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Notizie 16-30 settembre 2025


Il piano di Trump segna la vittoria di Israele

di Ugo Volli 

Il consenso generale
   È davvero un passo storico il piano annunciato ieri da Trump e Netanyahu. Esso annuncia la via d’uscita dalla guerra scatenata due anni fa da Hamas con il sostegno dell’Iran, segnando una piena vittoria israeliana. Alla conferenza stampa dei due leader è rapidamente seguita una dichiarazione formale di appoggio dei maggiori stati islamici (Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati, Turchia e anche il più popoloso paese musulmano del mondo, l’Indonesia e il più forte militarmente, il Pakistan). Perfino l’Autorità Palestinese ha dichiarato il suo consenso, anche se l’accordo la taglia fuori dalla gestione di Gaza fino a una riforma profonda e “reale non fatta di parole”, come ha detto Netanyahu ieri sera e cioè comprendente la “fine del pagamento degli stipendi ai terroristi, fine dell’incitamento anti-israeliano nelle scuole e nei media, fine dell’appoggio alla ‘lotta armata’, democratizzazione e fine della corruzione”. In Europa hanno approvato il piano il governo italiano (per primo), quello francese, quello inglese e diversi altri.

Perché Israele ha vinto
   Come ha dichiarato il Segretario del gabinetto israeliano Yossi Fuchs, il 7 agosto 2025 il governo aveva stabilito cinque condizioni per porre fine alla guerra: 1. Il ritorno di tutti gli ostaggi, sia vivi che caduti. 2. Il disarmo di Hamas. 3. La smilitarizzazione della Striscia di Gaza. 4. Il controllo di sicurezza israeliano sulla Striscia di Gaza. 5. Un’amministrazione civile alternativa che non sia né Hamas né l’Autorità Palestinese. Tutte questa condizioni sono soddisfatte nel piano di Trump, certamente perché non è uscito dalla solita macchina delle trattative che funzionava cercando di far pressione su Israele per fargli accettare la condizioni di Hamas. Questa volta il processo è stato inverso: c’è stato prima l’accordo con Israele e ora Hamas ha la scelta fra accettarlo o essere completamente distrutta da Israele, con l’approvazione dell’America e senza la protezione dei suoi alleati, a parte l’Iran che in questo memento ha il suo daffare ad affrontare le nuove pesantissime sanzioni. La reazione del gruppo terrorista non è ancora nota. Il piano comunque prevede la sua realizzazione anche in caso di rifiuto di Hamas. Dall’inizio della guerra non era mai stata presentata alcuna proposta che includesse il ritorno di tutti gli ostaggi contemporaneamente, insieme al mantenimento del controllo della Striscia di Gaza da parte delle IDF e alla garanzia della sicurezza dello Stato di Israele. E per quanto riguarda l’opposizione israeliana a uno Stato palestinese, questa è soddisfatta; il piano non lo istituisce, il Presidente Trump ha dichiarato esplicitamente di rispettare la posizione israeliana. Le manovre tentate all’Onu da Francia, Gran Bretagna e altri stati sono rese completamente inutili, il premio che Hamas giustamente vi vedeva per la sua azione criminale non ci sarà. Anche la richiesta di una riforma vera dell’Autorità Palestinese, al momento impossibile, la mette fuori gioco, come Israele voleva. È poi completamente tagliata fuori e si mostra vacua e anacronistica anche tutta la mobilitazione delle sinistre pro Hamas, dalle piazze alla flottiglia. La canea anti-israeliana e antisemita continuerà probabilmente ancora per qualche tempo, ma non ha più una prospettiva di impatto reale.

Le conseguenze sul Medio Oriente
   Trump ha molto sottolineato nel suo discorso che il piano non ambisce solo a concludere i combattimenti a Gaza, ma vuole disegnare un nuovo Medio Oriente, con collaborazioni larghe che avranno grandi effetti economici e politici sul mondo intero. Il progetto di un nuovo Medio Oriente pacifico e collaborativo fra stati che si riconoscono a vicenda senza rivendicazioni era del resto implicito nei patti di Abramo, molto citati nella conferenza stampa, e che ora saranno probabilmente nella condizione di espandersi all’Arabia Saudita e più in là “fino all’Iran” se esso cambierà regime e politica, come ha predetto Trump. Proprio contro questi patti e la pace regionale che cercava Israele era stato scatenato il 7 ottobre, con l’intento di portare tutto il mondo arabo e musulmano a combattere e distruggere Israele. Il risultato ora è l’inverso: uno schieramento di tutti i paesi della regione che accettano di stringere una pace con lo Stato ebraico e di ragionare su un futuro comune. Questa è la vittoria più influente per il futuro, perché rompe anche le strategie anti-occidentali di Cina e Russia, con conseguenze che andranno dall’Ucraina a Taiwan. Bisogna dire che questa vittoria diplomatica non sarebbe stata possibile senza le vittorie militari di Israele, senza la distruzione di Hezbollah, senza i bombardamenti che hanno disabilitato il progetto di armamento nucleare dell’Iran, senza il coraggio di sfidare il consenso internazionale e portare vittoriosamente la battaglia su Gaza, prima sull’asse Filadelfia e su Rafah, ora su Gaza City, senza anche l’incursione su Doha, che ha fallito nell’eliminare i capi di Hamas ma è riuscita a mostrare la determinazione di Israele per distruggere le minacce. Tutte queste operazioni sono state scelte imposte da Netanyahu, spesso contro il parere dei vertici della sicurezza e degli amici (o presunti tali) occidentali. Oggi è tutta sua la decisione di aderire al piano di Trump, anche in questo caso contro l’opposizione di parti del governo.

Le reazioni in Israele
   Per arrivare a questo punto Israele ha già pagato un grande prezzo di sangue, con tutti i suoi caduti e i danni della guerra, e ne paga un altro dovendo liberare numerosi condannati per delitti di terrorismo anche sanguinosi e rinunciare a parte delle aspettative conseguenti alla vittoria, come la dichiarazione di sovranità su parti della Giudea e Samaria o la conquista definitiva di parti di Gaza che alcuni nella maggioranza volevano. L’esercito resterà a tempo indeterminato una zona cuscinetto e avrà la possibilità di intervenire se vi saranno a Gaza concentrazioni terroristiche, come già accade nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese. Ma non basta. La presenza di un’amministrazione internazionale diretta da Trump con Tony Blair e di truppe internazionali è una garanzia del processo di deradicalizzazione e di disarmo totale che è necessaria. Il piano ha soddisfatto il Likud, i partiti di riferimento degli Haredim, Gantz, Lapid, Eisenkot. Esiste una maggioranza parlamentare per sostenerlo. Sembra che Netanyahu non lo sottoporrà alla riunione di governo che si terrà questa sera dopo il suo ritorno, ma chiederà una votazione quando si metterà in pratica la liberazione degli ostaggi. Fino al momento in cui scrivo, Ben Gvir e Smotrich non hanno preso posizione. Avevano minacciato di uscire dal governo, ma non è detto che lo faranno. In silenzio sono rimasti anche gli avversari di Netanyahu che vengono da destra, innanzitutto Bennett e Lieberman. Senza dubbio se il piano si realizzerà anche la politica interna israeliana dovrà aprire una nuova pagina.

(Shalom, 30 settembre 2025)


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Il piano di Trump per Gaza: speranza o illusione?

Il corrispondente di Israel Geute Itamar Eichner parla della nuova iniziativa del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, di Hamas e del futuro di Gaza.

di Itamar Eichner 

GERUSALEMME - In una conferenza stampa dall'atmosfera surreale tenutasi a Washington, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha presentato un nuovo piano di pace per porre fine alla guerra tra Israele e Hamas, basato sulla mediazione del Qatar e dell'Egitto. Il cosiddetto “documento programmatico” comprende 20 punti e mira a consentire il rilascio di tutti gli ostaggi, la smilitarizzazione della Striscia di Gaza e la creazione di una nuova struttura di governo. Mentre il Qatar ha segnalato agli americani che Hamas potrebbe accettare, i leader di Hamas e della Jihad islamica hanno espresso profondo scetticismo. La domanda centrale rimane: Hamas accetterà l'offerta e, in caso affermativo, a quali condizioni?

I 20 punti di Trump in sintesi

  1. Deradicalizzare Gaza: la Striscia deve diventare una zona libera dal terrorismo che non rappresenti più una minaccia per i paesi vicini.
  2. Ricostruzione per la popolazione: Gaza sarà ricostruita nell'interesse della sua popolazione, che ha sofferto a lungo.
  3. Cessazione immediata delle ostilità: se entrambe le parti acconsentono, la guerra cesserà immediatamente. Israele si ritirerà sulle linee concordate e tutte le operazioni militari saranno sospese.
  4. Rilascio degli ostaggi entro 72 ore – Tutti gli ostaggi, vivi o morti, devono essere restituiti previo consenso di Israele.
  5. Scambio di prigionieri – Dopo il rilascio di tutti gli ostaggi, Israele rilascerà 250 persone condannate all'ergastolo e 1.700 arrestate dopo il 7 ottobre 2023. Per ogni cadavere di ostaggio israeliano saranno consegnati 15 cadaveri palestinesi.
  6. Amnistia e ritiro sicuro – I membri di Hamas che puntano alla convivenza pacifica e consegnano le armi otterranno l'amnistia. Chi desidera lasciare il Paese riceverà un scorta sicura.
  7. Aiuti umanitari – Fornitura immediata di acqua, elettricità, medicinali, generi alimentari, attrezzature ospedaliere e per panifici, nonché attrezzature per la rimozione delle macerie.
  8. Distribuzione da parte di organizzazioni internazionali – Gli aiuti umanitari saranno distribuiti dall'ONU, dalla Croce Rossa/Mezzaluna Rossa e da altre istituzioni; apertura del valico di Rafah secondo il meccanismo del 19 gennaio 2025.
  9. Amministrazione provvisoria – Un comitato palestinese tecnocratico e imparziale assume l'amministrazione. Supervisione da parte di un “Board of Peace” internazionale presieduto da Donald Trump (con Tony Blair, tra gli altri).
  10. Piano economico di Trump – Un comitato di esperti sviluppa un piano di ricostruzione sul modello delle moderne “città miracolose” del Medio Oriente, al fine di creare investimenti e posti di lavoro.
  11. Zona economica speciale – Istituzione di una zona con vantaggi doganali e commerciali, negoziata con gli Stati partecipanti.
  12. Libera scelta – Nessuno sarà costretto a lasciare Gaza; chi se ne va potrà tornare in qualsiasi momento. Obiettivo: le persone devono rimanere e costruire un futuro migliore.
  13. Nessun ruolo per Hamas – Hamas e altre fazioni non possono assumere alcun ruolo di governo. Tutte le infrastrutture militari (tunnel, fabbriche di armi) vengono distrutte. Disarmo con controllo internazionale, riacquisto e reintegrazione.
  14. Garanzie regionali – Gli Stati partner garantiscono che Hamas e altri gruppi rispettino i loro impegni e che Gaza non rappresenti più una minaccia.
  15. Forza internazionale di stabilizzazione (ISF) – Una forza internazionale sarà di stanza a Gaza, addestrerà le forze di polizia palestinesi e lavorerà a stretto contatto con Egitto, Giordania e Israele. Obiettivo: nessuna fornitura di armi, ma flusso sicuro delle merci.
  16. Ritiro graduale dell'IDF – Israele non annetterà né occuperà in modo permanente Gaza. Ritiro graduale, a seconda dei progressi in materia di sicurezza e disarmo. Un perimetro di sicurezza rimarrà in vigore fino alla completa stabilizzazione.
  17. Il piano procede anche senza l'approvazione di Hamas – Se Hamas ritarda o rifiuta, le misure di aiuto saranno attuate nelle aree controllate dall'ISF.
  18. Dialogo interreligioso – Un processo mira a cambiare gli atteggiamenti e le narrazioni da entrambe le parti, basandosi sulla tolleranza e sulla coesistenza pacifica.
  19. Prospettiva di autodeterminazione: se la ricostruzione procede e l'Autorità Palestinese attua le riforme, potrebbe aprirsi una strada credibile verso l'autodeterminazione e la statualità palestinese.
  20. Dialogo politico Israele-Palestina: gli Stati Uniti avvieranno colloqui per creare un orizzonte politico a lungo termine per la coesistenza pacifica.

Un progetto vago o un concetto incompleto?
   Il piano presentato da Trump è volutamente generico, per consentire ad Hamas di accettarlo senza impegni troppo concreti. Prevede il rilascio di tutti gli ostaggi – vivi o morti –, la distruzione di tunnel, officine di armi e missili, nonché l'istituzione di una nuova amministrazione, possibilmente con il coinvolgimento di un'Autorità Palestinese riformata. Tuttavia, mancano scadenze o tempistiche chiare, il che fa sorgere in molti osservatori il dubbio che si tratti piuttosto di una proposta “incompleta”, volta anche ad alimentare le ambizioni di Trump di ottenere il Premio Nobel per la Pace.
  Un alto funzionario di Hamas, Mahmud Mardawi, ha dichiarato ad Al Jazeera che le disposizioni sono “troppo simili alla posizione israeliana” e sono “vaghe e prive di garanzie”. Pur non escludendo un dialogo, ha sottolineato che Hamas discuterà prima le proposte con altre fazioni palestinesi. Ziad Nachala, segretario generale della Jihad islamica, ha invece respinto con decisione il piano, definendolo un “accordo americano-israeliano” che riflette gli interessi di Israele e “garantisce il proseguimento degli attacchi contro il popolo palestinese”.

Punti controversi: Stato palestinese e smilitarizzazione
   Un punto di conflitto fondamentale rimane la questione di uno Stato palestinese. Già nel suo primo mandato, Trump aveva sollevato la possibilità di uno Stato palestinese con il “piano del secolo” e ora ha nuovamente accennato indirettamente al suo consenso, tenendo sempre conto della posizione negativa del primo ministro Benjamin Netanyahu. Quest'ultimo ha ribadito il suo rifiuto di principio di uno Stato palestinese e ha ringraziato espressamente Trump per non averlo riconosciuto ufficialmente.
  Anche il ruolo futuro dell'Autorità palestinese rimane incerto. Sebbene il piano preveda una possibile partecipazione dopo riforme globali, Netanyahu ha posto condizioni molto rigide: niente più soldi per i terroristi, niente più incitamento all'odio nelle scuole. Hamas, dal canto suo, ha segnalato che non si piegherà a un processo di disarmo totale. Mardawi ha sottolineato che le armi della “resistenza” sono destinate esclusivamente alla “libertà e all'indipendenza”. Trump, invece, ha precisato che la smilitarizzazione deve comprendere la distruzione di tutti i sistemi di tunnel e delle fabbriche di armi e ha annunciato che, in caso di rifiuto da parte di Hamas, Israele riceverà il pieno sostegno di Washington e degli Stati arabi per “portare a termine la questione”.

Il Qatar come grande vincitore?
   Senza il Qatar questo piano non sarebbe stato realizzato. Doha ha svolto un ruolo decisivo di mediazione e, dal punto di vista israeliano, ha persino ottenuto un trionfo diplomatico. Le scuse israeliane dopo un attacco aereo a Doha, percepito come “imbarazzante”, hanno rafforzato la posizione del Qatar come attore chiave in Medio Oriente. I critici in Israele temono addirittura che il Qatar sia il vero artefice dell'iniziativa. Lo stesso Trump ha dichiarato apertamente di voler essere in futuro “l'addetto alle pubbliche relazioni del Qatar”, un'osservazione che ha rafforzato le preoccupazioni a Gerusalemme che Doha possa uscire dal processo come chiaro vincitore.

Netanyahu sotto pressione o in vantaggio?
  Per Benjamin Netanyahu il piano è un esercizio di equilibrismo politico. Durante la conferenza stampa è apparso teso, come se fosse parte involontaria di una messa in scena. Trump, dal canto suo, ha approfittato del palcoscenico per criticare sottilmente Netanyahu: “Gli israeliani ne hanno abbastanza della guerra”, ha detto, riferendosi ai numerosi manifesti affissi nelle strade di Israele che chiedono l'immediato rilascio degli ostaggi. Netanyahu ha cercato di presentare l'iniziativa come una conferma dei propri obiettivi di guerra: il rilascio di tutti gli ostaggi e la smilitarizzazione di Gaza.
  Tuttavia, l'entourage del primo ministro sta già promuovendo il piano come un successo. I collaboratori di Netanyahu sottolineano che si tratta di una svolta strategica: Israele sta uscendo dall'isolamento internazionale, mentre Hamas è sempre più isolato in tutto il mondo arabo e musulmano. Per la prima volta è previsto il rilascio di tutti gli ostaggi, vivi o morti, in un'unica fase, mentre Israele è ancora presente a Gaza. Si tratta di un successo grande e significativo.
  Inoltre, secondo l'entourage di Netanyahu, il piano non prevede alcun obbligo di creare uno Stato palestinese. La posizione di Israele su questo tema rimane invariata. Anche l'elenco delle condizioni poste all'Autorità palestinese è così severo da apparire praticamente irrealizzabile. È inoltre prevista la costituzione di una forza multinazionale – composta da soldati degli Emirati Arabi Uniti, dell'Indonesia e dell'Azerbaigian – con il compito di disarmare Hamas. Il ritiro israeliano avverrà solo se Hamas sarà effettivamente completamente disarmato.

Cosa succederà ora?
   La palla passa ora a Hamas. Il Qatar e l'Egitto continuano i loro tentativi di mediazione, Washington attende una risposta. Un accordo potrebbe portare al rilascio dei primi ostaggi entro pochi giorni. Ma se Hamas reagisse con un “sì, ma”, ci si aspetta una maratona negoziale difficile a Doha.
  Fino ad allora, la guerra continuerà a imperversare e le famiglie degli ostaggi temeranno per il destino dei loro cari. Il piano di Trump rimane un'impresa rischiosa: potrebbe portare a una svolta o finire nei cassetti della storia come una bolla di sapone politica. Trump lo ha comunque annunciato nella sala da ballo della Casa Bianca, il luogo in cui spesso vengono rilasciate dichiarazioni storiche. Il tempo dirà se questa sarà una di quelle o se sarà presto dimenticata.

(Israel Heute, 30 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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In un video Netanyahu modifica un po’ il piano di Trump

di Sarah G. Frankl

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu elogia il piano in 20 punti del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per porre fine alla guerra a Gaza in una dichiarazione video da Washington, dove, nella stessa giornata, ha affiancato il presidente degli Stati Uniti e ha dato il suo benestare alla proposta.
“È stata una visita storica”, afferma. “Invece di essere isolati da Hamas, abbiamo ribaltato la situazione e isolato Hamas.
Ora il mondo intero, compreso il mondo arabo e musulmano, sta facendo pressione su Hamas affinché accetti i termini che abbiamo creato insieme a Trump, per riportare indietro tutti gli ostaggi – vivi e morti – mentre l’IDF rimane nella Striscia”.
Le sue osservazioni sembrano travisare una parte del piano di Trump, pubblicato online dalla Casa Bianca, poiché non prevede che l’IDF rimanga nella Striscia a tempo indeterminato, ma piuttosto che si ritiri gradualmente e ceda il posto a una forza di sicurezza internazionale.
“Chi l’avrebbe mai creduto”, dice della visione di Trump, sostenendo che fino ad ora a Israele era stato detto di accettare le richieste di Hamas e di consentirgli di rimanere e ricostruire all’interno dell’enclave devastata dalla guerra.
La persona dietro la telecamera chiede se Netanyahu abbia acconsentito alla creazione di uno Stato palestinese, cosa che il premier nega prontamente.
“Assolutamente no”, dice. “Non è scritto nell’accordo”.
“Abbiamo detto che ci saremmo opposti con forza a uno Stato palestinese”, aggiunge, sostenendo che Trump è d’accordo con lui sul fatto che sarebbe un “enorme premio per il terrorismo”.
Ancora una volta, questa sembra essere una rappresentazione piuttosto distorta del piano, poiché il punto 19 afferma che, dopo la ricostruzione di Gaza e una volta che l’Autorità palestinese avrà attuato le riforme necessarie, potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese, che riconosciamo come aspirazione del popolo palestinese.

(Rights Reporter, 30 settembre 2025)


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Smotrich furioso, ma sì dalle opposizioni

«Un clamoroso fallimento diplomatico, un atto di cecità volontaria che ignora ogni lezione del 7 ottobre». Il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, non ha preso bene il piano di pace illustrato alla Casa Bianca da Trump e Netanyahu. Aggiungendo che a suo avviso «finirà in lacrime».
  Una reazione del genere da parte del ministro di ultradestra e leader del Partito Sionista Religioso, che potrebbe ora lasciare il governo, era nell’aria. Nel paese prevale però la speranza e molte voci anche dell’opposizione appoggiano l’iniziativa, lanciando messaggi di consenso più o meno esplicito e guardando anche alla prossima contesa elettorale. Tra gli analisti c’è chi ipotizza che possa essere anticipata di qualche mese rispetto all’ottobre del 2026, naturale scadenza dell’esecutivo.
  Per l’ex premier Naftali Bennett il sì al piano «è un passo difficile, ma necessario, poiché il governo non è riuscito a raggiungere una decisione con Hamas e a recuperare i nostri fratelli rapiti che languiscono in cattività, e il prezzo che stiamo pagando e continueremo a pagare in vite umane è insopportabile». Bennett, che potrebbe candidarsi alla guida del paese nel 2026, aggiunge che «il difficile capitolo in cui ci troviamo deve chiudersi con il ritorno a casa dei nostri figli e delle nostre figlie e con la transizione verso un nuovo e diverso capitolo di unificazione e ricostruzione dello Stato di Israele». I punti presentati da Trump «non sono perfetti, ma rappresentano la migliore opzione sul tavolo», sostiene Yair Lapid, il leader dell’opposizione, rivendicando di aver elaborato «un piano molto simile» un anno fa. Per il politico di Yesh Atid il progetto di Trump «non è privo di buchi e interrogativi, ma l’esperienza degli Accordi di Abramo dimostra che il metodo di Trump funziona». Tre, nella sua interpretazione, i punti salienti: stabilire un obiettivo ambizioso, fissare una tabella di marcia e definire i dettagli man mano che si procede.
  «Si tratta di un accordo sul tavolo da oltre un anno. Dobbiamo sperare che questa volta venga effettivamente attuato, che i rapiti tornino finalmente a casa e che questa guerra politica giunga alla fine», ha dichiarato Yair Golan, il leader dei Democratici, per il quale la guerra di Gaza «ha da tempo cessato di avere uno scopo di sicurezza» e il primo ministro Netanyahu dovrebbe chiedere scusa per il sangue versato «ai rapiti e alle loro famiglie, alle famiglie in lutto e a tutti i cittadini israeliani che combattono da due anni».

(moked, 30 settembre 2025)


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La genialità del piano Trump per Gaza risiede nel suo fallimento inevitabile

di Gregg Roman

Il piano del presidente Donald Trump per porre fine al conflitto di Gaza non è una proposta di pace; è una dichiarazione di guerra all’illusione strategica. Agli architetti del declino a Washington e a Bruxelles, sembrerà un’offerta ragionevole di ricostruzione, aiuti e autonomia. Si torceranno le mani per la frustrazione quando fallirà, ma non ne colgono il punto. La vera genialità del piano non risiede nel suo potenziale di successo, ma nel suo fallimento predeterminato. È un test finale e chiarificatore, progettato per smascherare i nemici di Israele, smascherare i loro protettori e fornire una giustificazione per l’unica politica in grado di portare una pace duratura nella regione.
Ovvero che la politica si fonda su una verità semplice e storicamente innegabile: i conflitti non si concludono con negoziati o compromessi quando una delle parti è un nemico implacabile e ideologico. La pace duratura non è il prodotto di un’intesa condivisa; viene imposta a un nemico sconfitto, la cui volontà di combattere è stata spezzata.
Il percorso per trasformare Giappone e Germania in pacifiche democrazie dopo la Seconda Guerra Mondiale ha richiesto la loro resa incondizionata e la trasformazione della società. Questa è la realtà necessaria, seppure brutale, che una generazione di politici occidentali si è rifiutata di accettare.
A prima vista, la proposta di Trump offre a Hamas un ponte d’oro verso la resa. Offre un cessate il fuoco, un massiccio scambio di prigionieri, l’amnistia per i combattenti che si disarmano e uno sforzo internazionale multimiliardario per ricostruire Gaza. È una via d’uscita da una guerra che Hamas ha iniziato e non può vincere, un’alternativa superficialmente attraente alla propria distruzione. Per la mentalità occidentale, assuefatta alla fantasia che tutti i conflitti siano semplicemente incomprensioni che il dialogo può risolvere, questa sembrerà un’offerta che Hamas non può rifiutare.
Ma è proprio questo il fallimento dell’immaginazione che ha portato all’eccidio del 7 ottobre 2023. Hamas non è un attore razionale che persegue obiettivi politici negoziabili; è un culto ideologico della morte, un movimento totalitario la cui intera identità si fonda sul rifiuto genocida dell’esistenza di Israele. Mentre i suoi leader ora affermano che rivedranno il piano in “buona fede”, l’asse del rifiuto ha già mostrato le sue carte. I suoi alleati, come la Jihad Islamica, hanno denunciato la proposta, e i delegati dell’Iran l’hanno definita un “complotto”. Il piano di Trump esige che Hamas si disarmi, rinunci al suo potere e accetti una realtà di coesistenza pacifica. Per Hamas, questo non è un compromesso; è un atto suicida. Il loro rifiuto è una certezza, ed è questa certezza che conferisce al piano il suo vero valore.
Quando Hamas dirà di no, metterà il suo principale sostenitore, il Qatar, in una posizione impossibile. Per anni, i qatarini hanno giocato un doppio gioco, presentandosi all’Occidente come mediatori indispensabili e, allo stesso tempo, agendo come principali finanziatori e protettori ideologici di Hamas e della Fratellanza Musulmana globale. Con un’ampia coalizione di ministri degli esteri arabi e musulmani che accolgono pubblicamente con favore l’impegno americano, la pressione sul Qatar affinché consegni un Hamas compiacente è immensa. Il suo fallimento sarà un’umiliazione globale, che lo mostrerà come non disposto o incapace di controllare il suo mandatario. Questo è il momento di spezzare finalmente l’asse Hamas-Qatar.
Il “no” di Hamas sarà il momento più chiarificatore di questo conflitto dai tempi dell’eccidio stesso. Eliminerà l’ultima scusa per la codardia morale dell’Occidente. Dimostrerà, una volta per tutte, che il conflitto persiste non per mancanza di concessioni israeliane – che persino il leader dell’opposizione Yair Lapid ora ammette – ma per l’impegno palestinese alla distruzione di Israele. Quando Hamas rifiuterà questa ultima, generosa offerta di resa, fornirà a Israele la chiarezza morale e la legittimità internazionale per offrire l’unica alternativa. La promessa del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di “finire il lavoro” non sarà più una minaccia; sarà una necessità, e una con il “pieno appoggio” di Trump.
Questo piano non riguarda il processo di pace; riguarda la fine del processo di pace, una frode strategica che ha premiato il rifiuto palestinese per trent’anni. Costringendo Hamas a rifiutare una via verso la vita, il piano Trump apre la strada alla necessaria fine del gruppo. È l’atto finale di un teatro dell’assurdo, e il suo fallimento sarà l’apripista per un ordine nuovo e più realistico, costruito non sulle sabbie mobili dell’illusione diplomatica, ma sul fondamento di una vittoria israeliana.

(L'informale, 30 settembre 2025)

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Un ritorno al linguaggio della fede

Il liberalismo occidentale ha cercato a lungo di bandire Dio dalla sfera pubblica.

di Meira Kolatch

(JNS) Nel mondo occidentale è da tempo di moda trattare la fede con una sorta di imbarazzata condiscendenza, come una reliquia di un'epoca più primitiva. Qualcosa che forse era utile per ispirare la grande arte o confortare chi era in lutto, ma che non doveva essere menzionato in ambienti seri, tanto meno in compagnia di generali o capi di Stato.
Ad un certo punto, il pensiero moderno è giunto alla conclusione che fosse incivile fare riferimento a Dio. Che le preghiere fossero una cosa da bambini e predicatori televisivi. Che i miracoli fossero metafore.
Ma poi è successo qualcosa di straordinario. Nelle ultime settimane, anche il laico più incallito difficilmente potrebbe negare che siamo testimoni di eventi che sfuggono alla politica. Eventi che non possono essere spiegati con la diplomazia o la realpolitik. Eventi che, e lo dico con cautela, sembrano biblici.
Il presidente Donald Trump ha neutralizzato il cosiddetto “cuore nucleare” dell'Iran in una delle operazioni militari più audaci della storia recente. In poche ore è stata eliminata una delle più grandi minacce per il popolo ebraico dal 1945. Non solo non ci sono state vittime, ma l'operazione è stata condotta con precisione chirurgica, quasi divina. È stato un miracolo sotto ogni punto di vista.
E poi ci sono le immagini: Trump al Muro del Pianto, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che parla apertamente della guida divina e l'ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, che invoca Dio senza mezzi termini. Non si tratta di impressioni casuali. Sono uomini – con i loro difetti, sì, come tutti i leader – che sembrano essere molto consapevoli di far parte di qualcosa di molto più grande di loro. Che la storia è guidata da una mano che non è la loro.
Da decenni il liberalismo occidentale cerca di bandire Dio dalla sfera pubblica. La fede è stata degradata a hobby personale.
“Tienilo per te”, ci è stato detto, come se la fede in Dio non fosse altro che un hobby come il birdwatching. Ma il popolo ebraico e anche lo Stato di Israele non esistono per realismo o probabilità. Esistono per l'alleanza tra Dio e il popolo ebraico. Per la promessa. Per i miracoli.
Quello a cui stiamo assistendo non è solo un cambiamento geopolitico. È qualcosa di più profondo. Un ritorno al linguaggio della fede. Un ripristino dell'immaginazione morale. Un mondo in cui possiamo dire senza imbarazzo che il faraone ha indurito il suo cuore. Che il male esiste. E che ci sono messaggeri, shluchim, come li chiamano gli ebrei, inviati dal cielo per intervenire.
Trump, nonostante tutta la sua eccentricità, comincia ad apparire come uno di loro, proprio come Netanyahu. Non perché siano perfetti, ma perché in questo momento storico stanno colmando il vuoto, tenendo duro e salvando una nazione che ancora una volta si trovava sull'orlo del baratro.
L'istinto ebraico, plasmato dall'esilio e dai pogrom, era quello di ritirarsi dalle manifestazioni pubbliche di fede. Attenersi alle regole di un mondo secolare che tollera le menorah come decorazione, ma non come professione di fede. Ma questo non è più sostenibile. La fede non è più facoltativa. È la lente attraverso la quale ora deve essere compresa la realtà. L'Iran non è una minaccia solo per l'uranio. È una minaccia a causa della sua ideologia, radicata nella fede teocratica che il popolo ebraico debba essere sterminato. Combattere un odio simile senza il linguaggio di Dio significa andare in battaglia con un'armatura incompleta. Il nemico è spirituale. E così deve essere anche la risposta.
I cristiani in America lo hanno capito da tempo. Camminano coraggiosamente nel mondo con la loro Bibbia. Votano secondo i loro valori. Costruiscono movimenti incentrati sulla preghiera. E non se ne vergognano. È ora che il popolo ebraico, in particolare coloro che ricoprono posizioni influenti, facciano lo stesso. È ora di smettere di sussurrare il nome di Dio come se fosse un peso e di pronunciarlo invece, come un tempo, con riverenza e orgoglio.
C'è un motivo per cui il Muro del Pianto è ancora in piedi e un motivo per cui è diventato teatro di questa guerra, una guerra che non è solo per la terra o la sicurezza, ma per la verità, per la luce e per la fede stessa.
Quindi sì, diciamolo chiaramente: Dio è tornato. E prima lo accoglieremo nei nostri titoli, nella nostra politica e nelle nostre anime, prima capiremo cosa sta realmente accadendo. Non solo in Israele. Non solo in Iran. Ma nel cuore della storia.
Let's make faith great again.

(Israel Heute, 29 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Perché sono sionista e rivendico il mio diritto a esserlo

di Stefano Piazza

Essere sionista, nel 2025, è diventato per molti una colpa da cui difendersi, un’accusa da respingere. Per me, invece, è un’identità che rivendico con fierezza e con piena consapevolezza storica. Sionista non come insulto, ma come definizione legittima di appartenenza a un movimento che ha garantito al popolo ebraico ciò che per secoli gli è stato negato: la possibilità di vivere libero, sovrano e autodeterminato nella propria terra.
  Il sionismo non nasce come ideologia di conquista, ma come movimento di liberazione nazionale. È la risposta a secoli di persecuzioni, ghettizzazione e pogrom in Europa e in Medio Oriente, fino all’apice dell’orrore della Shoah. Theodor Herzl, padre del sionismo politico, lo aveva capito già a fine Ottocento: finché gli ebrei fossero rimasti una minoranza dispersa, nessuna emancipazione, nessuna promessa di integrazione avrebbe potuto proteggerli dall’antisemitismo. La storia gli ha dato ragione in modo tragico.
  Il ritorno a Sion non è stato un capriccio moderno, ma la concretizzazione di un sogno millenario. Nelle preghiere quotidiane, nel ricordo collettivo, nella cultura ebraica, Gerusalemme non è mai stata solo un simbolo: è stata sempre un luogo vivo, atteso, reclamato. Il sionismo ha trasformato quella speranza in un progetto politico. Dopo la Dichiarazione Balfour del 1917, il Mandato britannico e le migrazioni forzate, lo Stato di Israele è stato proclamato nel 1948 e riconosciuto dalle Nazioni Unite come patria del popolo ebraico.
  Essere sionista oggi significa, quindi, difendere un diritto fondamentale: che Israele esista e viva in sicurezza. Non è odio verso altri, non è negazione dei diritti palestinesi, non è arroganza coloniale. È la semplice affermazione che il popolo ebraico, come tutti i popoli, ha diritto a un focolare nazionale. Eppure, troppo spesso, il termine “sionismo” viene rovesciato in insulto, in etichetta da additare per delegittimare Israele e chi lo sostiene.
  Per questo rivendico il mio diritto a essere sionista. Perché nessuno dovrebbe vergognarsi di difendere l’esistenza di uno Stato nato dopo secoli di oppressione e dopo lo sterminio sistematico di sei milioni di ebrei. Perché non accetto che, nel XXI secolo, si cerchi di negare a Israele ciò che è considerato naturale per ogni altro Paese: la legittimità a esistere e a difendersi.
  Essere sionista significa anche rifiutare la manipolazione storica che riduce Israele a un intruso. La guerra del 1948 e i conflitti successivi non sono stati causati dall’idea stessa di Israele, ma dal rifiuto di accettarne l’esistenza. Ancora oggi, i movimenti che invocano la “liberazione della Palestina dal fiume al mare” non chiedono due Stati, chiedono la cancellazione di Israele. Davanti a questa minaccia, il sionismo resta l’unica risposta possibile.
  Naturalmente il sionismo, come ogni movimento nazionale, non è stato privo di errori e contraddizioni. Ha conosciuto correnti diverse, dal socialismo dei kibbutz al revisionismo più rigido. Israele, nella sua storia, ha commesso scelte discutibili e politiche contestate. Ma nessuno di questi elementi può cancellarne la legittimità. Non si chiede agli italiani di rinnegare il Risorgimento per gli errori del Regno d’Italia, né ai francesi di vergognarsi della Rivoluzione perché sfociò nel Terrore. Allo stesso modo, il sionismo non si misura solo dalle sue imperfezioni, ma dalla sua ragion d’essere: garantire al popolo ebraico un futuro.
  Io sono sionista perché credo che la sicurezza ebraica non sia negoziabile, e perché so che senza Israele gli ebrei del mondo sarebbero ancora una minoranza vulnerabile, facile bersaglio dell’odio. Sono sionista perché non accetto che l’unico Stato ebraico venga trattato con parametri diversi da quelli applicati a ogni altra nazione. Sono sionista perché, in un tempo in cui l’antisemitismo torna a crescere sotto nuove maschere, il sostegno a Israele è una forma di resistenza morale. Il sionismo, infine, non è chiusura ma apertura. Difendere Israele non significa negare i diritti dei palestinesi, significa piuttosto cercare un equilibrio in cui due popoli possano vivere fianco a fianco. Il rifiuto del sionismo, invece, non porta pace: porta solo all’illusione che un popolo intero possa essere cancellato. E mentre il mondo discute, Hamas giura apertamente di voler ripetere i massacri del 7 ottobre ancora e ancora. Questo è il terrore che Israele e il mondo libero devono affrontare: la minaccia dichiarata di chi non vuole la pace, ma la distruzione. Ed è per questo che io sono, e resto, sionista.

(L'informale, 29 settembre 2025)

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Israele rafforza i legami con Paraguay e Serbia

di Nina Prenda

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Aleksandar Vučić con Netanyahu

La scorsa settimana, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha incontrato il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il presidente del Paraguay, Santiago Peña, a New York.
Durante il primo incontro, il Primo Ministro ha discusso con il presidente Vučić i modi per estendere la cooperazione tra Israele e Serbia, in particolare nei settori della sicurezza e del commercio.
“Il primo ministro Netanyahu ha espresso la sua gratitudine al presidente Vučić per il suo incrollabile sostegno agli sforzi di Israele per liberare tutti gli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza, incluso Alon Ohel, che detiene la cittadinanza serba”, ha detto una dichiarazione dell’ufficio di Netanyahu.
“Il Primo Ministro ha condiviso con il presidente della Serbia i dettagli della sua conversazione con i genitori di Alon, a seguito della diffusione da parte di Hamas di un video che mostra il loro figlio nella brutale prigionia dell’organizzazione terroristica”, ha aggiunto.
Separatamente, Netanyahu ha incontrato il presidente del Paraguay, Santiago Peña.
L’ufficio del Primo Ministro ha detto che i due hanno discusso l’espansione della cooperazione tra Israele e Paraguay in una varietà di settori: sicurezza, tecnologia, energia e altro ancora.
“Il Primo Ministro Netanyahu ha ringraziato il presidente Peña per il suo incrollabile sostegno a Israele e la sua ferma posizione contro l’antisemitismo e contro il terrore, che è stata espressa anche nelle designazioni del Paraguay dell’IRGC, di Hezbollah e di Hamas come organizzazioni terroristiche”, ha aggiunto la dichiarazione.
“Il Primo Ministro ha espresso il suo apprezzamento per la ferma opposizione del Paraguay al pregiudizio anti-israeliano presso le Nazioni Unite, la Corte penale internazionale e altri organismi internazionali”.
Durante la sua visita negli Stati Uniti, Netanyahu si è rivolto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York venerdì e lunedì incontrerà il presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Casa Bianca.

(Bet Magazine Mosaico, 29 settembre 2025)

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Tesoro d'oro rinvenuto sul lago di Tiberiade

Gli archeologi hanno rinvenuto sul lago di Tiberiade un tesoro d'oro composto da circa 100 monete. Il ritrovamento è stato piuttosto casuale.

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Il ritrovamento comprende circa 100 monete e diversi frammenti di gioielli.

HIPPOS – Durante uno scavo nell'antica città di Hippos, gli archeologi hanno fatto una grande scoperta. Come comunicato la scorsa settimana dall'Università di Haifa, nell'insediamento situato a circa 2 chilometri a est del lago di Tiberiade sono state rinvenute circa 100 monete d'oro e decine di frammenti di gioielli. Gli scienziati datano il ritrovamento all'inizio del VII secolo. Come riporta il “Times of Israel”, il ritrovamento è stato casuale. Secondo quanto riportato, un collaboratore ha trovato per caso il tesoro di monete con il suo metal detector, lontano dall'attuale scavo, quando ha urtato accidentalmente una pietra con l'apparecchio. Il metal detector ha improvvisamente iniziato a emettere un segnale acustico, segno inequivocabile di aver trovato qualcosa. “Il dispositivo è impazzito”, riporta il quotidiano online citando l'archeologo. E continua: “Non potevo crederci: una moneta d'oro dopo l'altra continuava ad apparire”.

Monete rare
   Gli archeologi ipotizzano che il tesoro appartenesse a un ricco abitante della città, forse un orafo. Quest'ultimo potrebbe aver nascosto le sue monete dai Sasanidi, che conquistarono la città nel 614. Le monete risalgono al periodo bizantino. Alcune sono databili all'epoca dell'imperatore Giustino I (518-527). Le monete più recenti risalgono al primo periodo del regno dell'imperatore Eraclio (610-613).
Il co-direttore dello scavo, Michael Eisenberg, ritiene che la particolarità del ritrovamento risieda soprattutto nella varietà delle monete. Alcune monete sono state trovate finora solo molto raramente in Israele. Nel complesso, gli archeologi sperano che il ritrovamento fornisca nuove informazioni sul periodo bizantino in Israele.
I resti di Hippos si trovano nel Parco Nazionale di Sussita. Si trovano su una collina alle pendici delle alture del Golan, a est del lago di Tiberiade e di fronte al kibbutz Ein Gev. La città fu fondata intorno al 250 a.C. e raggiunse il suo apice durante il dominio romano e bizantino. Dopo la conquista musulmana continuò ad esistere fino a quando non fu distrutta da un forte terremoto.
Sussita è anche considerata una delle dieci città più importanti per i pellegrini cristiani, poiché si presume che sia la “città sulla collina” del discorso di Gesù sul Monte delle Beatitudini. Durante il periodo bizantino era la città cristiana centrale nella regione del lago di Tiberiade e fungeva da sede vescovile. Gli archeologi stanno studiando il sito da circa 20 anni. (mas)

(Israelnetz, 29 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’antisemitismo che non si vede, ma logora

di Andrea Molle

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento sottile ma profondo nel modo in cui si manifesta l’antisemitismo negli spazi accademici: non più solo episodi clamorosi, volantini offensivi, vandalismi, ma una pressione costante, nutrita di sfumature, ambiguità e silenzi. È quella che Yael Silverstein e C. J. Block, in un articolo pubblicato recentemente sul Journal of Jewish Education, definiscono «antisemitismo contemporaneo» e che la loro analisi intende rendere visibile, costruendo una tassonomia delle esperienze antisemite che si dispiegano tra microaggressioni e manifestazioni più esplicite.
Il contributo degli autori si fonda sul quadro teorico delle microaggressioni, uno strumento concettuale che consente di indagare come certe forme lievi, quotidiane e diffuse di discriminazione — commenti ambigui, battute sugli stereotipi, allusioni contestuali, omissioni — possano configurarsi come esperienze antisemitiche reali, anche se non sempre riconosciute come tali da chi le subisce o da chi le osserva. La forza di questa prospettiva è che sposta l’attenzione dall’evento straordinario all’esperienza ordinaria: non conta solo l’attacco violento, ma anche quel piccolo gesto che, ripetuto, logora un’identità, isola una persona, trasmette un senso di non appartenenza.
Silverstein e Block elaborano una tassonomia che distingue vari livelli e modalità di antisemitismo contemporaneo nelle università: dalle forme sottili e pervasive, difficili da identificare, fino a manifestazioni più evidenti. La loro ricerca mostra che, tra gli studenti degli atenei nordamericani, gli episodi sottili prevalgono numericamente su quelli espliciti, ma entrambi — quelli “aperti” e quelli “invisibili” — producono effetti negativi sul benessere psicologico, sul senso di appartenenza e sull’impegno accademico. In altre parole, non sono gesti innocui né “deroghe tollerabili”: generano danno reale. Quasi la totalità degli studenti ebrei intervistati dichiara di aver subito almeno un episodio di questo tipo.
Questo sforzo di visibilità è rilevante non solo per chi studia l’antisemitismo, ma per chiunque voglia comprendere come oggi si costruiscano le soglie della discriminazione. L’articolo mette in guardia contro la tentazione di minimizzare o ignorare, sotto la scusa della delicatezza o della “buona intenzione”, pratiche che non esplodono in violenza ma che alimentano un clima sistemico di esclusione e marginalizzazione. Non tutte le aggressioni si manifestano con cartelli o scritte: talvolta si insinuano nei silenzi, negli sguardi, nei contesti in cui una battuta può passare per ironia, eppure lasciare un segno.
Un’opinione pubblica che accetta l’idea secondo cui “non è nulla di grave” rischia di legittimare comportamenti discriminatori mascherati. Allo stesso modo, le istituzioni accademiche che non riconoscono queste forme come parte integrante del fenomeno antisemita restano cieche a un danno collettivo: indeboliscono la fiducia di chi già si interroga sulla propria appartenenza e falliscono nel promuovere ambienti pluralisti e rispettosi.
Ciò non significa che qualsiasi critica al mondo ebraico o commento ambiguo debba essere automaticamente bollato come antisemitismo. Silverstein e Block invitano a un esercizio di discernimento: distinguere tra critica legittima, controversia politica e attacchi che replicano stereotipi, generalizzazioni o forme di isolamento sistemico. Serve uno sguardo sensibile, capace di contestualizzare senza eludere.
La rilevanza di questo contributo travalica il contesto accademico: ci ricorda che ogni comunità soggetta a discriminazione vive su un continuum che va dalla microaggressione alla violenza aperta. Negli spazi pubblici, nei media, nelle istituzioni, in ogni ambito della convivenza civile, l’attenzione ai segnali deboli non è secondaria: è parte della difesa di una comunità, ma anche della salute democratica condivisa.
In conclusione, ciò che Silverstein e Block ci consegnano è un invito alla vigilanza: l’antisemitismo contemporaneo non è scomparso, si è trasformato in forme più sottili. Riconoscerlo non significa criminalizzare ogni parola, ma assumersi la responsabilità di non sottovalutare gesti che alimentano un clima di esclusione. Un’opinione pubblica matura, un ateneo sensibile, una società viva devono saper vedere l’invisibile — e reagire non solo alla violenza esplosiva, ma anche a quella che si consuma goccia dopo goccia.

(Setteottobre, 29 settembre 2025)

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Taranto – Debutta la nuova Sezione ebraica: «La cultura porta cultura»

«La cultura porta cultura. È stato un ottimo inizio». È soddisfatta Eugenia Curiel Demattei, referente della neonata Sezione ebraica di Taranto. Domenica la città pugliese è stata protagonista di una iniziativa per la Giornata europea della cultura ebraica alla biblioteca civica Pietro Acclavio, con interventi dedicati alla storia ebraica nel territorio e al tema che fungeva da filo conduttore della Giornata di quest’anno: il popolo del libro. «C’erano tanti amici con noi e a salutarci è venuto tra gli altri il vicesindaco Mattia Giorno», sottolinea Curiel Demattei, israeliana d’origine, trapiantata da tempo nella città ionica e affiancata ieri in biblioteca dal vicepresidente Ucei Giulio Disegni, venuto a portare la vicinanza dell’ebraismo italiano e a testimoniare l’impegno dell’ente nei confronti del meridione d’Italia. «La Sezione, che dipende dalla Comunità di Napoli, è stata fondata a fine luglio e questo è stato di fatto il nostro debutto, la nostra presentazione alla cittadinanza», spiega la referente. Una presentazione calorosa: «L’ebraismo è un’identità positiva e gioiosa, fatta di stimoli culturali e anche della fragranza della challah, il pane del Sabato, che i nostri ospiti hanno potuto gustare e che certo non mancherò di riproporre in prossime circostanze». Curiel Demattei ha insegnato per anni ebraico a Taranto, a titolo volontaristico. Tra i suoi studenti, afferma, «c’era chi voleva avvicinarsi alle Sacre Scritture nella lingua originale, chi voleva riscoprire la propria identità ebraica, chi voleva andare in Israele per studiare archeologia».
  Nel corso dell’evento di domenica sono state messe le basi di un nuovo progetto, in collaborazione con una delle relatrici della giornata: l’insegnante di ebraico Luisa Basevi, anima dell’Ulpan online dell’Ucei. «Chi volesse approcciarsi localmente alla lingua, potrà farlo in biblioteca per le prime quattro-cinque lezioni basiche con me», spiega Curiel Demattei. «Superata questa prima fase ci sarà poi la possibilità di proseguire online con la professoressa Basevi». Alla Giornata tarantina sono inoltre intervenuti Mariapina Mascolo, che ha parlato della presenza ebraica a Taranto dal Tardo antico all’Alto Medioevo, Maurizio Wiesel e Bernardo Kelz, che hanno raccontato la Puglia ebraica come “terra d’arrivo, di partenza, di transito”, Francesco Lucrezi, soffermatosi nella sua relazione su “Oralità e scritture nell’ebraismo”, e il rabbino capo di Napoli Cesare Moscati con una riflessione sull’argomento “Il popolo del libro: la parola e la tradizione”. Disegni condivide la soddisfazione di Curiel Demattei: «La partecipazione è stata buona e l’interesse era tangibile. Si conferma l’importanza di avere dei presidi ebraici in città con un passato fertile e voglia di rilancio. Anche tenuto conto della rilevante presenza, a Taranto e dintorni, di cittadini israeliani». a.s.

(moked, 29 settembre 2025)

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La settimana di Israele: il conflitto reale e la propaganda

di Ugo Volli

Le battaglie in corso
  La guerra di autodifesa di Israele sul terreno prosegue. A Gaza City l’esercito avanza con cautela per evitare il più possibile perdite di soldati e anche di abitanti civili, ma l’avanzata continua: ogni giorno qualche parte del difficilissimo teatro urbano di questa battaglia finale viene preso e liberato dai terroristi, le fortificazioni di Hamas sia negli edifici più alti sia sottoterra sono smantellate. Ormai oltre 800.000 del milione di abitanti della città hanno accettato l’indicazione delle forze armate israeliane a spostarsi in zone sicure, nonostante i tentativi di blocco da parte di Hamas: sia appelli verbali, sia violenze vere e proprie, inclusa la fucilazione, trasmessa online, di alcuni gazawi colpevoli secondo i terroristi di aver accettato rifornimenti alimentari provenienti da Israele. È caldo anche il fronte aereo con lo Yemen, da dove gli Houthi continuano a sparare razzi e droni contro la popolazione civile israeliana. Uno di questi droni ha colpito un albergo di Eilat, provocando danni e numerosi feriti. Israele reagisce bombardando installazioni militari, depositi di carburanti, porti da cui gli Houthi ricevono rifornimenti militari dall’Iran. Dato che Eilat è sotto attacco e che il pericolo viene soprattutto dai droni difficili da rilevare prima dell’arrivo, mentre i missili sono quasi sempre distrutti fuori dallo spazio aereo israeliano, proprio in questa città sono state installate le prime batterie della nuova difesa laser che Israele ha reso operativa per la prima volta al mondo.

Le nuove sanzioni all’Iran
  Il fronte principale nella scorsa settimana è stato però quello delle iniziative politiche, diplomatiche e mediatiche. In questo ambito bisogna distinguere gli atti esclusivamente propagandistici che colpiscono l’opinione pubblica ma hanno scarso impatto, dalle azioni politiche, giuridiche ed economiche vere e proprie, che hanno effetti reali e duraturi. In quest’ultima categoria c’è stata una sola notizia, molto importante e significativa, ma praticamente ignorata dai media: il ritorno delle sanzioni ONU all’Iran che erano state tolte dall’accordo Jcpoa del 2015. In esso era contenuta una clausola “snapback” che permetteva di reintrodurre le sanzioni in maniera pressoché automatica e a prova di veto del Consiglio di Sicurezza se alcuni dei firmatari avessero riconosciuto violazioni gravi ai limiti di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran. Così è accaduto e neppure il tentativo in extremis di Russia e Cina è riuscito a sabotare il meccanismo snapback. Da oggi vigono dunque le seguenti sanzioni:

  1. 1. Embargo sulle armi (divieto di vendita, acquisto o trasferimento di armi convenzionali, incluse restrizioni su missili balistici e tecnologie correlate).
  2. Restrizioni su transazioni finanziarie, commercio internazionale e investimenti esteri in settori chiave dell’economia iraniana, come quello energetico (petrolio e gas), bancario e industriale.
  3. Divieti di viaggio e congelamento dei beni detenuti all’estero a individui e entità iraniane coinvolti nel programma nucleare.
  4. Limitazioni all’accesso dell’Iran a materiali, tecnologie e attrezzature utilizzabili per lo sviluppo di armi nucleari, con un rafforzamento delle ispezioni da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
  5. Controlli e restrizioni su navi e aerei iraniani sospettati di trasportare materiali proibiti o legati al programma nucleare. Sono sanzioni severe, che possono colpire i terzi che commerciano con l’Iran; anche se ci saranno tentativi di aggirarle, esse potranno essere controllate dagli Usa. La ricostruzione militare dell’Iran ne sarà sensibilmente danneggiata.

I riconoscimenti
  Degli atti politici e simbolici fa parte certamente il “riconoscimento” di uno stato inesistente come quello “di Palestina”, che è stato proclamato nei giorni scorsi all’Onu da una serie di stati occidentali (Francia, Gran Bretagna, Canada, Australia ecc.). Esso non ha nessuna conseguenza concreta, ed esprime solo una volontà di mostrare pubblicamente (e soprattutto al proprio elettorato interno) l’avversione a Israele. Ci saranno nei giorni prossimi certamente reazioni israeliane a questi gesti, come la chiusura dei consolati a Gerusalemme che servivano soprattutto gli arabi dell’Autorità Palestinese. Seguiranno contro-reazioni, si innescheranno scontri diplomatici e mediatici, ma il senso è chiaro fin da adesso: questi importanti stati, tutti con governi di sinistra o centrosinistra, che si proclamavano amici di Israele, non lo sono più e vogliono che sia chiaro a tutti. Come del resto Spagna, Irlanda, Brasile. Amici importanti restano gli Usa di Trump, l’Argentina, l’India, l’Ungheria, in parte la Germania e l’Italia.

Il discorso di Netanyahu
  Questa posizione si è vista anche durante un altro importante atto simbolico, il discorso di Netanyahu all’Onu. Seguendo un copione consolidato, ma anche le istruzioni contenute in una lettera della delegazione dell’Autorità Palestinese rivelata alla stampa, tutti gli stati musulmani, ma anche Cina, Russia e molti stati africani sono usciti dall’aula per non sentire le posizioni israeliane. Per la prima volta ad essi si sono uniti la Gran Bretagna, la Francia, l’Australia, l’Irlanda, la Spagna, il Belgio, la Slovenia, che di solito non partecipavano alla sceneggiata. Il discorso di Netanyahu è stato molto bello e chiarissimo. Partendo dalla situazione dell’anno scorso, ha ricordato le vittorie di Israele e la possibilità di pace che hanno aperto con Siria e Libano e in futuro magari con un Iran liberato dalla dittatura degli ayatollah. Netanyahu ha rivendicato il diritto di Israele all’autodifesa, ha spiegato che bisogna finire il lavoro a Gaza per evitare nuovi assalti terroristici, ha fatto molti paragoni con la situazione degli Usa e in particolare con l’11 settembre, rivolgendosi al pubblico americano. Ma si è indirizzato anche agli israeliani e in particolare agli ostaggi, premettendo a tutto l’impegno alla loro liberazione. Ha escluso la possibilità di lasciare Hamas al governo della Striscia ma anche la sua sostituzione con l’Autorità Palestinese, e in particolare la trasformazione in Stato di quest’ultima, citando i sondaggi che danno l’80% di gradimento a Hamas fra i suoi sudditi. Ha escluso che Israele possa cambiare politica se il suo governo cadesse, sottolineando il consenso al 90% della Knesset per il rifiuto dello “Stato di Palestina”. Ha rinnovato la speranza di un Medio Oriente pacificato e prospero dopo la vittoria di Israele, aprendo agli Stati Islamici moderati e alle iniziative di Trump, con cui dovrà discutere le ultime proposte americane nel corso dell’incontro di lunedì.

La flottiglia
  Fra le iniziative propagandistiche che hanno un’eco mediatica di gran lunga superiore alla propria importanza reale, primeggia la “flottiglia” detta Samud (che, pochi lo sanno, è una parola che indica la resilienza o la determinazione – evidentemente quella di Hamas contro Israele). Il rifiuto della proposta israeliana di scaricare nel porto di Ashdod le (pochissime) merci trasportate come “soccorso per Gaza”, come pure quella della Chiesa di lasciarle a Cipro, sempre con la garanzia di consegna ai gazawi, ha messo in luce il progetto esclusivamente politico e non umanitario dell’iniziativa: “rompere il blocco israeliano”. Ma naturalmente si tratta di un obiettivo solo propagandistico, senza alcuna possibilità di realizzazione. La marina israeliana è perfettamente in grado di bloccare senza violenza le barche e di arrestare i loro equipaggi (che entrando in acque di guerra soggetta a blocco navale compiono un reato), come ha sempre fatto. Incidenti potrebbero scoppiare solo se, come accadde alla nave turca “Mavi Marmara” di un’analoga flottiglia nel 2010, ci fosse una resistenza violenta contro i marinai israeliani. È comunque probabile che di questa montatura propagandistica dovremo riparlare perché la flottiglia da settimane sta ritardando il viaggio, in maniera da raccogliere il maggior eco di comunicazione, magari col progetto di far coincidere il suo arrivo e gli arresti col secondo anniversario del 7 ottobre, in maniera tale da coprirne il ricordo.

(Shalom, 28 settembre 2025)

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Discorso di Gesù della fine dei tempi sul Monte degli Ulivi

Quando Gesù Cristo annunciò profeticamente la distruzione del Tempio sul Monte degli Ulivi, le sue parole si adempirono con sconvolgente precisione. Un'interpretazione.

di Roger Liebi

Il martedì che precedette il Venerdì Santo, il Signore Gesù Cristo trascorse l'intera giornata nel Tempio di Gerusalemme. Fu una giornata particolarmente intensa, colma di tensione spirituale e conflitti aperti. Diversi gruppi religiosi ebraici si avvicendarono per sfidarlo: cercarono, con argomentazioni sottili e trappole verbali, di metterlo in difficoltà, di screditarlo davanti al popolo, e, in ultima analisi, di farlo cadere. I Vangeli sinottici riportano in modo dettagliato le dispute di quella giornata, che si estendono in una narrazione continua e drammatica: (cfr. Matteo 21:23; 23:39; Marco 11:27; 12:44; Luca 19:47; 21:4). Alla fine di quella lunga giornata, si delineò chiaramente un fatto drammatico: la maggior parte dei capi religiosi d'Israele aveva rigettato Gesù come Messia. La sua autorità non fu riconosciuta, la sua missione fraintesa o volutamente respinta. Quando il Signore lasciò il Tempio, rivolse ai Suoi discepoli un annuncio sconvolgente: «Vedete tutte queste cose? In verità vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia diroccata» (Matteo 24:2) (cfr. anche Marco 13:2; Luca 21:6).
  Questo annuncio profetico non era solo un monito: era la rivelazione di una catastrofe nazionale imminente, il segno concreto della conseguenza del rifiuto del Salvatore promesso. Il Tempio - cuore pulsante del culto e dell'identità d'Israele sarebbe stato distrutto.
  Terminata la sua uscita dal santuario, Gesù e i suoi discepoli attraversarono la valle del Cedron e si diressero verso il Monte degli Ulivi, sul versante opposto. Da quella collina, più elevata rispetto al Monte del Tempio, si può godere la vista più maestosa della spianata sacra. Quel luogo, silenzioso e sopraelevato, divenne teatro di uno dei discorsi più profondi del Signore: il cosiddetto discorso escatologico.
  I discepoli, turbati e colmi di domande, si rivolsero al loro Maestro con inquietudine. La sola idea della distruzione del Tempio - centro spirituale e simbolico della nazione - era per loro impensabile. E così, in privato, Gli posero quattro domande fondamentali, domande che toccano il cuore stesso della fede, della storia e del destino dell'umanità.

Quattro domande

  1. Quando avrà luogo la distruzione del tempio? (Matteo 24,3; Marco 13,4; Luca 21,7)
  2. Quale sarà il segno della distruzione del tempio? (Luca 21,7)
  3. Qual è il segno del tuo ritorno? (Matteo 24,3; Marco 13,4)
  4. Qual è il segno della fine dei tempi? (Matteo 24,3; Marco 13,4)

Queste domande possono essere divise in due gruppi: le domande 1 e 2 riguardano la distruzione del tempio.
  Le domande 3 e 4 sono relative alla fine dei tempi.
  Le domande 1 e 2 riguardano gli eventi successivi alla prima venuta di Gesù 2.000 anni fa, mentre le domande 3 e 4 riguardano gli eventi precedenti alla seconda venuta di Gesù come Re del mondo.
  Le domande 1 e 2 si riferiscono al periodo che la Bibbia descrive come «l'inizio dei tempi», mentre le domande 3 e 4 si riferiscono alla «fine dei tempi». Nessuno dei Vangeli menziona tutte e quattro le domande. È necessario considerare tutti i resoconti sinottici nel loro insieme per ottenere un quadro completo.

Dall'inizio alla fine
  In risposta alle domande dei discepoli, il Signore Gesù tenne il cosiddetto discorso del Monte degli Ulivi. Questo discorso è riportato in tutti e tre i Vangeli sinottici (Matteo 24-25; Marco 13; Luca 21), sebbene con accenti differenti, come avviene sempre nei racconti evangelici paralleli.
  Prima di rispondere alle quattro domande, il Signore mise in guardia in modo generale i suoi seguaci dal pericolo della seduzione da parte di falsi messia:

    «Gesù rispose loro: "Guardate che nessuno vi seduca! Poiché molti verranno nel mio nome, dicendo: 'Io sono il Cristo'; e ne sedurranno molti» (Matteo 24,4-5).

Il termine «Cristo» (dal greco christos) usato nel testo è l'equivalente greco della parola ebraica «Messia». Nella tradizione ebraica, il Messia è il redentore promesso, l'unto da Dio come re, sacerdote e profeta
  Secondo Matteo 24:5, dopo la venuta di Gesù Cristo (circa duemila anni fa), sarebbero comparsi molti che avrebbero affermato di essere il compimento delle profezie dell'Antico Testamento riguardanti il Redentore.
  In questo punto, il riferimento ai falsi messia non rappresenta ancora un segno della fine dei tempi; tale segno viene menzionato solo in Matteo 24:24 (cfr. anche Marco 13:22). Si tratta invece di un avvertimento generale, valido in ogni epoca, sin dall'«inizio» fino al tempo della «fine».
  Il primo vero segno degli ultimi tempi viene introdotto nel versetto seguente, ed è preceduto dalla congiunzione greca «de» (tradotta «ma» o «però»), che lo distingue dall'ammonimento precedente: «Ma voi udirete parlare di guerre e di rumori di guerre ... » (Matteo 24:6).
  Come conseguenza del rifiuto del vero Messia, nella storia del giudaismo - dal tempo della venuta di Gesù fino a oggi - sono apparsi più di 50 falsi messia. Alcuni di loro sono riusciti a trascinare grandi masse del popolo ebraico con inganno e seduzione.
  Segue un elenco che riporta oltre cinquanta falsi messia comparsi negli ultimi duemila anni, con l'indicazione tra parentesi del periodo in cui sono apparsi (d.C.).

    Theudas (44-46)
    Il Messia d'Egitto (tra il 52-58)
    Il profeta senza nome (59)
    Menachem il Galileo (circa 66)
    Jonathan il Tessitore (dopo il 70)
    Lukuas (115)
    Bar Kochba (ca. 100-135 d.C.)
    Il Messia-Mosè di Creta (440-470)
    Il Messia della Siria (circa 643)
    Abu Isa di Isfahan, Persia (684-705)
    Sereno di Siria (circa 720)
    Yudghan di Hamad, Persia (circa 800)
    Mushka (850)
    Menachem, Kazakistan (1000)
    Il Messia di Le6n, Spagna (1060)
    Ibn Ayre di Cordova, Spagna (noo'Chadd, Iraq (1100)
    Chadd, Irak (1100)
    Moshe al Dar'l del Marocco (1120)
    Il Messia illetterato dello Yemen (1192
    David Alroy del Kurdistan (1120-1147)
    Abraham Abulafia, Spagna (1240-1291)
    Samuel di Ayllon, Spagna (1290)
    Nissim Ben Abraham, Spagna (1295)
    Moses Botarel, Spagna (1393)
    Rabbino Joseph Karo, Spagna (1488-1575)
    Il Messia dello Yemen meridionale (1495)
    Asher Lemmlein, Reutlingen (1500-1502)
    Shlomo Molkho, Portogallo (1500-1532)
    Ludovico Luis Diaz, Portogallo (1540)
    Isacco Luria Ashkenazi, Safed/Israele (1534-1572)
    Chajim Vital Calabrese (1542-1620)
    Shabbetai Zwi, Smirne (1626-1676)
    Suleiman Jabal, Yemen (1666)
    Miguel Cardoso, Creta (1630-1706)
    Moshe Chajim Luzzato, Padova (1707-1747)
    Nehemia Chija Chajun, Amsterdam (1650-1726)
    Jacob Filosofi (ca. 1650-1690)
    Mordechai Mokia, Eisenstadt (1650-1729)
    Jacob Querido, Turchia(? - 1690)
    Berechja (1740; figlio di Filosofi)
    Baruchja Russo (ca. 1720)
    Jacob Joseph Frank, Leopoli (1726-1791)
    Lobele Prossnitz (? - 1750)
    Rachel Frank (1770)
    Baal Shem Tov (1700-1760)
    Rabbino Nachman di Bratslav (1772-1811)
    Rabbino Israel di Rhuzin (1797-1850)
    Rabbino Itzak Eizik di Komarno (1806-1874)
    Shukr Ben Salim Kuhayl I, Yemen (1821-1865)
    Shukr Kuhayl II, Yemen (1867)
    Rabbino Menachem Mendel Schneerson, New York (1902-1994)

La tragedia del successo seducente di questi falsi Cristi dimostra che coloro che rifiutano la verità corrono il grave rischio di cadere nell'errore e di diventare vittime autoinflitte della seduzione (cfr. Giovanni 5,43)! Questo è un principio che si applica a tutti.

Il Discorso sui Templi
  Nel Vangelo di Matteo, capitolo 24, il Signore Gesù non affronta nel dettaglio le prime due domande poste dai discepoli riguardo alla distruzione del Tempio. Tuttavia, nel passo parallelo del Vangelo di Luca (capitolo 21), vi è un chiaro accento su questo tema.
  In effetti, la questione del segno che preannuncia la distruzione del Tempio è menzionata esplicitamente solo da Luca:

    «Maestro, quando dunque avverranno queste cose? E quale sarà il segno che queste cose stanno per compiersi?» (Luca 21:7).

Nei versetti successivi (Luca 21:8-11) - così come nei brani paralleli di Matteo 24 e Marco 13 - Gesù descrive i segni che anticiperanno la fine dei tempi, o meglio, l'inizio delle doglie di parto che precederanno l'instaurazione dell'era messianica. Tuttavia, in Luca 21:12 si verifica un'importante inversione cronologica. Il versetto introduce un vero e proprio flashback rispetto agli eventi della fine:

    «Ma prima di tutte queste cose ... » (Luca 21:12a).

Questa indicazione temporale va osservata con attenzione. I versetti 12-19 contengono infatti dichiarazioni profetiche che si sono adempiute con precisione tra il 32 e il 68 d.C., nel periodo immediatamente successivo alla risurrezione di Cristo. Un breve parallelo si trova in Marco 13:9-11, ma per il resto, questo passaggio rappresenta un tratto distintivo del Vangelo di Luca.
  Consideriamo da vicino le parole del Signore:

    «Ma prima di tutte queste cose, metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori a causa del mio nome. Questo vi darà occasione di rendere testimonianza.» (Luca 21:12-13).

Nel brano parallelo di Marco 13:9, il riferimento è ampliato con la menzione del Sinedrio:

    «Badate a voi stessi, perché vi consegneranno ai tribunali; sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro» (Marco 13:9).

In risposta alla domanda su quando sarebbe stato distrutto il Tempio, Luca 21:12 e seguenti descrivono gli eventi che lo avrebbero preceduto. Solo dopo l'adempimento di questi eventi, la distruzione avrebbe potuto avere luogo.
  Gesù annuncia ai suoi discepoli ebrei un tempo di persecuzione intensa. Essa sarebbe provenuta inizialmente dall'interno del giudaismo stesso. Questo è evidente dalla menzione delle sinagoghe come luoghi di giudizio e dal riferimento ai tribunali ebraici - il Sinedrio incluso.
  Fino all'anno 70 d.C., i cristiani furono perseguitati in modo particolare dalle autorità ebraiche. Ma con la caduta di Gerusalemme, si verificò un cambiamento profondo: da quel momento, furono gli ebrei stessi a diventare oggetto di persecuzioni, per secoli.
  Dopo la crocifissione e la risurrezione di Gesù nella primavera del 32 d.C., nacque la comunità di Dio - la Chiesa. Le sue radici affondano nel giorno di Pentecoste di quello stesso anno, come descritto in Atti 2. In origine, questa comunità era formata esclusivamente da ebrei che avevano riconosciuto in Gesù il Messia.
  Nei primi decenni, decine di migliaia di ebrei giunsero alla fede in Cristo (cfr. Atti 2:41; 4:4; 6:7; 21:20). I capitoli da Atti 3 a 8 (tra il 32 e il 33 d.C.) narrano di come i primi ebrei messianici furono perseguitati, trascinati davanti al Sinedrio, imprigionati, e come questa persecuzione si trasformò in occasione di testimonianza.
  Stefano fu il primo martire della Chiesa (Atti 7:54-8:1), dopo aver proclamato con potenza la gloria del Messia davanti alla corte suprema d'Israele. A seguito della sua morte, la persecuzione si intensificò, costringendo quasi tutti i cristiani a fuggire da Gerusalemme (Atti 8:1-3). In questo contesto, Saulo di Tarso (il futuro apostolo Paolo) giocò un ruolo centrale nella repressione, conducendo molti ebrei cristiani davanti ai tribunali locali (Atti 26:11).
  In Luca 21:12 e Marco 13:9, il Signore non menziona solo sinagoghe e consigli, ma anche interrogatori davanti a governatori e re. Questo trova conferma nel racconto di Atti 23, in cui Paolo deve difendersi davanti al governatore romano Felice (anno 58). Ma il testo biblico parla di «governatori» al plurale: dunque, almeno un altro caso è atteso. E infatti, in Atti 25, Paolo si presenta davanti a Porcio Festo, successore di Felice, nell'anno 59.
  Infine, Luca 21:12 menziona anche processi davanti a re, elemento fino ad allora mancante. Ma nell'anno 60, l'apostolo Paolo viene portato davanti al re Agrippa (Atti 26), adempiendo così pienamente la profezia di Gesù.
  Anche questo gli diede l'opportunità di annunciare la Buona Novella di Gesù Cristo a quest'uomo di alto rango, proprio come aveva fatto in precedenza con i governatori (Atti 26). Questa sarebbe stata la prova di un processo davanti a un re. Tuttavia, Luca 21:12 parla di «re» al plurale, intendendo almeno due.
  Poiché Paolo si era appellato alla corte suprema dell'Impero Romano per ottenere giustizia (Atti 25:11), dovette essere condotto davanti all'imperatore nella capitale dell'impero, al re di tutti i re dell'impero mondiale a lui soggetti (Atti 25:12-28:31). Una volta a Roma, Paolo dovette attendere «due anni interi» (Atti 28:30) per il processo, fino all'anno 62. Secondo il diritto romano, gli accusatori dovevano comparire in giudizio entro «due anni interi», altrimenti l'accusato avrebbe dovuto essere assolto.
  A quanto pare, i capi sacerdoti di Gerusalemme che accusarono Paolo non comparvero mai davanti all'imperatore a Roma. Pertanto, nella sua lettera ai Filippesi, scritta intorno al 62 d.C., Paolo poté annunciare la sua imminente assoluzione da parte dell'imperatore Nerone (Filippesi 1:12-14, 26; 2:24). Paolo poté anche rendere testimonianza di Gesù Cristo davanti all'imperatore, il re supremo di Roma (Filippesi 1:12-14).
  A quel tempo, tutte le predizioni di Luca 21:12-13 si avverarono. Nell'anno 62, il tempo della distruzione del tempio era già molto vicino, che - come sappiamo a posteriori - sarebbe avvenuta nel 70 d.C. Descrivendo la prima persecuzione dei cristiani e le varie prove che si sarebbero susseguite, il Signore Gesù rispose alla domanda sul momento della distruzione del tempio nel suo Discorso sul Monte degli Ulivi. Mentre Luca 21:12-19 risponde quindi alla domanda «Quando sarà distrutto il tempio?»  chiarisce la domanda: «Quale sarà il segno della distruzione del Tempio?»

    «Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina. Allora quelli che sono in Giudea, fuggano sui monti; e quelli che sono in città, se ne allontanino; e quelli che sono nella campagna non entrino nella città. Perché quelli sono giorni di vendetta, affinché si adempia tutto quello che è stato scritto. Guai alle donne che saranno incinte, e a quelle che allatteranno in quei giorni! Perché vi sarà grande calamità nel paese e ira su questo popolo. Cadranno sotto il taglio della spada, e saranno condotti prigionieri fra tutti i popoli; e Gerusalemme sarà calpestata dai popoli, finché i tempi delle nazioni siano compiuti» Luca 21:20-24.

La storia conferma queste precise previsioni in ogni dettaglio:
  La rivolta ebraica contro l'occupazione romana scoppiò nel 66 d.C. Intorno al 73 d.C., fu definitivamente e brutalmente schiacciata dalla drammatica caduta di Masada. Tutto iniziò con una spontanea rivolta popolare. La situazione politica era da tempo estremamente tesa. L'ultimo fattore scatenante per lo scoppio della rabbia popolare ebraica fu quando Gessio Floro, l'ultimo governatore romano a governare la Giudea, iniziò a saccheggiare il tesoro del Tempio a Gerusalemme. Inizialmente, i ribelli ottennero un grande successo. La conseguenza, tuttavia, fu che l'imperatore Nerone inviò Vespasiano, uno dei suoi migliori generali, con un grande esercito nella zona ribelle. All'inizio dell'estate del 67, Vespasiano, l'ex conquistatore della Britannia, arrivò nel nord del paese. Prima, Jodphat in Galilea fu sconfitta dai Romani, poi cadde Gush Halav e, alla fine dell'estate, cadde anche Gamla sulle alture del Golan.
  Con la conquista di queste importanti città, la Galilea tornò finalmente sotto il controllo romano. Vespasiano si assicurò poi la Samaria. In Transgiordania, bloccò le strade per la Giudea. Poi si spostò lungo la fascia costiera e conquistò Giaffa, Yavne e Ashdod. Tutti questi eventi si verificarono nel 167.

Gerusalemme circondata
  Nel corso del 68, Vespasiano circondò progressivamente il centro della Giudea, la città di Gerusalemme. Ad eccezione di Macheronte, occupò tutta la Transgiordania e la riva occidentale del Giordano, comprese Gerico e Qumran. A ovest, conquistò l'intera Sefela, partendo dalle città costiere.
  Anche le città di Lod, Emmaus e Beth Guvrin caddero in mano romana. Furono istituiti posti di blocco lungo le
  principali arterie stradali nel resto della Giudea per impedire agli ebrei di lasciare la zona.
  Nell'estate del 68, tuttavia, l'imperatore Nerone si suicidò.
  Scoppiarono disordini nell'Impero Romano, che rallentarono la lotta contro gli ebrei. Lo stato d'assedio rimase sostanzialmente invariato. Nel luglio del 69, Vespasiano fu proclamato imperatore da gran parte dell'esercito. Successivamente lasciò la zona di guerra per recarsi a Roma, da dove rivendicò il suo diritto al trono in tutto l'impero.

Fuga in montagna
  Gerusalemme era ormai circondata da accampamenti militari romani, ma sorprendentemente, le ostilità sembravano essersi fermate. La guerra, pur scoppiata, si era come cristallizzata: per un periodo, tutto rimase in sospeso. Gli ebrei che avevano riconosciuto Gesù come il Messia compresero che ciò che stava accadendo corrispondeva esattamente alle parole da Lui pronunciate:

    «Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina» (Luca 21:20).

Alla luce di questa profezia, ebbe luogo un esodo di massa: migliaia di ebrei messianici fuggirono da Gerusalemme e dalla Giudea, obbedendo al comando di Gesù:

    «Allora quelli che saranno nella Giudea fuggano ai monti ... » (Luca 21:21a)

Le montagne verso le quali fuggirono erano situate prevalentemente nell'attuale Cisgiordania. Molti trovarono rifugio a Pella, una città della regione della Decapoli, al di là del Giordano. Qui furono accolti e protetti da re Agrippa II, che li riconobbe come cittadini pacifici e non sovversivi.
  È significativo ricordare che, in un momento precedente, durante il suo processo riportato in Atti 26, l'apostolo Paolo aveva rivolto ad Agrippa un'appassionata testimonianza del Vangelo. Anche se il re non accolse la salvezza, rispondendo con una nota di sarcasmo:
  «Per poco non mi persuadi a diventare cristiano!» (Atti 26:28), quel discorso non fu vano. Sebbene Agrippa non si convertì, le parole di Paolo contribuirono a dissipare i sospetti romani verso i cristiani, rendendo possibile, anni dopo, che il re vedesse con favore quegli ebrei credenti fuggiti da Gerusalemme.
  Così, quel discorso divenne per molti una salvezza non dell'anima, ma della vita. Il risultato fu straordinario: non risulta che un solo ebreo messianico sia perito durante la catastrofica distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. La loro fede nel Messia Gesù e la fiducia nella Sua parola profetica contenuta in Luca 21 salvarono loro la vita.
  Lo stesso Vangelo di Luca fu redatto e pubblicato prima del 62 d.C., ben prima dell'inizio della guerra giudaica del 66-73 d.C.. Ciò significa che la profezia di Gesù era già nota e condivisa tra gli ebrei cristiani in Israele, costituendo una guida vitale nei momenti decisivi. Fu, letteralmente, una parola che salvò.

Guerra per Gerusalemme
  Nel luglio del 70 d.C., Vespasiano salì definitivamente al potere come imperatore di Roma. Aveva già affidato a suo figlio Tito il compito di portare a termine la guerra contro gli ebrei. Nella primavera dello stesso anno, Tito raggiunse la zona di guerra, pronto a colpire il cuore della resistenza: Gerusalemme.
  L'assalto alla città cominciò da nord, il punto meno fortificato. Il primo obiettivo fu il terzo muro, che una volta abbattuto permise ai legionari romani di conquistare i sobborghi esterni. Dopo questo, anche il secondo muro cadde sotto l'avanzata. Uno degli obiettivi più strategici era la fortezza Antonia, allora occupata dalle forze ebraiche, situata immediatamente a nord della spianata del Tempio. La sua riconquista fu decisiva: da lì, i romani potevano controllare tutto il quartiere del Tempio.
  Ancor prima di lanciare l'assalto finale al santuario, Tito intraprese una feroce battaglia per conquistare anche la Città Alta, dove oggi si trova il quartiere ebraico di Gerusalemme. Ma fu durante l'estate del 70, che si consumò il momento più tragico: il 9 di Av, secondo il calendario ebraico, il Tempio prese fuoco.
  La data ha un significato profondamente simbolico. Quel medesimo giorno, secoli prima, il Primo Tempio, costruito da Salomone, era stato distrutto dai Babilonesi. Il 9 di Av era già allora il giorno annuale di lutto nazionale per la caduta del santuario. Dopo il 70 d.C., questa data continuò a rappresentare il giorno del ricordo della perdita del Tempio, per oltre 2.500 anni. Una coincidenza tanto potente da diventare, per il popolo ebraico, una ferita sacra nella memoria collettiva.
  Deportazione e dispersione Dopo la feroce battaglia per la conquista del Tempio, i Romani si concentrarono sull'eliminazione delle ultime sacche di resistenza nella Città Alta. Una volta completata la presa di quel settore, Gerusalemme fu definitivamente sottomessa. Fu allora che ebbe inizio una delle deportazioni più drammatiche della storia ebraica.
  Lo storico Giuseppe Flavio riporta che circa 97.000 ebrei furono fatti prigionieri e condotti in varie regioni dell'Impero Romano per essere venduti come schiavi. Il numero era così elevato che i prezzi degli schiavi crollarono in tutto l'Impero. Gesù aveva profetizzato con chiarezza questa tragedia:

    «Cadranno sotto i colpi della spada, saranno condotti prigionieri fra tutte le nazioni, e Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti» (Luca 21:24).

Dopo l'anno 70, iniziò un processo di diaspora che avrebbe segnato l'identità ebraica per secoli. Il popolo d'Israele
  fu disperso gradualmente in ogni angolo del mondo conosciuto, fino a raggiungere tutti e cinque i continenti.
  Era l'inizio di una lunga attesa, un cammino nella storia segnato da sofferenze, persecuzioni e speranze, ma anche da una promessa che, secondo le Scritture, non è venuta meno.

«Calpestando Gerusalemme»
  Il Messia Gesù aveva predetto con precisione sorprendente il tragico corso della storia di Gerusalemme, da quel primo secolo fino all'epoca contemporanea.
  Le Sue parole, pronunciate secoli fa, mantengono una forza profetica impressionante: «Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei Gentili siano compiuti» (Luca 21:24).
  L'espressione «i tempi dei Gentili» si riferisce al periodo durante il quale il dominio politico e militare non apparterrà al popolo eletto, ma sarà nelle mani di imperi umani, spesso oppressivi e idolatri. È il medesimo scenario descritto nei capitoli 2 e 7 del libro di Daniele, dove le visioni del profeta parlano di una successione di regni terrestri, ciascuno con il proprio splendore e la propria ferocia, destinati però a essere sostituiti da un Regno eterno. Secondo questa prospettiva profetica, la dominazione delle nazioni su Israele - e in particolare su Gerusalemme - rappresenta una fase intermedia e necessaria del piano divino. Tuttavia, Gesù non lascia spazio a dubbi: questa fase avrà una fine. Il dominio dei Gentili cesserà quando il Regno di Dio, stabilito dal Messia, verrà manifestato pienamente alla fine dei tempi.
  Gerusalemme, dunque, sarebbe stata, e in parte ancora è, sottomessa, vilipesa, calpestata, come segno visibile di un mondo governato da potenze lontane da Dio. Ma, come ogni periodo stabilito da Dio, anche questo ha un termine.
  Con Luca 21:24, il racconto evangelico ci riporta nel cuore della fine dei tempi. E a partire dal versetto 25, il discorso si sposta nuovamente, con forza crescente, verso la manifestazione gloriosa del Figlio dell'uomo. Dopo aver parlato di guerre, persecuzioni, cadute e dispersioni, il Vangelo apre lo sguardo alla speranza finale.

    «Allora si vedrà il Figlio dell'uomo venire su una nuvola con potenza e grande gloria. Quando queste cose cominceranno ad accadere, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione si avvicina» (Luca 21:27-28).

Queste parole sono tra le più consolanti dell'intero discorso profetico. Quando la paura crescerà, quando i segni dei tempi diventeranno visibili, il credente non è chiamato a piegarsi, ma ad alzare lo sguardo. La venuta gloriosa del Messia non sarà motivo di terrore per i suoi, ma l'inizio della liberazione tanto attesa.

(Chiamata di Mezzanotte, maggio/giugno 2025)


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Bibi nel vuoto dell’Onu

ROMA - In una New York dove Israele ha lanciato una campagna su cartelloni pubblicitari e camion intorno al palazzo delle Nazioni Unite e a Times Square con lo slogan “ricorda il 7 ottobre”, ieri è arrivato il premier Benjamin Netanyahu per parlare al Palazzo di vetro. I delegati Onu di molti paesi (fra cui quelli di Irlanda, Spagna, Belgio e Norvegia) hanno abbandonato l’aula appena il premier israeliano ha iniziato a parlare. Netanyahu aveva una spilla durante il discorso e ha invitato a “inquadrare il codice Qr: vedrete perché combattiamo e dobbiamo vincere”.
  Netanyahu ha ricordato che “il 7 ottobre Hamas ha condotto l’attacco peggiore contro gli ebrei dall’Olocausto, ha decapitato uomini, stuprato donne, bruciato bambini vivi, questi mostri hanno preso in ostaggio 200 persone”. Netanyahu ha chiesto il ripristino delle sanzioni contro l’Iran e a Hamas ha detto: “Deponete le armi e liberate tutti i 48 ostaggi o vi daremo la caccia”. Ha liquidato i due stati: “I palestinesi non ci credono, non vogliono uno stato vicino a Israele ma al posto di Israele. Dare ai palestinesi uno stato a un miglio da Gerusalemme dopo il 7 ottobre è come dare uno stato ad al Qaida dopo l’11 settembre a un miglio da New York”.
  Netanyahu ha detto a cosa si oppone, ma non abbiamo sentito cosa li sostituirà. Il commentatore israeliano di destra Shimon Riklin ha elogiato un “discorso forte, intelligente e toccante”, per poi aggiungere un ma: “La lacuna del discorso è la mancanza di una spiegazione su dove andremo con Gaza e l’ignorare il grande banco di sabbia in cui Israele è bloccato. Hamas continuerà a rifiutare ogni accordo. Ogni giorno che passa intrappola Israele nell’arena internazionale ed economica. La nostra trasformazione in Sparta continuerà. Il mercato azionario continuerà a crollare. Altri paesi annulleranno i contratti. Hamas vede tutto e ne è felice, desiderando che la situazione continui. Alla fine, forse dal loro punto di vista, tutta la distruzione a Gaza sarà valsa la pena”. L’ex premier inglese Tony Blair potrebbe giocare un ruolo chiave dopo la fine del conflitto a Gaza: il Financial Times rivela che a Blair sarebbe stato proposto, con l’avallo della Casa Bianca, di presiedere in prima persona la Gaza International Transitional Authority dal momento in cui dovessero cessare le ostilità e gli uomini di Hamas fossero costretti a uscire di scena. Netanyahu ha risposto alle accuse di usare la carestia a Gaza: “Né genocidio né fame, evacuiamo civili e li sfamiamo. Quale paese che sta commettendo un genocidio cerca di convincere i civili a recarsi in una zona sicura? Ci accusano di affamare deliberatamente Gaza. Israele sta deliberatamente sfamando Gaza. Se non c’è abbastanza cibo è perché Hamas lo ruba”. Altoparlanti per il discorso di Netanyahu sono stati installati dall’esercito dentro Gaza su camion e gru, per rivolgersi agli ostaggi. “Non vi abbiamo dimenticato, non riposeremo finché non vi avremo riportato a casa” ha detto Netanyahu in ebraico. Il premier israeliano ha accusato i paesi europei: “Quando il gioco si è fatto duro, avete ceduto. Ma non commetteremo un suicidio perché non avete il coraggio di affrontare media ostili e folle antisemite che chiedono il sangue di Israele”. Netanyahu ne ha castigato l’ipocrisia: “Molti leader critici in pubblico, in privato ci ringraziano”.
  Da diplomatico, l’isolamento per Israele rischia di trasformarsi anche in militare. Israel Hayom, il giornale vicino a Netanyahu, ieri ha rivelato che gli arsenali dello stato ebraico sono mezzi vuoti, complici la guerra che dura da due anni, ben oltre quanto immaginato inizialmente, e gli embarghi imposti da vari paesi sulla vendita di armi e componenti a Israele. Quella di Netanyahu su Sparta rischia di essere ricordata come un’autoprofezia.

Il Foglio, 27 settembre 2025)


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Le sedie vuote e l’orgoglio di Israele

di Niram Ferretti

Sono due gli elementi che devono essere tenuti bene presenti in merito al discorso che ieri, Benjamin Netanyahu ha tenuto all’ONU. Uno sono le numerose sedie vuote lasciate da molteplici delegazioni, la maggioranza islamiche, l’altro è la determinazione con cui il premier israeliano ha rivendicato i molteplici successi bellici ottenuti da Israele in questi ormai due anni di guerra su diversi fronti: contro Hamas, Hezbollah, l’Iran, nel perimetro siriano, con la caduta di Assad.
  Le sedie vuote ci dicono soprattutto di come la propaganda di Hamas, diffusa principalmente da Al Jazeera, la tv del Qatar, grande sponsor della formazione jihadista, e recepita acriticamente da quasi tutto il comparto mediatico occidentale, abbia ottenuto i risultati sperati. Il portavoce di Hamas ha infatti dichiarato come, quelle sedie vuote, illustrino “l’isolamento di Israele e le conseguenze della sua guerra di sterminio”, ed è vero che è stato isolato, è vero che l’incessante criminalizzazione nei suoi confronti lo abbia trasformato oggi, agli occhi di molti, in uno Stato canaglia.
  Da una parte abbiamo dunque, plasticamente evidente, la forza della menzogna, il suo riscontro, Hamas può certamente dirsi soddisfatto, dall’altra abbiamo l’evidenza delle parole di Netanyahu che respingono la menzogna con fatti incontrovertibili.
  Come si fa a praticare un genocidio, avvisando con largo anticipo la popolazione che si vuole sterminare, di attacchi imminenti, in modo che si possa spostare? come si fa a praticare un genocidio quando si fanno entrare nel luogo in cui dovrebbe essere commesso, 2000,000 di derrate alimentari? Come si fa a praticare un genocidio quando il rapporto tra morti civili e terroristi è sostanzialmente paritario?
  Ma questo è solo uno dei punti e non il più saliente del discorso di Netanyahu. Gli altri riguardano i Paesi che, dichiarandosi amici, hanno voltato le spalle ad Israele riconoscendo lo Stato palestinese. Ad essi Netanyahu ha ricordato come uno Stato arabo-palestinese non sia mai venuto in essere a fianco di quello ebraico per il costante rifiuto arabo di farlo nascere, ha ricordato altresì che uno Stato palestinese in miniatura è già nato ed è quello che ha portato al 7 ottobre. Israele non permetterà che, a un miglio da Gerusalemme, possa esserci uno Stato simile, “Non lasceremo che ci venga cacciato in gola”. Hamas e Fatah, ovvero l’Autorità palestinese, sono le due facce della stessa medaglia, entrambe nutrite dal medesimo antisemitismo, dal medesimo rifiuto di Israele, “usano gli stessi testi scolastici di Hamas, esattamente gli stessi. Insegnano ai loro bambini ad odiare gli ebrei e a distruggere lo Stato ebraico”.
  L’altro punto riguarda la stessa storia ebraica, rivendicata con forza e orgoglio, di come Israele sia parte intrinseca e ineludibile di una storia che dura da più di tremila anni, non una pietra di inciampo, ma un “faro del progresso, dell’ingegno e dell’innovazione a beneficio di tutta l’umanità”.
  Verità abbagliante, troppo, e insostenibile per le forze regressive e distruttive in seno all’Islam, per i nemici del progresso e dello sviluppo, di cui Hamas, che si è congratulato per le poltrone vuote, è uno degli esempi più flagranti.
  L’ONU, già definito da Netanyahu, “palude antisemita”, è di nuovo il luogo in cui si palesa quell’avversione nei confronti di Israele cominciata dopo la guerra dei Sei Giorni e continuata nei decenni con un numero esorbitante di risoluzioni contro di esso, che non hanno eguali con quelle nei confronti di nessun altro Stato al mondo.
  L’ONU delle poltrone vuote, di cui alcune lasciate da Paesi occidentali, certifica lo smarrimento morale in cui si trova una parte del mondo libero e democratico, quello che dovrebbe essere risolutamente dalla parte di Israele, ma che invece, per interessi economici, abiezione ideologica e meri calcoli politici, ha scelto di fiancheggiare chi ne vuole la capitolazione.

(L'informale, 27 settembre 2025)


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Il coraggio di Israele, baluardo contro l’isteria idolatrica di chi se ne frega di Hamas

di Giuliano Ferrara

A nessuno interessa l’unica notizia che conta, e che sarebbe o si spera sarà l’esito di una strategia di fermezza e di disperata ma inevitabile difesa di Israele dai suoi assassini. La sconfitta di Hamas, ormai accerchiato e incalzato a Gaza City da un esercito che ha perso mille uomini ed evacua i civili dal campo di guerra, il suo disarmo, la sua resa, il rilascio degli ostaggi vivi e morti, per gli abbracci e per i pianti e i kaddish dei superstiti, la ricostruzione di Gaza sotto un’autorità indipendente con i paesi arabi alla testa e l’egida delle Nazioni Unite. La vittoria di Israele e della sua difesa e la sconfitta di Hamas e la distruzione del suo progetto genocidario, compreso in tutto questo la liberazione degli ostaggi, non è oggetto di interesse e di passione. Non gliene frega niente a nessuno tra quanti si considerano gente umanitaria e militanti dell’antisionismo. Il mondo civilizzato in teoria dovrebbe essere in ansia per ricevere questa notizia, e solo per questo, per accogliere i reduci di una prigionia e di una tortura di due anni nei tunnel, cominciate con l’atroce spargimento di sangue e crudeltà perpetrato da Hamas il 7 ottobre. Questa è o dovrebbe essere l’unica cosa che conta e che rimanda una eco ansiosa nell’aula dell’Assemblea generale dell’Onu: una soluzione militare e politica al dramma della Striscia, possibile solo con la distruzione della banda di predoni e assassini che ha aperto questo tremendo, doloroso capitolo di storia della disumanità. Ieri abbiamo invece assistito a uno spettacolo di isteria collettiva, una miserabile messinscena propagandistica, che di questa fermezza è lo specchio deformante, un’isteria di teatro che ha contagiato visibilmente e strumentalmente le diplomazie di mezzo mondo e più di mezzo mondo. Il capo di Israele si è presentato al podio con un QR Code sul bavero della giacca. Lì c’è la documentazione sul 7 ottobre, l’alternativa era vedere per credere oppure non guardare e urlare al genocidio.
  L’aula in cui si riuniscono i rappresentanti e funzionari di un’organizzazione sottomessa all’ideologia, dove è l’Iran a dettare le regole in tema di diritti umani, un’agenzia internazionale incapace di fare il suo antico mestiere, ormai una tribuna di propaganda antisemita per moltissimi dei suoi componenti, si è rapidamente svuotata, dimostrando che l’isteria non ha limiti nell’emozione collettiva ma è generata dalla lucida strategia di intervento nei conflitti degli stati dei terroristi del jihad e nel tentativo di ridurre l’unica democrazia del medio oriente allo stato di nazione paria. Nello sforzo di far scattare il piano psicologico esplicito di Hamas, cioè addossare a Israele le sofferenze procurate a Gaza dall’infame progrom del 7 ottobre 2023 e trasformare le vittime di un genocidio storico, la Shoah, e di un genocidio programmato e teorizzato dal jihadismo, dal fiume al mare, negli autori di un genocidio inesistente, che si esprime in modo blasfemo nel conto delle vittime civili di guerra esposte a favore di telecamera da una banda di terroristi che si nasconde in una rete sotterranea e lascia il popolo in superficie come agnello sacrificale della sua causa di morte.
  L’unica replica possibile all’isteria di teatro è la fermezza e la tenacia di un popolo e di uno stato e di una comunità combattente che non accettano, come ha detto Netanyahu, quello che sarebbe identico alla formazione di uno stato del terrore di al Qaida a un miglio da New York all’indomani dell’11 settembre. Non dovevano entrare nella Striscia né colpirla, per risparmiare le vittime civili. Oggi Hamas sarebbe il governo legale e diplomaticamente attivo di uno stato fortezza pronto a replicare il 7 ottobre e i palestinesi il suo ostaggio principale e il pegno della sua sopravvivenza come organizzazione terroristica. Non dovevano entrare a Rafah. Sinwar sarebbe vivo e vegeto con tutto il suo stato maggiore. Non dovevano colpire l’Iran, oggi uno stato prenucleare e guerrafondaio che minaccia la pace e l’equilibrio e la vita degli ebrei dell’entità sionista sarebbe forte e autorevole, insieme con i suoi eserciti di riserva come gli Hezbollah e la Siria di Assad. Non dovevano infine entrare nella città di Gaza, nemmeno muovendosi con lenta circospezione e organizzando l’evacuazione di centinaia di migliaia di civili. E così nessuno si augura che accada quello che deve accadere, a nessuno preme la caduta della tirannia di Hamas sui palestinesi, la fine dell’incubo, il rilascio degli ostaggi costretti a scavarsi da soli la fossa nei sotterranei dell’orrore. Quando tutto sarà finito, e il cuore e la testa delle persone che non hanno smarrito il senso etico della storia e non lo hanno barattato per la buona coscienza autogratificante non vedono l’ora che tutto sia finito al più presto, sarà studiata per anni questa guerra idolatrica dell’isteria contro la fermezza e il coraggio di un popolo.

Il Foglio, 27 settembre 2025)


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Netanyahu all’ONU: discorso trasmesso anche a Gaza tra risultati militari e messaggio agli ostaggi

di Samuel Capelluto

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato oggi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in un discorso definito “storico” dall’ufficio del premier, accompagnato da una campagna di comunicazione inedita: la proiezione del filmato delle atrocità del 7 ottobre all’interno del Palazzo di Vetro, l’invito ai delegati a scansionare un codice QR sulla sua giacca per accedere alle immagini del 7 ottobre, e la trasmissione simultanea del suo intervento nella Striscia di Gaza tramite altoparlanti e messaggi SMS inviati direttamente ai telefoni cellulari dei residenti, con traduzione in arabo.
  Netanyahu ha aperto il suo intervento ricordando i risultati conseguiti da Israele al cosiddetto “asse iraniano”: «Abbiamo colpito gli Houthi, distrutto la maggior parte delle capacità di Hamas, ucciso Nasrallah, fatto esplodere beeperim a Hezbollah, demolito l’esercito di Assad e annientato l’apparato nucleare e missilistico balistico dell’Iran». Ha poi ribadito: «Cosa resta dell’asse iraniano? Gli Houthi li abbiamo sconfitti, Sinwar non c’è più, Nasrallah non c’è più, Assad non c’è più. I vertici dell’esercito iraniano – non ci sono più».
  Nel corso dell’intervento Netanyahu ha cercato di rispondere alle accuse internazionali sul piano umanitario, sostenendo che Israele non sta compiendo un genocidio e che gli sforzi israeliani mirano a ridurre le vittime civili. «700.000 abitanti di Gaza sono già stati evacuati verso aree sicure — ha affermato — quale Paese che commette un genocidio cerca di convincere i civili a spostarsi in zone protette?» Ha poi aggiunto: «Israele ha fatto entrare a Gaza oltre due milioni di tonnellate di cibo… davvero una “politica di fame!”».
  Rivolgendosi direttamente agli ostaggi israeliani a Gaza, Netanyahu ha dichiarato in ebraico: «Fratelli nostri, eroi, non vi abbiamo dimenticato neanche per un istante. Non ci fermeremo finché non vi riporteremo tutti a casa – vivi e caduti». Ha poi sintetizzato le condizioni per una rapida fine della guerra: restituzione degli ostaggi, disarmo di Hamas e smilitarizzazione della Striscia.
  In un passaggio informale, il premier ha persino proposto al pubblico un’interazione retorica: «Facciamo un gioco, vi faccio delle domande — chi urla “morte all’America”? Iran, Hamas, Hezbollah, gli Houthi o tutti loro?». Dal palco la risposta riportata è stata «tutti loro!», seguita da Netanyahu: «Risposta corretta!».
  Ha poi affermato che i palestinesi non vogliono uno Stato accanto a Israele ma «uno Stato al posto di Israele», ricordando che «avevano già Gaza e l’hanno trasformata in una base di terrorismo» e avversando la soluzione dei due Stati: «Dare ai palestinesi uno Stato accanto a Gerusalemme è come dare ad al-Qaeda uno Stato accanto a New York. Non lo permetteremo».
  Ampio spazio è stato dedicato anche alla diplomazia regionale. Netanyahu ha detto di credere in un possibile accordo con la Siria «che garantisca la sicurezza delle minoranze come i drusi», e ha rivolto un appello diretto a Beirut: «Se il governo libanese agirà contro Hezbollah potremo raggiungere una pace stabile». Secondo il premier, la vittoria su Hamas «porterà a una massiccia espansione degli Accordi di Abramo».
  La trasmissione del discorso ai cittadini di Gaza è stata definita da Netanyahu un messaggio di chiarezza e pressione: «La guerra può finire subito con la restituzione degli ostaggi, il disarmo di Hamas e la smilitarizzazione della Striscia. Chi lo farà, vivrà. Chi non lo farà, sarà perseguitato».
  Alcune delle famiglie degli ostaggi hanno reagito con durezza. Einav Tzangauker, madre di Matan, ha dichiarato di aver provato «un pugno nello stomaco» sentendo il premier citare il nome del figlio mentre si trova ancora in prigionia a Gaza: «Mentre Matan subisce torture, Netanyahu fa su di lui un giro propagandistico all’ONU». Altre famiglie hanno parlato di «vergogna» per il fatto che il premier abbia menzionato solo parte dei rapiti, quelli vivi, accusandolo di «chiedere al mondo di ricordare il 7 ottobre mentre dimentica 28 ostaggi».
  Il discorso ha avuto immediata eco internazionale: fonti riferiscono che, al termine dell’intervento, il presidente americano Donald Trump abbia detto ai giornalisti che «sembra che avremo presto un accordo a Gaza».
  La giornata alle Nazioni Unite ha così mostrato un Netanyahu deciso a ribadire la linea di Israele: eliminare Hamas, impedire la nascita di uno Stato palestinese che possa minacciare Gerusalemme e ampliare le prospettive di pace partendo da una posizione di forza. La trasmissione del discorso fino a Gaza, insieme alla proiezione delle immagini del 7 ottobre, ha reso evidente la volontà di parlare non solo ai leader mondiali, ma anche ai nemici sul terreno e ai civili coinvolti.
  Ma al centro del messaggio restano soprattutto gli ostaggi: Netanyahu ha ripetuto che Israele non li dimentica neanche per un istante e che ogni sforzo politico e militare continuerà fino al loro ritorno.

(Shalom, 27 settembre 2025)
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«Mentre Matan subisce torture, Netanyahu fa su di lui un giro propagandistico all’ONU». Queste parole della madre di un ostaggio, dette in un'occasione come questa, sono vergognose. Avrebbero dovuto essere respinte con parole severe, non fatte conoscere ad altri. M.C.

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Storie di donne al fronte, le soldatesse Idf che abbattono stereotipi e terroristi

“Sentivamo di dover studiare più degli altri. Col tempo i dubbi spariscono”

di Paolo Crucianelli

Dalla danza classica al campo di battaglia. La tenente Sharon. ex ballerina promessa di una compagnia a Barcellona, oggi comanda un plotone del battaglione di ricognizione “Givati”, con le mani sporche di grasso dopo aver aggiustato un motore di un carro armato. Con lei, la tenente Karen, ufficiale di supporto al fuoco nella stessa unità; la dottoressa Abigail, medico nel battaglione di ricognizione “Nahal”; e la maggiore Naomi., ufficiale operativo del battaglione di ricognizione “Haruv”. Quattro donne che hanno scelto la prima linea, demolendo pregiudizi e dimostrando che il coraggio non ha genere.
Fino a pochi anni fa, l’idea di soldatesse in ruoli di combattimento suscitava scetticismo. Persino un ministro come Bezalel Smotrich aveva liquidato il tema affermando che «l’esercito deve combattere e vincere, non promuovere il femminismo». Ma la guerra di Gaza ha cambiato tutto: le donne hanno combattuto, guidato operazioni e salvato vite sotto il fuoco. «Un tempo si temeva l’idea di una donna caduta prigioniera», ricorda la maggiore Naomi, 25 anni. «Oggi ci spaventa altrettanto pensare a uomini in cattività. Se la mia vita vale come quella di un uomo, non c’è motivo di escludere le donne dal fronte».
Le prove sul campo non sono mancate. La tenente Karen ha coordinato il fuoco di artiglieria dopo un attacco che aveva ucciso tre commilitoni: «Sapevo che se sbagliavo i calcoli avrei colpito i nostri». La dottoressa Abigail ha curato soldati feriti in scontri a fuoco a Gaza e in Libano: «Sul campo non puoi pensare alle emozioni, solo a quello che devi fare». Sharon racconta di aver rimesso in moto un blindato sotto le esplosioni: «L’adrenalina è enorme, ma sai che senza di te quel mezzo non si muove». Entrare in reparti tradizionalmente maschili ha richiesto tenacia. «All’inizio sentivo di dover studiare più degli altri, imparare a memoria ogni vite e bullone», dice Sharon «Poi il comandante mi disse: ti considero una professionista, e da lì ho trovato la mia sicurezza». Anche Abigail ricorda lo scetticismo iniziale di un riservista: «Ma una volta dimostrata l’affidabilità, i dubbi spariscono».
Le quattro ufficiali respingono con decisione le accuse di “stragi indiscriminate” che vengono mosse contro l’IDF. «Le procedure di approvazione degli obiettivi sono rigidissime», sottolinea Naomi «Abbiamo evitato di colpire una donna e l’abbiamo accompagnata in un’area sicura: ne sono stata fiera». Karen conferma: «Ogni attacco è chirurgico, supervisionato dai gradi più alti». La guerra le ha fatte crescere. «Dormire due ore a notte, non lavarsi per settimane, vedere la morte da vicino: ci ha temprate», dice Karen «Quando torno a casa capisco quanto sia preziosa la normalità», aggiunge Naomi. Guardando al futuro, i progetti sono diversi: Karen vuole studiare medicina, Sharon sogna una laurea in legge e relazioni internazionali, Abigail punta alla neurochirurgia, mentre Naomi proseguirà la carriera militare come vicecomandante di battaglione. Tutte però condividono la stessa convinzione: «Chi pensa che una donna non possa combattere si sbaglia di grosso. Sul campo conta solo la professionalità».

(Il Riformista, 25 settembre 2025)

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La flotilla per Gaza, il blocco navale di Israele e le conseguenze legali per gli italiani 

di Franco Londei

Cerchiamo di chiarire alcuni punti controversi sul blocco navale israeliano su Gaza, sul perché è legale e sul perché se la flotilla per Gaza forzasse il blocco sarebbe passibile di gravi conseguenze legali anche in Italia (per gli italiani). 
Partiamo dallo spiegare perché il blocco navale israeliano su Gaza è legittimo: 
Secondo la Commissione d’inchiesta del Segretario Generale delle Nazioni Unite sul raid della Mavi Marmara (2010) nota come Rapporto Palmer (dal nome del presidente, Sir Geoffrey Palmer, ex primo ministro neozelandese), il blocco navale israeliano su Gaza è legittimo in base al Diritto Internazionale. 

Cosa ha detto il Rapporto Palmer (2011): 

  • Ha riconosciuto che Israele affronta una seria minaccia alla propria sicurezza da parte di Hamas
  • Ha concluso che il blocco navale imposto da Israele a Gaza era, in linea di principio, legale sotto il diritto internazionale, come misura legittima di sicurezza. 
  • Tuttavia, ha criticato duramente l’uso eccessivo e sproporzionato della forza da parte delle forze israeliane durante l’abbordaggio della Mavi Marmara, definendolo “inaccettabile”. 

Cosa dice il Diritto Internazionale  
  Base giuridica: il diritto internazionale dei conflitti armati (DICA) 

  • Le norme rilevanti sono contenute nelle Convenzioni dell’Aia e di Ginevra e nel Manuale di Sanremo sul diritto dei conflitti armati in mare (1994), che, pur non essendo un trattato vincolante, è spesso richiamato come riferimento. 
  • In linea teorica, un blocco navale può essere considerato legale se: 
  • è pubblicamente dichiarato e notificato; 
  • è efficace (cioè applicato in modo reale e non solo proclamato); 
  • non ha l’obiettivo principale di affamare la popolazione civile; 
  • consente il passaggio di aiuti umanitari essenziali, sotto controllo dell’autorità che impone il blocco; 
  • non discrimina tra Stati neutrali. 
Quindi, quando sentiamo qualche esaltato affermare che “la flotilla vuole forzare il blocco illegale israeliano su Gaza” sappiate che dice una sciocchezza. Il blocco navale su Gaza è perfettamente legittimo e rispetta tutti i requisiti richiesti dal Diritto Internazionale.  
Anzi, per quanto riguarda i cittadini italiani, un amico mi fa notare che commettono un reato penalmente perseguibile in base all’Articolo 244 del codice penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) [Aggiornato al 03/07/2025] Atti ostili verso uno Stato estero, che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra il quale afferma che:  
Chiunque, senza l’approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da sei a diciotto anni; se la guerra avviene, è punito con l’ergastolo. Qualora gli atti ostili siano tali da turbare soltanto le relazioni con un Governo estero, ovvero da esporre lo Stato italiano o i suoi cittadini, ovunque residenti, al pericolo di rappresaglie o di ritorsioni, la pena è della reclusione da tre a dodici anni. Se segue la rottura delle relazioni diplomatiche, o se avvengono le rappresaglie o le ritorsioni, la pena è della reclusione da cinque a quindici anni.  
Essendoci in Italia l’obbligatorietà dell’azione penale e considerando che c’è almeno una nave da guerra italiana a protezione della flotilla per Gaza, al loro rientro in patria i cittadini italiani dovrebbero essere quantomeno indagati.  

Altre piccole considerazioni: 

  • Uno Stato che vuole fare un genocidio non ci mette due anni per conquistare un terreno di pochi Kmq come la Striscia di Gaza, specie se ha i mezzi militari che ha Israele. Se ci mette tutto quel tempo è perché pone attenzione alla vita dei civili. 
  • Si sente spesso dire che il numero delle vittime civili è “accertato”. È accertato da chi? Come è stato accertato? L’unica fonte fino ad oggi è Hamas, quindi non c’è proprio niente di accertato. 
  • Sempre sulle vittime si sente spesso affermare che sono in maggioranza “donne e bambini”. Non esiste un solo dato che lo provi. Non solo, nel conteggio delle vittime non si fa mai cenno al numero dei miliziani morti, tra i quali ci sono sicuramente molti bambini soldato di Hamas dei quali le tantissime ONG che ci sono a Gaza si guardano bene di parlare. La verità è che nessuno sa quanti sono i morti civili, quanti sono i terroristi, quanti i bambini e quanti i bambini soldato.
(Rights Reporter, 27 settembre 2025)
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Dovranno un giorno vergognarsi tutti coloro che oggi, con consapevole e grave volontà o ignorante e colpevole leggerezza, usano il termine "genocidio" per indicare quello che oggi sta facendo lo Stato d'Israele in difesa della sua esistenza. M.C.

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Un report svela i rapporti tra la Flotilla e Hamas

di Nathan Greppi

Un rapporto recentemente pubblicato per conto del governo israeliano, dal titolo Waves of Hate: The Terror Flotilla, ha messo in luce i legami esistenti tra i capi della Global Sumud Flotilla e alti dirigenti di Hamas e della Jihad Islamica palestinese.
Sebbene il Comitato Direttivo della Flotilla abbia scelto di presentare Greta Thunberg come testimonial, in realtà l’attivista svedese non sarebbe affatto una figura centrale nell’organizzazione. La vera leadership è composta da individui che presentano legami assai documentati con Hamas e i Fratelli Musulmani.

I leader
  Una delle figure chiave dietro la Global Sumud Flotilla è Saif Abu Keshk , palestinese residente a Barcellona e membro del loro Comitato Direttivo. Nel giugno 2025, le autorità egiziane hanno arrestato Abu Keshk, che stava guidando la campagna “Marcia verso Gaza” in collaborazione con Yahia Sarri, un importante esponente religioso dei Fratelli Musulmani in Algeria direttamente legato ad Hamas.
Nel 2022, Sarri è stato in contatto diretto con alti funzionari di Hamas durante una conferenza tenutasi in Algeria, in occasione del 68° anniversario dell’inizio della guerra d’indipendenza algerina. All’evento hanno partecipato esponenti di spicco di Hamas, tra cui Zaher Jabarin e Osama Hamdan.
Nel gennaio 2024, Sarri ha incontrato in veste ufficiale Basem Naim, alto funzionario di Hamas di cui era il capo del dipartimento per le relazioni internazionali. Questo incontro ha posto le basi per la collaborazione di Sarri con la Marcia su Gaza e la Global Sumud Flotilla.

Legami ramificati
  Molti membri del Comitato Direttivo della Flotilla hanno partecipato a incontri con rappresentanti di organizzazioni terroristiche designate come tali dagli Stati Uniti, tra cui Hamas e la Jihad Islamica.
Muhammad Nadir al-Nuri, cittadino malese nato nel 1987 in Scozia, fondatore e CEO dell’associazione Cinta Gaza Malaysia, si presenta come un “attivista umanitario”. Al-Nuri ha finanziato diverse iniziative a beneficio di enti di Gaza affiliati ad Hamas. Ad esempio, ha finanziato la costruzione di un edificio per l’Ufficio per lo Sviluppo Sociale, un’istituzione operante sotto il controllo di Hamas.
Durante la cerimonia di inaugurazione, al-Nuri è stato fotografato insieme a Ghazi Hamad, un alto funzionario dell’ufficio politico di Hamas, che solo di recente ha dichiarato che con l’ondata di riconoscimenti di uno Stato palestinese da parte dei paesi occidentali si stanno cogliendo i “frutti” degli attacchi del 7 ottobre 2023.
Marouan Ben Guettaia è un attivista filopalestinese algerino affiliato al Convoglio Soumoud. Oltre a mantenere legami personali con Sarri, è stato visto incontrare l’alto funzionario di Hamas Youssef Hamdan.
Un altro membro del comitato direttivo della Flotilla è Wael Nawar, che in precedenza ha ricoperto il ruolo di coordinatore e portavoce del Convoglio Soumoud. È stato ripreso durante incontri con rappresentanti di Hamas, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e della Jihad Islamica Palestinese.
Nel febbraio 2025, Nawar ha partecipato al funerale di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah ucciso in un attacco israeliano. Durante l’evento, è stato fotografato mentre incontrava Ihsan Attaya, un alto funzionario della Jihad Islamica Palestinese.

(Bet Magazine Mosaico, 26 settembre 2025)

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“Meloni all’Onu stigmatizza l’aggressione russa e critica Israele per aver superato il limite”

Dal giornale “La Verità” riportiamo parte del discorso del Presidente del Consiglio alll’Assemblea Generale dell’Onu.

LA GUERRA IN UCRAINA
Tre anni e mezzo fa, il 24 febbraio 2022, Mosca ha deciso di attaccare Kiev. Penso che non si sia riflettuto abbastanza sulle conseguenze di quella scelta e su un punto che considero fondamentale: la Federazione Russa, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ha deliberatamente calpestato l'articolo 2 dello Statuto dell'Onu, violando l'integrità e l'indipendenza politica di un altro Stato sovrano, con la volontà di annetterne il territorio. E ancora oggi non si mostra disponibile ad accogliere seriamente alcun invito a sedersi al tavolo della pace. Questa ferita profonda inferta al diritto internazionale, come era prevedibile, ha scatenato effetti destabilizzanti molto oltre i confini nei quali si consuma quella guerra. Il conflitto in Ucraina ha riacceso, e fatto detonare, diversi altri focolai di crisi. Mentre le Nazioni Unite si sono ulteriormente disunite.

IL MEDIO ORIENTE
Non è un caso, che Hamas abbia approfittato dell'indebolirsi di questa architettura per sferrare - il 7 ottobre del 2023 - il suo attacco contro Israele. La ferocia e la brutalità di quell'attacco - la caccia ai civili inermi - hanno spinto Israele ad una reazione, in principio, legittima. Perché ogni Stato e ogni popolo ha il diritto di difendersi. Ma la reazione a una aggressione deve sempre rispettare il principio di proporzionalità. Vale per gli individui, e vale a maggior ragione per gli Stati. E Israele ha superato quel limite, con una guerra su larga scala che sta coinvolgendo oltre misura la popolazione civile palestinese. E su questo limite che lo Stato ebraico ha finito per infrangere le norme umanitarie, causando una strage tra i civili. Una scelta che l'Italia ha più volte definito inaccettabile, e che porterà al nostro voto favorevole su alcune delle sanzioni proposte dalla Commissione Europea verso Israele.
Però non ci accodiamo a chi scarica su Israele tutta la responsabilità di quello che accade a Gaza. Perché è Hamas ad aver scatenato la guerra. È Hamas che potrebbe far cessare le sofferenze dei palestinesi, liberando subito tutti gli ostaggi. È Hamas che sembra voler prosperare sulla sofferenza del popolo che dice di rappresentare. Israele deve uscire dalla trappola di questa guerra. Lo deve fare per la storia del popolo ebraico, per la sua democrazia, per gli innocenti, per i valori universali del mondo libero di cui fa parte. E per chiudere una guerra servono soluzioni concrete. Perché la pace non si costruisce solo con gli appelli, o con proclami ideologici accolti da chi la pace non la vuole. La pace si costruisce con pazienza, con coraggio, con ragionevolezza. I bambini di Gaza, come quelli che l'Italia sta orgogliosamente accogliendo e curando nei propri ospedali, chiedono risposte che possano migliorare la loro condizione, e su quello siamo impegnati. L'Italia c'è e ci sarà per chiunque sia disposto a lavorare a un piano serio per il rilascio degli ostaggi, un cessate il fuoco permanente, l'esclusione di Hamas da ogni dinamica di governo in Palestina, il graduale ritiro di Israele da Gaza, l'impegno della comunità internazionale nella gestione della fase successiva al cessate il fuoco, fino alla realizzazione della prospettiva dei due Stati. Consideriamo, in questo senso, molto interessanti le proposte che il presidente degli Stati Uniti ha discusso con i paesi arabi in queste ore e siamo pronti ovviamente a dare una mano. Riteniamo che Israele non abbia il diritto di impedire che domani nasca uno Stato palestinese, né di costruire nuovi insediamenti in Cisgiordania al fine di impedirlo. Per questo abbiamo sottoscritto la Dichiarazione di New York sulla soluzione dei due Stati. È la storica posizione dell'Italia sulla questione palestinese, una posizione che non è mai cambiata. Riteniamo, allo stesso tempo, che il riconoscimento della Palestina debba avere due precondizioni irrinunciabili: il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e la rinuncia da parte di Hamas ad avere qualsiasi ruolo nel governo della Palestina. Perché chi ha scatenato il conflitto non può essere premiato.

(La Verità, 26 settembre 2025)
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E’ un discorso in classico stile democristiano. Non è né critica, né elogio: è rassegnazione. Di più non si poteva sperare. Per la posizione politica internazionale dell’Italia e per lo spessore di conoscenza personale della premier in fatto di  politica mediorientale. È bene dire questo perché in altri settori di politica interna Giorgia Meloni ha mostrato di avere competenze, capacità e grinta di primo piano, ma la gioventù biologica e anche politica in fatto di questioni estere si fa sentire. Una cosa si potrebbe chiedere: che significa “lavorare a un piano serio per il rilascio degli ostaggi”? Che lavoro c’è da fare? Perché non dire semplicemente che bisogna lasciarli tutti e subito? Aggiungendo magari qualcosa su quello si dovrebbe fare ai rapitori. Qualcosa di più si poteva anche dire sul “principio di proporzionalità”. Che cos’è? E’ difficile da definire con precisione. Effettivamente, l’azione di Israele è molto diversa da quella di Hamas. Per equipararla Israele potrebbe inizialmente catturare a sua volta 250 ostaggi palestinesi a caso, trattarli in modo “proporzionale” a quello usato da Hamas con i suoi, e invitare l’Onu a “lavorare a un piano serio per il rilascio degli ostaggi” di entrambe le parti. È un paragone stupido, è vero, ma è in questo stile che viene trattato in sede pubblica l’aspetto più grave della congiuntura in cui si trova oggi il mondo. M.C.

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Il leader palestinese “moderato” si congratula con il terrorista e assassino di bambini rilasciato

“Mahmud Abbas era e rimane un nemico, un sostenitore del terrorismo, e l'autorità da lui guidata era e rimane un'organizzazione terroristica”.

Mahmud Abbas, presidente dell'OLP e dell'Autorità Palestinese (AP), dovrebbe essere il partner di Israele per la pace. Secondo l'opinione pubblica internazionale, è anche considerato un leader arabo “moderato”. Tuttavia, le sue azioni continuano a smentire questa definizione.
Sabato scorso Abbas ha nuovamente incoraggiato il terrorismo antiebraico quando si è congratulato personalmente con un terrorista palestinese rilasciato che era stato incarcerato in Israele per aver ucciso o tentato di uccidere indiscriminatamente uomini, donne e bambini ebrei.
L'emittente televisiva pubblica israeliana KAN ha trasmesso la registrazione di una telefonata tra Abbas e Yasser Abu Bakr, condannato nel 2004 a 115 anni di carcere per aver partecipato ad attacchi terroristici in cui sono stati uccisi diversi civili israeliani, tra cui un bambino di nove mesi, e molti altri sono rimasti feriti.
Nella registrazione si sente il presidente dell'Autorità Palestinese congratularsi con Abu Bakr per il suo rilascio dal carcere e dirgli che la sua detenzione era stata “per il bene della nazione palestinese”. Abbas ha anche suggerito che la pena fosse eccessiva, come mostra una traduzione della piattaforma di notizie israeliana Walla.
Le dichiarazioni di Abbas hanno suscitato condanne da parte di politici israeliani, tra cui il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich.
"La sua telefonata di stasera a un assassino di ebrei è un campanello d'allarme per coloro che nutrono ancora illusioni sul fatto che l'Autorità Palestinese possa essere un'alternativa ad Hamas nella Striscia di Gaza dopo la guerra. Questo non accadrà. Né a Gaza né in Giudea e Samaria“, ha detto Smotrich. ”Mahmoud Abbas era e rimane un nemico, un sostenitore e promotore del terrorismo, e l'autorità da lui guidata era e rimane un'organizzazione terroristica e non è un ‘partner’".
Sabato Gerusalemme ha rilasciato circa 200 terroristi, nell'ambito della seconda ondata di rilasci nella prima fase del cessate il fuoco. Ciò è avvenuto in cambio di quattro soldatesse delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) catturate durante il massacro compiuto dal gruppo terroristico il 7 ottobre 2023 nel sud di Israele.
Molti dei terroristi rilasciati sabato stavano scontando l'ergastolo per attacchi mortali contro israeliani.
109 terroristi palestinesi sono stati riportati in Giudea e Samaria, 21 nella Striscia di Gaza e i restanti – circa 70 – sono stati espulsi in Egitto. Secondo i termini dell'accordo, entrato in vigore il 19 gennaio, essi dovrebbero partire per altri paesi.
Al Cairo, i terroristi rilasciati sono stati accolti da rappresentanti di Hamas e della Jihad islamica palestinese, sostenuta dall'Iran. Secondo quanto riferito, almeno alcuni dei terroristi si sono poi recati in Qatar. (JNS)

(Israel Heute, 26 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Record di esecuzioni in Iran, ma pochi ci fanno caso se Israele non c’entra

di Sadira Efseryan

La Repubblica Islamica dell’Iran ha giustiziato almeno mille persone negli ultimi nove mesi, nel più assoluto silenzio delle organizzazioni per la difesa dei Diritti Umani, evidentemente troppo prese a tenere gli occhi su Gaza.
A denunciarlo è l’organizzazione umanitaria Iran Human Rights organization (IHR), con sede in Norvegia, la quale fa notare come solo nell’ultima settimana le esecuzioni in Iran siano state almeno 64, con una escalation senza precedenti.
Secondo quanto riferito da fonti locali, dopo la guerra dei 12 giorni con Israele, l’Iran avrebbe dato il via ad una campagna di incarcerazioni di massa a danno di dissidenti politici fatti passare per “spie di Israele”. Da due settimane sono iniziate le esecuzioni di massa le quali però vengono indicate come “esecuzioni di trafficanti di droga”, ma secondo le fonti in realtà sarebbero per buona parte dissidenti politici, tra cui molte ragazze e persino alcune donne incinte.
Il Presidente iraniano Masoud Pezeshkian, definito da molti un “moderato” e  per questo eletto con molti voti di giovani e di donne, risulta in realtà il presidente del record di esecuzioni.

(Rights Reporter, 26 settembre 2025)

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Tesoro bizantino di 1400 anni fa ritrovato a Sussita

di Michelle Zarfati

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Un eccezionale reperto archeologico risalente al periodo bizantino è emerso in Israele: gli archeologi dell’Università di Haifa hanno scoperto a Sussita, sulle alture del Golan, un tesoro sepolto che comprende 97 monete d’oro puro e decine di frammenti di orecchini in oro decorati con perle, pietre semipreziose e vetro.  La scoperta è datata tra il VI e il VII secolo d.C.; uno dei pezzi più rari è una tremissis probabilmente coniata a Cipro intorno al 610, durante il regno dell’imperatore Eraclio il Vecchio e suo figlio, nell’epoca della rivolta contro l’imperatore Foca.
  Secondo i ricercatori, il tesoro sarebbe stato nascosto “per paura della conquista sassanide-persiana”. Una curiosità: alcune delle monete recano ancora tracce del sacchetto di stoffa che le conteneva. L’opera degli orefici dell’epoca si rivela particolarmente raffinata nei gioielli: metalli di pregio, pietre, perle… un’eleganza che ha sorpreso gli studiosi. Sussita, situata con vista sul Mar di Galilea, era nei secoli bizantini un centro cristiano importante, sede vescovile, con numerose chiese; la scoperta amplia la comprensione di come convivevano culture, comunità e pratiche religiose in quell’area tra cristiani, pagani e altri gruppi.
  (Shalom, 26 settembre 2025)

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Gariwo, vetrina antisionista

di Davide Cavaliere

Nel momento in cui il conflitto tra Israele e Hamas vive uno dei suoi momenti più incandescenti e drammatici, le parole contano. Eccome se contano. Il report pubblicato da Gariwo, dal titolo «Le dodici tattiche di Israele per negare il genocidio», curato da Gregory H. Stanton del Genocide Watch, non solo travisa la realtà della guerra in corso, ma offre una rappresentazione ideologica e unilaterale, che mina alla radice ogni tentativo di lettura equilibrata della situazione. Ancora più grave: alimenta una narrazione che avvicina, fino a sovrapporre, la legittima critica alle politiche di un governo alla delegittimazione dell’intero Stato d’Israele – operazione in cui è specializzato uno degli autori di punta di Gariwo: Anna Foa.
Il report in questione, fin dall’introduzione, inanella un errore dopo l’altro, a cominciare dell’affermazione secondo cui «Gli Stati arabi e altri Stati musulmani rifiutarono la creazione di Israele perché il suo territorio era stato sottratto a parte della Palestina». Le cose sono andate esattamente all’opposto: del territorio mandatario designato per l’erezione di uno Stato ebraico, circa il 72% fu destinato agli arabi e solo il 28% per il popolo ebraico (si rimanda, per quanto concerne la suddivisione del Mandato Britannico per la Palestina, agli ottimi studi di David Elber).
Il report prosegue con un secondo errore: «700.000 palestinesi furono espulsi o fuggirono da Israele sotto la pressione di paramilitari sionisti o delle forze militari israeliane». Come ha scritto Benny Morris, il più autorevole storico del conflitto arabo-israeliano: «Ciò che accadde fu che in alcuni luoghi alcuni ufficiali espulsero della gente, ma in molti casi gli arabi semplicemente fuggirono». Ma veniamo più propriamente al tema del report, ovvero l’accusa di «genocidio» mossa a Israele.
Definire le azioni israeliane come «genocidio» è un’accusa gravissima, usarla per descrivere un conflitto armato in cui uno Stato democratico risponde a un attacco terroristico brutale e senza precedenti – il mega pogrom del 7 ottobre 2023, con 1.200 israeliani massacrati, stupri, rapimenti, corpi bruciati – significa svuotare la parola di significato e farne un’arma ideologica. Il diritto internazionale, almeno su un punto, è chiaro: per parlare di genocidio è necessario vi sia l’intento specifico di distruggere un gruppo in quanto tale. Nessuna prova concreta, né dai documenti ufficiali né dalle dichiarazioni delle autorità israeliane né deducibile dalle azioni sul campo delle Forze di Difesa Israeliane, supporta questa accusa.
L’articolo, poi, elenca dodici presunte «tattiche» con cui Israele «negherebbe» il «genocidio», ma nessuna di esse viene discussa con rigore o verificata alla luce dei fatti o del diritto. È una lista ideologica, costruita per dimostrare una tesi preconfezionata. Nessuna delle complesse dinamiche del conflitto viene presa in considerazione: il ruolo di Hamas, l’uso sistematico di scudi umani, i tunnel sotto ospedali e scuole, la strategia deliberata di coinvolgere civili per guadagnare il favore mediatico. Tutto viene ricondotto a una narrativa semplicistica e manichea: Israele male assoluto, Palestina vittima sacrificale. Si dimentica, inoltre, che Israele è una democrazia pluralista, dove esiste un’opposizione interna, una stampa libera, un sistema giudiziario che ha più volte limitato l’operato del governo, e una società civile che discute aspramente ogni decisione militare. Non un regime autoritario monolitico.
L’operazione a Gaza è condotta in un contesto urbano densamente popolato, contro un nemico che si nasconde tra i civili e usa la popolazione come scudo. Le Forze di Difesa Israeliane adottano misure senza precedenti per minimizzare le vittime civili: volantini, messaggi mirati, corridoi umanitari. Può essere legittimo discutere se queste misure siano sufficienti, ma ignorarle completamente è disonesto. L’articolo cita solo le statistiche fornite dal Ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas, o quelle dell’ONU, agenzia inquinata da una storica e documentata pregiudiziale contro lo Stato ebraico, senza mai mettere in discussione la loro attendibilità. Come possiamo parlare di verità se ci affidiamo a una fonte diretta di una parte belligerante, con un evidente interesse a gonfiare i numeri delle vittime civili?
Il report raggiunge vette d’involontaria comicità quanto parla di «destino divino di Israele». Secondo l’autore «Gli ebrei ultra-sionisti sostengono di avere un diritto divino a occupare Gaza e la Cisgiordania». Si tratta di una mistificazione, l’area della Giudea e la Samaria, impropriamente nota come «Cisgiordania», appartiene a Israele in base a quanto stabilito dal Mandato Britannico per la Palestina, l’unico documento dotato di un valore giuridico definitivo secondo il diritto internazionale. Occupata illegalmente della Giordania dal 1948 al 1967 e resa judenrein dagli arabi, la «Cisgiordania» viene, oggi, rivendicata su basi storiche e giuridiche, e non in nome di un improbabile «messianismo» ebraico.
Il report presentato da Gariwo è un compendio delle peggiori calunnie mai formulate contro Israele. Sebbene il rapporto presenti anche qualche minima e ipocrita raccomandazione per Hamas («Hamas deve liberare ORA tutti gli ostaggi rimanenti»), rimane un testo fondamentalmente antisionista, come dimostrano le seguenti espressioni: «occupazione della Cisgiordania», «persecuzione dei palestinesi», «distruzione genocidaria di Gaza».
Ormai, Gariwo, più che di piantare alberi per «Giusti» veri o presunti, si occupa di seminare odio anti-israeliano. Se continuerà su questa linea, il prossimo albero lo dedicherà al «resistente» Yahya Sinwar.

(L'informale, 26 settembre 2025)

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Eilat tra attacchi Houthi e alberghi pieni per Sukkot

Durante l’attacco degli Houthi al centro commerciale di Eilat, l’ultimo di una lunga serie contro Israele, Hanna Gamarsani non è riuscita a distinguere se il rumore che aveva sentito fosse davvero un’esplosione. «Ero seduta fuori, ho sentito l’allarme e sono corsa in hotel», racconta a Ynet. «Poi la deflagrazione sopra la mia testa. Mio marito era con me, ma non sapevo dove andare. Ero sotto shock, tremavo». Gamarsani è rimasta ferita in modo lieve, ma ha descritto soprattutto la paura: «Non sapevo nemmeno se ci fosse un rifugio vicino. Alla fine ci siamo nascosti in un magazzino».
  Ieri sera, a causa del drone esplosivo lanciato dallo Yemen, all’ospedale Yoseftal sono arrivate 48 persone: due in condizioni gravi, una in condizioni moderate, le altre con ferite leggere o sintomi d’ansia. «In pochi minuti il pronto soccorso era pieno», ha spiegato a Kan Daher Agbariya, responsabile dei servizi di emergenza. «Siamo addestrati a gestire scenari di maxi-emergenza e possiamo trattare fino a 250 pazienti. Ma la verità è che in un evento con molte vittime Eilat sarebbe scoperta».
  Il sindaco Eli Lankri ripete lo stesso timore in tutte le interviste: «Se ci fossero stati più feriti gravi, non saremmo stati in grado di garantire cure adeguate. Le lacune nei servizi sanitari qui sono enormi. Abbiamo i peggiori servizi medici dello stato di Israele. È ora di intervenire». L’ospedale Yoseftal ha 65 posti letto e un pronto soccorso non protetto: i reparti più delicati, come maternità e dialisi, avranno spazi sicuri solo nel 2028.
  Negli ultimi mesi Eilat è diventata un fronte sempre più caldo del conflitto. Dall’inizio della guerra a Gaza circa 300 droni sono stati lanciati dai ribelli yemeniti verso la città, dieci dei quali hanno superato le difese e sono esplosi in aree civili. Hanno colpito l’aeroporto Ramon, l’ingresso dell’hotel Jacob e, ieri sera, il cuore del distretto turistico, tra negozi, bar e pub. «Gli allarmi non sempre suonano», ha lamentato una residente della città. «Ieri ho avuto un attacco di panico, correvamo senza sapere dove portarci i bambini. La città non è pronta per la guerra».
  Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha telefonato al sindaco di Eilat per garantire sostegno e promesso: «Ogni attacco alle città israeliane sarà seguito da un duro e doloroso colpo contro il regime terroristico degli Houthi». L’esercito lavora a rafforzare ulteriormente le difese aeree nel sud e c’è un’indagine aperta per capire perché il drone non sia stato intercettato.
  Accanto alla paura, ci sono i danni economici. Thomas Levy, proprietario del bar Bardak, ha visto il locale appena ristrutturato nuovamente danneggiato: «Siamo alla vigilia di Sukkot, dopo due anni di calo la città non regge altri colpi. Le pratiche burocratiche sono lente, sembra che nessuno abbia fretta di rimetterci in piedi», ha spiegato a ynet Levy.
  Eppure, sottolinea il quotidiano israeliano, Eilat continua a riempirsi. «Non ci sono cancellazioni per Sukkot», sottolinea Itamar Elitzur, direttore dell’associazione albergatori. «La città è quasi al completo: il 90% delle camere sono piene. È tutto turismo interno. Gli hotel sono preparati, le procedure funzionano, le persone vogliono continuare a vivere». Anche Lior Raviv, ceo della catena Isrotel, conferma: «Nessuno ha lasciato gli hotel dopo l’attacco. È finita, e basta. La gente in Israele è abituata ad affrontare le emergenze».
  Gli Houthi hanno preso di mira il simbolo stesso del tempo libero israeliano: il Mar Rosso, il turismo, l’economia stagionale. «I nemici vogliono distruggere la nostra routine», ha commentato il sindaco Lankri. «Il modo migliore per rispondere è non lasciarglielo fare».

(moked, 25 settembre 2025)

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Nostalgia della nazione ebraica

Dal libro “Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo” riportiamo un capitolo in cui si commenta il nocciolo del pensiero di Leon Pinsker (1821-1891) sulla “questione ebraica”, così come si presentava nell’Ottocento. Secondo Pinsker, gli ebrei senza terra sono come uno spirito vagante senza corpo, dunque uno spettro. E gli spettri fanno paura. Dare un corpo a questo spirito sarebbe la soluzione, e il corpo non potrebbe essere che la nazione ebraica. Le difficoltà che vede Pinsker a questa soluzione sono soprattutto interne, cioè tra gli ebrei, soggetti a una malattia che non percepiscono e di cui dunque non cercano il rimedio. Quando Pinsker morì, la nazione ebraica non era neppure all’orizzonte, ma ora che è presente, le ragioni che Pinsker porta per sottolineare l’importanza vitale del legame tra spirito e corpo, tra singoli e nazione, possono servire egregiamente come quadro per una riflessione su quello che sta avvenendo oggi tra ebrei, Israele e resto del mondo.

di Marcello Cicchese

Dalla fine dell’Ottocento la cosiddetta “questione ebraica” si è posta in una forma nuova perché ha cominciato a ruotare intorno al concetto di nazione. Da allora non è stato più possibile esaurire il problema rispondendo alla domanda su come trattare gli ebrei come individui, o come gruppo sociale di persone aventi certe proprietà comuni tra cui, in modo particolare ma non esclusivo, il credo religioso. L’emancipazione avrebbe dovuto risolvere il problema individuale: gli ebrei sono cittadini come tutti gli altri. La libertà religiosa avrebbe dovuto risolvere il problema comunitario: gli ebrei possono aggregarsi come vogliono per rendere culto al loro Dio nelle forme che ritengono più opportune. Ma naturalmente tutto questo avrebbe dovuto svolgersi nell’ambito di ciascuna nazione, perché gli ebrei - così si pensava, e così molti ancora pensano - costituiscono un gruppo religioso con particolari usanze comuni, ma non una nazione. Poiché la nazionalità di ciascuno di loro è data dal paese in cui vivono, ci si aspetta che le credenze religiose non intralcino la partecipazione al comune sentimento nazionale.
  Per molti ebrei occidentali, in particolare tedeschi e italiani, questo è avvenuto. Fino alla Grande Guerra il processo di assimilazione è andato avanti in modo spedito e la maggior parte degli ebrei era pienamente soddisfatta di aver trovato una patria in cui essere accolti, di potersi sentire a casa propria e, se necessario, di soffrire con gli altri per la difesa dei sacri confini.
  Le cose invece sono andate diversamente nell’Europa dell’est. Anche in quelle zone si era avviato, sia pure molto lentamente, un graduale processo di emancipazione degli ebrei. Leon Pinsker (1821-1891) fu uno dei primi esponenti del mondo ebraico russo che poté accedere agli studi universitari. Si laureò in medicina e in un primo tempo fu tra quelli che cercarono di favorire il processo di assimilazione. Si adoperò per la fondazione e la diffusione di periodici scritti appositamente in lingua russa al fine di favorire l’abbandono da parte degli ebrei dell’yiddish, la lingua del ghetto che impediva i rapporti con il resto della popolazione. Ma dopo il 1870 si susseguirono nell’impero zarista ondate di pogrom che indussero Pinsker a rivedere la sua posizione assimilazionistica e a pubblicare, nel 1882, un pamphlet in lingua tedesca, ormai diventato classico, dal titolo “Auto-emancipazione”. Più che nelle proposte operative, il punto fondamentale di questo magistrale libretto sta nell’individuazione del motivo profondo che secondo l’autore sta alla base dell’antisemitismo moderno: l’assenza di una nazione ebraica e la mancanza negli ebrei di un adeguato sentimento di identità nazionale.
  Varrà la pena di fare lunghe citazioni [in colore diverso] di questa opera, che in alcuni casi contiene parole dal tono quasi profetico.

    “Come nei tempi passati, l’eterno problema che si chiama questione ebraica agita ancora oggi gli uomini. Esso rimane insoluto come la quadratura del cerchio, con la differenza che continua ad esser tuttora il più ardente problema fra i problemi del giorno. Ciò è dovuto al fatto che non si tratta soltanto di un problema teorico, ma di una questione che la vita reale stessa rinverdisce quotidianamente e di cui imperiosamente chiede la risoluzione.
    Il problema, come noi lo vediamo, consiste essenzialmente in questo: che gli ebrei formano di fatto, in mezzo alle nazioni fra cui vivono, un elemento eterogeneo che non può essere assimilato, che non può essere facilmente digerito da nessuna nazione. [...]
    Agli ebrei manca la maggior parte di quegli attributi che costituiscono i caratteri essenziali d'una nazione. Manca loro quella sostanziale vita nazionale che è inconcepibile senza una lingua comune, senza costumi comuni e senza un territorio comune. Il popolo ebraico non ha patria, per quanto ne abbia molte; non ha un punto di raccolta, non ha un centro di gravitazione, né un governo proprio, né un istituto rappresentativo. Gli ebrei sono dappertutto e nessun luogo è la loro casa. I popoli non hanno a che fare con la Nazione ebraica, ma sempre e soltanto con gli individui ebrei. Gli ebrei non sono una nazione, poiché manca loro quel preciso carattere nazionale distintivo che posseggono tutte le altre nazioni; carattere determinato unicamente dalla convivenza in un paese unico, sotto un medesimo governo.”

Qualcuno potrebbe osservare che se i popoli si trovano ad avere a che fare “sempre e soltanto con gli individui ebrei e non con la nazione ebraica, può dipendere dal fatto che questa nazione non esiste, che non è mai esistita, o che se un giorno è esistita adesso è scomparsa e non si sente alcun bisogno di farla ricomparire. Pinsker non argomenta su questo punto, non interroga il passato per trarne una dimostrazione di esistenza, ma sviluppa il suo ragionamento dando per scontato che la nazione è esistita e continua ad esistere, ma che l’allontanamento dalla patria e la dispersione nel mondo hanno fatto perdere ai suoi cittadini il sentimento della propria nazionalità, inducendoli a reprimere l’originario patriottismo per favorire il loro inserimento in altre nazioni.

    “Tale carattere nazionale non poteva certo svilupparsi nella dispersione: pare anzi che gli ebrei abbiano piuttosto smarrito ogni memoria della loro patria antica. Grazie alla loro pronta adattabilità, hanno potuto facilmente acquistare i caratteri dei popoli estranei, verso cui il destino li aveva spinti. È accaduto anzi che essi si spogliassero non di rado della loro individualità originale, tradizionale, per piacere ai loro protettori. Essi acquistarono, o credettero di acquistare, certe tendenze cosmopolite che non piacevano agli altri come non soddisfacevano agli ebrei stessi.
    Per il desiderio di fondersi con gli altri popoli, gli ebrei rinunciarono volontariamente, fino a un certo punto, alla loro nazionalità. Ma non riuscirono mai ad ottenere che i loro concittadini li considerassero eguali agli altri abitanti nativi del paese.
    Ma ciò che più di tutto impedisce agli ebrei di tendere alla riconquista di una esistenza nazionale indipendente, è che essi non sentono il bisogno di questa esistenza. E non solo non lo sentono, ma negano persino all'ebreo il diritto di sentirlo.”

Pinsker parla di “riconquista di un’esistenza nazionale indipendente”, dando dunque per scontato che tale esistenza ci sia stata nel passato e affermando che adesso è arrivato il momento di riaverla. Questa riconquista dell’esistenza nazionale deve però essere ottenuta con le proprie forze e non per la benevolenza delle nazioni ospitanti, a cui l’assenza di una nazione ebraica non provoca alcuna nostalgia. E invece di attardarsi a piagnucolare o a imprecare contro la cattiveria degli altri, Pinsker lancia un appello critico ai suoi connazionali. Il suo libro infatti ha come sottotitolo: “Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli”. La mancanza di una patria - dichiara Pinsker - è come una malattia. L’autore non discute su che cosa l’abbia provocata, ma invita a ricercare attivamente le vie della guarigione. Per guarire però bisogna avere la consapevolezza di essere malati e desiderare ardentemente la guarigione.

    “Per un ammalato, non sentire il bisogno di mangiare e di bere, è un sintomo molto grave. Non sempre è possibile al medico evitargli tale pericolo. E se anche l'appetito ritorna, è sempre dubbio che il malato possa assimilare il nutrimento, ancorché lo desideri.
    Gli ebrei si trovano nella dolorosa condizione di un malato simile. Questo punto, che è il più importante di tutti, va energicamente sottolineato. Dobbiamo dimostrare che la cattiva sorte degli ebrei è dovuta anzitutto al fatto che manca loro il senso del bisogno dell'indipendenza nazionale; che questo desiderio deve esser in loro ridestato e ravvivato per tempo, se non vogliono essere esposti per sempre ad una esistenza disonorevole; in una parola, è necessario che essi diventino una nazione.”

Va sottolineato che per Pinsker diventare nazione non significa far nascere la nazione, ma farla guarire. Non si tratta di un passaggio dall’inesistenza all’esistenza, ma dalla malattia alla sanità. E della malattia tutti sono responsabili, ebrei e non ebrei.

    “In questo fatto all'apparenza insignificante - cioè che gli ebrei non sono considerati dagli altri popoli come nazione a sé - sta in parte il segreto della loro situazione anormale e della loro miseria infinita. Il solo fatto di appartenere al popolo ebreo costituisce già di per sé una stigmate incancellabile, ripugnante per i non ebrei stessi. Questo fenomeno, nonostante la sua stranezza, ha la sua profonda base nella natura umana.
    Fra le nazioni viventi oggi sulla terra gli ebrei rimangono come i figli d'una nazione morta da tempo. Con la perdita della sua patria, il popolo ebraico ha perduto la sua indipendenza, ed è giunto ad un tale grado di disgregazione che è incompatibile con l'esistenza di un organismo integro e vivente. Lo Stato ebraico, crollato sotto il peso della dominazione romana, scomparve agli occhi delle nazioni. Ma il popolo ebraico, anche dopo che ebbe perduto la speranza di esistere nella forma fisica e positiva dello Stato, come un'entità politica, non poté con tutto ciò rassegnarsi alla distruzione totale; non cessò anche dopo di esistere spiritualmente come nazione. Il mondo vide, in questo popolo, lo spettro pauroso d'un morto che cammina fra i vivi.

Con un linguaggio che solo apparentemente è metaforico, Pinsker tocca qui un punto cruciale del problema ebraico presupponendo un dato di fatto che non molti sono disposti a riconoscere: la nazione ebraica costituisce un organismo unitario vivente e il suo popolo possiede una personalità corporativa.
  Non sono gli ebrei che costituiscono la nazione ebraica, ma è la nazione ebraica che genera i suoi figli; non sono gli ebrei che formano il popolo ebraico, ma è il popolo ebraico che iscrive gli ebrei tra i suoi membri. I figli della nazione possono essere degeneri, e i membri del popolo possono rivelarsi trasgressori, ma questo non altera né la posizione costitutiva della nazione, né la funzione statutaria del popolo.
  In una situazione di sana normalità una nazione è costituita da:
     1) cittadini (il popolo);
     2) patria (la terra);
     3) sovranità (lo stato).
La malattia della nazione ebraica sta nel fatto - secondo Pinsker - che ha perso la parte fisica della sua identità, cioè la terra, ma non ha perso, né poteva perdere, l’elemento vitale unitario, che indirettamente Pinsker denota come parte “spirituale”. Senza terra e senza sovranità, la nazione è fisicamente morta, ma il suo spirito continua a vivere nel popolo, la cui immortale anima corporativa si manifesta nell’impossibilità di disgregarsi, di disperdere irreversibilmente le sue cellule nella molteplicità delle nazioni circostanti. Contro tutte le aspettative, il popolo continua a mantenere nei secoli la sua unità “spirituale”, nel senso più ampio del termine. Ma è uno spirito senza corpo, e quindi è costretto ad aggirarsi per il mondo come un fantasma che incute terrore in chiunque lo incontra.

    “Questa apparizione spettrale, questa figura d’un morto errante, di un popolo senza unità organica, non legato ad una terra, non più vivo eppure vagante fra i vivi, questa figura strana, senza esempio nella storia dei popoli, diversa da tutte quelle che l'avevano preceduta o che l'avrebbero seguita, non poteva non produrre un'impressione strana e singolare sull'immaginazione dei popoli. E poiché la paura degli spettri è innata nell'uomo ed è in qualche modo giustificata nella vita psichica dell'umanità, non può destare meraviglia che quella paura si manifestasse così forte, alla vista di questa nazione ancora morta e pur viva insieme.
    La paura di questo spettro che rivestiva figura ebraica è stata tramandata e si è rafforzata nel corso delle generazioni e dei secoli. Essa porta al pregiudizio il quale, unito ad altri fattori che verranno esposti in seguito, ha condotto alla giudeofobia.
    Questa giudeofobia si radicò e naturalizzò fra tutti i popoli della terra con cui gli ebrei ebbero rapporti, insieme a tante altre idee inconsce e superstiziose, a tanti altri istinti ed idiosincrasie che dominano inconsapevolmente nei cuori umani. La giudeofobia è una forma di ‘demonopatia’: ma la differenza è che la paura dello spettro ebraico ha colto tutto il genere umano e non alcune razze soltanto; esso inoltre non è incorporeo, come gli altri spettri, ma è di carne e di sangue, e soffre le torture più atroci per le ferite inflittegli dalle folle terrorizzate che si immaginano di esser minacciate da lui.
    La giudeofobia è un morbo psichico. Essendo una malattia psichica, è ereditaria e poiché si trasmette già da due millenni, è incurabile.”

Per Pinsker dunque l’antisemitismo, che con linguaggio medico chiama giudeofobia, è un male incurabile fino a che permane la situazione storica in cui è costretto a vivere il popolo ebraico. L’emancipazione degli ebrei concessa dai governi di alcune nazioni è stato il massimo raggiungibile fino a quel momento, ma non ha risolto il problema perché non ha modificato il sentimento dei popoli, per i quali chi non è figlio della terra su cui vive è sempre considerato uno straniero. Affinché cambino i sentimenti, devono cambiare le cose. E il cambiamento non può essere soltanto un modo migliore di trattare i singoli ebrei nelle diverse nazioni. Quello che deve cambiare è il fatto che il popolo ebraico non ha una sua terra su cui possa vivere dignitosamente come nazione sovrana.

    “La nostra sventura maggiore è che noi non siamo costituiti in nazione, ma che siamo semplicemente degli ebrei. Siamo un gregge disperso su tutta la faccia della terra, senza un pastore che ci protegga e ci raccolga. Nella migliore delle condizioni arriviamo al grado di quelle capre che, in Russia, si usa porre nelle stalle insieme con i cavalli di razza. E’ il limite massimo della nostra ambizione.
    È vero che i nostri cari protettori hanno sempre fatto in modo che noi non avessimo mai un minuto di quiete e non potessimo riacquistare il rispetto di noi stessi. Abbiamo combattuto per secoli la dura ed ineguale lotta per l'esistenza nella nostra qualità di individui ebrei, e non nella veste di nazione ebraica. Ognuno per conto suo dovette, sprecare il suo ingegno e le sue energie per un po' di aria libera e per un pezzo di pane bagnato di lacrime. In questa lotta disperata non siamo stati vinti. Abbiamo resistito alla più gloriosa delle guerre di parte, contro tutti i popoli della terra, che, in un perfetto accordo, volevano sterminarci. Senonché questa lotta che combattemmo e che Dio sa fino a quando dovremo combattere ancora, non era fatta per conquistarci una patria ma per rendere possibile l'esistenza infelice a milioni di "Ebrei merciaiuoli ambulanti".

Pinsker sottolinea ancora una volta la distinzione tra piano individuale e piano nazionale. Rispetto al primo, gli ebrei hanno vinto la loro lotta per la sopravvivenza; rispetto al secondo, no.

    “Se tutti i popoli della terra non poterono impedire la nostra vita, essi riuscirono però a spegnere in noi il sentimento della nostra indipendenza nazionale. E così noi assistiamo con una indifferenza fatalistica, come se non si trattasse di noi, a questo spettacolo: che in molti paesi si negano agli ebrei quegli elementari diritti alla vita che non si negherebbero tanto facilmente neppure agli zulù. Nella dispersione abbiamo salvato la nostra vita individuale, abbiamo dimostrato la nostra forza di resistenza, ma abbiamo perduto il legame comune della coscienza nazionale. Nello sforzo di conservare la nostra esistenza materiale, fummo troppo spesso costretti, più di quanto non convenisse, a sacrificare la nostra dignità morale. Non ci siamo accorti che con questa tattica, indegna di noi ma che noi eravamo costretti ad adottare, ci abbassavamo sempre di più agli occhi dei nostri avversari e che essa ci esponeva sempre più all'umiliante disprezzo e alla proscrizione che diventavano ormai il triste retaggio secolare della nostra gente.”

E continua con una constatazione realistica e amara che dovrebbe essere motivo di riflessione e vergogna per chi non appartiene a quel popolo:

    “Nel vasto mondo non c'era posto per noi. Per avere modo di posare il nostro capo stanco e trovare un po' di tranquillità, chiedemmo un luogo qualsiasi. E così, riducendo le nostre aspirazioni, abbiamo gradatamente abbassato anche la nostra dignità ai nostri occhi ed agli occhi altrui, fino a vederla scomparire del tutto.
    Siamo stati la palla da gioco che i popoli si sono fatti rimbalzare a vicenda l'uno contro l'altro. Questo gioco crudele era per noi divertente, sia che fossimo accolti o respinti ed è diventato sempre più piacevole quanto più elastica e molle è diventata la nostra dignità nazionale nelle mani dei popoli. In condizioni tali, come poteva esser possibile una vita nazionale specifica o uno sviluppo libero ed attivo della nostra energia nazionale o la rivelazione del nostro genio originale?”

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Come commento, la riflessione che segue.


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Paura che genera odio

di Marcello Cicchese

Nel pensiero di Leon Pinsker sugli ebrei ci sono due punti singolari che non sembra siano stati ripresi in seguito da altri:
   1) intorno agli ebrei vaga un indefinito spirito che misteriosamente li accomuna in qualunque nazione essi abitino e in qualunque epoca essi vivano;
   2) questo spirito di una nazione senza corpo appare ai non ebrei come un fantasma che genera paura.
Questo indefinito spirito che tiene unito l’insieme degli ebrei può essere visto come Dio in azione che lavora per mantenere l’impegno che si è dato di mantenere in vita il suo popolo fino alla fine. E il fantasma che inquieta qualcuno è la visione ingannevole di Dio che può apparire a chi non crede in Lui.
Ma se dietro il fantasma c’è Dio, allora la paura che genera è paura di Dio.
C’è un tipo di paura che emerge davanti a un vuoto di cui non si vede il fondo, o davanti a un enigma importante di cui non si trova la risposta. La presenza operante di ebrei in una società crea prima o poi il sorgere di un tale enigma.
L’enigma sono loro, gli ebrei. Chi sono questi ebrei? perché ci sono? come si definiscono? da dove vengono? che cosa vogliono? Domande su domande, e un’infinità di risposte. Mistero.
C’è qualcosa di nebuloso in questo mistero. È qualcosa che si avverte sulla pelle. È paura. Una strisciante, indefinibile paura. L’oggetto misterioso appare e  scompare. Poi riappare di nuovo mille volte, e sempre in forme nuove. Allora, nel momento in cui riappare e si pensa di poterlo trattenere si prova un tale odio per lui che lo si vorrebbe distruggere non una, ma due, tre, mille volte. E’ paura che genera odio.
Pinsker pensava che si potesse far sparire la paura provocata da questo spettro che si aggira nel mondo dando agli ebrei il corpo di una loro nazione. Questo è avvenuto, una settantina di anni fa, ma il fantasma non è sparito. Dopo aver dato alcuni segni premonitori, è improvvisamente riapparso il 7 ottobre, in un diverso formato. Non è più l’assenza di una nazione per gli ebrei che genera paura, ma il contrario. E’ la presenza impudente di una nazione che si ostina a volersi dire ebraica, a essere l’enigma che solleva domande. Cos’è questa nazione? Da dove viene? Perché vuol dirsi ebraica? Perché crea problemi agli altri, prima a quelli intorno e poi a tutto il mondo? E come mai riesce sempre a rimanere in piedi, nonostante tutti tentativi di abbatterla? Domande su domande e un’infinità di risposte. Alla fine non si sa. Mistero. Paura. Odio.
L’odio generato da paura è inattaccabile, impenetrabile da qualsiasi pensiero di ordine razionale. Adesso abbiamo i bambini di Gaza. Su quelli non si discute. Del resto è chiaro: chi è che li uccide senza pietà? Sono loro, gli ebrei. La loro nazione, Israele. E chissà che cosa potrebbero fare anche agli altri, questi ebrei. Anche a noi. Anche a me. C’è da aver paura, a sapere che esiste uno stato degli ebrei. Si capiscono allora i poveri palestinesi; e si capisce un movimento di liberazione come Hamas, che ha cercato di distruggere questo odioso stato che uccide i bambini e dare finalmente uno stato a questi poveri palestinesi.
Ma in fondo è vero: chi odia Israele, anche se non lo fa per paura, ha un motivo serio per averla. Perché alla fine di tutto sarà proprio la nazione di Israele quella di cui si servirà Dio per colpire le nazioni che si saranno mosse contro Gerusalemme. Certo, prima regolerà i conti interni con la Sua nazione, e quelli alla fine andranno a posto.
Andranno a posto anche quelli esterni, con le altre nazioni. Ma la cosa sarà per loro molto, molto dolorosa.
L’odio di adesso contro Israele può comprendersi allora come anticipazione della paura che coglierà in quel giorno tutte le nazioni che si saranno opposte alla volontà di Dio che, senza consultarsi con nessuno, ha scelto Israele. Infatti:

    In quel giorno avverrà che io farò di Gerusalemme una pietra pesante per tutti i popoli; tutti quelli che se la caricheranno addosso ne saranno del tutto lacerati, e tutte le nazioni della terra si raduneranno contro di lei (Zaccaria 12:3).
    In quel giorno, io renderò i capi di Giuda come un braciere ardente in mezzo a della legna, come una torcia accesa in mezzo a dei covoni; essi divoreranno a destra e a sinistra tutti i popoli circostanti; Gerusalemme sarà ancora abitata nel suo proprio luogo, a Gerusalemme (Zaccaria 12:6).
    In quel giorno avverrà che io avrò cura di distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme (Zaccaria 12:9)
    Questa sarà la piaga con la quale l'Eterno colpirà tutti i popoli che avranno mosso guerra a Gerusalemme: la loro carne si consumerà mentre stanno in piedi, gli occhi si scioglieranno nelle loro orbite, la loro lingua si consumerà nella loro bocca (Zaccaria 14:12).

Dunque è vero, Israele fa paura. E’ paura di Dio che genera odio per Israele.

(Notizie su Israele, 25 settembre 2025)

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Indignazione per un cartello affisso in un ristorante di Fürth

Dopo il cartello affisso in un ristorante che dichiarava indesiderati i cittadini israeliani, la comunità ebraica di Fürth parla ora di antisemitismo e valuta di intraprendere azioni legali. In precedenza si era verificato un caso simile a Flensburg.

"Cari clienti, amiamo tutti, indipendentemente dalla loro provenienza. Crediamo che i bambini di questo mondo non debbano essere in nessun caso delle vittime. Siamo una squadra internazionale. Facciamo parte della società civile e quindi non resteremo a guardare come il resto del mondo. Ecco perché abbiamo deciso di protestare. La nostra protesta non è politica, né tantomeno razzista. I cittadini israeliani non sono benvenuti in questa struttura. Naturalmente, saranno di nuovo benvenuti non appena decideranno di aprire gli occhi, le orecchie e il cuore".

La comunità ebraica di Fürth protesta contro un cartello temporaneo affisso in un ristorante locale che dichiarava “cittadini israeliani” non graditi. “Una simile esclusione è semplicemente vergognosa e terribile”, ha dichiarato la presidente Julia Tschekalina alla Deutsche Presse-Agentur. L'incidente è antisemita e le ricorda il 1933. “Allora è iniziato tutto così”.
Ha annunciato, tra l'altro, di voler valutare la possibilità di sporgere denuncia e di coinvolgere il commissario bavarese per l'antisemitismo Ludwig Spaenle.
Lo stesso giorno Spaenle ha criticato un incidente simile: "È inconcepibile. Un negozio di musica chiede a un'orchestra israeliana di valutare la situazione nella Striscia di Gaza per poterle noleggiare un amplificatore“, si legge in un comunicato. ”Per lui è come un esame di coscienza pubblico". Secondo Spaenle, il negozio di musica dell'Alta Baviera sostiene quindi gli obiettivi del movimento antisemita Boycott, Divestment and Sanctions (BDS). Egli ha sottolineato: “Questa è una forma di antisemitismo”.
A Fürth, il gestore del ristorante ha confermato alla dpa, su richiesta, l'esistenza del cartello criticato dalla comunità ebraica. Tuttavia, ha affermato che non era antisemita e non conteneva alcuna offesa. Il cartello, che era stato affisso solo all'interno del locale, è stato rimosso dopo due o tre ore.
Il gestore del ristorante nega l'accusa di antisemitismo
"Amiamo tutte le persone, indipendentemente dalla loro provenienza. Crediamo che i bambini di questo mondo non debbano essere toccati in nessuna circostanza. Siamo un team internazionale. Apparteniamo alla società civile e quindi non resteremo a guardare inerti come il resto del mondo. Per questo abbiamo deciso di protestare. La nostra protesta non ha carattere politico, tanto meno razzista“, si legge nel manifesto secondo una foto diffusa dalla comunità ebraica. E poi: ”I cittadini israeliani non sono i benvenuti in questo locale. Naturalmente saranno nuovamente i benvenuti non appena decideranno di aprire gli occhi, le orecchie e il cuore".
Tschekalina ha affermato che è ovviamente possibile criticare l'azione militare del governo israeliano, cosa che fanno anche gli stessi israeliani. Tuttavia, il manifesto emargina un intero popolo.
Secondo la procura, sussiste il sospetto “che il manifesto abbia offeso la dignità umana degli ebrei che vivono in Germania, in quanto questi ultimi sono stati maliziosamente disprezzati a causa della loro appartenenza al giudaismo”.

(Die Welt, 24 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Siria-Israele, si avvicina l’accordo sulla sicurezza militare. Le nuove garanzie per i drusi

Una luce in mezzo al buio per Tel Aviv: l’intesa potrebbe anticipare una vera collaborazione per la pace. Lo Stato ebraico si ritirerebbe parzialmente dalla zona cuscinetto, in cambio la rinuncia siriana al Golan

di Giuseppe Kalovski

TEL AVIV - Un nuovo anno pieno di paure per gli ebrei nel mondo sta arrivando, ma forse qualcosa di nuovo e di positivo timidamente si affaccia sullo scenario mediorientale, anche se viene taciuto o tenuto “low profile” dalle piattaforme mediatiche. Nei prossimi giorni, all’Assemblea Generale dell’Onu, verrà annunciato, a meno di improbabili ma possibili colpi di scena, l’Accordo di sicurezza (non un accordo di pace o di normalizzazione) tra Israele e il nuovo regime siriano guidato dall’ex terrorista sanguinario Ahmed Al-Shara’, più comunemente conosciuto con il nome di battaglia Al Jolani.
Dopo aver fatto visita negli Usa da Trump, in Francia da Macron e in Russia da alti funzionari governativi, Al Jolani si accinge a parlare dal palco delle Nazioni Unite e se verrà firmato questo Accordo di Sicurezza tra Israele e la Siria è lecito e auspicabile pensare che possa essere il preludio, l’anticamera di un vero accordo di pace. Israele, tramite il suo ministro per gli Affari strategici Ron Dermer, ha posto delle condizioni prima di essere pronto a firmare questo storico accordo. Lo Stato Ebraico sarebbe disponibile a un ritiro parziale lasciando solo 2 km di profondità per la “zona cuscinetto” oltre il confine con la Siria ma non disponibile a ritirarsi dal Monte Hermon perché di vitale importanza strategica. Israele chiede anche una no fly zone a sud ovest di Damasco in direzione Israele e un corridoio aereo per i jet israeliani da utilizzare in caso di nuova guerra contro l’Iran.
Al Jolani, tramite il suo ministro degli Esteri, aveva già espresso il suo assenso informale alla rinuncia della sovranità siriana sulle alture del Golan occupate da Israele nella guerra dei Sei Giorni nel 1967 e annessa nel 1981. Questa rinuncia, se confermata, avrebbe come conseguenze due effetti estremamente positivi: il primo di ordine meramente geopolitico, perché ufficializzerebbe una situazione che ormai esiste da quasi sessanta anni, cancellando di fatto la risoluzione dell’Onu che dichiarò nulla l’annessione israeliana. Il secondo effetto sarebbe quello di tranquillizzare i drusi che abitano nelle Alture del Golan, circa 25.000, e offrire loro una definizione dello status di cittadini. Attualmente solo il 30% dei drusi del Golan hanno la cittadinanza israeliana, gli altri sono apolidi. La comunità drusa, pur avendo una forte identità culturale e religiosa, è leale e integrata e vive in modo armonioso accanto agli ebrei, e chiede protezione allo Stato Ebraico.
Lo scempio nella città drusa di Sweyda, in Siria, perpetrato dai beduini e dalle fazioni islamiche radicali nei confronti di uomini, donne e bambini drusi provocando 1400 morti e un numero imprecisato di donne in ostaggio, ha fatto salire alla ribalta in Israele, ma molto meno in Italia e nel resto dell’Occidente la questione drusa in Siria. I drusi sono una popolazione pacifica di origine araba che ha abbandonato l’Islam nel 1017 costituendo una religione che ha elementi cristiani ed islamici. Pur avendo le caratteristiche proprie di un popolo, non hanno velleità territoriali di autodeterminazione; si adattano pacificamente al governo dello Stato nel quale vivono. È scontato che un regime islamico sunnita come quello che si è instaurato cacciando Assad, l’Iran e i russi dal territorio siriano rappresenta, come si è tragicamente visto subito, un grave pericolo per la comunità drusa.
Nell’accordo di sicurezza, Israele chiede anche garanzie per l’incolumità dei drusi siriani; l’Idf, come ha già fatto qualche mese fa, è pronta a difenderli e a proteggerli. Bisogna anche considerare che i 25.000 drusi del Golan occupato da Israele hanno moltissimi parenti in Siria e a Sweyda in particolare: le autorità druse hanno chiesto corridoi umanitari con Israele e una maggiore solidarietà operativa da parte israeliana nei confronti dei loro fratelli siriani perseguitati e trucidati. Israeliani e drusi si considerano fratelli e questo sentimento di estrema vicinanza obbliga giustamente lo Stato Ebraico a difendere questa pacifica e orgogliosa popolazione.
Majdal Shams, villaggio druso ai piedi del Monte Hermon, è tristemente famoso per la strage dei 12 bambini drusi uccisi da un razzo di Hezbollah il 27 luglio del 2024. Quella orribile strage ha paradossalmente rafforzato i legami con il governo israeliano. Basta andare a fare una visita in quei luoghi e si può toccare con mano l’accoglienza, l’ospitalità, la gentilezza di questa popolazione che desidera solo di poter vivere liberamente, come già avviene in Israele. I drusi sono l’esempio, la testimonianza della volontà di pace e di convivenza da parte di Israele con chiunque non desideri annientarla. La comunità drusa in Israele può esprimersi liberamente a qualsiasi livello: è rappresentata in Parlamento come il resto degli arabi israeliani con un forte senso di lealtà nei confronti dello Stato Ebraico.
Ma in un mondo che parla a sproposito di genocidio, di un assurdo riconoscimento unilaterale dello stato di Palestina senza neanche chiedere come precondizione il diritto all’esistenza di Israele, la recente mattanza di Sweyda è passata quasi inosservata. Un accordo di sicurezza con un inaffidabile ex terrorista diventato premier siriano appare, in un contesto così assurdo, un lampo di luce nell’oscurità delle cancellerie occidentali.

(Il Riformista, 24 settembre 2025)

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Iniziativa di preghiera online il 6 ottobre

HERRENBERG – Il 7 ottobre ricorre il secondo anniversario dell'attacco terroristico di Hamas con il massacro nel sud di Israele. Esso ha scatenato la guerra di Gaza, che continua ancora oggi. Il grande attacco è stato seguito da un'ondata di antisemitismo e odio verso Israele, non solo in Germania.
Molti cristiani vedono in questo sviluppo un'elevata carica spirituale. Per questo motivo diverse organizzazioni invitano alla preghiera il 6 ottobre. Dalle 18 alle 24 gli interessati potranno ricevere spunti in livestream. In gruppo o da soli potranno partecipare alla “notte nazionale di preghiera”. La preghiera sarà guidata da Detlef Kühlein del podcast “Bibletunes”. Il moderatore è Tobias Krämer di “Christen an der Seite Israels” (CSI), con sede a Herrenberg, nel Baden-Württemberg.

Preghiera per gli ebrei e contro l'antisemitismo
  È previsto che i cristiani preghino, tra l'altro, per le cerimonie commemorative in occasione dell'anniversario. Altre intenzioni di preghiera riguardano la Germania, Israele, gli ebrei in tutto il mondo e mezzi efficaci contro l'antisemitismo.
All'inizio della serata, un esperto introdurrà il tema dell'antisemitismo, i suoi molteplici volti e le sue radici cristiane. Seguiranno brevi interventi di diversi oratori che indicheranno la via della preghiera. I dieci blocchi di preghiera dureranno circa mezz'ora, con brevi pause tra uno e l'altro. È possibile registrarsi qui.
Tra i promotori e i sostenitori dell'iniziativa di preghiera figurano diverse organizzazioni cristiane. Anche Israelnetz partecipa all'iniziativa.

(Israelnetz, 24 settembre 2025)

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Pro-pal nell’università di Pisa, il rettore Riccardo Zucchi non denuncia

Peled: “È una vergogna”

di Marco Paganoni

In un’esibizione squadrista in stile Enzo Iacchetti – quello del “non accetto contradditorio, vengo lì e ti prendo a pugni” -, un manipolo di sedicenti pro-Pal (in realtà pro-Hamas, quindi contro la libertà dei palestinesi) hanno fatto irruzione in un’aula di Scienze Politiche dell’Università di Pisa dove hanno aggredito e malmenato il professor Rino Casella,colpevole di sionismo”. La decisione del rettore Riccardo Zucchi di non denunciare la squadretta di picchiatori lascia esterrefatti.
“È una vergogna – ha scritto su X l’ambasciatore d’Israele in Italia, Jonathan Peledche il Rettore sia più preoccupato di ribadire la condanna inappellabile d’Israele, piuttosto che garantire che le aule dell’ateneo siano spazi sicuri, luoghi di convivenza e confronto civile. Legittimando una reazione violenta nei confronti di chi evidenzia la necessità di un dibattito più articolato su ciò che sta succedendo a Gaza, l’Università di Pisa ha di fatto abdicato al suo ruolo educativo e formativo”. In effetti, il magnifico rettore non si è accontentato di condonare i violenti e condannare Israele.
Rivendicando con orgoglio che “il 24 luglio abbiamo rotto i rapporti con la Reichman University di Herzliya e la Hebrew University di Gerusalemme”, si è prodotto in un esempio da manuale di ignoranza e disinformazione. Ha infatti aggiunto: “La Hebrew [l’Università di Gerusalemme] ha aperto un campus nei Territori, in violazione della risoluzione dell’Onu”. Una menzogna. L’Università di Gerusalemme conta oggi quattro campus: l’Edmond J. Safra Campus s Givat Ram, fondato nel 1953 nella parte ovest di Gerusalemme; l’Ein Kerem Campus, fondato nel 1960, sempre nella parte ovest di Gerusalemme; il Rehovot Campus, che si trova appunto a Rehovot, nel centro di Israele, più vicino a Tel Aviv che a Gerusalemme. Ma il primo campus in assoluto della Hebrew Università è quello sul Monte Scopus, una famosa collina che sorge a nord-est della Città Vecchia. È sul Monte Scopus che venne posata la prima pietra dell’Università di Gerusalemme nel 1918. Ed è sul Monte Scopus che nel 1925 (cento anni fa esatti) venne inaugurata l’Università di Gerusalemme, patrocinata da personalità come Albert Einstein e Sigmund Freud. Il Monte Scopus è sempre stato israeliano.
Quando la Legione Araba di Transgiordania (oggi Giordania) attaccò e invase il neonato stato ebraico nel 1948 e occupò illegalmente la parte est di Gerusalemme, il campus sul Monte Scopus non cadde in mani giordane. Rimase invece come un’enclave israeliana circondata dai soldati nemici, ma garantita dagli Accordi di armistizio. Gli Accordi vennero infranti nel 1967 dalla Giordania, che prese a bombardare i quartieri ebraici di Gerusalemme. La controffensiva israeliana in quella “guerra dei sei giorni” portò alla riunificazione della città e, fra l’altro, alla liberazione dall’assedio del campus sul Monte Scopus. Che è ed è sempre stato territorio israeliano. Lo era il 13 aprile 1948, quando terroristi arabi attraccarono a sangue freddo un convoglio sanitario che vi si recava, trucidando 78 donne e uomini ebrei, quasi tutti medici, infermieri e studenti di medicina.
Lo era il 31 luglio 2002, quando terroristi palestinesi fecero esplodere un ordigno nella sala mensa del campus, causando 9 morti e un centinaio di feriti. Tra questi, anche una studentessa italiana e molti studenti arabi: giacché l’Università di Gerusalemme è sempre stata un libero ed eccellente centro di studi e ricerche frequentato da docenti, studiosi e studenti di ogni nazionalità, di ogni estrazione, di ogni provenienza. Con crescente angoscia, ci domandiamo: che insegnamento e che formazione potrà mai dare, invece, un’università come quella di Pisa, retta da persone che vantano tanta preclusione e ignoranza?

(Il Riformista, 24 settembre 2025)

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Israele-USA, proteste e chiarimenti sui visti

La notizia è rimbalzata in piena estate anche sui giornali italiani: pare che le autorità israeliane creino difficoltà nella concessione dei visti agli evangelici USA, che notoriamente si sono sempre spesi in difesa di Israele. Inevitabili le reazioni dei diretti interessati, che hanno interpretato questo giro di vite come una sorta di tradimento, e in questi toni la notizia è stata raccontata da alcuni media nostrani.
In realtà, ricostruendo i fatti, pare che dopo decenni sia cambiata la procedura relativa alla concessione di visti, e la nuova richiesta da formulare risulti più farraginosa e complessa in particolare per le organizzazioni cristiane. Da qui i problemi e le lamentele, con tutto il risalto internazionale del caso.
Ora, in tempi in cui il Risiko mondiale è costituito da presidenti che straparlano, ministri che azzardano e una diplomazia che arranca non è semplice trovare la giusta prospettiva sulle cose, ma la questione dei visti dev’essere stata percepita come una faccenda piuttosto seria, se l’ambasciatore USA a Gerusalemme, Mike Huckabee – pastore battista di cui si ricorda anche qualche candidatura alla Casa Bianca – ha presentato a Gerusalemme una lettera di protesta minacciando un pari trattamento per l’accesso negli USA dei cittadini israeliani.
Anche se i media italiani non hanno dato seguito alla cosa – viene da pensare che la notizia fosse funzionale a una certa lettura dei fatti, più che alla ricerca della verità – la vertenza ha avuto uno sviluppo positivo: a stretto giro il ministro dell’Interno israeliano ha dato, come si dice, ampie rassicurazioni (pur manifestando una certa diplomatica sorpresa per l’iniziativa americana, vista come una fuga in avanti rispetto ai proficui colloqui già in corso). E l’ambasciatore USA ha così potuto annunciare – ovviamente sui social – di aver chiuso con successo la vertenza.

(Evangelici.net, 24 settembre 2025)

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La rinascita di Israele è una benedizione per l'Europa

Il periodo di pace più lungo dell'Europa è iniziato con la rinascita di Israele e potrebbe finire con una crescente ostilità nei confronti dello Stato ebraico.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Storicamente, l'Europa ha raramente conosciuto un periodo di pace così lungo come quello delle generazioni successive alla seconda guerra mondiale. Pieni di fiducia in se stessi, gli europei ne erano entusiasti e convinti che le guerre nel loro continente fossero ormai un ricordo del passato. Alcuni credevano addirittura di aver trovato la formula per la stabilità e la pace tra i popoli. Quante volte ho dovuto ascoltare queste convinzioni. Persone provenienti dalla Germania e da altri paesi europei chiedevano ripetutamente perché una tale stabilità e tranquillità non fossero possibili anche in Medio Oriente. Molti erano convinti che l'Europa fosse un modello di convivenza pacifica. “Fate come noi!”, si sentiva dire spesso. A me sembrava sempre un misto di ingenuità e presunzione.
Il fatto è che per secoli le guerre hanno dominato, dalle faide medievali e dalle crociate alle guerre di religione e dinastiche fino alle guerre mondiali del XX secolo. I lunghi periodi di pace consecutivi erano l'eccezione, per lo più limitati a livello regionale e interrotti dall'instabilità politica. Dopo il 1945 si è creato per la prima volta un ordine di pace duraturo: la deterrenza e la cooperazione hanno mantenuto l'equilibrio della Guerra Fredda, mentre l'integrazione europea ha escluso la guerra tra gli Stati. Il benessere, l'integrazione della Germania e il ricordo di due guerre mondiali hanno consolidato queste fondamenta. Ma oltre a tutti questi fattori geopolitici ed economici, è accaduto qualcosa che difficilmente può essere spiegato razionalmente: contemporaneamente, Israele ha vissuto la sua rinascita, come se negli eventi mondiali si fosse dispiegata una dimensione più profonda della storia e della promessa. La pace e la tranquillità tra i popoli in Europa dopo il 1945 sono quindi storicamente uniche. Dalla fine della seconda guerra mondiale, l'Europa, almeno nella sua parte occidentale, vive in un periodo di tranquillità storico senza precedenti.
E qui lascio libero corso ai miei pensieri! Forse l'Europa gode di questa lunga pace e di questo straordinario periodo di tranquillità proprio grazie alla fondazione dello Stato ebraico di Israele nel 1948? Potrebbe essere che la rinascita di Israele sia una ragione fondamentale per cui l'Europa sta vivendo una stabilità senza precedenti nella sua lunga storia bellica? È possibile che l'esistenza di Israele nella sua patria sia una benedizione per le nazioni, qualcosa che è difficile spiegare dal punto di vista umano, ma che ha senso alla luce della Bibbia?
Proprio ora stiamo osservando come i governi europei, uno dopo l'altro, attribuiscano a Israele la responsabilità di ogni male in Medio Oriente e come questo atteggiamento si ritorca come un boomerang contro i loro stessi paesi. I migranti musulmani, che in Europa assumono un ruolo sempre più forte nella protesta contro Israele, mettono sempre più in discussione i sistemi occidentali e cristiani. Improvvisamente l'Europa comincia a temere per la stabilità, la tranquillità e la pace di lunga data che finora erano state date per scontate. Ci si può chiedere se tutto questo abbia a che fare con il fatto che le nazioni europee stanno perdendo la pazienza con lo Stato ebraico, mettendo sempre più apertamente in discussione il suo diritto all'esistenza e agendo così inconsciamente contro la missione di Israele.
Non potrebbe essere che, finché Israele prospera nella sua patria biblica, anche i popoli del mondo ne traggano beneficio? Dio non ha forse promesso ad Abramo: «E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra», e ancora: «Nella tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni della terra, perché hai obbedito alla mia voce»? In parole povere: Dio promise ad Abramo che il suo popolo non sarebbe esistito solo per se stesso, ma come strumento attraverso il quale tutta l'umanità avrebbe potuto sperimentare la benedizione, la giustizia e la salvezza di Dio. Chi indebolisce Israele mette a rischio non solo il suo futuro, ma anche la propria pace.
Guardiamo indietro: fino a circa 80 anni fa lo Stato di Israele non esisteva, gli ebrei vivevano sparsi per il mondo, erano perseguitati ovunque e non avevano mai avuto il lusso di vivere nella loro patria biblica per essere da lì una luce per le nazioni. Guardate cosa accadde nel Medioevo, con guerre continue, dalla Guerra dei Cent'anni tra Inghilterra e Francia alle innumerevoli faide tra principi. All'inizio dell'era moderna, guerre di religione come la Guerra dei Trent'anni devastarono intere regioni e ridussero la popolazione di un terzo. Anche il XIX secolo, che con il Congresso di Vienna del 1815 inaugurò una fase di relativa stabilità, fu segnato da conflitti, dalla guerra di Crimea alle guerre di unificazione tedesca fino alla guerra franco-prussiana di oltre 150 anni fa. Per molti secoli i popoli europei hanno combattuto guerre sanguinose gli uni contro gli altri, spesso in nome di Gesù e del cristianesimo, nonostante fossero tutti popoli cristiani. Solo circa ottant'anni fa questa carneficina ha avuto fine.
Solo poco prima della fondazione dello Stato di Israele è diventato possibile ciò che prima sembrava impensabile: un ordine di pace duraturo in Europa. Il benessere, l'integrazione della Germania e il doloroso ricordo di due guerre mondiali hanno gettato le basi storiche per la stabilità. Tutto ciò può essere spiegato dal punto di vista politico ed economico, ma c'è un livello più profondo che spesso viene trascurato: la rinascita di Israele proprio in quel momento. È stata davvero una coincidenza? O forse si nasconde in questo evento la benedizione biblica che molti ancora oggi non vogliono ammettere?
Proprio in questi giorni l'Europa deve prendere una posizione chiara. Chi sta dalla parte di Israele non solo rafforza lo Stato ebraico, ma assicura anche la propria pace e apre le porte alla benedizione sul proprio continente. Ma solo pochissimi lo capiscono e lo vedono. Come disse il leggendario attore hollywoodiano Al Pacino: «Ammiro Israele. Se Israele è forte, il mondo è forte. Se Israele è debole, il mondo è debole. Per questo dobbiamo sostenere Israele!».

(Israel Heute, 23 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Rosh Hashanah: dalla tradizione alla salvezza

I dieci giorni di pentimento del mese di Tishri sono caratterizzati dalla richiesta di perdono, dall'esame di coscienza e dal rinnovamento dei rapporti tra gli uomini e tra l'uomo e Dio.

di Ariel Winkler*

In questo settembre in Israele si festeggia il Capodanno ebraico, che inizia lunedì sera, 22 settembre, e martedì, 23 settembre. Sebbene nella tradizione sia chiamato «Rosh Hashanah» («capo dell'anno»), nel calendario biblico non è l'inizio dell'anno (il primo mese è Nissan, quando si celebra la festa di Pesach; Esodo 12,2). Si tratta piuttosto di una festività speciale che la Bibbia chiama «Zikaron Teru'a» («memoria del suono della tromba», Levitico 23,24) o «Yom Teru'a» («giorno del suono della tromba», Numeri 29,1). È una delle sette feste che Dio ha dato al popolo d'Israele nel ciclo annuale biblico.
Nella Bibbia non esiste una festa che sia espressamente definita come «inizio dell'anno». Tuttavia, nella tradizione rabbinica si è sviluppato il concetto di quattro diversi «inizi dell'anno», che rappresentano diversi conteggi e definizioni:

  • Il primo giorno di Nissan: Capodanno per i re e le feste - da questa data si contano gli anni di regno dei re in Israele e l'ordine delle feste di pellegrinaggio (Mishnah Rosh Hashanah 1,1).
  • Il primo giorno di Elul: Capodanno per la decima del bestiame - il momento a partire dal quale viene versata la decima delle pecore e dei bovini del nuovo anno.
  • Il primo giorno di Tishri: Capodanno per gli anni, per lo Shmitta (anno sabbatico) e l'anno giubilare, per le coltivazioni e per gli ortaggi - questa data determina il nuovo anno per il conteggio dello Shmitta (anno sabbatico) e degli anni giubilari, l'età degli alberi e la decima sugli ortaggi.
  • Il primo giorno dello Shwat: Capodanno per gli alberi - determina l'inizio del nuovo anno per il calcolo della decima dei frutti degli alberi.
Così è nata nel pensiero ebraico l'idea di Rosh Hashanah, non come un singolo giorno per tutto, ma in date diverse che esprimono i vari aspetti della vita nazionale e agricola.
Il Rosh Hashanah primo giorno di Tishri apre i dieci giorni di pentimento, un periodo speciale di raccoglimento interiore e di riflessione su se stessi. Questi giorni sono caratterizzati dalla richiesta di perdono, dall'esame di coscienza e dal rinnovamento delle relazioni tra le persone e tra l'uomo e Dio. Il culmine è rappresentato dallo Yom Kippur, in cui il popolo d'Israele si riunisce per digiunare, pregare e supplicare, chiedendo perdono e purificazione spirituale.
A Rosh Hashanah è tradizione recarsi in riva a un corso d'acqua (fiume, sorgente o mare) e praticare l'usanza del Tashlich («tu getterai»). In questa occasione, le tasche vengono svuotate e liberate da ogni traccia di polvere o sporcizia, come simbolo dell'abbandono dei peccati. Durante questa usanza viene recitata la preghiera del Tashlich, basata su Michea 7,18-19:

    «Chi è un Dio come te, che perdona l'ingiustizia e trascura la trasgressione del resto della sua eredità? Egli non serba per sempre la sua ira, perché ha piacere nella misericordia. Egli avrà di nuovo pietà di noi, calpesterà le nostre iniquità; e tu getterai tutti i loro peccati nelle profondità del mare».

Anche se questo atto è simbolico, esprime la profonda consapevolezza che solo Dio può perdonare i peccati e gettarli nelle profondità del mare.
Allo stesso modo, il re Davide confessa che solo Dio è colui che perdona: «Egli ti perdona tutti i tuoi peccati, guarisce tutte le tue malattie» (Salmo 103,3). Lo stesso vediamo quando Gesù servì a Capernaum e guarì il paralitico: «Ma alcuni scribi erano seduti lì e pensavano nei loro cuori: “Perché costui parla così? Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?”» (Marco 2,6-7). Questa reazione riflette la concezione biblica secondo cui solo Dio può perdonare i peccati. La morte vicaria di Gesù sulla croce ci dona proprio questo perdono dei peccati: «In lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, il perdono dei peccati secondo le ricchezze della sua grazia» (Efesini 1,7).
Nonostante l'atto simbolico del Tashlich, in cui il popolo d'Israele chiede a Dio di gettare i suoi peccati nell'acqua e implora il perdono, esso è ancora lontano dal suo Dio e Messia Gesù. Ma proprio l'ostinazione e la caduta di Israele sono diventate salvezza per le nazioni (Romani 11,12). Non dobbiamo dimenticare che Dio ha sempre un residuo fedele, proprio come ai tempi di Elia, quando il Signore disse: «Ma io ho lasciato in Israele settemila uomini che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal» (1Re 19,18) . Anche oggi Dio ha un residuo fedele in Israele. Inoltre, ha un piano per la salvezza del suo popolo Israele, come promesso:

    «Riverserò lo spirito di grazia e di supplica sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme; essi guarderanno a me, colui che hanno trafitto» (Zaccaria 12,10).

E come scrive Paolo ai Romani: «Una parte d'Israele è stata indurita, finché non sia entrata la pienezza dei gentili; e così tutto Israele sarà salvato» (11,25-26).
Rosh Hashanah non è quindi solo un'occasione personale per esaminare la propria coscienza e chiedere perdono per il popolo d'Israele, ma anche un ricordo della fedeltà di Dio attraverso le generazioni. Il ricordo del suono delle trombe ci invita a pensare alla grazia di Dio, alle sue promesse infallibili e al suo piano globale per la salvezza del suo popolo Israele e del mondo intero. Quando oggi guardiamo alla condizione spirituale di Israele e preghiamo affinché si volga a Lui con tutto il cuore, manteniamo salda la speranza e la fede che Dio porterà a compimento ciò che ha iniziato.
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*Ariel Winkler, classe 1983, è cresciuto in Israele, dove ha portato a termine la sua formazione teologica e ha ottenuto il diploma di guida turistica. Lavora nel team di Beth Shalom ad Haifa.

(Nachrichten aus Israel Nr 9, september 2025/5786 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Riconoscere uno Stato palestinese, una vittoria del jihad

di Davide Cavaliere

Potrebbe essere solo una coincidenza che Canada, Australia e Regno Unito abbiano deciso di riconoscere uno Stato islamico e terrorista – la cui identità si basa sull’uccisione degli ebrei – proprio a ridosso di Rosh ha-Shana, una delle più importanti festività ebraiche; ciò che, certamente, non è casuale, è che abbiano dato ai terroristi esattamente ciò che desideravano.
L’idea di riconoscere uno «Stato palestinese» costituisce un’assurdità e un’offesa alla storia per almeno due motivi. In primo luogo, perché non esiste un «popolo palestinese» distinto, ma comunità arabe musulmane locali che, dopo la cocente sconfitta del 1967, hanno adottato l’identità «palestinese» per mascherare la volontà di distruggere Israele con una verniciatura di «liberazione nazionale». I «palestinesi» come popolo autoctono sono, in realtà, un’invenzione recente. In secondo luogo, perché il loro obiettivo non è mai stato costruire uno Stato in cui vivere in pace e in buoni rapporti con Israele, bensì sottrarre territorio agli ebrei e consolidare le proprie postazioni d’attacco.
Recenti sondaggi dimostrano che il 64% degli arabi che vivono sotto il governo dell’Autorità Palestinese ritiene che la «soluzione dei due Stati» non sia più praticabile; il 72% approva il massacro del 7 ottobre e il 41% sostiene una «lotta armata» – ovvero il terrorismo – per annientare Israele. Starmer, Carney e Albanese hanno frainteso le reali aspirazioni dei cosiddetti palestinesi.
Inoltre, non è chiaro dove questo «Stato palestinese» dovrebbe sorgere e con quali modalità. Non esistono confini concordati a livello internazionale, né una capitale definita, né un esercito, né un governo unitario. Gaza è nel mezzo di una guerra e la Cisgiordania non ha un esecutivo stabile: l’Autorità Palestinese esercita un controllo effettivo solo su porzioni limitate del territorio (zona A e parti della B).
Nei discorsi dei vari leader internazionali si è fatto riferimento ai «confini del 1967», in riferimento a quelli antecedenti alla Guerra dei Sei Giorni, come linee di demarcazione per un futuro Stato palestinese. Tuttavia, quei confini non sono mai esistiti e non compaiono in alcun documento internazionale. Non si trattava di frontiere riconosciute, bensì di semplici linee armistiziali rimaste in vigore dalla fine del primo conflitto arabo-israeliano del 1948 fino al 1967.
Benjamin Netanyahu ha più volte ribadito che, se Israele dovesse ritirarsi a quelle linee, lo Stato ebraico diventerebbe militarmente indifendibile. Pertanto, Israele non permetterà mai la nascita di una «Gaza su larga scala» a ridosso delle sue città principali.
La scelta di Starmer, Carney e Albanese non è dunque un «atto di pace», ma una capitolazione di fronte al ricatto della violenza. Premiano il terrorismo invece di isolarlo, ne legittimiamo le rivendicazioni più estreme e tradiscono le idee di sicurezza e sovranità nazionale. Riconoscere lo «Stato palestinese» significa voler erigere un santuario per il jihad. E Israele, giustamente, non abbasserà la guardia mentre l’Occidente, ancora una volta, cede alla tentazione di una «pace» concordata al prezzo della sua esistenza.

(L'informale, 23 settembre 2025)

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L’ubriacatura genera guerra

Macron ha indotto con un lavorio intensivo un risultato guerrafondaio. Solo l'estrema sinistra lo sostiene al 78%, il 41 nel suo partito

di Fiamma Nirenstein

La riunione indetta da Macron per riconoscere lo Stato palestinese completa la pluridecennale inimicizia dell'Onu verso Israele. Già il giorno prima Starmer, insieme ad altri tre volenterosi (Portogallo, Australia, Canada), ha dichiarato solennemente che sarà della partita. Così la Gran Bretagna, madre della dichiarazione Balfour e della risoluzione di Sanremo nel 1920 e mandataria per garantire la fondazione dello Stato ebraico, oggi tradisce Israele. È una pandemia: sono più di 150 stati che premiano Hamas. Sarebbe bello "due stati per due popoli", ma l'ombra del 7 ottobre incombe, già Macron, dice Hamas, ha causato il rifiuto di liberare i rapiti.
  Menomale che l'Italia è stata saggia. Ma anche la gente dei Paesi che votano "Sì" lo sa: il 90% degli inglesi non è d'accordo, neppure due terzi dei francesi e il 38% chiede che almeno si restituiscano gli ostaggi. Macron ha indotto con un lavorio intensivo un risultato guerrafondaio. Solo l'estrema sinistra lo sostiene al 78%, il 41 nel suo partito. In Inghilterra solo il 13% sostiene un riconoscimento senza condizioni, il 51 lo vuole senza Hamas, il 41 chiede almeno gli ostaggi.
  I genitori di Eviatar David e Ron Braslawsky, hanno firmato con gli altri parenti una lettera di protesta: chi è per lo Stato palestinese complica la restituzione dei rapiti. Starmer risponde alle accuse di Netanyahu di sostenere il terrorismo, ma è Ghazi Hamad, leader di Hamas, a vantare che il sostegno dello Stato palestinese è frutto del massacro del 7 ottobre. Macron ha fatto un passo indietro, senza ostaggi non ci sarà ambasciata. Ma ormai la valanga ruzzola, l'Onu fa saltare gli accordi di Oslo del '93: adesso per evitare il rischio dell'assedio di uno Stato palestinese fino a Tel Aviv, Israele potrebbe annettere una parte dei Territori. L'Anp, più furba di Macron, non dichiara l'indipendenza: cancellare gli accordi Oslo può portare in un baratro. L'Arabia Saudita minaccia un atteggiamento ostile in caso di annessione, ma avrà poco effetto.
  Non c'è nessun segno che i palestinesi accettino la convivenza con Israele, rifiutata dal '48. Abu Mazen ha 90 anni e governa illegalmente dal 2006, le elezioni porterebbero al potere Hamas.
  Uno stato sarebbe autoritario, antigay, antidonna, e ultra razzista. Non avrebbe strutture economiche né confini. Un'Onu ubriaca sembra convogliare il mondo su un'unica arte consolidata: l'odio per gli ebrei. Ovvero, alla guerra.

(il Giornale, 23 settembre 2025)

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Chi sono i «minimi fratelli» di Gesù»?

di Elisabeth Kleinschmidt

Da secoli la Chiesa insegna che i «minimi fratelli di Gesù» sono i poveri di questo mondo. I nostri fratelli messianici ci mostrano un nesso più profondo: Gesù racconta questa parabola in riferimento al Suo ritorno. Chiamiamo queste tre parabole di Matteo 25 anche parabole della fine dei tempi.
Cristo dice: «Quello che avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, lo avete fatto a me» (Matteo 25:40)
Il nostro versetto settimanale per la 13ª domenica dopo la Trinità, che quest'anno cade il 14 settembre, è collegato al grande giudizio universale sui popoli. La linea spirituale risale all'affermazione del profeta Gioele: capitolo 3,1 ss. Qui viene descritto il grande giudizio punitivo sui popoli al momento del Suo ritorno.
Il criterio per il Suo giudizio è il comportamento nei confronti del Suo popolo Israele. Leggetelo con attenzione!
Il momento è la restaurazione di Israele nella Sua terra. Quindi ora è molto vicino!
E se guardiamo più indietro nella storia, arriviamo alle promesse di Dio ad Abramo:
«Benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra!» (Genesi 12:3)
Quindi, attraverso tutta la storia della salvezza, Israele è il metro di Dio per il Suo giudizio! Nella parabola del giudizio universale, Gesù, il giudice del mondo, si identifica con il Suo popolo: «Quello che avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, lo avete fatto a me».
Se vogliamo fare del bene o del male a Gesù, lo facciamo facendo del bene o del male ai Suoi fratelli carnali. Che forte monito per noi in questo periodo così antisemita!

(Israelnetz, 23 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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“Gli ebrei hanno fatto l’11 settembre”: tre sinagoghe vandalizzate in Canada

di David Fiorentini

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Tre sinagoghe di Halifax, in Canada, sono state vandalizzate con svastiche e la scritta “Jews did 9/11” (“Gli ebrei hanno fatto l’11 settembre”). Ad essere colpite sono state la Shaar Shalom Congregation, il tempio ortodosso Beth Israel e il centro Chabad of the Maritimes.
“È la prima volta che la nostra sinagoga è vandalizzata in questo modo”, racconta la pagina ufficiale di Shaar Shalom su Facebook. “In passato siamo stati bersaglio di minacce bomba inviate per email a tutte le comunità ebraiche del Paese, ma questo rappresenta per noi un nuovo passo dell’odio”.
“Sappiamo che queste notizie spaventano, ma non ci lasceremo intimidire né ci allontaneranno dalla preghiera”, ha aggiunto la Comunità.
Una serie di crimini d’odio che si aggiunge alla drammatica spirale di episodi di antisemitismo che imperversa da mesi in tutto il mondo.
“Attaccare i luoghi di culto è inaccettabile”, ha tuonato il sindaco di Halifax, Andy Fillmore, condannando con fermezza l’accaduto. “Viviamo in un’epoca in cui le discussioni su identità, storia e giustizia possono sembrare divisive e travolgenti, ma non possiamo permettere che questa complessità degeneri in odio nella nostra città”.
Nel frattempo, la polizia regionale ha immediatamente aperto le indagini e ha rilasciato l’immagine del sospettato dalle telecamere di sorveglianza, chiedendo la collaborazione dei cittadini per identificarlo.
La grande tensione di quei giorni era probabilmente legata anche all’incontro di Coppa Davis tra Canada e Israele in programma proprio a Halifax. Tra l’altro la sfida, giocata a porte chiuse per motivi di ordine pubblico, aveva comunque attirato l’ambasciatore israeliano in Canada, Iddo Moed, che quindi ha testimoniato di persona lo spiacevole accaduto.
“L’odio e le sue espressioni antisemite devono essere condannati. Questi atti vandalici sono inaccettabili e devono essere considerati un campanello d’allarme per tutti.”

(Bet Magazine Mosaico, 22 settembre 2025)

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L’antisemitismo “democratico”

di Stefano Gatti

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Il 28 luglio scorso, in un autogrill vicino a Milano, un ebreo francese insieme al figlio di sei anni è stato insultato e poi ha esposto denuncia per un’aggressione subita nell’indifferenza generale. Pochi giorni prima, una cinquantina di ragazzi ebrei francesi tra i 10 e i 15 anni, insieme alla loro direttrice di 21 anni, sono stati fatti scendere da un volo della compagnia Vueling in partenza da Valencia e diretto a Parigi, dopo aver cantato canzoni in ebraico a bordo: l’equipaggio avrebbe denunciato azioni di “disturbo”.
  Questi episodi, su cui sono attualmente in corso le inchieste giudiziarie, costituiscono un paradigma di quanto accaduto dopo il pogrom del 7 ottobre: gli ebrei, vittime di un terribile massacro perpetrato da feroci assassini, dopo pochi giorni, vengono additati come “responsabili”.
  Moltissimi commentatori sostengono che l’ondata di antisemitismo post 7 ottobre vada imputata alle azioni “genocide” del “governo di Tel Aviv”. In realtà, la solidarietà verso le vittime ebree è durata un battito di ciglia: nel giro di pochi giorni uccisi e rapiti sono stati dimenticati ed è iniziato il tam tam – spesso suonato da partiti politici, docenti universitari, altri prelati, cantanti, attori ed influencer – secondo il quale la reazione di Israele era “spropositata” e poi “genocida”. Gli ebrei sono stati considerati “responsabili” dell’antisemitismo poiché non hanno preso le distanze dal “genocidio” attuato dal “loro” governo. L’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte – e non solo lui – ha invitato più volte gli ebrei a condannare il “genocidio in corso”, pena la corresponsabilità del medesimo. Va ricordato che, da sempre, gli antisemiti si presentano come vittime degli ebrei, i crociati che li massacravano nel basso Medioevo sostenevano che la loro era una risposta all’iniquità ebraica, mentre Hitler “rispondeva” alla dichiarazione di guerra che gli aveva rivolto l’“ebraismo internazionale”.
  Le vittime di antisemitismo vengono immancabilmente inquadrate come “sioniste”, termine quest’ultimo che ha assunto un significato distorto, e sintetizza i principali topoi dell’immaginario antiebraico. L’impiego alterato del termine è trasversale e non connota solamente gli ambienti estremisti. La generalizzazione agisce come meccanismo di disumanizzazione, favorendo una crescente legittimazione della violenza e della normalizzazione dell’odio verso un nemico indefinito (il “sionista”). L’effetto combinato di queste narrative è la legittimazione della violenza verbale e fisica contro gli ebrei, percepiti non come individui, ma come rappresentanti collettivi (i “nuovi nazisti”) delle azioni “genocide e sterminazioniste” di “IsraHell”. I travisamenti del concetto di sionismo risultano sempre più influenzati da matrici ideologiche islamiste, le quali hanno progressivamente guadagnato legittimità e spazio nel discorso pubblico, trovando eco in ambiti scolastici, universitari, mediatici e culturali. Emergono gruppi organizzati di “professionisti dell’antisemitismo”, che promuovono la distorsione del sionismo attraverso l’appropriazione di simboli e distorsioni della Shoah.
  Si tratta di soggetti che, in larga parte, operano in maniera coordinata, con strategie mirate alla diffusione dell’odio, spesso sfruttando le dinamiche virali delle piattaforme digitali.
  In Italia come nel resto del mondo si registra un numero record di atti di antisemitismo e questo odio organizzato assume toni vieppiù aggressivi, determinati dal fatto che l’antisemitismo in veste di “antisionismo” viene considerato “democratico e antifascista”. Nei primi sei mesi del 2025, l’Osservatorio antisemitismo del CDEC ha registrato circa 500 casi di antisemitismo e, persistendo questo clima, alla fine dell’anno verrà superata la soglia record del 2024 di 874 casi. Gli atti contro gli ebrei si fanno sempre più violenti e ormai gli odiatori si sentono liberi di minacciare con toni come: «sei uno sporco ebreo infame…Ti arriverà un proiettile in testa da parte mia» (maggio 2025).
  La normalizzazione dell’antisemitismo attraverso la demonizzazione del “sionismo” ha condotto a questa situazione che è in continuo aggravamento. L’unica soluzione a questo fenomeno globale è che l’ubriacatura ideologica passi al più presto. Ma devono essere enti e persone che hanno rivitalizzato un antisemitismo da anni ’30 a porvi rimedio. E devono farlo al più presto.

(Shalom, 20 settembre 2025)

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Rosh Hashana: Benjamin Netanyahu promette vittoria e pace per Israele

Alla vigilia di Rosh Hashana, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rivolto i suoi auguri ai cittadini di Israele, lodando la loro resilienza e il loro coraggio in questo periodo di guerra. In un messaggio solenne, ha reso omaggio ai soldati dell'esercito israeliano, sia regolari che riservisti, nonché a tutte le forze di sicurezza, che ha definito “il muro di protezione dello Stato di Israele”.
  Netanyahu ha ricordato i recenti successi militari, in particolare una “operazione storica” che, secondo lui, ha permesso di eliminare una minaccia esistenziale proveniente dall'Iran. “Abbiamo colpito duramente l'asse iraniano, in Libano, Siria, Yemen e persino sul suolo iraniano”, ha dichiarato.
  Il capo del governo ha sottolineato che le forze israeliane continuano la loro offensiva nella Striscia di Gaza per “sconfiggere definitivamente Hamas e riportare a casa tutti i nostri ostaggi”. Ha espresso il suo sostegno alle famiglie degli ostaggi e alle famiglie in lutto, pregando per il ritorno dei prigionieri e la guarigione dei feriti. Netanyahu ha anche promesso di continuare a rafforzare l'economia e la sicurezza di Israele attraverso la tecnologia, l'intelligenza artificiale e le industrie della difesa. Ha insistito sulla ricostruzione delle comunità del nord e del sud, pesantemente colpite dal conflitto, e ha ribadito il suo impegno ad ampliare “il cerchio della pace” nella regione. “Che quest'anno sia un anno di unità, vittoria e pace”, ha concluso, augurando un felice anno nuovo a tutto il popolo di Israele.

(i24, 22 settembre 2025)

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Nessun'altra scelta: la battaglia di Israele per la città di Gaza

Oltre mezzo milione di abitanti ha già abbandonato la città: l'esercito sta attaccando gli ultimi bastioni di Hamas, mentre le sofferenze della popolazione civile continuano ad aumentare.

Da giorni il centro dei combattimenti si sposta sempre più in profondità nelle strade e nei vicoli della città di Gaza. I carri armati attraversano quartieri distrutti, i soldati setacciano i blocchi di case alla ricerca di depositi di armi, trappole esplosive e accessi ai tunnel. Qui Hamas ha creato il suo baluardo più importante, sopra e sotto terra.
Il portavoce dell'esercito, il generale di brigata Effie Defrin, ha chiarito domenica che non esistono soluzioni facili in questa guerra. “Hamas ha mostrato al mondo la sua vera strategia: sfruttare il proprio popolo e prolungare deliberatamente la guerra”, ha dichiarato. “Le nostre forze lavorano giorno e notte per riportare a casa gli ostaggi, smantellare le reti terroristiche di Hamas e creare un futuro più sicuro per l'intera regione”.
Negli ultimi giorni Hamas ha dato nuovamente prova dei propri metodi: sparando contro una squadra delle Nazioni Unite, utilizzando veicoli rubati alle Nazioni Unite per bloccare i trasporti di aiuti umanitari e rubando con la forza quattro camion dell'UNICEF carichi di alimenti per neonati. “In questo modo migliaia di bambini piccoli sono stati privati delle loro provviste”, ha affermato Defrin. “Allo stesso tempo, Hamas continua a impedire ai civili di lasciare le zone di combattimento”.
Israele sta rispondendo con un'operazione di evacuazione su larga scala. Con volantini, SMS, annunci altoparlanti e telefonate, i residenti sono invitati a lasciare le zone di combattimento. Secondo l'esercito, più di 550.000 persone hanno già lasciato la città di Gaza e si sono dirette verso sud. Lì Israele ha istituito una zona umanitaria vicino a Khan Yunis, con ospedali da campo, condutture idriche, impianti di desalinizzazione e nuove stazioni di rifornimento.
Al valico di frontiera di Kerem Shalom si accumulano aiuti umanitari in attesa di essere ritirati dalle Nazioni Unite e da altre organizzazioni. “Israele garantisce ai civili l'accesso al cibo, all'alloggio e alle medicine”, ha sottolineato Defrin. “Ora spetta alle organizzazioni internazionali portare effettivamente questi aiuti alla popolazione”.
Mentre la 162ª, la 98ª e la 36ª divisione operano direttamente nelle roccaforti di Hamas, rimane un fatto amaro: 48 ostaggi sono ancora nelle mani dell'organizzazione terroristica. Defrin ha dichiarato: “La loro prigionia è un capitolo aperto di questa guerra. Lo chiuderemo solo quando saranno di nuovo con noi. Non abbiamo altra scelta”.
Con il Capodanno ebraico alle porte, Israele chiarisce che questa guerra non è solo un'operazione militare per il Paese, ma una necessità esistenziale.

(Israel Heute, 22 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il non Stato palestinese

E così la Francia è stata battuta sul tempo, di un giorno, da Regno Unito, Australia e Canada.
  Fu Macron il primo ad annunciare il riconoscimento di uno Stato palestinese, per altro già riconosciuto da 150 altri Paesi, che avverrà domani durante il consueto raduno all’ONU. Si riconosce una non entità politica, un luogo della mente, privo di governo, confini, classe dirigente, valuta, capitale. Ma appunto, lo Stato palestinese è un pensiero, o meglio un vessillo ideologico, con una bandiera che è quella giordana senza stella. Lo Stato palestinese, ovvero il 23esimo Stato arabo, che gli arabi hanno sempre evitato che nascesse dal 1937 ad oggi, perché farlo avrebbe inevitabilmente significato legittimare l’esistenza di Israele e della presenza ebraica su un territorio considerato irrevocabilmente dotazione islamica, Dar al-Islam. Lo avrebbero già avuto fin da quando, dieci anni prima del secondo rifiuto, la Commissione Peel, propose agli arabi un loro Stato sull’80 per cento del territorio, relegando sostanzialmente gli ebri in un ghetto, tanto ci erano abituati da secoli. Ma dissero di no, e hanno detto di no fino al 2008, quando Ehud Olmert offrì ad Abu Mazen il 95 per cento dei territori della Cisgiordania, più Gerusalemme Est come capitale.
  Hamas non ha mai nascosto le sue mire, e nemmeno Fatah se è per questo, sono riassumibili nello slogan tanto di moda tra gli studenti e i manifestanti occidentali, “Free Palestine from the river to the sea”, ovvero quello che volevano fare gli eserciti arabi nel 1948, e poi nel 1967 e poi ancora nel 1973, senza riuscirci. Eliminare gli ebrei dalla terra in cui è nata la loro storia, esattamente come Hitler voleva eliminarli dall’Europa e idealmente dalla faccia della terra.
  “Non ci sarà nessuno Stato palestinese” ha dichiarato Netanyahu a stretto giro di posta, prossimo alla partenza negli Stati Uniti. Non  ci sarà un altro più esteso stato jihadista a soli dieci chilometri da Tel Aviv. Un esempio di Stato palestinese si è già visto a Gaza dal 2005 ad oggi.

(Bet Magazine Mosaico, 21 settembre 2025)


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Il riconoscimento dello Stato palestinese rafforza Hamas e l’estrema destra israeliana

di Luca Lovisolo

La promessa è compiuta: il Regno unito ha riconosciuto uno Stato arabo di Palestina, la Francia e altri Paesi occidentali seguono.
È bene richiamare alla memoria alcuni punti. La nascita di uno Stato è un atto dichiarativo. L’elemento soggettivo della sua fondazione è la volontà di una popolazione di costituirsi come Stato. Nessun altro soggetto – nemmeno le Nazioni unite – ha diritto di pronunciarsi sulla volontà di un popolo che si vuole Stato. Un tale diritto di pronuncia lederebbe la pari dignità tra i popoli e gli Stati.
Se la nascita di un nuovo Stato non pregiudica i diritti di altri già esistenti, la nuova entità statale sorge dal momento della sua autoproclamazione. Il riconoscimento formale da parte di altri non è necessario: se un governo compie atti giuridici con il nuovo Stato, lo riconosce per comportamento concludente.
Nel 1947 la popolazione araba della Palestina aveva pieno diritto di costituirsi come Stato senza ledere diritti altrui. Al termine di una lunga controversia, l’ONU aveva deciso la spartizione territoriale della Palestina tra arabi ed ebrei. Quest’atto, però, produceva solo l’attribuzione dei rispettivi territori: l’ONU, infatti, non ha alcun potere di obbligare chicchessia a fondare uno Stato. Poiché gli arabi pretendevano per sé tutta la Palestina, hanno rifiutato quell’opportunità: accettarla avrebbe significato il riconoscimento implicito della divisione della regione. Da allora negano allo Stato ebraico, costituito legittimamente, il diritto di esistere.
La situazione, nel frattempo, non è cambiata. Il motto Palestina libera dal fiume al mare significa la cancellazione di Israele, un obiettivo fissato anche nello statuto di Hamas (1988). La già controversa nuova versione di tale statuto (2017), nella quale Hamas afferma di accettare i confini del 1967, è contraddetta dai fatti.
Il processo di pace di Oslo avrebbe dovuto implicare il riconoscimento di Israele da parte dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP),ma non si è mai completato. La distruzione di Israele resta un obiettivo iscritto anche nella Carta nazionale palestinese (1968), all’articolo 22. Anche per questo motivo, la posizione all’apparenza più moderata dell’Autorità nazionale palestinese, controllata da Fatah e di fatto priva di potere, non convince ed è sovrastata dalla più forte presenza di Hamas.
Ne discende che il popolo arabo di Palestina non vuole affatto costituirsi come Stato, finché esiste Israele. Poiché il diritto di Israele di esistere non è in discussione, viene meno il requisito soggettivo per il riconoscimento di uno Stato arabo nella regione. In conseguenza, diventa superflua ogni ulteriore considerazione sugli elementi oggettivi secondo la Convenzione di Montevideo del 1933 (territorio definito, popolazione, governo, relazioni internazionali). Un tale riconoscimento, nella situazione attuale, è comunque privo anche di fondamento oggettivo.
Non pochi giuristi e parlamentari hanno richiamato l’attenzione dei governi occidentali sulla mancanza di basi legali, per il riconoscimento di uno «Stato palestinese.» Sono stati zittiti.
Quello che è stato riconosciuto è uno Stato che non vuole sé stesso; un castello in aria che serve a giochi di politica interna occidentale e non avrà alcun effetto sull’andamento della guerra, tanto meno sulle condizioni di vita nella Striscia di Gaza. Piuttosto, rafforza Hamas e i partiti dell’estrema destra israeliana, che si vedono confermati nelle loro opposte pretese.

(InOltre, 22 settembre 2025)

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Un anno d’Israele: tra sfide affrontate e prospettive future

di Ugo Volli 

Un anno fa
  Al posto della consueta sintesi sui fatti principali della settimana scorsa nella guerra che Israele sostiene, questa volta ho trovato opportuno considerare tutto l’anno che è trascorso. Non solo perché domani sera [domenica 21] inizia la celebrazione del capodanno ebraico, per cui faccio a tutti i lettori auguri per un 5876 buono e dolce. Ma anche perché è bene ricordare dove eravamo a settembre dell’anno scorso e dove siamo ora, per misurare come la situazione sia cambiata. All’inizio del 2024 Israele aveva preso il controllo delle zone di confine di Gaza e di parti del nord della Striscia. A maggio aveva conquistato l’asse Filadelfia che delimita il confine con l’Egitto, compreso il valico di Rafah (7 maggio), ma non la città, che sarebbe stata completamente conquistata solo ad aprile 2025, superato il blocco imposto dall’amministrazione Biden e una tregua. Israele aveva eliminato il leader storico di Hamas Ismail Haniyeh il 31 luglio a Teheran. Inoltre aveva colpito alcuni dei principali comandanti iraniani che coordinavano la guerra dei gruppi affiliati come Hamas e Hezbollah: il 25 dicembre 2023 Israele aveva eliminato a Damasco Razi Mousavi, un generale iraniano di alto rango, il 20 gennaio 2024 del generale di brigata Sadegh Omidzadeh, un ufficiale dell’intelligence della Forza Quds, e il 3 aprile il generale di brigata Mohamad Reza Zahedi. In seguito a queste eliminazioni, l’Iran aveva minacciato rappresaglie, che si sono poi concretizzate nell’attacco con droni e missili il 13 e 14 aprile del 2024, senza danni significativi. La controrappresaglia di Israele, frenato da Biden, fu minore ma significativa, colpendo le installazioni antiaeree vicino alla capitale e agli impianti nucleari.

La situazione a settembre 2024
  L’Iran appariva allora comunque come una minaccia gravissima e imminente, ormai alle soglie dell’armamento nucleare e fornito di un sistema missilistico capace di raggiungere non solo Israele ma anche l’Europa e di fare gravissimi danni. Anche Hezbollah faceva paura, con i suoi 100 mila missili, di cui parecchi forniti di impianti di precisione. Tenendo di riserva queste armi, Hezbollah bombardava però quotidianamente la Galilea, facendo numerose vittime e costringendo gli abitanti a fuggire nel centro di Israele. Nel gioco erano entrati anche gli Houthi, gruppo terroristico che controlla circa metà dello Yemen e grazie alle armi fornite dall’Iran stava bloccando lo stretto fra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, vitale per il commercio mondiale; ma iniziava a sparare anche direttamente su Israele. Anche in questo caso l’amministrazione Biden impediva l’autodifesa diretta israeliana; del resto essa bloccava o rallentava molto i rifornimenti militari delle forze armate di Israele (seguita in questo dalla Gran Bretagna). Sembrava in quel momento che Kamala Harris avesse buone possibilità di succedere a Biden, accentuandone le politiche anti-israeliane. Trump avrebbe vinto largamente ma un po’ a sorpresa solo il 20 novembre e avrebbe assunto il potere solo a metà gennaio di quest’anno. Nell’intervallo c’era stata molta preoccupazione per un possibile colpo di coda della vecchia amministrazione all’Onu, come era accaduto con Obama. A livello internazionale si intensificavano dichiarazioni politiche, falsificazioni mediatiche e manifestazioni di piazza contro Israele: iniziava ad affermarsi, sulla base delle false cifre diffuse da Hamas, la propaganda sul “genocidio”, sulla “strage dei bambini”, sulla “fame di Gaza”. Gli ostaggi prigionieri a Gaza erano circa 100.

La svolta
  Insomma Israele aveva certamente prevalenza sul campo, ma era in grave difficoltà strategica, coi nemici principali ancora intatti. Proprio a partire da settembre però la situazione iniziò a cambiare profondamente. Il governo ottenne dallo Stato Maggiore lo spostamento al Nord delle truppe non più utilizzate a Gaza. Per decisione personale di Netanyahu, contro l’opinione di molti leader militari e politici israeliani, iniziò l’offensiva contro Hezbollah: il 17-18 settembre, con esplosioni di cercapersona e walkie-talkie (forniti dal Mossad) furono eliminati migliaia dei suoi quadri militari; il 23 settembre partirono i bombardamenti massicci sulle infrastrutture terroristiche che portarono il 27 all’eliminazione del leader carismatico del gruppo Nasrallah; il 1° ottobre iniziò una limitata, ma decisa operazione di terra oltre il confine libanese. Contemporaneamente furono colpiti numerosi obiettivi militari in Siria. Il risultato a medio termine fu un cambiamento politico fondamentale per tutto il Medio Oriente, l’eliminazione dell’influenza politica di Hezbollah sul Libano e il suo disarmo ancora in corso; il futuro scioglimento di Unifil, la forza Onu sostanzialmente “non ostile” ai terroristi, il rovesciamento del regime siriano con tutto quel che ne è seguito. Vale la pena di aggiungere che il 24 ottobre, durante una delle azioni preliminari al completamento della presa di Rafah, veniva eliminato Yaya Sinwar, capo militare di Hamas e primo responsabile del 7 ottobre.

Una spinta che continua
  L’impulso iniziato un anno fa è poi continuato con le operazioni contro l’Iran, gli Houthi, Hamas a Gaza e in Qatar: è molto migliorato il rapporto politico con gli Stati Uniti, l’alleato determinante, anche se altri stati fanno a gara a cercare di esprimere (in forma solo simbolica, però, perché d’altro non sono capaci) la loro avversione a Israele e le piazze, le università, le redazioni, i parlamenti, i tribunali sono pieni di antisemitismo. L’Iran è stato colpito duramente, il suo programma di armamento nucleare riportato indietro di molti anni. E proprio ieri è saltata l’ultima protezione che gli aveva concesso Obama, l’esenzione dalla sanzioni più pesanti, che è stata annullata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu: un colpo durissimo per il regime, che gli renderà molto più difficile non solo il progetto di riarmo, ma anche il mantenimento del livello economico necessario a soffocare il dissenso della popolazione.

Speranza di pace
  Insomma, guardare indietro all’anno scorso mostra che la situazione è completamente cambiata, che Israele ha mostrato la forza e la determinazione necessaria a vincere e conservando questo atteggiamento è in grado di concludere la guerra nel giro di pochi mesi, eliminando le minacce incombenti e auspicabilmente liberando gli ostaggi. Questa vittoria sul campo è la condizione perché si acquieti la bufera sull’ottavo fronte, quello della comunicazione e delle prese di posizione politiche. È impossibile che su questo piano le cose tornino come prima, troppo veleno è uscito da politici, intellettuali, giornalisti, gente comune, troppo grande è stato il tradimento sentito dagli ebrei in Europa e altrove. Ma la sola pace possibile, che è quella della vittoria di Israele, permetterà a qualcuno dei nemici di Israele e degli ebrei di tornare indietro sinceramente, comprendendo di aver sbagliato, ad altri di cercare diversi temi di agitazione demagogica o di partecipazione isterica; altri ancora saranno costretti al silenzio dall’evidenza della sconfitta. È quanto ci auguriamo di poter constatare fra un anno.

(Shalom, 20 settembre 2025)

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Perché Dio ha creato il mondo? - 15

Un approccio olistico alla rivelazione biblica.

di Marcello Cicchese

Pieno successo

    “A mezzanotte l'Eterno colpì tutti i primogeniti nel paese di Egitto, dal primogenito del Faraone che sedeva sul suo trono al primogenito del carcerato che era in prigione, e tutti i primogeniti del bestiame. Il Faraone si alzò di notte: lui con tutti i suoi servitori e tutti gli Egiziani; e ci fu un grande grido in Egitto, perché non c'era casa dove non ci fosse un morto. Allora egli chiamò Mosè e Aaronne, di notte, e disse: “Alzatevi, partite di mezzo al mio popolo, voi e i figli d'Israele; e andate, servite l'Eterno, come avete detto. Prendete le vostre greggi e i vostri armenti, come avete detto; andatevene, e benedite anche me!” (Esodo 12:29-32).

Prendete le vostre greggi e i vostri armenti, e… andatevene!” Dio dunque ha ottenuto un pieno successo: in politica estera come in politica interna.
  In politica estera: perché muovendo opportunamente le circostanze ha ottenuto che il Faraone non soltanto lasciasse andare il popolo, ma addirittura desse l’ordine di partire. Dunque non c’è stata alcuna rivolta popolare, né tanto meno una guerra di secessione: per partire il popolo ha aspettato che arrivasse l’ordine dall’autorità egiziana, che a sua volta è stata convinta a dare quell’ordine da un’Autorità più alta.
  In politica interna: perché è riuscito a convincere Mosè a mettersi pienamente al suo servizio, e a far sì che il popolo restasse compatto dietro a lui.
  Dio ha successo su Sé stesso quando muove le cose e aspetta fino a che sia l’uomo a darsi l’ordine di agire secondo la Sua volontà. È in questo modo che la creatura cresce nella conoscenza del Creatore.
  Ed è quello che avviene anche nello svolgimento delle cosiddette “dieci piaghe” del libro dell’Esodo, che nell’uso popolare si presentano come dieci figurine da guardare con interesse una dopo l’altra e discuterne i coloriti aspetti tecnici, magari con una punta d’ironia. Ma sull’ultima piaga l’ironia si ferma: si è costretti a dire o pensare qualcosa di serio. Con la vita e la morte non si scherza.
  Se si vuol parlare per immagini, più che come figurine le dieci piaghe possono essere pensate come fotogrammi staccati della pellicola di un film. Nelle figurine le immagini sono ferme; nel film invece, se si riesce a ricostruirlo a partire dai fotogrammi di cui sono parte, le immagini si muovono.
  Si può fare allora un tentativo di ricostruire la storia avvenuta aggiungendo altri ipotetici fotogrammi a quelli ritrovati, ma in modo da ottenere una pellicola che costituisca uno stralcio credibile di un film che, se esistesse, rappresenterebbe l’intera storia della Bibbia. È dal movimento dei personaggi che compaiono nel film che si può sperare di capire il senso della realtà in cui si muovono.

Contesa invisibile
   La scena che precede le dieci piaghe è quella che abbiamo già visto: una partita a poker, con Mosè e Aaronne da una parte e il Faraone e i maghi egiziani dall’altra (Esodo 7:8-13). Era un test preliminare per stabilire chi è il più forte fra il Dio degli ebrei e gli dei degli egiziani. Con il serpente di Aaronne che ingoia tutti i serpenti dei maghi, la partita poteva dirsi finita, ma per i maghi egiziani evidentemente quello era soltanto un round di assaggio. Avranno detto al Faraone che se nel confronto tra serpenti ha vinto l’Eterno, vorrà dire che in questo settore è più forte, ma non è detto che sia il più forte in tutto.
  I maghi dunque entrano in concorrenza con Mosè per l’accesso alla volontà del Faraone: devono convincerlo che loro possono muovere gli dèi degli egiziani in modo più efficace di quello che può fare Mosè col suo Dio degli ebrei.
  In un primo momento, nonostante la loro preliminare sconfitta, si direbbe che i maghi egiziani ci riescono, perché “il cuore del Faraone si indurì, ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne” (Esodo 7:13).
  Alla contesa visibile tra i maghi e Mosè per l’accesso alla volontà del Faraone si affianca però una contesa invisibile fra Satana e Dio per la conquista del cuore del Faraone. È qui infatti la prima volta che si parla di indurimento del Faraone, cosa che non era accaduta nel primo incontro con Mosè. E nella Bibbia, quando si parla di indurimento s’intende quasi sempre la resistenza dell’uomo a Dio che parla o agisce.
  Qui dunque si vede il Faraone che davanti all’agire di Dio chiude il suo cuore, così che non sia penetrato dalla Sua parola. Di conseguenza cade inevitabilmente sotto l’influenza del suo Avversario che, come disse Dio a Caino, “sta spiandoti alla porta” (Genesi 4.7).
  Come nel caso di Caino, Dio non vuole il male di Faraone; vuole invece parlare al suo cuore con precisi ordini al fine di convincerlo che il vero bene per il popolo d’Egitto potrà arrivare soltanto dopo che Dio avrà potuto fare il bene del popolo di Israele. Se cercherà di impedire questo, alla fine il bene per Israele comunque arriverà, ma sull’Egitto si abbatterà il male.
  Ma proprio in questo primo scontro il Faraone manifestò un indurimento che si mantenne tale fino alla fine. E fu dunque con una certa tristezza che “l’Eterno disse a Mosè: ‘il cuore di Faraone è ostinato’, egli rifiuta di lasciar andare il popolo” (7:14), e gli diede il compito di recapitare al Faraone un duro messaggio:

    “L’Eterno, l'Iddio degli Ebrei, mi ha mandato da te per dirti: Lascia andare il mio popolo, perché mi serva nel deserto; ed ecco, fino ad ora, tu non hai ubbidito. ’Così dice l'Eterno: Da questo conoscerai che io sono l'Eterno; ecco, io percuoterò con il bastone che ho nella mia mano le acque che sono nel Fiume, ed esse saranno mutate in sangue (Esodo 7:17).

Sarebbe stata una possibilità per il Faraone di conoscere l’Eterno e, per il suo bene, adeguarsi ai Suoi ordini. Il messaggio di Mosè non voleva essere una sfida ai maghi egiziani, ma così la presero loro; quindi, per non perdere credito presso il Faraone a vantaggio di Mosè, “i maghi d'Egitto fecero lo stesso con le loro arti occulte” (7:22). E ottennero ciò che volevano: “il cuore del Faraone si indurì ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne, come l'Eterno aveva detto” (7:22).
  Il sangue nel fiume durò sette giorni, poi sparì da solo. Il merito di questo risanamento dunque non andò a nessuno, e la contesa dopo il primo round rimase ancora in stato di parità.
  Bisognava sparigliare le cose. Dio allora incaricò Mosè di ripetere al Faraone l’ordine di lasciar andare il suo popolo, ma di accompagnarlo con una minaccia:

    “Se rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io colpirò tutta l'estensione del tuo paese con il flagello delle rane” (Esodo 8:2).

I maghi egiziani però sapevano fare anche questo, e “con le loro arti occulte fecero salire le rane sul paese” (8:7).
  C’era però un problema per loro: non sapevano come mandarle via.
  Da questo si capisce che dietro alle arti occulte c’è una potenza occulta che sa fare soltanto il male; e se talvolta sembra che abbia fatto qualcosa di bene, è soltanto perché ha fatto uso della più forte tra le sue arti: quella della menzogna.
  Allo stato delle cose, resta il fatto che per il Faraone le rane continuano a imperversare nel paese e i suoi maghi non sanno come mandarle via con le loro invocazioni agli dèi. Non gli resta allora che rivolgersi ai due ebrei, che forse, invocando il loro Dio, potrebbero riuscire a mandare via le rane. Non si è convertito, il Faraone, ha soltanto licenziato temporaneamente i suoi maghi egiziani per incapacità e assunto i “maghi” ebrei a contratto. Il contratto consisterebbe in questo: Voi “pregate l'Eterno che allontani le rane da me e dal mio popolo”, e in cambio,“io lascerò andare il popolo, perché offra sacrifici all'Eterno” (8:8).
  Se la cosa fosse andata in porto, il Faraone avrebbe potuto anche inserire l’Eterno tra gli dèi protettori dell’Egitto e assumere Mosè e Aaronne a tempo indeterminato come capi supremi della corporazione dei maghi. Un po’ come capiterà secoli dopo al profeta Daniele con il re di Babilonia (Daniele 2.48)

“Affinché tu sappia”
  “Sarà fatto come tu dici”, risponde Mosè al Faraone che gli chiede di mandar via le rane, ma specifica che l’Eterno avrebbe acconsentito alla sua richiesta per un motivo ben preciso: “affinché tu sappia che non c'è nessuno pari all'Eterno, che è il nostro Dio” (8:10).
  Non pensare dunque - sembra dire Mosè al Faraone - che l’Eterno si faccia mettere insieme a tutti gli altri dèi, perché “non c'è nessuno pari all'Eterno, che è il nostro Dio .
  La precisazione di Mosè nella formulazione del contratto ha un’importanza decisiva. Se accetti il contratto - vuol far capire Mosè al Faraone - sappi che tu sottoscrivi che il nostro Dio, l’Eterno, è unico e superiore a tutti gli altri dèi.
  E questo, per il re d’Egitto, che per posizione è un uomo di Satana, è proprio difficile da mandare giù, perché Satana non sopporta che si facciano atti di glorificazione all’Eterno, suo nemico. Soprattutto dai suoi uomini.
  Il Faraone allora si toglie da imbarazzo con perfida astuzia: accoglie volentieri la liberazione dalle rane, che ottiene per la fedeltà al patto della parte avversa, ma da parte sua viola il patto rifiutandosi di lasciar andare il popolo. Così fa finire il flagello delle rane e nello stesso tempo ottiene che nessuno potrà dire che lui ha riconosciuto l’Eterno come unico Dio superiore a tutti gli dèi, perché ha rotto il contratto che lo impegnava a questo.
  In conclusione, il Faraone si è ostinatamente rifiutato di piegare il suo ginocchio davanti all’Eterno, l’Iddio d’Israele. E così continuerà a fare sempre in seguito. Un esemplare discepolo di Satana!
  Questo secondo rifiuto indica qual è il vero motivo per cui il Faraone si ostinerà sempre a non lasciar andare il popolo: non è tanto per la perdita del bene sociale di una massa di schiavi a disposizione, quanto per il suo legame con l’autorità superiore da cui dipende, che gli vieta minacciosamente, come re della nazione pagana d’Egitto, di riconoscere pubblicamente l’autorità dell’Eterno, il Dio degli ebrei.
  Il Faraone dunque si muove sotto l’influenza del “principe di questo mondo” (Giovanni 14:30); ma nello stesso tempo è interessato a lui anche il Signore, ma con tutt’altra intenzione. Certamente Dio avrebbe preferito che la liberazione del suo popolo fosse un bene per tutti, anche per gli egiziani, come aveva fatto secoli prima con Giuseppe: è per questo che fa pressioni su di lui attraverso Mosè. Ma non fu possibile.
  Il cuore del Faraone si trova dunque sotto la contemporanea e contrapposta azione di Dio e di Satana, e questo spiega anche i suoi tentennamenti, le sue capriole decisionali, gli sbalzi di umore, tutte manifestazioni tipiche di persone internamente divise e combattute, come sarà secoli dopo anche il re Saul.
  Il Faraone resta ostinato anche dopo aver perso credito tra i suoi uomini. Cominciano i maghi, che dopo non essere riusciti a mandar via le rane. davanti alla piaga delle zanzare alzano bandiera bianca:

    “Allora i maghi dissero al Faraone: “Questo è il dito di Dio” (Esodo 8:19).

E intendono dire il Dio degli ebrei, a cui come dipendenti di Satana non si sottomettono, ma di cui sanno riconoscere la superiore potenza. Il Faraone, se avesse voluto, avrebbe potuto convertirsi, abbandonare Satana e passare dalla parte di Dio, ma non avvenne così:

    “Il cuore del Faraone si indurì ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne, come l'Eterno aveva detto (Esodo 8:19).

Dopo aver messo fuori gioco i maghi, il Signore passò al punto successivo del programma: far sapere al Faraone e convincerlo che il popolo d’Israele occupa per l’Eterno un posto particolare. L’esecuzione del punto fu affidata alle mosche, che invasero case e terre di tutto il paese, con una eccezione:

    "Ma in quel giorno io farò eccezione nel paese di Goscen, dove abita il mio popolo; e lì non ci saranno mosche, affinché tu sappia che io, l'Eterno, sono in mezzo al paese. Io farò una distinzione fra il mio popolo e il tuo popolo. Domani avverrà questo miracolo" (Esodo 8:22-23).

“Affinché tu sappia” è la parola che spiega. Dal momento che il Faraone aveva annunciato di non sapere chi è l’Eterno, qui gli viene detto di osservare bene, perché l’Eterno è proprio lì, “in mezzo al paese”.
  E più avanti, dopo l’ennesimo rifiuto di lasciar andare il popolo, Dio incarica Mosè di avvertire il Faraone con tremende parole di minaccia:

    “Questa volta manderò tutte le mie piaghe su di te, sui tuoi servitori e sul tuo popolo, affinché tu conosca che non c'è nessuno simile a me su tutta la terra” (Esodo 9:14).

E promette di mandare presto una grandinata spaventosa, Ma avverte in anticipo, affinché si riconosca chi crede alle sue parole e chi no.
  A questo punto il corpo dei servitori del re si divide: alcuni mostrano di credere alle parole di Mosè e mettono al riparo le loro bestie; altri invece, per convinzione o per paura, mostrano di voler essere fedeli al re e lasciano all’aperto il loro animali. Pagandone le conseguenze.
  Ancora una volta però il Faraone si ostina, e arriva puntuale la grandine che devasta il paese.
  Dopo di che il Signore manda un altro ordine con allegata minaccia. E a questo punto, davanti all’indugio del Faraone la corte del re insorge:

    I servitori del Faraone gli dissero: “Fino a quando quest'uomo sarà come un laccio per noi? Lascia andare questa gente, e che serva l'Eterno, il suo Dio! Non lo sai che l'Egitto è rovinato?” (Esodo 10:7).

A queste parole il Faraone compie l’ennesima capriola: in un primo momento sembra voler seguire il consiglio dei suoi servitori, ma poi ci ripensa.

Inevitabile conclusione
  Sappiamo come andrà a finire la cosa, ma qui vogliamo sottolineare che l’ostinazione del Faraone non era superabile per via diplomatica, perché avrebbe significato che la più alta autorità della nazione più potente del mondo riconoscesse, con una decisione che dipendeva soltanto dalla sua volontà, che l’Eterno, il Dio degli ebrei, è l’unico vero Dio che ha autorità su tutti e su ogni cosa. E questo, Satana non poteva assolutamente permetterlo. Non poteva permettere che questo avvenisse come “libera” decisione di un suo sottoposto. La decisione ci fu, ma fu “forzata”.
  Si compì allora quella parola che dopo il fallimento della prima missione Dio aveva pacatamente detto a Mosè in risposta alla sua accusa di non aver liberato il suo popolo:

    “Ora vedrai quello che farò al Faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare; anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese” (Esodo 7:1).

E così fu.

(15. continua)
precedenti 

(Notizie su Israele, 21 settembre 2025)


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Oded Ailam: «Il Qatar mediatore e finanziatore del terrorismo»

di Stefano Piazza

Il Qatar è riuscito a costruire un’immagine di attore indispensabile sulla scena internazionale, capace di passare con disinvoltura dai salotti diplomatici alle trattative segrete con gruppi armati. Ma dietro questa patina di neutralità si nasconderebbe una strategia accurata che mescola diplomazia, denaro e sostegno al terrorismo. A sostenerlo è Oded Ailam, ex capo della divisione antiterrorismo del Mossad e oggi ricercatore al Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs (JCFA). «Il Qatar ha sviluppato una formula unica, quasi come una start-up globale, paragonabile a Charlie Chaplin che manda un ragazzo a rompere le finestre e poi torna a ripararle», ha dichiarato Ailam ad Arutz Sheva – Israel National News. «Hanno costruito un modello che permette a Doha di essere un attore dominante sulla scena mondiale. Oggi il Qatar è un impero diplomatico, economico e mediatico, costruito deliberatamente per conquistare un ruolo centrale a livello internazionale». Secondo Ailam, la formula ha funzionato: Doha si è proposta come mediatrice tra gli Stati Uniti e i talebani, in Siria con Jabhat al-Nusra, in Nigeria e in altri scenari instabili. «Il mediatore guadagna sempre prestigio, visibilità e potere», osserva. «Non è un caso che il Qatar abbia ospitato la Coppa del Mondo e punti ora a portare a Doha le Olimpiadi del 2036. Si presentano come costruttori di pace globali, ma il rovescio della medaglia è il loro sostegno a movimenti jihadisti».

L’ombra di Hamas e il ruolo dei media
  Uno degli esempi più evidenti riguarda Hamas. Dopo l’espulsione dalla Siria nel 2012, la leadership dell’organizzazione palestinese si è trasferita a Doha, dove risiede in condizioni di lusso. Da allora, il Qatar avrebbe trasferito circa 1,8 miliardi di dollari al gruppo, soldi che – secondo Ailam – hanno contribuito a rafforzarne l’apparato militare. «Il Qatar è il patrono dei programmi di Hamas, con Al Jazeera come suo portavoce», accusa. L’emittente qatariota non sarebbe solo un megafono politico: «I video degli ostaggi diffusi da Hamas sono stati realizzati da troupe di Al Jazeera», denuncia l’ex funzionario. E ricorda che poche ore dopo il massacro del 7 ottobre, il ministro degli Esteri di Doha accusò Israele senza mai chiamare Hamas alle proprie responsabilità.
  Per Ailam, la diplomazia israeliana è stata a lungo «abbagliata dall’offensiva di charme del Qatar», ma la realtà sarebbe diversa. «I veri negoziatori più duri non sono a Gaza, ma a Doha: induriscono le posizioni invece di favorire compromessi. È lecito sospettare che sia il Qatar stesso a spingere verso l’intransigenza».

L’ambiguità di Doha tra Washington e Teheran
  Il potere del Qatar si fonda anche su un equilibrio geopolitico attentamente calibrato. Da un lato, ospita la base militare americana di al-Udeid, la più grande del Medio Oriente, considerata un pilastro della presenza statunitense nella regione. Dall’altro, mantiene rapporti stretti con Teheran, con la quale condivide il gigantesco giacimento di gas di North Dome/South Pars. «Doha ha capito come muoversi in equilibrio tra gli opposti», spiegano analisti regionali: agli occhi di Washington appare un alleato indispensabile, ma agli occhi dei movimenti islamisti resta un patrono affidabile. Questo doppio registro consente al Qatar di rafforzare il proprio peso sia in Occidente sia nel mondo arabo, mantenendo margini di manovra che altri Paesi del Golfo non possiedono.

Influenza economica e scandali politici
  Secondo Ailam, la strategia qatariota non si limita alla diplomazia. «Stanno comprando l’Europa», denuncia. «Acquistano immobili, aziende, squadre di calcio: si dice possiedano un terzo dei grattacieli di Londra, una quota dell’Empire State Building a New York, oltre a compagnie aeree considerate tra le migliori al mondo».
  Il soft power sportivo e finanziario si intreccia però con dinamiche meno trasparenti. «Hanno sviluppato un ramo molto ‘interessante’ di acquisti di politici, usando qualsiasi mezzo, comprese le criptovalute», sostiene Ailam. Alcuni casi sarebbero già emersi in Francia e negli Stati Uniti, mentre in Europa il cosiddetto Qatargate ha scoperchiato i canali di influenza all’interno del Parlamento europeo. «Quella vicenda – aggiunge – è solo la punta dell’iceberg. Un intero sistema è in funzione da anni, capace di incidere direttamente sul processo decisionale dell’Unione Europea. Non è difficile capire perché al Qatar, una dittatura priva di diritti umani, sia stata comunque assegnata la Coppa del Mondo». Ailam descrive l’ideologia della famiglia al-Thani come radicale, anche se lontana dal jihadismo tradizionale. «Non vogliono conquistare il mondo sotto un califfato qatariota: conoscono i propri limiti, essendo uno Stato con 200.000 cittadini. Ma puntano al dominio e usano il jihad come strumento per promuovere questa ambizione».

L’Europa e il dilemma Doha
  Il quadro tracciato da Ailam apre interrogativi anche per l’Europa. Bruxelles, che continua a intrattenere rapporti economici e politici stretti con il Qatar, si trova oggi in una posizione ambigua: da un lato condanna Hamas come organizzazione terroristica, dall’altro continua a considerare Doha un partner energetico e un interlocutore privilegiato. La vicenda Qatargate ha già mostrato quanto profonda possa essere la penetrazione dell’influenza qatariota nelle istituzioni europee. Alcuni Stati membri hanno chiesto maggiore cautela, mentre altri – attratti dagli investimenti miliardari di Doha – chiudono un occhio. «È proprio questa la forza del Qatar», avverte Ailam. «Mostrarsi come un mediatore indispensabile e allo stesso tempo esercitare una pressione silenziosa sui centri decisionali dell’Occidente». Per l’Unione Europea, dunque, il dilemma resta aperto: continuare a trattare il Qatar come un partner affidabile o riconoscerne il ruolo ambiguo, tra diplomazia e finanziamento del terrorismo.

(L'informale, 20 settembre 2025)

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“Vietato l’ingresso agli ebrei ”

Un cartello a Flensburg ricorda il passato più oscuro e mostra quanto sia sottile il confine tra la critica a Israele e il puro odio verso gli ebrei.

di Dov Eilon

Pochi giorni fa, in un piccolo negozio di Flensburg era appeso un cartello alla finestra. Su di esso era scritto:

    “Gli ebrei non sono ammessi qui. Niente di personale. Non è antisemitismo.
    È solo che non vi sopporto”.
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“Gli ebrei non sono ammessi qui. Niente di personale. Non è antisemitismo. È solo che non vi sopporto”.

Il proprietario del negozio ha giustificato la misura come una protesta contro le azioni di Israele nella Striscia di Gaza. Ha affermato che ciò non ha nulla a che vedere con l'antisemitismo. Ma chi legge queste parole, chi conosce la storia tedesca, rimane senza fiato. Perché è proprio così che è iniziato tutto: con cartelli che vietavano agli ebrei l'accesso a negozi, ristoranti, istituzioni pubbliche o teatri. All'epoca non era raro leggere a grandi lettere: “Ebrei indesiderati”. Oppure: “Ebrei fuori!” Il fatto che nel 2025 dobbiamo leggere di nuovo frasi del genere per le strade tedesche dimostra che non abbiamo imparato nulla, o forse troppo poco.
Le reazioni della politica e della società non si sono fatte attendere. Il responsabile antisemitismo del governo federale, Felix Klein, ha parlato di “antisemitismo nella sua forma più pura”. I politici locali hanno espresso il loro sgomento, la polizia sta valutando la possibilità di perseguire penalmente il reato di incitamento all'odio razziale. Il codice penale tedesco è infatti chiaro: chi denigra o esclude un intero gruppo a causa della sua religione o origine è punibile. Ma al di là degli aspetti giuridici, qui si tratta di morale. Della consapevolezza che dovrebbe caratterizzare la Germania dal 1945. Il ricordo della Shoah, dell'emarginazione sistematica e dello sterminio degli ebrei, non è solo un capitolo nei libri di storia. È un impegno: mai più. Eppure, nel 2025, qualcuno appende un cartello nella sua vetrina che vieta l'ingresso agli ebrei. Con l'aggiunta: “Niente di personale”. Una distorsione assurda e allo stesso tempo amara. Come se fosse possibile smorzare l'antisemitismo con poche parole di relativizzazione.
Naturalmente, la critica al governo israeliano deve essere consentita. In una democrazia è ovvio che si mettano in discussione i governi, si critichino le decisioni e si protesti anche a gran voce. Israele non fa eccezione. Qui in Israele, i dibattiti vivaci e spesso molto accesi sul governo fanno parte della vita quotidiana – lo vedo continuamente. Ma è proprio qui che sta la differenza fondamentale: chi critica un governo deve riferirsi a quel governo, non a un intero popolo. Chi appende un cartello con la scritta “Agli ebrei è vietato l'ingresso” non rivolge più la sua rabbia contro una politica, ma contro delle persone. Contro vicini, amici, contro coloro che non hanno nulla a che fare con Gaza o Gerusalemme, se non il fatto di essere ebrei. Questa non è più una protesta politica. È odio verso gli ebrei. E questo odio ha una storia particolare e terribile in Germania. Per questo non bisogna mai minimizzarlo.
Questo episodio mi rende arrabbiato e triste allo stesso tempo. Arrabbiato perché dimostra che ci sono persone che evidentemente pensano che sia legittimo escludere interi gruppi solo per la loro appartenenza. Triste perché dimostra che il nostro lavoro di elaborazione storica, il nostro ricordo di ciò che è stato, evidentemente non sono stati sufficienti. Oggi c'è un cartello appeso a una vetrina a Flensburg. Domani altri si sentiranno incoraggiati a fare lo stesso. E a un certo punto una singola provocazione si trasformerà in un clima in cui sarà di nuovo normale emarginare gli ebrei.
Un cartello come questo non è un piccolo errore. È un simbolo. E i simboli hanno potere. Il potere di ferire. Il potere di far rivivere la storia. Il potere di polarizzare la società. Questo cartello ricorda a noi tedeschi quanto velocemente le parole possano trasformarsi in fatti. Come da un “divieto di accesso” si è passati al boicottaggio, dal boicottaggio alla privazione dei diritti e dalla privazione dei diritti, alla fine, alla Shoah. No, il negoziante di Flensburg non è Hitler. Ma usa parole che un tempo hanno segnato l'inizio della Shoah. Questo dovrebbe bastare a scuoterci.
Non dobbiamo permettere che l'antisemitismo torni ad essere socialmente accettabile, indipendentemente da come venga mascherato. Che si tratti di “critica a Israele”, di ‘provocazione’ o di “antipatia personale”. Parole come queste sono veleno per la nostra società. E ci ricordano che il passato non è così lontano come vorremmo credere. Quando vedo questo cartello, mi chiedo: non abbiamo davvero imparato nulla? Se permettiamo che una cosa del genere torni ad essere normale, allora non abbiamo davvero imparato nulla. Ma se la condanniamo chiaramente, se la perseguiamo legalmente e la condanniamo socialmente, allora dimostriamo di aver imparato molto bene.
La scelta spetta a noi. Ed è lei a decidere se le parole “Mai più” sono più di una frase vuota.

(Israel Heute, 19 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Una bandiera e troppe ambiguità

di Ariela Piattelli

La bandiera palestinese esposta in piazza del Campidoglio a Roma, a seguito della decisione dell’Assemblea capitolina per manifestare “vicinanza e solidarietà”, rappresenta un simbolo che va ben oltre gli intenti dichiarati nella mozione. Roma è la Capitale d’Italia, simbolo di civiltà e democrazia, città che porta e racconta nei suoi vicoli, nei muri e nelle piazze oltre 2.000 anni di storia di presenza e di contributo degli ebrei in ogni ambito. La bandiera in Campidoglio è un simbolo che ci racconta anche di due anni di narrativa a senso unico, di distorsioni, di accelerazione verso l’amnesia collettiva del pogrom di Hamas del 7 ottobre e del presente degli ebrei in Europa, in Italia.
  Quel vessillo porta con sé ombre inquietanti: negli ultimi due anni, e sempre più quotidianamente, esso è diventato lo sfondo di atti antisemiti, aggressioni contro gli ebrei per le strade, insulti agli studenti, intimidazioni nei confronti dei professori negli atenei e slogan di odio lontani anni luce dalla soluzione per due popoli due Stati, ma che evocano semmai la soluzione finale (a cosa aspira, dopo tutto, chi grida “dal fiume al mare”, se non alla cancellazione dello Stato ebraico?). La violenza cieca di Hamas e il massacro del 7 ottobre 2023 hanno reso chiara la fragilità di chi interpreta la bandiera come simbolo di solidarietà, dimenticando le conseguenze concrete di certi silenzi e ambiguità.
  Adesso, un’altra volta, si chiede agli ebrei di abbassare la testa, di aspettare “sotto coperta” che passi, sperando che ciò avvenga senza troppi danni. Ma la storia ci insegna che non è mai così. Che per ogni ambiguità e per ogni viatico alla distorsione, all’antisemitismo mascherato da antisionismo, la Storia presenta il suo conto.
  Le vicende di Roma intrecciano storie e anniversari della città e degli ebrei. Tra pochi giorni, il 9 ottobre, ricorderemo l’attentato alla Sinagoga di 43 anni fa, quando un commando palestinese uccise il piccolo Stefano Gaj Tachè. Fu l’odio antiebraico, alimentato da anni di ostilità mascherata da sostegno ai palestinesi, a creare le condizioni per quel vile atto. Come ricordava Gady, fratello di Stefano, scrivendo su questo giornale del primo anniversario del pogrom del 7 ottobre, “fu lo stesso odio a colpire”. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare il memorabile J’accuse pronunciato l’11 ottobre 1982 da Bruno Zevi, proprio nelle stanze del Campidoglio, davanti al Sindaco Ugo Vetere. Zevi denunciò il disinteresse di alcune istituzioni, l’atteggiamento del mondo cattolico, la distorsione dei media e la complicità degli intellettuali nel presentare Israele come unico responsabile dei mali del mondo. Con una frase che resta di straordinaria attualità, impartì una lezione rimasta scolpita nella storia: “L’antisemitismo è esistito per duemila anni, non dal 1948, dalla proclamazione dello Stato d’Israele. Non crediamo all’antisionismo filosemita: è una contraddizione in termini”.
  Domani, 20 settembre, ricorderemo la Breccia di Porta Pia, l’evento che nel 1870 sancì la fine del potere temporale della Chiesa e l’ingresso di Roma nello Stato italiano. Tra i bersaglieri che entrarono nella città c’erano giovani ebrei, pronti a combattere per l’Unità d’Italia. Fu Giacomo Segre, Ufficiale del Regio Esercito, a comandare la batteria di artiglieria che praticò la breccia nelle Mura Aureliane. Da quel giorno, gli ebrei romani non furono spettatori, ma protagonisti: figure come Ernesto Nathan, sindaco di Roma dal 1907 al 1913, contribuirono a dare alla città una visione moderna; altri parteciparono al governo, al commercio e alla vita culturale, intrecciando il proprio destino con quello della città. Nel giorno in cui Roma dovrebbe celebrare chi l’ha resa libera e unita, issare la bandiera palestinese sul Campidoglio significa voltare le spalle a chi ha contribuito alla vita di questa città. È come chiudere di nuovo i cancelli appena abbattuti, lasciando soli proprio coloro che un tempo avevano lottato per abbatterli.

(Shalom, 19 settembre 2025)
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Per me, romano di nascita e di formazione, veder sventolare in Campidoglio la bandiera della Palestina, come un inno alla barbarie di un odio antiebraico che oggi continua ad esprimersi nella tortura applaudita di esseri umani presi in ostaggio, e questo proprio nel giorno della liberazione di Roma dall’oppressione papalina, è un pugno nello stomaco. Riportiamo due articoli inseriti nel sito esattamente quindici anni fa, giorno del 140° anniversario della Breccia di Porta Pia. M.C.

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20 settembre. Quel capitano ebreo che, in fondo, fece un favore al Papa

Il varco, la breccia aperta il 20 settembre 1870 dalle cannonate degli artiglieri piemontesi del generale Cadorna nelle mura di Roma, vicino alla bella e monumentale Porta Pia, rappresentava per i liberali italiani insieme la fine del Risorgimento, il completamento dell'unità nazionale e la conquista della capitale storica.
    Per i cattolici papisti voleva dire l'introduzione forzosa dei principi del liberalismo e la fine del potere temporale del papato, cioè dell'abnorme figura del "Papa Re".
    Ma, visto col senno di poi, per tutti i cattolici, liberali e papisti, il 20 settembre era in realtà il giorno della rinascita, l'inizio della riscoperta della sfera puramente spirituale e religiosa del cattolicesimo, come era già avvenuto nell'Europa del nord protestante. A Roma e nel Centro Italia (Stato della Chiesa) le incrostazioni da eliminare erano tante, anche rispetto ad altri Paesi cattolici, e proprio per i guasti e la corruzione che il potere temporale aveva generato sul territorio e tra le coscienze. Da allora, insomma, anche i cristiani italiani come i cristiani francesi, tedeschi, spagnoli o americani, smisero di adorare un parroco, un monsignore, un Prefetto della Fede, un Cardinale, un Nunzio, un Ministro, un Delegato di Sua Santità. E riscoprirono, se non Dio, almeno la propria coscienza di Dio.
    Tutto merito d'un ebreo.
    Ma sì, l'ufficiale israelita piemontese a cui il cattolico Cadorna affidò il compito del primo bombardamento delle mura, per evitare - oh, delicatezza de "li cavalieri antiqui" - che la scomunica decretata dal Papa a chi per primo avesse comandato di sparare toccasse la quasi totalità degli ufficiali italiani. Squisitezze di coscienza d'epoca, machiavelli morali del buon tempo antico che oggi fanno sorridere, ma che dimostrano che non furono i perfidi atei, i mangiapreti, i radicali, i rivoluzionari - che erano una minoranza - a combattere contro il Papa-Re per l'unità d'Italia e i principi liberali, ma i tantissimi liberali cattolici. Che, non erano neanche tutti moderati, anzi.
    Però, scusate, facciamo un po' di filologia storico-militare. Tutti dicono che questo benedetto ufficiale ebreo era "un tenente che sparò le prime cannonate". Doppio errore. Gente che non ha neanche fatto il servizio militare. Se no, saprebbe che un ufficiale non può essere addetto ad un cannone. Dunque il "tenente" al massimo avrà ordinato di sparare. Bene. Ma, ditemi, vi pare possibile che un ordine così importante, destinato a cambiare la storia d'Italia, il generale Cadorna lo affidasse ad un giovane ufficiale inferiore? No, lì ci voleva almeno un capitano. E infatti, fu il capitano Segre, ebreo e piemontese tutto d'un pezzo, a ordinare l'attacco fatale.
    "C'è una tomba nel cimitero ebraico di Chieri sulla quale è scolpito un simbolo: due cannoni incrociati. È la tomba di un ufficiale di artiglieria, il capitano Segre, che nel 1870 diede l'ordine di "Fuoco!" che aprì la breccia di Porta Pia", ricorda Guido Fubini in una pagina dell'Unione delle Comunità ebraiche.
    Segre, un protagonista sconosciuto, uno dei tanti eroi del Risorgimento liberale a cui purtroppo non è dedicata nessuna strada o piazza d'Italia. Grazie, capitano Segre. E grazie ai tanti liberali e patrioti ebrei che animarono il Risorgimento e poi nell'Italia liberale unita salirono con la loro intelligenza ai posti di prestigio in tutti i campi, dall'esercito alla scienza, dall'industria all'amministrazione, alla politica.
    A lei, capitano Segre, dedichiamo la più bella, la più vera delle feste nazionali, quella ricorrenza del 20 settembre che il fascismo cinicamente, per puro calcolo politico (Mussolini era ateo) per un piatto di lenticchie eliminò dopo il Concordato, e che ora deve essere assolutamente ripristinata. [...]

(Salon Voltaire, 20 settembre 2006)


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Insieme ai bersaglieri, nel 1870 a Roma è entrata anche la Bibbia

di Marcello Cicchese

«Io non sono profeta, né figlio di profeta, ma in realtà vi dico che non entrerete in Roma» aveva detto Pio IX a chi gli aveva sottoposto la proposta di resa offerta al Papa dal governo italiano.
    «Dopo tre giorni di inutile attesa (durante i quali si aspettò invano la dichiarazione di resa), la mattina del 20 settembre (intorno alle nove) l'artiglieria dell'esercito italiano, guidata dal generale Raffaele Cadorna, aprì una breccia di circa trenta metri nelle mura della città, accanto a Porta Pia, che consentì a due battaglioni (uno di fanteria, l'altro di bersaglieri) di occupare la città.» (Wikipedia)
Che a dare l'ordine di sparare sulle mura di Roma fosse stato un ebreo per evitare che la scomunica papale cadesse su un cristiano, è un fatto poco noto. Ma un altro fatto poco noto è che dietro ai bersaglieri c'era un carretto pieno di Bibbie in lingua italiana stampate in Inghilterra dalla British and Foreign Bible Society, pronte ad entrare in Roma.
    «XX settembre 1870, una data fausta per le minoranze religiose in Italia, in primis protestanti ed ebrei. Perché? E' molto semplice: perché fino al 20 settembre gli ebrei potevano vivere nella città del papa solo ghettizzati, i protestanti nemmeno quello. Tra la Riforma del XVI secolo e il 1870 a Roma mi risultano soltanto le seguenti presenze protestanti: quella del pastore Giovan Luigi Paschale, ministro delle chiese valdesi di Calabria, che vi fu condotto nel 1561 per essere processato dall'Inquisizione e che fu arso di fronte a Castel Sant'Angelo; i membri protestanti delle ambasciate europee, che nelle sedi diplomatiche potevano celebrare il loro culto, ma che dovevano esser sepolti "fuori le mura" della città santa; quelli che vennero a stamparvi il Nuovo Testamento durante la Repubblica Romana e che dovettero lasciare la città dopo il rientro di Pio IX e furono così risparmiati dall'assistere al rogo papalino dei testi evangelici. Possiamo immaginare - e li condividiamo come cittadini e come cristiani - i sentimenti dei "colportori" che entrarono in Roma poco dopo i bersaglieri con un carretto di Bibbie trainato da un cane che portava una gualdrappa con il nome "Pio IX"!
    XX settembre 1870, una data fausta per l'Italia. Veniva posta fine ad une delle ultime e più caparbie monarchie assolute dei tempi moderni, che motivava la sua intolleranza e il suo dominio sulle coscienze e sui corpi non solo con il richiamo ad un generico diritto divino, ma con la specifica pretesa che il papa-re fosse il vicario del crocifisso, una contraddizione in termini, tanto più per ogni lettore del Vangelo.» (Daniele Garrone, da NEV - Notizie evangeliche 36/37 - 2009)
La caduta dello Stato pontificio non ha significato soltanto la vittoria del liberalismo laico, ma anche l'introduzione della possibilità di leggere e diffondere la Bibbia in Italia. Potere temporale dei papi e ignoranza popolare andavano di pari passo. La Bibbia era un libro proibito, e più persone sapevano leggere, maggiori erano i rischi per il potere clericale. Per questo nei primi tempi dell'unità d'Italia l'opera missionaria degli evangelici italiani ed esteri è andata di pari passo con la creazione di scuole e asili, perché per conoscere il contenuto della Bibbia è indispensabile saper leggere. Fino a qualche anno fa si potevano trovare ancora dei vecchi che dicevano di aver imparato a leggere sulle pagine della Bibbia. Ed era una Bibbia edizione Diodati, scritta in un italiano antiquato che i giovani scolarizzati di oggi avrebbero qualche difficoltà a capire.
A quel tempo poi non c'era internet: il testo doveva essere portato fisicamente a contatto con le persone. Per questo scopo i colportori usavano la cosiddetta "carrozza biblica". Ecco come la presenta l'Osservatore Romano in un articolo del maggio 1890:
    «Ora abbiamo anche la "Carrozza Biblica", un ritrovato di cui ha il brevetto d'invenzione la società protestante [...]; lo spacciatore [il colportore] è un tipo fra il ministro evangelico e il cavadenti, il quale dall'alto della vettura cerca di accreditare la merce con discorsi ciarlataneschi nei quali fa entrare un poco di tutto... e le risa di scherno e le apostrofi burlesche che gli vengono dirette devono avergli fatto già inghiottire vari bocconi amari.»
Vengono in mente i versi del poeta romanesco Cesare Pascarella (1858-1940) nella sua famosa "Scoperta dell'America":
    Ché mettetelo in testa ch'er pretaccio
    È stato sempre lui, sempre lo stesso!
    Er prete? È stato sempre quell'omaccio
    Nimico de la patria e der progresso.

    E in quelli tempi, poi, si un poveraccio
    Se fosse, Dio ne scampi, compromesso,
    Lo schiaffaveno sotto catenaccio,
    E quer che'era successo era successo.

    E si poi j'inventavi un'invenzione,
    Te daveno, percristo, la tortura
    Ner tribunale de l'inquisizione.

    E 'na vorta lì dentro, sarv'ognuno,
    La potevi tené più che sicura
    De fà la fine de Giordano Bruno.
Questo era il sentimento diffuso tra i patrioti di allora. Adesso i tempi sono cambiati, ma non per questo sono migliori. Anzi.

(Notizie su Israele, 20 settembre 2010)

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Analisi smentisce il rapporto ONU sul “genocidio” a Gaza

Secondo l’analista John Spencer del sito Washington Free Beacon , “il rapporto non tratta Hamas come un’organizzazione terroristica e con un apparato militare, e fa solo un vago riferimento agli “attacchi nel sud d’Israele del 7 ottobre”, dicendo che “non rappresentavano una minaccia esistenziale”. Per il rapporto ONU, inoltre, a Gaza esiste solo una popolazione civile, senza menzionare le migliaia di combattenti di Hamas, né l’arsenale bellico che possedevano.

di Nathan Greppi

“L’ultimo rapporto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite su Gaza, che conclude che Israele sta commettendo un genocidio, è un caso di studio su come gli organismi internazionali possano mascherare la propaganda con il linguaggio della legge”. Con queste parole inizia un’analisi apparsa sul sito d’informazione americano Washington Free Beacon a firma di John Spencer, direttore esecutivo dell’Urban Warfare Institute.
Presentato come un’analisi giuridica da un trio guidato da Navy Pillay, ex-Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, secondo Spencer, “chiunque legga il testo anche con un minimo di spirito critico si renderà conto che non si tratta di un’indagine imparziale. È un documento di attivismo che inizia con un verdetto e procede a ritroso, raccogliendo frammenti di informazioni a supporto della propria affermazione, escludendo tutto ciò che potrebbe complicarla o contraddirla”.

Omessi i crimini di Hamas
  Secondo l’analista, “l’aspetto più sorprendente del rapporto non è ciò che afferma, ma ciò che omette”. Innanzitutto, non tratta Hamas come un’organizzazione terroristica e con un apparato militare, e nel menzionare l’offensiva militare israeliana a Gaza, fa solo un vago riferimento agli “attacchi nel sud d’Israele del 7 ottobre”, arrivando persino a dire che “non rappresentavano una minaccia esistenziale per Israele”. Per il rapporto ONU, a Gaza esiste solo una popolazione civile, senza menzionare le decine di migliaia di combattenti di Hamas, né l’arsenale bellico che possedevano quando è iniziata la guerra.
Un altro aspetto è che il rapporto ONU non parla mai della rete di tunnel scavati da Hamas sotto la Striscia di Gaza. La parola “tunnel” compare solo una volta, per mettere in dubbio che Mohammed Sinwar sia stato ucciso all’interno di uno di questi tunnel. Scrivono della guerra senza parlare dei tunnel che sono centrali nella strategia militare di Hamas, consentendogli di spostare combattenti, immagazzinare armi, nascondere ostaggi e lanciare attacchi da sotto ospedali, scuole e quartieri.
Un’altra omissione riguarda il fatto che il rapporto ignora completamente la distruzione compiuta da Hamas all’interno di Gaza, ad esempio quando trasformavano case civili in trappole esplosive. Così come viene trascurata la pratica di Hamas di utilizzare i civili come scudi umani.

Gli ostaggi
  Ad essere trascurata dal rapporto dell’ONU è anche la questione degli ostaggi. Su 72 pagine, la parola “ostaggi” compare solo 4 volte. Non solo non hanno un ruolo centrale, ma in più il documento arriva a mettere in dubbio l’idea se garantirne il rilascio sia un obiettivo strategico legittimo per Israele.
Questa non è la prima volta che i membri della suddetta commissione esprimono posizioni controverse: uno di questi, Miloon Kothari, in passato ha sostenuto che i social media siano controllati dalla “lobby ebraica”. Un altro, Christopher Sidoti, ha affermato che le accuse di antisemitismo vengono “lanciate come il riso ai matrimoni”.

(Bet Magazine Mosaico, 19 settembre 2025)

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L’aggressione al prof Casella era nell’aria, la deriva violenta ricorda quella dell’attentato alla Sinagoga di Roma

di Alessandra Veronese

Dopo l’aggressione al collega e amico Rino Casella, la domanda che tutti – ma in particolare il Rettore e la governance dell’Ateneo – dovrebbero porsi è cosa debba ancora accadere perché si decida di intervenire, per garantire a tutti coloro che insegnano e studiano all’Università di Pisa di esprimersi liberamente e senza rischi per la propria incolumità.
Il clima che si respira in Ateneo è già da molti mesi pesantissimo: il punto non era dunque se dalle parole si sarebbe passati alla violenza fisica, ma quando. Quanto successo durante la lezione del prof Casella (offeso e infine malmenato da un gruppo di studenti “pacifisti”, per i quali evidentemente la non-violenza va applicata selettivamente) era un evento annunciato; ritengo moralmente responsabile il Rettore Zucchi di un eventuale, possibile peggioramento dell’attuale situazione: ha tollerato dapprima le “accampate” pro-Pal, con tanto di bandiere e tende nel giardino del mio Dipartimento (con relativi danni, ma si sa, “sono ragazzi”), poi le scritte contro Israele sul muro del Polo della Memoria “San Rossore 1938”. Scritte che non sono state rimosse, nonostante una richiesta arrivata anche dalla Comunità Ebraica, con la risibile motivazione della mancanza di fondi. E ha infine spinto per la sospensione degli accordi bilaterali con la Hebrew University e la Reichman University, colpevoli – a suo dire – di “rapporti con l’esercito israeliano”, contribuendo alla “mostrificazione” di Israele.
Già a dicembre 2023, quando la guerra a Gaza era appena iniziata e gli ostaggi erano ancora tutti nelle mani di Hamas, si erano avute le prime avvisaglie di boicottaggio: due colleghi del mio Dipartimento e membri del Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici “Michele Luzzati” (CISE), di cui ero all’epoca direttore, si sono opposti alla presentazione dell’ottimo libro di Samuele Rocca sugli ebrei nell’Italia imperiale. Il motivo? Lo studioso insegnava “anche ad Ariel”, un Ateneo che si trova nei cosiddetti “territori occupati”. Non ci si opponeva, insomma, ad accordi bilaterali, ma a un invito a un singolo studioso, peraltro noto per la sua avversione a Netanyahu.
Pochi mesi dopo, il nuovo direttore del CISE e la Giunta mi hanno negato il patrocinio per una giornata di studio sulle università israeliane dopo il 7 ottobre, che vedeva invitati anche docenti di chiara fama come Sergio Della Pergola e Tamar Herzig. Anche in questo caso, la motivazione era risibile: non si trattava – a loro giudizio – di un convegno sufficientemente scientifico. Senza patrocinio, l’evento ha dovuto essere cancellato. Il Rettore, che pure aveva promesso di dare spazio a tutte le voci, in nome della par condicio, di fatto non si è mai sforzato di promuovere iniziative che consentissero di confrontarsi partendo da narrative diverse.
In seguito, sono arrivate le mozioni dei Dipartimenti, tutte ovviamente contro Israele. Significativo che i colleghi, così profondamente scossi da quanto stava accadendo a Gaza, non abbiano mai sentito l’imperativo morale di esprimersi relativamente ad altre tragedie umanitarie, sei delle quali considerate dagli organismi internazionali assai più gravi e con un numero di vittime molto più elevato. La mozione del Dipartimento di Scienze Politiche ha avuto un solo voto contrario, quello del docente aggredito: da allora, i suoi simpatici colleghi ne parlano come del “sionista Rino Casella”. Nel mio Dipartimento, i voti contrari sono stati pochi di più, oltre a qualche astenuto: in compenso, qualcuno è intervenuto sostenendo che Hamas non sarebbe solo un gruppo terrorista ma un soggetto politico, rammaricandosi del fatto che non sia possibile firmare accordi di cooperazione scientifica.
In questo clima avvelenato, il 5 settembre c’è stato un ennesimo deplorevole episodio: durante la cerimonia in cui si commemora da anni la firma a San Rossore – allora proprietà dei re d’Italia – delle leggi razziste che trasformarono 50mila cittadini ebrei italiani in individui di serie B, il presidente dell’ANPI si è esibito in un improvvido accostamento tra quell’evento e Gaza, invitando “a non voltarsi dall’altra parte”. Invito curioso, visto che ormai non c’è tg che non si apra informandoci di quanti civili l’esercito di Israele avrebbe eliminato.
L’aggressione al collega, dunque, non mi stupisce. Mi stupisco, anzi, che sino ad ora non abbiano aggredito anche me. Come Casella, anche io sono “sionista”, termine che nella mente di alcuni si configura ormai come un insulto, anche se c’è da dubitare che gli odiatori pro-Pal abbiano studiato abbastanza da sapere che cosa fu veramente il sionismo. Tutti costoro affermano di essere “solo” antisionisti, non antisemiti; negano il diritto all’esistenza di Israele e dividono ormai da mesi gli ebrei italiani in “buoni” e “cattivi”. I buoni, ovviamente, sono quelli che si affannano a dichiararsi contro Israele. Gli altri sono cattivi, e quindi vanno insultati e boicottati.
Questo clima violento e intollerante mi riporta con la memoria ai giorni bui del 1982, e ai sempre più espliciti discorsi d’odio, con il tragico epilogo dell’attentato alla Sinagoga di Roma, con oltre 40 feriti e un morto, il piccolo Stefano Gay Taché, di soli due anni. E mi chiedo: dobbiamo aspettare un’altra tragedia simile per porre un freno alle manifestazioni d’odio antiebraico negli Atenei e sui social?

(Il Riformista, 19 settembre 2025)

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Israele: operativo l’Iron Beam, il sistema laser che intercetta missili e droni

di Jacqueline Sermoneta

Test superati con successo. Star Wars? No, realtà. Il sistema di difesa laser ad alta potenza “Iron Beam” è operativo e sarà consegnato alle Forze di Difesa israeliane (Idf) entro la fine dell’anno. Ad annunciarlo il Ministero della Difesa israeliano e l’industria militare israeliana Rafael, che ha prodotto il sistema.
  In un gesto simbolico, è stato dato anche un nuovo nome in ebraico all’Iron Beam: da ‘Magen Or’ (scudo di luce) a ‘Or Eitan’ (luce di Eitan), in memoria di Eitan Oster, 22 anni, comandante dell’Unità di commando Egoz, ucciso combattendo contro Hezbollah nel Libano lo scorso ottobre. Il padre di Oster, che lavora per la DDR&D – Directorate of Defense Research and Development -, è stato tra coloro che hanno concepito e sviluppato la sofisticata tecnologia.
  L’Iron Beam è in fase di sviluppo già da oltre dieci anni. È stato presentato per la prima volta nel 2014. Durante l’attuale guerra, una versione meno potente del sistema è stata utilizzata dalle Idf per abbattere alcuni droni di Hezbollah, lanciati dal Libano.
  L’Iron Beam (o ‘Or Eitan’) non è concepito per sostituire l’Iron Dome o gli altri sistemi di difesa aerea come David’s Sling e Arrow, ma per integrarli e completarli. Il laser utilizza una fonte di energia elettromagnetica costante, quindi ha una capacità ‘illimitata’ e non necessita di munizioni. Nella sua versione più potente, è in grado di sparare un raggio di 450 millimetri con una potenza di 100 kW, impiegando circa 4 secondi per distruggere droni e missili e poi passare al successivo. Inoltre, c’è un enorme risparmio economico: il suo colpo (solo il costo dell’energia necessaria per il fascio laser) si aggira intorno ai 2 dollari. I funzionari lo hanno salutato il sistema come un potenziale “punto di svolta”. Con la dichiarazione di operatività dell’Iron Beam, “si prevede un significativo balzo in avanti nelle capacità operative del sistema di difesa aerea, grazie alle armi laser a lungo raggio”, ha affermato il Ministero.
  Lo scorso giugno, l’azienda Rafael aveva presentato al Salone Aeronautico di Parigi tre “sistemi d’arma laser ad alta energia”, che hanno alla base questa sofisticata tecnologia. L’Iron Beam 450, la versione aggiornata dell’Iron Beam; l’Iron Beam M, una versione compatta e mobile dell’intercettore laser, progettato per essere montato su camion e utilizzato dalle Forze di terra o per proteggere siti strategici; e il Lite Beam, un intercettore laser leggero, compatto e di minore potenza, progettato per essere montato su veicoli trasporto truppe o altri veicoli blindati durante le operazioni a terra.
  L’azienda Rafael ha anche affermato che sta sviluppando una versione navale dell’intercettore laser, che può essere installato sulle imbarcazioni della Marina.
  L’Iron Beam “pone lo Stato di Israele all’avanguardia della tecnologia militare mondiale e fa dello Stato di Israele il primo Paese a possedere questa tecnologia” – ha detto il ministro della Difesa Israel Katz – Questo non è solo un momento di orgoglio nazionale, ma una pietra miliare storica per il nostro sistema di difesa: un’intercettazione rapida, precisa ed economica che si integra agli strumenti difensivi esistenti e cambia l’equazione della minaccia”.

(Shalom, 18 settembre 2025)

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La storia negata della “Nakba totale”

di Daniele Scalise 

C’è un trucco francamente ignobile che oggi imperversa nel racconto del 1947-48: si annerisce Israele alle origini, si sbiancano leadership e milizie arabe, e un conflitto sporco di scelte diventa fiaba morale a buon mercato. Funziona perché è semplice. Ed è fuorviante. Nell’articolo di Lorenzo Cremonesi sul Corriere, la Nakba viene spacciata per un progetto unico e lineare di “cacciata”, un copione scritto in anticipo e recitato senza deviazioni. È narrativa consolatoria, non storia.
Nessuno nega la tragedia dell’esodo palestinese, né minimizza massacri, espulsioni, vendette e paure. Ma un quadro onesto pretende cornice e profondità: la Risoluzione 181 dell’Onu del 29 novembre 1947 che prevede due Stati; l’accettazione ebraica e il rifiuto arabo; i mesi di guerra civile nel Mandato britannico con attentati, convogli colpiti, città miste lacerate; e, dal 15 maggio 1948, l’invasione degli eserciti arabi.
Dentro quel teatro ogni villaggio, ogni snodo stradale, ogni quartiere diventa, tragicamente, un obiettivo militare. Qui va collocato il Piano Dalet, agitato come pistola fumante dell’“espulsione premeditata”: un piano operativo per garantire continuità territoriale, protezione delle vie di comunicazione e contrasto a milizie ostili. Che da esso siano scaturite anche espulsioni e abusi è vero. Che fosse un manifesto di pulizia etnica scritto al tavolo, è un falso. Scambiare un documento militare per un programma ideologico di annientamento civile è comodo per chi vuole un verdetto, non per chi cerca una verità scomoda e composita.
Colpisce poi la disinvoltura con cui si cancellano le molte cause dell’esodo. In alcuni luoghi si combatte casa per casa e la popolazione fugge. Altrove comandanti e notabili arabi ordinano o caldeggiano evacuazioni tattiche, promettendo – anzi, assicurando – un ritorno dopo la “vittoria” e la cacciata degli ebrei. Altroché avvelenamento dei pozzi. In altre situazioni autorità ebraiche e britanniche invitano a restare; a Haifa gli appelli pubblici, documentati, furono ignorati da una leadership che scelse il ritiro. Negare questa varietà significa truccare il tavolo: ridurre tutto a “cacciata sistematica” è lo stesso vizio di chi, ieri, assolveva ogni responsabilità israeliana. Cambia il bersaglio, non il metodo.
C’è infine l’uso strumentale dei “nuovi storici”. Si brandisce Benny Morris come clava per dimostrare la tesi dell’intenzione unica, dimenticando che proprio Morris ha scritto più volte che non esisteva un piano prebellico esplicito di espulsione generale e che le dinamiche dell’esodo furono molteplici, contraddittorie, spesso contingenti. Lo si cita a pezzi, lo si moralizza, lo si piega. E si elevano Irgun e Lehi a motore ideologico dell’intero movimento sionista, cancellando l’Haganah e la sua cultura politico-strategica, perché altrimenti il teorema perde nitidezza. Le parti si scambiano per il tutto: errore metodologico, comodo pregiudizio.
Da qui nasce la demonizzazione retrospettiva di Medinat Israel. Se la storia della nascita di Israele è “cacciata degli arabi”, ogni sviluppo successivo diventa corollario di un peccato originale: pulito, rassicurante, falso. Spariscono le responsabilità dei vertici arabi nel 1947-48, che preferirono la guerra alla nascita, accanto allo Stato ebraico, di uno Stato arabo votato dalle Nazioni Unite. Svanisce l’ovvio – e rivoluzionario – che due nazionalismi in conflitto non si neutralizzano proclamando uno colpevole e l’altro innocente, ma si governano con patti, confini, rinunce reciproche. Indignarsi costa meno che leggere le carte con occhio chiaro, pulito, e non strabico.
E poi c’è ciò che non entra mai a bilancio: oltre seicentomila ebrei scacciati o fuggiti dai Paesi arabi negli stessi anni, privati di beni e cittadinanza. Non è telegenico? Allora si espunge. Come si espunge – con mano leggera ma sistematica – la constatazione decisiva che l’esito politico del 1948 fu il fallimento di una leadership araba incapace di costruire istituzioni, più attratta dalla promessa di cancellare Israele che dalla fatica di edificare uno Stato. Denunciare una rimozione praticandone un’altra: ecco il giochetto.
Diciamolo chiaro: l’equiparazione, secondo la sconcia moda quotidiana, tra Shoah e Nakba – esplicita o insinuata – è un’operazione intellettualmente scorretta. Non perché il dolore palestinese sia indegno, ma perché le categorie non sono intercambiabili: da una parte lo sterminio industriale di un popolo inerme in Europa; dall’altra la conseguenza tragica di una guerra avviata per impedire la nascita di uno Stato deliberato dall’Onu. Mettere sullo stesso piano ciò che è incommensurabile non nobilita i palestinesi ma di sicuro scredita chi lo fa.
Criticare Israele è legittimo. Persino doveroso. Spacciare il 1947-48 per un’azione centrata su un infame e presunto avvelenamento dei pozzi e su una “distruzione metodica” predeterminata è fragile nelle fonti e tossico nel dibattito pubblico. Regala ai non specialisti l’illusione di aver capito in sei minuti una vicenda che chiede almeno un minimo di rigore che dovrebbe guidare persino chi esercita il mestiere aereo, spesso futile e ancor più spesso superficiale del giornalismo. E, sottotraccia, alimenta l’idea che la sola soluzione “giusta” sia l’azzeramento dell’esperimento sionista: come se l’esistenza di Israele fosse l’errore da correggere. O, meglio, da cancellare. Qui la semplificazione diventa complicità culturale con i professionisti della delegittimazione.
Si può – e si deve – discutere la condotta delle forze ebraiche nel 1948, compresi atti inaccettabili. Lo si può fare senza feticizzare il Piano Dalet. Si può riconoscere che l’esodo palestinese ha cause molteplici, non ultime le sciagurate scelte arabe, e che la storia non è un processo sommario in cui si cerca la pena esemplare. Soprattutto, si può uscire dalla moda del “pezzo che fa giustizia morale” e tornare a un’antica virtù: distinguere. Il che non assolve nessuno ma sottrae la verità alle tifoserie.
Se davvero vogliamo che le parole non preparino altre catastrofi, forse dovremmo smetterla con la scorciatoia della “Nakba totale”. Raccontiamo la nascita di Israele per ciò che fu: l’attrito duro e concreto di due diritti nazionali, in un Medio Oriente dominato da regimi che scelsero la guerra e da leadership palestinesi che troppo spesso imposero la promessa di un ritorno impossibile invece del lavoro paziente – e impopolare – di costruire un futuro accanto a Israele. Meno glamour, più realtà. È lì che sta l’utilità, per chi ancora oggi – da entrambe le parti – paga il conto di quelle scelte.

(Setteottobre, 18 settembre 2025)

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Se per Antonio Polito Gaza è un ghetto e il Qatar è un mediatore

di Iuri Maria Prado

Scrive Antonio Polito sul Corriere della Sera: “Ora, dopo aver trasformato il ghetto in una fossa comune, Netanyahu si riprende la Striscia con una guerra senza quartiere che identifica il popolo palestinese con Hamas, e che per questo durerà per generazioni”. “L’obiettivo storico di Israele”, continua Polito, cioè “difendersi con le armi dai suoi nemici per fare con loro la pace, si è capovolto nel suo contrario: la guerra permanente su sette fronti, colpendo anche chi, come l’Oman o il Qatar, si presentava come mediatore”. Analizziamo una per una queste belle trovate dell’editorialista del Corriere della Sera. “Trovate” per modo di dire, perché sono il recupero di un ordinario refluo della sentina social. Dunque:
1) Gaza sarebbe stata un “ghetto”. L’uso di questa parola, “ghetto”, è preciso: i palestinesi come gli ebrei. I palestinesi perseguitati come gli ebrei, e il persecutore – cioè Israele – nella posizione, nella funzione, nelle responsabilità che furono dei persecutori degli ebrei. Questa è tecnicamente una proposizione antisemita. Testualmente: “Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti”, che è una delle figure di antisemitismo descritte da International Holocaust Remembrance Alliance, cui l’Italia aderisce.
2) Il ghetto trasformato in una “fossa comune”. Di nuovo: l’evocazione delle persecuzioni degli ebrei e delle distruzioni dei ghetti ebraici paragonate alla guerra di Gaza. Antonio Polito come un Di Battista qualunque. Come un Orsini qualunque. E il Corriere della Sera che dà spazio a questi spropositi. Che non sono – attenzione – farneticazioni: sono aggressioni. È vilipendio, letteralmente.
3) La “guerra permanente su sette fronti”, scrive Antonio Polito. Quindi è Israele che ha aggredito il Libano, lo Yemen, l’Iran… Non ci sono le migliaia di missili che inceneriscono la Galilea: c’è Israele che aggredisce il Libano. Non ci sono le bande di fondamentalisti che lanciano missili sui civili israeliani e sparano sui navigli commerciali nel Mar Rosso: c’è Israele che aggredisce lo Yemen. Non c’è la Repubblica delle impiccagioni che lancia centinaia di missili, razzi, droni sui civili israeliani e finanzia tutto il terrorismo del Medio Oriente, rivendicando di voler distruggere Israele e uccidere anche l’ultimo ebreo in Israele e nel mondo: c’è Israele che attacca l’Iran.
E infine il Qatar, che “si presentava come mediatore”, scrive Polito. Il Qatar che il 7 ottobre del 2023 emetteva un comunicato secondo cui il responsabile esclusivo era Israele. Ma evidentemente Antonio Polito non l’ha letto, quel comunicato: oppure (più probabile) è d’accordo con quel comunicato. E Antonio Polito non ha visto i leader di Hamas che nelle residenze dorate del Qatar festeggiavano in diretta i massacri, gli stupri, i rapimenti del 7 ottobre. Era distratto, Polito. Stava studiando la storia del ghetto di Gaza.

(InOltre, 18 settembre 2025)

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Germania, Austria e Svizzera: una nuova alleanza contro l’odio

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A Monaco è nata una nuova alleanza transnazionale contro l’antisemitismo che raccoglie oltre 200 comunità ebraiche, organizzazioni e chiese di Germania, Austria e Svizzera. L’iniziativa propone un piano in cinque punti per rafforzare sicurezza e libertà della vita ebraica ed è stata rilanciata con una petizione online da Guy Katz (nell’immagine), professore di gestione internazionale all’Università di Scienze Applicate di Monaco. «Viviamo nella paura», ha dichiarato Katz, ricordando che nel 2024 in Germania si sono registrati 8.627 incidenti antisemiti, con un aumento del 77% rispetto all’anno precedente. «Non possiamo farlo da soli, abbiamo bisogno del sostegno della società», ha aggiunto.
  Il piano chiede un rafforzamento della legislazione contro l’incitamento all’odio: «La soglia di responsabilità penale dovrebbe essere abbassata al fine di proteggere efficacemente la vita ebraica», sottolineano i promotori. Si chiede di perseguire penalmente chi lancia appelli alla distruzione di Israele e di vietare «gli eventi in cui viene espresso odio contro gli ebrei o l’annientamento di Israele». Altre richieste riguardano il divieto dei boicottaggi accademici e culturali e una protezione più attiva di sinagoghe, memoriali ed eventi pubblici ebraici. Centrale anche il riconoscimento delle festività religiose, troppo spesso ignorate da scuole e datori di lavoro: i promotori ricordano che i dipendenti non dovrebbero subire alcuno svantaggio in quei giorni, «ad eccezione della perdita di guadagno per il tempo non lavorato».
  Un punto cruciale è l’educazione, con l’introduzione di «contenuti educativi vincolanti» sulla vita ebraica e sull’antisemitismo nei programmi scolastici e universitari e la nomina di commissari contro l’antisemitismo in ogni ateneo, sul modello già sperimentato in Baviera. La dimensione culturale è stata sottolineata con forza: «Sono sconvolta dalla mancanza di solidarietà, soprattutto tra i giovani», ha affermato l’attrice Uschi Glas, denunciando «ignoranza e parzialità, soprattutto tra i giovani», e chiedendo che fondi pubblici non finanzino progetti che diffondono odio mascherato da attivismo politico.
  Charlotte Knobloch, presidente della Comunità ebraica di Monaco e dell’Alta Baviera e sopravvissuta alla Shoah, ha ribadito che contrastare l’antisemitismo significa rafforzare la coesione dell’intera società. «Il potenziale di questa iniziativa è enorme», ha affermato, confessando la difficoltà di tornare a parlare pubblicamente di questi temi, «perché li ho già vissuti in passato». Il suo invito, come degli altri promotori, è alla società civile di partecipare in massa alla manifestazione contro l’antisemitismo organizzata a Monaco per il prossimo 5 ottobre. Proprio nella capitale della Baviera, il cancelliere Friedrich Merz, celebrando il recente restauro di una sinagoga, ha dichiarato «guerra a ogni forma di antisemitismo vecchio e nuovo in Germania a nome dell’intero governo federale».
  Tra i sostenitori dell’alleanza e del piano in cinque punti figurano la premio Nobel per la Letteratura Herta Müller, l’attrice Iris Berben, il commissario governativo per l’antisemitismo in Germania Felix Klein e il ministro della Cultura tedesco Wolfram Weimer. L’iniziativa punta a raccogliere 100mila firme: superata la soglia delle 30mila, i promotori avrebbero già diritto a un’audizione al Bundestag, ma l’obiettivo è lanciare un messaggio più forte. «Non credo che la maggior parte dei tedeschi sia antisemita», ha sottolineato Katz. «Ma credo che la maggior parte dei tedeschi sia molto silenziosa. E questo ricorda un po’ la situazione degli anni ’30». E ha aggiunto: «Se non raggiungiamo le 100mila firme, possiamo anche andarcene».

(moked, 18 settembre 2025)

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“O ci si adegua o ci chiamano sionisti complici del genocidio”

Intervista al professor Casella

di Filippo Piperno

Una normale lezione di Diritto pubblico comparato all’Università di Pisa, tenuta dal professor Rino Casella, che in pochi attimi diventa il teatro di un’azione squadristica. Un gruppetto di attivisti propal fa irruzione nell’aula agitando bandiere palestinesi, interrompe la lezione, occupa l’aula e spedisce il professor Casella al pronto soccorso con una prognosi di 7 giorni.

- Professore ci racconti com’è andata
  Stavo tenendo la mia lezione quando una trentina di facinorosi sono entrati nell’aula e sono saliti sulla cattedra strappandomi il libro che avevo in mano. Avevo anche un quadernino con la bandiera americana e hanno cominciato a chiamarmi “sporco imperialista” strappandomi il microfono. Ma quella bandiera era sul mio quaderno perché spiego anche l’ordinamento americano. È parte del programma didattico.
Ho cercato di continuare la lezione alzando il tono della voce ed è allora che mi hanno spintonato e allontanato dalla cattedra. Gli studenti non hanno assolutamente solidarizzato con loro, anzi hanno chiamato più volte la polizia. Nel frattempo, uno studente ha cercato di togliere la bandiera palestinese ed è stato preso a calci e pugni e io mi sono frapposto nell’illusione che il mio ruolo istituzionale potesse proteggermi e invece mi sono preso un cazzotto e una gomitata e sono finito al pronto soccorso.

- Questo gruppo era composto da studenti?
  No, non erano tutti studenti, era un collettivo che a Pisa si sta agitando tantissimo. Ha occupato la stazione e ieri sera ha fatto un’altra manifestazione bruciando la bandiera israeliana. Ieri ce l’avevano con l’università perché, a detta loro, crea laureati per Leonardo che produce le armi. L’ennesimo ipocrita paradosso, che insieme ad una collega abbiamo denunciato, è che si chiede di boicottare le università israeliane ma non le università dell’Iran che produce i droni con cui viene bombardata l’Ucraina.

 - Anche le istituzioni accademiche hanno le loro responsabilità
  Certamente ce l’ha anche il nostro Ateneo, perché un po’ li sostiene questi personaggi. Ci dialoga. Pochi giorni fa, per dire, il rettore ha sostenuto la Global Flottilla. Questo crea una situazione di ambiguità cosicché quando succedono problemi di ordine pubblico con minoranze molto violente l’università si trova in una posizione di debolezza e sembra quasi che si debba giustificare mentre esprime la propria condanna. Al contempo debbo dire che la maggioranza degli studenti vuole solo studiare e non solidarizza con i violenti.

- Che tipo di reazioni ci sono state tra i suoi colleghi?
  Il mio è un dipartimento molto schierato e molti sono rimasti in silenzio. Però stamani (ieri mattina n.d.r.) c’è stato il Consiglio di dipartimento ed è stato molto bello sapere che hanno adottato la proposta di accompagnarmi tutti insieme quando riprenderò le lezioni la settimana prossima, un gesto simbolico molto bello, anche molto intenso sul piano emotivo personale. Anche se presumo che molti colleghi non parteciperanno.

- Un bel gesto in un clima avvelenato.
  Il clima è quello che è. O ci si adegua alla narrativa o siamo assassini, sionisti, complici dello sterminio, agenti del Mossad, eccetera eccetera. Come si fa a discutere all’università in un clima del genere? Anche la persona con le migliori intenzioni si arrende perché il clima è davvero tossico e credo che agevoli poi episodi come quello capitato a me. Spero che questa cosa apra un po’ gli occhi e le menti.

(InOltre, 18 settembre 2025)

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Il rettore del Politecnico di Torino caccia il professore ebreo per ‘tutelarlo’ dagli studenti

I ghetti avevano una funzione analoga

di Iuri Maria Prado

Il quotidiano La Stampa ha offerto la propria prima pagina al rettore del Politecnico di Torino, Stefano Corgnati, per illustrare i motivi della cacciata di un professore ebreo molestato da squadracce pro-Pal durante una lezione.
Ovviamente né La Stampa né il responsabile del provvedimento di repulisti presentano in quel modo la faccenda. Il manipolo di sgherri che ha interrotto la lezione molestando il professore è trasfigurato in un leggiadro consorzio di “alcuni studenti esterni al corso”, i quali “hanno sollevato questioni” in merito all’azione dell’esercito israeliano. Invece le risposte del professore – che ha servito nell’esercito israeliano, da lui giudicato “il più pulito” – diventano “esternazioni” che “appaiono inappropriate nel contesto di un compito didattico relativo a lezioni di carattere tecnico” e rischiano “di alzare il livello di tensione nella comunità studentesca e accademica”.
Ricapitoliamo? “Inappropriato” non è il fatto che un branco di molestatori interrompa la lezione, ma il fatto che la vittima della molestia risponda dicendo di aver servito nell’esercito e di considerarlo esemplare. Ad “alzare il livello di tensione nella comunità studentesca e accademica” non è l’irruzione della falange pro-Pal al Politecnico di Torino, ma la “esternazione” del professore che osa dichiarare di aver prestato servizio nell’esercito e di averne apprezzato la levatura morale.
Ma il meglio è quando il rettore dell’istituto torinese spiega che “quanto prima” parlerà con il professore “per comprendere meglio i contorni della vicenda e le motivazioni delle sue risposte”. Un processino interno, diciamo, nell’attesa del quale vale il “raus” pronunciato sulla scorta di “quanto risulta dai frammenti video diffusi sui social”. È dubbio se, per la conferma del provvedimento, occorrerà sentire anche il parere del capo caseggiato. Delizioso, infine, è il riferimento del rettore alla funzione profilattica della cacciata: “rappresenta”, spiega, “un’azione di tutela nei confronti del docente nostro ospite, così come degli studenti che frequentano le sue lezioni”. Le ragioni della tutela degli studenti, per carità, sono chiare: rischiavano di essere ulteriormente esposti alla contaminazione sionista, e ci sta. Ma tutela del docente in che senso? Lo proteggiamo dal pericolo di essere molestato (o peggio) sbattendolo fuori? I ghetti avevano una funzione analoga.

(Il Riformista, 18 settembre 2025)

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Gaza, la fabbrica della menzogna

di Antonio Cardellicchio

Certo che la realtà di Gaza è un inferno, anzi è più infernale di quanto descrivono le “anime belle” che odiano Israele. Ma questo abisso infernale esprime realtà, disvalori, sentimenti, finalità che formano, giorno per giorno, una guerra ibrida martellante, totalizzante, che ribalta tutto con feroce cinismo. Tutti i riflettori del mondo puntati su Gaza, mentre cala il buio su tante altre stragi e delitti disumani, dall’Iran all’Afghanistan.
A Gaza 13mila operatori ONU, ottanta ONG, 1300 giornalisti accreditati. Tutti per una massiccia operazione di mistificazione, fabbrica di falsità, odio scatenato. Un mare di giornalisti falsari, pappagalli del terrore, senza giornalismo d’inchiesta, contraddittorio, con la censura totale sui tunnel, sulle strutture terroriste, i depositi di armi, sotto ospedali (veri e finti), scuole, moschee, abitazioni civili.
Censura su Hamas che ruba il cibo, lo trattiene o lo rivende a prezzi maggiorati, quando dovrebbe essere naturalmente gratuito, con proventi che vanno a finanziare l’attività terrorista; Hamas sequestra con la violenza armata il cibo della Gaza Humanitarian Foundation, che consegna un’enorme quantità di pasti ogni giorno. Censura sull’arruolamento forzato dei minori, censura sulla condizione Auschwitz degli ostaggi israeliani, sulla vendita dei cadaveri, sull’eliminazione fisica dei gazawi dissidenti. 
Tutta una costruzione mediatica artificiale, ideologica, con inversione dei ruoli di vittima e carnefice. Tirannia mediatica che abolisce razionalità critica, dibattito, ogni dissenso dalla versione ufficiale dominante. Tutta la presenza dell’ONU nella Striscia è una convivenza complice con Hamas. La retorica umanitaria maschera il volto di un anti-umanitarismo di una crudeltà spietata.
Una sinistra dell’odio e una destra moderata ignava sfruttano con cinismo la comoda rendita, a portata di mano, di un imperialismo mediatico che ribalta fatti e valori, per i loro calcoli. La dittatura della disinformazione in una dittatura elettorale, dove la schiavitù ad Hamas si fonde con l’incapacità difensiva e le tendenze autodistruttive delle correnti antioccidentali in Occidente.
Da qui la negazione della realtà vivente di Israele, che sta realizzando con coraggio sia la propria esistenza sia i compiti propri della Carta delle Nazioni Unite, del diritto internazionale, della giustizia di tutte le democrazie del mondo.
La guerra è lunga proprio perché l’autodifesa israeliana realizza tattiche difensive selettive, a cominciare dai bombardamenti sulle strutture terroriste preceduti da appelli all’evacuazione per salvare vite umane. Niente di tutto questo, invece, nei bombardamenti sommari, massicci della coalizione anti-Isis a Mosul, o degli Alleati per la capitolazione di Germania e Giappone: attacchi senza avvisi di evacuazione o distribuzione di cibo, fino agli estremi di Dresda e dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki. La storia democratica ha accettato queste tragiche necessità. L’atomica ha suscitato un naturale dibattito etico, ma allora venne accettata e, in quel dibattito, lo stesso Norberto Bobbio la giustificava. Questa comparazione mostra che l’israelofobia su Gaza è antisemitismo tossico, filoterrorismo militante, ideologia e prassi antioccidentale.
La sofferenza a Gaza, oltre quella vissuta, è generata e amministrata come arma politica per spostare i precari equilibri di un mondo tormentato e devastato a favore delle autocrazie e dei totalitarismi, con i loro orrori terroristi. Video di bambini affamati, di vittime, si trasformano in contenuti mediatici della guerra ibrida. Ogni tentativo onesto e umanizzante di squarciare il regime mediatico antisemita viene criminalizzato.
La funesta ideologia antioccidentale, comune ad Hamas e al dominio mediatico, sfrutta proprio l’etica ebraica per eliminare l’unico, piccolo Stato ebraico al mondo.  L’autolimitazione-autoregolazione della difesa israeliana viene sfruttata con un cinismo assoluto, considerandola una debolezza per intensificare l’aggressione fisica e la calunnia morale.
La legittimazione della menzogna sistematica e del terrore genocida costituisce un autentico collasso morale dell’Occidente. Gaza è diventata la causa delle anime belle, ma è una vera trappola, fisica, militare e psicologica: da ogni anfratto, dai sottoscala, da tutte le strutture sotterranee di morte spietata, viene fuori l’agguato del mostro infernale. Realtà negata da una trappola ideologica che ribalta oppressori e oppressi, carnefici e vittime.
Davide Cavaliere ci ha ricordato le nobili parole di Imre Kertész, grande scrittore ebreo ungherese, deportato quindicenne ad Auschwitz e poi trasferito a Buchenwald, Premio Nobel per la letteratura nel 2002:
“Lo confesso con sincerità: quando per la prima volta vidi sullo schermo televisivo i mezzi corazzati israeliani diretti a Ramallah, inconsapevolmente e ineluttabilmente mi penetrò come una fitta questo pensiero: Dio mio, quant’è bello vedere la stella di Davide sui carri armati israeliani, piuttosto che cucita sul mio vestito, come avvenne nel 1944”.

(L'informale, 18 settembre 2025)

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La Paramount denuncia gli appelli al boicottaggio di Israele nel cinema: “Non fa avanzare la pace"

“L’industria globale dell’intrattenimento dovrebbe incoraggiare gli artisti a raccontare le loro storie e condividere le loro idee con il pubblico di tutto il mondo. Abbiamo bisogno di più impegno e comunicazione, non di meno.” Così la grande casa di produzione ha risposto all’appello firmato da 4.000 persone del mondo del cinema per boicottare le istituzioni cinematografiche israeliane.

di Nina Prenda

La Paramount ha condannato un impegno firmato questa settimana da oltre 4.000 attori, intrattenitori e produttori, tra cui alcune star di Hollywood, a non lavorare con istituzioni cinematografiche israeliane che affermano “sono implicate nel genocidio e nell’apartheid contro il popolo palestinese”. Tra i firmatari degli impegni ci sono gli attori Olivia Colman, Emma Stone, Mark Ruffalo, Tilda Swinton, Riz Ahmed, Javier Bardem, Joaquin Phoenix, Emma D’Arcy, Eric Andre, Elliot Page e Cynthia Nixon.
La dichiarazione ha spinto Paramount a rispondere all’impegno rilasciato lunedì 15 settembre.
“In Paramount, crediamo nel potere della narrazione per connettere e ispirare le persone, promuovere la comprensione reciproca e preservare i momenti, le idee e gli eventi che modellano il mondo che condividiamo. Questa è la nostra missione creativa”, si legge nella dichiarazione. “Non siamo d’accordo con i recenti sforzi per boicottare i registi israeliani. Mettere a tacere i singoli artisti creativi in base alla loro nazionalità non promuove una migliore comprensione o avanza la causa della pace”, ha continuato la dichiarazione. “L’industria globale dell’intrattenimento dovrebbe incoraggiare gli artisti a raccontare le loro storie e condividere le loro idee con il pubblico di tutto il mondo. Abbiamo bisogno di più impegno e comunicazione, non di meno.”
L’impegno si distingue da altri precedenti boicottaggi di arte e cultura in Israele, in quanto menziona specificamente le istituzioni culturali israeliane che i firmatari della lettera stanno boicottando. Tra queste, importanti festival cinematografici israeliani come il Jerusalem Film Festival, l’Haifa International Film Festival, il Docaviv e il TLVfest.
L’impegno non si rivolge specificamente agli individui israeliani. Invece, il documento dice che il “rifiuto mira alla complicità istituzionale, non all’identità” e che “alcune entità cinematografiche israeliane non sono complici”.
Diverse lettere aperte firmate da figure di spicco del cinema, della musica e della letteratura sono state pubblicate mentre la pressione aumenta sul governo israeliano per porre fine alla guerra di quasi due anni contro Hamas a Gaza scatenata dall’invasione e dal massacro del gruppo terroristico in Israele il 7 ottobre 2023.

(Bet Magazine Mosaico, 18 settembre 2025)

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San Nicandro Garganico – Inaugurata in sinagoga la biblioteca Alfredo Ravenna

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«Nel 1930, nella notte tra il 10 e l’11 agosto, ho avuto una visione: mi trovavo nell’oscurità e sentivo una voce che mi diceva: “Ecco, vi porto una luce”».
  Prese le mosse da questa visione la “nuova vita” di Donato Manduzio (1885-1948), il fondatore della comunità ebraica di San Nicandro Garganico (FG) in Puglia. Una storia di “ebrei per scelta” senza alcun contatto fino a quel momento con l’ebraismo, convertitisi poi collettivamente nel Dopoguerra.
  Un rabbino arrivato da Roma formalizzò quel processo, Alfredo Shelomò Ravenna (1899-1981). Ferrarese di nascita, formatosi a Firenze e nella capitale, fu in Gargano alla fine di luglio del 1946 e organizzò il rito di passaggio della circoncisione. Porta ora il suo nome la biblioteca di ebraismo inaugurata mercoledì sera nella sinagoga del comune pugliese nel corso di una cerimonia svoltasi alla presenza tra gli altri dei nipoti Elena e Yaakov Lattes, che hanno donato agli ebrei sannicandresi numerosi volumi della Rassegna Mensile di Israel, del vicepresidente della Comunità ebraica napoletana Sandro Temin e del rabbino capo del capoluogo campano Cesare Moscati.
  «Ho avuto il privilegio di essere un suo allievo», sottolinea Moscati. «A parte la grande competenza, lo ricordo come un uomo dolce e simpatico. È stato emozionante onorarlo in un clima accogliente e caloroso come quello riservatoci». Concorda Temin: «Abbiamo sentito la vicinanza di tante persone toccate dalla sua storia, dal suo esempio e dalla personalità. Anche io ricordo il rav con molto affetto: era una presenza assidua in tante circostanze familiari». Lattes, che è docente allo Yaad Accademic College di Tel Aviv, ha rievocato nel suo intervento alcune tappe della sua carriera di rabbino e maestro e ricordato come anche durante l’occupazione nazista di Roma il rabbino Ravenna cercò di mantenere accesa, in clandestinità, una fiammella di ebraismo. Nei mesi successivi Ravenna sarebbe stato parte dell’equipe che, sotto la guida di Attilio Ascarelli, avrebbe dovuto riconoscere le salme e dare degna sepoltura alle vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
  Nel corso della serata è stata svelata una targa commemorativa ed è stato trasmesso anche un video di Umberto Piperno, il rabbino capo di Livorno. Hanno inoltre preso la parola un ex preside di scuola e una insegnante, per testimoniare l’apprezzamento della società civile verso il piccolo ma vivace nucleo ebraico locale. 

(moked, 18 settembre 2025)

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Dopo 2000 anni, il percorso di pellegrinaggio a Gerusalemme viene riaperto

Durante una cerimonia nella Città di Davide, Netanyahu, Rubio e Huckabee sottolineano il legame indissolubile tra l'eredità ebraica e quella cristiana.

di Ryan Jones

Benjamin Netanyahu inaugura ufficialmente la “Via dei Pellegrini” a Gerusalemme
GERUSALEMME - In un momento ricco di storia e fede, martedì Israele ha inaugurato l'intera lunghezza dell'antica Via dei Pellegrini, il sentiero in pietra lungo 600 metri che un tempo conduceva i fedeli dalla piscina di Siloe al Tempio. All'evento, che ha segnato la conclusione di 13 anni di scavi, hanno partecipato il primo ministro Benjamin Netanyahu, il segretario di Stato americano Marco Rubio, l'ambasciatore Mike Huckabee, diversi ministri, il sindaco di Gerusalemme e archeologi di alto livello.
Questa è la nostra città. È sempre stata la nostra città e rimarrà sempre la nostra città”, ha dichiarato Netanyahu. “Duemila anni dopo la distruzione del Secondo Tempio, stiamo riportando alla luce il nostro passato e costruendo il nostro futuro su di esso. Gerusalemme non sarà mai più divisa”. Ha collegato la scoperta alle radici dell'alleanza di Israele e ha respinto i tentativi di separare Gerusalemme dal popolo ebraico: “Il nostro patrimonio comune ebraico-cristiano è nato proprio qui”.
Rubio ha presentato la cerimonia come una testimonianza dei valori biblici che hanno plasmato sia Israele che l'America. “I principi su cui sono stati fondati gli Stati Uniti 250 anni fa derivano dalle parole che sono state scritte qui per la prima volta”, ha detto. “Stare su questa strada significa stare nel luogo in cui la fede ha dato origine alla libertà”.
Huckabee, visibilmente commosso, ha ricordato la distruzione operata dai Romani nel 70 d.C.: “Hanno cercato di cancellare questo popolo e questo luogo. Ma gli ebrei non hanno mai dimenticato. Stasera le pietre proclamano la verità: che il popolo ebraico appartiene a questo luogo, non solo oggi, ma da 4.000 anni”.
Gli archeologi hanno definito lo scavo uno dei più ambiziosi al mondo, con tunnel scavati sotto la Gerusalemme moderna per portare alla luce strati risalenti a 2.500 anni fa. Tra i reperti figurano monete con la scritta “Per la libertà di Sion”, vasi rituali e un raro mezzo siclo d'argento utilizzato per le offerte al tempio. La piscina di Siloe, menzionata sia nella Bibbia ebraica che nel Nuovo Testamento, costituisce il centro della strada e ne sottolinea il significato universale.
Il direttore della Città di Davide, David Be'eri, ha affermato che l'inaugurazione della strada arriva in un momento in cui i nemici negano il legame degli ebrei con Gerusalemme. “Queste pietre smentiscono le loro menzogne”, ha detto. “Generazioni di pellegrini hanno camminato qui. Ora, dopo 2000 anni, milioni di altri seguiranno le loro orme”.
Per Israele, il progetto è di natura sia archeologica che teologica: è la prova che la storia ebraica a Gerusalemme non è un mito, ma un fatto concreto scolpito nella pietra. Per i cristiani rafforza le radici della loro fede nella città in cui si è svolta la Bibbia. Per entrambi, il percorso di pellegrinaggio non è solo una storia riportata alla luce, ma una conferma della verità biblica.

(Israel Heute, 17 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Una battaglia per la fine della guerra a Gaza

di Ugo Volli

Un’offensiva annunciata
  Come tutti i giornali hanno riportato, l’esercito israeliano è entrato l’altra mattina a Gaza City, il capoluogo della Striscia di Gaza. Non c’è nessuna sorpresa in questa azione, che era stata apertamente discussa fra governo e Stato Maggiore delle Forze Armate, con notevoli dissensi iniziali fra loro successivamente superati, poi annunciata tanto dal Primo Ministro Netanyahu e dal Capo di Stato Maggiore, contestata da parte (ma solo parte) dell’opposizione e da agguerrite manifestazioni di piazza. Soprattutto era stata preparata da una decina di giorni di colpi dell’aviazione su edifici che erano stati identificati come possibili roccaforti di Hamas, luoghi di avvistamento e di sparo sulle truppe, centri di coordinamento dell’azione terrorista. Oltre sessanta di queste “torri” erano state abbattute, nell’ultima settimana. La trasformazione di Gaza City da zona “santuario” di Hamas in terreno di guerra era stata anche largamente comunicata dall’esercito israeliano ai suoi abitanti, in maniera tale da sottrarli al fuoco dirigendoli in zone attrezzate per aiutarli e nutrirli, mentre Hamas aveva cercato in tutti i modi, dalla retorica religiosa alla violenza fisica, di trattenerli in città e usarli come scudi umani. Alla fine il via è venuto la mattina del 15 settembre dall’incontro fra Netanyahu e il Segretario di Stato (cioè il ministro degli esteri) americano Marco Rubio, che in una conferenza stampa ha dichiarato che la convinzione del Presidente Trump e sua è che “Hamas deve essere eliminato e gli ostaggi liberati”. Questo annunciato da Rubio è lo scopo dell’operazione: distruggere Hamas e finire la guerra.

La propaganda contro Israele
  In realtà è difficile distinguere Gaza City (o il suo centro, perché la periferia era già stata investita in precedenza dalle azioni israeliane) dal resto della Striscia: non vi sono ostacoli naturali, l’edilizia disordinata caratteristica di tante città mediorientali ne rende confusi i confini. Essa non era stata toccata finora soprattutto per il sovraffollamento e la presenza di ridotti e fortificazioni terroriste sottoterra e negli edifici, che insieme al sovraffollamento degli abitanti e alla probabile presenza dei luoghi di detenzione dei rapiti rendevano (e rendono ancora) difficile e pericolosa l’azione militare sul terreno. Hamas era ben consapevole di questa difficoltà e ci ha montato intorno una campagna di propaganda, appoggiata da media e forze politiche “progressiste”, talvolta da governi soprattutto in Europa e nel mondo anglosassone. Difficile pensare che alla base di questo schermo propagandistico stia davvero la preoccupazione per i rapiti e neanche quella per la gente comune di Gaza, tant’è vero che non vi sono proteste per il violento tentativo di Hamas di costringerli a fare ancora una volta gli scudi umani. Nella migliore delle ipotesi c’è preoccupazione per una vittoria “troppo netta” e dunque “destabilizzante” di Israele, come già era accaduto in tutte le guerre del passato ad opera degli Usa; nella peggiore, come nel caso della “flottiglia”, ma anche del governo spagnolo e del suo capo, il socialista Sanchez, c’è una chiara vicinanza politica con Hamas; in altri casi ancora un cinico calcolo di bacino elettorale o, nel caso dei media, di vendite.

Come Rafah
  Qualcosa di molto simile era accaduto in precedenza a Rafah, altra importante città della striscia di Gaza, che controlla l’accesso dall’Egitto. Israele aveva raggiunto questa frontiera da tempo ma la presa della città era stata bloccata da delibere dell’Onu, prese di posizione dei paesi europei, manifestazioni di piazza, ma soprattutto dal veto dell’amministrazione Biden. Tutti prevedevano che la conquista di Rafah avrebbe portato a disastri umanitari che non si sono verificati, a crisi internazionali che non si sono viste. Di fatto la conseguenza principale dell’ingresso israeliano in città è stata l’eliminazione di Yahya Sinwar, il capo militare di Hamas e il responsabile del 7 ottobre. Sia per Rafah, sia adesso per Gaza City c’è stata anche una certa resistenza interna, da parte dei vertici militari e di sicurezza. E’ stata la determinazione del governo, e personalmente di Bibi Netanyahu a superare queste esitazioni.

Una battaglia difficile
  Lo scopo dell’operazione è chiaro: spezzare le ultime resistenze organizzate di Hamas, obbligarli ad arrendersi e a liberare i rapiti, ed eliminare completamente coloro che rifiutano. Già la settimana scorsa l’esercito ha riportato i nomi di alcuni capi di Hamas che avevano chiesto un salvacondotto per fuggire all’estero, A uno di loro, che probabilmente aveva fatto recuperare i resti di due salme del 7 ottobre trattenute dai terroristi, l’emigrazione è stata concessa, agli altri è stata negata. La conquista di Gaza City non è facile, richiede a fanti e carristi di entrare in un labirinto urbano certamente pieno di trappole esplosive e di terroristi disposti a qualunque azzardo per ucciderli o – ancor peggio – rapirli. Per dare un segnale forte, per la prima volta nella storia di Israele, il Capo di Stato maggiore si è impegnato a dirigere l’operazione venendo in prima linea. Non bisogna pensare però che questa battaglia decisiva duri ore o giorni. Ci vorranno settimane, forse mesi, per eliminare la resistenza di Hamas, che non ha la forma di uno schieramento frontale, ma di mille agguati e trappole.

Gli altri fronti
  Intorno a questo scontro a Gaza, la guerra continua su altri fronti. Ci sono gli Houthi, che l’aviazione ha colpito ieri di nuovo, ma che continuano a sparare missili sulla popolazione civile, ci sono le situazioni di Libano e Siria, dove Israele sta intervenendo per impedire che Hezbollah si riarmi, che il regime siriano possa accumulare armi provenienti dalla Turchia e anche che possa sterminare i Drusi. E c’è l’Iran, con cui la partita quasi sicuramente non è finita: “ci saranno altri round” come ha detto il ministro della difesa Katz. Il più attivo di tutti però è l’“ottavo fronte” della politica internazionale, che ormai mira apertamente a isolare Israele, a impedirgli di difendersi negandogli armi e rifornimenti. Ciò potrebbe portare lo Stato ebraico a doversi trasformare in una “nuova Sparta” come ha detto con espressione molto discussa Netanyahu, che però ha aggiunto subito che il progetto di isolamento politico e militare di Israele non sta prevalendo, soprattutto grazie agli Stati Uniti. La visita di Rubio ne è una prova e un’altra è l’invito a visitare Trump fra due settimane che Netanyahu ha accettato: sarebbe il quarto incontro in un anno, un record assoluto.

(Shalom, 17 settembre 2025)

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«Fuori i sionisti dalle Università». Caos a Pisa: professore al pronto soccorso

«Mi accusano solo perché non sono schierato con loro e perché, insieme a una collega, ho criticato la decisione dell’Ateneo di non restare neutrale», ha dichiarato il professore. La presidente UCEI, Noemi Di Segni: «Appiattimento sulla narrativa propagandistica di Hamas». La ministra Bernini: «Intollerabile». Una frattura che divide il mondo accademico.

di Nina Deutsch

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Momenti di forte tensione ieri mattina al Polo Piagge dell’Università di Pisa, dove un gruppo di circa quindici studenti dei collettivi pro Palestina ha interrotto una lezione del professor Rino Casella, associato di Diritto Pubblico Comparato. Gli studenti, saliti sulla cattedra e armati di megafono, hanno gridato slogan a favore di Gaza: «Palestina libera. Fuori i sionisti dalle Università».

Secondo quanto riportato dal docente, durante l’irruzione sarebbe stato colpito con calci e pugni: «Non mi è stato solo impedito di fare lezione – ha raccontato – ma sono stato anche aggredito fisicamente, soprattutto perché ho cercato di fare da scudo a uno studente picchiato solo per avere tentato di togliere una bandiera palestinese ai manifestanti». Dopo l’accaduto, Casella si è recato al pronto soccorso, dove gli sono state diagnosticate contusioni ed escoriazioni con prognosi di alcuni giorni. «Mi accusano solo perché non sono schierato con loro e perché, insieme a una collega, ho criticato la decisione dell’Ateneo di non restare neutrale».

Sul profilo Instagram del collettivo Studenti per la Palestina Pisa sono poi comparsi foto e video del blitz, corredati dall’accusa al professore di essere «sionista»: «Gente come questo professore nelle aule non ci deve stare, non deve avere spazio» ha detto una delle attiviste al megafono. «Abbiamo interrotto la lezione del professore – hanno aggiunto gli attivisti – perché il docente ci ha impedito di parlare del genocidio in atto in Palestina e del fatto che l’Università di Pisa è complice tramite accordi e progetti che porta avanti con lo stato genocidario di Israele».

Le reazioni istituzionali
  La ministra dell’Università Anna Maria Bernini è intervenuta immediatamente e ha telefonato al rettore Riccardo Zucchi, al professor Casella e al prefetto di Pisa, Maria Luisa D’Alessandro.
  «Sarà la magistratura ad indagare», ha dichiarato il rettore, precisando che «accusare la nostra Università di sostenere uno stato genocidario mi sembra fuori dal mondo, oltre che un grossolano errore». E ha aggiunto: «Posso dire in generale che, ferma restando la nostra posizione su Gaza ormai nota, il nostro ateneo rifiuta ogni forma di violenza, verbale o fisica, che faccia passare le persone dalla parte del torto. L’interruzione delle lezioni, a maggior ragione se accompagnata da aggressioni fisiche, è assolutamente intollerabile».
  Bernini a sua volta ha condannato l’episodio con parole nette: «Le università non sono zone franche dove è consentito interrompere lezioni o aggredire professori. Quanto accaduto all’Ateneo di Pisa è intollerabile per una società che si riconosce nei valori della democrazia».
  La ministra ha poi aggiunto: «Colpire la libertà accademica significa attaccare il cuore della nostra democrazia: dobbiamo difenderla tutti, senza se e senza ma». (HuffPost).
  Durissima anche la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), Noemi Di Segni: «Quel che è successo all’Università di Pisa è proprio l’escalation che da tempo temiamo e avvertiamo come deriva della violenza già lungamente tollerata, in nome della “dialettica democratica”, e come appiattimento sulla narrativa propagandistica di Hamas».
  Di Segni ha ammonito: «Va ricordato che i palestinesi sono strumentalizzati da chi li considera scudi umani e nessuna irruzione nelle aule potrà mai soccorrerli. Anzi così si continua a legittimare il terrorismo. Noi speriamo che l’anno accademico si avvii invece con ben altre capacità di comprendere la complessità escludendo giudizi arbitrari e violenza verbale e fisica».

Il comunicato UGEI

    «Quanto accaduto oggi all’Università di Pisa, con l’irruzione in aula e il ferimento del professor Rino Casella, rappresenta un’escalation preoccupante, richiamando dinamiche già viste lo scorso maggio al Campus Einaudi di Torino. Non si tratta di una semplice contestazione: è un attacco diretto alla libertà accademica e alla sicurezza della comunità universitaria.
    Come UGEI, esprimiamo piena solidarietà al docente coinvolto e ribadiamo con forza che violenza e intimidazione non possono trovare spazio negli atenei italiani. Serve un argine deciso contro questi comportamenti, perché l’università deve restare un luogo di studio, confronto e crescita, non un palcoscenico di propaganda». 

Così in una nota l’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI).

Una frattura che divide il mondo accademico
  L’episodio di Pisa si inserisce in una scia di tensioni già viste negli ultimi mesi in altre università italiane. A maggio, al Campus Einaudi di Torino, un’analoga irruzione durante una lezione aveva innescato polemiche e proteste. Non si tratta dunque di un caso isolato, ma di un fenomeno che sta assumendo un carattere ricorrente.
  La questione solleva interrogativi cruciali: fino a che punto la protesta studentesca può invadere gli spazi accademici senza trasformarsi in intimidazione? È legittimo che un docente venga marchiato con etichette ideologiche e messo all’indice per le sue opinioni?
  In una stagione internazionale segnata dalla guerra a Gaza e da un’ondata di proteste in campus universitari di tutto il mondo, le università italiane si trovano ora al centro di un bivio: restare luoghi di confronto aperto e civile, o diventare arene di scontro in cui il dialogo cede il passo alla forza.

(Bet Magazine Mosaico, 17 settembre 2025)


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Università al collasso morale: Pisa e Torino, avamposti dell’odio

di Aldo Torchiaro

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Ciò che è accaduto all’Università di Pisa non è un episodio isolato, ma l’ennesima conferma che una parte del mondo accademico italiano è ormai ostaggio della violenza politica travestita da “solidarietà” per Gaza. Rino Casella, docente di Diritto pubblico comparato, è finito al pronto soccorso con sette giorni di prognosi: accusato di essere «sionista», circondato, spintonato, colpito a calci e pugni per aver osato difendere Israele e, peggio ancora, per aver tentato di proteggere un suo studente aggredito dai soliti squadristi pro-Pal. Questa è la fotografia di un’università che non garantisce più il diritto allo studio, ma la legge del branco.
A Pisa, da mesi, il senato accademico ha preferito abdicare al proprio ruolo, deliberando l’11 luglio che ogni collaborazione con istituzioni israeliane dovrà essere “oggetto di attenta valutazione”. Formula ipocrita che equivale a una messa al bando preventiva. Il risultato è stato quello che tutti temevano: i campus invasi da bandiere palestinesi (dietro le quali si celano quelle verdi di Hamas) e occupazioni tollerate con colpevole complicità. Quando l’università non difende la neutralità della conoscenza, diventa terreno fertile per la violenza.
Se Pisa rappresenta l’arroganza delle squadracce, Torino è la prova della viltà dei vertici accademici. Al Politecnico, il professor Pini Zorea, docente israeliano invitato come guest lecturer, ha pronunciato una frase semplice e inequivocabile: ha definito l’IDF «l’esercito più pulito al mondo». Apriti cielo. Non c’è stata nessuna aggressione fisica, non ce n’è stato bisogno: il rettore Stefano Corgnati ha immediatamente interrotto il corso, rescindendo ogni rapporto con il docente. Il tutto accompagnato da un comunicato ufficiale che sa di resa morale: il Politecnico «condanna quanto espresso dal docente». Tradotto: un’università italiana, invece di garantire libertà di parola a un ospite internazionale, lo caccia in tronco per aver espresso un’opinione sgradita. Il boicottaggio non è più una minaccia: è pratica corrente.
A Pisa e a Torino si consuma lo stesso delitto accademico. L’idea di università come luogo di confronto, democrazia e libertà, è sostituita dall’idea di università come spazio di intimidazione, dove l’unico discorso ammesso è quello filo-palestinese, possibilmente radicalizzato, e ogni voce ebraica o filoisraeliana deve essere silenziata, con le botte o con la censura istituzionale. È questo che chiamiamo libertà accademica? È questa la cultura che vorremmo trasmettere agli studenti?
Il ministro Anna Maria Bernini ha ragione a dire che «le università non sono zone franche». Ha ragione a dichiarare che il Mur si costituirà parte civile. Ma non basta. Non bastano i comunicati indignati, non bastano i richiami alla legalità: serve una svolta vera. I rettori devono essere messi di fronte alle proprie responsabilità, perché sono i primi garanti della sicurezza e della libertà di pensiero nei campus. E invece a Pisa hanno chiuso gli occhi, a Torino hanno scelto la strada della sottomissione. Due università che dovrebbero essere fiore all’occhiello del sistema italiano oggi sono la prova più lampante della sua decadenza morale.
Il movimento pro-Pal non è un innocuo collettivo di studenti idealisti. È un coacervo che salda frange eversive, fondamentalismo islamico e complicità accademiche. La stessa regia che ha fatto interrompere la Vuelta de España per impedire la volata dei ciclisti israeliani, la stessa che a Parigi ha espulso studenti ebrei dalla chat della Sorbona. A Pisa e Torino si sperimenta un nuovo livello: la violenza fisica e la censura formale. Gli anni Settanta ci hanno insegnato dove portano le degenerazioni nate nei campus: alle Brigate Rosse. Chi non lo vede, oggi, è complice.
Università di Pisa e Politecnico di Torino non possono più rifugiarsi dietro formule burocratiche o dietro l’alibi della “pluralità di opinioni”. Non si tratta di pluralismo, ma di persecuzione. Non si tratta di libertà di parola, ma della sua negazione. E quando un’accademia legittima la violenza o la censura, non sta educando cittadini liberi, ma apprendisti stregoni dell’odio.
Per questo, da qui, rivolgiamo un appello netto: basta ambiguità. Basta boicottaggi mascherati. Basta con rettori che chinano la testa davanti alle minacce. Le università italiane non possono diventare incubatori di antisemitismo né luoghi in cui le squadracce si esercitano a colpire i più deboli. Oggi è un professore aggredito a Pisa, domani sarà uno studente, dopodomani chiunque osi dirsi amico di Israele. È così che inizia la barbarie.

(SETTEOTTOBRE, 17 settembre 2025)

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Onu contro Israele: genocidio o processo politico?

di Stefano Piazza

Un rapporto delle Nazioni Unite ha concluso che Israele ha commesso atti di genocidio contro i palestinesi di Gaza dal 7 ottobre 2023. Il Ministero degli Esteri ha denunciato il rapporto come «menzogne di Hamas riciclate»
La Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est e Israele, ha diffuso un rapporto che scuote il dibattito internazionale: secondo i tre relatori, vi sarebbero «fondati motivi» per ritenere che Israele abbia commesso atti di genocidio contro i palestinesi di Gaza dal 7 ottobre 2023. L’organismo, istituito nel 2021 come sussidiario del Consiglio Onu per i diritti umani, è stato incaricato di indagare sulle presunte violazioni del diritto internazionale umanitario nella regione. Nell’ultima relazione, la Commissione sostiene che Israele avrebbe compiuto quattro atti vietati dalla Convenzione sul genocidio: uccisioni sistematiche, gravi danni fisici e mentali, inflizione di condizioni di vita intollerabili e misure tese a impedire nuove nascite. Per i commissari, tali atti sarebbero stati realizzati dalle autorità e dalle forze di sicurezza israeliane con l’«intento specifico» di annientare i palestinesi di Gaza. Le prove citate comprendono episodi di violenza sistematica e su larga scala, dalla distruzione di abitazioni e patrimonio culturale all’uso della carestia come strumento bellico, fino alla negazione dell’assistenza sanitaria e ad abusi sessuali e di genere.Il genocidio, definito dall’Onu «il crimine dei crimini», richiede di dimostrare non solo l’esistenza di violazioni gravi, ma soprattutto il dolo speciale: la volontà di eliminare un gruppo protetto. Secondo la Commissione, tale volontà si dedurrebbe «unicamente» dal comportamento delle autorità israeliane e dalle dichiarazioni pubbliche dei vertici dello Stato, compreso il Presidente, il Primo ministro e il Ministro della Difesa.

Le accuse e il contesto legale
  Il rapporto arriva in un quadro internazionale già segnato da tensioni legali e diplomatiche. Nel dicembre 2023 il Sudafrica aveva portato Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, accusandolo di violare la Convenzione sul genocidio. La Corte ha concesso misure provvisorie, mentre Amnesty International e l’Associazione Internazionale degli Studiosi del Genocidio hanno sostenuto le accuse in rapporti successivi. Ad agosto 2025, anche l’Associazione Internazionale degli Studiosi del Genocidio ha adottato una risoluzione che definisce le operazioni israeliane a Gaza come genocidio a tutti gli effetti. E solo un mese dopo, la relatrice speciale Onu per i Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha invocato un intervento straordinario dell’Assemblea Generale, parlando di «carestia di massa» e «prove schiaccianti» di genocidio. Tuttavia, Albanese è stata a sua volta ampiamente criticata per dichiarazioni considerate antisemite e per un approccio ritenuto squilibrato a favore della causa palestinese. Un’accusa simile grava anche sui tre relatori della Commissione d’inchiesta – Navi Pillay, Chris Sidoti e Miloon Kothari – già contestati in passato per prese di posizione giudicate ostili allo Stato ebraico. Kothari, in particolare, è stato al centro di polemiche per aver parlato di «lobby ebraica» che controllerebbe i media internazionali, suscitando condanne ufficiali da parte di numerosi Paesi occidentali. Sidoti, dal canto suo, ha minimizzato le accuse di antisemitismo, definendole «come riso lanciato a un matrimonio». Dichiarazioni che, sommate alle prese di posizione di Albanese, sollevano seri interrogativi sulla credibilità e sull’imparzialità dei relatori chiamati a stilare un documento di tale portata.

La dura replica di Israele
  Il Ministero degli Esteri israeliano ha reagito con estrema durezza. In un comunicato diffuso sui social ha bollato il documento come «falso rapporto della Commissione Pillay, Sidoti e Kothari», accusando i tre autori di «agire come rappresentanti di Hamas» e ricordando che le loro «orribili dichiarazioni sugli ebrei sono state condannate in tutto il mondo». Secondo Tel Aviv, «il rapporto si fonda interamente su menzogne di Hamas, riciclate e ripetute senza alcuna verifica indipendente». A sostegno, viene citato uno studio del BESA Center, think tank israeliano indipendente, che avrebbe «confutato ogni singola falsa affermazione riguardante il genocidio». Israele ha ribaltato l’accusa, sottolineando che il 7 ottobre 2023 Hamas ha compiuto un vero e proprio tentativo di genocidio «uccidendo 1.200 persone, violentando donne, bruciando famiglie vive e dichiarando l’intenzione di eliminare ogni ebreo». Inoltre, il governo israeliano ha fatto notare che i tre membri della Commissione si sono recentemente dimessi, definendo la circostanza «una conferma ulteriore dell’inconsistenza del loro lavoro» e chiedendo «l’immediata abolizione della Commissione stessa».

Le implicazioni internazionali
  Il documento Onu non si limita a registrare presunte violazioni: chiede ad Israele di cessare immediatamente ogni azione definita «genocida», imporre un cessate il fuoco permanente e garantire accesso illimitato agli aiuti umanitari. Allo stesso tempo, invita gli altri Stati a sospendere la fornitura di armi e carburanti destinati all’aviazione militare israeliana, per non incorrere nel rischio di complicità. Una raccomandazione che ha diviso le cancellerie. L’Irlanda ha adottato misure concrete in linea con l’appello, mentre il Regno Unito ha rigettato le accuse dopo aver condotto una propria valutazione, come dichiarato dall’ex ministro degli Esteri David Lammy in una lettera al Parlamento.

Un rapporto sotto accusa
  La questione, dunque, va ben oltre il piano giudiziario: rischia di trasformarsi in un nuovo terreno di scontro diplomatico e politico tra chi considera Israele responsabile di crimini internazionali e chi, al contrario, denuncia una campagna ostile orchestrata in sede Onu da figure giudicate non neutrali. Con il conflitto a Gaza ancora in corso, il rischio è che la contrapposizione si radicalizzi ulteriormente: da una parte l’accusa pesantissima di genocidio, dall’altra la difesa di Israele che punta il dito contro l’antisemitismo dei relatori e contro la strumentalizzazione politica delle Nazioni Unite. In questo contesto, il nodo centrale rimane proprio la credibilità dei relatori. Le polemiche passate di Albanese, Kothari e Sidoti pesano come macigni sulla percezione del loro lavoro: agli occhi di molte cancellerie occidentali, un rapporto firmato da figure già accusate di antisemitismo difficilmente potrà essere considerato neutrale.

(L'informale, 16 settembre 2025)

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Marcia della vita

Per Israele e contro l'antisemitismo

Domenica, 28 settembre 2025

80 anni fa, l'8 maggio 1945, con la fine della seconda guerra mondiale si concludeva la Shoah. 6 milioni di ebrei furono uccisi e la vita ebraica in Europa fu quasi spazzata via. Èun miracolo che i sopravvissuti abbiano trovato la forza di ricostruire la loro vita. Ma ancora oggi i loro discendenti soffrono per il trauma proveniente dall'esperienza dei campi di concentramento, dei ghetti e delle marce della morte. Da questa terribile esperienza è nato il grido: "Mai più!".
Il 7 ottobre 2023, Hamas ha attaccato il sud di Israele e ha messo in atto il più grande pogrom contro gli ebrei dopo la Shoah. Da quello stesso giorno si è scatenato un vero e proprio diluvio di antisemitismo, che ancora oggi continua a scuotere il mondo intero con nuove ondate di odio contro Israele e il popolo ebraico. Molti discendenti di sopravvissuti alla Shoah nutrono la sensazione: "Potrebbe accadere di nuovo!"
  • Non resteremo in silenzio - e porteremo avanti l'eredità dei sopravvissuti alla Shoah, contro tutti gli appelli di smetterla!
  • Non resteremo in silenzio - sulla storia dell'antisemitismo nelle nostre città, chiese e famiglie!
  • Non resteremo in silenzio - riguardo all'antisemitismo moderno, che oggi assume la forma dell'antisionismo!
  • Non resteremo in silenzio - e staremo pubblicamente e in amicizia dalla parte
    dello Stato di Israele!

-> Locandina

(Edipi, 16 settembre 2025)

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Riapre a Monaco l’unica sinagoga sopravvissuta ai nazisti

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Cerimonia di riapertura della Sinagoga in Reichenbachstraße 27, nel cuore di Monaco

La chiamavano in yiddish la Reichenbachschul. La sinagoga di Reichenbachstraße 27, nel cuore di Monaco, era nata per ospitarle: centinaia di famiglie ebraiche provenienti dall’Est Europa, fuggite a inizio Novecento da pogrom, repressioni e rivoluzioni. Era un tempio ampio e luminoso, ispirato alle idee essenziali del Bauhaus. Profanata e gravemente danneggiata da nazisti nella Notte dei cristalli del 1938, la Reichenbachschul fu ricostruita nel Dopoguerra per poi venire chiusa nel 2006, quando fu aperto il grande tempio Ohel Jakob. Dimenticata per anni, oggi, a quasi un secolo dalla sua inaugurazione, la sinagoga è tornata a vivere grazie al progetto di restauro di Rachel Salamander e Ron Jakubowicz, fondatori dell’associazione “Reichenbachstraße Synagoge”. «Spero vivamente che questa sinagoga diventi un luogo di casa per la vita ebraica in Germania, capace di irradiare in tutto il paese», ha dichiarato il cancelliere Friedrich Merz, presente alla cerimonia di riapertura. Per Salamander il progetto «restituisce piena dignità all’eredità dell’ebraismo di Monaco. È giunto il momento di lasciarci alle spalle l’atmosfera depressa e traumatizzata del Dopoguerra, di ridare voce a coloro che furono spinti fuori dalla storia con la loro sinagoga, di farli sentire di nuovo a casa. Questo significa guarire un pezzo di storia».
  La Reichenbachschul, ha ricordato Charlotte Knobloch, presidente della Comunità ebraica di Monaco e dell’Alta Baviera, è «l’unica sinagoga cittadina sopravvissuta al nazismo: ferita, riutilizzata, deturpata, ma mai completamente distrutta». Dopo il 1945 furono i sopravvissuti alla Shoah a ripararla con mezzi di fortuna: il 20 maggio 1947 la riaprirono e la riconsacrarono, restituendole un ruolo centrale nella vita ebraica di Monaco. Per quasi sessant’anni la Reichenbachschul rimase il principale luogo di culto della città, fino al trasferimento delle funzioni religiose nella nuova sinagoga Ohel Jakob.
  Il lungo lavoro di restauro, costato circa 14 milioni di euro, ha restituito all’edificio le linee originali concepite nel 1931 dall’architetto Gustav Meyerstein. Vecchie fotografie e disegni hanno guidato l’opera di recupero, dalle ampie vetrate ricostruite ai dettagli interni, come le panche di legno chiaro e le pareti dai colori sobri. Davanti all’Aron HaKodesh c’è ora un tessuto intrecciato dell’artista Bauhaus Gunta Stölzl, che richiama lo spirito modernista dell’edificio.
  Per il ministro-presidente della Baviera Markus Söder, la sinagoga è «un gioiello» che finalmente «torna a splendere». Parole a cui ha fatto eco il sindaco di Monaco, Dieter Reiter, secondo cui la Reichenbachschul rappresenta «un simbolo potente di memoria e riconciliazione». Entrambi hanno sottolineato come la rinascita della sinagoga non sia solo un restauro architettonico, ma «un segno politico e civile di impegno contro ogni forma di antisemitismo». d.r.

(moked, 16 settembre 2025)

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Bambini di Gaza e di Israele

di Fabio Fineschi

Quello che sta accadendo fra Israele e Hamas ha un nome, un tremendo nome: guerra. Sta di fatto, però, che le parole, alla faccia della realtà dei fatti, l’hanno trasformata in un’altra cosa: un genocidio.
Questa guerra, ormai, viene riassunta solo nel plurale di un nome comune di persona: bambini. Non esistono più né torti né ragioni, qualunque forma o tentativo di discernimento viene riassorbito nel plurale di questo sostantivo. Nell’opinione comune più diffusa in questa guerra le parti in causa sono: l’esercito di Israele, il carnefice, e i bambini palestinesi, le vittime. Anche il solo tentare un embrione di ragionamento è impossibile; il nemico vero, Hamas, quello contro cui Israele combatte sembra essere stato rimosso dalle menti avvezze ai social e alle piazze. I bambini palestinesi sono delle vittime, certo che lo sono, sempre è così nelle guerre, come in quella dell’Ucraina, quella dello Yemen, della Repubblica Democratica del Congo, dell’Etiopia, del Sudan e Sudan del Sud, del Mali, Burkina Faso, Niger e Somalia.
Nello Yemen il conflitto, attivo dal 2015, ha causato una delle peggiori crisi umanitarie del mondo: 18 milioni di persone hanno bisogno di aiuto, di cui 11 milioni sono bambini. Nella Repubblica Democratica del Congo gli scontri tra esercito e gruppi armati continuano a causare sfollamenti di massa e insicurezza alimentare. Anche l’Etiopia, con la guerra nel Tigray e le tensioni in Oromia e Amhara, resta instabile. Il conflitto etiope da solo ha provocato oltre 100.000 morti.[1] Questo è solo un minuscolo elenco perché sembra che le guerre attualmente in atto nel mondo siano 56. Questo non significa che allora non ci si debba sdegnare per i bambini che muoiono a Gaza ma significa che lo stesso sdegno lo si dovrebbe avere per i bambini che muoiono in tutte le guerre, altrimenti viene il legittimo sospetto che si tratti di sdegno politicamente corretto; pietà ideologicamente ispirata; compassione di bandiera; commozione pilotata.
Si parla solo di genocidio a Gaza e il “bello” è che questo termine si iniziò a sbandierarlo dopo soli 7 giorni dalla mattanza d’ebrei del 7 ottobre 2023. Si gridava già allora, nelle piazze, che si doveva fermare quell’assassino, criminale e terrorista di Netanyahu: 
Sventolano i colori della Palestina in tutta Europa. Dopo le proteste di Roma e Berlino, sabato 14 ottobre anche a Londra migliaia di persone sono scese in piazza contro Israele mentre in Italia si manifesta a Milano, Bari e Torino in sostegno del popolo palestinese a una settimana dall’inizio dell’offensiva israeliana su Gaza, in risposta all’attacco di Hamas contro i civili nel sud del Paese del 7 ottobre 2023.”
La questione palestinese è ad alto contenuto politico, figlia del falso storico delle terre rubate agli arabi propinato a piene mani dall’URSS e, in Italia, dal PCI. I palestinesi sono i profughi più blasonati del mondo, con un’agenzia umanitaria, l’UNRWA, dedita solo a loro e che raccoglie fiumi di danaro dal 1949, anno in cui fu fondata dall’ONU.
Dal 1967, dopo la guerra dei 6 giorni vinta da Israele, che l’aveva subita, la propaganda comunista riuscì a trasformare quei profughi in un popolo palestinese che, di fatto, non è mai esistito in quanto tale. Insomma: l’attuale guerra in Medioriente si presta ad essere utilizzata come carro armato politico nell’agguerrita scena politica italiana.
Gli eterni antifascisti dell’opposizione usano i bambini di Gaza come argomento per screditare il governo “fascista” complice della strage. Non c’è manifestazione di piazza nella quale non si sventoli la bandiera palestinese, anche quando all’ordine del giorno vi sono questioni politico-sociali interne che nulla hanno a che fare con la politica estera. Questo perché la questione palestinese, per le ragioni suddette, è ormai un tutt’uno con la politica nazionale, vale a dire strumentale ad essa.
I bambini di Gaza si spartiscono l’agenda politica italiana insieme allo sgombero del Leoncavallo, l’occupazione abusiva delle case, l’immigrazione incontrollata, anche dei clandestini, il caso Almasri, il caso Ramy, l’immaginario volo di Stato della Meloni con la figlia, le case per gli studenti ecc. I bambini di Gaza servono alle fauci della politica perché costituiscono un boccone appetitoso per la bocca del politicante “resistente/rivoluzionario” di turno.
Il condivisibile pianto per i bimbi di Gaza deve diventare piagnisteo, nenia da prefiche ideologicamente interessate più che addolorate. Gli altri bambini, quelli delle guerre sopra dette, quelli non servono, i loro presunti carnefici non sono titolati come gli ebrei per essere odiati con costanza, dedizione e risonanza.
La sinistra italiana non sembra avere niente da dire nemmeno per le migliaia di bambini cinesi che vengono sfruttati dai loro connazionali, proprio qui in Italia, facendoli lavorare anche di notte (alla faccia della nostra Costituzione) e di giorno dormono sui banchi di scuola. I bambini mandati a rubare dai Rom che vivono negli immensi campi nelle nostre città vanno bene, per non parlare delle borseggiatrici perennemente incinta che derubano vecchi e pendolari sui mezzi pubblici trasformando i feti che portano in grembo in uno scudo etico e giuridico: quelle sono sacre.
Certo che ho pena per i bambini di Gaza, ne ho pena due volte: perché i loro aguzzini di Hamas, i responsabili di questa guerra, li mandano a combattere a 12 anni, non gli permettono di nascondersi nelle infinite gallerie quando Israele annuncia bombardamenti. Ne ho pena perché ogni ospedale o edificio civile è stato trasformato in un covo di terroristi e deposito di armi. Ne ho pena perché la politica, sinistra, di questa sgangherata Europa fa di loro il pietoso scudo umano nel cui nome si propaganda la nuova, rozza versione dell’antisemitismo: l’antisionismo.
Così si alza il volume del doloroso pianto dei bimbi palestinesi affinché non si oda più quello, altrettanto doloroso, di altri bimbi: quelli ebrei morti il 7 ottobre 2023.

(Rights Reporter, 16 settembre 2025)

“La pace sarà possibile solo quando i palestinesi dimostreranno di amare i loro figli più di quanto odiano noi ebrei”.
Golda Meir   


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I documenti del governo di Hamas rivelano l’uso da parte del gruppo terroristico degli ospedali di Gaza

di Ludovica Iacovacci

Sono emersi documenti del Ministero dell’Interno e della Sicurezza Nazionale di Hamas a Gaza, risalenti al 2020, che mostrano in dettaglio come l’organizzazione terroristica abbia a lungo sfruttato le strutture mediche nel territorio per scopi militari.
Due documenti declassificati dall’IDF e recentemente portati all’attenzione del pubblico dall’organizzazione ONG Monitor filo-israeliana descrivono in particolare come Hamas abbia usato gli ospedali di Gaza per i propri scopi, anche per riparare e ospitare i suoi agenti e leader.
L’uso degli ospedali da parte di Hamas è stato sempre più esaminato durante la guerra di Gaza, con Israele che affronta la condanna internazionale per le operazioni dentro e intorno agli ospedali.
Hamas ha combattuto dall’interno degli ospedali e dai tunnel sotto gli ospedali durante tutta la guerra, e periodicamente ha nascosto alcuni degli ostaggi rapiti da Israele il 7 ottobre 2023, al loro interno. La legge internazionale generalmente vieta di prendere di mira gli ospedali in tempo di guerra, ma gli ospedali possono perdere questa protezione se vengono utilizzati per scopi militari.
NGO Monitor ha sostenuto che i documenti ministeriali dimostrano la strategia deliberata di Hamas di “incorporare le sue infrastrutture militari, i suoi combattenti e la sua leadership all’interno di ospedali e strutture mediche a Gaza” e quindi “violando il diritto internazionale e mettendo in pericolo la vita dei civili”.
In un documento del Ministero dell’Interno e della Sicurezza Nazionale di Hamas del 25 febbraio 2020, il Meccanismo di Sicurezza Interna di Gaza del ministero ha dichiarato che il Ministero della Salute di Gaza era una delle più grandi agenzie governative del territorio.
“Queste strutture sanitarie sono un luogo di incontro per numerosi leader del movimento [Hamas] e del governo durante i periodi di escalation”, afferma il documento. Il documento conteneva anche informazioni che testimoniano la presenza delle forze terroristiche e paramilitari di Hamas.
Nel documento è stato affermato che l’organizzazione Medici Senza Frontiere (MSF) Francia “ha scelto l’unica stanza nell’ospedale Abu Yousef El-Najar che ha un telefono fisso di comunicazione (sicura) che appartiene all’attività del positivo, in modo che MSF ci lavori separatamente”.
Secondo la ONG Monitor, “Il positivo” è un termine noto per le Brigate Al-Qassam di Hamas, il nome delle forze terroristiche e paramilitari del gruppo terroristico.
Un secondo documento, datato 17 marzo 2020, ha dettagliato le direttive di Hamas per limitare l’accesso al personale delle organizzazioni umanitarie straniere negli ospedali e nelle strutture mediche di Gaza per impedire loro di incontrare gli agenti di Hamas.
“I documenti interni di Hamas esaminati in questo rapporto espongono una strategia sistematica di Hamas per militarizzare il sistema sanitario di Gaza, utilizzando ospedali e strutture mediche come estensioni del suo apparato militare e di sicurezza”, ha dichiarato NGO Monitor.
I centri medici a Gaza non sono solo spazi di trattamento, ma servono piuttosto come centri per la leadership di Hamas, punti di raccolta per gli agenti, zone sicure per i terroristi feriti e luoghi per infrastrutture di comunicazione sicure.
“Questo accordo è fondamentalmente incoerente con il principio della neutralità medica a Gaza, trasformando gli spazi umanitari in strutture a duplice uso che servono sia a scopi medici che militari”.

(Bet Magazine Mosaico, 16 settembre 2025)

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Emmy, l’influencer Emily Austin illumina il red carpet con la Stella di David e il fiocco giallo

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“Al contrario di coloro che cercano di boicottare Israele e alimentare l’antisemitismo, scelgo di mettere in luce ciò che conta di più: gli ostaggi, il cui tempo sta per scadere. Dobbiamo concentrarci su di loro e riportarli a casa”. Queste le parole dell’influencer ebrea americana Emily Austin, presente alla 77esima edizione degli Emmy Awards, a Los Angeles.
  Sul red carpet Austin ha sfilato indossando una collana con la Stella di David e mostrando la borsetta con il fiocco giallo, simbolo di solidarietà per gli ostaggi. “Questo red carpet potrebbe essere pensato per celebrare l’intrattenimento e la televisione. Per me è un palcoscenico per ricordare al mondo la loro storia” ha sottolineato l’influencer.
  Di fatto, la nota passerella americana, oltre ad essere luogo di glamour nonché fulcro culturale e artistico, si è trasformata in un palco dove esprimere le proprie convinzioni politiche. Fra gli altri, l’attore spagnolo Javier Bardem ha sfilato con la kefiah al collo. Intervistato da ‘Variety’, Bardem, tra i promotori di Film Workers for Palestine, ha ribadito il suo sostegno al popolo palestinese. Ha inoltre parlato della Vuelta, la gara ciclistica di Spagna, elogiando i manifestanti propal che hanno bloccato il percorso.

(Shalom, 16 settembre 2025)

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