul lago che guarda la Svizzera, un luogo dove tutti lo conoscevano e lo stimavano. Me lo immagino: alto e magro, con l’incedere calmo del gentiluomo d’altri tempi, in doppiopetto gessato, intento a passeggiare sul lungolago di domenica dopo la Messa in Duomo. Fedele ai suoi principi, il Notaio Luzzani era antifascista e tra i pochi Notai che il territorio di Como e Varese annoverasse.
  Forse (ma non posso garantirlo) l’unico ad essere dichiaratamente contro il regime. Frequentava persone che la pensavano come lui e sicuramente avrà tremato all’arrivo delle truppe naziste in città, chiuso nel suo appartamento dove aveva anche lo studio, in Corso Vittorio Emanuele a Como.
  Di certo non accettava la politica razzista ed antisemita che il governo fascista aveva imposto agli italiani di origine ebraica dal 1938. E certamente non avrebbe tollerato i propositi di sterminio ebraico che, dopo l’8 settembre 1943, i nazisti con l’appoggio del governo della Repubblica di Salò si preparavano ad attuare. E così, quando gli si presentò l’occasione, il Notaio Luzzani agì convocando due testimoni.
  Redasse dunque un documento cruciale per la salvezza di un’intera famiglia ebraica: i Pardo di Bologna. In realtà l’idea di chiedere aiuto al Notaio era stata di Gemma Volli, intraprendente ed acuta insegnante triestina, zia del piccolo Lucio Pardo in fuga alla ricerca di salvezza con mamma Iris, papà Ferruccio e la piccola sorellina Ariella di appena tre anni. Tutti approdati a Como dopo una drammatica fuga da Bologna nella speranza di raggiungere la Svizzera. Gemma Volli sapeva che nessuno di loro sarebbe mai stato accolto come richiedente asilo presentando documenti falsi.

• Una situazione paradossale
  Che situazione paradossale: essere fuggiti con carte d’identità false e ritrovarsi poi al confine svizzero con la richiesta di un documento che attestasse l’identità ebraica… Per essere salvi, titolari del diritto all’asilo… Per sfuggire così alla deportazione e allo sterminio. Gemma Volli era consapevole di tutto ciò e – accertato che la sua famiglia stava per raggiungerla a Como – era stata aiutata da una rete di conoscenti che l’avevano condotta dal coraggioso Notaio antifascista.
  Raoul Luzzani sapeva che la stesura di un simile documento avrebbe rappresentato la sua morte se i Pardo-Volli fossero stati catturati, ma avrebbe altresì rappresentato la Vita per il piccolo Lucio e la sua famiglia davanti alle Autorità svizzere. E non vacillò di fronte alla scelta.
  Da Solzago dov’era rifugiato, il gruppetto di ebrei scese a lago, lo attraversò ed accompagnato da un paio di contrabbandieri iniziò la faticosa e pericolosa ascesa del Monte Bisbino fino all’agognata frontiera, segnalata da una rete metallica i cui campanelli trillavano ad ogni tenue soffio di vento. I Pardo e zia Gemma Volli ce la fecero e la oltrepassarono, con in tasca il prezioso lasciapassare per la salvezza. E una volta in territorio elvetico furono accolti e protetti fino alla fine della guerra.
  Il Notaio Raoul Luzzani non fu mai scoperto e continuò a lavorare fino al 1971, data della sua morte. Quel documento fu determinante per agevolare l’ingresso in Svizzera e salvare così cinque vite umane. E se è vero che ”Chi salva una vita salva il mondo intero”, allora il Notaio Raoul Luzzani ha contribuito a salvare un universo!

• Il coraggio del notaio Luzzani
  Il 13 febbraio 2023 l’Ente Villa Carlotta, a Tremezzina sul lago di Como, ha voluto onorare il coraggio di un uomo, prima che Notaio, Revisore dell’Ente, Presidente del Collegio Notarile e molto altro. Un uomo la cui voce interiore ha contrastato la barbarie con una firma che ha portato la Vita. Il Notaio Luzzani ha saputo scegliere il Bene.
  L’Ente Villa Carlotta ha ospitato un evento commemorativo importante culminato con la dedica di uno degli alberi secolari presenti nel giardino: un meraviglioso leccio antico, possente e proteso verso il lago e l’orizzonte, ben radicato nella sua terra e con la chioma frondosa che tocca il cielo.
  Il “leccio Luzzani” affonda le radici nella concretezza e protende i rami verso l’infinito, proprio come il coraggioso Notaio comasco a cui si sono aggiunti i tre Alberi della Riconoscenza piantumati in Svizzera: a Bruzella il 10 settembre 2023 sulla Piazza della Chiesa; a Chiasso nel giardino delle Scuole Elementari e medie il giorno 11 e a Trevano il 12 settembre nei giardini del Centro Professionale Tecnico, tre sentinelle piantumate per vegliare sulla Memoria che deve continuare a camminare, accompagnate da tre targhe commemorative con qr code per scaricare tutta la storia della famiglia Pardo-Volli e i contenuti sempre in aggiornamento del Progetto “Il Ricordo e la Vita”

• Gli incontri a Bruzella, Chiasso e Trevano
  I tre incontri sono stati diversi ma tutti molto emozionanti: a Bruzella era una domenica pomeriggio in cui faceva molto caldo e il pubblico cercava refrigerio nella scarsa ombra disponibile tra gli angoli e i portici della piazza, ma nonostante tutto ha mantenuto l’attenzione, stimolato dalle parole di Alberto Nessi che invitavano a riflettere su accoglienza, respingimenti ed eroismo; dalla toccante testimonianza del protagonista ormai ottantasettenne Lucio Pardo, l’allora bambino arrivato stremato a Bruzella in un giorno di fine novembre con la famiglia dopo momenti di interminabile paura, freddo e fame; ed arricchito dalle nozioni storiche di Adriano Bazzocco che hanno migliorato la conoscenza di quel drammatico momento nel territorio circostante e nell’ intera Europa. Generosa l’accoglienza del Sindaco Stefano Coduri e altrettanto generoso e ricco il buffet con cui il primo cittadino e l’amministrazione comunale hanno voluto onorare i partecipanti all’ evento.
  A Chiasso invece siamo stati accolti in Aula Magna da un attento pubblico di studenti delle Scuole Elementari e Medie coordinati dal loro esuberante ed entusiasta Direttore, il Professor Marco Calò, fiero dei suoi “capolavori”, termine con cui indica i suoi allievi.

• Il Console italiano Meucci e il Sindaco di Chiasso Arrigoni
  Significativi sono stati gli interventi di Gabriele Meucci, Console Generale d’Italia a Lugano con il suo richiamo alla vigilanza, e quello di Bruno Arrigoni, Sindaco di Chiasso con il suo appello a non dimenticare. Anche qui le parole di Lucio Pardo hanno lasciato il segno e molte erano le mani alzate per fare domande e gli occhi puntati su di lui in attesa di saperne di più. In quest’occasione ho avuto il privilegio di conoscere una persona davvero speciale: Paola Reggiani Mauric, una delle insegnanti della Scuola, che con la sua fattiva presenza e nel breve ma incisivo intervento ha dimostrato a tutti noi cosa significhi essere insegnanti attraverso l’umiltà, il servizio verso gli altri, il senso del dovere e la passione.
  Dall’ 11 settembre 2023 so di avere un’amica in più. Ha colpito poi molto gli studenti la serie di fotografie che lo storico Adriano Bazzocco e noi abbiamo proiettato: foto della famiglia Pardo, volti di rifugiati, foto di Chiasso a quei tempi e della propaganda antisemita in Europa e Italia. Foto e simboli che aiuteranno i giovani a non dimenticare. E infine l’ultimo giorno a Trevano, nell’ Auditorium del Centro Professionale Tecnico, sorto sul luogo dove c’era – poi demolito – l’imponente Castello che tra il 1944 e 1945 rappresentò il luogo di studio e lavoro per migliaia di profughi ebrei europei.
  Il Castello di Trevano segnò l’ultima tappa in Svizzera per la famiglia Pardo e il luogo in cui tornò finalmente a riunirsi dopo spostamenti anche a Balerna, Rovio e addirittura nella Svizzera interna. A Trevano Ferruccio Pardo tornò a lavorare nel ruolo che aveva a Bologna – quello di Preside – il piccolo Lucio riprese a studiare e Ariella rivide finalmente la sua mamma dopo mesi di distacco. Nel suo messaggio supportato dalla proiezione di splendide foto di fiori del Giardino Botanico e preziosi interni della Villa, Maria Angela Previtera, Direttrice dell’Ente Villa Carlotta, ha ricongiunto i fili di questo cammino di Memoria e Riconoscenza partito proprio da Villa Carlotta, voluto dalla famiglia Pardo-Volli per ringraziare la Svizzera di averla accolta.
  E da perfetta padrona di casa, rassicurante e autorevole, sempre con il sorriso sulle labbra Cecilia Beti, la Direttrice del Centro Professionale Tecnico, ci ha accolti dando la giusta importanza al messaggio e ai valori in esso contenuti. Cecilia ha organizzato questo memorabile evento in modo perfetto e a lei va il mio più sentito ringraziamento.

• La testimonianza di Ariello Pardo Segre
  Abbiamo tutti ascoltato la voce di Ariella Pardo Segre, la piccola rifugiata ora mamma e nonna che da anni vive in Brasile e che non ha potuto essere in collegamento con noi per via del fuso orario. Le sue parole di testimonianza e ringraziamento hanno tagliato l’aria e l’assoluto silenzio calato sulla platea: la forza della Riconoscenza è riuscita a commuovere lasciando un’orma indelebile nell’ anima di ciascuno di noi.
  E infine, fedelmente accompagnata dalla sua tenera cagnolina ci ha seguiti in ogni tappa Micaela Goren Monti, Presidente della Goren Monti Ferrari Foundation di Lugano che da subito ha creduto in me e nel progetto “Il Ricordo e la Vita”, mettendosi a disposizione per donare i tre Alberi della Riconoscenza, sostenere e valorizzare questo importante percorso. Perché fondamentale è la “Memoria della Salvezza”, ma ancora di più è e deve essere fondamentale la “Salvezza della Memoria”, specie in un momento storico come quello che stiamo attraversando in cui nel guardare troppo in avanti rischiamo di perdere di vista da dove proveniamo. E nel dimenticare errori ed orrori del passato pericolosamente potremo ripeterli.

(italoBlogger, 15 settembre 2023)

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La comunità ebraica lancia la raccolta fondi per la sinagoga di Siena e riceve un’ondata di messaggi antisemiti: scatta la denuncia

Poche ore dopo il lancio della raccolta fondi per restaurare e mettere in sicurezza la Sinagoga di Siena è partita un’ondata di commenti e messaggi antisemiti.
   I commenti antisemiti includevano l’uso di termini dispregiativi come “giudei” per descrivere gli ebrei e suggerivano che gli sforzi di raccolta fondi della comunità ebraica mirassero ad appropriarsi di fondi “immeritati” dipingendo gli ebrei come avidi e ricchi, promulgando stereotipi legati al denaro.
   La Comunità ebraica di Firenze e Siena ha segnalato i commenti antisemiti all’Osservatorio sull’antisemitismo della Fondazione Cdec che monitora gli episodi di antisemitismo e discorsi antisemiti in tutta Italia e all’Ucei, l’unione delle comunità ebraiche italiane.
   “È abbastanza doloroso – commenta Enrico Fink, presidente della Comunità Ebraica di Firenze e Siena – vedere riemergere messaggi del genere in seguito ad una richiesta di aiuto per difendere un monumento e un pezzo di storia, della città di Siena, che è di tutti. Abbiamo letto commenti infarciti di luoghi comuni ed errori anche piuttosto grossolani, per fortuna non sono tutti così e ci sono stati anche messaggi di sostegno oltre alle donazioni che stanno continuando, ad arrivare. C’è solo da augurarci che prima o poi spariscano questi pregiudizi e vengano spazzate via offese e frasi antisemite che non appartengono a città come Siena e Firenze che hanno sempre mostrato vicinanza e sostegno nei confronti della Comunità ebraica”.
   Domenica 10 settembre la Comunità ebraica di Firenze e Siena, in occasione della XXIV Giornata Europea  della Cultura Ebraica, alla presenza del Sindaco di Siena Nicoletta Fabio, del Presidente della FMPS Carlo Rossi  e dei rappresentanti della Soprintendenza di Siena aveva annunciato la campagna di restauro e  fundraising a  favore della Sinagoga di Siena  la cui aula di preghiera è stata chiusa per motivi di sicurezza in seguito agli eventi sismici dello scorso 8 febbraio.
   Servono oltre 300mila euro per restaurare la Sinagoga di Siena. È questa la cifra stimata dall’Associazione Opera del Tempio ebraico di Firenze, fondata nel 1996 da Enzo Tayar, oggi guidata dal suo presidente, l’architetto Renzo Funaro, che si occupa fin dalla sua costituzione della conservazione dei beni ebraici in Toscana. La Sinagoga, alle spalle di piazza del Campo, presenta dissesti alla copertura e alla volta interna con lesioni sia verticali alla muratura che orizzontali alla volta. Anche la volta con il tetto rifatto negli anni ’70 presenta delle lesioni passanti.
   Al momento le funzioni religiose sono state temporaneamente trasferite nel matroneo, mentre resta la possibilità di effettuare visite guidate e visitare il Museo Ebraico. La tutela della Sinagoga di Siena è alla base degli sforzi che la Comunità Ebraica di Firenze e Siena ha iniziato a mettere in campo nei mesi scorsi, con l’obiettivo di avviare un progetto di restauro e una campagna di fundraising internazionale finalizzata a coprire i costi del progetto.  Oggi la Comunità  è fiera di annunciare che i primi aiuti arriveranno dalla prestigiosa David Berg Foundation, fondazione americana che sostiene interventi di restauro di sinagoghe in tutto il mondo, tramite il World Monuments Fund, organizzazione che opera con le comunità locali di tutto il mondo per salvaguardare siti culturali di inestimabile valore, dalla Società Israelitica di Misericordia di Siena, organizzazione che opera a livello locale a sostegno di progetti che promuovono la tutela dei siti ebraici nella città di Siena, e da parte della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia. Questi primi tre importanti finanziamenti che verranno utilizzati per la stabilizzazione della volta danneggiata  serviranno a coprire  insieme  solo i  costi della prima fase del progetto  pari a un terzo  della spesa prevista. Urge quindi  reperire i fondi necessari per completare la seconda fase del progetto finalizzati alla  sostituzione della copertura esistente per eliminare il pericoloso effetto di spinta sui muri perimetrali e per prevenire danni da futuri eventi sismici. 
   Per dare il via alla seconda fase di interventi verrà offerto ai primi 30 donatori, a fronte di una donazione di almeno 1.500 euro, un guest pass Vip per visitare i luoghi più rappresentativi della Siena ebraica. Grazie alla collaborazione con Cantina Terra di Seta, storica casa di vini kasher senesi conosciuta in tutto il mondo, sponsor  dell’iniziativa e Opera Laboratori, società leader in Italia nella gestione museale, già partner della Comunità Ebraica di Firenze e Siena e gestore del Museo Ebraico di Siena, sarà possibile offrire ai donatori  una visita gratuita con tour della Cantina Terra di Seta con degustazione per due persone e una visita guidata privata della magnifica Sinagoga di Siena in via delle Scotte con uno storico dell’arte della Comunità Ebraica. Il voucher rappresenta un dono per ringraziare chi deciderà di sostenere questa importante campagna per preservare uno dei gioielli del patrimonio ebraico italiano.
   La Sinagoga è da sempre il cuore della vita ebraica a Siena. Qui la Comunità Ebraica si ritrova per celebrare le proprie feste assieme anche ai tanti visitatori ebrei di passaggio a Siena, provenienti da tutto il mondo.
   Il Tempio con il suo piccolo museo è anche uno spazio che accoglie scuole, gruppi, studenti di ogni ordine e grado. Un luogo teso a promuovere il patrimonio ebraico come parte integrante della storia della città.
   La Sinagoga di Siena, frutto di una consistente opera di ampliamento e rinnovamento degli originali spazi sinagogali a opera dall’architetto fiorentino Zanobi del Rosso, fu inaugurata nel maggio 1786. La semplice facciata esterna, contrapposta all’elegante ambiente interno riccamente decorato, sono elementi tipici delle sinagoghe costruite prima dell’Emancipazione, prive di segni distintivi all’esterno ma sontuosamente decorate all’interno. Ospita pezzi di grande valore tra cui la sedia del profeta Elia, o sedia della cerimonia della circoncisione, in legno intagliato e intarsiato, donata dal rabbino Nissim nel 1860.

(Canale 3 Toscana, 15 settembre 2023)

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Presentato da Israel Aerospace Industries il drone kamikaze Rotem Alpha, in grado di distruggere carri armati, missili e lanciatori

Israel Aerospace Industries (IAI) ha aggiunto alla sua gamma un drone in grado di distruggere i carri armati. Il quadricottero si chiama Rotem Alpha.

di Maksim Panasovskyi

FOTO
IAI ha presentato il nuovo drone alla fiera DSEI-2023 nel Regno Unito. Si tratta di un drone kamikaze con decollo e atterraggio verticale. Le specifiche dettagliate del Rotem Alpha non sono ancora note, ma IAI afferma che è in grado di distruggere i carri armati nemici.
   Il punto di forza del drone è la sua grande resistenza. Il quadricottero israeliano può volare per 1 ora. Un'altra caratteristica è la capacità di librarsi in aria e condurre ricognizioni indipendentemente dalle condizioni meteorologiche.
   Non ci sono ancora informazioni sulla velocità. L'altitudine massima di volo è di oltre 240 metri. Il Rotem Alpha può trasportare una testata a carica sagomata o a frammentazione. Il peso della testata non è specificato, ma l'intero sistema pesa 28 kg.
   Oltre ai carri armati, gli obiettivi del quadricottero kamikaze sono missili, lanciatori e sistemi di artiglieria. Una serie di sensori avanzati permette al drone di trovare autonomamente gli obiettivi da attaccare. Il Rotem Alpha impiega meno di due minuti per essere dispiegato.

(Gagadget.com, 15 settembre 2023)

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A poche ore dal Capodanno ebraico, il presidente israeliano Herzog ribadisce il suo appello all’unità

Herzog annuncia la creazione dell’iniziativa “Kol Ha’Am – Voice of the People” per favorire il dialogo tra gli ebrei di tutto il mondo

di Paula Trend

Con l’avvicinarsi di Rosh Hashanah, il Capodanno ebraico, il presidente dello Stato di Israele Isaac Herzog si è rivolto alle comunità ebraiche di tutto il mondo attraverso un video pubblicato su YouTube. Il presidente israeliano chiede un maggiore impegno in un dialogo “inclusivo, dinamico e responsabilizzante”. Nel suo messaggio, Herzog sottolinea l’importanza di creare un dialogo tra gli ebrei di tutto il mondo per superare le sfide dell’ultimo anno, compreso l’aumento della retorica e dei crimini antisemiti.
   “Non è un segreto che quest’anno ci abbia sfidato in modi molto reali. Per molti, quel momento di riflessione assume nuovi significati quest’anno, poiché abbiamo visto Israele alle prese con grandi domande che mettono in luce la portata delle differenze tra noi, ” ha detto il presidente, riferendosi molto probabilmente ai disordini che scuotono la società israeliana a margine della controversa riforma giudiziaria avviata dal governo; e le manifestazioni senza precedenti che ne sono derivate per otto mesi.
   “Ma anche se le nostre differenze possono essere dolorose, evidenziano anche una verità confortante: abbiamo tutti profondamente a cuore il nostro popolo ebraico e il nostro amato Stato ebraico e democratico di Israele. Va bene avere differenze. In effetti, avere differenze ed essere in grado di esprimerli è un segno di forza: la forza della nostra democrazia e la forza del nostro popolo. Le nostre differenze sono la nostra più grande risorsa.” Herzog ha annunciato che, in collaborazione con l’Agenzia Ebraica e l’Organizzazione Sionista Mondiale, il suo ufficio ha lanciato l’iniziativa “Kol Ha’Am – La Voce del Popolo” per favorire il dialogo tra gli ebrei di tutto il mondo. “Vi invito a creare un dialogo globale che sia inclusivo, dinamico, responsabilizzante e che abbia un impatto anche sullo stato-nazione del popolo ebraico – per il bene del nostro futuro comune, per il bene del nostro presente comune”.

(dayFRitalian, 15 settembre 2023)

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La Teshuvà: avere il coraggio di cambiare vita (e strada)

Ognuno di noi può crescere e migliorarsi: basta che lo voglia intensamente. Uno degli ultimi messaggi per Yom Kippur

di rav Jonathan Sacks

Ricordo vividamente la sorpresa e la gioia che provai quando lessi per la prima volta Emma di Jane Austen. Era la prima volta che leggevo un romanzo in cui si vede un personaggio cambiare nel tempo. Emma è una giovane donna intelligente che crede di capire le altre persone meglio di loro. Così si mette a sistemare le loro vite – è una shadchan (sensale di matrimoni, ndr) inglese – con conseguenze disastrose, perché non solo non capisce gli altri; non capisce nemmeno se stessa. Alla fine del romanzo, però, è una persona diversa: più anziana, più saggia e più umile. Ovviamente, poiché questa è una storia di Jane Austen, finisce con un “e vissero per sempre felici e contenti”.
   Negli oltre quarant’anni trascorsi da quando ho letto il libro, una domanda mi ha affascinato. Dove ha preso la civiltà occidentale l’idea che le persone possono cambiare? Non è un’idea ovvia. Molte grandi culture non hanno riflettuto in questi termini. I Greci, ad esempio, credevano che siamo ciò che siamo e che non possiamo cambiare. Credevano che il nostro carattere fosse il nostro destino, il carattere come qualcosa di immutabile, con cui nasciamo, che rende necessario un grande coraggio per realizzare il nostro potenziale. Eroi si nasce, non si diventa. Platone credeva che alcuni esseri umani fossero d’oro, altri d’argento e altri di bronzo. Aristotele credeva che alcuni fossero nati per governare e altri per essere governati. Prima della nascita di Edipo, il suo destino e quello di suo padre, Laio, furono predetti dall’Oracolo di Delfi, e niente avrebbero potuto fare per evitarlo.
   Questo è esattamente l’opposto della frase chiave che diciamo nelle feste di Rosh Hashanah e Yom Kippur, cioè Teshuvà, Tefillà e Tzedakà evitano il decreto malvagio. Così è accaduto agli abitanti di Ninive nella storia che leggiamo a Mincha a Yom Kippur. C’era un decreto divino già scritto: “Tra quaranta giorni Ninive sarà distrutta”. Ma il popolo di Ninive si pente e la decisione divina viene annullata. Non c’è un destino definitivo, nessuna diagnosi senza una seconda opinione: metà delle barzellette ebraiche si basano su questa idea.
   Più studiavo e facevo ricerca, più mi rendevo conto che l’ebraismo era il primo sistema di pensiero al mondo a sviluppare un chiaro senso del libero arbitrio umano. Come disse argutamente Isaac Bashevis Singer, “Dobbiamo essere liberi; non abbiamo scelta”.
   Questa è l’idea alla base della teshuvà. Non solo ammettere il male fatto, non solo confessione, non solo dire Al chet shechatanu (per il peccato che abbiamo commesso, ndr). Non è solo rimorso o pentimento: Ashamnu (siamo stati colpevoli, ndr). È la determinazione a cambiare, la decisione che imparerò dai miei errori, che agirò diversamente in futuro, purché abbia deciso di diventare migliore, di modificarmi, di essere un diverso tipo di persona. Per parafrasare rav Soloveitchik, essere un ebreo significa essere creativi, e la nostra più grande creazione è noi stessi. Di conseguenza, più di 3000 anni prima di Jane Austen, vediamo nella Torah e nel Tanakh un processo in cui le persone cambiano.
   Per fare un esempio ovvio: Mosè, Moshe Rabbenu. Lo vediamo all’inizio della sua missione come un uomo che balbetta, che non può parlare facilmente o fluentemente. “Non sono un uomo di parole.” “Sono lento nel parlare e nella lingua.” Ma alla fine è il più eloquente e visionario di tutti i profeti. Mosè è cambiato, è un altro.
   Uno dei contrasti più affascinanti è tra due personaggi biblici che spesso si crede si somiglino, anzi a volte vengono identificai come la stessa persona in due incarnazioni: Pinchas ed Elia. Entrambi erano fanatici, estremisti.
   Ma Pinchas accetta di cambiare. Dio gli affida un patto di pace ed egli diventa un uomo di pace.
   Lo vediamo in età avanzata (in Giosuè 22) condurre un negoziato di pace tra il resto degli Israeliti e le tribù di Ruben e Gad che si erano stabilite dall’altra parte del Giordano: una missione compiuta con successo.
   Anche Elia non è meno fanatico di Pinchas. Eppure c’è una scena significativa che accade qualche tempo dopo il suo grande confronto con i profeti di Baal sul Monte Carmelo. Elia si trovava sul monte Horeb. Dio gli chiede: “Che cosa ci fai qui, Elia?”. Elia risponde: “Sono stato molto zelante per il Signore Dio Onnipotente”.
   Dio quindi manda un turbine, scuotendo la montagna e frantumando le rocce, ma Dio non è nel vento. Poi Dio manda un terremoto, ma Dio non è nel terremoto. Allora Dio manda il fuoco, ma Dio non è nel fuoco. Poi Dio parla in un kol demamah dakah, una voce di sottile silenzio, una voce dolce e sommessa. Ripete di nuovo a Elia la stessa domanda: “Che cosa ci fai qui, Elia?” ed Elia risponde esattamente con le stesse parole che aveva detto prima: “Sono stato molto zelante per il Signore Dio Onnipotente”. A quel punto Dio dice a Elia di nominare Eliseo come suo successore (1 Re 19).
   Elia non era cambiato. Non aveva capito che Dio voleva che esercitasse un diverso tipo di leadership, difendendo Israele e non criticandola (Rashi). L’Onnipotente stava chiedendo a Elia di operare una trasformazione simile a quella che fece Pinchas quando divenne un uomo di pace, ma Elia, a differenza di Pinchas, non cambiò. Anche le sue parole non cambiarono, nonostante la visione epocale. Era diventato troppo santo e disincarnato per questo mondo, quindi Dio lo innalzò nei cieli su un carro di fuoco.
   È stato l’ebraismo, attraverso il concetto di Teshuvà, a portare nel mondo l’idea che possiamo cambiare. Non siamo predestinati a continuare ad essere ciò che siamo. Ancora oggi, questa rimane un’idea radicale. Molti biologi e neuroscienziati credono che il nostro carattere e le nostre azioni siano interamente determinati dai nostri geni, dal nostro DNA. La scelta, il cambiamento di carattere e il libero arbitrio sono – dicono – illusioni. Si sbagliano. Una delle grandi scoperte degli ultimi anni è la dimostrazione scientifica della plasticità del cervello.
   L’esempio più drammatico di ciò è il caso di una donna, Jill Bolte Taylor. Nel 1996, all’età di 37 anni, subì un grave ictus che distrusse completamente il funzionamento dell’emisfero sinistro del suo cervello. Non poteva camminare, parlare, leggere, scrivere o persino ricordare i dettagli della sua vita. Era una neuroscienziata di Harvard. Di conseguenza, è stata in grado di comprendere esattamente ciò che le era accaduto.
   Per otto anni lavorò ogni giorno, insieme a sua madre, per esercitare il suo cervello. Alla fine aveva recuperato tutte le sue facoltà, usando l’emisfero destro, per sviluppare le abilità normalmente esercitate dal cervello sinistro. Potete leggere la storia nel suo libro, My Stroke of Insight, o vederla parlare in una conferenza TED sull’argomento. Taylor è solo l’esempio più drammatico di ciò che diventa ogni anno più chiaro per le neuroscienze: che con uno sforzo di volontà possiamo cambiare non solo il nostro comportamento, non solo le nostre emozioni, e nemmeno solo il nostro carattere, ma la stessa struttura e architettura del nostro cervello. Raramente c’è stata una conferma scientifica più drammatica della grande intuizione ebraica, che possiamo cambiare. Questa è la sfida della Teshuvà.
   Ci sono due tipi di problemi nella vita: tecnici e adattivi. Quando affronti il primo, vai da un esperto per la soluzione. Ti senti male, vai dal dottore, lui diagnostica la malattia e ti prescrive una pillola. Questo è un problema tecnico. Il secondo tipo è quando noi stessi siamo il problema. Andiamo dal dottore, lui ascolta attentamente, fa vari esami e poi dice: “Posso prescriverti una pillola, ma a lungo termine non servirà a nulla. Sei sovrappeso, poco allenato e sovraccaricato. Se non cambi il tuo stile di vita, tutte le pillole del mondo non ti aiuteranno”. Questo è un problema adattivo. I problemi di adattamento richiedono Teshuvà, e la Teshuvà stessa si basa sulla proposizione che possiamo cambiare. Troppo spesso ci diciamo che è impossibile che non possiamo modificarci. Siamo troppo vecchi, troppo radicati nei nostri modi e abitudini. È troppo disturbo. Ma così ci priviamo del più grande dono: la capacità di cambiare. Questa è stata una delle più grandi intuizioni dell’ebraismo, un regalo alla civiltà occidentale.
   È anche la chiamata di Dio, per noi, nello Yom Kippur. Questo è il momento in cui ci chiediamo: dove abbiamo sbagliato? Dove abbiamo fallito? Quando ci diamo la risposta, è allora che abbiamo bisogno del coraggio di cambiare. Se crediamo di non poterlo fare, non lo faremo. Se crediamo di poterlo fare, lo faremo.
   La grande domanda che Yom Kippur ci pone è: cresceremo nel nostro ebraismo, nella nostra maturità emotiva, nella nostra conoscenza, nella nostra sensibilità o rimarremo quello che eravamo? Non credete mai di non poter essere diversi, più grandi, più fiduciosi, più generosi, più comprensivi e indulgenti di quanto eravamo.
   Possa così quest’anno essere l’inizio di una nuova vita per ognuno di noi, avendo il coraggio di crescere.

(a cura di Lidia Calò)



Dieci piccole-grandi idee per Rosh HaShanà e Yom Kippur

Mentre ci avviciniamo a Rosh Hashana,  Yom Kippur e all’inizio dell’anno ebraico, ecco dieci brevi idee che potrebbero aiutarci a focalizzare il nostro pensiero e assicurarvi un’esperienza significativa e trasformante.

1 La vita è breve
Per quanto l’aspettativa di vita sia aumentata, non saremo in grado, in una sola vita, di ottenere tutto ciò che vorremmo ottenere. Questa vita è tutto ciò che abbiamo. Quindi la domanda è: come possiamo usarla bene?

2 Ogni nostro respiro è dono di Dio
La vita non è qualcosa che possiamo dare per scontata. Se lo facciamo, non riusciremo a celebrarla. Sì, crediamo nella vita dopo la morte, ma è nella vita prima della morte che troviamo veramente la grandezza umana.

3 Siamo liberi
L’ebraismo è la religione dell’essere umano libero che risponde liberamente al Dio della libertà. Non viviamo stretti nella morsa del peccato. Il fatto stesso che possiamo fare teshuva, che possiamo agire in modo diverso domani rispetto a ieri, ci dice che siamo liberi.

4 La vita ha un significato
Non siamo semplici incidenti della materia, generati da un universo che è nato senza motivo e che un giorno, senza motivo, cesserà di esistere. Siamo qui perché c’è qualcosa che dobbiamo fare; essere partner di Dio nell’opera della creazione, avvicinando il mondo che è al mondo come dovrebbe essere.

5 La vita non è facile
L’ebraismo non vede il mondo attraverso lenti rosate. Il mondo in cui viviamo non è il mondo come dovrebbe essere. Ecco perché, nonostante ogni tentazione, l’ebraismo non ha mai potuto dire che l’era messianica è arrivata, anche se l’attendiamo quotidianamente.

6 La vita può essere dura, ma può ancora essere dolce
Gli ebrei non hanno mai avuto bisogno della ricchezza per essere ricchi, o del potere per essere forti. Essere ebreo è vivere per le cose semplici: l’amore, la famiglia, la comunità. La vita è dolce quando viene toccata dal Divino.

7 La nostra vita è la più grande opera d’arte che potremo mai realizzare
Nei Yamim Noraim, nei “giorni terribili”, facciamo un passo indietro dalla nostra vita come un artista che si allontana dalla sua tela, vedendo cosa deve cambiare affinché il dipinto sia completo.

8 Siamo ciò che siamo grazie a coloro  che ci hanno preceduto
Ognuno di noi è una lettera nel libro della vita di Dio. Non iniziamo con niente. Abbiamo ereditato la ricchezza, non materiale ma spirituale. Siamo eredi della grandezza dei nostri antenati.

9 Siamo eredi anche di un altro tipo di grandezza: quello della Torah e dello stile di vita ebraico
L’ebraismo ci chiede grandi cose e così facendo ci rende grandi. Camminiamo alti quanto gli ideali per i quali viviamo, e anche se possiamo fallire ripetutamente, gli Yamim Noraim – i giorni terribili – ci permettono di ricominciare da capo e di guardare ai nostri errori.

10 Il suono della preghiera sincera
Insieme al suono penetrante dello shofar, la preghiera ci dice che tutta la vita è un semplice respiro, ma il respiro non è altro che lo spirito di Dio dentro di noi. Siamo polvere della terra, ma dentro di noi c’è il respiro di Dio.

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Ecco, se riuscissimo a ricordare soltanto qualcuno di queste idee, o anche solo una, potremmo forse vivere un’esperienza forte e significativa a Rosh Hashana e Yom Kippur.



(Bet Magazine Mosaico, 15 settembre 2023)

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Prima volta per una delegazione israeliana a Riad. Passi avanti verso la normalizzazione?

Questa settimana la riunione Unesco ha offerto l’occasione di un ulteriore passo avanti dopo quello di un anno fa sui cieli aperti. Diplomazie al lavoro, anche sul format.

di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi

Lunedì è atterrata in Arabia Saudita la prima delegazione ufficiale del governo israeliano. L’occasione è un incontro a Riad del Comitato per il patrimonio mondiale dell’Unesco. L’anno scorso era circolata l’idea di una partecipazione di Eli Cohen e Yoav Kisch, ministri rispettivamente degli Esteri e dell’Educazione, ma secondo i media israeliani gli Stati Uniti avrebbero suggerito prudenza in quell’occasione.
   Le cose sono cambiate abbastanza in fretta, e quest’anno la partecipazione sembra rappresentare un ulteriore passo verso la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e Arabia Saudita, su cui gli Stati Uniti puntano parte delle rimodulate policy mediorientali.
   Un esempio di come le cose stiano procedendo in senso ampio attorno a questa scommessa di normalizzazione è la presentazione, guidata dal presidente americano Joe Biden, del Corridoio economico India-Medioriente-Europa, che ha proprio nei due Paesi mediorientali due snodi fondamentali. Il Corridoio, presentato a margine del recente summit G20 di Nuova Delhi e a cui partecipano altri Paesi alleati e partner (tra questi l’Italia), si basa sul concetto geostrategico noto come “costrutto indo-abramitico”, dove Riad e Gerusalemme sono i cardini — teoricamente con Roma — di quel contesto socio-culturale abramitico che connette al fondo l’Indo Mediterraneo.
   La prima volta di una delegazione ufficiale del governo israeliano in visita in Arabia Saudita per l’evento Unesco fa il paio con la decisione di un anno fa da parte di Riad di consentire a tutti i voli commerciali da e per Israele di utilizzare lo spazio aereo del Regno. Ulteriore dimostrazione di come questi collegamenti fisici/infrastrutturali siano parte dello schema di normalizzazione e connessione politico-culturale dalla dimensione storica. Chiaramente l’Unesco è uno spazio perfetto per proseguire il processo, che è complicato proprio dal peso storico e da divisioni ideologiche e per questo non può essere troppo violento. D’altra parte comunque ci sono tutti gli interessi a farlo procedere.
   Le diplomazie e gli altri canali di contatto tra Gerusalemme e Riad sono attivi. Nessuno si spinge a ipotizzare una data ma tutti guardano con attenzione all’avvicinarsi delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti fissate per il 5 novembre dell’anno prossimo. Il peso e le ambizioni politiche dell’Arabia Saudita suggeriscono che alla fine la strada scelta sarà quella di un formato bilaterale, o al massimo trilaterale con gli Stati Uniti, piuttosto che un formato Negev (che coinvolge che Bahrein, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Marocco) o gli Accordi di Abramo (negoziati dagli Stati Uniti e firmati da Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Israele, Marocco e Sudan).
   Il punto sta nel gioco di equilibri attorno ai tre attori principali. L’amministrazione Biden ha un rapporto controverso con Riad (il presidente in campagna elettorale aveva definito “un paria” il factotum del regno, l’erede al trono e primo ministro Mohammed bin Salman addossandogli di fatto la responsabilità della macabra vicenda Kashoggi) e con Gerusalemme. Non è una novità che il democratico alla Casa Bianca non abbia un rapporto personale eccellente con il leader che ha segnato la storia recente israeliana, Benjamin Netanyahu, e a maggior ragione adesso che il governo israeliano è su posizioni sioniste radicali (tanto per dare la misura, Netanyahu non è mai stato ospitato alla Casa Bianca dalla presidenza e sembra che avrà il primo bilaterale con il presidente a latere dell’Assemblea generale Onu, programmata per fine mese a New York).
   Tuttavia, per primo Washington tanto quanto Riad e Gerusalemme, sembrano propensi a superare le divergenze visto l’ottica strategica della normalizzazione. Rimodellare le relazioni tra Israele e Arabia Saudita — senza eccessivamente tralasciare la questione palestinese — serve a creare un precedente storico-culturale che potrebbe smuovere altre parti del mondo arabo sulla stessa direzione. Inoltre diventa un imperativo funzionale a programmazioni di lunga gittata, come appunto il corridoio indo-mediterraneo su cui si muovono direttamente altre potenze come l’India e indirettamente ne tocca altre come la Cina (perché il piano rappresenta un’alternativa all’infrastruttura geopolitica Obor/Bri).

(Formiche.net, 15 settembre 2023)

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Israele intercetta 16 tonnellate di materiale per razzi diretti a Gaza

di Sarah G. Frankl

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Israele ha sventato un tentativo di contrabbando di 16 tonnellate di sostanze chimiche che potrebbero essere utilizzate per la fabbricazione di combustibile per razzi, nascoste in un carico proveniente dalla Turchia e diretto alla Striscia di Gaza. Lo hanno annunciato giovedì le autorità doganali israeliane.
   Tra i container arrivati al porto di Ashdod nel mese di luglio ce n’erano alcuni contenenti 54 tonnellate di gesso per l’edilizia a Gaza.
   In questi container, gli ispettori hanno trovato 16 tonnellate di cloruro di ammonio, una sostanza chimica a doppio uso che Israele vieta di portare a Gaza a causa del suo potenziale utilizzo per la costruzione di razzi, ha dichiarato la Direzione delle dogane.
   Negli ultimi anni, i gruppi terroristici della Striscia governata da Hamas hanno lanciato decine di migliaia di razzi contro Israele.
   All’inizio del mese, Israele ha temporaneamente bloccato le esportazioni da Gaza in seguito a quello che ha dichiarato essere un tentativo di contrabbando di esplosivi dall’enclave costiera.
   L’esercito aveva ordinato di fermare per diversi giorni le consegne commerciali da Gaza a Israele dopo che diversi chilogrammi di materiale esplosivo “di alta qualità” erano stati trovati nascosti in una spedizione di vestiti.
   Il Ministero della Difesa ha dichiarato che, secondo le prime valutazioni, gli esplosivi erano destinati ad essere utilizzati per attività terroristiche in Cisgiordania.
   “La Difesa non permetterà ai terroristi di approfittare del canale civile e umanitario nella Striscia di Gaza per accumulare materiale da usare per atti di terrore”, hanno dichiarato il Ministero e il Coordinatore delle attività governative nei Territori.
   La Striscia di Gaza è sottoposta a un blocco guidato da Israele da quando il gruppo terroristico di Hamas ha preso il potere dall’Autorità Palestinese con un sanguinoso colpo di stato nel 2007. Israele sostiene che il blocco, applicato anche dal vicino Egitto, è necessario per impedire al gruppo terroristico, che cerca apertamente la distruzione di Israele, di armarsi.

(Rights Reporter, 15 settembre 2023)

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La Comunità Palestinese si divide: Fatah critica la dichiarazione degli intellettuali palestinesi contro il discorso antisemita di Abbas

Proseguono le controversie e si intensificano le polemiche in seguito alle dichiarazioni rilasciate alla fine di agosto da Mahmūd Abbās (noto anche come Abū Māzen) durante il Comitato Rivoluzionario di al-Fatah. Il presidente palestinese aveva sostenuto per l’occasione che Hitler perseguì gli ebrei europei non a causa della loro religione, ma piuttosto per il loro coinvolgimento in attività finanziarie come l’usura e il commercio monetario; dichiarazioni talmente inammissibili da indurre la sindaca di Parigi, Madame Hidalgo, a revocargli la Medaille Grand Vermeil, prestigiosissimo riconoscimento francese.
   Nel frattempo  – come scrive La Presse  – oltre 200 figure di spicco nella comunità palestinese hanno criticato aspramente Abbās per i suoi commenti, considerati appunto «inaccettabili». In una lettera aperta disponibile online, queste personalità condannano fermamente le parole moralmente e politicamente discutibili di Abbas. Tra i firmatari figurano Rashida Tlaib, membro democratico del Congresso degli Stati Uniti, lo storico Rashid Khalidi e l’avvocato Noura Erakat, tre figure americane di origine palestinese notoriamente critiche nei confronti di Israele.
   Nella lettera, essi affermano con decisione: «Respingiamo categoricamente qualsiasi tentativo di minimizzare, distorcere o giustificare l’antisemitismo, i crimini nazisti contro l’umanità o la revisione storica dell’Olocausto».
   Queste prese di posizione sono seguite alla diffusione di un video, il 6 settembre, in cui Mahmūd Abbās ha dichiarato durante una riunione del suo partito, Fatah, a Ramallah in Cisgiordania: «Si dice che Hitler abbia ucciso gli ebrei perché erano ebrei e che l’Europa odiava gli ebrei perché erano ebrei. Ma questa non è la verità… Era spiegato molto chiaramente: gli europei hanno attaccato gli ebrei a causa del loro ruolo sociale e non a causa della loro religione; a causa dell’usura e del denaro», ha aggiunto nel suo discorso.
   Queste dichiarazioni hanno ricevuto una forte condanna da parte di Israele, dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Uno dei firmatari della lettera ha dichiarato all’AFP che Abbas «non ha legittimità nel rappresentarci… non è compito suo impartire lezioni di storia» e ha considerato le affermazioni di Abbās come inopportune.
   Tuttavia – come riporta i24news –  Fatah ha difeso il proprio leader, definendo la lettera «una dichiarazione vergognosa» attraverso i comunicati stampa dell’agenzia ufficiale palestinese Wafa. Il Consiglio Nazionale Palestinese, un organo legislativo, ha qualificato la lettera come terrorismo politico e intellettuale contro il nostro popolo»; una dichiarazione, quella degli intellettuali palestinesi «in linea con il discorso sionista e i suoi firmatari danno credito ai nemici del popolo palestinese».
   Il Ministro della Cultura dell’Autorità Palestinese, Atef Abou Saïf, ha descritto la lettera aperta come «una dichiarazione vergognosa» e ha sottolineato che le dichiarazioni di Abbās riflettono una certa interpretazione della storia attuale presente nella letteratura e negli scritti storici. Abbās, che ha 87 anni ed è al potere da oltre 18 anni, non è nuovo a certe dichiarazioni che relativizzano la Shoah con i suoi sei milioni di ebrei sterminati dalla Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale.

(Bet Magazine Mosaico, 15 settembre 2023)


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I frutti di Abramo

L’intervento dell’ambasciatore israeliano in Italia per i tre anni degli Accordi: “Hanno portato prosperità nella regione”.

di Alon Bar

Caro Direttore, questa settimana si celebra una pietra miliare molto importante per il Medio Oriente e il Nord Africa: tre anni dalla firma degli Accordi di Abramo tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti (Eau) e il Bahrein, sotto gli auspici del governo statunitense. Tre mesi dopo, nel dicembre 2020, il Marocco si è unito al processo, firmando un accordo di normalizzazione con Israele.
   Il catalizzatore che ha permesso questi accordi storici è stata la consapevole decisione delle parti di promuovere un futuro stabile e prospero per il Medio Oriente. Gli accordi hanno inaugurato una nuova era di normalizzazione e di pace che non solo collega i governi, ma unisce anche le persone, nonostante le differenze di lingua, di credo religioso, di cultura e altro ancora.
   Finora, gli Accordi di Abramo hanno offerto solo un assaggio del pieno potenziale racchiuso nella cooperazione regionale. Ma già così, il volume del commercio tra Israele e altri Paesi del Medio Oriente è aumentato del 74%, tra il 2021 e il 2022. Un altro esempio è il turismo, per lo più inesistente in passato, che è salito alle stelle. Nel 2021, le visite da Israele agli Emirati Arabi Uniti sono aumentate del 172%. Al contempo, il numero di israeliani che volano in Bahrein da quando sono stati istituiti i voli diretti è aumentato in modo esponenziale.
   Gli accordi hanno anche avuto un’influenza significativa sul rafforzamento delle relazioni di Israele con i Paesi vicini, migliorando così la stabilità regionale. Ad esempio, l’accordo Prosperity Green & Blue tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Giordania ha stabilito che in Giordania sia istallato un campo solare per la fornitura di 600 megawatt di elettricità verde a Israele, mentre, in cambio, un impianto di desalinizzazione in Israele fornirà 200 milioni di metri cubi d’acqua alla Giordania.
   In una regione in cui il 65% della popolazione ha meno di 30 anni, offrire opportunità alle giovani generazioni è un fattore chiave per prevenire l’instabilità. A tal fine, sono state avviate delegazioni di giovani che incoraggiano i legami tra i leader di domani e gettano le basi per la cooperazione nei decenni a venire. Le delegazioni in cui i giovani influenti sperimentano le rispettive culture e visitano importanti siti religiosi e storici, concentrandosi sulla costruzione di una comunità, sono uno strumento efficace per rafforzare i legami.
   È importante notare che i giovani dei Paesi interessati hanno aderito con convinzione ai principi di accettazione, cooperazione e pace evidenziati negli accordi, trasmettendo alla regione il chiaro messaggio che questi ideali sono le fondamenta del futuro.
   Gli Accordi di Abramo incoraggiano la cooperazione e l’istruzione. Nell’estate del 2022 l’Università Ben-Gurion ha accolto alcuni studenti provenienti dal Marocco. Inoltre, alcuni studenti emiratini si sono iscritti alle università israeliane. Anche il Bahrein ha accolto le prospettive di attività educative condivise e ha firmato una serie di accordi con Israele, per promuovere lo scambio di studenti e professori.
   In un esempio significativo di come queste iniziative possano favorire la comprensione reciproca, dopo che il ministro degli Esteri emiratino, lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan, ha visitato il Centro per la Memoria dell’Olocausto di Yad Vashem a Gerusalemme, gli Emirati Arabi Uniti hanno inserito la didattica sulla Shoah nei programmi scolastici come materia obbligatoria, a testimonianza della capacità degli Accordi di Abramo di promuovere la coesistenza e la tolleranza religiosa.
   Gli Accordi di Abramo dimostrano che, quando sia i leader sia i cittadini comuni danno priorità alla pace e alla cooperazione, è possibile un futuro di gran lunga migliore per il Medio Oriente.
   Israele auspica che molti altri Paesi si uniscano a questo sforzo, creando un domani più luminoso per il bene di tutti i nostri figli.
   Tutti i Paesi firmatari hanno delle relazioni eccellenti con l’Italia, e siamo lieti di vedere che l’Italia sostiene questi accordi di normalizzazione e che è disponibile a contribuire ad incoraggiarne degli altri.

(la Repubblica, 15 settembre 2023)

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Al Ministero dell’Istruzione una targa e una mostra in memoria degli ebrei espulsi dalla scuola nel 1938

di Daniele Toscano

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Un gesto simbolico importante in un momento particolarmente significativo: al Ministero dell’Istruzione e del Merito è stata inaugurata una targa in memoria degli espulsi dalla scuola italiana “vittime della persecuzione antiebraica e dell’applicazione delle leggi razziali adottate dal regime fascista. Affinché non si perda mai la memoria di quanto accaduto”.
La targa, che si trova nella sala antistante la Biblioteca, è stata scoperta in concomitanza con l’inizio dell’anno scolastico e a pochi giorni dal triste anniversario del 18 settembre 1938, quando Mussolini a Trieste proclamò le leggi razziali, primo passo delle discriminazioni e delle persecuzioni degli ebrei in Italia. Prime vittime di queste norme furono gli studenti e, con loro, il personale scolastico e universitario, tra docenti e dipendenti del Ministero. Proprio a loro è andato il pensiero in occasione della scopertura della targa.
   In occasione dell’evento è stata anche inaugurata presso la Biblioteca del MIM la mostra dal titolo “La scuola negata”, che ripercorre la storia dei libri di testo che, con la circolare 33 del 30 settembre 1938 del Ministro dell’Educazione Nazionale, furono eliminati dalle scuole perché gli autori erano ebrei: intellettuali come il matematico Vito Volterra, l’editore Angelo Fortunato Formiggini, il geografo Roberto Almagià non solo furono allontanati dalle loro funzioni, ma l’intera società fu privata delle loro competenze e del loro sapere. Questa esposizione sarà aperta al personale e al pubblico e saranno organizzati laboratori e visite per le scuole.
   Oltre al Ministro Giuseppe Valditara, erano presenti numerosi esponenti dell’ebraismo italiano: Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane che ha collaborato all’organizzazione; il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun; la professoressa Tiziana Della Rocca dell'Associazione Docenti Italiani per la Memoria nelle Scuole, che ha proposto l’iniziativa; l'Ambasciatore d'Israele in Italia Alon Bar; l'ex alunno Ugo Foà, che ha subito gli effetti delle leggi razziali e che da anni è impegnato in progetti di testimonianza nelle scuole; diversi consiglieri dell’UCEI e della CER, tra cui gli Assessori CER ai Rapporti Istituzionali Alessandro Luzon, alle Scuole Daniela Debach e alla Memoria Daniele Regard; il Coordinatore Nazionale per la Lotta contro l'antisemitismo Giuseppe Pecoraro; il Capo delegazione dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) Luigi Maccotta. Presente anche una delegazione di studenti delle scuole ebraiche di Roma "Angelo Sacerdoti" e "Renzo Levi" accompagnate dai rispettivi docenti, in rappresentanza di quelle categorie colpite dalla discriminazione 85 anni fa.
   “Combattiamo l’antisemitismo e il razzismo non solo oggi, ma tutto l’anno”, ha affermato il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, che ha sottolineato come questo sia il primo Ministero a compiere un gesto di questo tipo. Il Ministro Valditara si è soffermato sulla firma indelebile del regime fascista sulle leggi razziali e sull’importanza del ricordo come parte della cultura del rispetto verso l’altro. “La memoria è l’irrinunciabile strumento per la promozione della libertà e della democrazia, i valori fondanti della nostra scuola. Non possiamo dimenticare che 85 anni fa le infami leggi razziali, approvate dal regime fascista, hanno violato diritti fondamentali che costituiscono oggi il pilastro della Costituzione italiana. La scuola repubblicana non esclude, e non discrimina, ma pone al centro la persona, che deve avere la piena possibilità di esprimere i suoi talenti. Ricordare è l’atto più importante che dobbiamo compiere per contrastare l’indifferenza e l’odio”.
   Il Presidente della Comunità di Roma Victor Fadlun è stato visibilmente coinvolto dall’iniziativa. “Nel settembre 1938 fu ordinato a tutti gli studenti ebrei e agli impiegati della scuola di lasciare il proprio posto – ha sottolineato Fadlun – Tra quei bambini c'era anche mio padre, nato nel 1931 a Tripoli. Lui parlava con vergogna del fatto di essere stato istruito a casa”. Fadlun ha citato alcune storie, come quella di Lidia Dell’Ariccia, che inviò una lettera al re Vittorio Emanuele II per pregarlo di restituirle il posto da insegnante, senza che ovviamente la sua richiesta fosse accolta. Ha posto poi attenzione al compiacimento di quegli italiani che videro in questa esclusione un'opportunità, senza tenere conto del fatto che gli ebrei con questa discriminazione perdevano il diritto di sentirsi parte del genere umano. “Il gesto del Ministro Valditara è molto importante – ha concluso Fadlun – tanto più che avviene dopo l’inaugurazione dell’anno scolastico alla scuola elementare ebraica: ho ancora nella mente il canto dei bambini di 6 anni”, una melodia carica di speranza contrapposta a questa dolorosa pagina storica.

(Shalom, 14 settembre 2023)

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Oslo si è rivelato un tragico errore. Il problema è che nessuno ha idee migliori

Gli artefici israeliani di quell’accordo detestavano l’occupazione e credevano sinceramente di fare la cosa giusta, ma l’idea di affidare a terroristi il controllo su aree vitali per la sicurezza d’Israele era improbabile che finisse bene

di Benjamin Kerstein

È sempre difficile sapere esattamente cosa pensare quando ci si trova davanti a un disastro totale, soprattutto quando è il risultato delle migliori intenzioni. E’ il caso di coloro che sostennero la guerra in Iraq del 2003 e degli artefici del recente miserevole ritiro dall’Afghanistan. Per gli israeliani, un caso di questo tipo si presenta in questi giorni, in occasione del 30esimo anniversario degli Accordi di Oslo. Tre decenni dopo l’accordo tra Israele e Olp firmato in pompa magna sul prato della Casa Bianca, e due decenni dopo che i palestinesi lo demolirono con una guerra terroristica fatta di stragi di civili, nessuno sa bene cosa fare con gli Accordi di Oslo. Su una cosa, tuttavia, c’è un accordo quasi universale: si trattò di un errore disastroso. Più o meno tutti i commenti che ho letto nelle ultime settimane vanno in questa direzione.
   Impossibile respingere il verdetto dei critici. È chiaro da tempo che il capo dell’Olp Yasser Arafat non ha mai avuto la minima intenzione di onorare la sua solenne promessa di rinunciare al terrorismo. Era un razzista autentico e convinto, che riteneva fosse suo dovere e destino annientare lo stato ebraico. Era un bugiardo ingegnoso, abile nel manipolare gli altri, soprattutto gli ingenui occidentali, inducendoli a credere il contrario. Eppure, non ha mai deviato per un solo istante dal suo obiettivo finale. Quando gli apparve chiaro che non poteva mettere in ginocchio Israele con mezzi diplomatici e politici, si lanciò in un’orrenda campagna di crimini di guerra che in pochi anni fece strage di più di mille israeliani. Il frutto degli inganni di Arafat sopravvive ancora oggi, giacché l’entità creata dagli Accordi e consegnata nelle mani di Arafat – l’Autorità Palestinese – rimane come una spina nel fianco di Israele, sostenuta solo perché le alternative sono verosimilmente assai peggiori.
   Impossibile non concludere che, nella mal riposta speranza di porre fine al conflitto con i palestinesi attraverso rischiose concessioni, Israele ha finito col compromettere seriamente la propria sicurezza e si è condannato a trent’anni di guerre grandi e piccole.
   Una certa misura di pace è arrivata, ma solo con vari stati arabi e musulmani alla periferia di Israele, che hanno normalizzato le relazioni non a causa di visioni messianiche di un “nuovo Medio Oriente”, ma di considerazioni pragmatiche economiche, politiche e di sicurezza. Gli idealisti sono caduti con Oslo, i realisti hanno trionfato con gli Accordi di Abramo.
   Tuttavia dobbiamo trattare con equità gli architetti di Oslo. Non erano traditori della patria o ebrei che odiano se stessi (come amano sostenere gli estremisti dell’opposta sponda ndr). Erano israeliani che detestavano l’occupazione in Giudea e Samaria e i compromessi morali che essa comporta. La prima intifada (1988-93) li aveva convinti che stavano governando dispoticamente su un altro popolo che ha lo stesso diritto degli ebrei all’indipendenza e all’autodeterminazione. Credevano sinceramente che il futuro di Israele e la stabilità dell’intera regione dipendessero dalla pace con i palestinesi, cosa che sarebbe stata impossibile senza l’Olp. In altre parole, erano convinti di fare la cosa giusta.
   In senso morale, forse lo era. In senso pratico e strategico, tuttavia, non stavano facendo solo un errore, ma un errore disastroso. Non sapevano, o preferirono non sapere, che l’ideologia dell’Olp non ammette l’esistenza di uno stato ebraico in alcuna forma ed entro alcun confine, che Arafat era un assassino di massa che aveva sempre usato la violenza più barbara (anche contro altri palestinesi ndr) per ottenere ciò che voleva, e che l’idea di affidare a un gruppo terroristico il controllo su aree vitali per la sicurezza di Israele era, a dir poco, improbabile che finisse bene.
   Ma gli israeliani artefici di Oslo hanno pagato per il loro errore. Personalmente Arafat non è mai diventato uno shahid (“martire”), ma si è rivelato un terrorista suicida sul piano diplomatico e ha trascinato con sé gli architetti israeliani di Oslo. Con la carriera e la reputazione a brandelli, ognuno di loro si è ritirato dalla vita pubblica e oggi il loro principale vettore, il partito laburista, è moribondo.
   Ciononostante la logica alla base di Oslo rimane in qualche modo robusta perché, detta in parole povere, nessuno ha idee migliori. È possibile vedere tutto quello che c’era di sbagliato in Oslo, ma è impossibile vedere un’alternativa. Né tutte le critiche che ho letto in questo periodo ne propongono una. L’unica cosa che ho sentito che assomiglia vagamente a un’alternativa è “gestire il problema”. Il che solleva, tuttavia, la questione di cosa dovremmo fare quando il problema diventa ingestibile. A quel punto le indicazioni diventano improvvisamente vaghe, e forse alcune è meglio non enunciarle. In ogni caso, non sono particolarmente realistiche.
   I critici di Oslo avevano e hanno ragione. La storia almeno questo lo ha chiaramente dimostrato. Ma è anche chiaro che limitarsi a biasimare Oslo non basta, perché non ci porta da nessuna parte. In realtà non conosciamo una via d’uscita da Oslo, e questo è il vero dilemma con cui oggi dobbiamo fare i conti.
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(da: jns.org, 12.9.23)

(Israele.net, 14 settembre 2023)
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«Non sapevano, o preferirono non sapere, che l’ideologia dell’Olp non ammette l’esistenza di uno stato ebraico in alcuna forma ed entro alcun confine, che Arafat era un assassino di massa». In poche parole, non avevano capito. Si ha così un'altra conferma: in guerra, chi non capisce soccombe. Resta sempre la domanda: perché non avevano capito? A quale falsa ideologia si erano consacrati? Quali verità avevano trascurato per cadere vittime della menzogna? M.C.


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Il cadavere di Oslo

di Niram Ferretti

Terra in cambio di pace. Era questo il presupposto con il quale il trio composto da Shimon Peres, Yitzhak Rabin e Yossi Beilin confezionò il 13 settembre di trent’anni fa la polpetta avvelenata degli Accordi di Oslo.
   “Ventitré anni dopo il suo euforico varo sul prato della Casa Bianca, il ‘processo di pace’ di Oslo, tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), si staglia come una delle peggiori calamità che abbiano afflitto il conflitto israeliano-palestinese”. scriveva nel 2016, Efraim Karsh in un suo articolo apparso sul “Middle East Quarterly”, dal titolo eloquente Why the Oslo Process Doomed Peace. 
   Nell’articolo, lo storico israeliano, professore emerito al Kings College di Londra, scandiva implacabilmente le funeste modalità di questa calamità, dal costo pagato in vite umane da Israele (1600 cittadini, più 9000 feriti), al rebranding di Yasser Arafat, (all’epoca ridotto a poco meno di un reietto e confinato a Tunisi), come nation builder, all’installazione nel cuore di Israele di una organizzazione terrorista tra le più sanguinarie del pianeta.
   A rincalzo di Karsh, cinque anni fa, in una intervista esclusiva per l’Informale, Martin Sherman, tra i più acuti analisti politici israeliani, specificava:
   “Il processo di Oslo è stato un fallimento previsto. Chiunque possedesse una conoscenza minima di elementi base di scienza politica o di discipline connesse come relazioni internazionali o teoria dello Stato nazione, sapeva che non avrebbe mai potuto funzionare. Negli anni Novanta si poteva finire in carcere per sostenere una soluzione politica sulla linea di Oslo, era considerato tradimento. Quello che sono stati capaci di fare è stato di acquisire una posizione che non solo era marginalizzata ma era anche illegale e trasformarla nel principale paradigma politico non solo a livello internazionale ma anche qui in Israele. Dunque non posso che essere d’accordo con Karsh nel giudicare Oslo un disastro. Posso solo sperare che si sbagli quando dice che è un disastro inestirpabile, in altre parole, irrevocabile”.
   Gli Accordi nascevano dalla folle scommessa che un terrorista musulmano cacciato progressivamente da buona parte del Medioriente, dall’Egitto, dalla Siria, dal Libano, dalla Giordania e dal Kuwait, e riparato a Tunisi dove sarebbe stato condannato all’irrilevanza, avrebbe potuto trasformarsi in un partner per la pace.
   Sotto l’egida degli Stati Uniti, che avevano riconosciuto l’OLP come interlocutore nel 1988, quando Ronald Reagan era allo scadere del suo secondo mandato, Arafat venne ripescato dal cono d’ombra e di discredito in cui si era cacciato.
   Shimon Peres, il principale promotore degli Accordi, sognava ad occhi aperti un Medioriente in cui si sarebbe inverata laicamente la profezia escatologica di Isaia.
   “Un Medio Oriente senza guerre, senza nemici, senza missili balistici, senza testate nucleari…un Medio Oriente che non è un campo di sterminio ma un campo di creatività e crescita“.
   L’utopia di Peres, non era quella che animava Rabin, più circospetto ad abbracciare come partner per la pace Arafat, ma alla fine diventò anche lui parte sostanziale in causa nel sostenere gli Accordi, e continuò a farlo nonostante tutte le circostanze in cui il padre e padrone dell’OLP confermava la sua vera natura di lupo travestito da agnello.
   C’era forse solo un punto effettivo sul quale i due principali fautori degli Accordi di Oslo convergevano, ed era la contrarietà alla nascita di un vero e proprio Stato palestinese autonomo. Per Rabin, avrebbe dovuto essere un’entità poco meno di uno Stato, mentre per Peres l’idea era che al suo posto nascesse una confederazione giordana-palestinese. Ciò non ha impedito che la formula dello Stato autonomo, sulle colline della Cisgiordania, sia rimasta in auge per trent’anni, come l’unico paradigma contemplabile, l’unica soluzione sulla strada della pace.
   Sempre Martin Sherman ha elencato, in un articolo del 2018, alcune delle conseguenze nefaste prodotte dagli Accordi:
   “Senza Oslo non ci sarebbe stata la seconda Intifada, non ci sarebbe stato il Disimpegno israeliano, non ci sarebbe stato lo sradicamento delle comunità ebraiche a Gush Katif, non ci sarebbe stata l’acquisizione di Gaza da parte di Hamas, non ci sarebbero stati i tunnel del terrore, né gli arsenali con i temibili razzi lanciati in direzione delle città e dei villaggi israeliani molto distanti da Gaza”.
   Sarebbe ora, a trent’anni dalla sua decomposizione, di seppellirne il cadavere definitivamente.
   Mi congratulo con il generale di brigata in pensione Yossi Kuperwasser, per la sua  analisi accurata e perspicace. Detto questo, credo che il suo piano renda in fieri Hamas più pericoloso, e non meno insidioso, per Israele.
   Kuperwasser auspica che Israele ponga fine alla minaccia di Hamas “disarmandolo, proibendone il riarmo e dimostrando in maniera inconfutabile che minacciare Israele è indiscutibilmente contro i suoi interessi”. Ciò lascerà Hamas “indebolito e scoraggiato nei confronti di Israele, ma abbastanza forte da governare Gaza”. Se il governo israeliano dovesse attuare il piano di Kuperwasser, Hamas non potrà più tormentare gli israeliani lanciando razzi verso le città vicine, come Sderot, né potrà dare fuoco ai terreni agricoli con aquiloni e con palloni incendiari, con preservativi gonfiati con l’elio, e non potrà nemmeno lanciare razzi per fermare una manifestazione a Gerusalemme. Ciò esercita un’evidente attrazione su una popolazione israeliana che è sotto assedio, ma che teme di tornare a Gaza dopo il ritiro unilaterale del 2005.
   Al che rispondo, fermare gli aquiloni, i razzi e i missili è, ovviamente, un vantaggio per Israele. Ma un Hamas privato di munizioni aeree pur avendo ancora il controllo di Gaza diventa più o meno l’equivalente islamico dell’Autorità Palestinese (AP). Ciò offre ad Hamas una grande opportunità. Il governo israeliano ha permesso all’Autorità Palestinese, nel corso dei suoi quasi trent’anni di esistenza, di aggredire il Paese principalmente in due modi: attraverso la violenza e mediante la delegittimazione. Non importa in che modo orribile agisca l’AP in questi due ambiti, il sistema di sicurezza israeliano la protegge e il primo ministro la finanzia.
   La violenza: Sempre che valga il precedente dell’Autorità Palestinese, Hamas può liberamente incitare, finanziare e armare una serie di attacchi di basso livello contro gli israeliani, tra cui lapidazioni, accoltellamenti, linciaggi, speronamenti con auto, sparatorie, attentati, incendi dolosi e intifada su vasta scala. Dovrebbero essere presi in considerazione anche i tunnel e i droni suicidi. In breve, “disarmare” Hamas è un’illusione. La violenza continuerà e potrebbe addirittura peggiorare.
   La delegittimazione: Prendendo atto di ciò che dice l’Autorità Palestinese riguardo al suo “partner per la pace”, Hamas dovrebbe essere libero di urlare qualsiasi diffamazione desideri: che gli ebrei discendono dai maiali e dalle scimmie; che il sionismo rappresenta un movimento imperialista di suprematisti bianchi che sottomettono un popolo indigeno; che Israele opprime, sfrutta e massacra una popolazione vittima come lo fu Cristo. Inoltre, possono ritrarre Benjamin Netanyahu come il nuovo Hitler, Gaza come un campo di concentramento e i palestinesi come vittime di cinquanta Shoah.
   Potrei fermarmi qui, dopo aver sostenuto la mia tesi a favore dei limitati benefici del piano di Kuperwasser, il quale risolverebbe un problema, ma ne lascia intatti altri due. Ma l’attuazione di questo piano potrebbe rendere Hamas ancora più pericoloso per Israele. Ecco la mia argomentazione.
   Sebbene l’antisionismo palestinese esista da oltre un secolo (1920: “La Palestina è la nostra terra e gli ebrei sono i nostri cani”), è decollato negli anni Novanta quando la Sinistra si è rivoltata contro Israele. Gli Accordi di Oslo del 1993 firmati nientemeno che sul prato della Casa Bianca hanno creato l’Autorità Palestinese, che ha convinto i buoni e i grandi del mondo di aver in tal modo accettato l’esistenza dello Stato ebraico, cosa che ha così reso l’AP la beniamina della politica mondiale. Naturalmente, l’Autorità Palestinese non ha fatto nulla del genere, ma ora potrebbe diffondere il messaggio antisionista sopra sintetizzato in modo molto più efficace di prima.
   La Conferenza delle Nazioni Unite contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la correlata intolleranza, tenutasi a Durban nel 2001, ha simboleggiato questa versione palestinese, che ha assunto un’importanza senza precedenti e da allora è aumentata. Essendo quella palestinese, la causa rivoluzionaria preferita al mondo, i palestinesi possono fare appello alle simpatie e alle risorse di una rete di sostegno esclusiva che annovera dittatori, esponenti dell’estrema Sinistra, estremisti di Destra, le Nazioni Unite, altre organizzazioni internazionali e legioni di islamisti, giornalisti, attivisti, educatori, artisti, preti e benefattori assortiti.
   L’antisionismo ha di recente raggiunto livelli finora inimmaginabili, tra cui la presidenza del Cile, il premierato in Scozia, il leader dell’opposizione nel Regno Unito e la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. Le tendenze attuali stanno a indicare che il Palazzo dell’Eliseo, il numero 10 di Downing Street (la residenza ufficiale del primo ministro britannico di turno, N.d.T.) e la Casa Bianca sono facilmente raggiungibili. Ciò rappresenta un pericolo molto maggiore per Israele rispetto agli attacchi cinetici.
   In altre parole, mentre la violenza palestinese non rappresenta una minaccia esistenziale per Israele, non è così per la delegittimazione palestinese. In questo caso, le parole sono più pericolose degli esplosivi. (Il contrario vale per Hezbollah e per l’Iran.)
   Fino ad ora, e a differenza dell’Autorità Palestinese, Hamas continua ad essere ampiamente ostracizzata come organizzazione terroristica, e in gran parte a causa di quegli aquiloni, dei razzi e dei missili. Se Hamas perdesse la capacità di lanciare razzi, i suoi leader potrebbero voler emulare il percorso dell’AP e firmare tardivamente gli Accordi di Oslo (magari di nuovo sul prato della Casa Bianca?). Se così fosse il movimento palestinese porrebbe automaticamente fine alla sua denominazione terroristica e si trasformerebbe anch’esso in un beniamino della comunità internazionale. In tal modo, si aggiungerebbe un messaggio islamista di delegittimazione a quello nazionalista dell’Autorità Palestinese, accelerando e rafforzando notevolmente la portata dell’antisionismo palestinese.
   Gli israeliani, abituati a una vita di oltraggi, tendono a ignorare la delegittimazione come un dato di fatto. L’invettiva è diventata un lamentoso rumore di fondo. I palestinesi figurano a malapena nella politica israeliana. Lo stratega israeliano Efraim Inbar li definisce in modo pittoresco “un fastidio strategico”.
   Da outsider, ritengo che gli israeliani sottovalutano il crescente impatto del veleno palestinese. Sì, è vero, i prodotti israeliani – le armi, l’alta tecnologia, le attrezzature mediche, i metodi agricoli, la tecnologia idrica – hanno trovato un mercato globale. Certo, il suo esercito non ha rivali regionali. Ma questi punti di forza non liberano gli israeliani dalla questione in sospeso di ottenere l’accettazione palestinese. Fino ad allora, la delegittimazione palestinese minaccerà Israele non meno delle armi nucleari iraniane.
   In questo modo il piano Kuperwasser aumenta potenzialmente il pericolo che Hamas rappresenta per Israele, scambiando un nemico più violento ma meno influente con un nemico meno violento ma più influente. Un Hamas disarmato che continua a governare Gaza è una cura peggiore della malattia.

(L'Informale, 13 settembre 2023)

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Riforma Giudiziaria: la Corte Suprema Israeliana si riunisce per discutere l’abrogazione della legge sul principio di “ragionevolezza

di Giovanni Panzeri

Sono stati diversi i momenti di tensione durante un’udienza di oltre 13 ore tenuta dalla Corte Suprema nella giornata di martedì 12 settembre, alla presenza di tutti e 15 i giudici, fatto senza precedenti nella storia israeliana.
   La Corte si è riunita per ascoltare gli argomenti pro e contro l’eventuale abolizione della legge sul principio di ragionevolezza recentemente approvata dalla Knesset, un emendamento alle leggi fondamentali d’Israele, che limiterebbe nettamente la possibilità delle istituzioni giudiziarie di abrogare decisioni governative.
   Come riportato dal Times of Israel la discussione si è sviluppata principalmente su due punti: “Se la Corte Suprema possieda il diritto d’intervenire sulle leggi fondamentali israeliane, e se la legge sul principio di ragionevolezza ponga una minaccia così grave alla democrazia da giustificare un intervento della Corte”.
   “Un gran numero di giudici, esclusi i più conservatori,” continua il ToI “ ha indicato tramite domande e commenti che sono fondamentalmente in disaccordo con l’affermazione del governo secondo cui la Corte non avrebbe il diritto di intervenire sulle leggi fondamentali, e che sarebbe grave se la Knesset avesse il diritto di approvare leggi chiaramente anti-democratiche senza possibilità d’intervento giuridico”, sul secondo punto invece la Corte è sembrata più indecisa e molti giudici, compresi quelli con tendenze più moderate o liberali, hanno espresso dubbi riguardo al fatto che la legge sulla ragionevolezza ponga una minaccia tale alla democrazia da dover richiedere un intervento tanto drastico.
   “Non possiamo decidere di abrogare una legge fondamentale come se niente fosse” ha dichiarato la presidente della Corte Hester Hayut “Possiamo farlo solo se rappresenta un pericolo mortale per le fondamenta democratiche del nostro stato”

• La dichiarazione d’indipendenza
  Durante la discussione diversi giudici hanno asserito che il diritto della Corte di intervenire sulle leggi fondamentali deriva dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 1948, che definisce Israele uno stato “ebraico e democratico”, e quindi darebbe ai giudici la responsabilità di salvaguardare la democraticità d’Israele contro eventuali decisioni della Knesset.
   In risposta il rappresentante del governo, Ilan Bombach, ha negato la validità della Dichiarazione come documento legale: “Perché le firme di 37 persone non elette su un documento incompleto e redatto frettolosamente dovrebbero condizionare le generazioni future? ”
   Il commento, che ha ricevuto l’approvazione del giudice conservatore David Mintz, ha generato in aula parecchio scalpore e il rappresentante del governo ha incalzato affermando che il potere della Knesset, al contrario, deriva dalla risoluzione di Harari nel 1950, che decretò come la ‘costituzione’ di Israele sarebbe stata costituita da una serie di leggi fondamentali, stipulate nel corso del tempo da un comitato specifico e approvate dalla Knesset, invece che da un singolo documento. “Lo Stato d’Israele non è stato costituito dalla provvisione Harari del 1950” ha ribattuto il giudice Alex Stein “è stato costituito tramite la Dichiarazione d’Indipendenza”.

• Il dibattito sul principio di ragionevolezza
   Nonostante le remore verso l’abrogazione unilaterale di una legge fondamentale, diversi giudici si sono espressi contro il provvedimento del governo.
   “L’obiettivo della legge è liberare il governo da ogni tipo di supervisione giudiziaria- ha affermato il giudice Vogelman -: questa è la verità”.
   Il giudice Amit ha espresso invece la convinzione che, più che la legge sulla ragionevolezza in se, ad essere un pericolo mortale per la democrazia è la riforma giudiziaria nel suo insieme. “La democrazia” ha affermato “sta morendo in una serie di piccoli passi”.
   Il punto più alto di tensione si è tuttavia raggiunto durante il discorso tenuto da Simcha Rothman, parlamentare di maggioranza e uno dei principali architetti della riforma. Come riportato dal ToI, il parlamentare “ha definito la Corte un’élite privilegiata e un regime oligarchico interessato esclusivamente a proteggere se stesso”.
“Quale sarebbe la giustificazione di negare la possibilità del popolo di esprimere la propria opinione e cambiare la legge, tramite libere elezioni?” ha chiesto.
   I giudici hanno accusato Rothman di sfruttare l’occasione per fare propaganda politica.
   “Che dovrebbe succedere se la Knesset improvvisamente decidesse che le elezioni si tengano ogni 10 anni,” ha ribattuto il giudice Anat Baron  “o di togliere agli Arabi il diritto di voto, o di proibire il viaggio durante lo Shabbat?”
   A questo Rothman ha risposto che, a differenza della Corte, se non piace un governo può essere sostituito tramite elezioni.
   La seduta non è risolutiva, e una decisione della Corte Suprema, se ci sarà, potrebbe richiedere ancora diversi mesi, ma ha fatto emergere con chiarezza spaccature e divergenze nella politica Israeliana che non riguardano solo contingenze contemporanee.

(Bet Magazine Mosaico, 13 settembre 2023)

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Lite tra Netanyahu e Ben-Gvir

"Tu, hai promesso al popolo di non cedere ai terroristi e hai promesso a me che attueremo questa politica!".

di Aviel Schneider 

Nella riunione del gabinetto di sicurezza di ieri c'è stato un altro botta e risposta tra il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. Un battibecco intorno al tavolo del governo che incarna lo stato d'animo generale della popolazione. Il disaccordo inizia ai vertici del governo, soprattutto sulla questione della sicurezza.
  Ben-Gvir chiede che le restrizioni ordinate sui prigionieri palestinesi vengano applicate immediatamente. Questo contraddice i capi dell'establishment della difesa, che hanno tutti avvertito che le restrizioni richieste da Ben-Gvir porteranno a una pericolosa escalation durante le festività. Netanyahu ha dovuto decidere a chi dare ascolto. Ha deciso che le linee guida del ministro sarebbero state rinviate alla prossima riunione dopo le festività, cosa che ha indignato assolutamente Ben-Gvir. Quello che è successo nel gabinetto di sicurezza non riguarda solo la sicurezza durante le festività ebraiche di Rosh Hashanah, Yom Kippur e la festa dei Tabernacoli Sukkot. Simboleggia la profonda divisione tra il governo eletto e l'apparato di sicurezza israeliano. Due strategie e visioni del mondo diverse che non riescono ad accordarsi sul concetto di Israele, di sicurezza e di carattere.
  "Sono entrato in carica dopo che lei, signor Primo Ministro, mi ha promesso che la situazione dei prigionieri sarebbe cambiata", ha detto Ben-Gvir a Netanyahu. "Con tutto il rispetto per tutti i partiti professionali presenti, siamo stati eletti dal popolo per attuare le nostre politiche di destra". Tuttavia, Netanyahu ha insistito sul fatto che la questione sarebbe stata discussa dopo le festività. "Il problema è che anche dopo le feste, i capi della sicurezza professionale diranno la stessa cosa, che non è il momento giusto", si è lamentato Ben-Gvir in risposta. "Non c'è mai un momento giusto". Testimoni oculari hanno riferito che durante l'incontro si è gridato a profusione.
  Ben-Gvir ha detto a Netanyahu che non ha senso che i familiari possano visitare i terroristi arrestati nelle carceri israeliane. "Stiamo solo cedendo e non stiamo ottenendo più pace in cambio. Significa anche che non c'è deterrenza nelle carceri israeliane. Significa che non si può continuare così. Sono stato eletto per attuare una certa politica. Lei, Primo Ministro, ha promesso al popolo che non avrebbe ceduto ai terroristi nelle carceri, e mi ha promesso che avremmo attuato quella politica". Netanyahu ha ribadito: "No, la questione sarà discussa dopo le festività, non ora". "Signor Primo Ministro, basta con le scuse. Se non vuole attuare la politica che abbiamo promesso, allora venga a dirlo molto chiaramente. È sempre dopo le feste e dopo le prossime feste... e poi sta arrivando anche Hanukkah. Siamo arrivati a un punto in cui dobbiamo prendere una decisione". In seguito, il partito Otzma Yehudit ha avvertito che si sarebbe riunito oggi per valutare ulteriori passi del partito in risposta al rifiuto di Netanyahu.
  Ammettiamolo, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha in parte ragione. La strategia di sicurezza di Israele è rimasta bloccata nello stesso concetto dagli anni di Oslo. Israele non ha fatto alcun progresso effettivo di fronte al terrorismo palestinese e agli attacchi missilistici, anche dal sud del Libano. Secondo Ben-Gvir, Israele risponde solo con azioni di rappresaglia che non portano maggiore sicurezza. Ben-Gvir e i suoi partner della coalizione nazionalista di destra, tra cui Benjamin Netanyahu, hanno promesso ai loro elettori prima delle elezioni una strategia aggressiva e completa contro gli attacchi missilistici e il terrorismo. Ben-Gvir insiste su questo punto, ma Netanyahu neutralizza la politica di sicurezza di destra di Ben-Gvir perché il corpo di sicurezza di Israele ha un atteggiamento molto diverso da quest'ultimo. I capi della sicurezza temono che il ministro della sicurezza nazionale stia deliberatamente cercando di incendiare il Medio Oriente con ogni sorta di "idee folli", soprattutto durante le festività ebraiche.
  Per uscire da questa situazione di stallo, occorre rimescolare le carte nella regione e per questo, purtroppo spesso è necessaria una guerra sanguinosa. Ma l'attuale governo non ha il tempo o l'energia per farlo a causa di tutto il caos che regna nel Paese. Il popolo è totalmente diviso sulla controversa riforma legale e, da quello che abbiamo letto nei titoli dei giornali negli ultimi mesi, l'establishment della sicurezza non è molto contento del governo eletto. Per i nemici di Israele, ovviamente, Israele adesso è nella posizione migliore per essere  per attaccata.
  Nella situazione attuale, con la riforma giudiziaria e la divisione tra i cittadini, tutto è diventato ancora più difficile. Sebbene la coalizione al governo abbia una maggioranza completa di 64 voti in parlamento, non è in grado di attuare le sue politiche di destra. E questo fa infuriare il Ministro della Sicurezza Nazionale. La colpa è del suo primo ministro. Benjamin Netanyahu è noto per ritardare spesso tutto e non rispettare gli accordi promessi ai partner della coalizione. Quando la coalizione è stata formata quasi un anno fa, abbiamo continuato a dire che Benjamin Netanyahu è l'ala sinistra in questa coalizione ortodossa di destra, e questo continua a venire fuori. Il problema di tutta la faccenda è che, a causa del suo DNA, l'esercito di difesa israeliano non può agire come di solito si fa in ambito arabo. L'esercito israeliano è un esercito troppo umano rispetto agli eserciti arabi e il Ministro della Sicurezza Nazionale vuole cambiare un po' le cose. Ma il comitato di sicurezza israeliano si oppone. E questo ci riporta allo stesso punto su quali siano le vere riforme di legge da fare. Due schieramenti stanno lottando sul carattere di Israele e vedono la vita nel Paese in modo diverso. E questo viene fuori in continuazione - anche nelle varie riunioni di governo.

(Israel Heute, 13 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Oslo è stato un fallimento per Israele, ma un successo per l’Olp

Per i capi palestinesi, gli accordi di pace dovevano servire per rilanciare e rafforzare il terrorismo e l’hanno sempre detto apertamente: bisognava solo ascoltarli

di Itamar Marcus

Dalla firma, trent’anni fa, degli accordi di Oslo tra Israele e Olp, annunciati da leader israeliani e di tutto il mondo come una svolta epocale e l’inizio di un processo di pace, più di 2.000 israeliani sono stati assassinati in attentati terroristici palestinesi: in media, più di 60 ogni anno (a partire da Yigal Vaknin, pugnalato a morte in un frutteto accanto alla roulotte dove viveva, nei pressi del moshav Batzra, nel centro di Israele).
  Nei cinque anni successivi alla firma degli accordi di Oslo vennero uccisi da terroristi palestinesi più israeliani che nei 15 anni precedenti l’accordo: 279 uomini, donne e bambini tra il 1993 e il 1998 contro i 254 dei 15 anni precedenti. (Jerusalem Post, 8.9.23)
  Gli accordi di Oslo si sono tradotti in un trentennio di ininterrotto, spietato terrorismo palestinese sotto la guida della neo-formata Autorità Palestinese. Gli accordi resero possibili attentati suicidi, attentati con armi da fuoco, accoltellamenti, deliberati attacchi con veicoli ecc. Molti rimpiangono la pace perduta che pensavano fosse a portata di mano, e si domandano cosa abbia causato il fallimento del processo di pace di Oslo.
  La risposta è che, dal punto di vista palestinese, non fu affatto un fallimento. Negli accordi internazionali può accadere che la stessa cosa che una parte vede come un fallimento, sia vista dall’altra come un successo. Mentre il terrorismo reso possibile da Oslo ha trasformato quegli accordi in un tragico e totale fallimento agli occhi degli israeliani, per l’Olp quello stesso terrorismo è ciò che ne ha decretato il successo, perché quel terrorismo era esattamente uno degli obiettivi che si era prefissata la dirigenza palestinese al momento della firma.
  Non si tratta di una semplice congettura a posteriori. In realtà, sin dall’inizio i dirigenti dell’Autorità Palestinese hanno sempre dichiarato i loro obiettivi terroristici nel processo di Oslo. Ma i leader israeliani (e del resto del mondo) decisero sorprendentemente di credere a ciò che i capi dell’Autorità Palestinese dicevano loro in privato, anziché a ciò che proclamavano al loro popolo in pubblico.
  Una delle dichiarazioni più chiare secondo cui lo scopo di Oslo era quello di facilitare il terrorismo venne riportata da Palestine Media Watch pochi mesi prima che Arafat lanciasse l’intifada stragista del 2000, ed era stata enunciata da un ministro del governo dell’Autorità Palestinese. “Il popolo palestinese – disse Abd Al-Aziz Shahin, ministro per gli approvvigionamenti dell’Autorità Palestinese, riportato da Al-Ayyam il 30 maggio 2000 – ha accettato gli Accordi di Oslo come un primo passo, e non come una soluzione permanente, in base alla premessa che la guerra e la lotta sul territorio sono più efficaci di una lotta condotta da una terra lontana [la Tunisia]. Il popolo palestinese continuerà la rivoluzione finché non raggiungerà gli obiettivi della rivoluzione del ’65 [= la distruzione di Israele]”. Il ministro Shahin non avrebbe potuto essere più esplicito riguardo all’obiettivo di Oslo di incrementare e rafforzare il terrorismo. L’Olp incontrava difficoltà a dirigere il terrorismo dalla Tunisia (dove era allora relegata) e firmò gli accordi di Oslo col preciso intento di condurre il terrorismo contro gli israeliani “sul territorio”. Tutto ciò che è accaduto negli ultimi trent’anni è racchiuso in quelle parole. Ma Israele e il mondo hanno preferito ignorarle.
  La promessa di ricorrere al terrorismo era stata espressa ripetutamente, anche nelle prime fasi del processo, dai massimi vertici dell’Autorità Palestinese. Già nel 1996 Nabil Sha’ath, capo negoziatore dell’Olp per gli accordi di Oslo, aveva garantito ai palestinesi che le armi fornite da Israele alla polizia dell’Autorità Palestinese sarebbero state puntate contro gli israeliani se questi non avessero ceduto a ogni singola richiesta palestinese. Una registrazione di Sha’ath che discuteva di strategia durante un incontro a porte chiuse venne divulgata da Palestine Media Watch il 15 gennaio 1996. “Questa è la strategia – diceva Sha’ath – Se e quando Israele dirà ‘basta’, vale a dire ‘non discuteremo di Gerusalemme, non faremo ritornare i profughi, non smantelleremo gli insediamenti, non ci ritireremo sulle frontiere [del 1967], allora torneremo alla violenza. Ma questa volta sarà con 30.000 soldati palestinesi armati e in una terra con elementi di libertà. Sono il primo a invocarla. Se arriveremo a una situazione di stallo, torneremo a combattere e lottare come abbiamo combattuto per quarant’anni e più”.
  Il fatto che l’obiettivo non fosse quello di raggiungere la pace con Israele venne esplicitamente affermato dallo stesso presidente dell’Olp Yassar Arafat pochi mesi dopo aver firmato gli accordi di Oslo, e poi ripetutamente da altri nell’arco di trent’anni. Arafat paragonò gli accordi di Oslo al noto trattato di pace di dieci anni di Hudaybiyyah che Maometto firmò con la tribù dei Quraish della Mecca quando era troppo debole per conquistarli. Due anni dopo, calpestò l’accordo e conquistò la Mecca. “Questo accordo [di Oslo] – disse Arafat in un discorso a Johannesburg del 10 maggio 1994 – non lo considero di più dell’accordo che venne firmato tra il nostro profeta Maometto e i Quraish”.
  Come mai Israele non ha voluto cogliere questi e numerosi altri segnali di allarme che venivano continuamente rivelati durante gli anni del processo di Oslo? Come mai i negoziatori israeliani presero per buone le promesse verbali dell’Olp senza esigere alcun passo concreto che ne dimostrasse la sincerità, pur sapendo che nel corso della storia l’inganno è stata spesso una strategia basilare per indebolire i nemici e attirarli in trappola? L’intramontabile forza del mito del cavallo di Troia basterebbe per ricordare quante volte nel corso della storia l’inganno di un falso gesto di pace è stato la chiave per prevalere in una guerra. Tuttavia, l’inganno di solito comporta creatività, strategia e pianificazione. Guardando ai trent’anni di incessante terrorismo promosso, glorificato e ricompensato dall’Autorità Palestinese, ciò che è scioccante nell’inganno di Oslo è che l’Olp, nel 1993 ancora considerata un’organizzazione terroristica, non ha avuto bisogno di fare nulla per ingannare gli entusiasti israeliani: non ha dovuto far altro che sedersi a un tavolo e firmare un pezzo di carta. Non c’è stato bisogno di nessun cavallo di Troia o false fughe di notizie o altre diavolerie per convincere gli israeliani che i terroristi dell’Olp erano cambiati. Non c’è stato un periodo di prova. Non c’è stato alcun tentativo di attendere che a un’intera generazione di giovani palestinesi, cresciuta nell’odio verso gli ebrei e Israele, venissero insegnati i valori della convivenza e della pace. Gli israeliani e i loro politici erano divorati dal desiderio di credere davvero che l’Olp non voleva più distruggere Israele. Il cavallo di Troia di Oslo ha avuto successo perché c’erano negoziatori e leader israeliani così bramosi di arrivare a un accordo di pace che hanno ignorato ogni cautela e si sono lasciati ingannare.
  Ciò che è scioccante è che c’erano tutte le prove che gli accordi di Oslo erano un inganno. Già nel 1996 Palestine Media Watch segnalava i messaggi di impegno verso il terrorismo rivolti dall’Autorità Palestinese alla propria popolazione. Nel 1997, Palestine Media Watch denunciava la promozione del terrorismo e del martirio dei minorenni da parte dell’Autorità Palestinese. Nel 1998, Palestine Media Watch documentava l’opera di indottrinamento all’odio e alla violenza attraverso i libri scolastici dell’Autorità Palestinese. L’Autorità Palestinese ripeteva alla sua gente che Haifa e Giaffa sono città palestinesi da liberare in più fasi, e si compiaceva apertamente all’idea che la polizia palestinese finisse per volgere le sue armi contro gli israeliani. In quegli anni, gli attentatori suicidi palestinesi stavano già compiendo stragi di innocenti sugli autobus e nei centri commerciali delle città israeliane. I governi israeliani avevano tutte le informazioni, ma si comportarono come giocatori d’azzardo che continuano a gettare più soldi nel piatto, rifiutandosi di ammettere l’errore e accettare la responsabilità d’aver trascinato Israele nella trappola mortale di Oslo.
  Quindi Oslo è stato un fallimento? Secondo i capi palestinesi, nient’affatto. Per lo stesso motivo per cui gli israeliani vedono Oslo come un fallimento – vale a dire, la continuazione incessante del terrorismo palestinese – i capi palestinesi vedono Oslo come un successo. Lo ha spiegato bene Ziyad Abu Ein, già vice ministro dell’Autorità Palestinese per gli affari dei prigionieri: “Oslo – ha detto alla tv iraniana Al-Alam il 6 luglio 2006 – è la serra efficace e potente che ha sostenuto la resistenza palestinese. Senza Oslo, non ci sarebbe mai stata resistenza. In tutti i territori occupati non potevamo spostare una sola pistola da un posto all’altro. Senza Oslo, e senza essere armati meditante Oslo, non saremmo stati in grado di creare questa grande intifada palestinese”.
  Gli ha fatto eco un altro dirigente, Sultan Abu Al-Einein, il membro del Comitato Centrale di Fatah noto per aver detto “Ovunque trovate un israeliano, tagliategli la gola”. Il 6 aprile 2009 Abu Al-Einein ha affermato alla tv Al-Quds: “Le armi usate contro il nemico israeliano a Gaza e in altri luoghi furono portate [dentro l’Autorità Palestinese] in conformità con gli Accordi [di Oslo]. Quando parliamo degli aspetti negativi degli Accordi di Oslo, dobbiamo considerare anche questi altri aspetti”.
  In sintesi, si può dire che gli accordi di Oslo sono stati un grande successo per l’Olp e un tragico fallimento per Israele. Ma c’è una verità ancora più profonda: il processo di pace immaginato e sognato dagli israeliani non è fallito, semplicemente non è mai esistito.
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(da Jerusalem Post, 7.9.23)

(Israele.net, 12 settembre 2023)


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Trent’anni fa gli accordi di Oslo e la storica stretta di mano tra Rabin e Arafat: accese la speranza di pace in Medio Oriente

Il 13 settembre 1993 i leader israeliano e palestinese si fecero fotografare davanti alla Casa Bianca e l’immagine con Bill Clinton è una delle più iconiche del Novecento. La ricostruzione dei passi avanti. E di cosa è rimasto fermo.

di Enrico Franceschini

LONDRA – È una delle immagini che hanno segnato la storia del Ventesimo secolo: la stretta di mano fra il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat, sul prato della Casa Bianca, il 13 settembre 1993. Oggi, trent’anni più tardi, quel simbolico gesto di pace e di speranza non ha mantenuto le promesse: i palestinesi non hanno ancora uno Stato, il negoziato fra le due parti è sospeso, attacchi terroristici e pesanti risposte militari proseguono. Eppure, il Medio Oriente è profondamente cambiato da allora, il dialogo fra ebrei ed arabi si è moltiplicato e adesso una nuova mediazione americana resuscita speranze di un grande accordo. L’anniversario della stretta di mano fra Rabin e Arafat offre l’occasione per riesaminare le occasioni mancate, i conflitti nel frattempo intercorsi e gli scenari per il futuro. Ecco i capitoli più significativi.

• Gli antefatti
  Nel 1948 una risoluzione approvata dall’Onu propone di risolvere la guerra civile in corso da decenni fra arabi ed ebrei nella Palestina a lungo parte dell’Impero ottomano, diventata dopo la Prima guerra mondiale un protettorato dell’Impero britannico. Il piano prevede la creazione di due Stati, uno per i palestinesi, l’altro per gli ebrei, dividendo grosso modo a metà la Palestina britannica. Invece scatena una guerra: gli eserciti di cinque Paesi arabi attaccano gli ebrei, ma sono questi ultimi a prevalere. Nasce così lo Stato di Israele, in circa metà del territorio della Palestina britannica. Per i successivi vent’anni, l’altra metà diventa parte del regno di Giordania e dell’Egitto, che prendono rispettivamente il controllo di Cisgiordania e striscia di Gaza. Con la guerra dei Sei giorni, lanciata nel 1967 per prevenire un altro attacco congiunto arabo, Israele conquista anche Cisgiordania e Gaza, oltre all’intera Gerusalemme, alla penisola egiziana del Sinai e alle alture siriane del Golan.

• Il primo accordo
  Dopo la guerra del 1973, anch’essa lanciata dagli arabi e vinta da Israele, nel 1979 lo Stato ebraico e l’Egitto firmano un accordo di pace che restituisce la penisola del Sinai all’Egitto. Sospinti dalla mediazione del presidente americano Jimmy Carter, il premier israeliano Menachem Begin e il presidente egiziano Anwar el-Sadat si stringono la mano a Camp David, la residenza di campagna del capo della Casa Bianca. L’accordo comprende l’impegno israeliano ad aprire una trattativa per dare “un’autonomia” ai palestinesi. Ma nel 1981 Sadat viene assassinato al Cairo da un estremista egiziano contrario alla pace con gli ebrei e il negoziato si interrompe.

• Il “processo di Oslo”
  Nel 1991, dieci anni dopo l’assassinio di Sadat, il presidente repubblicano George H. Bush annuncia che è “ora di mettere fine al conflitto israeliano-palestinese”, uno dei maggiori motivi di tensione internazionale, contrassegnato da frequenti attentati terroristici, da raid militari e dal 1987 in poi dalla Prima Intifada, detta anche “la rivolta delle pietre”, un’insurrezione di giovani palestinesi contro l’esercito israeliano nei Territori Occupati. A tale fine Bush convoca una conferenza di pace a Madrid che non ha alcun esito concreto, ma dalla quale si sviluppa, due anni dopo, sotto la presidenza del democratico Bill Clinton, un negoziato segreto fra emissari delle due parti e mediatori americani. La trattativa si svolge in Norvegia per tenerla lontana da occhi indiscreti e per questo verrà poi soprannominata “il processo di Oslo”. Annunciata nel ’93 a Washington, l’intesa prevede la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, di fatto un governo palestinese presieduto da Arafat, con poteri amministrativi sui territori autonomi da esso controllati in Cisgiordania e a Gaza, dotato di una forza di sicurezza armata che collaborerà con Israele per combattere il terrorismo. Israele mantiene il controllo di ampia parte della Cisgiordania e di Gaza attraverso gli insediamenti ebraici che vi sono stati costruiti dalla vittoria nella guerra del ’67 in avanti e le postazioni dell’esercito erette per proteggere i coloni ebraici. L’obiettivo è creare entro 5 anni uno Stato palestinese, con modalità e confini da stabilire.

• La stretta di mano
  “Niente baci, mi raccomando”, dice il 13 settembre ’93 Rabin a Clinton, consapevole dell’abitudine di Arafat di baciare i suoi interlocutori. L’ex-generale, ex-comandante supremo delle forze israeliane ed eroe di molte guerre contro gli arabi, è riluttante a stringere la mano al leader palestinese, fino ad allora considerato il mandante di innumerevoli attacchi terroristici contro civili israeliani e contro obiettivi ebraici in tutto il mondo. Sul prato della Casa Bianca, Clinton, in mezzo ai due ospiti, allarga le braccia come per sospingerli a quel gesto così atteso, e le due mani si stringono. “Basta lacrime e sangue”, dice Rabin nel suo discorso. “La pace”, aggiunge come per giustificarsi davanti a coloro che sono contrari nel suo Paese, “si fa tra nemici, non tra amici”. Rabin, Arafat e il ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres, uno dei più convinti artefici dell’accordo, vincono il Nobel per la pace, come era successo a Begin e Sadat dopo la pace del ’79. E anche la Giordania firma un trattato di pace con Israele, secondo Paese arabo a riconoscere lo Stato ebraico dopo l’Egitto: a differenza dell’egiziano Sadat, il suo leader re Hussein non verrà assassinato per questo.

• L’assassinio di Rabin
  Ma il tempo degli assassini non è finito. Nel 1995, Rabin viene assassinato a Tel Aviv durante un comizio da un estremista israeliano che si oppone alla pace con i palestinesi: la stessa sorte toccata quattordici anni prima a Sadat sul fronte opposto. Alle successive elezioni diventa per la prima volta primo ministro il suo avversario politico, Benjamin Netanyahu. Il negoziato rallenta, gli insediamenti ebraici in Cisgiordania aumentano, il terrorismo riprende con una lunga serie di attacchi suicidi, kamikaze palestinesi che si fanno esplodere in mezzo a una folla di civili ebrei. Si intensificano anche le rappresaglie israeliane che, pur con l’obiettivo dichiarato di colpire obiettivi militari, uccidono anche civili palestinesi.

• Gli accordi di Netanyahu
  Ciononostante, il dialogo non si ferma del tutto. Nel 1997 e nel 1998 Netanyahu firma con Arafat due accordi, per il ritiro israeliano da Hebron, la città della tomba di Abramo in Cisgiordania, sacra alle tre religioni monoteiste, e per l’adempimento di impegni presi da Rabin in precedenza, lasciando la porta aperta ad altri accordi. Fra scandali e passi falsi, come il tentato assassinio ad Amman, in Giordania, di un leader di Hamas, l’organizzazione fondamentalista palestinese, Netanyahu perde le elezioni e sembra intenzionato a lasciare la politica. Non sarà così.

• La nuova Camp David
  Nel 2000, quasi allo scadere del suo secondo mandato, Clinton prova a concludere il negoziato avviato nel ’93 da Rabin e Arafat con la storica stretta di mano alla Casa Bianca: il presidente invita un nuovo premier israeliano, Ehud Barak, laburista, ex-generale e pluridecorato eroe di guerra come Rabin, e Arafat, sempre presidente dell’Autorità Palestinese, a Camp David, luogo degli accordi del ’79 fra Begin e Sadat, per una maratona negoziale finale che dovrebbe risolvere tutte le dispute. In effetti le risolve quasi tutte: Barak è disposto a concedere ai palestinesi uno Stato nella quasi totalità della Cisgiordania e di Gaza, con Gerusalemme Est come capitale e un controllo congiunto sui luoghi santi della Città Vecchia. Ma Arafat si impunta sul “diritto al ritorno”, la possibilità per tutti i profughi palestinesi ancora sparsi per il Medio Oriente fuggiti o espulsi da Israele nel 1948 (o per i loro discendenti) di tornare a vivere non nel nascente Stato palestinese bensì nello Stato ebraico, in teoria riprendendosi le case abbandonate mezzo secolo prima. Una concessione che Barak non può fare. “Accetti questo accordo”, dice ad Arafat l’ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington alla conclusione delle trattative, “o rimpiangerà per sempre di averlo rifiutato”. Arafat rifiuta. Barak perde le successive elezioni e scoppia la Seconda Intifada, a base di attentati suicidi non più di pietre: la scintilla che la accende è una provocatoria “passeggiata” alla Spianata delle Moschee, nella Città Vecchia di Gerusalemme, compiuta da Ariel Sharon, leader del Likud, il partito della destra israeliana. E di nuovo il negoziato si blocca.

• Trattative, guerre e accordi
  Proprio Sharon vince le elezioni e diventa il nuovo primo ministro israeliano. E’ un ex-generale decorato al valore nella guerra del 1973, poi giudicato moralmente responsabile delle stragi nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila a Beirut durante l’invasione del Libano nel 1981. Ma compie anche lui qualche mossa verso la pace. Ordina il ritiro unilaterale israeliano da Gaza, smantellando tutti gli insediamenti ebraici. Prepara proposte per fare altrettanto in Cisgiordania, sia pure offrendo ad Arafat meno di quello che gli avrebbe offerto Barak. Poi però Sharon è colpito da un ictus ed esce di scena. Un suo successore, Ehud Olmert, prova a sua volta a negoziare con i palestinesi, con un piano molto simile a quello di Barak, secondo alcuni perfino più generoso: ma Olmert viene fermato da accuse di corruzione, che lo costringono a dimettersi. Intanto, dopo l’attacco all’America dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan e poi l’Iraq. Nel 2004 muore Arafat, sostituito da Mahmoud Abbas detto anche Abu Mazen, nuovo presidente dell’Autorità Palestinese. Cresce la minaccia di un Iran nucleare. La guerra in Iraq produce una nuova minaccia in Medio Oriente, l’Isis. Il conflitto israeliano-palestinese non ha più la preminenza nella diplomazia internazionale. Le iniziative degli Usa durante la presidenza di Barack Obama non fanno passi avanti. E in Israele torna al potere Netanyahu, avviato a diventare il premier più longevo nella storia del suo Paese, sospendendo del tutto il dialogo con i palestinesi, ora divisi tra la leadership laica di Abu Mazen in Cisgiordania, in linea di principio aperta al negoziato con Israele, e quella fondamentalista islamica di Hamas, che ha vinto le elezioni a Gaza e ufficialmente rifiuta di trattare con lo Stato ebraico.

• Gli accordi di Abramo
  È il presidente Trump a rilanciare la trattativa di pace, nel 2020, con un colpo sensazionale: dopo l’Egitto nel ’79 e la Giordania nel ’93, altri tre Paesi arabi firmano la pace con Israele. Sono gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco (a cui si aggiunge brevemente anche il Sudan, poi sconvolto dalla guerra civile). La posizione della maggioranza del mondo arabo nei confronti dello Stato ebraico era che prima Israele deve dare uno Stato ai palestinesi, poi eventualmente i Paesi arabi riconosceranno Israele. Donald Trump riesce a rovesciare il concetto: tre Paesi arabi fanno la pace con Israele, nella speranza che serva a spingere Israele a dare uno Stato ai palestinesi. Ma è una speranza che rimane vana, anzi viene messa in crisi dalle ripetute “guerre di Gaza”, come vengono chiamati i raid militari israeliani contro la Striscia, in risposta a lanci di razzi da parte di Hamas sul territorio israeliano.

• Il negoziato fra Israele e sauditi
  E a completare, anzi ad allargare, gli accordi di Abramo c’è ora sul tavolo il piano di Biden per la pace fra Israele e Arabia Saudita, il più potente Paese sunnita del Medio Oriente, simbolo dell’intero Islam con la Mecca. In cambio di aiuti americani a Riad, i sauditi riconoscerebbero Israele, che a sua volta dovrebbe fare concessioni ai palestinesi e riaprire il negoziato di pace con Abu Mazen. È un Grande Gioco, con un potenziale premio anche per Biden, che avrebbe un risultato internazionale di enorme prestigio da mostrare in vista delle presidenziali del novembre 2024. Ma se ci sono possibili vantaggi per tutti, ci sono anche colossali ostacoli, a cominciare dall’opposizione al piano dei ministri di estrema destra del governo Netanyahu. Qualche commentatore ipotizza che il premier israeliano sarebbe pronto a far cadere il proprio governo e provare a formare una diversa coalizione, in cambio di quella che lui stesso, il mese scorso, alludendo alla pace con l’Arabia Saudita, ha definito “una svolta storica”. Ma sono appunto ipotesi. Di certo c’è che il negoziato è in corso. Trent’anni dopo la stretta di mano fra Rabin e Arafat, israeliani e palestinesi aspettano di vedere dove porterà.

(la Repubblica, 13 settembre 2023)
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Questo articolo, che riportiamo per pura cronaca, è una ricostruzione faziosamente approssimata e falsificante dei passaggi che hanno portato all'attuale situazione di Israele in Medio Oriente. Invitiamo a consultare i Sette Punti elencati nel nostro sito e a prendere in considerazione l'articolo che precede di Itamar Marcus e l'articolo che segue di Ugo Volli.


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I trent’anni degli accordi di Oslo. Un ricordo che ancora oggi divide Israele

di Ugo Volli

La stagione degli accordi e la sua fine
  Esattamente trent’anni fa, il 13 settembre 1993, alla Casa Bianca di Washington, fu firmato l’accordo fra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Erano presenti il presidente americano Bill Clinton, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, il leader dell’OLP Yasser Arafat e il ministro degli Esteri russo Andrey Kozirev. L’accordo (in realtà una dichiarazione di principio che sarebbe stata poi concretizzata da tre successivi documenti nei due anni che seguirono) era stato negoziato segretamente a Oslo per Israele da un gruppo guidato da Shimon Peres (Rabin fu informato tardi e rimase a lungo perplesso) e venne approvato alla Knesset il 23 settembre con un voto di fiducia che raggiunse una maggioranza risicatissima: 61 voti su 120. Il centrodestra laico e la maggior parte dei religiosi si opposero alla ratifica di questo e degli accordi successivi firmati nel 1995 e approvati in un quadro parlamentare molto confuso, caratterizzato da scissioni, forzature e accuse di corruzioni. Ma vi era da parte della sinistra la convinzione di poter ottenere con quegli accordi il risultato storico della pace col mondo arabo: erano avanzate anche le trattative con Assad per una rinuncia israeliana al Golan in cambio di un trattato con la Siria.
   Questo momento di apertura negoziale si chiuse rapidamente, ma non tanto come si usa dire per l’omicidio di Rabin avvenuto il 4 novembre 1995 (giacché Rabin continuava ad avere forti perplessità sulla volontà araba di pace, come dichiarò nel suo ultimo discorso parlamentare) quanto per il fatto che il terrorismo palestinese non era affatto cessato con gli accordi, ma anzi era entrato in una nuova violentissima fase di omicidi di massa, come furono per esempio la strage della stazione degli autobus di Afula (6 aprile 1994, 8 vittime e 55 feriti), quella di Hedera una settimana dopo (6 uccisi e 30 feriti), di Via Dizenghof nel centro di Tel Aviv (19 ottobre 1994, 32 morti), l’attentato di Beit Lid (22 gennaio 1995, 22 assassinati) e tanti altri episodi omicidi a partire dai giorni stessi della ratifica di Oslo.
   Al pubblico israeliano quei crimini non bloccati né denunciati dalla dirigenza palestinese apparvero prove evidenti del doppio gioco dell’OLP, o almeno del fatto che la strategia della cessione di “territori in cambio di pace” non funzionava. E infatti nelle elezioni del 29 maggio 1996, nonostante il cordoglio per Rabin, Bibi Netanyahu sconfisse Shimon Peres che era stato il vero architetto degli accordi e proponeva di continuarli.
   Dopo d’allora, nonostante l’appoggio americano ed europeo, e alcuni lunghi cicli di trattative, i palestinesi non hanno fatto più passi verso la pace e si sono resi in sostanza protagonisti solo di svariate ondate terroriste; Israele ha invece negli ultimi anni costruito rapporti fruttuosi con diversi paesi arabi e musulmani, rompendo così e non con le trattative con i palestinesi, l’isolamento regionale di un tempo.

Attualità
  Vale la pena di ricordare questo anniversario non solo perché si tratta del più importante e controverso atto di politica internazionale mai intrapreso da Israele, ma anche perché esso costituisce una svolta nella politica israeliana che oggi è tornata in discussione. Alcuni dei protagonisti sono ancora presenti, Netanyahu innanzitutto ma anche Ehud Barak, che allora era capo di stato maggiore delle forze armate israeliane ed era come lui contrario agli accordi di Oslo, ma oggi è fra i principali ispiratori delle proteste contro Bibi; e c’è anche Aryeh Deri, allora come oggi a capo di Shaas, il partito religioso sefardita. Il presidente attuale di Israele, Yitzhak Herzog è il figlio di Chaim Herzog, che era presidente allora; Yair Lapid, leader dell’opposizione, è figlio di Tommy Lapid, che negli anni ‘90 era un personaggio televisivo importante e aderì al movimento laico Shinui, al tempo strettamente alleato di Meretz, il partito di sinistra che più di tutti appoggiava gli accordi.

Un momento politicamente decisivo
  Ma la ragione principale dell’attualità di questo anniversario è politica. Il governo Rabin/Peres fu l’ultimo momento di vera forza dello schieramento sociale basato sull’alleanza (quasi un’identità) fra il movimento di kibbutz, la centrale sindacale unica Histadrut e il movimento laburista, che aveva fondato e retto Israele fino agli anni Settanta. Questo schieramento. già messo in crisi alla fine degli anni 70 dalla problematica gestione della guerra del Kippur e dal fallimento della sua politica economica socialista, che aveva provocato una durissima iperinflazione, aveva scelto allora di caratterizzarsi progressivamente come “il campo della pace”, subendo però il freno dell’alternanza di governo con la destra. Oslo fu la grande scommessa di questa nuova identità della sinistra israeliana.
   Contemporaneamente a livello giuridico si sviluppava l’attivismo della Corte Suprema che con la presidenza di Aharon Barak si prese il compito di garantire anche contro le scelte dell’elettorato lo spirito originario, cioè laburista del paese, dandosi anche senza base legislativa alcuna il diritto di intervenire nelle scelte parlamentari e governative, per esempio annullando leggi, nomine e regolamenti che trovava “irragionevoli”.
   Dopo quel momento per trent’anni non vi è più stata più una maggioranza politica di sinistra nel Paese, anche se Ehud Barak nel 1999 divenne primo ministro di un governo molto composito in cui erano determinanti i partiti religiosi, che durò solo un anno e mezzo, cadendo anch’esso sul fallimento dei negoziati con i palestinesi. Oggi per la prima volta il blocco sociale che scommise la propria identità e perse trent’anni fa a Oslo, appare in grado di riproporre un’egemonia. Al di là delle etichette, non si tratta più di un movimento socialista: come in tutto il mondo anche in Israele i ceti popolari sono piuttosto orientati a destra e nel movimento antigovernativo confluiscono piuttosto le élites economiche e professionali; ma esso si caratterizza innanzitutto come la difesa di quel nucleo giudiziario e burocratico guidato dalla corte suprema che conserva le posizioni ideologiche del passato. È poi prevalentemente askenazita, laico e spesso violentemente antireligioso, fortemente influenzato da quel che resta del “campo della pace”, opposto quindi tanto ai sionisti religiosi che ai charedim, ardentemente voglioso di rivincita contro quel Bibi Netanyahu che sconfisse la sinistra nel ‘96 ed è stato poi la guida del blocco di centrodestra (aperto a religiosi, nazionalisti, liberisti) che ha guidato Israele con grande successo negli ultimi vent’anni e più.
   Ricordare Oslo e i conflitti che provocò allora può dunque anche servire a capire meglio quel che accade in Israele in questi mesi.

(Shalom, 13 settembre 2023)

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Israele autorizza trasferimenti di armi all'Autorità Palestinese: "Fake news", secondo Netanyahu

Le parole del Primo Ministro arrivano dopo una grande controversia all'interno del governo su un presunto trasferimento di armi dagli Stati Uniti all'AP.

È scoppiata una grande polemica all'interno del governo sulla presunta approvazione da parte di Israele di un trasferimento di armi alle forze dell'Autorità Palestinese, tra cui armi letali, blindati e apparecchiature di cyberspionaggio. Il dibattito è scoppiato sul gruppo Whatsapp dei ministri mercoledì mattina, con alcuni di loro che hanno denunciato l'iniziativa come suicida per il Paese.
   "Non date loro armi che potrebbero rivoltarsi contro di noi", ha scritto il ministro Orit Struck, membro del Sionismo religioso. Il ministro del Likud Amichai Shikli ha deplorato "la mancanza di discussione all'interno del gabinetto prima dell'approvazione di tali misure". Mentre il capo di gabinetto del Primo Ministro, Yossi Fuchs, ha reagito scrivendo che "tali questioni sono di esclusiva responsabilità del gabinetto e non del gruppo WhatsApp", il ministro Amichai Eliyahu di Forza Ebraica ha replicato: "Questa questione non è solo una questione di gabinetto. Riguarda anche il modo in cui tutti noi dormiremo la notte".
   Anche il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, ha reagito prontamente, sostenendo che questo trasferimento di armi sta preparando la strada per una futura coalizione con Benny Gantz, descritta come "Oslo II" dal leader di Forza ebraica. "Se intendete combattere per un governo Oslo II, informate il vostro ministro e l'opinione pubblica e noi agiremo di conseguenza", ha dichiarato Itamar Ben Gvir.
   Queste reazioni hanno spinto il Primo Ministro e il Ministro della Difesa a prendere la parola per smentire l'esistenza di un tale accordo sul trasferimento di armi, sostenendo che non si trattava altro che di voci e "fake news". "Non c'è limite alle fake news, quindi ecco i fatti: da quando questo governo si è insediato, non ha trasferito una sola arma, nemmeno una, all'Autorità Palestinese. Quello che abbiamo fatto è stato attuare una decisione presa dal ministro della Difesa Benny Gantz durante il governo Bennett-Lapid nel gennaio 2022 di trasferire un certo numero di veicoli blindati per sostituirne altri diventati obsoleti. Nessun veicolo blindato, carro armato o kalashnikov sarà fornito all'AP. Bisogna saper smascherare le bugie", ha dichiarato Benjamin Netanyahu in un video.
   La polemica è scoppiata il giorno dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato il trasferimento di una dozzina di veicoli blindati alle forze di sicurezza palestinesi con l'approvazione di Israele, e in seguito alle affermazioni di un corrispondente della radio militare israeliana secondo cui la spedizione americana conteneva anche 1.500 armi, tra cui fucili M-16, puntatori laser e fucili Kalashnikov.

(i24, 13 settembre 2023)

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Israele scommette sull’autunno per tornare ai numeri del 2019

Con la prospettiva di concludere il 2023 allineati con i numeri pre-pandemia Israele accende i riflettori sulle attrattive della stagione autunnale, «periodo quanto mai ideale per visitare la destinazione» sottolinea Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio nazionale israeliano per il turismo in Italia.
   Proprio in vista dei mesi di ottobre e novembre «la domanda dall’Italia si conferma elevata, ben prima quindi del tradizionale periodo di punta di Natale. Ed è anche più conveniente, sia per il clima meno caldo sia per la media dei prezzi. E i collegamenti aerei tra i due Paesi sono sempre numerosi, circa un centinaio alla settimana».
   L’Italia si conferma «il sesto mercato più importante a livello mondiale per Israele e contiamo di tornare presto ai numeri del 2019 quando i visitatori italiani erano stati circa 190.000».
   Intanto, non mancano le novità: «A Tel Aviv è operativa la prima linea della metro, una novità assoluta per la città e il Paese, che consente di raggiungere il centro dall’aeroporto in soli 15 minuti; e poi arriva direttamente al mare di Jaffa. Spostandoci a Gerusalemme, spicca la riapertura del Museo della Torre di Davide, totalmente rinnovato nella parte delle esposizioni permanenti e accessibile a tutti
   Prossimo appuntamento con il trade «che incoraggio una volta di vedere questa destinazione così ricca di esperienze e possibilità», sarà in fiera Rimini il prossimo ottobre: «Al Ttg saremo presenti con uno stand di cui ho curato personalmente il design, insieme a dieci co-espositori tra cui sette dmc, due catene alberghiere e naturalmente El Al».

(Travel Quotidiano, 13 settembre 2023)

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"Il Messia nelle Scritture" - 18° Raduno Nazionale di Edipi

Dopo l'interruzione di tre anni dovuta al coronavirus, i Raduni Nazionali di Evangelici d'Italia per Israele riprendono quest'anno in Aversa (Caserta) nei giorni 6-8 ottobre 2023.
Locandina

(Edipi, 13 settembre 2023)

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Florida: neonazisti in marcia davanti a Disney World

La stretta all’antisemitismo del governatore DeSantis

di Pietro Baragiola

Sabato 2 settembre, un gruppo composto da neonazisti e suprematisti bianchi ha manifestato davanti al parco di Disney World in Florida. L’ADL (Anti-Defamation League) ha riconosciuto nella manifestazione diversi membri delle organizzazioni Order of the Black Sun ed Aryan Freedom Network che hanno marciato sventolando bandiere e simboli antisemiti. Nonostante la manifestazione sia stata condannata aspramente dagli ufficiali di polizia locali, non è stato effettuato alcun arresto per non violare il diritto di manifestare riconosciuto dal Primo Emendamento.
   L’America ha visto una crescita esponenziale degli incidenti legati all’antisemitismo ma tutt’ora le sue leggi sono risultate inefficaci per combattere adeguatamente il problema. Per questo motivo il governatore della Florida, Ron DeSantis (nella foto in alto), ha appena firmato una legislazione mirata a proibire ogni tipo di azione legata ai crimini d’odio.
   “È la più forte legge sull’antisemitismo degli Stati Uniti” ha dichiarato il deputato Randy Fine al settimanale The Algemeiner, spiegando che questa nuova riforma sarà indispensabile in Florida, dove vive una consistente parte della comunità ebraica americana e gli episodi di antisemitismo sono aumentati del 300% dal 2012.

• L’antisemitismo negli Stati Uniti
   Negli ultimi anni, in America, i crimini d’odio hanno raggiunto numeri estremamente preoccupanti. Secondo un report registrato dall’ADL, il 2022 è stato l’anno con il numero più alto di attività antisemite da quando l’organizzazione ebraica ha iniziato a registrarle nel 1979: 3697 incidenti rispetto ai 2717 del 2021. La maggior parte di queste attività (circa 2.300) erano molestie, più di 1200 erano atti di vandalismo e 111 aggressioni fisiche.
   Tra gli episodi più agghiaccianti: la storia di Juniper Russo costretta a togliere la figlia ebrea da una scuola del Tennessee avendo scoperto che l’insegnante usava frasi ignobili sugli ebrei per avvicinare al cristianesimo gli studenti di altre religioni; episodi di molotov lanciate contro una sinagoga nel New Jersey; minacce di morte rivolte al sindaco ebreo di Surfside, in Florida.

(Bet Magazine Mosaico, 13 settembre 2023)

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Israele - La Corte suprema esamina i ricorsi contro la riforma giudiziaria

La nuova Legge Fondamentale approvata nelle scorse settimane della Knesset riduce il potere proprio dei massimi giudici di far ricorso alla «clausola di ragionevolezza» sui provvedimenti e le nomine del governo.

di Michele Giorgio

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GERUSALEMME - Giornata decisiva oggi in Israele per il ruolo della Corte suprema e per il progetto di riforma giudiziaria avviato dal governo. Tutti e 15 massimi giudici israeliani prenderanno in esame i ricorsi contro la nuova Legge Fondamentale approvata dalla Knesset nelle scorse settimane che riduce la facoltà proprio della Corte suprema di far ricorso alla «clausola di ragionevolezza» riguardo a provvedimenti dei governi che favoriscono corruzione, nepotismo e la scelta di persone con gravi precedenti penali per l’incarico di ministro.
In sostanza, la Corte dovrà decidere se è legittimo ridurre i suoi poteri di controllo. I media locali parlano dello scontro più «catastrofico» a livello istituzionale mai visto nella storia del paese. In aula ci saranno da un lato i rappresentanti di organismi di controllo e di organizzazioni della società civile intenzionati a fermare quello che definiscono «un danno mortale alla democrazia israeliana».
Dall’altro lato il governo che sostiene che la Corte non abbia diritto di veto sulle modifiche alle Leggi Fondamentali. Il «Movimento per un governo di qualità», che ha presentato uno dei ricorsi, sostiene che la nuova legge sulla ragionevolezza conferisce al governo un «potere illimitato».

(il manifesto, 12 settembre 2023)


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Netanyahu vs Corte Suprema: in discussione l'assalto alla democrazia

SI esamineranno i ricorsi presentati contro la controversa riforma giudiziaria del governo di Netanyahu.

Si riunirà a breve a Gerusalemme la Corte Suprema israeliana in una seduta storica per affrontare uno dei punti maggiori della controversa riforma giudiziaria del governo di destra di Benyamin Netanyahu.
   I 15 giudici togati - diretti dalla presidente Esther Hayut - dovranno esaminare i ricorsi presentati contro la legge che ha modificato la cosiddetta "clausola di ragionevolezza", ovvero la facoltà della stessa Corte nel respingere, in base a quel principio, atti della Knesset, del premier, dei ministri.
   Ad esempio la Corte costrinse Netanyahu a ritirare la nomina del leader religioso Aryeh Deri - alleato chiave del premier - a ministro degli interni in quanto ne giudicò "irragionevole" la designazione a causa delle ripetute condanne per reati fiscali. La legge - che ha intaccato il potere della Corte - è considerata dagli oppositori della riforma uno dei punti chiave dell'assalto alla democrazia israeliana.
   La Corte non diffonderà subito la sua decisione che potrebbe essere annunciata tra settimane o anche mesi ma l'andamento della seduta potrà rivelare verso quale scelta andrà l'Assise. In questi ultimi giorni si sono susseguite - sotto l'egida del presidente dello stato Isaac Herzog - le riunioni tra maggioranza e opposizione per arrivare ad una mediazione che smini il contrasto mentre da 8 mesi vede manifestazioni di protesta in piazza contro la riforma e la spaccatura della società israeliana. Il ministro della giustizia Yariv Levin - uno degli architetti della riforma giudiziaria - ha attaccato la seduta della Corte definendola "uno schiaffo alla democrazia". Chi difende il provvedimento ritiene infatti che quella votata dalla Knesset sia una "legge di base" che la Corte non può sindacare. Opposto invece il giudizio di chi contrasta l'operato del Governo.

(tio.ch, 12 settembre 2023)

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Continuità criminosa

di David Elber

La recente andata di omicidi che ha colpito le comunità arabe di Israele ha causato nel solo 2023 (dati aggiornati ai primi di settembre) oltre 170 morti.
  Questa ondata di omicidi legata alla criminalità organizzata, alle faide familiari e claniche, ai “delitti d’onore”, ha raggiunto un punto tale da allarmare l’opinione pubblica e i mass media israeliani. Se confrontiamo le cifre, fornite dalla ONG Abraham Initiatives, dell’anno in corso (171 morti) con quelle degli anni passati: 2022 (116 morti); 2021 (126); 2020 (96); 2019 (89); 2018 (71), si può notare un notevole incremento di vittime nel corso di questi ultimi anni. 
  Purtroppo uno studio serio e articolato su questo fenomeno è difficile da reperire nei mass media, che preferiscono – come troppo spesso accade – strumentalizzare questo fenomeno per attaccare il governo di turno, accusandolo di non fare abbastanza per le comunità arabe giudicate sempre afflitte da endemica povertà, marginalizzazione e poca considerazione all’interno della società israeliana. Oppure si assiste ad autentici deliri antisemiti come quelli espressi nei media dell’Autorità Palestinese. Così si può leggere, come riportato in un articolo di Stephen M. Flatow apparso su JNS che per il quotidiano dell’Autorità Palestinese AlHayat AlJadida, l’ondata di omicidi è stata causata dal governo israeliano che ha deliberatamente “spostato le organizzazioni criminali fuori dalle città ebraiche e le ha impiantate nella società araba” come parte di un complotto volto a “sottomettere la forza di volontà araba a questa politica”.
  Sullo stesso quotidiano, riporta ancora Flatow, l’editorialista Omar Hilmi al-Ghoul (già alto consigliere del primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad) ha sostenuto che “le uccisioni di arabi israeliani, sono collegate al fatto che lo Stato di Israele è stato istituito allo scopo di trucidare e distruggere indiscriminatamente i membri del popolo arabo palestinese al fine di derubare la terra, la storia e la narrativa araba palestinese”.
  La prima considerazione da fare, a proposito di questo conato di antisemitismo, è che nessuno al Dipartimento di Stato americano, che finanzia lautamente la banda di cleptocrati antisemiti palestinesi, ha protestato o chiesto spiegazioni, così come non l’ha fatto il governo di Israele o l’opposizione.
  Proveremo, qui, in estrema sintesi, a capire se il fenomeno delle uccisioni nelle comunità arabe è causato, come sostiene Omar Hilmi al-Ghoul, “dallo Stato di Israele allo scopo di trucidare e distruggere indiscriminatamente i membri del popolo arabo palestinese” oppure è un fenomeno ben radicato nella società tribale e clanica degli arabi. Per questa brevissima indagine partiremo dal 1800, in pieno periodo di dominio ottomano – quando la presenza ebraica era ancora estremamente minoritaria – e quando le fonti a disposizione erano già numerose e affidabili.   
  Nel suo ricchissimo testo The Claim of Dispossession, il ricercatore Arie Avneri, ci fornisce dati e circostanze che hanno portato l’area, che oggi è Israele e nell’800 era una provincia ottomana, ad essere quasi spopolata proprio a causa delle lotte, delle razzie e degli omicidi tra i clan arabi sia nomadi che stanziali. Così viene riportato, ad esempio, che le lotte tra i villaggi delle famiglie Qais e Yaman andavano avanti da così tanti secoli che nessun componente delle due famiglie si ricordava il perché delle faide. Però questo modus vivendi perdurava da secoli ed era il vero ostacolo ad ogni possibilità di sviluppo. Nell’area attorno a Nablus le famiglie Ab del-Hadi (pro-egiziana) e Tuqan (pro-turca) diedero vita a scontri e saccheggi che durarono decenni e provocarono numerose decine di vittime da ambo le parti. Queste, e numerose altre faide ogni tanto venivano contrastate dalle autorità turche che cercavano di ripristinare un minimo di ordine. Un funzionario britannico, Stewart Macalister, nel riportare al proprio governo le azioni dei turchi volte al ripristino dell’ordine pubblico, riferì che furono consegnate al governatore turco, in una sola circostanza, “una pila composta da 350 teste, numerosissime mani e orecchie mozzate” per ottenere la ricompensa promessa dal funzionario turco e porre fine all’illegalità e alla violenza così diffuse. Sempre Macalister, nel riferire della faida in corso tra i Qais e gli Yaman, scrive che un esponente della famiglia Qais gli riferì dell’uccisione di 295 membri della famiglia rivale in una sola grande battaglia.
  Anche se si considera questo numero come un’esagerazione, sicuramente i morti furono parecchi e le battaglie tra le due famiglie numerose. Tenendo conto che la popolazione araba era meno di un di un quinto di quella attuale si può comprendere l’entità degli scontri e delle uccisioni che furono enormemente superiori a quelle attuali. Appare interessante un resoconto fornito dal Console britannico, James Finn, che nel 1853 di ritorno a Gerusalemme da Nazareth, passò dal villaggio di Huwara (lo stesso dei recenti episodi di criminalità dove sono morti anche dei civili israeliani) e si imbatté in una autentica battaglia tra clan di diversi villaggi per il controllo di quella importante strada della Samaria. Come si può notare oltre alle dinamiche anche i villaggi, ora come allora, sono gli stessi.
  Più avanti nel suo testo, Avneri scrive delle guerre tra villaggi sul monte Carmelo che, nel corso dell’800, furono così cruente  da fare sì che l’intera area risultasse praticamente priva di popolazione per decenni. Nel 1840 si contavano ancora 40 villaggi mentre nel censimento del 1863 risultavano abitati solo due villaggi drusi: Isfiya e Daliat el-Carmel.
  A queste faide tra villaggi vanno aggiunte le razzie e gli omicidi compiuti dalle popolazioni nomadi beduine che scorrazzavano in lungo e il largo dal Neghev alla Galilea senza che le autorità turche riuscissero a porvi rimedio. Questi scontri tra villaggi e razzie compiute dai beduini oltre che causare morti e feriti furono la causa del mancato sviluppo di intere aree agricole, in quanto causavano la distruzione sistematica degli alberi di ulivo, delle viti, dei campi coltivati e il furto di tutto quanto poteva essere trasportato (bestiame e i pochi mezzi agricoli). Solo raramente le autorità turche intervenivano e ponevano fine a questi conflitti endemici. La stessa “modalità” fu utilizzata, dagli arabi, nei confronti dei villaggi e degli insediamenti ebraici sparsi per il territorio. L’arrivo della Prima guerra mondiale portò un decremento delle ruberie e degli omicidi a causa della massiccia presenza di truppe turche e inglesi.
  La situazione in generale migliorò con l’instaurazione dell’amministrazione britannica che assunse il controllo del territorio mandatario. Nonostante il grande sviluppo economico e civile avvenuto con l’insediamento dell’amministrazione britannica, l’antico problema delle faide tribali non scomparve ma si ripresentò nel corso dei decenni in maniera più o meno intensa in diverse aree del paese. Benché la presenza dell’amministrazione britannica e soprattutto dell’esercito fosse molto più capillare sul territorio rispetto a quella turca, il fenomeno della criminalità e delle faide tribali tra le comunità arabe non fu mai fermato ma continuò per tutta la durata del mandato britannico. In particolare si fece molto acceso durante la rivolta araba del 1936-39.
  Durante questi anni alla criminalità organizzata e alle lotte familiari si aggiunsero bande armate di arabi che provenivano dalla Transgiordania e dalla Siria per combattere “ufficialmente” contro gli inglesi ma di fatto iniziarono a taglieggiare, depredare e uccidere, in molte occasioni, arabi locali poco inclini a subire le vessazioni imposte da queste bande armate provenienti dai paesi limitrofi.  
  La situazione migliorò con la nascita dello Stato di Israele a partire dal 1948, per due ragioni, per il forte decremento della popolazione araba causato dalla guerra civile e per il controllo più capillare operato dalla forze di sicurezza israeliane nei primi anni di vita dello Stato ebraico. Le cose mutarono dopo la guerra del ’67 e la riconquista di Giudea e Samaria con il conseguente incremento della popolazione araba. La stipula degli Accordi di Oslo nel 1993 non ha migliorato la situazione, anzi, nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese sono peggiorati drasticamente soprattutto per la popolazione arabo-cristiana ormai ridotta al lumicino a causa di soprusi e taglieggiamenti.  
  Come si può ben intuire da quanto sopra riportato, il problema degli omicidi e della criminalità clanica è sempre stato ben diffuso e radicato nelle comunità arabe presenti sul territorio. Gli omicidi sono solo la punta dell’iceberg là dove taglieggiamenti, intimidazioni, soprusi e omertà sono la parte più consistente del problema.
  Con la nascita dello Stato di Israele questo fenomeno è stato per decenni contenuto, ora è riemerso semplicemente perché c’è una maggiore possibilità di acquistare illegalmente delle armi (soprattutto nelle aree amministrate dall’Autorità Palestinese in Samaria). Il governo di Israele su questo aspetto, oltre che sugli enormi patrimoni “sospetti” di numerosi capi clan, può e deve intervenire più radicalmente, mentre pensare ad un repentino cambiamento di mentalità e di costumi è illusorio, trattandosi di un lungo e difficile processo che richiederà generazioni. 

(L'informale, 12 settembre 2023)

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A Berlino si apre una mostra sugli ebrei nella DDR

di Marina Gersony

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Il Jüdisches Museum Berlin, il Museo Ebraico di Berlino, ha inaugurato una mostra temporanea intitolata Ein anderes Land (Un altro paese)) che offre una prospettiva inedita sulle esperienze degli ebrei nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Questa mostra rappresenta un notevole traguardo nella storia e nella cultura, poiché conduce il visitatore in un affascinante viaggio di ricerca documentaria attraverso un capitolo poco esplorato della storia ebraico-tedesca. Questa esperienza unica fonde abilmente le arti visive, il cinema, la letteratura e varie biografie, offrendo inedite esposizioni che catturano l’essenza di questa narrazione.
   Dall’8 settembre al 14 gennaio, la mostra racconterà l’esperienza ebraica nella regione tedesca attraverso oggetti personali di testimoni contemporanei e dei loro discendenti. Questi oggetti narrano le loro storie, permettendo così di comprendere le molteplici prospettive individuali degli ebrei in DDR.
   La realizzazione dell’evento è stata preceduta da un appello affinché il Museo Ebraico ricevesse oggetti personali e memorie legate alla DDR, fondata nel 1949. Il team di curatori, noto per la sua precedente grande mostra permanente sul dopoguerra, ha scoperto che c’erano lacune nella narrazione storica ebraica. Dopo la Seconda guerra mondiale, nella zona di occupazione sovietica vivevano circa 3.500 ebrei. Alcuni di loro vedevano la Germania solo come una tappa verso la Palestina o gli Stati Uniti, mentre molti altri sceglievano consapevolmente di tornare in Germania con l’obiettivo di contribuire alla creazione di una nuova società.
   Tamar Lewinsky, una delle curatrici, ha sottolineato che questa mostra adotta un approccio estremamente soggettivo, mettendo in primo piano le voci dei protagonisti. L’obiettivo è creare una prospettiva multipla e mostrare come le diverse generazioni abbiano interpretato gli eventi nella DDR.
   La domanda fondamentale che attraversa l’iniziativa è: cosa significava essere ebreo ai tempi della DDR? Quali motivazioni spingevano gli ebrei a tornare? Come si sviluppava il loro rapporto con l’ordine statale?
   Hetty Berg, la direttrice del museo, ha sottolineato che le storie raccontate in questa mostra offrono molteplici prospettive sulla vita degli ebrei in DDR. Alcuni erano fuggiti dalla Germania nazista e tornavano nella zona sovietica dopo la guerra, mentre altri erano sopravvissuti ai campi di concentramento o all’era nazista nascondendosi. Molti di loro avevano sperato di costruire uno Stato libero e antifascista con la DDR dopo lo shock della guerra. Nella DDR, le attività religiose erano generalmente indesiderate e viste con sospetto, e la sicurezza dell’ebraismo aveva luogo altrove sotto il socialismo.
   La mostra esplora anche eventi storici e politici come l’agitazione anti-israeliana durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967 e l’espatrio del cantautore Wolf Biermann nel 1976, eventi che hanno richiesto reazioni da parte degli ebrei.
   Un servizio online offre dodici brevi interviste che mostrano le diverse prospettive ebraiche sulla vita e sul sistema politico nella DDR. In conclusione, questa mostra unica e affascinante offre un’opportunità unica e straordinaria per esplorare la complessità dell’esperienza ebraica nella DDR e le molteplici sfaccettature di questa storia poco conosciuta.

(Bet Magazine Mosaico, 11 settembre 2023)


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Disapprovati ed emarginati: gli ebrei nella DDR

di Annette Leo

La storia degli ebrei nella DDR non inizia con la fondazione dello Stato, il 7 ottobre 1949, ma già nel maggio 1945 si delineano le tappe della successiva divisione in Est e Ovest, della guerra fredda, delle purghe staliniane e delle condizioni di vita degli ebrei nell'Est. Allo stesso tempo, in questi anni ci sono stati gli inizi di un diverso corso della storia, altre possibilità che non si sono realizzate.

• Dopo la Seconda guerra mondiale e la Shoah
  Un gruppo estremamente eterogeneo di ebrei sopravvissuti si riunì dopo la fine della guerra e delle persecuzioni sia in territorio sovietico che nelle altre tre zone di occupazione del Paese distruttore e smembrato. Erano stati liberati dai campi di sterminio, avevano combattuto negli eserciti degli Alleati o erano tornati dall'esilio, erano sopravvissuti in clandestinità o erano stati protetti dai loro coniugi non ebrei. Alcuni di loro in un primo tempo consideravano il loro soggiorno in Germania solo come una tappa nel loro viaggio verso la Palestina o gli Stati Uniti. Molti altri sono tornati in Germania deliberatamente perché speravano di contribuire alla formazione di una nuova società.
   Un’importante destinazione e un punto di snodo per il ritorno e l'afflusso di sopravvissuti e migranti fu Berlino, amministrata dalle quattro potenze occupanti. La Comunità ebraica di Berlino, appena costituita, aveva sede nel settore sovietico di Oranienburger Straße. Il suo primo presidente provvisorio, Erich Nelhans, apparteneva al gruppo in quel tempo dominante all'interno della comunità, che non considerava più possibile la vita ebraica in Germania dopo la Shoah e sosteneva il trasferimento in Palestina e la creazione di uno Stato ebraico.
   Nelhans si occupò anche dei sopravvissuti all'Olocausto provenienti dall'Europa orientale, decine di migliaia dei quali si rifugiarono in Occidente per sfuggire all'antisemitismo polacco del dopoguerra. Molti di loro si presentarono alla comunità ebraica nel settore sovietico di Berlino, da dove venivano inoltrati ai settori americano e francese, dove erano stati allestiti campi per sfollati. Nelhans fu preso di mira dai servizi segreti sovietici dopo aver aiutato i soldati ebrei dell'Armata Rossa a fuggire in Occidente. Fu arrestato nel suo appartamento di Berlino Est nel marzo 1948 e condannato da un tribunale militare sovietico a 25 anni di lager. Morì a DubrawLag nel 1950.
   Già nell'estate e nell'autunno del 1945 si formarono comunità ebraiche in molte altre città della Zona di occupazione sovietica (SBZ). La maggior parte di esse fu avviata da ebrei che erano stati salvati dalla deportazione dai loro coniugi non ebrei. Nelle settimane e nei mesi successivi si aggiunsero i sopravvissuti dei campi e dei ghetti, i rifugiati dell'Europa orientale e coloro che erano usciti dalla clandestinità. Il numero di membri di queste prime congregazioni a Lipsia e Zwickau, Dresda, Chemnitz, Erfurt e Magdeburgo crebbe rapidamente all'inizio, e a un ritmo simile diminuì più tardi dal 1949. Le congregazioni più piccole, come Plauen, Mühlhausen, Eisenach e Jena, si sciolsero tra il 1948 e il 1953.

• Nuovo inizio
  Il tentativo di riavviare un nuovo inizio di vita ebraica avvenne in condizioni contraddittorie. L'amministrazione militare sovietica e la maggior parte dei governi regionali appoggiarono la ricostituzione delle comunità e si adoperarono per fornire ai rimpatriati e agli immigrati sopravvissuti i beni di prima necessità (un tetto sopra la testa, vestiti, assistenza sanitaria e razioni alimentari supplementari), mentre l'antisemitismo rimase virulento nella popolazione e nelle autorità locali.
   Per gestire il sostegno ai loro membri, i rappresentanti delle comunità lavorarono a stretto contatto con i Comitati locali per le vittime del fascismo (OdF). Nei comitati OdF, la maggior parte dei quali era stata fondata da prigionieri politici liberati dal carcere, nell'estate del 1945 c'era stata inizialmente una certa resistenza a riconoscere i sopravvissuti all'Olocausto come "vittime del fascismo", con la motivazione che essi avevano sì "sofferto delle difficoltà, ma non avevano combattuto”. Solo pochi mesi dopo, nell'ottobre del 1945, questo atteggiamento fu corretto alla riunione di Lipsia dei comitati OdF di tutte le parti della SBZ. Il cambiamento di opinione fu dovuto principalmente all'impegno di Julius Meyer e Heinz Galinski, che fondarono il dipartimento "Vittime della legislazione di Norimberga" nel Comitato principale dell'OdF di Berlino. Un aiuto urgente per i sopravvissuti venne anche dal "Joint Distribution Committee" (chiamato Joint in breve), un'organizzazione ebraico-americana di aiuti le cui donazioni alimentari e gli aiuti furono distribuiti attraverso le comunità ebraiche, dal 1947 anche nella SBZ.
   Nel 1947/48, in tutte e quattro le zone di occupazione fu fondata la VVN (Vereinigung der Verfolgten des Nazi­regimes  - Associazione dei perseguitati del regime nazista), che inizialmente si considerava un rappresentante apartitico degli interessi di tutti i perseguitati. Gli ebrei vittime della persecuzione nazista costituivano un gruppo numeroso tra i membri dell'associazione, e a Berlino erano addirittura la maggioranza. Anche se la distinzione tra "combattenti" e "vittime" rimase un punto di contesa all'interno della VVN, la cooperazione tra la VVN e le comunità ebraiche inizialmente funzionò bene, non da ultimo perché i principali rappresentanti delle comunità ebraiche spesso ricoprivano anche incarichi nell'associazione.

• Guerra fredda
  Già nel 1948, la possibilità di un'azione congiunta delle quattro potenze occupanti in Germania per superare l'eredità nazionalsocialista era visibilmente passata. La guerra fredda e la fondazione della BRD e della DDR stabilirono nuove priorità nella politica delle potenze, che fecero crollare le già fragili alleanze antifasciste.
   Mentre la VVN nella Repubblica Federale fu classificata nel 1950 come "organizzazione radicale"  e controllata dall'Ufficio per la protezione della Costituzione, l'organizzazione nella DDR ebbe un grande peso politico e morale fino al suo scioglimento forzato nel 1953: la VVN orientale forniva membri al Parlamento, manteneva centri di cura, pubblicava diverse riviste e aveva una casa editrice di libri. Tra le altre cose, influenzò la stesura di una legge sul risarcimento. Questa conteneva clausole per un regime pensionistico speciale, assistenza sanitaria preferenziale, fornitura preferenziale di alloggi e spazi commerciali, beni domestici e beni di consumo scarsi, ma nessuna clausola per la restituzione delle proprietà saccheggiate o per un risarcimento materiale.
   L'inizialmente presupposta apartiticità della VVN rimase presto solo sulla carta. A partire dal 1948, la SED acquisì gradualmente il controllo degli organi direttivi dell'associazione e iniziò a subordinare le sue attività al nuovo pensiero amico-nemico della Guerra Fredda.

• Il processo Slánský e le sue conseguenze
  Al più tardi dalla fine del 1952, con il processo staliniano a Rudolf Slánský a Praga, che aveva una chiara sfumatura antisemita, gli ebrei della DDR erano sottoposti a una doppia pressione: da un lato, dovevano difendersi dalla continua e persino crescente ostilità di ampi settori della popolazione; dall'altro, erano esposti all'antisemitismo staliniano proveniente dall'Unione Sovietica.
   Dopo che nel 1953 Julius Meyer, membro della SED e presidente dell'Associazione delle comunità ebraiche della DDR, fu invitato a consegnare, nel corso di interrogatori davanti alla Commissione di controllo sovietica e alla Commissione di controllo della SED, gli elenchi dei destinatari dei pacchi comuni e a convincere l'organizzazione ombrello a prendere pubblicamente le distanze dai comuni e a condannare il sionismo, Meyer si recò a Lipsia, Dresda ed Erfurt per avvertire i principali rappresentanti delle comunità della DDR delle imminenti persecuzioni. Günter Singer, Helmut Salo Looser, Leo Löwenkopf, Fritz Grunsfeld e Leo Eisenstädt fuggirono a Berlino Ovest lo stesso giorno. Altri membri della comunità li seguirono. In un'atmosfera di agitazione antisemita nei media e sotto l'impressione di perquisizioni della polizia negli uffici della comunità e di misure arbitrarie da parte delle autorità locali contro le vittime riconosciute della persecuzione, l'ondata di fughe continuò nell'autunno del 1953.
   Anche i funzionari di partito e di Stato di origine ebraica che non avevano contatti con la comunità furono colpiti dai sospetti e dalle persecuzioni.

• Disintegrazione delle comunità
  Gli eventi dal 1948 al 1953 e le loro conseguenze condizionarono la vita degli ebrei nella DDR fino al 1989. La maggior parte delle congregazioni aveva perso i propri leader e mancava di rabbini, cantori e guide della preghiera. Il numero dei loro membri era diminuito drasticamente, non solo a causa dei movimenti di fuga. Molti membri della SED avevano lasciato la comunità religiosa per paura di rappresaglie. A Berlino, la comunità si è infine divisa in una parte orientale e una occidentale. Dopo la morte di Stalin, non ci furono più persecuzioni antisemite mirate, ma le accuse e i sospetti espressi non furono mai ufficialmente ritirati e continuarono a vivere in modo subliminale, come paura da un lato e risentimento dall'altro.
   Con lo scioglimento forzato dell'Associazione dei perseguitati del regime nazista, al cui posto il Comitato centrale della SED insediò un "Comitato dei combattenti della resistenza antifascista", gli ebrei sopravvissuti, come molti altri gruppi perseguitati, non avevano più una voce politica. Le comunità ebraiche non erano in grado di colmare questa lacuna; erano essenzialmente limitate alla pratica del culto religioso.
   A causa del numero esiguo dei loro membri, ma soprattutto a causa del fallimento dei risarcimenti, le comunità ebraiche erano completamente dipendenti finanziariamente dai fondi statali.

• La memoria politica nella DDR
  Fino a circa la metà degli anni '80, il tema della persecuzione e dell'assassinio degli ebrei ha avuto un ruolo minore nelle cerimonie ufficiali di commemorazione; la resistenza comunista era al centro della politica commemorativa dello Stato. Tuttavia, i crimini nazionalsocialisti nei campi di concentramento e di sterminio non erano un argomento tabù. Nei libri di testo scolastici comparivano foto delle pile di cadaveri di Bergen-Belsen, si nominavano gli omicidi di massa nelle camere a gas, ma in gran parte senza affrontare il contesto antisemita. Le vittime venivano generalmente indicate come "prigionieri di tutti i Paesi d'Europa" o venivano attribuite in modo altrettanto generalizzato alla resistenza.

(Jüdisches Museum Berlin, 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Dal Tevere a Ostia, alla scoperta di un’altra Roma ebraica

di Daniele Toscano

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La presenza degli ebrei a Roma si riconduce solitamente alle due sponde del Tevere che si trovano nei pressi dell’Isola Tiberina: l’area del Portico d’Ottavia, dove tra il 1555 e il 1870 gli ebrei furono rinchiusi nel ghetto e dove tutt’ora sorge il Tempio Maggiore, e il quartiere di Trastevere, dove sono accertati stanziamenti precedenti, almeno dal Medioevo. Ma la bimillenaria presenza degli ebrei nella Capitale si lega anche a tante altre aree della città: proprio per ampliare questi orizzonti, in occasione della 24esima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, la Comunità di Roma ha realizzato una serie di iniziative, come quella che ha portato un centinaio di persone a Ostia antica, punto di riferimento culturale e commerciale in epoca romana dove gli ebrei erano presenti e pienamente integrati.
   Per arrivare al cosiddetto “mare di Roma” è stato proposto un mezzo particolare, un battello sul Tevere, che dall’imbarco di Ponte Marconi ha navigato per 40 km di fiume fino al parco archeologico ostiense. Una scelta non casuale: il Tevere, infatti, come ha spiegato Gabriella Yael Franzone dell’Archivio Storico della Comunità, ha rappresentato nei secoli la principale rotta su cui viaggiavano le merci destinate al commercio ed è stato crocevia strategico per le comunicazioni, divenendo punto di riferimento anche per la componente ebraica presente in città dal II secolo a.e.v.
   La gita ha permesso sin dalle sue prime fasi di scoprire una Roma diversa, vista dal livello del fiume. Sono stati così apprezzati flora e fauna che caratterizzano tutto il percorso, con anguille, cefali, aironi cenerini, tartarughe, cormorani. Ma è stato possibile anche scoprire il ruolo del Tevere nella storia, con gli antichi romani che lo risalivano con le chiatte trainate dai buoi in un percorso che dal porto di Ostia a quello di Ripa Grande (a Porta Portese) durava tre giorni.
   Poi l’arrivo al Parco Archeologico di Ostia antica, con alcuni rappresentati della Comunità pronti ad accogliere i visitatori d’eccezione.
   “La Giornata della Cultura ci permette di valorizzare concetti come la bellezza e la conoscenza, che rappresentano strumenti fondamentali per combattere l’ignoranza, il pregiudizio, l’antisemitismo, e ci consentono di mostrare al mondo la cultura e le tradizioni ebraiche e di raccontare il contributo fondamentale che l'ebraismo ha dato all'Italia” ha sottolineato l’Assessore alla Memoria Daniele Regard.
   Il significato della tappa ad Ostia antica è stato spiegato da Claudio Procaccia, Direttore del Dipartimento Cultura della Comunità. “Ostia antica con la sua sinagoga rappresenta il centro dell’ebraismo che si rifonda dopo la fine del Tempio di Gerusalemme, distrutto dall’imperatore Tito nel 70”.
   “Quella di Ostia antica è la più antica sinagoga del Mediterraneo occidentale – ha illustrato Alessandro D’Alessio, Direttore del Parco Archeologico – Non è l’unica testimonianza di questa presenza: vi è infatti anche un ricco patrimonio epigrafico della comunità ostiense, che arricchisce di dettagli e testimonia con forza la più antica presenza ebraica in Italia”.
   Il folto gruppo è dunque partito nel peculiare tour, contraddistinto dalle spiegazioni della storica dell’arte Sara Procaccia alternate alle performance di attori e cantanti del Teatro Mobile. Tra i canti di Evelina Meghnagi e le letture di passi biblici e di storici come Giuseppe Flavio, è così stato possibile scoprire come a Ostia per secoli si sia costituito un ebraismo integrato, forte, libero, legato alle dinamiche socioeconomiche della città ma deciso nel preservare il proprio culto e le proprie tradizioni. Da questa volontà infatti sorse la sinagoga, costruita nella prima metà del I secolo d.e.v., poi modificata e ampliata fino al III-IV secolo: un edificio complesso, dove vi erano anche sale di studio, bagno rituale, forno per le azzime di Pesach che oggi possono ancora essere identificati. Significativo anche il fatto che sorgesse in un punto strategico, nei pressi di dove in passato arrivava il mare e quindi le principali rotte commerciali, ma anche nel cuore dello stesso parco archeologico, non lontano dalle varie corporazioni.
   Girando tra ruderi e reperti si respira il carattere di Ostia antica, dove vi sono anche i resti di diversi luoghi di culto: la dimostrazione del melting pot che caratterizzava la cittadina.
   Al termine di questa lunga passeggiata si può tornare sul battello e ripercorrere il Tevere in direzione della sorgente: c’è un po’ di fatica per il caldo estivo della giornata, ma soprattutto un grande entusiasmo per la consapevolezza di una storia ebraico-romana più ampia di quanto si pensasse e con ancora altre potenzialità da esplorare.

(Shalom, 12 settembre 2023)

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Netanyahu: Dio non ha sempre protetto gli Ebrei in Ucraina

di Mauro W. Giannini

Ha suscitato scalpore in Israele l'affermazione di Benjamin Netanyahu secondo cui Dio non ha sempre protetto il popolo ebraico in Ucraina.
   "Dio non ci ha sempre protetto, soprattutto in Europa", ha detto domenica il primo ministro mettendo in guardia gli ebrei dal rischio per la sicurezza derivante dal pellegrinaggio annuale alle tombe dei rabbini chassidici durante Rosh Hashanah, il capodanno ebraico.
   Il primo ministro, rivolgendosi a coloro che intendono fare un pellegrinaggio a Uman, in Ucraina, per Rosh Hashanah, ha cercato di sottolineare i potenziali pericoli del viaggio. "I cittadini israeliani che viaggiano in Ucraina devono assumersi la responsabilità personale. Non ci sono garanzie lì", ha affermato.
   Ha poi espresso la parte controversa delle sue osservazioni, "Storicamente, Dio non ci ha sempre protetto, soprattutto in Europa e Ucraina", che ha scatenato una reazione significativa da parte delle comunità religiose in Israele. Queste hanno affermato che Dio ha invece sempre protetto il popolo ebraico.
   Quello che tuttavia interessa altri osservatori è il richiamo alle persecuzioni ebraiche in Ucraina durante il nazismo. Infatti fra il 1941 e il 1944 in Ucraina l'Olocausto consistette nello sterminio di massa di circa 1,6 milioni di ebrei che vivevano in Unione Sovietica ad opera della Germania nazista e con la forte partecipazione dei collaborazionisti ucraini. La maggior parte degli ebrei sovietici prima della seconda guerra mondiale viveva nella cosiddetta "Zona di residenza", di cui l'Ucraina era la parte più grande.
   Il più famigerato massacro di ebrei in Ucraina avvenne nel burrone di Babi Yar nei pressi di Kiev, dove 33.771 ebrei furono uccisi in un'unica operazione il 29 e 30 settembre 1941. Nelle settimane successive furono uccisi anche da 100 000 a 150 000 cittadini sovietici.
   I nazionalisti dell'Esercito insurrezionale ucraino (UPA) si offrirono volontari per assistere la Wehrmacht. In totale, i tedeschi arruolarono 250.000 nativi ucraini. Entro la fine del 1942, solo nel Reichskommissariat Ukraine, le SS impiegavano 238 000 ucraini e solo 15 000 tedeschi, un rapporto da 1 a 16. Quindi il contributo attivo ucraino all'olocausto fu innegabile.
   Questi riferimenti storici sono importanti in un momento in cui, causa la guerra in Ucraina e l'origine ebraica di Zelensky, Israele ha preso posizioni controverse a riguardo di Kiev. La dichiarazione di Netanyahu costringe anche l'Occidente a ricordare un passato che si vuole cancellato per convenienza politica e che invece non è estraneo a quello che sta accadendo oggi.

(Osservatorio sulla legalita' e sui diritti, 11 settembre 2023)

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"Bibi è stato scortese con Dio"

"I tedeschi sono stati fermati nel loro tentativo di conquistare la terra dai miracoli di Dio e non dai sionisti".

di Aviel Schneider 

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La tempesta sulla protezione di Dio continua a tuonare. Quando ieri il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito gli ebrei religiosi di non recarsi in Ucraina, sottolineando che "Dio non ha sempre protetto il popolo ebraico in Europa", ha irritato i suoi partner di coalizione ebrei ultraortodossi. Il leader della fazione ultraortodossa United Torah Party, Israel Eichler, ha risposto all'avvertimento di Netanyahu incolpando gli ebrei laici e sionisti del popolo. "Sono stati questi ebrei a far deragliare i piani di salvataggio degli ebrei europei durante l'Olocausto e a umiliare gli ebrei nei ghetti". Nei media, tutto scoppia tra politica, Dio e Israele. Quando si mette in discussione il potere di Dio, si tratta di blasfemia o di maleducazione? I media mainstream israeliani, di sinistra, di destra e sionisti, in questo caso si oppongono alle parole e alla posizione degli ebrei ultraortodossi del Paese.
   Secondo Eichler, gli ebrei della diaspora hanno sempre vissuto in relativa pace e tranquillità e solo in Israele il sangue ebraico viene versato come acqua. A ciò si aggiunge l'assimilazione del regime laico. Il vicepresidente della Knesset ha aggiunto: "Per più di un secolo, il Dio di Israele ha salvato la terra di Israele dagli idoli del potere e della cattiva cultura, nonché dall'assimilazione dei governi secolari". Con questo, ovviamente, Eichler intende i governi laici e sionisti del Paese, che non avevano una vera rappresentanza in Parlamento, soprattutto negli anni pionieristici della politica. "Non sono stati i sionisti e i partigiani a impedire l'Olocausto in Israele, ma l'Onnipotente", ha sottolineato Eichler. "I tedeschi sono stati fermati sulla via della conquista della terra dai miracoli di Dio e non dai sionisti".
   Le sue parole hanno scatenato le ire dei parlamentari della Knesset di entrambi gli schieramenti politici. "Un'assurdità antisionista. Un testo malato e razzista. Ci vergogniamo di quello che ha scritto". Anche all'interno della coalizione, il ministro dell'Istruzione Yoav Kish ha criticato Eichler in un tweet, dicendo: "Come nipote del brigadiere Kish, che ha combattuto contro i nazisti, come sionista, come ebreo e come soldato delle Forze di Difesa di Israele che ha combattuto contro il nostro nemico, mi vergogno delle cose che hai scritto".
   Aryeh Ehrlich, editore della popolare rivista ortodossa Mishpacha (Famiglia), ha twittato: "Ogni volta che il capo del campo religioso apre la bocca per parlare contro queste eresie oltraggiose, e questa volta contro una dichiarazione ufficiale del Primo Ministro, l'intera teoria del dolce Israele crolla come un castello di carte. Non dovremmo rispettare Bibi quando parla in modo così sacrilego, vile e maleducato contro Dio", ha aggiunto Ehrlich in tutta onestà.
   In un altro tweet, Ehrlich ha affermato che il messaggio degli ultraortodossi è chiaro: "La fedeltà a Dio è più forte dell'adorazione di Bibi. Netanyahu? Bibi non è un idolo". Un altro giornalista ortodosso, Yossi Elituv, ha twittato:
   "Benjamin Netanyahu, non c'è vergogna nel chiedere scusa. Tra l'altro, un ebreo che indossa di tanto in tanto i tefillin (cinturini da preghiera ebraici) non sarebbe caduto in una simile eresia. Può ancora pentirsi".
   Il punto è sempre lo stesso: fino a che punto l'attività di Dio è visibile nella politica di Israele? Se Dio fa tutto, qual è il ruolo dei politici israeliani nel parlamento di Gerusalemme? In questo caso, possono stare seduti passivamente sulle loro sedie in plenaria, girandosi i pollici, conservando le energie e semplicemente non facendo nulla. Dio ha il controllo. Questo è il modo in cui gli ebrei ortodossi del Paese la vedono per la maggior parte. Quante discussioni ho avuto al riguardo con amici e colleghi ortodossi, persino nella mia famiglia allargata. La fiducia in Dio è enorme, ma sempre passiva. Questa è la differenza tra due visioni del mondo tra il popolo ebraico. Coloro che hanno praticamente attuato la promessa di Dio nella Bibbia sono stati gli ebrei laici e sionisti, che spesso non credevano in Dio come Israel Eichler. Ma erano attivi e attuavano la fede, mentre gli ebrei ortodossi come Eichler hanno sempre creduto che lo Stato ebraico di Israele sarebbe apparso con la venuta del Messia e dal cielo. Per questo motivo erano passivi e lo sono ancora oggi, pensando che tutto si risolverà da solo, sia in politica che in prima linea e nelle guerre di Israele. Nella prossima rivista affronteremo questo tema, perché è la questione che riguarda il popolo d'Israele e che è sempre stata una pietra d'inciampo per il popolo ebraico.
   Dio è sempre presente, ma per vedere la sua potenza il suo popolo deve credere attivamente in lui. C'è un pericolo reale nel volare a Uman in Ucraina in questo momento solo perché la gente è abituata a farlo ogni anno. I partner ortodossi della coalizione di Netanyahu insistono affinché a migliaia di persone sia permesso di volare lì durante il capodanno ebraico di Rosh Hashanah, a prescindere dal rischio. Ciò che Bibi ha detto ai suoi colleghi della coalizione è semplice e in altre parole ha semplicemente detto: "Non tenterete Dio". Questo ha fatto arrabbiare i fratelli e le sorelle ortodossi del popolo e ha sollevato nuovamente la questione di chi sia il portavoce di Dio. Cosa è più vero, le parole di Bibi "Dio non ha sempre protetto il popolo ebraico in Europa" o le parole di Ehrlich, "Non dovremmo rispettare Bibi quando parla in modo così sacrilego, vile e maleducato contro Dio"?
   È attorno a questo asse che ruota, in un certo senso, l'intera disputa sulla riforma giudiziaria nel Paese. Due visioni del mondo che vedono l'opera di Dio nella terra in modo diverso e che hanno sempre impegnato il popolo d'Israele in ogni generazione. Non è facile per il popolo, ma forse questo è uno dei modi o dei trucchi con cui Dio continua a far sì che il popolo non si dimentichi di Lui. In quale altra nazione sulla terra Dio gioca così spesso un ruolo nella politica? Questo tema coinvolge il popolo della nazione e lo fa riflettere sempre di nuovo sull'opera di Dio nella nostra vita, e questa è la cosa più importante.

(Israel Heute, 11 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele ha un ruolo chiave nel corridoio Indo Mediterraneo. L’analisi della Fdd

Il ruolo di Israele è centrale nel progetto Indo Mediterraneo dell’Imec. La Foundation for Defense of Democracies analizza come i processi di normalizzazione Gerusalemme-Riad, i rapporti Modi-Biden, e la stabilità mediorientale pesano sull’iniziativa lanciata al G20

di Ferruccio Michelin

Il 9 settembre, i leader mondiali hanno svelato gli ambiziosi piani per una rotta ferroviaria e marittima che si estenderebbe dall’India attraverso la penisola arabica fino a Israele. L’iniziativa, nota come “Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa”, che su Formiche.net definiamo “Indo Mediterraneo”, è stata presentata durante il vertice del G20 ospitato a Nuova Delhi e ha ricevuto l’approvazione dell’amministrazione Biden. I suoi obiettivi principali includono la razionalizzazione degli scambi commerciali, la facilitazione del trasporto di risorse energetiche e il potenziamento della connettività digitale.
   Sebbene l’attuazione del progetto sia ancora lontana nel tempo, esso rappresenta un’alternativa via terra al trasporto marittimo attraverso il Golfo e il Canale di Suez. Il piano prevede una rete ferroviaria completa che trasporterà le merci dall’Asia, passando per gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e la Giordania, fino a raggiungere Israele. I porti israeliani del Mediterraneo svolgeranno poi un ruolo centrale nell’inoltro di queste merci verso l’Europa. Sul progetto sarebbe un valore aggiunto la normalizzazione delle relazioni tra Gerusalemme e Riad — ma potrebbero essere anche le opere stesse, vettore di collegamenti, a dare il loro contributo nel favorire il processo.
   “Il presidente Joe Biden è saggio a collaborare con il primo ministro Narendra Modi per sfruttare l’ondata di crescita economica indiana a vantaggio dei Paesi del Medio Oriente allineati con gli interessi degli Stati Uniti. In un periodo di crescenti sabotaggi orchestrati dall’Iran contro le navi del Golfo, di crescente influenza regionale cinese e di occasionali ma costosi incidenti nel Canale di Suez, questo piano dimostra che le potenze mondiali stanno pensando ad alternative”,’spiega Mark Dubowitz, ceo della Foundation for Defense of Democracies (Fdd).
   “Basta con la ‘One Belt One Road’ (uno dei nomi con cui viene chiamata la Nuova Via della Seta, ndr) Questa importante iniziativa prende spunto dal manuale cinese, ma rafforza anche gli importanti progressi compiuti dai Paesi del Medio Oriente verso la normalizzazione. Israele sarà un importante punto di snodo per questo vasto progetto con gli Stati arabi della regione. Ma non meno importante è la partecipazione dell’India, un Paese che si rivelerà indispensabile nella competizione americana con la Cina, aggiunge Jonathan Schanzer, vicepresidente senior di Fdd.
   Il think tank neocon americano ha sempre un occhio di riguardo alle attività israeliane, e in effetti in questo caso il ruolo di Gerusalemme è cruciale. Senza il porto di Haifa integrato nel progetto sarebbe impossibile ricongiungere la porzione di corridoio India-Medio Oriente con quella verso l’Europa (dove l’Italia gioca la sua partita per farsi ricettore degli scali).
   “Un accordo a tre tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele sarebbe fondamentale per la regione e per la sicurezza americana. Sarebbe un importante contrasto all’influenza cinese e iraniana in Medio Oriente. Ma non dovrebbe avere il prezzo di dare il via libera alla proliferazione nucleare in Medio Oriente, come ha fatto un precedente accordo dell’amministrazione Obama con l’accordo nucleare iraniano del 2015”, commenta Richard Goldberg, consulente senior della Fdd.

(Formiche.net, 11 settembre 2023)

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La terra trema ancora e Israele invia soccorsi in Marocco

di Michelle Zarfati

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Dopo il devastante terremoto che venerdì ha colpito il Marocco uccidendo oltre duemila persone, Israele ha deciso di inviare una delegazione di aiuti dell'esercito. Il terremoto di magnitudo 6.8, il più grande a colpire il Paese nordafricano negli ultimi 120 anni, ha spinto moltissime persone a fuggire dalle loro case nel terrore. La potente scossa sismica ha abbattuto muri fatti di pietra, coprendo intere comunità di macerie e lasciando i residenti in condizioni molto difficili. Il Marocco ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale.
   Il ministero degli Esteri ha inoltre inviato una squadra a Rabat per aiutare gli israeliani che necessitavano di assistenza dopo la forte scossa sismica: è infatti emerso che 479 cittadini israeliani si trovassero in quel momento nel Paese. Sebbene non ci siano state segnalazioni di vittime israeliane durante il terremoto, Israele ha assicurato piena disponibilità per un sostegno umanitario nelle zone terremotate. Il console israeliano a Rabat, Dorit Avidani, sabato sera si è subito recato verso l'area di Marrakech, fortemente colpita, per avere un quadro completo della situazione.
   La ONG di emergenza israeliana IsraAID ha rivelato sabato di essere pronta a unirsi agli sforzi di soccorso in Marocco e ha pianificato di inviare una delegazione con aiuti a Marrakech e nell'area.
   Nella giornata di sabato, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ordinato a "tutti i ministeri e le forze di fornire assistenza necessaria al popolo marocchino, compresa la pianificazione di inviare una delegazione di aiuti nella zona", ha scritto il Premier in una dichiarazione. Che proseguiva dicendo “Il popolo di Israele tende le mani ai nostri amici, il popolo del Marocco, in questo momento difficile e prega per il loro benessere. Aiuteremo in ogni modo possibile.”
   Israele è leader mondiale nelle operazioni di ricerca e soccorso e nel corso degli anni ha spesso inviato delegazioni di assistenza durante i terremoti, anche in Turchia, Messico e Haiti.
   Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dialogato con la sua controparte marocchina Abdellatif Loudiyi. “Una parte significativa degli accordi di Abramo prevede il nostro impegno a stare accanto ai Paesi amici durante le crisi nazionali. Lo Stato di Israele è pronto ad assistere il Marocco in questo momento difficile", ha detto Gallant in una dichiarazione.
   Nel frattempo, il Ministero della Salute ha inviato una delegazione di medici e infermieri, che porteranno in Marocco le attrezzature sanitarie necessarie. In una serie di post in ebraico, francese e inglese, anche il presidente Isaac Herzog ha espresso la sua vicinanza al Marocco. "I nostri cuori sono con il popolo marocchino", ha scritto su Twitter.

(Shalom, 11 settembre 2023)

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Capo del Mossad: Siamo preoccupati che la Russia possa fornire all’Iran armi contro Israele

Sullo sfondo dei crescenti legami militari ed economici tra Mosca e Teheran, il capo dell’intelligence israeliana, il Mossad, ha espresso serie preoccupazioni circa le potenziali spedizioni di armi avanzate dalla Russia all’Iran.
"Siamo venuti a conoscenza dei piani di Teheran di esportare missili a corto e lungo raggio. Siamo profondamente preoccupati per la possibilità che la Federazione Russa possa fornire all'Iran soluzioni tecnologiche e armi che diventerebbero una vera minaccia per la sicurezza di Israele"., ha detto il capo del Mossad.
Queste dichiarazioni si inseriscono nel contesto di una crescente cooperazione tra Russia e Iran in vari campi, compresa la cooperazione tecnico-militare. Per Israele, che da tempo vede nell’Iran uno dei suoi principali oppositori nella regione, tali azioni destano particolare preoccupazione.

(AVIA.PRO, 11 settembre 2023)

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La cultura ebraica ha donato all’Italia la bellezza

La lettera del ministro della Cultura a Repubblica

di Gennaro Sangiuliano

Il ministro Sangiuliano alla sinagoga di Firenze per la Giornata della Cultura Ebraica
Caro direttore, ieri a Firenze, nello splendido contesto della Sinagoga, e in altre cento città italiane, abbiamo celebrato la Giornata europea della cultura ebraica. È stata l’occasione per riflettere sullo straordinario concorso che la tradizione ebraica ha dato all’intera cultura italiana. L’Ebraismo, con la sua ricchezza, non solo è parte fondante della nostra cultura, ma ne aiuta a definire il carattere.
Quest’anno per la Giornata organizzata dall’Unione delle comunità ebraiche italiane, è stato scelto un tema ambizioso e denso, quello della Bellezza, una nozione ampia e articolata che assume soprattutto una dimensione spirituale e tocca il cuore e l’intelligenza delle persone. Nel definire una nozione di bellezza, bisogna fare i conti con Gerusalemme, perché è alla cultura ebraica e alla sua sapienza millenaria che dobbiamo rivolgerci per aprire la nostra anima alla trascendenza.
   Nella tradizione ebraica, la bellezza è una costante di tutti i comportamenti religiosi e della vita ordinaria; l’opera d’arte è la vita stessa in cui ogni relazione, con Dio e con il prossimo, ha una sua estetica, un peculiare senso del bello non fine a se stesso, ma sempre abitato da questa relazione fondamentale con Dio e la sua presenza: nel culto e nella cura degli oggetti liturgici, negli abiti sacerdotali e nelle architetture delle sinagoghe, nella cura del corpo e della sua salute, nella preghiera e nel canto, nelle relazioni di amore e di amicizia, nella morale privata e pubblica.
   Nell’Ebraismo è molto presente il concetto di “abbellire il precetto”, l’“hiddur mitzvah”, l’adempiere a un precetto in un modo bello, in modo estetico. È una idea che si basa su un passo del Talmud del trattato di Shabbat (133b), in cui si discute su un versetto dell’Esodo (15, 2): «È stato insegnato: “Questo è il mio Dio e io lo abbellirò”». Sempre nel Talmud troviamo: «Renditi bello di fronte a Lui quando esegui i precetti: fai una bella capanna, fai un bello shofar, un bel talleth, un bel Sefer Torà, scrivilo con un bell’inchiostro, con una bella penna, fallo scrivere da uno scriba esperto e rivestilo con bella seta».
   È questo lo spirito che pervade la cultura ebraica e che in Italia ha trovato un patrimonio culturale in cui sentirsi a casa e del quale essere parte integrante, con i propri riti, la propria religione e la propria storia. Il contributo ebraico al patrimonio culturale italiano è enorme e per questo, come ministro della Cultura, ritengo mio preciso compito lavorare alla sua tutela e valorizzazione.
   Vi è, innanzitutto, un dovere della memoria dell’Olocausto, per il quale il governo ha proposto e finanziato l’istituzione del museo della Shoah a Roma (il ddl è stato approvato, per ora, al Senato all’unanimità), e ha realizzato, in poche settimane, raccogliendo l’invito della Senatrice Liliana Segre, una segnaletica storica al Binario 21 della stazione di Milano.
   Ma credo sia anche necessario proteggere e riportare al loro splendore originale i segni della millenaria presenza ebraica in Italia. Stiamo, perciò, intervenendo per la riqualificazione della Sinagoga di Milano e per il completamento del restauro delle sinagoghe di Venezia. E, ancora, intendiamo sostenere il recupero, nel Mezzogiorno d’Italia, del patrimonio ebraico, ricchissimo e ingiustamente dimenticato.
   L’identità di un popolo e di una nazione sono decisivi: più si è saldi nella propria identità meglio si può dialogare pacificamente con gli altri. L’identità italiana è la risultante di tanti affluenti dal mondo greco-romano in poi, tra questi l’Ebraismo, che ha dato un contributo importantissimo. Per questo la Giornata della cultura ebraica deve essere giornata di tutti.
   È infatti una occasione per condividere i valori della convivenza plurale, nel segno del dialogo culturale e interreligioso e nella comune lotta a qualsiasi forma di antisemitismo e di discriminazione.

(la Repubblica, 11 settembre 2023)

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Scoperti altri gradini della Piscina di Siloah

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GERUSALEMME - Gli archeologi di Gerusalemme hanno scoperto altri otto gradini della Piscina di Siloah, che compare nella Bibbia. Non si vedevano da quasi 2.000 anni, ha riferito giovedì l'emittente statunitense "Fox News".
Se'ev Orenstein è direttore degli affari internazionali della Fondazione David City. Ha dichiarato a "Fox News Digital" che il progetto di scavo ha fatto progressi nelle ultime settimane. Gli scavi nel sito storico della Gerusalemme biblica; - in particolare la Piscina di Siloah e la Via dei Pellegrini - "sono una delle più grandi conferme di questo patrimonio e dei legami millenari che ebrei e cristiani hanno con Gerusalemme".
La Piscina di Siloah fu scavata circa 2.700 anni fa. Faceva parte dell'approvvigionamento idrico di Gerusalemme. Secondo la tradizione del Nuovo Testamento, un uomo nato cieco vi si lavò per ordine di Gesù e riuscì a vedere (Giovanni 9).
Nel 2004, l'azienda idrica ha effettuato dei lavori nell'area intorno al laghetto. Nel corso di questi lavori sono state portate alla luce diverse fasi dell'antica costruzione.

(Israelnetz, 11 settembre 2023)

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Incapaci di capire

"Non siate disavveduti, ma intendete bene quale sia la volontà del Signore" (Efesini 5:17)

"Incapaci di una corretta valutazione della situazione politica". Questo hanno scritto, come confessione di colpa, gli evangelici tedeschi di cui abbiamo trattato la settimana scorsa in relazione ai fatti avvenuti durante il nazismo. Per "corretta valutazione politica" qui si intende una valutazione spirituale di ciò che in quel momento gli evangelici stavano vivendo come cristiani all'interno della loro nazione. Confessare - come hanno scritto - di non aver saputo "riconoscere la vera natura della persona del Führer, della ideologia e dello Stato nazionalsocialista come forze antidivine e inumane", non sul piano strettamente personale ma in accordo di pensiero con la maggioranza dei cristiani evangelici di quel tempo e di quella nazione, è di una gravità spirituale collettiva che non può essere inquadrabile come riprovevole debolezza carnale, ma deve essere riconosciuta come grave e inquietante cecità spirituale. Non è che hanno agito male, il fatto grave è che non hanno capito.
   Si sottolinea questo non per puntare il dito contro chi si è trovato in quel momento in una situazione altamente problematica, ma per porsi seriamente la domanda: "Come è potuto avvenire?" Per porsene subito dopo un'altra: "Potrebbe accadere qualcosa di simile anche a noi?" O più incisivamente: "Sta forse già accadendo qualcosa di simile anche a noi?"
   Il "noi" di questa domanda non può essere ristretto alla propria chiesa locale o alla propria denominazione, ma comprende la collettività di coloro che oggi professano pubblicamente la fede cristiana nella particolare forma variamente intesa di "cristiani evangelici". Di quale natura spirituale è il nostro rapporto concreto col mondo reale in cui viviamo? Che il Maligno ha ricevuto potere sul mondo, questo lo sappiamo bene, ma sappiamo anche individuarne le mosse? Al tempo di Hitler gli evangelici tedeschi non hanno saputo farlo. E noi, italiani di oggi, lo sappiamo fare? Certo, sappiamo ancora vedere il mondo nei suoi sempre più immorali costumi (anche se il livello di assuefazione al male si è alzato in modo preoccupante), ma sappiamo vederlo anche e soprattutto come un mondo ideologicamente invasivo che esige adeguamento e sottomissione, nei pensieri prima ancora che nelle azioni? Sappiamo riconoscerne la natura seduttrice, manipolatrice e aggressiva? Ne avvertiamo i concreti effetti che ha su di noi? O amiamo anche noi rifugiarci in Romani 13 per non doverci porre fastidiosi problemi di coscienza? Attenzione, non si risolve tutto con l'impegno evangelistico, perché l'Avversario sta facendo a sua volta una contro-evangelizzazione devastante per chi non la sa riconoscere. E' una guerra. E come in ogni guerra, soprattutto quelle moderne, l'elemento decisivo è l'intelligence. Chi non capisce, soccombe.
   Quello che qui segue è la traduzione di alcuni tra i primi capitoli di un libro di Francis A. Schaeffer (1912-1984), un teologo evangelico americano che nei suoi libri ha sempre voluto mettere in relazione la fede cristiana evangelica con la realtà del mondo così come si presenta nelle sue varie facce sociali, politiche e ideologiche. Agendo come sentinella, ha istruito e segnalato pericoli per la fede; e ha dovuto anche registrare "evangeliche sconfitte".
   Il libro da cui è tratta la traduzione ha un titolo eloquente: "The Great Evangelical Disaster" (Il grande disastro evangelico). E' l'ultimo dei suoi ventitré libri. La prefazione, da lui stesso firmata, porta la data di febbraio 1984. Nel maggio dello stesso anno Schaeffer è morto.
   Nel testo qui riportato l'autore riflette sul cambiamento epocale avvenuto nella società nordamericana quando ha abbandonato il suo legame con l'«ethos biblico». E' stato scritto quarant'anni fa, e alcune considerazioni possono apparire inattuali, ma nella sostanza spirituale il testo è tutt'altro che inattuale: anche qui si tratta di cristiani evangelici che sono stati incapaci di capire. M.C.

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Nel 1983, in occasione del suo sessantesimo anniversario, la rivista Time pubblicò un'edizione speciale dal titolo "The Most Amazing 60 Years".
Nel ricordare il mondo in cui il Time è nato, il numero speciale inizia con queste parole: "L'atomo non era diviso. Così come la maggior parte dei matrimoni". In questo caso vengono opportunamente accostate due cose che si sono verificate nella nostra epoca: una, l'esplosione tecnologico-scientifica; l'altra, la disgregazione morale. Non è un caso che queste due cose siano accadute contemporaneamente. C'è qualcosa che sta alla base di entrambi i fenomeni, e nel riconoscerlo il Time ha davvero dimostrato una sorprendente comprensione.

La ricerca di autonomia
  Negli ultimi sessant'anni (1920-1980) è successo qualcosa che ha tolto le fondamenta morali alla nostra cultura. Sono accadute cose devastanti in ogni ambito della cultura, sia che si tratti di legge o di governo, sia che si tratti di scuole, comunità locali o famiglie.
   La nostra cultura è stata dilapidata e dispersa, e in gran parte buttata via. In effetti, definirlo crollo morale è un eufemismo. La moralità stessa è stata stravolta e ogni forma di perversione morale è stata elogiata e glorificata dai media e dal mondo dello spettacolo.
   Come possiamo dare un senso a quello che è successo? Nella sua edizione speciale il Time presenta una spiegazione. L’articolo intitolato “Di che cosa si trattava in realtà?” suggerisce una risposta: “Per determinare cosa sia veramente importante in tutto questo rimescolamento sembra necessario individuare un senso che vada oltre i particolari". Secondo il Time, dobbiamo scoprire "l'idea che caratterizza questa epoca".
   Il Time ha pienamente ragione su questo. Per dare un senso a questi ultimi sessant'anni, e allo stesso tempo capire il presente e il modo in cui noi cristiani dobbiamo vivere oggi, bisogna comprendere l'idea che sta alla base della nostra epoca, o quello che potremmo chiamare lo “spirito del tempo” che ha trasformato la nostra cultura in modo così radicale a partire dagli anni Venti. Questa idea, questo spirito, dice il Time, è stata l'idea di "libertà”: non solo la libertà come ideale astratto, o nel senso di essere liberati dall'ingiustizia, ma la libertà in senso assoluto:
   L'idea fondamentale che l'America ha rappresentato corrispondeva ai valori di quel tempo. L'America non si considerava semplicemente libera: si era liberata, svincolata. L'immagine esprime l'idea di una forza che una volta era stata sotto controllo ma ora si muove in una forma esplosiva di particelle casuali di energia, e in questo modo acquista potere e prospera. Essere liberi significava essere moderni; essere moderni significava correre dei rischi. Il secolo americano sarebbe stato il secolo della rottura, della liberazione (unleashing, ndt), dapprima dal XIX secolo (con leader come Freud, Proust, Einstein e altri), e alla fine da qualsiasi vincolo.
   Più avanti, nello stesso saggio, il Time commenta: "Dietro la maggior parte di questi eventi c'era l'assunto, quasi un imperativo morale, che ciò che non era ancora libero doveva essere liberato, che i limiti erano intrinsecamente malvagi, e che la scienza doveva andare dove voleva in uno spirito di "sicura autonomia (self-confident autonomy, ndt)". "Ma - conclude il Time - quando le persone o le idee sono sciolte da legami, sono svincolate sì, ma non ancora libere".

Ordine e libertà
  Nel saggio il problema degli anni 1920-1980 è ben delineato come tentativo di avere una libertà assoluta, di essere totalmente autonomi rispetto a qualsiasi limite intrinseco. È il tentativo di liberarsi di tutto ciò che potrebbe limitare la propria personale autonomia. Ma è soprattutto una ribellione diretta e deliberata contro Dio e la sua legge.
   Il tema espresso dal Time in effetti è centrale: è il problema di ordine e libertà. È un problema che ogni cultura, fin dall'inizio della storia, ha dovuto affrontare.
   Il problema si può esprimere così: se non c'è un giusto equilibrio tra ordine e libertà, la società si sposta inevitabilmente verso uno dei due estremi. La libertà, senza un giusto equilibrio di ordine, porta al caos e al crollo totale della società. L’ordine, senza un corretto equilibrio di libertà, porta all'autoritarismo e alla distruzione della libertà individuale e sociale.
   Ma nessuna società può continuare ad esistere in uno stato di caos. Ogni volta che ha regnato il caos, anche soltanto per un breve periodo, come conseguenza si è avuta poco dopo l'imposizione di un governo tirannico.
   Nel nostro paese (Stati Uniti) abbiamo goduto di una grandissima libertà umana, ma questa libertà era fondata su forme di governo, legge, cultura e moralità sociale che hanno dato stabilità alla vita individuale e sociale e hanno impedito che le nostre libertà sfociassero nel caos. C'è un equilibrio tra ordine e libertà che siamo arrivati a considerare come fosse una cosa naturale nel mondo. Ma non è naturale. E siamo completamente stolti se non riconosciamo che quell’equilibrio unico che abbiamo ereditato dalle forme di pensiero della Riforma non è automatico in un mondo decaduto. […]
   La Riforma non ha portato soltanto una chiara predicazione del Vangelo, ma ha anche dato forma alla società nel suo complesso, compreso il governo; ha plasmato il modo in cui le persone guardano il mondo e l'intero spettro della cultura. Nell'Europa del Nord e in paesi come gli Stati Uniti, che sono estensioni dell'Europa del Nord, la Riforma ha portato con sé un enorme aumento della conoscenza della Bibbia, che si è diffusa a tutti i livelli della società. Questo non significa che la Riforma sia mai stata una "età dell'oro" o che tutti nei paesi della Riforma fossero veri cristiani. Ma attraverso la Riforma molti furono portati a Cristo e gli assoluti della Bibbia si sono largamente diffusi nella cultura in generale. Le libertà che ne scaturirono furono enormi; e tuttavia non portarono al caos, perché gli ordinamenti erano fondati su un ethos biblico.
   Ma negli ultimi sessant'anni è accaduto qualcosa. La libertà che un tempo era fondata su un consenso biblico e un ethos cristiano, ora è diventata una libertà autonoma, sciolta da ogni vincolo. Ed ecco lo spirito del mondo della nostra epoca: l'uomo autonomo che si erge a Dio, in sfida alla verità morale e spirituale che Dio ha dato. Ecco la causa del crollo morale in ogni ambito della vita. Le enormi libertà di cui godevamo un tempo sono state slegate dai loro vincoli cristiani e stanno diventando una forza distruttrice che conduce al caos. E quando questo accade, ci sono davvero poche alternative. Ogni morale diventa relativa, la legge diventa arbitraria e la società si avvia verso la disintegrazione. Nella vita personale e sociale, la solidarietà viene sommersa dall’egoismo. Quando svanisce la memoria dell’ethos cristiano che ci ha dato la libertà in forma biblica, un autoritarismo manipolatore tenderà a riempire il vuoto. A questo punto le parole "destra" e "sinistra" fanno poca differenza. Sono solo due strade che portano allo stesso fine: il risultato è lo stesso. Un'élite, un autoritarismo in quanto tale, imporrà gradualmente un ordine alla società per evitare che vada nel caos. E la maggior parte delle persone lo accetterà.

La battaglia in cui siamo coinvolti
  Come cristiani evangelici, come credenti nella Bibbia, non siamo stati capaci di capire tutto questo. Lo spirito del mondo della nostra epoca continua ad avanzare pretendendo di essere autonomo e schiaccia nel suo cammino tutto ciò che ci sta a cuore . Sessant'anni fa avremmo immaginato che i bambini non nati sarebbero stati uccisi a milioni qui nei nostri paesi? O che non avremmo avuto libertà di parola quando si trattava di parlare di Dio e della verità biblica nelle nostre scuole pubbliche? O che ogni forma di perversione sessuale sarebbe stata promossa negli intrattenimenti dei media? O che il matrimonio, l'educazione dei figli e la vita familiare sarebbero stati oggetto di attacco? Purtroppo dobbiamo dire che pochissimi cristiani hanno capito la battaglia in cui ci troviamo. Pochi hanno preso una posizione forte e coraggiosa contro lo spirito del mondo di quest'epoca che distrugge la cultura e l'etica cristiana che un tempo hanno plasmato il nostro paese.
   Le Scritture ci dicono che noi, come cristiani credenti nella Bibbia, siamo impegnati in una battaglia di proporzioni cosmiche. È una lotta cruciale nelle menti e nelle anime degli uomini per la vita nell’eternità, ma è anche una lotta cruciale per la vita su questa terra.
   A un certo livello è una battaglia spirituale che si combatte nei cieli. La lettera di Paolo agli Efesini ci presenta la frase classica:

    "Il nostro combattimento non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti (Efesini 6:12).

Siamo davvero convinti di essere impegnati in questa battaglia cosmica? Crediamo davvero che ci siano "dominatori di questo mondo di tenebre" che governano la nostra epoca? Crediamo davvero, come dice l'apostolo Giovanni, che "tutto il mondo è sotto il potere del maligno" (1 Giovanni 5:19)? Se non crediamo a queste cose (e dobbiamo dire che gran parte del mondo evangelico si comporta come se non ci credesse), non possiamo certo aspettarci di avere molto successo nel combattere questa battaglia. Perché l'ethos cristiano nella nostra cultura si è dissolto? Perché abbiamo così poco impatto sul mondo di oggi? Non è forse perché non abbiamo preso sul serio la battaglia primaria?
   E se non abbiamo preso sul serio questa battaglia è perché non abbiamo usato le armi che il Signore ci ha fornito. Come scrive l'apostolo Paolo:

    Del resto, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate stare saldi contro le insidie del diavolo, poiché il nostro combattimento non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti. Perciò prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e, dopo aver compiuto tutto il vostro dovere, restare in piedi. State dunque saldi, avendo preso la verità a cintura dei fianchi, essendovi rivestiti della corazza della giustizia e calzati i piedi della prontezza che dà l'Evangelo della pace;  prendendo oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infocati del maligno. Prendete anche l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio, pregando in ogni tempo, per lo Spirito, con ogni sorta di preghiere e suppliche; a questo vegliando con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi  e anche per me, affinché mi sia dato di parlare apertamente per far conoscere con franchezza il mistero dell'Evangelo (Efesini 6:10-18)

Si noti che in questo elenco non c'è nulla che il mondo accetti come metodo di lavoro, ma non c'è altro modo di combattere la battaglia spirituale nei cieli. E se non usiamo queste armi, non abbiamo speranza di vincere.
   La battaglia primaria in cui ci troviamo è una battaglia spirituale che avviene nei cieli, ma questo non significa che è ultraterrena o al di fuori della storia umana. È una vera e propria battaglia spirituale, ma è anche una battaglia qui sulla terra, nel nostro paese, nelle nostre comunità, nei nostri luoghi di lavoro e nelle nostre scuole, e persino nelle nostre case. La battaglia spirituale ha la sua controparte nel mondo visibile, nelle menti di uomini e donne, e in ogni ambito della cultura umana. Nella dimensione dello spazio e del tempo la battaglia celeste si combatte sul terreno della storia umana.
   Ma per vincere la battaglia sul terreno della storia umana, ci vuole un prioritario impegno a combattere la battaglia spirituale con le uniche armi efficaci. Ci vuole una vita impegnata in Cristo, fondata sulla verità, vissuta nella rettitudine e fondata sul Vangelo.
   È interessante notare che tutte le armi elencate da Paolo fino a questo punto sono difensive. L'unica arma offensiva menzionata è "la spada dello Spirito, che è la parola di Dio". Mentre le altre ci aiutano a difenderci dagli attacchi di Satana, la Bibbia è l'arma che ci permette di unirci al nostro Signore nell'offensiva per sconfiggere le schiere spirituali della malvagità. Ma deve essere la Bibbia, come Parola di Dio in tutto ciò che insegna in materia di salvezza, ma anche quando parla di storia, scienza e morale. Se falliamo in uno di questi ambiti, come purtroppo avviene oggi tra molti che si definiscono evangelici, annulliamo la potenza della Parola e ci mettiamo nelle mani del nemico. Infine ci vuole una vita di preghiera: "pregate nello spirito in ogni occasione".
   Come sul piano celeste, anche sul piano della storia umana la battaglia è altrettanto importante. Anche qui è in atto un conflitto fondamentale che è la controparte terrena della battaglia celeste. Questo conflitto assume due forme. La prima riguarda il nostro modo di pensare, le idee che abbiamo e il modo in cui vediamo il mondo. La seconda ha a che fare con il modo in cui viviamo e agiamo. Entrambi questi conflitti - nel campo delle idee e in quello delle azioni - sono importanti; e in entrambi i campi i cristiani credenti nella Bibbia si trovano a combattere con la cultura circostante del nostro tempo.

La sapienza del mondo
  La battaglia nel campo delle idee è messa particolarmente in evidenza nelle lettere dell'apostolo Paolo.Qui vediamo che c'è un conflitto mentale fondamentale tra "la sapienza di questo mondo" e "la sapienza di Dio". Così scrive Paolo:

    Dov'è il sapiente? Dov'è lo scriba? Dov'è il contestatore di questo secolo? Dio non ha forse resa pazza la sapienza di questo mondo? Poiché, visto che nella sapienza di Dio il mondo non ha conosciuto Dio con la propria sapienza, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la pazzia della predicazione (1 Corinzi 1:20, 21).

E di nuovo:

    Nessuno s'inganni. Se qualcuno tra di voi presume di essere un saggio in questo secolo, diventi pazzo per diventare saggio, perché la sapienza di questo mondo è pazzia davanti a Dio (1 Corinzi 3:18,19).

Bisogna subito chiarire che Paolo non dice che la conoscenza e l'istruzione non hanno valore. Paolo stesso era tra le persone più istruite del suo tempo. Paolo parla di una sapienza mondana che pretende di essere autosufficiente, a prescindere da Dio e dalla sua rivelazione. È un tipo di sapienza mondana che lascia fuori Dio e la sua rivelazione e finisce per avere una concezione completamente distorta della realtà. Questo si può vedere con maggior chiarezza nel primo capitolo della lettera ai Romani, dove Paolo scrive:

    Essi sono inescusabili, perché, pur avendo conosciuto Dio, non l'hanno glorificato, né l'hanno ringraziato come Dio, ma si sono dati a vani ragionamenti e l'insensato loro cuore si è ottenebrato. Dicendosi sapienti, sono diventati stolti e hanno mutato la gloria dell'incorruttibile Dio in immagini simili a quelle dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.
    Per questo Dio li ha abbandonati all'impurità, secondo le concupiscenze del loro cuore, perché disonorassero fra di loro i loro corpi; essi, che hanno mutato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura invece del Creatore
    (Romani 1:21-25).

Quello che qui è in gioco è il modo di pensare degli uomini, il processo di ragionamento, di pensiero e di comprensione. Così "il loro pensiero è diventato vano e i loro cuori stolti si sono oscurati. Pur pretendendo di essere saggi, sono diventati stolti". Quando la Scrittura parla di uomo stolto, non significa che questi sia tale solo dal punto di vista religioso. Significa piuttosto che ha accettato una posizione stolta sul piano intellettuale, non solo rispetto a ciò che dice la Bibbia, ma anche rispetto a ciò che esiste, alla forma dell'universo e a ciò che significa essere umani. Allontanandosi da Dio e dalla verità che Egli ha rivelato, l'uomo è diventato stolto rispetto a ciò che è l'uomo e a ciò che è l'universo. L'uomo si ritrova allora in una posizione in cui non riesce a vivere, ed è preso in una moltitudine di tensioni intellettuali e personali.
   La Scrittura ci dice perché l'uomo è arrivato a trovarsi in questa situazione: perché "pur conoscendo Dio, non l’hanno glorificato come Dio e non l'hanno ringraziato"; perciò sono diventati stolti nei loro ragionamenti, nei loro giudizi e nella loro vita. Questo passo si riferisce alla caduta originale, ma non parla solo di questo: si riferisce a qualsiasi periodo in cui gli uomini hanno conosciuto la verità e se ne sono deliberatamente allontanati. [...]
   Noi che viviamo nel Nord America abbiamo visto realizzarsi questo versetto nella nostra generazione con una violenza spaventosa. Gli uomini del nostro tempo hanno conosciuto la verità e tuttavia se ne sono allontanati. Si sono allontanati non solo dalla verità biblica, ma anche dalle molte benedizioni che questa portava con sé in ogni ambito della cultura, compreso l'equilibrio di ordine e libertà che un tempo avevamo. [...]

Adattamento
  E ora dobbiamo chiederci dove eravamo, come evangelici, nella battaglia per la verità e la moralità nella nostra cultura? Siamo stati in prima linea, come evangelici, a difendere la fede e ad affrontare il crollo morale negli ultimi quaranta o sessant'anni? Siamo consapevoli del fatto che è in corso una battaglia, non solo celeste, ma di vita e di morte per quello che accadrà a uomini, donne e bambini in questa e nell'altra vita? Se la verità della fede cristiana è davvero verità, allora è in antitesi con le idee e l'immoralità della nostra epoca, dunque deve essere praticata sia nell'insegnamento che nell'azione pratica. La verità richiede un confronto. Deve essere un confronto amorevole, ma in ogni caso deve esserci.
   Purtroppo dobbiamo dire che questo è accaduto molto raramente. La maggior parte degli evangelici non è stata attiva nella battaglia, né è stata in grado di capire che siamo in una battaglia. Quando si è trattato di argomenti del giorno, il mondo evangelico il più delle volte non ha detto nulla o, peggio ancora, non ha detto nulla di diverso da quello che il mondo dice.
   Qui sta il grande disastro evangelico: il fallimento del mondo evangelico nel sostenere la verità come verità. C'è una sola parola per dire questo: adattamento (accomodation, ndr). La cristianità evangelica si è adattata allo spirito mondano dell'epoca. In primo luogo, c'è stato un adattamento sulle Scritture, perché molti di coloro che si definiscono evangelici oggi hanno una visione fiacca della Bibbia e non sostengono più la verità di tutto quello che la Bibbia insegna: verità non solo in campo religioso, ma anche in campo scientifico, storico e morale. In questo contesto, molti evangelici accettano metodi di alta critica nello studio della Bibbia. Ricordiamo che sono stati questi stessi metodi a distruggere l'autorità della Bibbia per la cristianità protestante in Germania nel secolo scorso, e per i liberali nel nostro Paese a partire dall'inizio di questo secolo. In secondo luogo, gli evangelici si sono talmente conformati al mondo su questioni di rilevanza attuale da non prendere mai una posizione chiara nemmeno su questioni di vita o di morte.
   Questo accomodamento è costato caro, in primo luogo perché ha distrutto la potenza delle Scritture nel confronto con lo spirito della nostra epoca; in secondo luogo perché ha agevolato un ulteriore scivolamento della nostra cultura. Dobbiamo perciò dire, con lacrime, che è proprio l'adattamento evangelico allo spirito del mondo, alla saggezza di questa epoca, ciò che toglie agli evangelici la possibilità di opporsi all'ulteriore disgregazione della nostra cultura. E' mia ferma convinzione che quando ci troveremo davanti a Gesù Cristo, scopriremo che è stata la debolezza e il conformismo della parte evangelica sulle questioni del giorno a essere in gran parte responsabile della perdita di ethos cristiano che si è verificata in ambito culturale nel nostro Paese negli ultimi quaranta o sessant'anni.
   Dobbiamo renderci conto che l'assecondare lo spirito del mondo in questa epoca non è altro che la forma più grossolana di mondanità, nel letterale significato di questa parola. E insieme a questa corretta definizione di mondanità, dobbiamo dire con lacrime che salvo eccezioni la cristianità evangelica è mondana e non fedele al Cristo vivente.

Cos'è che conta?
  Vorrei porre infine una domanda: “Cos’è che conta davvero?” Cos'è che conta così tanto nella mia e nella vostra vita da stabilire le priorità di tutto quello che facciamo? Al nostro Signore Gesù fu posta essenzialmente la stessa domanda e la sua risposta fu:

    "Ama il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". Questo è il primo e più grande comandamento. E il secondo è simile: "Ama il tuo prossimo come te stesso". Tutta la Legge e i Profeti si basano su questi due comandamenti" (Matteo 22:37-40).

Ecco ciò che conta davvero: amare il Signore nostro Dio, amare il suo Figlio e conoscerlo personalmente come nostro Salvatore. E se lo amiamo, fare le cose che gli piacciono; mostrare il suo carattere di santità e amore nella nostra vita; essere fedeli alla sua verità; camminare giorno per giorno con il Cristo vivente; vivere una vita di preghiera.
   E l'altra metà di ciò che conta davvero è amare il prossimo come noi stessi. Le due cose vanno insieme, non si possono separare. "Su questi due comandamenti poggiano tutta la Legge e i Profeti". Se amiamo il Signore Gesù Cristo e lo conosciamo personalmente come nostro Salvatore, dobbiamo, con la forza della grazia di Dio, amare il nostro prossimo come noi stessi. E se amiamo il nostro prossimo come Cristo vuole che lo amiamo, vorremo certamente condividere con lui il Vangelo; e oltre a questo vorremo mostrare l'amore di Dio in tutti i nostri rapporti con il prossimo.
   Ma non ci si ferma qui. L'evangelizzazione è primaria, ma non è la fine del nostro lavoro, e non può essere separata dal resto della vita cristiana. Dobbiamo conoscere e poi agire in base al fatto che se Cristo è il nostro Salvatore, è anche il nostro Signore in tutta la vita. Egli è il nostro Signore non solo nelle cose religiose e non solo in quelle culturali, come le arti e la musica, ma anche nella nostra vita intellettuale, negli affari, nel nostro rapporto con la società e nel nostro atteggiamento nei confronti del degrado morale della nostra cultura. Riconoscere la Signoria di Cristo e porci sotto l'insegnamento di tutta la Bibbia significa anche pensare e agire come si addice a seri cittadini in relazione al nostro governo e alle sue leggi. Fare di Cristo il Signore della nostra vita significa anche prendere posizione in modi molto diretti e pratici contro lo spirito del mondo del nostro tempo che avanza pretendendo di essere autonomo e schiaccia sotto di sé ogni cosa.
   Se amiamo veramente il nostro Signore e se amiamo veramente il nostro prossimo, soffriremo di compassione per l'umanità di oggi nel nostro Paese e nel mondo. Dobbiamo fare tutto il possibile per aiutare le persone a vedere la verità della fede cristiana e ad accettare Cristo come Salvatore. Non dobbiamo permettere che la Bibbia sia indebolita da alcun compromesso sulla sua autorità, per quanto sottili possano essere i metodi usati. Questo vale tanto più per coloro che si definiscono "evangelici”. Ma dobbiamo anche opporci allo spirito della nostra epoca, al crollo della moralità e alla terribile perdita di umanità che ha portato. Questo significa anzitutto difendere la vita umana e dimostrare con le nostre azioni che ogni vita è sacra e preziosa in sé, non solo per noi come esseri umani, ma anche per Dio. Vale la pena lottare per ogni persona, indipendentemente dal fatto che sia giovane o vecchia, malata o in salute, bambina o adulta, nata o non nata, bruna, rossa, gialla, nera o bianca.
   È la potenza trasformante di Dio che può toccare ogni individuo, il quale poi ha la responsabilità di influenzare il mondo intorno a sé con gli assoluti che si trovano nella Bibbia. In conclusione, dobbiamo renderci conto che lo spirito del tempo - con tutta la sua perdita di verità e bellezza, e con la perdita di compassione e umanità che ha portato - non è una malattia soltanto culturale. È una malattia spirituale, che soltanto con la verità rivelata della Bibbia e in Cristo può essere guarita.

(da "The Great Evangelical Disaster" di Francis A. Schaeffer - trad. www.ilvangelo-israele.it)

(Notizie su Israele, 10 settembre 2023)


 

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La scommessa di Biden: un nuovo corridoio India-Medio Oriente per stoppare la Via della Seta

Stati Uniti in pressing su Riad per il maxi collegamento via treno e nave che porterebbe il grano di Delhi nella regione attraverso il regno saudita e Israele. Un passo avanti nella normalizzazione tra Riad e Gerusalemme.

di Daniele Raineri

L’Amministrazione Biden spera di annunciare oggi al G20 un accordo molto ambizioso con Emirati Arabi Uniti, India e – soprattutto – con l’Arabia Saudita del principe ereditario Mohammed bin Salman. È un accordo a tre strati: il primo strato, quello superficiale, riguarda una rotta commerciale nuova e sarebbe già interessante dal punto di vista dell’economia globale. Ma sotto ci sono altri due strati di densa politica internazionale: la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e l’Arabia Saudita (sarebbe un successo enorme per Biden) e la lotta contro la Cina.
   Andiamo con ordine. La Casa Bianca vuole ufficializzare l’esistenza di un progetto ferroviario che collegherebbe tra loro i Paesi arabi del Golfo e altri Paesi arabi nel Medio oriente. Il progetto sarebbe anche connesso via nave ai porti dell’India, che già adesso trasporta una quantità enorme di merci in quella direzione e aspira a diventare il granaio della regione mediorientale – quindi il primo e più importante fornitore di cibo.
   La merce partirebbe da Mumbai via mare, arriverebbe agli Emirati, da qui proseguirebbe via treno attraverso l’Arabia Saudita e poi al resto dell’area. L’idea americana si spinge più in là: dalle ferrovie saudite le merci potrebbero passare a quelle giordane e poi entrare in Israele, sempre su binari, e arrivare al porto di Haifa sul Mediterraneo. Da lì potrebbero essere imbarcate di nuovo su navi e mandate al porto del Pireo, in Grecia. E quindi a tutta l’Europa.
   Questa rotta offre vantaggi commerciali, perché le merci hanno bisogno di diciassette giorni di viaggio su nave per andare dall’India alla Grecia attraverso lo Stretto di Suez e invece con questa nuova rotta mista – nave più treno più nave – ci metterebbero dieci giorni. Per funzionare, però, il nuovo sistema avrebbe bisogno di molta collaborazione fra tutti i territori attraversati e quindi anche fra israeliani e sauditi. Sarebbe un altro passo verso la normalizzazione tra i due Paesi. L’Arabia Saudita ha un ruolo dominante fra gli arabi per le sue dimensioni, le ricchezze e il prestigio e quindi se dopo decenni di silenzio normalizzasse le sue relazioni con Israele spingerebbe molti altri a fare lo stesso.
   Per ora l’Amministrazione americana non commenta e nemmeno i sauditi. Se il principe Bin Salman dicesse sì all’accordo ferroviario e lo annunciasse questo fine settimana guadagnerebbe un incontro bilaterale con Biden durante il G20 – dopo essere stato trattato per alcuni mesi come un reietto dal presidente americano, all’inizio del suo mandato nel 2021. Bin Salman è accusato di essere il mandante nel 2018 dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, attirato in trappola dentro l’ambasciata saudita di Istanbul in Turchia, assassinato e fatto a pezzi.
   L’Amministrazione da mesi negozia con il saudita la normalizzazione con Israele e in cambio è pronta a offrire un programma di collaborazione nella costruzione di centrali nucleari per uso civile. In questo modo Biden porterebbe a conclusione un processo storico cominciato durante il mandato di Trump. Israele dovrebbe rispondere con aperture sostanziose alle richieste palestinesi, ma per ora non sembra pronto e mantiene il silenzio.
   Se l’accordo ferroviario di oggi andasse in porto sarebbe anche uno smacco – dal punto di vista generale – per la Cina, che tenta di rimpiazzare l’influenza americana in Medio Oriente. La rotta intermodale – quindi: nave più aereo – dall’India fino alla Grecia e oltre sarebbe un progetto alternativo alla cosiddetta Belt and Road Initiative, il grande piano cinese per connettere i Paesi dai propri confini fino all’Europa e creare una rotta commerciale unica sotto il proprio controllo.
   A maggio il consigliere americano per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, durante il forum I2U2 che riunisce Stati Uniti, Israele, Emirati e India tratteneva a stento l’eccitazione e aveva dichiarato: «Se dovete ricordarvi una sola cosa di quello dico oggi, ricordatevi I2U2 perché ne sentirete parlare sempre di più: una partnership per connettere l’Asia al Medio Oriente in modi che avvantaggino la nostra tecnologia, la nostra economia e la diplomazia. Ci sono svolte interessanti che aspettiamo nei prossimi mesi». È un caso di scuola della cosiddetta “diplomazia delle ferrovie”, che crea nuove connessioni – materiali e non – tra i Paesi. 

(la Repubblica, 9 settembre 2023)

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Medio Oriente, scenari. Israele aggiorna le proprie strategie nel pieno dell’escalation della tensione

L’opinione diffusa, ripresa in un’articolata analisi da Yaakov Lappin per JNS, è quella che «le provocazioni di Hezbollah e la capacità di Hamas di operare su più fronti potrebbero scatenare una guerra anche involontariamente»

Ad avviso di Yaakov Lappin – giornalista e ricercatore associato presso l’Alma Research and Education Center, il Begin-Sadat Center for Strategic Studies e l’Università Bar-Ilan, -, alla luce delle minacce lanciate dal leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e delle crescenti tensioni al confine settentrionale di Israele, il gabinetto del primo ministro Benjamin Netanyahu dovrebbe occuparsi del possibile scenario di guerra che si prospetta, valutandone i possibili risvolti nei termini di un esteso conflitto, quello che intanto stanno facendo le Forze di Difesa (IDF). È l’opinione del professor Eyal Zisser (vicerettore dell’Università di Tel Aviv), che ritiene molto probabile un deterioramento incontrollato dove tutti sarebbero in grado di contribuire a porre fuori controllo la situazione, «un’escalation non pianificata e non desiderata alimentata dall’errata o fraintesa lettura delle azioni e reazioni dell’avversario».

• UNA GUERRA SU PIÙ FRONTI
  Allo specifico riguardo lo stato maggiore israeliano ha elaborato diversi potenziali scenari, tutti riconducibili a uno scontro con la milizia sciita libanese filo-iraniana. Una ipotesi è quella relativa a una guerra combattuta su più fronti, che coinvolgerebbe Libano, striscia di Gaza e Siria, che potrebbe caratterizzarsi per gli attacchi portati con armi a lungo raggio ed elevata potenzialità unitamente a guerriglia all’interno di città israeliane miste arabo-ebraiche. I nemici dello Stato ebraico ritengono che quest’ultimo attraversi una fase di marcata debolezza a causa della marcata polarizzazione politica in atto nel Paese, quindi le leadership di Hezbollah (principalmente), ma anche Hamas, potrebbero venire indotte ad approfittarne e ad attaccare.

• TENSIONI AL CONFINE CON IL LIBANO
  In questo momento, dunque, la risposta di Israele fa leva sull’immagine della preparazione allo scontro in funzione deterrente, anche attraverso una efficace narrativa, facendo un appropriato ricorso alla comunicazione e ai media, secondo il citato Zisser «anche e soprattutto relativamente alla discussione su questo specifico argomento». Ritiene il professor Ely Karmon (ricercatore senior presso l’Istituto internazionale per l’antiterrorismo (ICT) e attualmente presso la Reichman University, entrambe di Herzliya) che la decisione di rilasciare informazioni sulle ultime valutazioni di natura strategica potrebbe essere parte di una manovra per preparare l’opinione pubblica israeliana. «Non c’è dubbio – prosegue Karmon – che le provocazioni di Hezbollah nel nord (nell’alta Galilea, n.d.r.) sono state incrementate e che in qualsiasi momento potrebbe innescarsi un conflitto, tuttavia al momento, anche dopo una lunga serie di atti provocatori, non vedo nessuno che abbia intenzione di impegnarsi in una guerra di dimensioni più ampie».

• IL PERICOLO DALLA STRISCIA DI GAZA
  «Per quanto concerne Gaza – ha aggiunto Karmon -, con le manifestazioni di massa alla recinzione di frontiera  e il lancio di razzi in mare, forse per lanciare un segnale di migliore capacità e precisione delle proprie armi, Hamas è divenuta una minaccia più grande di quanto non fosse in precedenza». Egli si è soffermato anche sull’incremento delle attività dei gruppi armati islamisti in Cisgiordania, in buona parte riconducibile a Salah al-Arouri, numero due di Hamas che attualmente ha la sua sede a Beirut, in Libano. «Ma – sostiene Karmon -, se i servizi segreti israeliani eliminassero un agente di Hamas del calibro al-Arouri, ad esempio in Libano, il quesito da porsi sarebbe dunque quello di un’eventuale risposta dell’Iran». Ed ecco uno degli inneschi più probabili di un più ampio conflitto.

• I PROBLEMI DI NETANYAHU
  Il governo Netanyahu ha bisogno di dimostrare all’opinione pubblica di aver raggiunto dei risultati ed eliminare un catalizzatore della la violenza in Cisgiordania come Hamas potrebbe scoraggiare altre organizzazioni armate anche a Gaza, che temerebbero di venire prese di mira. Zisser dubita che Hamas voglia «combattere per Hezbollah», tuttavia, «potrebbe operare dal Libano come probabilmente ha fatto in passato, mentre Israele risponderebbe colpendo la striscia Gaza, una dinamica che farebbe scivolare dentro un conflitto su due fronti». Lo scenario più probabile, conclude Zisser, è quello delle provocazioni e dello scontro a bassa intensità, «ma va tenuto ben presente che la situazione potrebbe peggiorare a seguito della perdita del controllo».

• LA SOLUZIONE PASSA DAI PALESTINESI
  Per Karmon oggi la priorità principale dovrebbe essere l’arena palestinese, perché essa influenza immediatamente il resto del Medio Oriente. «Va fatto tutto il possibile per sostenere l’Autorità palestinese affinché sopravviva, poiché non esiste soluzione al conflitto israelo-palestinese senza un elemento moderato». Il ricercatore di Herzliya si è espresso in questi termini nel corso di una recente lunga e approfondita conversazione con lo stesso Lappin -, nel corso della quale ha ribadito che senza il controllo di Gaza non è pensabile un concreto accordo di pace. «A mio parere – ha egli dichiarato – finché Hamas controllerà la striscia di Gaza non si potrà giungere alla soluzione dei “due Stati” e neppure a un vero compromesso tra Israele e i palestinesi».

ANP: l’INTERLOCUTORE NECESSARIO PER ISRAELE
  Conclude Karmon che «pertanto, sono due i problemi su questo versante: dobbiamo fare tutto il possibile sul fronte politico, economico e anche militare per sostenere l’Anp, ma con molta attenzione e tenendo conto dei vincoli posti da questo tipo di rafforzamento di questa componente palestinese, che per il momento è nostra partner nella questione di Hamas. Se non verrà distrutta la struttura militare di Hamas… attenzione!, non la sua organizzazione politica e religiosa, poiché questo non possiamo farlo, ma quella militare sì, non sarà possibile trovare una soluzione». Nell’intervista sono stati affrontati anche gli argomenti relativi alle responsabilità ascritte agli iraniani per le attività compiute da Hezbollah e le priorità strategiche di Israele in questa fase senza precedenti di crisi interna.

(Insidertrend, 9 settembre 2023)

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"Non calpestate il nostro voto: i sostenitori della riforma giudiziaria manifestano davanti alla Corte Suprema

I manifestanti criticano l'interferenza della Corte Suprema nella legislazione sulla riforma giudiziaria.

Israeliani manifestano davanti alla Corte Suprema a sostegno della riforma giudiziaria
Decine di migliaia di israeliani si sono riuniti giovedì sera nei pressi della Corte Suprema di Gerusalemme per manifestare a sostegno della riforma giudiziaria.
I manifestanti protestavano contro la decisione della Corte di interferire nella legislazione relativa alla riforma giudiziaria, una mossa che secondo loro minaccia di ignorare la volontà degli elettori.
Hanno portato cartelli con slogan come "Corte suprema, non mi deporrai", "Non siamo cittadini di seconda classe: il popolo ha votato per la riforma giudiziaria" e "Corte suprema, non distruggere la democrazia".
I cartelli che precedevano la manifestazione recitavano: "Manifestazione per la libertà. Non ci ruberanno il voto".
Uno degli organizzatori della manifestazione, l'attivista politico Berale Crombie, che aveva organizzato anche la prima grande manifestazione per la riforma il 27 aprile, aveva twittato poco prima della protesta di giovedì: "Non lasciate che la Corte Suprema ci calpesti".
I manifestanti erano particolarmente arrabbiati per la decisione della Corte di interferire con la Costituzione. Secondo la sua stessa teoria, la Corte deriva il suo potere di scavalcare le leggi regolari dalla Legge fondamentale. I critici sostengono che questo è come se la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarasse "incostituzionale" un emendamento costituzionale.
Il deputato del Likud alla Knesset Avihai Boaron, uno degli organizzatori della manifestazione, ha gridato alla folla: "La questione non è se rispetteremo la decisione della Corte Suprema, ma se la Corte Suprema accetterà l'opinione del popolo".
"Se la Corte respinge la Legge fondamentale, sarà responsabile e colpevole dell'anarchia che ne deriverà. Da qui lanciamo un appello alla Corte Suprema: non fateci precipitare nel caos. Non distruggete l'unità di Israele. Non calpestate la maggioranza di Israele", ha dichiarato.
Il Ministro degli Insediamenti e delle Missioni Nazionali, Orit Strock del Partito del Sionismo Religioso, ha dichiarato: "Vi devo chiedere perdono. Avete votato per la Knesset come ci si aspetta da un Paese democratico. Ogni scheda elettorale che avete espresso diceva chiaramente 'riforma giudiziaria'. Non dovreste essere qui, dovreste essere a casa vostra.
"Ma ci sono persone qui che non sono in grado di accettare la decisione della maggioranza. Gridano "democrazia" ma in realtà vogliono una dittatura. Vi prometto che rispetteremo il vostro voto, la vostra decisione. Rispetteremo la democrazia. Faremo ciò che ci avete chiesto di fare", ha aggiunto Strock. Il 12 settembre, i giudici della Corte Suprema ascolteranno le petizioni che chiedono di abrogare la "legge sull'adeguatezza".
Tutti i 64 membri della coalizione, compreso il primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno approvato la legge, un emendamento alla Legge fondamentale, che esclude la "ragionevolezza" come pretesto legale per annullare le decisioni del gabinetto, dei ministri e di alcuni funzionari eletti.
I manifestanti protestavano anche contro la decisione della Corte Suprema di tenere un'udienza sulla cosiddetta legge di ricusazione (recusal law) il 28 settembre.
A marzo, la Knesset ha approvato una legge che limita le circostanze in cui un primo ministro in carica può essere rimosso dall'incarico.
Secondo questa legge, solo il Gabinetto, e non la Corte Suprema o il Procuratore Generale, ha il potere di dichiarare un Primo Ministro in carica non idoneo al servizio, e solo in caso di inidoneità fisica o mentale.

(Israel Heute, 8 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Modifica regolamento Oms: “Stanno negoziando a porte chiuse, questo è l’aspetto più rischioso”

L’avv. Renate Holzeisen ha parlato della modifica del regolamento sanitario internazionale. “Allo stato stanno negoziando dietro porte chiuse, bisogna insistere avvicinando persone che fanno parte di questi gruppi di negoziazione per avere bozze per capire quello che sta succedendo. Questo è di fatto l’aspetto più rischioso, quello che ci preoccupa al momento di più”, ha detto al convegno Deontologia medica tra passato e futuro, organizzato dal Gruppo Coscienza e Medicina Trento il 14 luglio 2023.
  “Faccio parte di un gruppo di avvocati che da mesi si sta dedicando a livello internazionale per capire che cosa sta succedendo in queste camere dove negoziano queste modifiche e cerchiamo e riusciamo a farlo con qualche esponente di qualche paese un po’ più aperto, certo non l’Italia. Per i singoli Paesi ci sono i responsabili che partecipano alle trattative e da quello che noi vediamo, le stesse persone che per i singoli Paesi membri stanno trattando, in realtà non si rendono conto di quello che stanno facendo. È allucinante in quali mani il nostro destino e il destino dei nostri figli si trova”.
  Se passa il nuovo regolamento “il capo dell’Oms oppure il successore, perché molto presto sarà sostituito, vedremo da chi, avrà il potere insieme con un piccolo gruppo di esperti, come un comitato appunto costituito sempre a loro discrezione, di proclamare questa FAIC, Public Health Emergency of International Concern,  cioè l’emergenza sanitaria di rilevanza internazionale, ma non solo, poi saranno loro a decidere che cosa si dovrà fare: le raccomandazioni che una volta, le raccomandazioni dell’OMS che allo stato ancora sono non vincolanti, secondo il piano che stanno per mettere in piedi saranno vincolanti, cioè quello che deciderà attualmente un Tedros con un piccolo gruppo di esperti e ci possiamo immaginare da chi verranno nominati, saranno quegli esperti che escono direttamente da Bill e Melinda Gates Foundation e da Big Pharma, decideranno di, che cosa decideranno?
  Degli obblighi vaccinali perché va tutto in quella direzione. L’OMS in futuro avrà un potere di fatto di governo mondiale perché colui che ha in mano il potere di chiudere attività economiche, imponendo lockdown, di imporre trattamenti anche sperimentali e adesso ci arriviamo, di poter minacciare la popolazione nel senso di dire o ti fai inoculare questa sostanza o altrimenti rimani a casa, non lavori, sei escluso completamente dalla vita sociale, di fatto è il governatore, decide tutto.
  Abbiamo appunto poi questo ampliamento del potere di proclamare un’emergenza sanitaria non soltanto per quelli di rilevanza locale, cioè l’OMS deciderà che cosa bisogna fare se abbiamo un problema soltanto in Italia. Non sarà il Ministero della Salute insieme con, così almeno dovrebbe essere l’organo di consulenza, l’Istituto Superiore della Sanità, no, sarà l’OMS, il Direttore Generale con quel piccolo gruppetto a dire che cosa dovrà fare l’Italia, a meno che l’Italia dica no, grazie, noi questo non lo vogliamo.
  Quali sono le conseguenze per noi cittadini dell’Unione Europea che ci troviamo particolarmente in una situazione molto molto grave? Li vediamo già adesso.
  Abbiamo appunto un regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 novembre del 2022 dove appunto leggiamo che l’Unione Europea, dunque anche il nostro governo, anche la Repubblica Italiana in realtà hanno già previsto che si va in quella direzione.
  One Health, questo è uno slogan che hanno appunto invitato la salute in tutte le politiche, avremo appunto in futuro una politica calata dall’alto, ma non soltanto dall’Unione Europea, dall’OMS, cioè da un’organizzazione che è nelle mani di fatto di quei poteri di interesse che con noi sono in un grave conflitto di interesse
  Una volta recepito il nuovo regolamento è previsto nell’ambito della modifica del regolamento sanitario internazionale è prevista la censura totale. Deciderà il direttore dell’OMS con questo piccolo gruppetto di esperti, quale è la verità scientifica e dunque tutti, inclusi i medici, non potranno più valutare insieme al paziente il da farsi. Dunque non avremo più soltanto le linee guida, che già adesso sono una cosa aberrante, dietro cui si trincerano quei medici, che hanno paura di incorrere in responsabilità come qualcosa che li solleva dalla responsabilità. Sbagliando perché hanno dimenticato il loro ruolo fondamentale.
  Se dovesse andare in porto quello che stanno preparando allora saremo a un livello totalmente diverso. Allora sì che davanti alle corti giudiziari, nelle procure, non potremo più andare perché che cosa diranno? Lo dicono già adesso. L’OMS ha deciso che c’è una pandemia, cioè non è stato messo in discussione nulla. Se sarà consacrato che l’Italia praticamente rinuncia alla sua sovranità di decidere la politica sanitaria, allora che cosa dovrebbero fare i giudici?”

(Presskit, 9 settembre 2023)

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Tutto il bello della Roma ebraica in una giornata. Intervista ad Antonella Di Castro

di Luca Spizzichino

Antonella Di Castro
Domenica 10 settembre torna la Giornata Europea della Cultura Ebraica, manifestazione nella quale Sinagoghe, musei e altri siti ebraici si apriranno alla cittadinanza, coinvolgendo in Italia ben 101 località, distribuite in sedici regioni, con Firenze città capofila. Coordinata e promossa nel nostro Paese dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - UCEI, il tema scelto per questa edizione è “La bellezza”. 
   All’iniziativa partecipa con numerose attività disseminate nell’intero arco della giornata e in varie aree della città anche la Comunità Ebraica di Roma, con un programma all’interno del quale si declina il tema scelto per questa edizione. Per capire l’importanza di questa giornata e scoprire quali sono le iniziative più importanti, Shalom ha intervistato l’avvocato Antonella Di Castro, vicepresidente e Assessore alla Cultura della Comunità Ebraica di Roma.

- Roma Ebraica è un patrimonio culturale vivo tutto l'anno: cosa può aggiungere un'iniziativa come la Giornata Europea della cultura ebraica?
  La Giornata Europea della Cultura Ebraica, manifestazione che ha ricevuto quest’anno la Medaglia del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, raggiunge con questa del 10 settembre la 24ª edizione. Iniziative come questa sono un modo per offrire al pubblico tutto, quindi alla società civile nella quale viviamo e nella quale siamo integrati, lo spunto per conoscerci, per conoscere il popolo ebraico e per conoscere come la cultura ebraica sia da un lato viva e vibrante e dall'altra integrata nelle tradizioni dei vari luoghi. Perché dobbiamo sottolineare che la cultura ebraica, che è una cultura trasversale, comprende tutto il popolo ebraico ovunque viva, si declina poi integrandosi nei vari Paesi, ha quindi in ogni luogo delle peculiarità. La nostra è ebraico-romana, con dei riti e delle modalità di espressione che sono tipiche del nostro linguaggio.

- Il tema di quest'anno è la bellezza: come viene declinato? Quali sono le iniziative di punta di quest'anno a Roma?
  A Roma il tema della bellezza verrà declinato in ogni singolo ambito. La cultura e la bellezza verranno presentate in varie forme, come possono essere il teatro, la musica, gli scritti, la psicologia e la fotografia e molto altro.
   Nella mattinata ai Giardini del Tempio verrà inaugurata la giornata e verranno presentati due libri. Abbiamo Yarona Pinhas che presenterà il suo libro “Visioni del Cuore”, e quindi abbiamo la bellezza nella scrittura, e a seguire ci sarà la presentazione del volume “Italia Ebraica. Le storie ritrovate”, che raccoglie una serie di scritti molto interessanti dei musei ebraici nel nostro Paese. La Galleria d'Arte moderna invece ospiterà un'esposizione fotografica su Tel Aviv. Nel pomeriggio invece, sempre ai Giardini del Tempio, ospiteremo vari talk. Il primo sulla bellezza dal punto di vista psicologico, con lo psicoterapeuta Gianni Yoav Dattilo, e dal punto di vista medico chirurgico, con il chirurgo Micol Finzi. Successivamente, nel panel con il rabbino capo Riccardo Di Segni, il presidente del Benè Berith Sandro Di Castro e la filosofa Fiorella Bassan, si parlerà della bellezza esteriore e dell'introspezione di questa. Proprio riguardo a questo tema, al Museo Ebraico ci sarà l'esposizione di un volume del XVII secolo e di un documento del XVIII secolo in cui si parla proprio di quali siano le regole delle donne ebree nell'età dei ghetti e dell'importanza della bellezza della donna, non solo dal punto di vista estetico, ma anche della purezza e della santità in relazione ad alcuni momenti della vita ebraica, come nel caso dello Shabbat.
   Durante tutto l’arco della giornata inoltre ci saranno visite guidate in tutta l'area dell'ex ghetto e l'apertura del Centro di Cultura per le iscrizioni ai corsi di ebraico. Un’altra iniziativa molto interessante è “La scoperta della bellezza dell'antica Ostia ebraica”, un tour che partirà da Roma con un battello che raggiungerà Ostia Antica e il Parco Archeologico, dove ci sarà una visita guidata ai resti della sinagoga in maniera immersiva con le performance del Teatro Mobile, con musiche e monologhi. A chiudere questa giornata ricca di iniziative, ci sarà una “performance danzata” del coreografo Mario Piazza.

- Questa è la prima iniziativa del mandato da Assessore alla Cultura: quali sono i propositi per i prossimi 4 anni in questo ambito?
  I propositi sono ovviamente molteplici, in particolare quello di incrementare e diversificare la già numerosissima offerta culturale del Centro di Cultura, dell’Archivio Storico e del Museo Ebraico. Credo fermamente nel potere della conoscenza e che sia più facile per le persone avvicinarsi alla nostra cultura “riconoscendo” quelle che sono le similitudini con il proprio modo di vivere. La cultura ebraica, che noi stiamo diffondendo con questo progetto verso la popolazione dei non iscritti alla Comunità, è la cultura millenaria del nostro popolo, che offre spunti di riflessione in ogni campo e aiuta a combattere con la conoscenza il pregiudizio. Per quanto attiene invece al pubblico comunitario, c'è un interesse sempre maggiore alle nostre attività: come le mostre, le presentazioni di libri e molto altro. È importante avvicinare a questi temi i giovani, offrendo loro una varietà di proposte  culturali. Auguro a tutti di godere di questa straordinaria giornata della “bellezza” della cultura ebraica.

(Shalom, 8 settembre 2023)

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Abu Mazen choc sugli ebrei. E Parigi gli ritira la medaglia

di Mauro Indelicato

Arrivano le prime conseguenze politiche alle parole pronunciate nei giorni scorsi dal presidente palestinese Abu Mazen. Il comune di Parigi, così come annunciato nelle scorse ore dal primo cittadino Anne Hidalgo, ha deciso di revocare al leader dell'Anp la Grand Vermeil. Ossia la più alta onorificenza che la capitale parigina assegna alle persone che si distinguono in ambito politico, culturale o sociale.
   Abu Mazen, secondo Hidalgo, non può più essere annoverato nella lista di coloro che in passato hanno ricevuto il più importante riconoscimento concesso dalla capitale francese. A pesare per l'appunto sono state le frasi del presidente palestinese, secondo cui l'Olocausto non è stato figlio dell'antisemitismo ma, al contrario, una reazione al ruolo sociale degli ebrei. Per Hidalgo, un'espressione del genere è "contraria ai nostri valori universali".

• La decisione del comune di Parigi
  Il sindaco della capitale francese ha affidato le motivazioni della sua scelta a una lettera rivolta allo stesso Abu Mazen. "Le frasi da lei pronunciate - si legge - sono contrarie ai nostri valori universali e alla verità storica della Shoah". Nella missiva, Anne Hidalgo ha voluto sottolineare la portata storica dell'olocausto sia in Europa che nella stessa Parigi.
   "Lei ha giustificato lo sterminio degli ebrei d'Europa nella Seconda guerra mondiale - si legge ancora nella lettera indirizzata al leader dell'Anp - con una manifesta volontà di negare il genocidio di cui furono vittima le popolazioni ebree d'Europa da parte del regime nazista e dei suoi alleati. La Shoah fa parte anche della storia di Parigi".
   "Nella nostra città - conclude Hidalgo- durante la Seconda guerra mondiale, decine di migliaia di bambini, donne e uomini di confessione ebraica hanno subito retate, sono stati deportati e poi sterminati nei campi della morte". La decisione del sindaco di Parigi è stata subito commentata positivamente da diverse personalità ebraiche della capitale francese. A partire dal rabbino capo di Francia, Haim Korsia, il quale ha ringraziato pubblicamente su X/Twitter Anne Hidalgo per la decisione presa.Analoga posizione è stata presa anche dal presidente del Crif, il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, Yonathan Arfi. "Questa importante decisione onora Parigi - ha scritto sempre su X il numero uno del Crif - e il costante impegno della città contro l'antisemitismo".

• Le possibili conseguenze delle parole di Abu Mazen
  Le frasi "incriminate" sono state pronunciate da Abu Mazen lo scorso 26 agosto durante un Comitato rivoluzionario di Al Fatah, il partito fondato dal suo predecessore Yasser Arafat. In particolare, il leader palestinese ha negato l'origine semita degli ebrei in Europa e quindi, di conseguenza, l'esistenza di un'ideologia antisemita da parte di Adolf Hitler.

    "Tutti sanno che nella Prima guerra mondiale Hitler era un sergente - ha dichiarato nel raduno del comitato del partito - Combatteva gli ebrei perché si occupavano di usura e di traffici monetari. A suo parere erano impegnati in sabotaggi, e perciò li odiava. Ma un punto deve essere chiaro: non aveva a che vedere con semitismo o antisemitismo".

Il gesto del comune di Parigi ha carattere simbolico, ma con delle potenziali conseguenze politiche. La scelta di Hidalgo potrebbe infatti essere emulata anche da altri enti nel Vecchio Continente e da alcuni governi. Lo spettro per Abu Mazen è adesso legato a un possibile progressivo isolamento politico. Da Ramallah, sede dell'Autorità Nazionale Palestinese, per il momento non sono emersi commenti né alle scelta del comune di Parigi e né alle varie reazioni registrate in Europa dopo le parole di Abu Mazen.

(il Giornale, 8 settembre 2023)

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Lia Levi: “Il mio nome nell'elenco degli ebrei salvati. Così a 11 anni scampai al rastrellamento”

L’intervista alla scrittrice e testimone

di Viola Giannoli

«C’ero anch’io in uno di quei conventi, così mi sono salvata». Lia Levi, 91 anni, nel ‘43 era una bambina e basta, come il titolo di quel suo libro in cui cinquant’anni dopo ha deciso di raccontare la sua storia di scampata alle retate nazifasciste.

- Lia, c’è anche il suo nome nell’elenco degli ebrei ospitati negli istituti religiosi di Roma?
  «Il mio, delle mie sorelle Gabriella e Vera e di mia madre Leontina».

- Cosa accadde?
  «Avevo 11 anni, la mia famiglia capì il pericolo quando ci fu la richiesta dell’oro, mia madre ci accompagnò nel collegio di San Giuseppe al Casaletto diretto dalle suore di San Giuseppe di Chambery. Ci accolsero a un patto: dire di essere cattoliche, recitare le preghiere e cambiare nome. Io sono stata prima Lia Lenti e poi Maria Cristina Cataldi con i documenti di una bambina del Sud rimasta lontana perché l’Italia, dopo l’8 settembre, era divisa a metà».

- Quanti ebrei furono ospitati lì?
  «All’inizio eravamo cinque. Dopo il rastrellamento del 16 ottobre fecero una camerata di sole ebree, eravamo più di trenta».

- Cosa facevate in collegio?
  «La sveglia, la scuola, i compiti, i disegni, la pittura, il rosario in corridoio in latino, la cena e moltissime preghiere. A mia madre, prima che ci lasciasse, dissi “ma io sono ebrea, le preghiere non le so”. Mamma disse solo “imparerete in fretta, dovete farlo”. Io non provavo nulla, non capivo bene cosa accadeva, cercavo solo di apprendere cosa fare. Ma quando la situazione è grave, i bimbi obbediscono».

- Sapeva che sarebbe restata lì a lungo?
  «No, credevo durasse pochi giorni, siamo rimaste 10 mesi. Dopo il 16 ottobre anche mia madre riuscì a farsi ospitare nel pensionato delle stesse suore. Venne a bussare, attese un giorno, poi la fecero entrare. Tutte le sere andavamo a trovarla nella stanza e dividevamo l’uovo che aveva comprato, un cucchiaino a testa».

- Ha mai avuto paura?
  «Due volte i tedeschi provarono a fare irruzione, due volte le suore li fermarono».

- Perché per molto tempo non ha raccontato la sua storia?
  «Perché, come dice quell’elenco ritrovato, noi eravamo i salvati. Quando sono stata liberata avevo 12 anni, sapevo solo che c’era stato un pericolo dei tedeschi e avevo capito che se qualcuno ti dà la caccia devi scappare o nasconderti. Solo più tardi ho saputo della deportazione e dello sterminio. E di fronte a questa tragedia non me la sentivo di raccontare una storia drammatica, ma non tragica».

- Poi cos’è cambiato?
  «Negli anni ‘90, qualcuno dice dopo la caduta del Muro, si è riaperto per tanti quel cassetto della storia e quell’infanzia è divenuta raccontabile, nei libri, nelle scuole. Ed è subentrata un’indignazione per quell’Italia che aveva cercato di schierarsi tra le vittime e invece era tra i colpevoli».

- Ora il ritrovamento di questo elenco aggiunge una tessera a questa storia.
  «Serve a mettere ordine nella Memoria, che non è il ricordo che dopo un mese passa, ma il lavoro che si fa sul ricordo. E serve ad avvicinare i giovani che cercano di proteggersi dal dolore ma possono approcciarsi all’Olocausto a partire da una storia come la mia, come la nostra, che è una storia di salvati».

(la Repubblica, 8 settembre 2023)

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Gli "antichi segreti" della biblica strada principale di Israele

Un documentario prodotto da ex diplomatici americani di alto livello e da TBN porta gli spettatori lungo la Highway 60 in Israele

La Highway 60 in Israele
I successi politici in Medio Oriente di due dei più influenti diplomatici americani, l'ex Segretario di Stato Mike Pompeo e l'ex Ambasciatore in Israele David Friedman, erano radicati nella loro forte fede in Dio e nei valori contenuti nelle mistiche storie della Bibbia.
Ora che entrambi si sono ritirati dalla politica, il duo diplomatico si è riunito nuovamente per documentare alcuni dei loro più importanti trionfi geopolitici e le motivazioni religiose che li hanno guidati, filmando un tour dei siti più sacri di Israele.
"Route 60: Israel's Biblical Highway" è un viaggio lungo la strada che attraversa il centro del moderno Israele. L'autostrada, lunga 146 chilometri, collega diverse città fondamentali sia per l'ebraismo che per il cristianesimo, tra cui Gerusalemme, Hebron, Beit El, Shiloh, Beersheva, Betlemme e Nazareth.
Il tour è stato girato in quattro giorni da Friedman, ebreo religioso, e Pompeo, cristiano devoto. Come dice Friedman nell'introduzione del film:
"La Route 60 collega molti siti sacri ed eventi biblici in quella che potrebbe essere definita la Bible Belt originale. Ci sono pietre miliari, umane e divine, che commemorano atti di celebrazione, sofferenza e redenzione intessuti nella storia di Israele".
La maggior parte dei siti visitati si trova nelle province bibliche di Giudea e Samaria, che molti nel mondo chiamano Cisgiordania. Mentre molti conoscono la provincia per il suo millenario significato biblico, molti altri oggi vedono il territorio conteso solo attraverso il prisma del decennale conflitto israelo-palestinese.
“Vorrei che le persone si interessino alla Giudea e alla Samaria", ha detto Friedman al JNS. Vorrei che smettano di pensare alla Giudea e alla Samaria come a una parte del mondo lontana e senza importanza, che è solo un pezzo di terra soggetto a violenze, dispute e rivendicazioni di legalità o illegalità".
"C'è molta indifferenza e molta ignoranza su molti di questi luoghi", ha aggiunto.
Mike Pompeo e
David Friedman
Nel film, ad esempio, Friedman chiede a Pompeo: "Quanto pensi che sia grande l'intera Città Vecchia di Gerusalemme?" e aggiunge: "Un chilometro quadrato. Tutto qui".
Al che Pompeo risponde: C’è “un sacco di storia in questo piccolo spazio". A metro quadrato, qui c'è la più grande storia del mondo.
Per la maggior parte dei turisti, molti dei luoghi visitati da Friedman e Pompeo sono raramente visitabili o off-limits. Ad esempio, per visitare l'Altare di Giosuè originale e intatto è necessario un permesso militare. Per gli spettatori, "Route 60" offrirà probabilmente una prima visione esclusiva dei siti di cui si legge nella Bibbia.
"L'idea era che se le persone non possono andare a visitare, possiamo fare un film e mostrare quello che c'è da vedere", ha spiegato Friedman. "Volevo che le persone capissero che, sebbene Israele sia comunemente indicato come la terra della Bibbia, la maggior parte delle storie della Bibbia sono ambientate in Giudea e Samaria. Un luogo in cui la maggior parte delle persone nel mondo non crede che Israele abbia il diritto di stare".
“La possibilità di vivere veramente questi siti in modo pacifico e stimolante è il risultato della politica del governo israeliano dal 1948; soltanto Israele ha reso possibile che tutti questi luoghi sacri siano accessibili a ebrei, cristiani e musulmani.
"Non era così prima del 1948, e credo che Israele sia giustamente molto orgoglioso di aver fatto un buon lavoro nel preservare i luoghi santi di tutte e tre le principali religioni".
Sebbene gran parte del film riguardi i siti dell'area più contesa del mondo, Friedman e Pompeo cercano di evitare in larga misura gli argomenti controversi.
"Il film non è politico. Non sostiene alcuna soluzione particolare al conflitto israelo-palestinese", ha detto Friedman. “E’ su quella strada che si svolgono gli eventi della Bibbia . E sono pronto a scommettere che quando la gente capirà meglio questo, supereremo l'apatia e la gente si interesserà di più. E se si interesseranno di più, sono molto più fiducioso che otterremo il giusto risultato per affrontare il problema di questo territorio a lungo termine", ha aggiunto.
Nel film, Pompeo racconta gli eventi chiave del suo mandato come Segretario di Stato, tra cui il rilascio degli ostaggi americani in Corea del Nord e l'abbandono di una politica americana vecchia di decenni che considerava gli insediamenti ebraici alla periferia della città come intrinsecamente illegali. Il film racconta la storia del trasferimento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e la firma dello storico accordo di Abramo, mediato dagli Stati Uniti, tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein.
Parte dell'unicità del film deriva dal fatto che il tour non è sceneggiato e quindi a volte diventa molto personale. Entrambi non solo spiegano la storia e il significato profondo di ogni luogo per milioni di persone in tutto il mondo, ma condividono anche storie molto personali. Per esempio, Friedman racconta del legame tra la tomba di Rachele a Betlemme e il fidanzato di sua cugina, ucciso insieme al padre in un attacco terroristico a Gerusalemme alla vigilia del loro matrimonio. Il suo abito da sposa non indossato è stato ritagliato in una tenda che copre parte della tomba.
Quando una delle due guide turistiche raccontava una storia, l'altra era subito pronta ad accrescere l'emozione con una propria storia.
"È stato molto stimolante per me, e spero anche per Mike, perché credo che abbiamo avuto l'opportunità di sperimentare in prima persona le reazioni degli altri a questi luoghi. Veniamo da prospettive teologiche diverse, ma credo che queste differenze siano state molto fluide. Penso che entrambi abbiamo apprezzato il grande significato storico", ha detto Friedman. "Eravamo entrambi molto entusiasti ed emozionati. E credo che questo si veda anche nella telecamera".
Matt Crouch, presidente di Trinity Broadcasting Network (TBN) e produttore esecutivo del documentario, ha dichiarato a JNS che il film è nato solo perché David e Mike si sono trovati così bene davanti alla telecamera e ciascuno ha completato l'energia dell’altro.
"La storia è raccontata da due uomini che possono fornire un resoconto biblico e geopolitico di questi luoghi migliore di chiunque altro", ha aggiunto Crouch. Crouch ha sottolineato che mentre è stato in Israele "100 volte o più", in questo viaggio ha potuto visitare "otto o dieci luoghi in cui non ero mai stato prima".
"Senza viaggiare, gli spettatori hanno la possibilità di vedere l'antico sentiero percorso da Abramo e da altri eroi biblici", ha aggiunto.
Anche se il lungometraggio dura 90 minuti, Crouch ha aggiunto che ci sono quasi cinque ore di filmati che andranno in onda come serie in quattro parti su TBN nei mesi successivi all'uscita nelle sale.
Il film sarà proiettato in oltre 1.000 sale cinematografiche degli Stati Uniti il 18 e 19 settembre.
Friedman ha spiegato: "La TBN - le risorse che ha messo a disposizione, la qualità dei registi, le persone che hanno fatto il montaggio, il numero di telecamere. ... a ogni fermata lungo il percorso c'era un gruppo diverso di operatori di attrezzature e professionisti coinvolti nelle riprese. Dunque un mucchio di risorse. La TBN voleva davvero fare le cose per bene e ci ha messo tutto quello che aveva".
In quanto ebreo ortodosso, Friedman ha dichiarato a JNS di non aver avuto problemi a visitare siti che sono sacri ai cristiani, potendo quindi realizzare un documentario che probabilmente sarà visto da molti più cristiani che ebrei.
“Durante il lavoro a questo film e parlando con molte persone di fede cristiana che conosco, sono stato molto incoraggiato dal vedere quanto tengano all'integrità biblica dello Stato di Israele. Questo mi ha dato molta forza", ha detto Friedman.
"Se il risultato del film sarà che i cristiani saranno entusiasti di collegarsi con i siti cristiani, allora penso che il film sarà un grande successo. Vorrei proprio che i cristiani trovino nel film, e naturalmente nei siti descritti nel film, lo stesso significato e scopo e valore che un ebreo troverebbe nelle parti che contano per un ebreo", ha aggiunto. "Permettetemi di sottolineare ancora una volta che per i cristiani, che attribuiscono una grande santità all'Antico Testamento e ai profeti, praticamente tutto quello che qui ho sperimentato come ebreo è per loro altrettanto rilevante e stimolante".
Alla fine del film, Pompeo osserva: "Quando sono entrato in contatto con questo progetto, ho pensato: "Sarà difficile; questi luoghi sono difficili da raggiungere, bisogna ottenere diversi permessi dal governo". E ora, quando guardo indietro a questo progetto e vedo la sua bellezza e il glorioso lavoro che abbiamo fatto, dico che ne è valsa la pena".
"È stato un lavoro d'amore e prego che questo documentario aiuti altri proprio come ha aiutato me a conoscere la Bibbia come fatto reale e fondamentale. L'ho toccata. Sono stato lì. Ho camminato su quella via. Lei è concreta, come è concreta la Bibbia scritta. E tutto questo lavoro è valso la pena, se si può condividere con gli altri".

(Israel Heute, 8 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Abigail Windberg: dalla Cina in Israele per arruolarsi nell'IDF

di Michelle Zarfati

Abigail Windberg
Abigail Windberg, 24 anni, originaria della Cina e studentessa di una midrashà in Israele, ha deciso di unirsi all'IDF. Cinque anni fa, la ragazza si è trovata casualmente sulla scena di un attacco terroristico in Cisgiordania: fu proprio quel momento a convincerla a compiere questo importante passo. "Ho sentito degli spari e mi sono messa al riparo. A tutti è stato detto di non uscire. Quando alla fine sono uscita, ho visto del sangue sulla strada", racconta Windberg durante un'intervista a Ynet. "Era la prima volta nella mia vita che sentivo di essere in pericolo. Solo allora ho capito veramente la realtà della situazione in Israele". Fu proprio questo incidente a innescare un punto di svolta nella vita di Abigail, convincendola ad arruolarsi nell'IDF e servire come soldato combattente. Oggi è un'operatrice nella 215a Brigata di artiglieria e la sua unità conduce esercitazioni di addestramento sulle alture del Golan. "Mi sono resa conto che la situazione della sicurezza nel Paese era una priorità, ed io volevo fare qualcosa per lo Stato d'Israele".
   Dopo un anno di studi presso l'Università di Washington a Seattle, Windberg ha sentito il bisogno di cambiare direzione. "Alla fine dell'anno, mi sentivo come se non sapessi cosa volessi fare della mia vita. Sono tornata in Cina per valutare le opzioni. Un'amica di mia madre mi ha parlato delle opportunità di volontariato in Israele, così ho fatto volontariato in un asilo nel Kibbutz Ein Gev, vicino al Mar di Galilea" ha raccontato Windberg, che è successivamente arrivata in Israele attraverso l'organizzazione KPC (Kibbutz Volunteers Program Center). Il piano originale era di fare volontariato nel kibbutz per un anno. "All'inizio pensavo che tutta Israele fosse come un kibbutz. Ho amato la vita lì, la tranquillità, la semplicità. Ero a Ein Gev per Pesach, ed ho vissuto per la prima volta un seder davvero speciale. Gli abitanti del kibbutz mi invitavano a casa per le cene di Shabbat e ci ritrovavamo insieme nella sinagoga. Ad un certo punto ho capito che volevo avvicinarmi all'ebraismo sempre di più".
   All'inizio ha soldatessa ha studiato al Midreshet Nishmat a Gerusalemme, e successivamente al Midreshet B'erot Bat Ayin in Cisgiordania. Proprio in quel luogo e causa dell'attentato Windberg ha preso la sua importante decisione.
   Una scelta di vita che la soldatessa ha affrontato in autonomia per dimostrare il suo attaccamento allo Stato ebraico. "Mia madre pensa che io sia pazza. Entrambi i miei genitori lo pensano, non comprendono la mia scelta. Mia madre vive in Cina e mio padre negli Stati Uniti. Io credo fermamente nell'idea del sionismo e sento che è importante per ogni ebreo aiutare lo Stato d'Israele in ogni modo" ha detto Windberg.

(Shalom, 8 settembre 2023)

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Parashot Nitzavim e Vayelech. Il rinnovamento personale e nazionale, l’ultima eredità data da D-o a Mosè

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Il momento era arrivato. Mosè stava per morire. Aveva visto morire prima di lui sua sorella Miriam e il fratello Aaron. Aveva pregato Dio – non di vivere per sempre, nemmeno di vivere più a lungo, ma semplicemente: “Lasciami andare e vedere il buon paese oltre il Giordano” (Deuteronomio 3:25). Lasciami completare il viaggio. Lasciami raggiungere la destinazione. Ma Dio disse di no: “Basta”, disse il Signore. “Non parlarmi più di questa faccenda”. (Deuteronomio 3:26) Dio, che aveva acconsentito a quasi ogni altra preghiera fatta da Mosè, tuttavia questa gliela rifiutò.
Cosa ha fatto allora Mosè in questi ultimi giorni della sua vita? Emanò due comandi, tra questi l’ultimo dei 613 precetti, che avrebbero avuto conseguenze significative per il futuro dell’ebraismo e del popolo ebraico.
Il primo è noto come Hakhel, l’indicazione secondo la quale il re avrebbe dovuto convocare il popolo a riunirsi durante Succot dopo il settimo anno di Shemittah: “Alla fine di ogni ciclo di sette anni, nell’anno della cancellazione dei debiti, durante la festa delle Capanne, quando tutto Israele verrà a presentarsi davanti al Signore tuo Dio nel luogo che avrà scelto, leggerai questo ultimo libro della Torà davanti a loro così che giunga alle loro orecchie. Raduna il popolo, uomini, donne, bambini e stranieri che abitano nelle tue città, perché ascoltino e imparino a temere il Signore tuo Dio e a mettere in pratica tutte le parole di questa legge. I loro figli, che non la conoscono, la ascoltino e imparino a temere il Signore tuo Dio finché vivrete nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso attraversando il Giordano». (Deuteronomio 31:10-13)
Non c’è alcun riferimento specifico a questo precetto negli ultimi libri di Tanach, ma ci sono resoconti di raduni molto simili: cerimonie di rinnovamento del patto, in cui il re o un suo equivalente riuniva la nazione, leggendo la Torà o ricordando al popolo la sua storia, e invitandoli a riaffermare i termini del loro destino di popolo in alleanza con Dio.
Questo, è ciò che Mosè aveva fatto nell’ultimo mese della sua vita. Il libro del Deuteronomio nel suo insieme è una riaffermazione del patto, quasi quarant’anni dopo, a una generazione successiva al patto originale del Monte Sinai. C’è un altro esempio in proposito nell’ultimo capitolo del libro di Giosuè (vedi capitolo 24), dopo che aveva adempiuto al suo mandato come successore di Mosè, portando il popolo oltre il Giordano, guidandolo nelle battaglie e insediandosi nella terra promessa.
Un altro episodio analogo accadde molti secoli dopo, durante il regno del re Giosia. Suo nonno, Menasse, che regnò per cinquantacinque anni, fu uno dei peggiori re di Giuda, introdusse varie forme di idolatria, compreso il sacrificio di bambini. Giosia cercò di riportare la nazione alla sua fede, ordinando tra le altre cose la purificazione e la ristrutturazione del Tempio. Fu nel corso di questo restauro che fu scoperta una copia della Torà, sigillata in un nascondiglio, per evitare che venisse distrutta durante i molti decenni in cui fiorì l’idolatria e la Torà fu quasi dimenticata. Il re, profondamente colpito da questa scoperta, convocò un’assemblea nazionale sul modello di Hakhel: “Allora il re convocò tutti gli anziani di Giuda e di Gerusalemme. Salì al Tempio del Signore con il popolo di Giuda, gli abitanti di Gerusalemme, i sacerdoti e i profeti, tutto il popolo dal più piccolo al più grande. Lesse alle loro orecchie tutte le parole del libro dell’Alleanza, che era stato trovato. Il re si fermò presso la colonna e rinnovò l’alleanza alla presenza del Signore: seguite il Signore e osservate i suoi precetti, statuti e decreti con tutto il vostro cuore e tutta la vostra anima, confermando così le parole dell’Alleanza scritte in questo libro. Allora tutto il popolo si impegnò a rispettarle”. (2 Re 23:1-3)
La cerimonia più famosa di Hakhel fu il raduno nazionale convocato da Ezrà e Neemia dopo la seconda ondata di rimpatriati dalla Babilonia (Neemia 8-10). In piedi su una piattaforma vicino a una delle porte del Tempio, Ezrà lesse la Torà all’assemblea, dopo aver posizionato i Leviti in mezzo alla folla in modo che potessero spiegare al popolo cosa veniva detto. La cerimonia, iniziata a Rosh HaShanà, culminò dopo Succot quando il popolo collettivamente “si impegnò, con un’ammonizione e un giuramento, a seguire la Legge di Dio data attraverso Mosè servo di Dio ad obbedire scrupolosamente tutti i precetti, regolamenti e decreti del Signore nostro Dio”. (Neemia 10:29)
L’altro comando – l’ultimo che Mosè diede al popolo – era contenuto nelle parole: “Ora scrivi questo cantico e insegnalo agli Israeliti”, inteso dalla tradizione rabbinica come l’ordine di scrivere, o almeno prendere parte alla scrittura, un Sefer Torà.
Perché proprio questi due comandi, in questo momento?
Qui si stava svolgendo una profonda transazione. Ricordiamo che Dio era sembrato brusco nel respingere la richiesta di Mosè di poter attraversare il Giordano. “Basta così… Non parlarmi più di questa faccenda”. È questa la Torà, è questa la sua ricompensa? È così che Dio ha ripagato il più grande dei profeti? Sicuramente no.
Con i due ultimi comandamenti Dio insegnò a Mosè, e attraverso di lui agli ebrei nel corso dei secoli, cos’è l’immortalità – sulla terra, non solo in cielo. Siamo mortali perché siamo fisici e nessun organismo fisico vive per sempre. Cresciamo, invecchiamo, diventiamo fragili, moriamo. Ma non siamo solo fisici. Siamo anche spirituali. In questi ultimi due precetti ci viene insegnato cosa significa far parte di uno spirito che non è morto da quattromila anni e non morirà finché ci saranno il sole, la luna e le stelle.
Dio ha mostrato a Mosè, e attraverso lui a noi, come entrare a far parte di una civiltà che non invecchia mai. Rimane giovane perché si rinnova continuamente. Gli ultimi due comandamenti della Torà riguardano il rinnovamento: prima collettivo, poi individuale.
Hakhel, la cerimonia di rinnovo del patto ogni sette anni, assicurava che la nazione si dedicasse regolarmente alla propria missione. Ho spesso sostenuto che esiste un luogo al mondo in cui questa cerimonia di rinnovamento dell’Alleanza ha ancora luogo: gli Stati Uniti d’America.
Il concetto di patto giocò un ruolo decisivo nella politica europea del XVI e XVII secolo, soprattutto nella Ginevra di Calvino e in Scozia, Olanda e Inghilterra. Il suo impatto più duraturo, però, si ebbe sull’America, dove fu deputato con i primi coloni puritani e rimane parte della sua cultura politica fino ad oggi. Quasi ogni discorso inaugurale presidenziale – ogni quattro anni dal 1789 – è stato, esplicitamente o implicitamente, una cerimonia di rinnovamento del patto, una forma contemporanea di Hakhel. Nel 1987, parlando alla celebrazione del bicentenario della Costituzione americana, il presidente Ronald Reagan descrisse la costituzione come una sorta di “patto che abbiamo stretto non solo con noi stessi ma con tutta l’umanità… È un patto umano; sì, e oltre a ciò, un patto con l’Essere Supremo al quale i nostri padri fondatori chiedevano costantemente assistenza”. Il dovere dell’America, è “rinnovare costantemente il proprio patto con l’umanità… per completare l’opera iniziata 200 anni fa, quella grande e nobile opera che è la vocazione particolare dell’America: il trionfo della libertà umana sotto Dio”.
Se Hakhel è il rinnovamento nazionale, il precetto secondo cui ciascuno di noi dovrebbe prendere parte alla stesura di un nuovo Sefer Torà è il rinnovamento personale. Era il modo di Mosè di dire a tutti: non vi basta dire, ho ricevuto la Torà dai miei genitori (o nonni o bisnonni). Bisogna prenderla e renderla nuova in ogni generazione.
Una delle caratteristiche più sorprendenti della vita ebraica è che, da Israele a Palo Alto, gli ebrei sono tra gli utenti più entusiasti della tecnologia informatica al mondo e hanno contribuito in modo sproporzionato al suo sviluppo (Google, Facebook, Waze). Ma scriviamo ancora la Torà esattamente come si faceva migliaia di anni fa: a mano, con una penna, su un rotolo di pergamena. Questo non è un paradosso; è una verità profonda. Le persone che portano con sé il proprio passato, possono costruire il futuro senza paura.
Il rinnovamento è una delle imprese umane più difficili. Alcuni anni fa sedevo con l’uomo che stava per diventare Primo Ministro britannico. Nel corso della nostra conversazione disse: “Ciò che prego di più è che quando arriveremo lì (intendeva, 10 Downing Street), non dimenticherò mai il motivo per cui volevo arrivarci”. Sospetto che avesse in mente le famose parole di Harold Macmillan, primo ministro britannico tra il 1957 e il 1963, che, quando gli fu chiesto cosa temesse di più in politica, rispose: “Gli eventi, caro ragazzo, gli eventi”.
Le cose accadono. Veniamo trascinati da venti passeggeri, coinvolti in problemi che talvolta non sono nostri e andiamo alla deriva. Quando ciò accade, che si tratti di individui, istituzioni o nazioni, invecchiamo. Dimentichiamo chi siamo e perché. Alla fine veniamo superati da persone (o organizzazioni o culture) che sono più giovani, più desiderose o più motivate di noi.
L’unico modo per rimanere giovani, desiderosi e motivati è attraverso il rinnovamento periodico, ricordando a noi stessi da dove veniamo, dove stiamo andando e perché. A quali ideali siamo legati? Quale cammino siamo chiamati a continuare? Di quale storia facciamo parte?
Con quanta precisione, quindi, e quanta bellezza, proprio nel momento in cui il più grande dei profeti affrontò la propria mortalità, Dio diede a lui, e a noi, il segreto dell’immortalità – non solo in cielo, ma quaggiù sulla terra. Poiché quando ci atteniamo ai termini dell’alleanza e la rinnoviamo nella nostra vita, continuiamo a vivere in coloro che verranno dopo di noi, sia attraverso i nostri figli, o i nostri discepoli, o coloro che abbiamo aiutato o influenzato. “Rinnoviamo i nostri giorni come nei tempi antichi” (Lamentazioni 5:21). Mosè morì, ma ciò che insegnò e ciò che cercò sopravvive ancora.
di Rav Jonathan Sacks

(Bet Magazine Mosaico, 8 settembre 2023)
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Parashà della settimana: Nitzavim (State tutti davanti)

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Alta tensione tra Israele e Libano

di Filippo Merli

La lettera parla di «escalation violenta». Il mittente è il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che l'ha inviata al segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per metterlo al corrente della crescente tensione lungo il confine tra Israele e Libano. «Israele è il paese più vicino a lanciare un'offensiva militare in Libano dalla guerra del 2006», ha avvertito il delegato permanente di Tel Aviv all'Onu, Gilad Erdano, facendo riferimento alle «crescenti violazioni» di Hezbollah, l'organizzazione paramilitare islamista sciita libanese. «Israele non tollererà minacce alla sicurezza dei suoi cittadini e agirà come richiesto in loro difesa», ha sottolineato Gallant.
   Il confine israelo-libanese è stato testimone di tensioni negli ultimi mesi tra accuse reciproche di infrazione e attraversamento. Lo scorso giugno Hezbollah ha montato alcune tende nelle fattorie di Shebaa e sulle colline di Kfar Shouba, vicino alla frontiera, dove negli ultimi mesi si sono verificati picchi di violenza con razzi lanciati contro Israele come rappresaglia agli attacchi israeliani sui palestinesi.
   Beirut insiste sul fatto che l'area di Shebaa Farms, che è sotto occupazione israeliana dal 1967, sia territorio libanese. Nel 2006 Israele e Hezbollah hanno combattuto una guerra durata 34 giorni in cui sono stati uccisi 1.200 libanesi, per lo più civili, e 160 israeliani, in maggioranza soldati.
   Secondo il consigliere della Casa Bianca, Amos Hochstein, gli Stati Uniti potrebbero assumere il ruolo di mediatori per porre fine alla disputa transfrontaliera. La scorsa settimana, al termine di una visita di due giorni in Libano, Hochstein ha dichiarato che è «naturale» risolvere la questione, basandosi sulla delineazione del confine marittimo tra i due paesi.
   Il diplomatico americano ha affermato di aver visitato il Libano meridionale «per comprendere e imparare di più su ciò che è necessario per poter potenzialmente ottenere un risultato». La delineazione del confine marittimo ha portato il Libano ad avviare attività di esplorazione offshore. La linea di demarcazione terrestre tra Israele e Libano, invece, è conosciuta come Linea blu.
   Un confine che le Nazioni Unite hanno segnato quando le forze israeliane si ritirarono dal Libano meridionale nel 2000 dopo un'occupazione iniziata durante la guerra civile libanese nel 1982. Israele ha presentato una denuncia all'Onu per l'accampamento militare che Hezbollah ha installato vicino a Ghajar. Il ministro degli Esteri a interim del Libano, Abdallah Bou Habib, ha detto che risolvere la disputa sui confini potrebbe allentare le tensioni. La forza di pace delle Nazioni Unite, Unifil, istituita nel 1978 per garantire il ritiro di Israele dal Libano, ha organizzato incontri tra Tel Aviv e Beirut per allentare le tensioni e scongiurare una possibile escalation alla quale faceva riferimento Gallant nella lettera inviata a Guterres. Durante una riunione del consiglio di Unifil il rappresentante russo all'Onu, Vasily Nebenzya, ha invitato il comando unificato delle forze di mantenimento della pace a continuare a coordinarsi attivamente col governo libanese. Già. È strano sentire la Russia parlare di pace.

(ItaliaOggi, 7 settembre 2023)

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Israele, Cipro e Grecia valutano i patti energetici - Athens News

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Il presidente cipriota Nikos Christodoulidis, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis hanno ribadito il loro impegno a rafforzare la cooperazione nel campo energetico a seguito dei colloqui trilaterali svoltisi lunedì al Palazzo presidenziale.
“Abbiamo convenuto che il settore energetico, in particolare il gas naturale, l’elettricità e le energie rinnovabili, costituisce una solida base per la cooperazione nella regione, basata sul diritto internazionale, compreso il diritto del mare e sul rispetto da parte di tutti gli Stati del diritto di esercitare i propri diritti nelle rispettive zone economiche esclusive (ZEE) e sulla piattaforma continentale”, – si legge nella dichiarazione congiunta a seguito dei risultati del 9° vertice trilaterale.
Intervenendo in una conferenza stampa, Christodoulides lo ha chiamato “un’alleanza strategica chiaramente dinamica tra partner che condividono valori democratici, obiettivi comuni e investono in una visione condivisa di stabilità, prosperità e sicurezza nella nostra regione e oltre.”
Ha aggiunto: “Alla luce della crescente necessità di diversificazione e interconnessione delle risorse energetiche determinata dagli sviluppi geopolitici, abbiamo riaffermato il nostro comune interesse nel promuovere le prospettive per un corridoio energetico sicuro dal bacino del Mediterraneo orientale all’Europa”.
Christodoulidis, Netanyahu e Mitsotakis hanno discusso dell’importanza di andare avanti con progetti come l’Interconnettore Eurasiatico e possibili futuri gasdotti per gas naturale e idrogeno.
Nel suo discorso in una conferenza stampa, il leader israeliano ha confermato l’interesse del suo Paese a partecipare al progetto della linea di trasmissione elettrica sottomarina EuroAsia. “Per quanto riguarda il cavo elettrico… Sia Israele che Cipro sono isole. Anche Creta, che fa parte della Grecia, è un’isola, ha detto Netanyahu. – Attualmente si sta organizzando una linea di comunicazione elettrica tra la Grecia continentale, Creta e Cipro. Vorremmo che fosse collegato ovviamente con Israele e possibilmente con l’est di Israele così da poter ottimizzare l’uso dell’energia elettrica. Siamo molto interessati a questo. E abbiamo discusso il meccanismo con cui ciò può essere fatto.”
Netanyahu ha espresso un senso di urgenza riguardo ai piani di Israele di esportare il suo gas naturale in Europa, tramite un gasdotto verso Cipro o un impianto GNL qui, o entrambi.
“Per quanto riguarda il gas, stiamo discutendo della possibilità che nel prossimo futuro dovremo prendere una decisione su come Israele esporterà il suo gas, e Cipro dovrebbe prendere le stesse decisioni. E stiamo considerando la possibilità di una cooperazione in questa materia , queste decisioni verranno prese, credo, nei prossimi tre-sei mesi, forse più vicino ai tre mesi.”
Secondo una dichiarazione congiunta, i capi dei tre Stati hanno sottolineato anche l’importanza del formato 3+1 con gli Stati Uniti. “che può offrire risultati tangibili nei settori dell’energia, dell’economia, dell’azione per il clima, della preparazione alle emergenze e della lotta al terrorismo.” È stato raggiunto un accordo per lavorare insieme per tenere una riunione ministeriale nel formato 3+1 entro la fine dell’anno.”
Allo stesso tempo, Netanyahu ha annunciato l’intenzione di espandere il formato “3 + 1” al di fuori degli Stati Uniti e possibilmente collegare ad esso l’India. “C’è qualcos’altro che può svilupparsi e ne abbiamo discusso in modo molto dettagliato”ha commentato il leader israeliano.
“Ora c’è la possibilità di espandere gli Accordi di Abraham per normalizzare le relazioni con l’Arabia Saudita. Tutti e tre i paesi vedono questa come una grande opportunità, ma vedono anche che può portare alla creazione di legami tra India, Penisola Arabica, Israele, Cipro, la Grecia, l’Europa. Esiste una connessione geografica naturale, ma può anche essere qualcosa che si tradurrà in molteplici benefici per i nostri popoli e i nostri paesi.”
È stata discussa la possibilità di invitare il Primo Ministro indiano al prossimo incontro trilaterale.
Allo stesso tempo, Christodoulides ha dichiarato di aver confermato “forte impegno con gli Stati Uniti per il formato 3+1 e concordato sull’importanza di intensificare la cooperazione 3+1 con risultati concreti anche con altri paesi, e ha parlato in particolare dell’India.”
Inoltre, a causa dei recenti devastanti incendi boschivi in Grecia, i leader dei tre paesi hanno riaffermato la loro reciproca disponibilità ad aiutarsi a vicenda nella risposta alle emergenze, compreso l’uso di sistemi di intelligenza artificiale per la rilevazione tempestiva degli incendi.
Mitsotakis e Netanyahu hanno inoltre informato Christodoulidis sugli ultimi sviluppi sulla questione di Cipro e hanno accolto con favore la sua iniziativa di includere un ruolo più forte Unione Europea nel tentativo di riprendere i negoziati.
Infine, Christodoulides, Netanyahu e Mitsotakis hanno concordato che il prossimo vertice tripartito si terrà la prossima primavera in Grecia o Israele.
Nel corso degli anni si sono stabiliti forti legami tra i tre paesi e Netanyahu ha osservato che uno degli esempi più diretti di legami economici è il cibo. “Amiamo il tuo cibo”lo interruppe quando Mitsotakis ebbe finito di parlare. “Ci piacciono i tuoi latticini. Ci piace il tuo yogurt.” Netanyahu ha affermato che le autorità presto “apriranno” il mercato lattiero-caseario del Paese, che attualmente protegge la produzione locale con elevati dazi di importazione. “Intendiamo aprire molto presto il mercato lattiero-caseario ai greci, ai ciprioti e ad altri paesi”.
PS Ora aspettiamo la reazione della Turchia, che interverrà sicuramente su questo argomento…

(Athens News, 7 settembre 2023)

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Ritrovate a Ein Gedi quattro spade di epoca romana

di Michelle Zarfati

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Un team di ricercatori israeliani ha recentemente rivelato una rara scoperta del lontano passato nel deserto della Giudea. Si tratta di quattro spade di 1.900 anni fa e una punta di lancia della rivolta di Bar Kokhba contro l'Impero Romano.
   I rivoltosi ebrei lasciarono quattro spade e la punta di una lancia in una grotta nella Riserva Naturale di Ein Gedi. Per molti anni, le spade sono rimaste nascoste nella grotta fino a quando non sono state recentemente ritrovate dai ricercatori dell'Università di Ariel, dell'Università Ebraica e dell'Autorità Israeliana per le Antichità (IAA).
   Si ritiene che le armi fossero un bottino di guerra sottratto all'esercito romano. "Trovare una spada del genere è raro, ma quattro? È un sogno. Abbiamo dovuto stropicciarci gli occhi per crederci", hanno detto mercoledì i ricercatori durante la presentazione delle armi in una conferenza stampa a Gerusalemme.
   L'IAA ha spiegato che le armi sono state scoperte in una grotta isolata e di difficile accesso a nord di Ein Gedi, situata all'interno della riserva naturale gestita dall'Autorità israeliana per la natura e i parchi. Circa 50 anni fa in questa grotta furono scoperti anche frammenti di scrittura ebraica. Il testo è stato scritto con inchiostro su un frammento, nell'antica scrittura ebraica tipica del periodo del Primo Tempio.
   Recentemente, la grotta è stata visitata dal dottor Asaf Gayer del Dipartimento di Studi e Archeologia sulla Terra d'Israele dell'Università di Ariel, dal geologo Boaz Langford dell'Istituto di Scienze della Terra e dal Centro di ricerca sulle caverne dell'Università Ebraica di Gerusalemme e dal fotografo IAA Shai Halevi. Il trio ha deciso di catturare l'iscrizione ebraica sul frammento utilizzando l'imaging multispettrale, una tecnica che consente di decifrare parti del testo che non sono visibili a occhio nudo.
   Durante l'esplorazione del livello superiore della grotta, il dottor Gayer ha scoperto una punta di lancia eccezionalmente ben conservata all'interno di una cavità stretta e profonda. In una zona vicina sono stati rinvenuti anche pezzi di legno lavorato che furono poi identificati come parti di una guaina.
   L'IAA sta attualmente conducendo un'indagine completa delle grotte nel deserto della Giudea, documentando centinaia di reperti trovati nell'area negli ultimi sei anni, e sono stati effettuati 24 scavi archeologici in altre grotte selezionate in Israele. Lo scopo di questi sforzi è preservare i resti archeologici trovati nel deserto della Giudea e proteggerli dai saccheggi.
   La squadra di ricerca, insieme al dottor Gayer e Langford, è tornata alla grotta per la seconda volta per condurre un'indagine meticolosa di ogni sua fessura, trovando un'ulteriore camera al livello superiore e nascosto della grotta. All'interno di una fessura stretta e profonda tra due stalattiti, i ricercatori sono rimasti stupiti nello scoprire uno straordinario deposito di quattro spade romane.
   L'IAA ha sottolineato che le spade erano straordinariamente ben conservate; tre di loro avevano ancora le lame di ferro racchiuse in foderi di legno. Sono stati inoltre trovati anche frammenti di cinghie di cuoio e altri oggetti di metallo e legno, che facevano parte dell'assemblaggio della spada. La lunghezza della lama di tre spade è di circa 60-65 cm, caratteristica che le identifica come “Spathae romane”. Un'altra spada più corta, con una lama lunga circa 45 cm, è stata identificata come una spada con pomello ad anello.
   Le spade sono state accuratamente estratte dalla fessura e rapidamente trasferite per il trattamento e la conservazione in condizioni climatiche controllate nei laboratori IAA. Un primo esame della collezione suggerisce che si tratti di spade standard utilizzate dai soldati di stanza in Terra d'Israele durante il periodo romano.

(Shalom, 7 settembre 2023)

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Jared Kushner chiede a Trump di appoggiare l’accordo Saudita-Israele mediato da Biden

Il senatore repubblicano Lindsey Graham e l’ex consigliere anziano della Casa Bianca Jared Kushner hanno chiesto all’ex presidente Donald Trump di sostenere lo sforzo del suo successore Joe Biden di mediare un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita.
Il tipo di patto di difesa che Riyadh chiede di firmare con gli Stati Uniti in cambio della normalizzazione dei legami con Israele richiederà probabilmente l’approvazione del Congresso e avrà bisogno del sostegno di almeno alcuni repubblicani in un Congresso profondamente diviso.
Di conseguenza, l’opposizione intransigente di Trump potrebbe danneggiare le possibilità di Biden di ottenere il sostegno bipartisan di cui ha bisogno – particolarmente cruciale data l’avversione per il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman tra i democratici progressisti a causa della situazione dei diritti umani del regno del Golf
Considerando un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita come un interesse nazionale che trascende la politica, Graham e Kushner hanno cercato di raccogliere il sostegno dell’ex presidente.
“Ho detto al Presidente Trump… questa è la naturale estensione degli accordi di Abramo e se possiamo farlo, facciamolo. Non importa come si farà, né a chi spetterà farlo. Sarebbe una buona cosa per la stabilità del Medio Oriente e per la nostra sicurezza nazionale e il Presidente Trump merita la sua parte di merito”, ha dichiarato Graham al sito di notizie Axios.
Facendo ulteriore appello all’ego dell’ex presidente, il veterano parlamentare repubblicano ha raccontato di avergli anche detto che Biden che lavora per espandere gli accordi di normalizzazione degli accordi di Abramo tra Israele e i suoi vicini arabi che sono stati mediati da Trump è “il più alto segno di adulazione”.
Kushner, che è stato il principale artefice degli accordi di Abraham, ha trasmesso questo messaggio al suocero, dicendogli che un accordo tra Arabia Saudita e Israele rappresenterebbe una rivendicazione della sua politica mediorientale da parte di Biden.
Graham è sembrato confermare questo resoconto, dicendo ad Axios: “Jared Kushner è stato molto utile. Ha avuto alcune idee per la componente palestinese dell’accordo di normalizzazione. So che si è offerto di aiutare, credo che la Casa Bianca lo consideri utile”.
Il Fondo pubblico di investimento dell’Arabia Saudita ha investito 2 miliardi di dollari nel fondo di private equity Affinity di Kushner.
Non è chiaro come Trump abbia risposto alle richieste di Kushner e Graham e un portavoce dell’ex presidente ha rifiutato di commentare.
Graham è stato uno dei repubblicani più attivi nel sostenere l’iniziativa di Biden e il mese prossimo si recherà per la seconda volta quest’anno in Arabia Saudita e in Israele per cercare di portare avanti l’iniziativa.

(Rights Reporter, 7 settembre 2023)

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Un antico frammento è stato trovato a Gerusalemme: sopra riporta una strana incisione

A Gerusalemme emerge un'altra preziosa testimonianza del passato: si tratta del frammento di un'antica brocca che riporta una strana (e misteriosa) incisione.

di Giulia Sbaffi

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Gerusalemme, l’affascinante Città Santa, continua ad essere foriera di sorprese: non è solamente uno dei siti archeologici più famosi e visitati al mondo, ma anche crocevia di religioni e culture, sia nel passato che ancora oggi. E di questo delicato intreccio ci sono testimonianze incredibili. Una è forse quella appena riemersa da sotto terra, un piccolo frammento che sembra rivestire grandissima importanza.

• Trovato il frammento di un’antica brocca
  Israele è uno dei Paesi più ricchi dal punto di vista archeologico, e il suo fiore all’occhiello non può che essere Gerusalemme, la cui Città Vecchia – intrisa di splendide architetture e spiritualità – è patrimonio UNESCO. Stiamo parlando di uno degli insediamenti più antichi al mondo, luogo in cui, nel corso dei secoli, si sono incontrate ben tre religioni. Fondata circa 3mila anni fa da Re David, che ne fece la capitale del suo regno ebraico, venne poi conquistata dai romani e successivamente annessa all’Impero bizantino, diventando così uno dei principali luoghi della cristianità. È a quest’epoca che risale, tra l’altro, la costruzione della Basilica del Santo Sepolcro.
   La conquista da parte degli arabi, infine, fece di Gerusalemme il terzo luogo sacro dell’islamismo, dopo la Mecca e Medina. Insomma, la storia di questa città è stata sempre molto travagliata, e le scoperte archeologiche fatte sul suo territorio non sono sempre facili da decifrare. È proprio il caso dell’ultimo ritrovamento effettuato da parte dell’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA): nel corso di uno scavo, nel cuore di Gerusalemme, gli archeologi hanno portato alla luce il frammento del manico di un’antica brocca, risalente probabilmente a 1.500 anni fa, all’epoca della dominazione bizantina. Su di esso, sono state evidenziate delle strane incisioni.

• Il mistero dell’incisione
  “Sul frammento del manico è visibile un’incisione, composta da una linea fiancheggiata da tre linee diagonali su ciascun lato” – ha affermato Benjamin Storchan, direttore degli scavi per l’IAA. Si tratta di un simbolo piuttosto strano, che farebbe pensare – almeno a prima vista – ad una menorah. Quest’ultima è una lampada ad olio a sette bracci, che veniva accesa all’interno del Tempio di Gerusalemme, ed è diventata uno dei simboli principali della religione ebraica. Secondo la tradizione, rappresenterebbe l’arbusto bruciante in cui la voce di Dio si manifestò a Mosè.
   La menorah, come simbolo, viene disegnata proprio con una linea verticale centrale e altre sei linee (tre per lato) che ne divergono obliquamente. Ma l’incisione ritrovata sul frammento della brocca non è chiara: “I rami non terminano alla stessa altezza, rendendo così impossibile accertare definitivamente il simbolo raffigurato. Queste variazioni di altezza sollevano la questione della sua vera natura” – ha dichiarato Storchan. Anche perché all’epoca della realizzazione della brocca, a Gerusalemme la maggioranza delle persone era di fede cristiana, sebbene vi fossero dei quartieri ebrei.
   È possibile, dunque, che il segno inciso sia la “firma” del vasaio che ha prodotto la brocca: potrebbe rappresentare una palma, che è molto comune in Israele. Anche alcuni rabbini, secondo il Talmud, utilizzavano dei simboli come segni di identificazione personalizzati. Rimane tuttavia poco probabile che la brocca sia un manufatto dalle radici ebree, vista la predominanza del cristianesimo durante l’epoca bizantina.

(Libero Tecnologia, 7 settembre 2023)

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Vaccinazione da promuovere su tutto l’arco di vita. Fip: ecco il contributo dei farmacisti

Si legga attentamente questo articolo. Si va verso la vaccinazione universale a vita. Sta scritto nell'Agenda 2030. Il risalto in colore è stato aggiunto. NsI

L’immunizzazione data dalle vaccinazioni è importante non solo in ambito pediatrico, ma durante tutta la vita e in età avanzata, come processo continuo di prevenzione delle malattie e di promozione della salute ed è essenziale che i pazienti possano accedere facilmente alla vaccinazione anche durante la vita adulta grazie al supporto dei farmacisti di comunità. Per questo la FIP (Federazione farmaceutica internazionale) ha recentemente pubblicato un documento sul tema dal titolo “Supporting life-course immunisation through pharmacy-based vaccination: enabling equity, access and sustainability – a toolkit for pharmacist”, evidenziando le best practice applicate in vari Paesi del mondo.  
  
• Farmacisti fondamentali nella promozione e distribuzione dei vaccini
  Nell’Agenda di immunizzazione 2030 dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), si raccomanda a tutti gli Stati membri di adottare un approccio all’immunizzazione lungo tutto l’arco della vita e la cui visione centrale è un mondo in cui tutti, ovunque, a ogni età, traggono pieno beneficio dai vaccini per migliorare salute e benessere.  
E in questo scenario, i farmacisti e le farmacie locali hanno un grande potere nella promozione e nella distribuzione dei vaccini fondamentale per implementare l’approccio alla salute (riducendo il rischio di diffusione della malattia ad esempio) e alla vaccinazione durante tutto l’arco della vita e possono contribuire a diversificare e semplificare i percorsi di vaccinazione, soprattutto per i lavoratori e gli anziani.  
  
• Strategie di comunicazione per ogni fascia di età
  Per affrontare il tema dell’immunizzazione in età adulta e avanzata è necessario avere una strategia di comunicazione personalizzata per ogni fascia di età. Nella maggior parte dei paesi, le informazioni sui vaccini si trovano solitamente online, ad esempio sui siti Web ufficiali e sui social media. Sebbene l’accesso a queste informazioni sia generalmente facile per i giovani, può essere più difficile per gli anziani, che spesso hanno bisogno di parlare di persona con un operatore sanitario. È qui che le farmacie e i farmacisti di comunità possono essere la soluzione per raggiungere ogni membro della società, affrontando l’esitazione nei confronti dei vaccini e aumentando l’alfabetizzazione sanitaria.  

• Ecco tre aree in cui i farmacisti possono contribuire alle strategie di vaccinazione:

  • Dare priorità alla prevenzione e all'immunizzazione nel corso della vita come pilastro fondamentale delle strategie di prevenzione e componente centrale della copertura sanitaria universale.
  • Garantire l'accesso a tutti rimuovendo le barriere per un'adeguata vaccinazione durante tutta la vita per garantire che tutte le persone siano protette e che nessuno venga lasciato indietro.
  • Ridurre le disuguaglianze nell'accesso tempestivo, appropriato e conveniente alle vaccinazioni per tutta la vita.    
Nel documento è possibile leggere anche un riassunto dei fattori favorevoli e delle sfide comuni che i farmacisti, nei Paesi presi in esame, incontrano.
Per quanto riguarda la regolamentazione dei vaccini e la prescrizione in farmacia, ecco alcuni dei punti menzionati:  
  • Sfruttare l’accettazione da parte del pubblico della vaccinazione in farmacia come mezzo accessibile per aumentare i tassi di immunizzazione
  • Riconoscere il ruolo dei farmacisti nel sostenere la vaccinazione e affrontare l’esitazione vaccinale affrontando le ambiguità nella prescrizione e somministrazione dei vaccini
  • Migliorare i programmi di formazione all’università e in farmacia per formare sulla vaccinazione
  • Diventare attori chiave nelle politiche nazionali di vaccinazione in modo da includere i farmacisti nelle linee guida vaccinali esistenti
  • Comunicare e coordinare tra le parti interessate, tra cui i farmacisti, coinvolte nei servizi di vaccinazione
Per quanto riguarda i fattori chiave per modelli retributivi di successo per i servizi di vaccinazione in farmacia, ecco cosa hanno evidenziato gli esperti:  
  • Sviluppare un registro elettronico per le vaccinazioni per aiutare a monitorarne l’impatto in farmacia dei tassi di immunizzazione aiutando a dimostrare perché i farmacisti dovrebbero essere remunerati per la loro partecipazione a questi servizi di grande impatto
  • Ampliare il ruolo dei farmacisti nella fornitura di vari servizi, tra cui la gestione della terapia farmacologica e la cessazione del fumo
  • Sottolineare l’importanza della condivisione delle competenze e di un approccio collaborativo tra gli operatori sanitari, in particolare per quanto riguarda la vaccinazione, per migliorare la copertura sanitaria e, infine, l’equità sanitaria  
Infine, sono stati identificati i punti riguardanti l’accesso ai dati dei pazienti e ai registri delle vaccinazioni, che includono:
  • Accedere alle cartelle cliniche complete dei pazienti per consultazioni complete
  • Utilizzare sondaggi per raccogliere feedback sul contributo dei farmacisti agli sforzi di immunizzazione e utilizzarli come prova per cui è vantaggioso che i farmacisti accedano alle informazioni dei pazienti
  • Imparare dalle esperienze di altri Paesi per implementazione sistemi simili
  • Considerare la capacità dei farmacisti di adattarsi alla trasformazione digitale e di fornire più servizi sanitari
  • Comunicare più efficacemente tra le parti coinvolte nella vaccinazione, in particolare tra il settore pubblico e quello privato.

(Redazione Farmacista33, 7 settembre 2023)
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L'inciso "i farmacisti dovrebbero essere remunerati per la loro partecipazione" spiega bene l'interesse della FIP per la nostra salute. Oltre ai medici, dovranno pur esserci anche i farmacisti a dividersi il bottino vaccinale. M.C.

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Apertura dell'ambasciata della Papua Nuova Guinea a Gerusalemme

Con una giustificazione religiosa, il capo del governo della Papua Nuova Guinea, Mapare, inaugura l'ambasciata a Gerusalemme. Questo porta a cinque i Paesi con missione diplomatica nella capitale israeliana.

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GERUSALEMME - La Papua Nuova Guinea ha aperto martedì sera la sua ambasciata a Gerusalemme. Il primo ministro James Marape (Partito Pangu) ha giustificato la scelta della sede con motivi religiosi. Lo Stato insulare dell'Oceania non aveva finora un'ambasciata in Israele.
   Secondo il quotidiano online Times of Israel, Marape ha dichiarato: "Oggi è una pietra miliare per il mio Paese, la Papua Nuova Guinea. Siamo qui per portare il più profondo rispetto al popolo di Israele". L'ambasciata si trova a Gerusalemme "a causa del nostro patrimonio comune e della nostra fede in un unico Dio Creatore" - il Dio di Israele, Isacco e Abramo.
   Molti Paesi hanno scelto di non aprire le loro ambasciate a Gerusalemme, ha aggiunto Marape. Ma il governo della Papua Nuova Guinea ha preso questa decisione consapevolmente, ha detto. "Il fatto che ci definiamo cristiani, che portiamo rispetto a Dio, non sarà completo senza il riconoscimento che Gerusalemme è la capitale universale del popolo e della nazione di Israele".

Netanyahu: fonte di molte preghiere a Gerusalemme
  Il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu (Likud) ha dichiarato, secondo un comunicato del suo ufficio, "Mi sono commosso quando ho sentito il vostro inno. Ho sentito le parole 'preghiera' e 'speranza'. La fonte della maggior parte di queste preghiere è questa città. Come avete giustamente sottolineato, è stata la nostra capitale per 3.000 anni". La Papua Nuova Guinea è il primo Stato della regione Asia e Oceania ad avere un'ambasciata a Gerusalemme.
   Il Ministro degli Esteri Eli Cohen (Likud) ha affermato che la decisione approfondirà le relazioni tra i due Stati. A febbraio aveva parlato con il suo omologo Justin Tkachenko (Pangu). Successivamente, il Ministero degli Esteri israeliano ha annunciato la mossa.

Il premier è avventista
  Il premier Marape è figlio di un pastore avventista del settimo giorno ed è egli stesso membro della Chiesa libera. In Papua Nuova Guinea, oltre il 95% della popolazione è cristiana. I cattolici sono la confessione più numerosa.
   Durante la sua visita a Gerusalemme, Marape ha chiesto a Israele di aprire un'ambasciata a Port Moresby. Le relazioni con la nazione insulare esistono dal 1978 e sono state mantenute attraverso l'ambasciata israeliana in Australia.
   L'ambasciata si trova nel Jerusalem Technology Park, nel sud della città. Vi si trovano anche le ambasciate del Guatemala e dell'Honduras. Inoltre, gli Stati Uniti e il Kosovo hanno ambasciate nella capitale israeliana. Paraguay e Sierra Leone hanno annunciato un trasferimento simile per quest'anno.

(Israelnetz, 6 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’ex capo del Mossad: “Energia nucleare e questione palestinese. Ecco gli ostacoli all’accordo tra Israele e Arabia Saudita”

Tamir Pardo, a capo del servizio segreto israeliano dal 2011 al 2016, oggi è tra i leader del movimento di protesta contro il governo Netanyahu: “Lui e i suoi alleati vogliono trasformare il mio Paese in una teocrazia”.

di Yossi Melman

Tamir Pardo, ex capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, sottolinea la complessità degli sforzi americani per migliorare le relazioni con l’Arabia Saudita.
   Pardo, oggi settantenne, individua due ostacoli principali. Il primo e più significativo è la richiesta che i sauditi rivolgono agli Stati Uniti: vogliono aiuto per strutturare un programma nucleare civile che comprenda il diritto di arricchire uranio su suolo saudita. “I sauditi vogliono un ciclo del nucleare completo, arricchimento dell’uranio compreso,” ha dichiarato Pardo in questa intervista a Repubblica. “Io, sulla base della mia esperienza e delle mie conoscenze, sono contrario. Ma dobbiamo capire che in questi scenari Israele gioca un ruolo minoritario. Non credo che abbia voce in capitolo sulla questione dell’arricchimento dell’uranio. Ma prevedo che, se i negoziati non si concluderanno entro febbraio o marzo del 2024, ci saranno ben poche possibilità di arrivare a un accordo quando gli Stati Uniti saranno nel pieno della campagna elettorale.”
   Il secondo ostacolo è la questione palestinese, che l’amministrazione Biden cerca di tenere collegata all’accordo sul nucleare fra Washington e Riad. “La questione palestinese complica i tentativi di normalizzare i rapporti fra Israele e Arabia Saudita e di creare una relazione diplomatica fra i due paesi.”
   L’Arabia Saudita, che al momento non ha relazioni diplomatiche con Israele, per Pardo non è del tutto sconosciuta. Lui non parla di quando era al vertice del Mossad ma un anno fa scrissi che nel 2014, quando ancora era in carica, è volato in segreto a Gedda per incontrare la sua controparte, il principe Bandar Bin Sultan, capo dell’intelligence saudita. Scopo dell’incontro era cercare di mettere fine alla nuova fase di ostilità fra Israele e Hamas a Gaza e favorire un accordo fra Israele e Palestina sotto l’egida dell’Arabia Saudita e della Lega Araba. “Avevamo contatti riservati con l’Arabia Saudita che derivavano da interessi di sicurezza comuni,” spiega riferendosi alla preoccupazione dei due Paesi per il programma nucleare iraniano e per il sostegno fornito dall’Iran al terrorismo, “ma per incrementare le relazioni israelo-saudite serve qualcosa di più significativo, e sfortunatamente Israele non è pronto”.

Mi può spiegare meglio?
  “Nell’area compresa fra il Mediterraneo e il fiume Giordano vivono quindici milioni di persone: ebrei, e arabi, divisi fra musulmani – la maggioranza – e cristiani. C’è lo stato di Israele, che non ha mai definito i propri limiti territoriali, l’enclave palestinese di Gaza, controllata da Hamas, e i palestinesi che vivono in Cisgiordania sotto l’occupazione israeliana. Il conflitto dev’essere risolto in modo da assicurare il rispetto reciproco.”

Che al momento manca del tutto. Ci sono odio e terrorismo.
  “È vero. Mi duole constatare che gli attacchi terroristici palestinesi sono aumentati. Come qualunque altro popolo, i palestinesi vogliono essere liberi. L’opposizione all’occupazione israeliana suscita violenza e atti terroristici da parte di una piccola minoranza di ebrei radicali ed estremisti. La situazione dev’essere risolta con la diplomazia e la politica, non con la forza. Sfortunatamente, il nostro governo è convinto di poter sconfiggere il terrorismo aumentando la forza militare.”

Cosa pensa della Wagner, dissolta dal presidente russo Vladimir Putin?
  “La Wagner è il miglior indicatore della debolezza dell’esercito russo e della scarsa efficacia della sua catena di comando. È inaudito schierare una forza mercenaria lungo i propri confini. Posso capire che abbia senso mandarla a curare gli interessi della Russia in vari paesi dell’Africa o del Medio Oriente. Ma mandarli sul confine russo e in Ucraina è assurdo. È la ragione per cui alla fine, dopo la ribellione (del capo della Wagner, Evgenij Prigozhin, ucciso il mese scorso in un misterioso incidente aereo, ndr), Putin ha deciso di scioglierla.”

Il presidente ucraino Zelensky dice che la sua nazione si prepara a una lunga guerra di logoramento e indica Israele come esempio di un paese che vive sotto la minaccia di guerre costanti.
  “Una guerra di logoramento nella configurazione attuale sarebbe sfavorevole per l’Ucraina. La Russia è un paese gigantesco che ha sempre sconfitto gli invasori sul proprio territorio. Non so quanta coesione ci sia oggi in Russia, quanto la popolazione sia resiliente e se sia pronta a fare dei sacrifici. Credo però che alla fine gli ucraini ne usciranno estenuati.”

Quindi pensa che l’Ucraina dovrebbe trovare un accordo con l’aggressore russo?
  “La Russia è in grado di continuare la guerra malgrado i fallimenti e le perdite sul campo. L’Ucraina ha mostrato coraggio e determinazione e beneficiato del sostegno dell’Occidente. Deve però tenere conto del fatto che prima o poi gli Stati uniti e l’Occidente potrebbero smettere di sostenerla o non fare ciò che si aspetta. Deve approfittare dei risultati raggiunti finora, provare a ottenere ancora un successo militare significativo e poi cercare una soluzione diplomatica e un accordo.”

Tamir Pardo è nato in Israele da una famiglia italiana, livornese, le cui origini risalgono fino al XV secolo. Durante l’Impero Ottomano, suo nonno possedeva un’azienda farmaceutica che aveva una sede in Turchia. Da lì, nel Novecento, la famiglia si è trasferita in Israele.
   Pardo è stato membro di un’unità delle forze speciali e in Uganda, nel 1976, ha preso parte alla coraggiosa operazione di salvataggio di un aereo di linea Air France dirottato da terroristi tedeschi e palestinesi. Durante quell’operazione venne ucciso il tenente colonnello Yoni Netanyahu, fratello maggiore di Benjamin. Quello è stato il primo contatto di Pardo con il futuro primo ministro israeliano.
   Nel 1980 è entrato nel Mossad, all’interno del quale ha servito in diverse unità operative fino a quando, nel 2011, non ne è diventato il capo. Nel corso della sua lunga carriera ha partecipato o guidato operazioni che hanno portato alla distruzione del reattore nucleare siriano e a sabotaggi o rallentamenti del programma nucleare iraniano. “Se l’Iran riuscisse a produrre armi nucleari, rappresenterebbe un grave pericolo non solo per Israele e il Medio Oriente, ma per il mondo intero,” aggiunge. “Un Iran nucleare controllerebbe anche le enormi quantità di petrolio e gas dei vicini che affacciano sul golfo Persico, come Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Il mondo deve rendersene conto e tenere d’occhio l’Iran.”

Tutte le operazioni di intelligence segrete attribuite al Mossad e alla Cia non sono bastate? L’Iran continua la sua corsa verso l’atomica?
  “L’Iran aveva già provato negli anni ’90 a dotarsi di ordigni nucleari. Sta di fatto però che oggi, trent’anni dopo, ancora non li possiede. Israele da solo non può impedirlo, abbiamo bisogno dell’aiuto del resto del mondo.”

Pensa che l’Iran voglia le armi nucleari?
  “Stando alle dichiarazioni ufficiali no, ma a giudicare da quello che fanno, la risposta è sì.”

Ed è per questo che l’Arabia Saudita vuole un programma nucleare?
  “Senza dubbio, se l’Iran continuerà a fare progressi, ci saranno sempre più stati mediorientali desiderosi di dotarsi di armi nucleari e tutta la regione si troverà coinvolta in una corsa al nucleare che potrebbe portare alla distruzione del mondo.”
   Tuttavia, nonostante la minaccia che l’Iran e gruppi terroristici come Hamas e Hezbollah rappresentano per il suo paese, oggi la maggiore preoccupazione di Pardo è che Israele smetta di essere una democrazia. Pardo è uno dei leader del movimento di protesta contro il governo di destra e clericale guidato da Benjamin Netanyahu.
   Secondo lui, non c’è in gioco solo il tentativo del governo di controllare il potere giudiziario. Sono molti i cambiamenti che Netanyahu – attualmente sotto processo per corruzione – vorrebbe introdurre. Vuole fare in modo che i suoi ministri controllino i media, nominare suoi fedelissimi in ruoli chiave dell’esercito e dei servizi di sicurezza, introdurre leggi religiose e imporle ai cittadini laici, privare i palestinesi dei diritti umani fondamentali ed espellerli verso stati arabi, in sostanza vuole creare un regime più autoritario.
   Di recente Pardo ha paragonato certi gruppi israeliani al Ku Klux Klan. “Nel governo ci sono partiti razzisti e fascisti. Paragonandoli al KKK gli ho fatto un complimento,” aggiunge con un sorriso che lascia intendere che secondo lui sono anche peggio.

Si riferisce al ministro per la Sicurezza interna Itamar Ben Gvir e al ministro delle Finanze Betzalel Smotrich?
  “Sì, e a tutti i loro sostenitori.”

Netanyahu è uno di loro?
  “Netanyahu è il vero problema. È lui il primo ministro, e in quanto tale ha la responsabilità ultima. Lo conosco da molti anni, prima non era così, è cambiato, dal momento che dà loro del lavoro e siede assieme a loro nello stesso governo. Anche se non sei fascista né razzista, se ti siedi attorno a un tavolo e collabori con loro, sei come loro.”

Cosa prevede per il futuro?
  “Israele potrà essere sicuro e sopravvivere a lungo solo se rimane ebreo e democratico. Se rimane ebreo ma diventa teocratico, non sarà più democratico. Se smette di essere un Paese democratico non merita di esistere.”

Lei è un pessimista?
   “Quando ero a capo del Mossad dovevo essere ottimista. Questo movimento di protesta, in cui milioni di israeliani descritti come edonisti, viziati e apatici si sono mostrati all’altezza della situazione e hanno deciso di opporsi ai piani del governo, mi ha ispirato. Ho servito il mio paese per 43 anni e ora ne ho 70. Ho figli e nipoti. Israele combatte per la propria anima. Non ho scelta, devo essere ottimista.”

(la Repubblica, 6 settembre 2023)
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Dispiace, ma purtroppo non stupisce, vedere che anche persone che hanno occupato posti pubblici importanti per la sicurezza di Israele oggi si esprimono in questo modo.
- È vero che i limiti territoriali di Israele non sono stati definiti definitivamente, ma Pardo dimentica che, dopo Oslo, che aveva messo le basi per la loro definizione, Arafat e poi Abu Mazen hanno sempre rifiutato tutte le offerte, anche le più generose, fatte da Barak e da Olmert.
- Non è legalmente corretto parlare di “occupazione israeliana”, e i palestinesi si lamentano, prima di tutto, del giogo imposto loro dai governanti palestinesi (anche a Gaza), e gli “atti terroristici” non sono commessi da una “minoranza di ebrei radicali ed ebrei estremisti”, ma sono commessi da singoli individui regolarmente processati in Israele, o, eventualmente, sono reazioni agli attacchi dei palestinesi praticamente quotidiani contro i villaggi ebraici.
- Come esperto dei rapporti con gli arabi Pardo dovrebbe sapere, e non stupirsene, che purtroppo in quell’area geografica esiste, da secoli, il rispetto solo per il più forte, e quindi i governi israeliani sono obbligati a mostrare sempre la forza militare.
- molto gravi, infine, certe affermazioni basate sulla vulgata dell’opposizione al governo democraticamente eletto, secondo le quali al governo siederebbero personaggi peggiori del KKK con le quali Netanyahu, e la maggioranza del Parlamento, non dovrebbe nemmeno sedersi attorno ad un tavolo.
Emanuel Segre Amar

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Il New York Times di nuovo al centro delle polemiche: "L’ebraico simboleggia il militarismo israeliano di estrema destra"

Israele risponde

di Luca Spizzichino

New York Times di nuovo al centro delle polemiche dopo che sabato scorso ha pubblicato un editoriale in cui si legge che la lingua ebraica "simboleggia il militarismo israeliano di estrema destra". La frase, che non tiene conto della storia plurimillenaria della lingua ebraica, è diventata immediatamente virale sui social, in particolare su X (Twitter), dove l’account ufficiale dello Stato Ebraico ha risposto in maniera tagliente ed ironica.
Infatti, l’Ufficio per la diplomazia digitale presso il Ministero degli Esteri israeliano, che gestisce il profilo, ha definito “assurdo” e “ridicolo” l’editoriale scritto da Ilan Stavans – consulente dell’Oxford English Dictionary e co-editore di “How Yiddish Changed America and How America Changed Yiddish” – dove viene definito l’ebraico “la lingua nazionale di Israele nel 1948, parlata da circa nove milioni di persone nel mondo” e “per alcuni rappresenta il militarismo israeliano di estrema destra”.
"Non ci sono abbastanza parole in lingua inglese per descrivere quanto sia assurdo questo pezzo del New York Times " si legge nel tweet di Israele, che ironicamente aggiunge: “Per fortuna abbiamo sia l'ebraico che lo yiddish: Fakakta [non funziona bene],  "maguchach" [ridicolo] e Meshuggeneh [pazzo].
Il gruppo di controllo dei media HonestReporting ha accusato il NYTimes di odio verso gli ebrei.
"Individuare e diffamare la lingua dell'unico stato ebraico al mondo è antisemita", ha accusato l'organizzazione in un post su X.
“Quando [il New York Times ] è diventato un veleno antiebraico?” ha affermato la giornalista israeliana ed editorialista del Jewish News Syndicate Caroline Glick su X. “Voglio dire, sono sempre stati cattivi. Nascosero la Shoah, umiliarono gli immigrati ebrei negli Stati Uniti e sono sempre anti-israeliani. Ma quando hanno iniziato una politica volta a inventare e diffondere calunnie incredibilmente odiose?” si domanda Glick.

(Shalom, 6 settembre 2023)

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Israele: una meta all’avanguardia sempre più amata dagli italiani

Israele rappresenta una presenza storica di BIT. Con la sua proposta turistica ampia, ha una speciale connessione con l’Italia, i cui flussi di viaggiatori verso il “Paese giovane” sono sempre più in crescita.

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Tra i partecipanti a BIT, Israele rappresenta una presenza storica, un Paese affezionato alla fiera sin sua prima edizione del 1980. Il legame di Israele con la manifestazione ha registrato nel corso degli anni un’evoluzione sempre positiva, arrivando, nell’edizione 2023, ad avere ben 12 co-espositori in mostra, il doppio rispetto all’anno precedente.
   Questa stretta connessione del Paese “giovane” con BIT non è certo un caso: l’expo milanese rappresenta, infatti, un’importante opportunità per gli Enti aderenti di promuovere il turismo locale e le bellezze culturali del proprio territorio. Questa, insieme a campagne promozionali mirate, ha contribuito a creare nel tempo un considerevole interesse dei viaggiatori italiani verso le località israeliane.
   Infatti, come evidenziato da Kalanit Goren, Direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo, durante BIT2023, “la penisola a forma di stivale occupa la quinta posizione per il paese israeliano nella classifica del turismo internazionale e dunque è divenuto cruciale ampliare il legame con gli operator italiani in tutti i brand del turismo”.
   I dati 2022-2023 sembrano confermare questo stretto rapporto: a gennaio 2023 sono stati registrati 257.400 ingressi turistici dall’Italia in Israele e solo nel primo mese di quest’anno ben 11,7 mila italiani hanno deciso di visitare il Paese, contro gli 8 mila dello scorso anno, stesso mese.
   L’impennata è agevolata sia dall’aumento dei collegamenti aerei (117 voli settimanali) che da una politica di valorizzazione del territorio condotta dall’Ente del Turismo Israeliano, che promuove Israele quale Paese giovane per giovani.
   Del resto, come afferma la CBS, il 28% della popolazione del Paese ha un’età compresa tra 0 e 14 anni e solo il 12% ha oltre 65 anni. Inoltre, essendo strutturato e concepito intorno ad architetture e proposte d’avanguardia, attente alla tutela dell’ambiente e al rispetto delle risorse, si presenta a tutti gli effetti come uno Stato moderno, cosmopolita, bacino di differenti popolazioni e culture: una Start up Nation, impegnata quotidianamente in ricerca e sviluppo, dall’ambito medico a quello della sostenibilità.
   La partecipazione di Israele alla BIT apre le porte alla scoperta di un territorio affascinante, ricco di luoghi storici di grande importanza, paesaggi mozzafiato e un'atmosfera accogliente e calorosa. E’ un’opportunità preziosa che permette a tutti i visitatori di ampliare l'orizzonte delle scelte turistiche, attraverso una vasta proposta di esperienze indimenticabili tra i luoghi sacri di Gerusalemme, i paesaggi desertici del Negev ed affascinanti città, come l’attualissima Tel Aviv o Haifa, la città dei giardini pensili di Bahai.
   L’intento di BIT è quello di creare un ponte tra culture diverse, che condividono una storia di scambi, conoscenze e tradizioni. Intende favorire maggior dialogo e collaborazione in ottica sia culturale che economica: il mercato italiano rappresenta infatti uno snodo centrale e strategico per il turismo israeliano e questa sinergia può favorire scambi commerciali, investimenti e nuove opportunità di business.
   L’appuntamento con Israele è a BIT2024 a fieramilanocity da domenica 4 a martedì 6 febbraio 2024.

(BIT Milano, 6 settembre 2023)

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EastMed e India, cosa ha deciso il trilaterale Israele-Grecia-Cipro

di Francesco De Palo

Il gasdotto EastMed e la costruzione di un terminale di liquefazione del gas naturale a Cipro, accanto all’intenzione di includere l’India nel prossimo trilaterale. Questi i due macro temi al centro del vertice tra Israele, Cipro e Grecia svoltosi a Nicosia alla presenza dei tre leader. Netanyahu, Chistodoulides e Mitsotakis hanno messo nero su bianco le prospettive economiche e geopolitiche in una macro area in cui gli interessi specifici si accostano a settori strategici come l’Indo Pacifico.

• TRILATERALE
  Punto di partenza la convinzione che il gas naturale e le fonti energetiche rinnovabili sono un pilastro primario della cooperazione nella regione, in particolare alla luce dei recenti sviluppi geopolitici e dell’insicurezza energetica, elementi che “impongono la necessità di diversificazione energetica e di maggiore interconnettività”, come spiegato in premessa dal Presidente della Repubblica di Cipro. Accanto a ciò impatta l’elemento ellenico, con la Grecia che sta progressivamente passando da produttore a punto di ingresso nel mercato europeo. “C’è grande interesse nel vedere come il gas israeliano e cipriota possa essere esportato nell’Ue a beneficio dei Paesi. Abbiamo già sostenuto l’interconnessione elettrica dei nostri Paesi”, ha affermato il premier greco, sottolineando che il sistema tripartito in quanto aperto alla cooperazione con altri Paesi si sta espandendo nei settori della difesa e della sicurezza, aree in cui Israele è leader mondiale.

• EASTMED
  Sulla questione del gas, Netanyahu ha sottolineato che “presto dovremmo decidere come Israele esporterà il suo gas e le decisioni stesse spetteranno a Cipro, stiamo esaminando la possibilità di lavorare insieme su questo”. Entro i prossimi sei mesi quindi si conoscerà il destino del gasdotto East-Med e della costruzione di un terminale di liquefazione del gas naturale a Cipro. Per avere un’idea della portata geopolitica dell’area incastonata tra Cipro e Israele va ricordato che i circa 200 miliardi di m³ di Glavkos nella Zee cipriota, accanto ai 200 di Calypso e ai 140 di Afrodite rendono la regione centro nevralgico mondiale alla voce gas. I giacimenti ciprioti e israeliani dunque sarebbero sufficienti da soli ad alimentare il gasdotto EastMed, progetto ideato da Depa e dall’italiana Poseidon per un fabbisogno minimo assoluto di 15 miliardi di m³ di gas naturale all’anno, ma le difficoltà politiche con la Turchia ne hanno rallentato la realizzazione (tema di cui hanno discusso a Roma mesi fa Meloni e Netanyahu)

• IL PROBLEMA DI CIPRO
  Proprio sulla soluzione del problema di Cipro si sono concentrati i propositi futuri dei tre leader: in questo senso l’energia è questione di interesse comune anche al fine di progettare con lungimiranza i destini del Mediterraneo di domani. Per cui la ripresa dei colloqui sulla questione di Cipro nel contesto delle risoluzioni dell’Onu si intreccia con le relazioni greco-turche. Per questa ragione Mitsotakis ha sottolineato che Grecia, Cipro e Israele sono perni di stabilità nel Mediterraneo orientale, “un accordo tripartito che ha resistito alla prova del tempo” e che ha dimostrato la sua utilità sia politicamente che economicamente. Nelle prossime ore il ministro degli Esteri greco si recherà in Turchia per colloqui con il suo omologo turco.

• DAL MEDITERRANEO ALL’INDOPACIFICO
  Che il “dialogo” strutturato tra i Paesi mediterranei e l’India abbia subito una oggettiva e proficua accelerazione è ormai un fatto acclarato, come dimostra una volta di più l’attenzione al global south riservato dal governo italiano e, recentemente, anche da quello greco. Il premier Modi per la prima volta da 40 anni a questa parte ha visitato la Grecia non più tardi di una settimana fa, sia per rafforzare la partnership in chiave Indo Pacifico, sia per utilizzare il porto del Pireo come porta di ingresso per il proprio commercio nel Vecchio continente. Il partenariato strategico tra Atene e Nuova Delhi segue non solo l’idea di “pareggiare” l’invasività cinese al Pireo, ma anche l’esigenza indiana che, dopo la Brexit, è alla ricerca di rotte alternative verso l’Europa, con Roma capofila.

(Formiche.net, 4 settembre 2023)

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Verso la conclusione di un accordo di libero scambio tra Israele e Bahrein

di Abdel Raouf Arnaout

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GERUSALEMME - Lunedì il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha discusso con il principe ereditario del Bahrein Salman bin Hamad al Khalifa la conclusione di un accordo di libero scambio tra i due paesi.
Questo è quanto emerge da un incontro congiunto a margine della visita di due giorni che Cohen ha iniziato domenica in Bahrein.
Si tratta infatti della prima visita del ministro degli Esteri israeliano in uno dei Paesi degli Accordi di Abraham (Bahrein, Emirati e Marocco).
Sulla piattaforma ‘X’, Cohen ha scritto: “Durante il mio incontro con il principe ereditario del Bahrein, Salman bin Hamad al Khalifa, abbiamo discusso di varie sfide regionali, dell’impegno dei nostri due Paesi nella lotta al terrorismo e dell’importanza di sostenere l'accordo di libero commercio”.
E per aggiungere: “Ho ringraziato il principe ereditario per il suo sostegno agli Accordi di Abraham, che hanno cambiato il volto del Medio Oriente e hanno contribuito alla stabilità e alla prosperità dei popoli della regione” .
Cohen ha anche indicato che nel menu dell’incontro c’erano “discussioni sui progetti di cooperazione tra i giovani di Israele e del Bahrein” e l’aspirazione di Tel Aviv ad “allargare il cerchio di pace e normalizzazione con tutti i paesi della regione”.
La pagina ufficiale della Corte del Principe ereditario del Bahrein sulla piattaforma “X” ha pubblicato le foto dell’incontro.
Da parte sua, il sito “Israele in arabo” affiliato al Ministero degli Affari Esteri israeliano ha rivelato che Cohen ha inaugurato oggi la sede permanente dell’ambasciata del suo Paese nella capitale del Bahrein, Manama, alla presenza del Ministro degli Affari Esteri israeliano e del suo ministro bahreinita. controparte, Abd al-Latif al-Zayani. All’ingresso dell’ambasciata israeliana è stata posta una Mezuzah, secondo le tradizioni ebraiche seguite durante l’inaugurazione di residenze e istituzioni ufficiali. La Mezuzah è un piccolo rotolo di pergamena attaccato agli stipiti delle case e delle istituzioni ebraiche. Cohen è arrivato in Bahrein, accompagnato da una delegazione comprendente importanti figure politiche ed economiche israeliane, con l’obiettivo di promuovere le relazioni tra i due paesi.
Nel 2020, Israele e Bahrein hanno raggiunto un accordo per normalizzare le loro relazioni. Ricordiamo che gli Emirati Arabi Uniti sono stati il primo paese arabo a concludere un accordo di libero scambio con Israele, a metà del 2022.

(dayFRitalian, 5 settembre 2023)

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Turchia e Israele discutono opportunità di cooperazione nel settore energetico

Il Ministro dell’Energia e delle Risorse Naturali della Turchia, Alparslan Bayraktar, ha recentemente avuto una conversazione telefonica con il suo omologo israeliano, Israel Katz, per discutere opportunità di cooperazione bilaterale e regionale nel campo dell’energia, concentrandosi in particolare sul gas naturale. Secondo Bayraktar, è stata anche considerata la possibilità di rinnovare la loro collaborazione nel settore energetico.
   Entrambi i ministri hanno espresso interesse nell’espandere la loro cooperazione nel settore energetico e hanno concordato di esplorare opportunità di collaborazione. Di conseguenza, Bayraktar ha annunciato di accettare l’invito di Katz a visitare Israele nel più breve tempo possibile.
   In un post sui social media, Katz ha indicato che il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, pianifica di visitare la Turchia a breve per incontrare il Presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, il che suggerisce che è un momento promettente per la cooperazione regionale.
   La visita pianificata di Netanyahu in Turchia a luglio è stata posticipata a causa di problemi di salute. Lo scopo della visita era discutere una valutazione approfondita delle relazioni bilaterali tra Ankara e Tel Aviv, che comprende vari argomenti.
   La recente conversazione tra i ministri turchi e israeliani dell’energia dimostra la volontà di entrambi i paesi di trovare punti in comune ed esplorare opportunità di collaborazione nel settore energetico. Questo progresso positivo potrebbe portare a una maggiore cooperazione in futuro, beneficiando entrambe le nazioni.

(ZBR TV ONLINE, 5 settembre 2023)

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Pugno duro contro i manifestanti eritrei in Israele

di Andrea Spinelli Barrile

Lo scorso fine settimana in Israele sono scoppiati sanguinosi scontri tra polizia ed immigrati eritrei – in gran parte richiedenti asilo fuggiti dal Paese del Corno d’Africa e oppositori del regime di Isaias Afewerki – che volevano impedire lo svolgimento di un evento dell’ambasciata di Asmara. Ora il Governo di Tel Aviv sta valutando pene severe nei confronti dei manifestanti eritrei che si sono resi protagonisti dei tumulti.
   Israele sta prendendo in considerazione diverse opzioni, anche molto dure come l’immediata deportazione, per i richiedenti asilo eritrei coinvolti nei durissimi scontri di sabato a Tel Aviv. Lo riportano i media locali.
   Circa 170 persone sono rimaste ferite in seguito ai violenti scontri con la polizia e tra eritrei quando i gruppi di sostenitori e oppositori del regime eritreo si sono incontrati. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che “la linea rossa” è stata superata e ha ordinato un nuovo piano per allontanare tutti i migranti africani che ha descritto come “infiltrati illegali”.
   I disordini di sabato, che i media israeliani definiscono “senza precedenti”, sono scoppiati dopo che attivisti anti-regime hanno chiesto alle autorità israeliane di impedire un evento organizzato dall’ambasciata eritrea in Israele, che tuttavia si è tenuto ugualmente. Gli oppositori al regime hanno sfondato una barricata della polizia intorno alla sede dell’ambasciata, che è stata poi vandalizzata. La polizia, in tenuta antisommossa, ha sparato gas lacrimogeni, granate assordanti e proiettili veri mentre gli agenti a cavallo cercavano di respingere i manifestanti.
   È stata aperta un’indagine per verificare se l’uso di armi da fuoco da parte della polizia fosse o meno conforme alla legge.
   Ci sono stati poi altri drammatici scontri in strada, tra grandi folle di eritrei armati di pezzi di legno, metallo e rocce. Oltre ad attaccarsi a vicenda, hanno fracassato vetrine e automobili.
   Le rivolte di sabato hanno riportato la questione controversa della presenza di migranti africani nell’agenda politica israeliana, in un momento in cui il Paese è già diviso sul controverso piano di revisione giudiziaria del governo. Netanyahu e altri membri del suo gabinetto hanno accusato la Corte Suprema di aver bloccato un precedente tentativo di cacciare i migranti da Israele: “Adesso rimane un problema serio con gli infiltrati illegali nel sud di Tel Aviv e altrove”, ha detto il primo ministro durante la riunione straordinaria del governo di domenica. “Vogliamo misure dure contro i rivoltosi, inclusa l’immediata deportazione” di coloro che hanno preso parte agli scontri e ha chiesto che i ministri gli presentino piani “per l’eliminazione di tutti gli altri infiltrati illegali”.
   Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir intende proporre un disegno di legge che annullerebbe parte della legge fondamentale di Israele relativamente alla tutela della dignità umana e della libertà, per portare avanti un piano di deportazione di massa dei migranti entrati illegalmente nel Paese. Si stima che ci siano circa 18.000 richiedenti asilo provenienti dall’Eritrea in Israele, la maggior parte dei quali sono arrivati illegalmente anni fa attraversando la penisola egiziana del Sinai. Dicono di essere fuggiti dal pericolo, dalla persecuzione e dalla coscrizione militare obbligatoria in uno dei Paesi più repressivi del mondo, l’Eritrea. Fino ad ora le autorità israeliane non hanno fatto distinzioni tra i richiedenti asilo in base alla loro affiliazione politica.
   L’episodio degli scontri in Israele non è isolato. Eventi simili sono avvenuti a più riprese in altri Paesi, dalla Norvegia al Canada, fino alla Germania, dove schiere di profughi o oppositori eritrei hanno violentemente manifestato il loro dissenso contro manifestazioni culturali promosse dalle ambasciate di Asmara. Lo scorso 4 agosto, per esempio, una protesta pacifica si è trasformata in una vera e propria guerriglia nella periferia di Stoccolma, durante la prima giornata del «Festival Scandinavo della Cultura Eritrea». Una manifestazione che si tiene annualmente dal 1990. L’evento è stato spesso travolto da critiche e percepito come uno strumento di propaganda per il repressivo governo eritreo.
   La diaspora eritrea nel mondo è divisa, lacerata, tra i sostenitori del regime di Isaias Afewerki e chi scappa dalla sua dittatura che nega le libertà individuali e perseguita gli oppositori. La contrapposizione tra i vecchi simpatizzanti del presidente e i giovani dissidenti crea frequenti frizioni e talvolta violenti tumulti. In molte nazioni si sono registrati scontri interni alla comunità eritrea. In Italia è viva la memoria delle polemiche che accompagnarono i funerali delle vittime della tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013 – di cui tra un mese ricorrerà il decimo anniversario – quando esponenti dell’ambasciata eritrea di Roma volevano identificare morti e superstiti, suscitando vibranti proteste da parte dei tanti eritrei fuggiti dal piccolo Paese del Corno d’Africa.

(AFRICA, 5 settembre 2023)

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I confini di Israele

La Torah, i Saggi e i politici moderni si sono confrontati con la questione dei confini di Israele.

di Uri Pilichowski

Naftali Bennett discute sui pericoli di un ulteriore restringimento dei confini di Israele per consentire la creazione di uno Stato palestinese.
"Rabbino, quali sono i veri confini di Israele?" Questa era una domanda fondamentale per un educatore e rabbino sionista. La Torah elenca i confini di Israele in diversi punti, i nostri Saggi hanno discusso le implicazioni legali di questa domanda e i primi sionisti stamparono mappe che mostravano chiaramente i confini. Ma mi sono reso conto di non avere una risposta chiara a questa domanda.
   In discorsi, rubriche e interviste, l'ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Friedman ha parlato ripetutamente dei confini di Israele. "Una nazione adulta decide da sola cosa è meglio per i suoi cittadini", ha detto. "Rispettate voi stessi e il vostro diritto - direi il vostro sacro dovere - di determinare il giusto limite per lo Stato ebraico. Questo è ciò che rende una nazione adulta".
   “Alcuni diranno che è il fiume Giordano, altri che è la linea armistiziale del 1949, altri ancora che sono i blocchi di insediamento, qualunque cosa significhi, più una striscia lungo il fiume per la difesa nazionale", ha aggiunto Friedman.
   Friedman ha sottolineato che dopo 75 anni, Israele non ha ancora confini fissi.
   Nella Bibbia, i confini della Terra d'Israele sono menzionati tre volte. Nel primo libro della Genesi, Dio promette ad Abramo una vasta terra che sembra estendersi dal Mar Mediterraneo a una località dell'Iraq occidentale. Questi confini sono spesso indicati come "Grande Israele". Nel quarto libro di Mosè, vengono descritti confini più limitati che assomigliano ai confini odierni di Israele. Nel quinto libro di Mosè, si promette che i limitati confini saranno alla fine ampliati.
   Questi confini sono importanti non solo per il loro significato religioso. Sono i confini che hanno orientato gli ebrei nella creazione degli antichi Stati ebraici e del moderno Israele.
   Nella Mishnah, nel Talmud e nelle opere degli studiosi medievali, i confini di Israele sono discussi in dettaglio. Vengono sollevate questioni che vanno dal ruolo dei cohanim alla possibilità di lasciare la terra, dall'obbligo di pagare la decima per la frutta alle differenze tra i confini stabiliti da coloro che lasciarono l'Egitto e quelli stabiliti da coloro che tornarono dall'esilio babilonese.
   Secondo l'opinione unanime degli studiosi rabbinici, i confini d'Israele saranno tracciati in modo ristretto fino all'era messianica. Solo nell'epoca messianica, quando il popolo ebraico meriterà una terra più vasta, i confini di Israele si allargheranno fino a quelli menzionati nel primo libro di Mosè.
   Dopo la distruzione delle prime due comunità ebraiche, non furono tracciati i confini di quella che sarebbe poi diventata la Palestina. Solo quando i vincitori della Prima guerra mondiale si riunirono per elaborare un nuovo ordine mondiale, la determinazione dei confini della Palestina divenne un problema. All'inizio, il Mandato britannico per la Palestina comprendeva il territorio degli attuali Israele e Giordania. Solo nel 1923, con la creazione della Giordania, la Palestina fu limitata all'area compresa tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano.
   I primi leader sionisti non attribuirono importanza alla definizione dei confini di Israele. Prima della fondazione dello Stato, sionisti revisionisti come Ze'ev Jabotinsky e Menachem Begin pubblicarono mappe che includevano l'attuale Giordania e la chiamavano "Grande Israele". Quando il piano di spartizione delle Nazioni Unite fu presentato ai leader sionisti nel 1947, essi rimasero delusi dalla piccola percentuale di terra che il popolo ebraico avrebbe ricevuto, ma non abbandonarono la speranza di un Israele più grande.
   In un discorso tenuto nel 1937, David Ben-Gurion disse: "L'accettazione della spartizione non ci obbliga a rinunciare alla Transgiordania: Non si può chiedere a nessuno di rinunciare alla sua visione. Accetteremo uno Stato entro i confini stabiliti oggi, ma i limiti delle aspirazioni sioniste sono una questione che riguarda il popolo ebraico e nessun fattore esterno potrà limitarli".
   In un discorso al gabinetto israeliano dopo la fondazione dello Stato, dichiarò: "Perché dovremmo impegnarci ad accettare confini che gli arabi non accetteranno comunque?".
   In una lettera al figlio, Ben-Gurion scrisse: "Presumo (ed è per questo che sono un ardente sostenitore di uno Stato, anche se ora comporta una spartizione) che uno Stato ebraico solo su una parte della terra non sia la fine ma l'inizio".
   Nella guerra d'indipendenza del 1948, Israele conquistò circa il 20% di terra in più rispetto a quella che il piano di spartizione aveva assegnato agli ebrei. Quando i vicini arabi di Israele attaccarono di nuovo nel 1967, Israele vinse la guerra e quadruplicò le sue dimensioni, prendendo il controllo del Sinai, di Gaza, della Giudea e Samaria e delle alture del Golan. All'inizio degli anni '80 Israele ha rinunciato al Sinai, negli anni '90 al controllo di alcune città della Giudea e Samaria e nel 2005 si è ritirato completamente da Gaza.
   Oggi non ci sono partiti o movimenti politici israeliani di rilievo che cerchino di espandere i confini di Israele nel prossimo futuro. I nemici di Israele sostengono spesso che Israele aspira a una Grande Israele che si estenda in profondità nel Medio Oriente arabo. Purtroppo, molte persone in tutto il mondo credono a questo falso racconto.
   Come ha detto l'ambasciatore Friedman, i confini di Israele, soprattutto sul fianco orientale, non sono ancora stati determinati. Sebbene i confini siano in ultima analisi una decisione politica lasciata alla leadership del Paese, potrebbe essere meglio lasciare i confini di Israele poco chiari per ora e mantenere lo status quo. Solo il tempo potrà dirlo.

(Israel Heute, 5 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Studiosi da tutto il mondo contro il governo israeliano: “Tenta di mettere sotto controllo il Memoriale della Shoah Yad Vashem”

Il ministro dell’Istruzione Yoav Kisch vorrebbe sostituire Dani Dayan, al vertice del museo dopo aver lasciato il Likud. Intellettuali e partner internazionali dell’istituzione firmano una lettera aperta al premier Netanyahu: “Una minaccia per la memoria”.

di Rossella Tercatin

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GERUSALEMME – Una minaccia contro la memoria di sei milioni di vittime della Shoah. Hanno avuto parole durissime contro il governo israeliano i firmatari di una lettera aperta indirizzata al primo ministro Benjamin Netanyahu, studiosi da tutto il mondo che hanno espresso grande preoccupazione per il rischio di politicizzazione di Yad Vashem.
   Negli ultimi giorni infatti si sono rincorse voci della volontà del ministro dell’Istruzione Yoav Kisch di sostituire l’attuale direttore Dani Dayan. Giovedì il Canale 12 ha svelato come Kisch abbia inviato una lettera a Dayan accusandolo di irregolarità nella gestione del museo – lettera poi confermata dallo stesso ministro. Oggetto del contendere, presunti vizi nelle procedure di nomina di tre degli attuali membri del consiglio di amministrazione dell’istituto, che renderebbero illegittime le decisioni prese dal Consiglio stesso. 
   I media israeliani però sottolineano come il vero nodo alla base dello scontro sia politico. Yad Vashem rappresenta non solo un fondamentale centro di ricerca sulla storia degli anni più bui dell’Europa del XX secolo, ma anche il baluardo della memoria degli ebrei sterminati, il luogo visitato da ogni capo di Stato o rappresentante diplomatico in visita in Israele, l’archivio in cui si lavora incessantemente per restituire un’identità a ogni singola vittima.
   Sessantasette anni, Dayan viene da una lunga carriera politica nella destra israeliana, per decenni uno dei leader più influenti del movimento degli insediamenti in Cisgiordania, oltre ad avere all’attivo l’incarico di console generale israeliano a New York, nominato nel 2016 dallo stesso Netanyahu.
   E tuttavia, nel 2021 Dayan scelse di candidarsi alle elezioni con il partito Nuova Speranza guidato da Gideon Sa’ar, un fuoriuscito dal Likud, che aveva lasciato il partito in polemica con Netanyahu. Rimasto fuori dalla Knesset, Dayan fu nominato direttore di Yad Vashem pochi mesi dopo, dal governo guidato da Naftali Bennett, il primo esecutivo senza Netanyahu dal 2009.
   Secondo quanto riportato dalla stampa locale, Kisch ha cercato a lungo un appiglio per disfarsene, non trovando di meglio che appellarsi a irregolarità formali, con l’intenzione di sostituirlo con Keren Barak, una ex parlamentare del Likud (compagine di Kisch e Netanyahu).
   La presenza dei tre consiglieri di amministrazione alle riunioni, ha affermato il ministro, “è un suo grave fallimento come presidente di Yad Vashem, e mette in dubbio la legalità di tutte le decisioni prese”.
   “Le affermazioni di Kisch sono in parte infondate, in parte deliranti e in parte semplicemente false,” la risposta di Dayan affidata al Canale 12.
   Ricostruzioni della stampa israeliana hanno puntato il dito anche contro la moglie di Netanyahu, Sara, che non avrebbe gradito la scelta di affidare le musiche della cerimonia del Giorno della Memoria a una cantante, Keren Peles, che aveva espresso il suo supporto alle proteste anti-governative. Ricostruzioni che la donna oggi ha smentito mentre con il marito si accingeva a decollare per una visita di Stato a Cipro.
   Nel frattempo, la controversia ha suscitato una levata di scudi dentro e fuori dai confini di Israele.
   A firmare la missiva sono stati professori di spicco, tra cui Jan Grabowski, Jan T. Gross, Yehuda Bauer, Alvin Rosenfeld, Havi Dreifuss e Barbara Engelking, oltre al dottor Efraim Zuroff del Centro Simon Wiesenthal.
   Dayan, hanno sottolineato gli studiosi, “ha servito la sua istituzione con grande distinzione, permettendo a Yad Vashem di mantenere e rafforzare il suo carattere indipendente e imparziale”.
   “Oggi, con la memoria della Shoah sempre più sotto pressione, con varie istituzioni e governi implicati nella sua distorsione e negazione, l’indipendenza di Yad Vashem è più cruciale che mai,” si legge nella lettera.
   “Ogni tentativo di ottenere il controllo politico su Yad Vashem è una chiara minaccia alla memoria di sei milioni di vittime della Shoah e una sfida alla legittimità di un’istituzione che gode di un enorme e meritato prestigio in tutto il mondo,” prosegue il documento. “Chiediamo al ministro dell’Istruzione e al governo israeliano di assicurarsi che al presidente Dani Dayan e allo Yad Vashem sia consentito di continuare la loro missione senza ostacoli".
   A difendere Dayan sono state anche la rappresentante dell’amministrazione Biden per la lotta contro l’antisemitismo Deborah Lipstadt e quella per le questioni relative all'Olocausto Ellen German.
   “Da anni apprezzo il lavoro di istituzioni come Yad Vashem,” ha twittato Lipstadt. “La sua scrupolosa e inestimabile opera di ricerca è in gran parte dovuta alla sua professionalità e indipendenza”.
   Anche Katharina von Schnurbein, coordinatrice dell’Unione Europea per la lotta all’antisemitismo, si è unita alle voci di protesta. “Yad Vashem è un partner chiave per l’Unione Europea in tema di ricerca sulla Shoah” ha dichiarato. “La sua competenza e l’indipendenza della sua leadership sono essenziali in tempi di distorsione della Shoah e di tentativi di politicizzarne la memoria”.
   Negli scorsi mesi, Kisch aveva già tentato di sostituire il rettore della Biblioteca Nazionale israeliana, rinunciando al piano dopo le proteste che aveva suscitato, in particolare tra i filantropi che sostengono l’istituzione, i quali secondo quanto riportato dalla stampa israeliana avevano minacciato di ritirare il proprio supporto, costringendo il governo a cedere.

(la Repubblica, 4 settembre 2023)

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Smascherata: 30 anni fa, la sinistra israeliana istituì illegalmente uno Stato palestinese con gli Accordi di Oslo

di David Israel

Il 13 settembre, ricorreranno i 30 anni dalla firma, sul prato della Casa Bianca, degli accordi di Oslo. Amit Segal ha notato, su News12, che solo un anno prima, l’allora primo ministro Yitzhak Rabin aveva approvato l’ultimo assassinio di un alto funzionario dell’OLP. In effetti, l’OLP era considerata defunta dopo la sua espulsione da Beirut al termine della guerra del Libano.
   Durante la prima guerra in Iraq (1990-91), il leader dell’OLP Yasser Arafat si schierò con Saddam Hussein e subì l’isolamento internazionale quando Hussein fu umiliato dagli eserciti della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Poi, il 7 aprile 1992, Arafat sfuggì per poco alla morte quando un aereo su cui si trovava precipitò nel deserto libico, uccidendo entrambi i piloti e un ingegnere. 

• ARAFAT E L’OLP ERANO SPACCIATI. 
   Ma poi, alla fine del 1992 e nel corso del 1993, il viceministro degli Esteri Yossi Beilin, che in seguito avrebbe lasciato il Partito Laburista per guidare Meretz – un’improbabile coalizione di liberali borghesi ed ex comunisti – avviò colloqui segreti diretti, prima a Londra e poi a Oslo, con la leadership dell’OLP. 
   Si trattava non solo di un allontanamento dalla politica ufficiale israeliana, che accettava contatti con politici “palestinesi” locali, ma escludeva completamente i contatti con i rappresentanti dell’OLP – ma di un atto contrario alla legge. 
   Man mano che i colloqui procedevano, Beilin ne riferiva al Ministro degli Esteri Shimon Peres e infine a Rabin, che ordinò a Peres di interromperli immediatamente. Poco tempo dopo, però, Rabin cambiò idea e accettò i colloqui con i rappresentanti dell’OLP, per ragioni che sono sfuggite agli storici per tre decenni. Tutto ciò che abbiamo sono speculazioni sul rapporto, particolarmente sgradevole, tra Rabin e Peres e sulla perpetua paura del primo di perdere contro l’uomo che tanto detestava. 

• LA RIUNIONE 
   Il 30 agosto 1993, 30 anni fa, si tenne una riunione segreta di gabinetto. Potete leggere il protocollo qui (https://img.mako.co.il//2023/08/29/OSLO.pdf?Partner=interlink) Vi parteciparono Rabin, Peres, diversi ministri laburisti, Shulamit Aloni e Yossi Sarid di Meretz, che aveva raggiunto l’apice nelle elezioni del 1992, con 12 deputati. Inoltre, vi era un nuovo arrivato di talento, proveniente da un partito religioso sefardita: Aryeh Deri. 
   Deri, in seguito, ha ricordato: “Alle 18 ricevetti un messaggio che diceva che c’era una riunione del governo alle 20 e che dovevo venire se volevo vedere gli Accordi di Oslo, che allora nessuno conosceva”. 
   Secondo Haim Ramon, che deteneva il portafoglio dei Servizi sanitari nel governo di Rabin, non solo i cittadini israeliani ne furono scioccati, ma anche l’esercito. “Questo accordo è stato fatto alle spalle dell’esercito”, disse Ramon. “Il personale militare non è stato coinvolto in questo accordo, a differenza di quanto avvenuto fino ad allora e da allora. Hanno letto l’accordo quasi contemporaneamente ai ministri”. 
   Deri ha inoltre ricordato: “Ehud Barak, che all’epoca era il Capo di Stato Maggiore, si sedette accanto a me e per tutta la durata dell’incontro mi disse a bassa voce che l’accordo era pericoloso, che c’erano buchi più grandi di quelli del formaggio svizzero e che avrebbe danneggiato la sicurezza dello Stato”. 
   Alcune delle veementi obiezioni di Barak sono state omesse dal protocollo in quanto “top secret” – esso sarà reso pubblico tra 90 anni, 60 da oggi. Anche i commenti di Binyamin “Fuad” Ben-Eliezer, che era ministro degli Alloggi nel governo di Rabin, ma aveva ricoperto il ruolo di coordinatore delle attività governative nei territori, sono stati censurati per 90 anni. 
   I commenti di Barak che non sono stati rimossi includevano un’astuta osservazione su quanto sarebbe stato difficile per l’IDF prevenire l’aumento dell’infrastruttura terroristica in Giudea, Samaria e nella Striscia di Gaza se la cooperazione con l’OLP non fosse stata così buona come Rabin si aspettava. 
   “Quando abbiamo informazioni su persone ricercate a Jabaliya o sulla preparazione di un attentato che si svolge all’interno di uno dei campi profughi, non sarà facile intraprendere un’azione efficace contro di essi”, disse il Capo di Stato Maggiore Barak alla riunione. “C’è sempre il rischio che qualcosa trapeli dai ranghi della polizia palestinese o che ci siano infiltrati provenienti dagli autori dell’attacco”. 
   È ironico che le persone che lo non lo hanno preso in considerazione durante l’incontro, cioè i membri di Meretz, sarebbero poi diventati i suoi più grandi partner nel tentativo di fare cadere il governo Netanyahu attraverso il sabotaggio e la violenza di strada. 
   Rabin aprì l‘incontro dicendo che non si trattava di un semplice accordo, ma di una delle due alternative che il suo governo aveva di fronte: il ritiro dai territori “siriani” del Golan o dalla “Cisgiordania”. Tra le due, l’opzione “palestinese” era più probabile, soprattutto da quando la Casa Bianca di Clinton l’aveva ripresa con vigore, al punto che gli americani erano diventati il tramite per entrambe le parti. 
   Rabin dichiarò di sostenere l’opzione “palestinese” perché i siriani chiedevano un ritiro completo, mentre l’OLP si sarebbe accontentata di una restituzione parziale delle terre “occupate”. Rabin chiarì che non vedeva alcun valore di sicurezza negli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria. Per lui si trattava di realtà politiche e quindi la loro utilità doveva essere misurata in base al valore politico  che aveva all’epoca, che comprendeva la loro rimozione totale o parziale. 
   Per Rabin, tutto dipendeva dalla capacità del presidente dell’OLP Arafat di garantire la sicurezza all’interno dell’Autorità Palestinese, in particolare dalla sua capacità di controllare Hamas nella Striscia di Gaza. 
   Il Ministro degli Esteri Peres  condivise la sua sorpresa che l’OLP non avesse insistito per lo sradicamento degli insediamenti. Tentare di farlo avrebbe rappresentato una soluzione impossibile, sia moralmente che fisicamente. Sostenne che, in quel contesto, fosse stato un bene che i colloqui di pace con la Siria non si fossero conclusi, perché i siriani avrebbero chiesto la restituzione di tutto, e quindi i “palestinesi” avrebbero insistito sulla medesima richiesta. 

• NON SI POTEVA FARE SENZA MERETZ 
   Il partito con una dozzina di mandati che spinse Rabin agli accordi di Oslo celebrò quella che all’epoca venne vista come una vittoria storica sulla destra. “Se non difendiamo questo accordo, non sono sicuro che ci saranno molti altri che si offriranno volontari per difenderlo”, dichiarò il ministro dell’Ambiente Yossi Sarid. “Certo, i problemi posti qui sono legittimi e forse anche necessari, ma sappiamo per esperienza che anche se non emergono cose precise, l’atmosfera sarà comunque chiara, e se questo accordo crolla, non vedo più prospettive di pace”. 
   Nella stessa riunione di gabinetto, Sarid si rivolse al capo di gabinetto Barak e lo  rimproverò: “Non si può tenere il bastone da entrambe le parti. Da un lato, è un risultato che nessuno degli insediamenti sia stato sradicato, mentre avrebbero potuto essere sradicati, forse a Gaza, e dall’altro, non puoi dire in seguito che gli insediamenti stanno complicando la situazione”. 

• SEMBRAVA CHE TUTTI AVESSERO UN QUALCHE POTERE PROFETICO 
   Non tutti. Il ministro dell’Istruzione Shulamit Aloni dichiarò, non vi prendo in giro: “Le preoccupazioni per la sicurezza hanno avuto la massima risposta nell’accordo così come è stato presentato qui, e penso che siano state garantite da tutte le parti e che non dovrebbero suscitare la sensazione che stiamo rischiando qui più di quella che sarebbe l’alternativa”. 
   Gli israeliani avrebbero presto affrontato un nuovo concetto: “Le Vittime della Pace” (alias Sacrifici per la Pace). Il termine descriveva le migliaia di persone che hanno perso la vita nei fiumi di sangue che hanno attraversato il Paese a seguito degli Accordi di Oslo. Il termine era già stato coniato in precedenza, ma fu Shimon Peres ad avere il privilegio di assegnarlo agli israeliani morti a causa di tali accordi. L’11 ottobre 1993, all’apertura della seconda sessione della Knesset, dopo l’assassinio degli escursionisti israeliani a Wadi Kelt, Shimon Peres disse delle vittime che “erano cadute nella campagna per la pace”. 

(L'informale, 3 settembre 2023)

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Libia-Israele: l’ombra degli “Accordi di Abramo” aleggia su Roma

di Fabio Marco Fabbri

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La Tripolitania, non la Libia, soffre di una precaria stabilità, minata da continue crisi socio-politiche. È governata da Abdul Hamid Dbeibeh, capo del Governo di unità nazionale con sede a Tripoli, che rappresenta la parte politica meno spontanea di questo strategico Paese nordafricano. Infatti, le tre grandi regioni libiche – Tripolitania, Cirenaica, Fezzan – hanno dei connotati politici diversi. Così, l’Esecutivo della Tripolitania, che impropriamente viene generalizzato come “Governo libico”, resta l’espressione di una volontà internazionale, tanto per non scendere nei dettagli; la Cirenaica è saldamente nelle mani di un potente leader riconosciuto dal popolo, il maresciallo Khalifa Haftar; il Fezzan, ben delineato a livello tribale, preferisce strizzare l’occhio al potente Governo cirenaico, piuttosto che a quello imposto dall’Occidente in Tripolitania.
   L’incontro del 27 agosto tra il ministro degli Esteri libico – più esatto sarebbe definirlo della Tripolitania – Najla El Mangoush e il suo omologo israeliano, Eli Cohen, oltre ad avere provocato reazioni estreme all’interno del Governo di Tripoli, ha sottolineato le debolezze di un Esecutivo condizionato dalle pressioni internazionali, al quale si contrappone la volontà popolare e di una parte della politica, che faticano a riconoscere l’autorità di Dbeibeh. Pertanto, dopo la notizia dell’incontro di Roma tra “una libica e un israeliano”, il Consiglio presidenziale tripolino ha chiesto “chiarimenti” su questo vertice al capo del Governo di unità nazionale, ricordando che l’azione intrapresa dal responsabile della diplomazia di Tripoli non rappresenta la traccia della politica estera dello Stato libico (della Tripolitania), non tratteggia le consuetudini nazionali libiche ed è considerata una violazione delle leggi libiche che criminalizzano la “normalizzazione dei rapporti” con l’entità sionista. Tutto ciò che fa riferimento alla Libia deve essere declinato in Tripolitania.
   Najla El Mangoush si è affrettata a definire l’incontro di Roma “casuale e non ufficiale” – durante il quale ha anche incontrato Antonio Tajani, il suo omologo italiano – e che il tavolo tra i capi delle rispettive diplomazie non ha sortito nessun documento ufficiale. Tuttavia, l’imbarazzo del “Governo della Tripolitania, telecomandato dall’Occidente”, è forte. Infatti, nessuna giustificazione è servita a placare il dissenso popolare, che ha portato la folla dei manifestanti davanti alla sede del Governo di Tripoli per chiedere la caduta dell’Esecutivo. Inoltre, altri manifestanti hanno appiccato il fuoco alla residenza del primo ministro Dbeibeh, ubicata a est della capitale. Anche in altre città della Tripolitania come Tadjourah e Zaouïa, a est e a ovest di Tripoli, si sono verificate sommosse popolari contro il Governo. Dbeibeh ha dovuto sospendere dall’incarico la ministra Najla El Mangoush, assicurando che sarà attivata una commissione che dovrà verificare, tramite un’indagine amministrativa, se la ministra abbia superato i limiti delle sue competenze. Intanto, lunedì scorso il primo ministro, sotto forte pressione politica, ha dovuto formalizzare il “licenziamento” di El Mangoush, ufficializzato nel corso di una tesa riunione all’interno dall’ambasciata palestinese di Tripoli, struttura diplomatica mantenuta totalmente con le risorse del Paese accogliente, come è generalmente di prassi negli Stati arabo-musulmani. L’ormai ex ministro Najla El Mangoush si è rifugiata in Turchia, Paese raggiunto con un aereo governativo.
   La rappresentante della diplomazia di Tripoli, probabilmente, ha agito non valutando coscientemente le conseguenze di avere cercato di imboccare una strada che altri Stati arabi hanno recentemente già percorso, cioè quella della “normalizzazione dei rapporti” con Israele. Certamente, il primo ministro era a conoscenza dell’incontro; infatti, risulta che alcuni funzionari di Tripoli, in assoluto anonimato, hanno comunicato all’Associated Press che la visita a Roma era nota. Ma è anche noto che ‏Dbeibeh aveva già dato dei segnali chiari sulla volontà di aprire una strada di dialogo con Israele: una fase “embrionale” degli Accordi di Abramo.
   Va ricordato, in un quadro più ampio, che El Mangoush ha rivelato di essersi rifiutata di incontrare qualsiasi partito che potesse rappresentare l’entità israeliana e che il Governo di Tripoli è stato ufficialmente chiaro nel mantenere la sua posizione rispetto alla “causa palestinese”. In più, Tripoli ha denunciato una strumentalizzazione da parte dei media ebraici e internazionali di quanto avvenuto a Roma, presentando il vertice come un incontro con dialoghi costruttivi. Il ministro israeliano Eli Cohen ha altresì dichiarato di aver avuto con la sua omologa tripolina la garanzia che il patrimonio culturale dell’ebraismo libico sarà preservato, attraverso anche il restauro delle sinagoghe e dei cimiteri ebraici presenti in questa regione. Aggiungendo, poi, che la posizione strategica della Libia offre enormi opportunità allo Stato di Israele.
   Si tratta di un primo passo nelle relazioni tra Israele e Libia, o meglio tra Israele e la Tripolitania? Intanto gli Accordi di Abramo, sotto l’egida degli Stati Uniti, hanno visto Israele stabilire rapporti formali e utili con il Marocco, gli Emirati Arabi, il Bahrain e il Sudan, aprendo grandi spazi di dialogo con l’Arabia Saudita. Tuttavia, l’attuale politica del Governo di Benjamin Netanyahu è criticata da molti Paesi arabi, che lamentano l’ondata di violenza nella Cisgiordania occupata e la continua colonizzazione di parte di questo territorio.
   Ma sugli Accordi di Abramo piange la Palestina, che vede vacillare la sua esclusiva posizione di “vittima” anche agli occhi di molti Stati del mondo arabo. In attesa che la Cirenaica di Khalifa Haftar avvii colloqui con Israele, che probabilmente potrebbero sortire interessanti sviluppi.

(l'Opinione, 4 settembre 2023)

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Attesa una delegazione Usa a Riad per discutere della normalizzazione con Israele

Secondo un media locale, l'Autorità nazionale palestinese starebbe cercando passi “irreversibili” che facciano avanzare la sua richiesta di creare uno Stato palestinese nel contesto dei negoziati per un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita

Una delegazione di alto profilo degli Stati Uniti è attesa questa settimana a Riad per discutere con le controparti saudite della potenziale normalizzazione delle relazioni tra il regno del Golfo e Israele. Lo riferisce in esclusiva il quotidiano israeliano “The Times of Israel”, citando funzionari statunitensi e palestinesi.
   Nello specifico, dovrebbero recarsi a Riad il responsabile per il Medio Oriente della Casa Bianca, Brett McGurk, e la vice segretaria di Stato per il Vicino Oriente, Barbara Leaf. Se confermata, la visita si inserisce sulla scia di quelle del capo della diplomazia Usa, Antony Blinken, e del consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, avvenute rispettivamente a giugno e luglio scorsi, con l’obiettivo di raggiungere un accordo tra lo Stato ebraico e il regno del Golfo. La presenza di McGurk e Leaf a Riad avverrà in concomitanza con la visita di una delegazione di Ramallah, capeggiata dal segretario generale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, Hussein al Sheikh, destinata a discutere delle aspettative palestinesi nel caso si raggiunga un accordo israelo-saudita, hanno spiegato le fonti a “The Times of Israel”. Al momento non ci sono commenti né da Washington né da Riad.
   L’Arabia Saudita “sarebbe pronta a rinunciare alla sua posizione pubblica, da tempo mantenuta, contraria alla normalizzazione con Israele in assenza di una soluzione a due Stati al conflitto israelo-palestinese, ma non è plausibile che Riad accetti un accordo con Gerusalemme che non includa un significativo progresso verso la sovranità palestinese”, secondo funzionari che hanno familiarità con la questione citati da “The Times of Israel”.
   La settimana scorsa, altre fonti del quotidiano hanno dichiarato che l’Autorità nazionale palestinese starebbe cercando passi “irreversibili” che facciano avanzare la sua richiesta di creare uno Stato palestinese nel contesto dei negoziati per un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Le misure proposte includono il sostegno degli Stati Uniti al riconoscimento dello Stato palestinese presso le Nazioni Unite, la riapertura del consolato statunitense a Gerusalemme che storicamente serviva i palestinesi, l’abolizione della legislazione del Congresso che caratterizza l’Autorità nazionale palestinese come organizzazione terroristica, il trasferimento del territorio della Cisgiordania da parte israeliana al controllo palestinese e alla distruzione degli insediamenti illegali in Cisgiordania.
   Tuttavia, prosegue il quotidiano israeliano, “i gesti più importanti nei confronti dei palestinesi quasi sicuramente saranno contrastati da alcuni membri del governo intransigente di Benjamin Netanyahu“. La scorsa settimana il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, ha dichiarato che l’idea che Israele faccia delle concessioni ai palestinesi come parte di un accordo di normalizzazione è una “finzione”. Sebbene l’accordo dovrebbe includere una componente palestinese, la maggior parte delle richieste saudite sono dirette agli Stati Uniti, e queste sono state finora al centro dei negoziati tra l’amministrazione Biden e il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman. Riad sta cercando un trattato di sicurezza reciproca simile alla Nato che obblighi gli Stati Uniti a difendere l’Arabia Saudita nel caso quest’ultima venga attaccata, un programma nucleare civile sostenuto dagli Stati Uniti in Arabia Saudita e la possibilità di acquistare armi più avanzate da Washington. In cambio, gli Stati Uniti chiedono che Riad riduca significativamente i suoi legami economici e militari con Cina e Russia e rafforzi la tregua che ha posto fine alla guerra civile nello Yemen.

(Nova News, 4 settembre 2023)

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Il presidente del senato del Marocco visiterà per la prima volta la Knesset

di Luca Spizzichino

Enaam Mayara
Il capo del Senato del Marocco, Enaam Mayara, visiterà il parlamento israeliano questo giovedì, lo ha annunciato il portavoce della Knesset. Si tratta della prima visita di un leader marocchino e una delle visite di più alto livello per un politico musulmano straniero alla Knesset.
   Il presidente Amir Ohana, che ha invitato formalmente Mayara, ha affermato che il viaggio rappresenta “l’inizio di una nuova era” nelle relazioni tra Israele e Marocco.
   Ohana, figlio di immigrati ebrei dal Marocco, ha detto che la visita di Mayara rappresenta una “realtà piena di speranza, che ci insegna le possibilità di espandere i circoli di pace in Medio Oriente”.
   Mayara è anche il presidente dell'Assemblea Parlamentare del Mediterraneo, un'organizzazione ombrello che rappresenta le legislature regionali. Un certo numero di parlamentari lo accompagneranno in una visita regionale e incontreranno anche Ohana.
   La visita del capo del Senato marocchino fa seguito alle iniziative intraprese da Israele negli ultimi mesi nella costruzione di relazioni reciproche. A giugno il presidente della Knesset ha visitato il parlamento del Marocco e una delegazione di parlamentari israeliani ha visitato il Regno quest'estate, come parte di un più ampio forum parlamentare. Inoltre a luglio, Israele ha riconosciuto la sovranità del Marocco sul territorio conteso del Sahara Occidentale.

(Shalom, 4 settembre 2023)

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Tra USA e Cina, tra il Dragone e i cow-boy, dove sta Israele? Nel mezzo

I tentativi di incrementare le relazioni economiche con l’accordo di libero scambio si scontrano con il veto americano: gli Stati Uniti temono la cessione di tecnologie militari

di Giovanni Panzeri

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Cina e Mediterraneo, il nuovo celeste impero e il Medioriente, Israele e il Dragone. E il profumo del fior di loto che si espande sulle coste, da Rosh HaNikrà a Ashkelon. Esiste una penetrazione degli interessi economici cinesi nello Stato Ebraico? «Costruire infrastrutture di alta qualità, resistenti, sostenibili e a prezzi ragionevoli permetterà a tutte le nazioni di sfruttare al meglio le proprie risorse integrandosi in un modello di sviluppo comune. (…) La Cina collaborerà con tutti i partner disponibili a creare un network comune di ferrovie, porti, oleodotti…», ha dichiarato nel 2019 il presidente cinese Xi Jinping, descrivendo quella che viene definita la “nuova via della seta” cinese (Belt and Road Initiative in inglese).
   Adottata dal governo cinese nel 2013, la Belt and Road Initiative (BRI) è un’iniziativa geopolitica di ampio respiro orientata a espandere l’influenza cinese a livello globale, dapprima finanziando la costruzione di infrastrutture funzionali a rendere più fluido il commercio tra i vari continenti per poi focalizzarsi su accordi bilaterali e investimenti nei settori, ad esempio, dell’hi-tech, della cultura e della sicurezza domestica e internazionale. Israele non è, ad oggi, un sottoscrittore ufficiale della BRI, ma nel corso dell’ultimo decennio è stato oggetto di investimenti e azioni diplomatiche e commerciali che possono essere inserite nel contesto di questa iniziativa. Il netto miglioramento delle transazioni commerciali, diplomatiche ed economiche tra Cina e Israele, avvenuto tra il 2013 e il 2019, è stato seguito da un parziale raffreddamento nel corso degli ultimi quattro anni, causato da pressioni statunitensi e altri fattori.
   Questa dinamica descrive la complicata situazione diplomatica dello Stato ebraico. Israele sta cercando di seguire una strategia pragmatica che gli permetta da una parte di mantenere una “relazione speciale” con Washington perseguendo i propri obiettivi strategici (come nel caso del conflitto con l’Iran, suo principale rivale nella regione, apertamente sostenuto dalla Cina), dall’altra di portare avanti il più possibile i propri interessi economici aprendosi ai finanziamenti e ai mercati cinesi. Il tutto in una situazione di crescente polarizzazione internazionale tra le due potenze, che rischia di danneggiare le prospettive di settori d’avanguardia dell’economia israeliana, come l’hi-tech, e si va a sommare a una crescente instabilità politica interna.

Relazioni Sino-Israeliane, un riassunto

In realtà i rapporti tra Israele e Cina hanno una storia lunga e sono iniziati nel corso degli anni ‘80 quando Israele cominciò a vendere segretamente armi e tecnologie militari alla Cina, incoraggiato dagli Usa in chiave anti-sovietica, almeno secondo il professore di scienze politiche e studi dell’Asia Orientale dell’Università di Haifa Yitzak Schichor.
In seguito alla caduta dell’Unione Sovietica e all’apertura formale delle relazioni diplomatiche tra la Cina e lo Stato ebraico, nel 1992, l’atteggiamento statunitense verso questi scambi cambiò radicalmente, nel timore che la Cina si appropriasse di sistemi d’arma e tecnologie, magari sviluppate in cooperazione dagli Usa e Israele, che le potessero fornire un vantaggio nell’eventualità di un conflitto con gli americani.
  In particolare la rottura dell’accordo tra Israele e Cina sul PHALCON del 2000 e di quello sui droni HARPY nel 2005, su pressione statunitense, costrinsero Israele a sottoporre ogni futuro accordo sulla vendita di armi alla revisione di Washington. Questo comportò lo spostamento delle relazioni Sino-Israeliane su un piano prettamente economico, che conobbe un forte sviluppo a partire dal 2013, l’anno in cui, pochi mesi dopo il lancio della BRI da parte cinese, il primo ministro israeliano Netanyahu decise di fare delle relazioni con la Cina una delle priorità del suo terzo mandato di governo. Gli anni successivi avrebbero visto una spiccata crescita negli scambi commerciali tra le due nazioni, accompagnati da massici investimenti cinesi nel settore hi-tech dell’industria israeliana e nella costruzione di alcune infrastrutture critiche.

Per un accordo di libero scambio
  Le relazioni commerciali tra Cina e Israele sono tuttora in costante crescita: ad oggi la Cina è il primo partner commerciale di Israele in Asia e il secondo, dopo gli Stati Uniti, a livello mondiale.
  Il commercio, almeno per quanto riguarda l’export cinese, è l’unico tra i tre settori chiave delle relazioni Sino-Israeliane a non avere subito battute d’arresto a causa di pressioni americane o altri fattori, e consiste principalmente nello scambio di merci (il commercio in servizi alle imprese, di solito un elemento importante dell’export israeliano, è trascurabile). Secondo i dati raccolti dall’Institute for National Security Studies (INSS), gli scambi commerciali tra le due nazioni sono aumentati del 50% tra il 2020 e il 2022, raggiungendo un valore totale di circa 17 miliardi e consistono prevalentemente in esportazioni cinesi, mentre l’aumento di esportazioni israeliane in Cina è molto più contenuto. L’enorme aumento delle esportazioni cinesi è stato condizionato anche dalla pandemia ed è dovuto principalmente a tre fattori: l’aumento di prodotti ordinati da siti cinesi, considerati meno costosi e quindi più adatti a fronteggiare il salire del carovita; l’aumento degli ordini di apparecchiature elettroniche, adatte allo smart-working, anche attraverso rivenditori israeliani; la notevole diffusione nello Stato ebraico di veicoli cinesi, in particolare macchine elettriche. Dal canto suo Israele esporta in Cina soprattutto componenti elettroniche, ma l’export in quel campo è stato pesantemente limitato dalle pressioni statunitensi. Gli anni del Covid hanno tuttavia visto un parziale aumento nelle esportazioni israeliane di materiale medico e sostanze chimiche. Il progressivo miglioramento delle relazioni commerciali è stato accompagnato dal lancio, nel 2016, di trattative per arrivare a un vero e proprio accordo di libero scambio. L’accordo dovrebbe prevedere l’aprirsi dei mercati cinesi alla tecnologia agricola israeliana, in cambio dell’abbattimento dei dazi sui veicoli esportati dalla Cina nello Stato ebraico.
  È significativo che le trattative siano riprese proprio quest’anno (l’ultimo incontro risale al 2019), in un momento che potrebbe essere descritto come di relativo raffreddamento delle relazioni Sino-Israeliane, dovuto alle pressioni esercitate dagli Stati Uniti per limitare gli investimenti cinesi nel settore hi-tech e nel settore delle infrastrutture.

Il settore hi-tech
  La possibilità di accedere alle conoscenze e ai prodotti hi-tech israeliani è sicuramente una delle principali ragioni che hanno spinto la Cina a tentare di coinvolgere Israele nella BRI, mentre d’altra parte l’accesso all’enorme mercato tecnologico cinese rappresenta un’opportunità per le industrie israeliane.
  Secondo i dati raccolti dall’INSS, gli investimenti cinesi nel settore hi-tech israeliano fino al 2020 rappresentano la gran parte degli investimenti cinesi nello Stato ebraico. In particolare, tra il 2007 e il 2020 la Cina ha investito 19 miliardi di dollari nelle imprese israeliane, dei quali 9 destinati al settore hi-tech. La maggior parte degli investimenti nel settore hi-tech proviene da aziende private, che agiscono comunque secondo le direttive nazionali del governo cinese, tra le quali Huawei, Alibaba, Baidu, Haier e Qihoo 360. Sempre secondo i dati raccolti dall’INSS è evidente come gli investimenti cinesi nel settore hi-tech israeliano hanno raggiunto il picco nel 2018 per poi iniziare a calare nel 2019, a seguito degli effetti delle pressioni statunitensi sul governo di Israele.

Infrastrutture
  Tra il 2007 e il 2020 la Cina ha investito 6 miliardi di dollari nel mercato delle infrastrutture israeliane, in particolare nel settore dei trasporti e dell’energia, e ha partecipato a decine di appalti per la costruzione e la gestione di infrastrutture critiche. Tra questi progetti i più noti alla cronaca sono la costruzione della prima linea della metropolitana di Tel Aviv e la costruzione e la gestione di un nuovo terminale commerciale nel porto di Haifa, considerato dalla Cina, assieme al più piccolo porto di Ashdod, un importante snodo nel Mediterraneo nel contesto dell’espansione marittima della BRI.

Pressioni americane, rischio sicurezza
  Gli Stati Uniti non hanno mai visto di buon occhio lo sviluppo delle relazioni tra Israele e Cina e sia l’amministrazione Trump sia quella di Biden hanno sempre fatto pressione sul governo israeliano affinché aumentasse i controlli sugli investimenti dall’estero, sulla partecipazione di imprese straniere ad appalti e sull’esportazione di tecnologia israeliana in Cina.
  Dopo anni di resistenza, come riportato dal Times of Israel, il governo israeliano ha infine ceduto alle richieste instituendo nel 2019 l’Advisory Board for Evaluating National Security Aspects of Foreign Investments entrato poi in funzione l’anno dopo. Il comitato ha teoricamente solo una funzione consultiva, ma di fatto dispone di un enorme potere indiretto, come spiega il report dell’INSS sugli investimenti cinesi nelle infrastrutture israeliane: “Il declino degli appalti destinati a imprese cinesi è un effetto dell’azione del comitato (…) le materie discusse dal comitato impattano direttamente la società israeliana attraverso la stampa, limitando di fatto le opzioni dei legislatori”.
  La creazione del comitato in realtà non è dovuta solo alle pressioni statunitensi, ma anche ai contrasti in seno alla società israeliana, creati dalla prospettiva di un aumento dell’influenza cinese, ovvero di un Paese che comunque sostiene attivamente fazioni apertamente ostili allo Stato ebraico, sulla politica israeliana a livello domestico e internazionale. Un Paese che viene sospettato, tra l’altro, di ingaggiare strategie commerciali basate su pratiche sleali, come furti di licenze e attacchi hacker. Infatti, se da una parte le autorità israeliane considerano generalmente le aziende cinesi in modo positivo, visto che svolgono lavori “rapidi, di qualità e a basso costo”, dall’altra queste ultime incontrarono l’opposizione e la critica di diversi esperti di sicurezza, preoccupati per le possibili ingerenze del governo cinese, e quella di organizzazioni di settore come la Israel Builder Association, che ha accusato le imprese cinesi di essere di fatto le estensioni di un governo “che compete slealmente nel mercato delle infrastrutture mettendo a rischio centinaia di aziende israeliane, che impiegano migliaia di dipendenti”.

Sviluppi recenti
  Nonostante il recente raffreddamento delle relazioni, Israele continua a cercare di mantenere un atteggiamento aperto verso la nazione che ormai è diventata una dei suoi principali partner commerciali, come testimoniano la recente scelta di Netanyahu di recarsi in Cina in visita ufficiale e la ripresa delle trattative per un accordo di libero scambio. Del resto è assolutamente vero, come sostiene Paolo Salom nel suo recente pezzo su Mosaico, che se Israele non può permettersi di rinunciare alla sua alleanza con gli USA, associandosi a uno Stato che ha sempre supportato concretamente i propri rivali strategici, non può neanche, per ragioni storiche, confidare nel fatto che l’Occidente lo supporterà in eterno. È quindi una strategia sensata per Israele mantenere i migliori rapporti possibili con chiunque sia disponibile, a maggior ragione con la Cina, una nazione che sta diventando sempre più influente nel quadro mediorientale.

(Bet Magazine Mosaico, 4 settembre 2023)

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Perché gli Haredim vanno al lavoro

Un lento ma duraturo aumento dell'occupazione sta avendo un permanente impatto culturale.

di Shimon Sherman

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Diverse nuove statistiche mostrano tendenze positive nell'integrazione degli ultraortodossi nel mondo del lavoro israeliano.
L'occupazione haredi ha raggiunto il livello più alto di sempre (55,8%), secondo uno studio dell'Ufficio centrale di statistica pubblicato il mese scorso.
   "Si tratta di uno sviluppo incoraggiante e se si confrontano questi numeri con quelli di 20 anni fa, la crescita è stata davvero notevole", ha dichiarato a JNS Eliezer Hayun, esperto di sociologia presso il Jerusalem Institute for Policy Research.
   Tuttavia, c'è ancora un grande divario tra il tasso di integrazione sul posto di lavoro degli haredi e quello degli ebrei in generale, pari all'87%. Inoltre, c'è ancora molto lavoro da fare prima di raggiungere l'obiettivo governativo fissato nel 2020 di un'integrazione del 63% entro il 2025.
   "I miglioramenti ci sono, ma è importante capire che non rappresentano una trasformazione fondamentale della comunità haredi, ma piuttosto un cambiamento incrementale", ha detto Hayun. "C'è stata una crescita lenta per molti anni e quello che stiamo vedendo ora è la continuazione di questo processo".
   Una recente statistica del Ministero del Lavoro ha fatto luce sulla tempistica dell'integrazione degli ultraortodossi. Secondo il rapporto, l'epidemia di coronavirus ha portato a un calo previsto e importante dell'occupazione Haredi nel 2020. Tuttavia, secondo l'indagine, entro il 2022 questi numeri sono tornati ai livelli precedenti la pandemia. Inoltre, nel 2023 i tassi di occupazione Haredi erano più alti di 3,5 punti percentuali rispetto a prima dell'epidemia di coronavirus e di 2,5 punti percentuali rispetto al 2022.
   "Si tratta di sviluppi significativi e non vediamo alcuna ragione per aspettarci che la tendenza si inverta", ha dichiarato a JNS un rappresentante del Ministero del Lavoro.
   Il rapporto mostra anche che nel 2023 il 25,5% degli uomini ultraortodossi occupati lavora nel settore pubblico. contro il 27,8% del 2021.
   La fascia di età compresa tra i 55 e i 66 anni è stata la principale forza trainante di questa tendenza al cambiamento, rappresentando oltre la metà dell'aumento dell'occupazione. Nel frattempo, la fascia di età compresa tra i 18 e i 35 anni ha rappresentato solo l'8% dell'aumento della forza lavoro.

• IL FATTORE ECONOMICO
  Eitan Regev, vice direttore della ricerca presso l'Istituto Haredi per gli Affari Pubblici, attribuisce l'aumento dell'occupazione a fattori economici. Secondo Regev, la comunità ultraortodossa vive in un ambiente economico molto instabile e fattori apparentemente piccoli, come l'aumento delle tasse su oggetti domestici come le bevande dolci o il taglio di programmi di welfare minori, possono facilmente portare le famiglie al limite e costringere i genitori a lavorare.
   Regev ha indicato l'aumento dei tassi di interesse come un fattore importante che può aggiungere centinaia di shekel al mutuo mensile di una famiglia. Ha aggiunto, tuttavia, che un'inversione di tendenza del mercato non porterà probabilmente a un calo dell'occupazione, a causa dell'impatto culturale permanente che una maggiore popolazione attiva ha portato nella comunità. "Non c'è dubbio che la tendenza continuerà, l'unica domanda è quanto velocemente".
   Hayun ha detto a JNS: "Certamente la questione economica è un fattore, ma nella nostra ricerca abbiamo scoperto che la maggior parte degli Haredi con cui abbiamo parlato ha detto che la ragione principale per cui sono andati a lavorare è che non si sono 'trovati' nel mondo della Torah. Molti hanno detto che anche lo stipendio era importante, ma il fattore psicologico di sentirsi insoddisfatti dallo studio esclusivo della Torah ha giocato un ruolo centrale".
   Il Ministro del Lavoro Yoav Ben-Tzur (Shas) ha attribuito questi sviluppi al "frutto degli sforzi del governo e grazie agli investimenti diffusi in questa iniziativa". Itzik Krombi, autore del libro in lingua ebraica When Haredim Become the Majority (Quando gli haredim diventano la maggioranza), concorda in linea di principio con il ministro, affermando che il gran numero di programmi di sostegno governativi e privati è ciò che ha permesso agli haredim di entrare nella forza lavoro in numero maggiore.
   "Il Consiglio per l'istruzione superiore ha aperto nuovi corsi, il Ministero del Lavoro ha aperto più centri di orientamento e il programma MeGo per l'integrazione degli haredi nell'hi-tech si è ampliato; ovviamente, stanno lavorando di più", ha detto Krombi.
   Ha elogiato in particolare gli sforzi del Consiglio per l'istruzione superiore per migliorare l'istruzione secolare haredi, indicando le statistiche che mostrano un aumento del 25% degli ultraortodossi che ricevono lauree e un aumento del 45% dei master e dei dottorati nel 2021-2022.
   Krombi ha anche sottolineato l'influenza sociale dell'ingresso di un maggior numero di ultraortodossi nel mondo del lavoro.
   "I giovani padri e mariti vedono i loro amici che sono andati a lavorare e sono rimasti haredim, e questo dà loro la fiducia di poter fare la stessa cosa. Anche i rabbini vedono i loro studenti lasciare il kollel [istituto per lo studio della Torah a tempo pieno] ma rimanere uomini di Torah proprio come lo erano prima".
   Hayun ha fatto eco a questo sentimento, spiegando: "Abbiamo visto attraverso le interviste che l'ingresso nel mondo del lavoro non ha un effetto profondo sulla religiosità. Semmai sono più impegnati a mantenere la loro comunità e la loro tradizione. Per loro è molto importante andare al lavoro vestiti da haredim e mandare i figli in yeshivot adeguate".

(JNS, 4 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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«Incapaci di una corretta valutazione della situazione politica»

Una pubblica confessione di colpa

Quando nel 1933 Hitler arrivò al potere in Germania, molto presto si preoccupò di fare in modo che tutte le realtà religiose diventassero istituzionalmente riconoscibili. Pretese quindi che tutti i gruppi religiosi si costituissero in regolari organizzazioni, con precisi statuti e responsabili riconosciuti approvati dalle autorità. Gli statuti dovevano poi contenere espressioni di perfetta adesione alla concezione nazista dello Stato.
   Quasi tutti i cristiani evangelici delle chiese libere si adeguarono senza tanti problemi. Una parte però trovò grandi difficoltà, non per obiezioni politiche o ideologiche, ma per motivi di identità: fu un movimento che si autodefiniva come Christliche Versammlung (Assemblea Cristiana), identificabile come il ramo esclusivista del movimento poi conosciuto come Assemblee dei Fratelli, avente analogie e corrispondenze con un simile movimento presente in Italia fin dalla metà dell'Ottocento
   Fermamente convinti che la chiesa sia una realtà di natura puramente celeste, i credenti della Christliche Versammlung rifiutavano per principio ogni tipo di sistematica organizzazione e ogni rapporto giuridico con lo Stato. Non chiesero dunque alcun riconoscimento, e per un po’ di tempo continuarono tranquillamente ad andare avanti come prima. Furono bruscamente riportati alla realtà nel 1937, quando il governo di Hitler dichiarò sciolto il loro movimento, chiuse le loro sale e proibì loro di continuare a riunirsi in quel modo. Per quei credenti fu un colpo tremendo: non se l’aspettavano. "Wie ein Blitz aus heiterem Himmel", come un fulmine a ciel sereno, era questa l’espressione usata, anche per iscritto, in reazione a quei fatti. Furono gettati in una profonda costernazione, anche perché erano quasi tutti ben disposti verso il governo hitleriano e non accettavano di essere considerati come nemici della nazione.
   Poterono abbastanza presto riaprire le loro sale, ma questo fu loro concesso solo a condizione che il movimento in quanto tale fosse considerato definitivamente sciolto e al suo posto nascesse una nuova organizzazione pienamente rispondente alle richieste governative. Cosa che poi avvenne perché se ne fece garante e responsabile un membro della Christliche Versammlung noto alle autorità come apertamente filonazista. Dovettero dunque accettare di organizzarsi in un’associazione che nel suo statuto conteneva dichiarazioni di fedeltà allo Stato nazionalsocialista: il Bund freikirchlicher Christen ("Unione di cristiani appartenenti a chiese libere"). Di fatto avevano rinunciato a una delle loro più caratteristiche convinzioni identitarie, e l’avevano fatto sotto ricatto del governo nazista.
Nell’aprile del 1995, in occasione dell’anniversario della caduta del regime nazista, alcuni Fratelli tedeschi avvertirono in modo particolarmente acuto il peso di questa vergognosa situazione del passato e presero la decisione di diffondere una pubblica dichiarazione (dopo cinquant’anni!). La dichiarazione porta la firma di due autorevoli responsabili delle Assemblee dei Fratelli che operavano in quel momento nel Bund Evangelisch-Freikirchlicher Gemeinden. Poiché i sottoscrittori volevano che alla Dichiarazione fosse data la massima diffusione, si adoperarono affinché fosse tradotta e pubblicata anche su giornali evangelici di altri paesi. In Italia comparve a suo tempo sul mensile Il Cristiano.
   La riportiamo qui sotto, insieme a un'importante premessa fatta degli stessi autori.
   Il risalto in colore è stato aggiunto. M.C.


Premessa

Nel 1995 si compiono 50 anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla caduta del regime nazista. Poche sono, tra le persone che hanno partecipato a quegli avvenimenti, quelle rimaste ancora in vita; per questo alcuni considerano chiuso questo capitolo.
Dobbiamo però interrogarci sul modo in cui i nostri padri si sono comportati e su quello che ci hanno lasciato. Possiamo trovare, nella tradizione delle nostre chiese, esempi per la generazione attuale che ci aiutino a restare saldi in situazioni simili?
Gli strumenti di informazione hanno pubblicato in questi mesi una quantità di documentazioni, prese di posizione, confessioni di colpa, testimonianze di amore per il prossimo e di resistenza verbale da parte cristiana. Siamo presi da tremore e commozione, e siamo spinti a riflettere e a prendere posizione.
Dalle Assemblee dei Fratelli non è ancora uscita alcuna presa di posizione pubblica sul loro comportamento durante il regime nazista. Crediamo quindi che sia urgentemente necessario rivolgerci all’opinione pubblica con un’aperta dichiarazione. Questo potrà aiutarci a riconoscere la nostra colpa davanti a Dio e davanti agli uomini, e spingerci al pentimento, per ottenere il perdono di Dio ed essere liberati dal peso di quel passato.
La documentazione potrà anche essere un aiuto per la comprensione di quei tempi confusi. Non si vogliono attribuire delle colpe, ma si vuole capire e imparare, e anche imitare degli esempi di fede. La testimonianza della resistenza opposta da singoli uomini e donne delle nostre assemblee non deve essere ignorata.
Dobbiamo imparare ad avere una giusta valutazione della nostra storia passata e futura; dobbiamo crescere nella capacità di riconoscere il male, nella prontezza a manifestare “coraggio civile” e a resistere fino al possibile martirio, avendo fiducia e speranza nel vivente Dio della storia.

DICHIARAZIONE

Il periodo del Terzo Reich

Il periodo del regime nazista trovò le Assemblee dei Fratelli in Germania impreparate. Alcune convinzioni teologiche, come l’interpretazione di Romani 13, che conduceva ad un acritico consenso al proprio Stato, il rifiuto di ogni responsabilità politica, e un atteggiamento nazionalistico, che dal tempo del Kaiser era diffuso in tutti gli ambienti dei credenti, aveva reso i Fratelli, come la maggior parte dei cristiani, incapaci di una corretta valutazione della situazione politica.
Il grande errore fu di non riconoscere la vera natura della persona del “Führer”, della ideologia e dello Stato nazionalsocialista come forze antidivine e inumane. L’errore iniziale si trasformò in colpa quando il progressivo sviluppo del male rese sempre più evidente l’ingiusta struttura dello Stato. Il boicottaggio degli Ebrei, le leggi razziali, la notte dei “pogrom”, i campi di concentramento, il feroce trattamento degli avversari politici e di tutti coloro che volevano proteggere gli Ebrei, e infine anche il tentativo di uniformare tutta la chiesa evangelica ai Cristiano-Tedeschi, avrebbero dovuto aprire gli occhi e spingere quanto meno ad una resistenza interiore, se si avvertiva che il parlare e l’agire contro l’evidente ingiustizia veniva impedito dalla brutalità del regime e dal conseguente rischio per la propria vita. D’altra parte, ci sono stati uomini e donne che, come discepoli di Cristo, hanno coraggiosamente parlato, agito e sofferto.
Ma, a parte alcuni singoli casi, le chiese nel loro complesso si adattarono alle richieste dello Stato, con i loro conduttori, che non si sentirono responsabili della condotta politica dei loro membri e non seppero dare quindi alcun aiuto e alcuna indicazione. I singoli credenti furono lasciati a sé stessi e dovettero decidere da soli in situazioni critiche come: l’invito dello Stato ad iscriversi al Partito Nazionalsocialista o alle SS, la constatazione della pubblica violenza, le intimidazioni, i rapporti con gli Ebrei e gli Ebrei-Cristiani. Ci fu invece entusiasmo per il “Führer”, per i suoi successi politici e militari, per l’ideologia nazionalsocialista e per i suoi slogan acriticamente accettati; o ci fu soltanto silenzio per ignoranza o per paura, e mancanza di amore per le persone perseguitate. In questo modo, i cristiani che amano la Parola di Dio si resero colpevoli.

Il periodo successivo al crollo

Purtroppo, dopo il crollo del 1945 non ci fu alcuna ammissione pubblica di errore con relativa confessione di colpa per quanto avvenuto sotto il regime nazista. E’ vero che alcune persone regolarono il loro passato davanti Dio e in parte anche nelle chiese, ma poiché nella maggior parte dei casi questo non avvenne in forma pubblica, il loro esempio non poté stimolare coloro che non erano disposti a esaminare il loro passato né davanti a sé stessi né davanti agli uomini. In questo modo non fu possibile arrivare ad una piena confessione di colpa per il generale fallimento sotto la dittatura di Hitler. Ci furono, invece, diversi tentativi di giustificazione, e qualcuno espresse addirittura la sua indignazione davanti al desiderio di richiamare le persone alla loro colpa. Il fatto che le autorità naziste, dopo la fusione organizzativa dei Fratelli nel Bund freikirchlicher Christen, avessero tolto il divieto di riunione e avessero consentito l’evangelizzazione, fu portato come giustificazione per la mancata presa di distanza dall’ingiusto sistema.

Noi confessiamo

Indicibili sofferenze sono venute su milioni di persone per la seconda guerra mondiale e per la persecuzione degli Ebrei. Una grande colpa pesa dunque sul nostro popolo tedesco. Anche noi, cristiani delle Assemblee dei Fratelli, abbiamo parte in questa colpa, perché ci siamo in gran parte adattati all’ideologia antidivina e piena di odio del Nazionalsocialismo, perché abbiamo servito questo Stato ingiusto e ci siamo resi colpevoli verso altri uomini, soprattutto verso i nostri concittadini ebrei.
Non sta a noi, uomini di oggi, giudicare persone che in tempi e in circostanze molto diverse si sono resi colpevoli, ma poniamo noi stessi sotto il peso di questa colpa e la confessiamo davanti a Dio e davanti agli uomini, nella consapevolezza che anche noi possiamo, in circostanze simili, renderci colpevoli.
Chiediamo a Dio, nel nome di Gesù Cristo, di perdonarci questo peccato, di liberarci dal peso di questo passato e di essere misericordioso con il nostro popolo tedesco.

Aprile 1995

Per il “Bruderrat der Arbeitsgemeinschaft der Brüdergemeinden”

Michael Zimmermann
Dr. Ulrich Brockhaus


Evangelici tedeschi di ieri: incapaci di una corretta valutazione della situazione politica.
Evangelici italiani  di oggi: incapaci di una corretta valutazione della situazione politica?

(Notizie su Israele, 3 settembre 2023)

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Germania evangelica anni '30: «Un moderato, equilibrato, "evangelico" antisemitismo»


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Il ministro degli Esteri iraniano in Libano per consolidare le alleanze

Teheran cerca di porre fine alla crisi politica del Libano, attualmente senza presidente

Hossein Amir-Abdollahian
Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ha effettuato venerdì un'importante visita in Libano, concentrandosi sul rafforzamento dei legami con diversi gruppi, tra cui Hezbollah. La visita segue un viaggio in Siria, dove Amir-Abdollahian ha incoraggiato il presidente siriano Bashir al-Assad ad aumentare la pressione sugli Stati Uniti affinché si ritirino dal Paese. Secondo Tasnim News, un giornale filo-iraniano, durante i colloqui a Damasco il capo della diplomazia iraniana ha attribuito l'instabilità della Siria a Israele e ad altri "nemici".
Al-Mayadeen, un media vicino a Hezbollah, riferisce che Amir-Abdollahian ha incontrato a Beirut anche i leader di Hamas e della Jihad islamica palestinese. Durante questi colloqui a porte chiuse, il ministro iraniano ha ribadito l'impegno di Teheran per la causa palestinese.
Hossein Amir-Abdollahian e Hassan Nasrallah
Il capo della diplomazia iraniana ha incontrato anche Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, con il quale ha discusso della situazione geopolitica in Libano e della crescente influenza del gruppo terroristico. Nasrallah ha avvertito Israele di non commettere "errori di calcolo", sottolineando l'ascesa dei gruppi sostenuti dall'Iran nella regione.
Uno degli obiettivi della visita di Amir-Abdollahian è quello di contribuire a porre fine alla crisi politica in Libano, attualmente senza presidente. Amir-Abdollahian ha avuto colloqui con Nabih Berri, presidente del Parlamento libanese, sul sostegno economico dell'Iran al Libano, in particolare nel settore dell'elettricità.
La visita del ministro iraniano arriva un giorno dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato l'intenzione di esplorare le modalità di risoluzione della disputa sui confini tra Libano e Israele. Amos Hochstein, consigliere senior della Casa Bianca, ha trascorso due giorni in Libano, visitando il sud del Paese per valutare le condizioni necessarie per un potenziale accordo.

(i24, 2 settembre 2023)

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Rinnovato il mandato all’Unifil, con l’articolo 16 contestato da Hezbollah

Libano/Israele - Il movimento sciita chiedeva di limitare la libertà di movimento ai caschi blu dell'Onu senza l'autorizzazione dell'esercito libanese. Per Israele è una mezza vittoria. Rinnovato il mandato all’Unifil, con l’articolo 16 contestato da Hezbollah.

di Michele Giorgio

Con 13 voti favorevoli e due astensioni – Russia e Cina – giovedì sera il Consiglio di Sicurezza (CdS) dell’Onu ha approvato la risoluzione 2695, rinnovando per un altro anno il mandato del contingente peacekeeping Unifil lungo il confine tra Libano e Israele ma all’interno del territorio del paese arabo. L’esito del voto, accolto con soddisfazione dal governo israeliano e dagli Usa, differisce dal rinnovo dello scorso anno. Nel 2022 i membri del Consiglio di Sicurezza votarono all’unanimità per continuare la missione di circa 10mila caschi blu (1100 dei quali italiani) di 49 paesi, che in numero maggiore rispetto a quelli della Unifil originaria nata nel 1978, furono dispiegati sulla Linea Blu tracciata dall’Onu al termine dell’invasione israeliana del Libano del sud nell’estate del 2006. L’attacco di Israele – che dal 12 luglio al 14 agosto bombardò massicciamente il Libano facendo circa 1300 morti tra i libanesi (tra cui numerosi civili) e 165 tra gli israeliani (in prevalenza soldati) – scattò dopo l’uccisione sul confine di otto soldati dello Stato ebraico e la cattura di altri due da parte dell’ala militare di Hezbollah.
   Con la loro astensione, Russia e Cina hanno voluto segnalare la loro vicinanza al Libano che aveva chiesto di eliminare l’articolo 16 dal testo del mandato, relativo alla libera circolazione di mezzi e soldati dell’Unifil senza il permesso dell’esercito del paese dei cedri. Il voto è avvenuto in un contesto di forti tensioni sul confine. Da mesi si parla di una nuova guerra tra Israele ed Hezbollah, una sorta di «rivincita» dopo la sconfitta che secondo il movimento sciita e alcuni osservatori Israele avrebbe subito nel 2006.
   Con il voto di due giorni fa, l’Unifil può continuare a «condurre le proprie operazioni in modo indipendente». Dovrà «coordinarsi con il governo» di Beirut ma non con l’esercito libanese. Per evidenti ragioni diplomatiche, il primo ministro ad interim Najib Mikati si è detto abbastanza soddisfatto per il «coordinamento» tra il suo governo e l’Unifil. In casa Hezbollah l’umore è ben diverso. Il testo infatti afferma che tutte le parti dovranno consentire ai caschi blu di condurre «pattuglie annunciate e non annunciate» senza «alcuna restrizione e ostacolo al movimento del personale Unifil». Non siamo all’Unifil come forza armata incaricata di dare la caccia alle armi di Hezbollah come vorrebbe Israele, però l’articolo 16 del mandato è duro da digerire dalla leadership sciita. Ora si attende il prossimo discorso in diretta tv del segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, però il partito sciita ha già fatto sapere che il testo del mandato resterà «inchiostro su carta» se l’Unifil non si coordinerà con l’esercito libanese e rispetterà la sovranità del paese. «Non importa come sia formulata la risoluzione, non cambierà nulla sul terreno», ha sentenziato l’opinionista Yahiya Dabouq sul quotidiano di sinistra al-Akhbar (pro-Hezbollah).
   Nasrallah intanto incassa il sostegno che il Libano ha avuto all’Onu da Cina e Russia, frutto anche, spiega qualcuno, dello scontro in atto con Washington e l’Occidente. «La Cina si rammarica della mancanza di rispetto per la sovranità libanese» e di considerazione per «le violazioni lungo il confine», ha detto il rappresentante di Pechino riferendosi a recenti azioni dell’esercito israeliano. Da notare il voto a favore del rinnovo senza emendamenti da parte degli Emirati, alleato di ferro di Israele nel Golfo. L’ambasciatrice Lana Nusseibeh ha accusato Hezbollah «di essersi fatto beffe della risoluzione Onu 1701 (del 2006) e di non aver consentito libertà di movimento all’Unifil».

(il manifesto, 2 settembre 2023)


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ONU: problemi in Consiglio di sicurezza, Russia e Cina contro

di Aurora Gatti

Il voto in Consiglio di sicurezza sul rinnovo della missione ONU in Libano ha fatto emergere una serie di problematiche e conseguenti polemiche all'interno del Consiglio di Sicurezza dell'ONU.

Mentre Russia e Cina si sono astenute, hanno votato a favore del rinnovo della missione in Libano per un anno 13 paesi, compresi gli Emirati Arabi Uniti, che hanno svolto un ruolo significativo nello spingere per l’adozione di un “linguaggio più forte” riguardo alla “libertà di movimento” dell’UNIFIL. Il mandato approvato prevede che alla forza sia consentito effettuare "pattuglie annunciate e non annunciate" senza previa approvazione da parte di alcuna autorità, compreso l'esercito libanese, ma le sue attività richiederanno "il coordinamento con il governo libanese".
  Uno dei punti controversi è che l'inviato israeliano presso l'ONU è riuscito a persuadere il rappresentante degli Emirati Arabi Uniti a votare a favore dell'estensione della presenza dell'UNIFIL in Libano secondo una bozza che si allinea con gli interessi di "Tel Aviv", hanno riferito i media israeliani. Secondo il corrispondente politico dell'emittente Kan, le opinioni sul testo proposto sono rimaste al centro della questione tra diversi paesi fino all'ultimo momento della sessione, poco prima della votazione.
  "Ci sono state differenze di opinioni" che hanno causato l'estremo ritardo, ha detto Gili Cohen, aggiungendo che un certo numero di partiti "ha fatto ogni tentativo per influenzare la missione dell'UNIFIL" e i parametri operativi. Cohen ha spiegato che questo è stato "il risultato degli sforzi diplomatici intrapresi dall'ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, quando è riuscito a ottenere il voto degli Emirati Arabi Uniti" a favore della formula più adatta all'entità.
  Dal canto suo, Mosca è preoccupata per la tendenza dei rappresentanti di USA, Regno Unito e Francia "ad abusare dei loro poteri nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite", anche per quanto riguarda gli sforzi di mantenimento della pace. Lo ha detto il ministero degli Esteri russo dopo che il Consiglio ha adottato una risoluzione per estendere il mandato della Forza provvisoria delle Nazioni Unite in Libano.
  "Per la prima volta il documento non è stato adottato all'unanimità poiché Russia e Cina si sono astenute dal votare la proposta preparata dalla Francia, garante informale del dossier", ha precisato il ministero in una nota. "Questa decisione è stata dettata dal fatto che il documento finale non è riuscito a riflettere un compromesso che avrebbe tenuto conto della posizione e dell'opinione del Libano come paese che ospita la forza di mantenimento della pace delle Nazioni Unite sul suo territorio".
  "In genere, la tendenza generale dei rappresentanti della troika occidentale nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Stati Uniti, Francia e Regno Unito) ad abusare dei loro poteri di supervisori informali del dossier al fine di promuovere le proprie opinioni politiche, anche nel campo del mantenimento della pace, è motivo di preoccupazione", si legge nella nota.

(Osservatorio sulla legalita' e sui diritti, 2 settembre 2023)

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Le responsabilità del giornalismo (anche) italiano nel perpetuare stereotipi e odio contro Israele

di Paolo Salom

Un anno si chiude, uno nuovo si apre. Il mondo continua a girare inseguendo fantasmi. Vi faccio un esempio. Da gennaio si sono moltiplicati gli attentati contro civili israeliani, in Giudea e Samaria come a Gerusalemme e Tel Aviv. Accoltellamenti, sparatorie, auto lanciate contro inermi passanti. Decine di famiglie sono state gettate nel dolore e nell’angoscia. Spesso, se non sempre, gli autori – arabi palestinesi celebrati come eroi nelle strade delle loro città – sono stati arrestati o uccisi. Ci sono stati scontri armati tra l’esercito di Israele e i gruppi terroristici responsabili di questi atti codardi e inumani: perché assassinare un inerme all’improvviso non è altro che un gesto bestiale. Dunque, nel provare a reprimere questa ondata di attentati, i morti tra i nemici sono stati numericamente più alti. Qualche volta, nonostante tutte le precauzioni dei soldati israeliani, loro sì veri eroi, qualche civile incolpevole ci è andato di mezzo. Questo è quanto è successo: gli arabi palestinesi hanno compiuto attentati mortali e gli israeliani hanno risposto con precisione e responsabilità.
  Nulla di diverso da quello che è accaduto per decenni e che accadrà, ahimè, ancora a lungo. Perché ve lo racconto? Perché riportando uno di questi episodi, il Tg3, ovvero un telegiornale finanziato con i soldi di tutti gli italiani, almeno di quelli che pagano il canone, ha spiegato che un “attentato avvenuto a Tel Aviv, dove un palestinese si è lanciato con la sua auto contro una fermata dell’autobus e poi è sceso brandendo un coltello per finire le persone che aveva investito, è stata una risposta all’operazione dell’esercito a Jenin”. Sì, avete letto bene, la giornalista – di cui fortunatamente non ricordo il nome – ha detto proprio queste esatte parole: un attentato contro civili inermi, in una strada di Tel Aviv, il coltello brandito contro persone che badavano ai propri affari, è stato messo sullo stesso piano di un’operazione dell’esercito contro miliziani armati responsabili di azioni atroci. È come se qualcuno, evidentemente in preda ad allucinazioni, spiegasse che la strage perpetrata in una scuola negli Stati Uniti “è una risposta alle azioni dell’esercito americano” in qualche oscura regione del mondo. Paragone forzato? Forse. Ma in quale altro universo si può mettere sullo stesso piano chi uccide esseri inermi e chi li protegge? L’odio nei confronti di Israele è qualcosa che ormai ha valicato ogni confine di decenza. Capisco che Al Jazeera, la tv satellitare pagata dal governo del Qatar, abbia dei pregiudizi e racconti gli eventi sempre in maniera distorta: è il loro mestiere. Ma per quale ragione su un canale della televisione di Stato italiana, un servizio pubblico ancorché viziato dalla politica, si arriva a distorcere i fatti con tanta spregiudicatezza? In Israele c’è un conflitto. È chiaro ed evidente a tutti. Ma non è certamente con queste parole vergognose che si può aiutare il pubblico a capire. Così si perpetuano gli stereotipi, i pregiudizi e l’odio antico quanto questa cosiddetta civiltà. Non mi stancherò mai di ripeterlo.
Shanà tovà a tutti voi.

(Bet Magazine Mosaico, 1 settembre 2023)

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Scoperte due misteriose strutture nel complesso archeologico della Città di David

di Luca Spizzichino

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Due strutture uniche, risalenti al periodo del Primo Tempio, sono state portate alla luce dagli archeologi nel sito della Città di David, lo ha annunciato mercoledì l'Autorità israeliana per le antichità (IAA). Lo scavo è stato effettuato da ricercatori dell'IAA e dell'Università di Tel Aviv, finanziati dalla Fondazione Elad.
  Secondo i ricercatori, le strutture potrebbero far parte dell'area commerciale della città, vista la loro vicinanza al palazzo reale e al Tempio. I ricercatori hanno faticato a individuarne l’uso preciso poiché nessun sito del genere è mai stato trovato in Israele.
  “Gli escavatori hanno scoperto la prima installazione all’estremità nord-orientale dello scavo del Parcheggio Givati, che comprende una serie di almeno nove canali. In cima alla scogliera rocciosa, che racchiude l’installazione a sud, si possono trovare sette tubi di drenaggio, che trasportavano i liquidi dalla cima della scogliera all’installazione del canale”, ha detto l’IAA nella sua descrizione del sito archeologico. Il secondo sito invece comprende cinque canali.
  Il dottor Yiftah Shalev, ricercatore senior presso l'IAA, ha affermato che gli sforzi per identificare lo scopo esatto del sito sono stati infruttuosi. “Abbiamo portato sul posto diversi esperti per vedere se c'erano residui nel terreno o nella roccia non visibili a occhio nudo e per aiutarci a capire cosa scorresse o ci fosse nei canali. - ha spiegato al Times of Israel - Volevamo verificare se c'erano resti organici o tracce di sangue; quindi, abbiamo anche chiesto l'aiuto dell'unità forense della polizia e di altri ricercatori in tutto il mondo, ma finora senza alcun risultato".
  Secondo Shalev un possibile utilizzo dei due siti potrebbe essere stato quello di immergere prodotti, come il lino per la produzione di biancheria. "Un'altra possibilità è che i canali contenessero datteri che venivano lasciati fuori per essere riscaldati dal sole allo scopo di produrre silan (miele di datteri)” ha ipotizzato, spiegando come installazioni simili siano state scoperte in luoghi lontani come Oman, Bahrein e Iran.
  Il professor Yuval Gadot, del dipartimento di Archeologia e Civiltà del Vicino Oriente antico dell'Università di Tel Aviv, ha affermato che il sito era in uso fino ai giorni dell'ottavo e del nono re della Giudea, Joash e Amaziah. "Questa è un'epoca in cui sappiamo che Gerusalemme copriva un'area che comprendeva la Città di Davide e il Monte del Tempio, che fungeva da cuore di Gerusalemme", ha detto Gadot. "La posizione centrale dei canali, vicino alle zone più importanti della città, ci indica che il prodotto realizzato utilizzandoli era collegato all'economia del Tempio o del palazzo".
  “Di tanto in tanto ci imbattiamo in reperti sorprendenti ed enigmatici che ci sfidano e suscitano l’interesse della ricerca. - ha sottolineato il direttore dell'IAA Eli Escusido - Con la collaborazione con altre istituzioni risolviamo questi misteri e facciamo avanzare la nostra conoscenza delle società del passato”.
   Il sito sarà aperto al pubblico la prossima settimana come parte del 24° evento “City of David Studies of Ancient Jerusalem”.

(Shalom, 1 settembre 2023)

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il volo diretto a Tel Aviv atterra in Arabia Saudita

Un problema tecnico che segna la storia

di Sofia Tranchina

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Un problema tecnico che segna la Storia: martedì pomeriggio un Airbus 320 di Air Seychelles, decollato dall’arcipelago africano e diretto a Tel Aviv, ha dovuto effettuare un atterraggio di emergenza in Arabia Saudita con 128 passeggeri israeliani a bordo.
   Un problema elettrico ha fatto improvvisamente piombare nel buio una parte del velivolo, costringendolo alla manovra.
   «Quando sul volo hanno annunciato che saremmo atterrati in Arabia Saudita, è stato davvero spaventoso», ha detto la passeggera Sharon Licht Patren a Kan, l’emittente radiotelevisiva pubblica israeliana. «Non era chiaro cosa sarebbe successo».
   Dopo l’atterraggio, i passeggeri non hanno ottenuto subito l’autorizzazione di scendere dal mezzo, rimanendo così bloccati a bordo per tre ore in attesa di indicazioni, senza elettricità né servizi igienici.
   Per gestire l’incidente e occuparsi della sicurezza dei passeggeri, il direttore generale del Dipartimento per gli Israeliani all’Estero ha dovuto valutare la situazione con i funzionari competenti e le autorità. 
   Benché dal 2020 l’Arabia Saudita sia un possibile candidato per l’espansione degli Accordi di Abramo, agli israeliani rimane ufficialmente vietato viaggiare in Arabia Saudita. Un anno fa la monarchia islamica saudita ha dato il via libera per aprire il proprio spazio aereo ai voli da e per Israele, designando Gedda come scalo alternativo di emergenza, ma questa è la prima volta che un aereo pieno di israeliani atterra nel Paese.
   Una volta deciso che i passeggeri avrebbero passato la notte in un albergo vicino all’aeroporto, i locali li hanno accolti con calore, organizzando al meglio il loro soggiorno.
   Per ringraziare per la collaborazione, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha inviato una nota: «apprezzo molto il trattamento caloroso delle autorità saudite nei confronti dei passeggeri israeliani il cui aereo è stato costretto a effettuare un atterraggio di emergenza a Gedda. Sono felice che tutti stiano tornando a casa. Apprezzo molto il buon vicinato».
   La mattina del giorno seguente un velivolo è arrivato da Dubai per portare i passeggeri in Israele, segnando così il primo volo diretto dall’Arabia Saudita a Israele.
   All’inizio di quest’anno, le due nazioni stavano discutendo per consentire voli diretti per la Mecca.
   Il ministro degli Esteri Eli Cohen, durante un incontro nel Negev con i beduini, ha detto di voler raggiungere entro il prossimo marzo un accordo per permettere agli arabi israeliani (che costituiscono il 20% della popolazione) di compiere facilmente l’annuale pellegrinaggio ḥajj: «noi non siamo i loro nemici, siamo i loro partner. Il loro nemico è l’Iran» ha detto Kan.
   Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha anche affermato che sarebbe «molto felice di vedere milioni di turisti dal mondo arabo venire in Israele».
   Ma l’accordo non è ancora andato in porto.

(Bet Magazine Mosaico, 1 settembre 2023)

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«Hamas progetta di rapire israeliani all'estero»

Avvertimento del Consiglio di Sicurezza Nazionale

Il Consiglio di Sicurezza Nazionale di Israele ha emesso giovedì un avvertimento aggiornato sui viaggi all'estero in vista delle festività di Tishri.
   Il Consiglio avverte della notevole probabilità che sia Hamas che la Jihad islamica cerchino di rapire israeliani o ebrei all'estero come merce di scambio con Israele.
   Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha dichiarato pubblicamente che "Hamas non rifiuta l'opzione del rapimento. Abbiamo quattro prigionieri nelle nostre mani e se questo non è sufficiente a convincere Israele a fare uno scambio, allora cattureremo altri israeliani attraverso le nostre filiali in tutto il mondo".
   Queste minacce sono quindi prese molto sul serio.
   Il Consiglio di sicurezza nazionale ritiene inoltre che il rischio di attacchi contro obiettivi israeliani sia molto alto nei Paesi confinanti con l'Iran, come la Georgia e l'Azerbaigian, ma anche più ampiamente in Turchia e in tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Gli avvertimenti riguardano anche i Paesi dell'America Latina.
   Un avviso speciale è stato emesso per la Danimarca e la Svezia, che di recente sono entrate a far parte dell'elenco dei Paesi con un'accresciuta minaccia terroristica potenziale a causa di manifestazioni durante le quali sono state bruciate copie del Corano.
   Il Consiglio di sicurezza nazionale sottolinea che agli israeliani è vietato per legge recarsi in Paesi nemici come Libano, Siria, Iraq, Yemen e Iran. Questa regola si applica anche ai cittadini con doppia cittadinanza.
   Il Consiglio di Sicurezza Nazionale esorta i viaggiatori israeliani a consultare le raccomandazioni per le varie destinazioni prima di prendere il biglietto.

(LPH, 1 settembre 2023)z

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Tel Aviv, in servizio la prima metropolitana di Israele

La linea della metropolitana, chiamata  “Linea Rossa”, sarà in grado di alleggerire il traffico a Tel Aviv. I treni passeranno ogni 6 minuti.

Sarà decisamente più facile spostarsi a Tel Aviv. La vivace città, cuore economico di Israele, ha inaugurato la sua prima metropolitana denominata “Linea Rossa”.
   Il nuovo sistema di trasporto servirà una popolazione di oltre un milione di abitanti, inclusi quelli che abitano nei sobborghi periferici circostanti.

LA LINEA DELLA METROPOLITANA

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La rete ferroviaria, che conta ben 34 stazioni di cui 10 sotterranee, collegherà il sobborgo nord-orientale di Petah Tikva con Bat Yam a sud, per una tratta lunga circa 24 chilometri. Un modo rapido piuttosto semplice di muoversi. E anche economico: i biglietti costeranno l’equivalente di 1,20 €.
   Il progetto di costruire una metropolitana a Tel Aviv, la prima nel Paese, risale al 2013. L’obiettivo, dopo imponenti lavori, è stato finalmente raggiunto e permetterà ai cittadini e ai turisti di spostarsi da un punto ad un altro del centro urbano in poco tempo, evitando code sulle strade.  

LA FREQUENZA DEI TRENI

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I primi tre treni hanno ufficialmente iniziato il servizio lungo la “Linea Rossa” il 18 agosto scorso. Un giorno che inevitabilmente segna una svolta per la città e i suoi abitanti.
I treni passeranno ogni 6 minuti: ciò garantirà una connessione fluida ed efficiente, riducendo il traffico stradale e alleggerendo il carico che grava su altri mezzi pubblici.
   Anche per questo l’inaugurazione della “Linea Rossa” era molto attesa dai cittadini che, interessati e incuriositi dalla novità, hanno iniziato ad affollare le stazioni. Un modo, questo, per sperimentare di persona il nuovo sistema di trasporti.

LA SODDISFAZIONE DI KALANIT GOREN

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Kalanit Goren, direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano, ha sottolineato l’importanza della “Linea Rossa” “nell’evitare il traffico e nell’immergersi nell’innovazione tecnologica che la metropolitana rappresenta. Questa opera di ingegneria non solo migliorerà la mobilità dei cittadini, ma avrà anche un ruolo fondamentale nel plasmare il volto di Tel Aviv da un punto di vista urbanistico”.
   La stessa Goren ha anche aggiunto che non bisogna dimenticare la grande comodità di potersi spostare da una “sponda all’altra della città” in libertà ed autonomia per vivere una vacanza indimenticabile”.

(Latitudes Life, 1 settembre 2023)

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Cambiar nome a Brundageplatz

Non volle onorare gli 11 atleti israeliani uccisi a Monaco

di Roberto Giardina

Il presidente del CIO Avery Brundage pronuncia la frase: "The games must go on"
Continua la campagna per cambiare nome a strade e piazze, e abbattere monumenti, che onorano personaggi della storia poco degni. Spesso si esagera, e si vuole cancellare il passato, ma a Monaco non hanno torto quanti si sdegnano per la Brundageplatz, la piazza innanzi al parco e al villaggio olimpico, quelli dei giochi del 1972. La città deve a Avery Brundage (1887-1975) le Olimpiadi, ma era un razzista e un antisemita. Dopo l'attacco dei palestinesi di Settembre Nero al villaggio, e la morte di undici atleti israeliani, pronunciò la retorica frase «The games must go on», i giochi continuano, con i corpi delle vittime ancora all'obitorio, lo spettacolo conta più della tragedia. Brundage viene ricordato e onorato, ma solo di recente è stato eretto un monumento a Monaco per ricordare le vittime. I parenti degli atleti hanno ottenuto un risarcimento, quasi simbolico, solo perché rifiutavano di presenziare alle celebrazioni del 2022 per ricordare i 50 anni dei giochi.
   Bisognerebbe giudicare in rapporto ai tempi, altrimenti poco resterebbe della nostra storia, è ridicolo censurare Dante o Shakespeare, o cancellare Napoleone e Giulio Cesare perché feroci condottieri, ma c'è un limite. Il presidente dello Ioc, il Comitato olimpico internazionale, si battè perché i giochi fossero assegnati a Monaco, e le Olimpiadi tornarono in Germania dopo quelle assegnate a Berlino nel 1936, quelle di Hitler. Brundage era un ammiratore del Führer, di cui condivideva le idee. Si era opposto nel '34 al movimento che chiedeva di togliere i giochi al Reich, per lui era un complotto sionista, e dichiarò che il desiderio di Hitler di escludere gli atleti ebrei era accettabile: «Anche nel mio club a Chicago non sono ammessi».
   Per tragico paradosso, furono gli ebrei, americani e tedeschi, durante la Repubblica di Weimar, a battersi per la candidatura di Berlino, ma si sarebbe potuta cancellare la decisione dopo il '33. Sulle Olimpiadi sventolò la croce uncinata, furono un successo, e il mondo ammirò Hitler. La colpa di Brundage sarebbe stata relativa, difficile annullare quel che era stato deciso, ma cercò di esaudire i desideri di Hitler, con cui era d'accordo sulla supremazia ariana e condivideva il giudizio sugli ebrei.
   Non poté escludere, o non volle, gli atleti americani di colore, altrimenti avrebbe dovuto rinunciare a molte medaglie quasi sicure per gli Stati Uniti. Jesse Owens vinse quattro medaglie d'oro davanti a Hitler, che evitò di stringergli la mano. Ma evitò che fossero selezionati campioni e campionesse ebrei, imitando il III Reich. A Monaco, i contestatori ricordano che non gli diedero fastidio le svastiche, ma si scandalizzò nel 1968, quando a Città del Messico gli americani di colore, Tommie Smith e Juan Carlos, primo e terzo nei 200 metri, alzarono il pugno chiuso per protesta contro le discriminazioni razziali in Usa. Brundage ottenne la loro espulsione dal villaggio olimpico: «È un odioso gesto di un paio di negri che oltraggia la bandiera americana». Anche l'australiano Peter Norman, giunto secondo, rimase sul podio pur non alzando il pugno, e fu escluso dalla squadra olimpica nel 1972.
   «La piazza è un affronto a Israele e agli ebrei. Non è assolutamente accettabile», dichiara Christian Springer, uno degli iniziatori della protesta. «Abbiamo fatto uno sbaglio, e dobbiamo correggerlo», conclude. È appoggiato da Carmela Shamir, console di Israele a Monaco. Ludwig Spaenle, cristiano sociale, responsabile del governo regionale per l'antisemitismo, dichiara: «Con le sue parole, lo spettacolo continua, Brundage ha cancellato l'attentato e le vittime. Cambiare nome alla piazza è una seria richiesta». La decisione verrà presa in autunno. Negli Usa, un busto di Brundage è stato rimosso dall'Asian Art Museum di San Francisco. Willi Daume, presidente del comitato olimpico tedesco nel 1972, ricorda: «Era un nazista, orgoglioso di essere abbonato a tutti i giornali antisemitici». Brundage dopo i giochi rimase in Baviera, e nel '73 sposò la principessa Marianne von Reuss, che aveva quasi mezzo secolo meno di lui, era nata nel 1936, l'anno delle Olimpiadi di Berlino. Un matrimonio breve, Brundage morì a Garmisch nel 1975.

(ItaliaOggi, 1 settembre 2023)

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Da Israele i formaggi (in stile francese) che nascono nel deserto

La storia di Yotam e della sua fattoria di famiglia (con annesso ristorante) nel Negev, a metà strada tra Tel Aviv ed Eilat. I suoi prodotti li troverete a Cheese 2023.

di Maria Cristina Crucitti

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In Israele la terra è una faccenda seria. Lo è sotto innumerevoli profili storico-politico-culturali e lo è anche sotto il profilo agricolo. Tanto che avviare un’azienda agricola da zero può rivelarsi una vera e propria impresa. Come è accaduto ad Anat e Daniel che, neolaureati in agraria, negli anni ’90 erano in cerca di un luogo per stabilirsi e produrre formaggi con le loro 17 capre, ricevute come retribuzione di un tirocinio. Yotam, il figlio maggiore ventottenne, mi racconta che ci vollero circa 4 anni per trovare una soluzione: la terra in Israele è di proprietà dello Stato e viene concessa in usufrutto ai privati attraverso appositi contratti centenari tramandati di padre in figlio. L’accesso ai terreni agricoli è di conseguenza molto burocratizzato e vincolato.
  È così che l’idea iniziale della famiglia Kornmehl di stabilirsi nei boschi vicino a Gerusalemme ha finito per concretizzarsi solo nel 1997 in un appezzamento nel bel mezzo del deserto del Negev, grazie a un progetto dell’amministrazione locale, che ne concedeva l’uso per un periodo iniziale di 2 anni. Da allora l’azienda è cresciuta: oggi sono 99 le capre in lattazione e l’intera produzione casearia viene venduta nel negozio e nel piccolo ristorantino aziendale, aperti nel 2007 con l’idea di divulgare cultura del formaggio, cosa che può apparire strana nel deserto. Mi spiega Yotam che in realtà l’azienda è situata esattamente a metà strada sulla direttrice che porta da Tel Aviv a Eilat, sul Mar Rosso, luogo di vacanza e divertimento. Considerando anche i turisti che esplorano le bellezze del deserto, e gli appassionati dei formaggi di impronta francese di Daniel, gli avventori non mancano.
  Quando qualche anno fa Yotam espresse la volontà di lavorare in azienda, i genitori gli dissero che avrebbe potuto farlo a 2 condizioni: girare prima il mondo e studiare qualcosa. La sua scelta è caduta sull’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Frequenta al momento l'ultimo anno del corso triennale e ha in mente di scrivere una tesi sull’economia circolare per migliorare l’approvvigionamento di foraggi nella sua zona. Nonostante le capre di razza 1 Anglo-Nubiana si adattino bene all’ambiente del deserto, hanno bisogno di una razione completa di fieno e cereali per la lattazione, tutto chiaramente acquistato altrove da fornitori selezionati, così come farine, ortaggi e altri ingredienti necessari per la cucina del ristorante. L’acqua invece non è un problema, grazie al sistema di distribuzione idrica israeliano e a quello di riciclo aziendale utile per irrigare.
  Il deserto non è così male, mi dice Yotam. È remoto, ma comunque a 2 ore da Tel Aviv; ci sono meno servizi ma si vive meglio, liberi. Fa caldo, ma non troppo e al pomeriggio c’è la brezza che viene dal mare. Mi racconta anche che i problemi del Conflitto lì non arrivano. L’unico vero importante neo dell’isolamento dell’azienda è che la mette al di fuori delle dinamiche normative abituali. Solitamente i produttori agricoli sono organizzati in villaggi, i quali beneficiano di contratti di usufrutto dei terreni a lungo termine. Il loro caso è un’eccezione e da 26 anni la famiglia kornmehl vive in un’abitazione amovibile, ancora in attesa di un contratto che gli garantisca la sicurezza di poter restare. Yotam è un ragazzo intraprendente e pieno di progetti: in futuro si vede a condurre la fattoria di famiglia nel Negev e a creare una rete di aziende agricole virtuose della zona, terra permettendo. Se vi va, lo potete incontrare a Cheese 2023, in degustazione in un laboratorio, dove in un ottimo italiano ci farà assaggiare i formaggi del deserto della Kornmehl farm.

(la Repubblica, 1 settembre 2023)

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Parashà di Ki Tavò: Dove sono oggi i leviti?

di Donato Grosser

Questa parashà inizia con la mitzvà di portare di anno in anno le primizie al Bet Ha-Mikdàsh a Gerusalemme (Devarìm, 26: 1-2) e prosegue con la mitzvà  di dare la decima ai poveri, orfani e vedove, nel terzo anno e nel sesto anno del ciclo di sette anni. 
     Ogni anno vi era la mitzvà di dare la terumà (in media un cinquantesimo del raccolto) al kohèn e poi la prima decima al levita. Una seconda decima del raccolto doveva venire consumata a Gerusalemme dal padrone del podere o da altri. Nel terzo e nel sesto anno, questa seconda decima doveva essere sostituita da una decima destinata ai poveri. Il settimo anno era l’anno di shemità (di remissione) e il raccolto doveva essere messo a disposizione di tutti e pertanto non vi era l’obbligo delle decime. Nella Torà il terzo e il sesto anno sono chiamati “shenàt ha-ma’asèr”, l’anno della decima. 
    R. Naftali Tzvi Yehudà Berlin (Belarus, 1816-1893, Varsavia) nel suo commento Ha’amèk Davàr (ibid., 26:12) spiega che il terzo anno viene chiamato “anno della decima” anche se la prima decima viene data al levita ogni anno, perché la prima decima data al levita non era una donazione come la decima data ai poveri. La decima data al levita era a lui dovuta in cambio del fatto che la tribù di Levi era stata destinata al servizio nel tabernacolo e poi del Bet Ha-Mikdàsh a Gerusalemme. Per questo motivo la tribù di Levi non aveva ricevuto un territorio proprio e abitava dispersa nelle città delle altre tribù.
    Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel Mishnè Torà (Sèfer Zera’im, Hilkhòt Shemità ve-Yovèl, cap. 12:12) spiega qual era il ruolo della tribù di Levi: “Perché [la tribù di] Levi  non ricevette una parte di Eretz Yisrael e del bottino di guerra come i loro fratelli? Perché fu destinata al servizio di Dio, a servirLo e a insegnare al pubblico i comportamenti da seguire e le Sue giuste leggi, come è detto: «Insegneranno i tuoi statuti a Ya’akòv e la tua Torà a Israele» (Devarìm, 33:10). Pertanto furono separati dalla vita mondana. Non fanno la guerra come il resto del popolo ebraico, né ricevono proprietà terriera o acquisiscono con la forza. Sono invece l’esercito di Dio...”. 
     Ed oggi allora, che non abbiamo più i leviti che istruiscono il popolo, chi coltiva lo studio della Torà per insegnarlo a Israele? 
     La risposta viene dal Maimonide stesso che alla fine del capitolo (par. 13) aggiunge: “Non solo la tribù di Levi, ma qualunque abitante del mondo il cui spirito generoso e la mente hanno fatto sì che desideri separarsi [dalle cose mondane] e servire l’Eterno per conoscerne gli insegnamenti, procedendo con rettitudine come Dio lo ha creato, rimuovendo da sé il giogo dei molti artifici che le persone cercano,  si è distinto con grande kedushà. Dio sarà la sua porzione ed eredità per sempre e fornirà ciò che è sufficiente per lui in questo mondo, come Egli provvede i sacerdoti e i leviti.... 
     Chi sono quindi oggi coloro che hanno assunto su di sé il compito della tribù di Levi di studiare gli insegnamenti dell’Eterno e di insegnarli al pubblico? Sono coloro che a Gerusalemme, a Benè Beràk, a Har Etziòn e nella Diaspora vivono senza lussi e si dedicano allo studio della Torà, mantenendo lo spirito ebraico e assicurando così il futuro del popolo d’Israele. 

(Shalom, 1 settembre 2023)
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Parashà della settimana: Ki Tavò (Quando sarai entrato)

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