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Notizie su Israele 218 - 12 gennaio 2004

1. Una lettera ufficiale di Hezbollah a Jacques Chirac
2. Giustizia internazionale?
3. Dialogo tra ebrei sull'antisemitismo
4. Gli attentati palestinesi e i colloqui di pace
5. Ammazzare israeliani è un affare per i terroristi
6. Una rivista di Al Qaeda per l'addestramento dei terroristi
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Gioele 3:16-17. Il SIGNORE ruggirà da Sion, farà sentire la sua voce da Gerusalemme, e i cieli e la terra tremeranno; ma il Signore sarà un rifugio per il suo popolo, una fortezza per i figli d’Israele. «Voi saprete che io sono il Signore, il vostro Dio; io dimoro in Sion, il mio monte santo; e Gerusalemme sarà santa, e gli stranieri non vi passeranno più.»
1. UNA LETTERA UFFICIALE DI HEZBOLLAH A JACQUES CHIRAC




In risposta alla posizione pubblica assunta da Jacques Chirac contro l'uso del velo islamico nelle scuole, Mohamed Hussein Fadlallah, alto rappresentante di Hezbollah, ha scritto il mese scorso una lettera ufficiale al Presidente della Repubblica francese. Riportiamo la traduzione integrale di questo interessante documento, ricordando che Jacques Chirac ha sempre cercato di impedire che Hezbollah fosse classificato tra i gruppi terroristici.


S.E.M. Jacques Chirac, Presidente della Repubblica francese

Signor Presidente,

Considerata la nostra responsabilità, nel nome dell'Islam e dei Musulmani, di aprirsi all'Altro e alle sue opinioni su questioni che possono essere all'origine di una divergenza di punti di vista, intellettuale o giuridico,

Considerato il fatto che noi stimiamo al suo giusto valore il ruolo politico della Francia - sotto il Suo mandato - nelle questioni libanesi, arabe e francesi, e la convergenza delle nostre posizioni e dei nostri interessi, nonostante alcune divergenze di opinione su certi punti che possono dar luogo a visioni differenti, ciò che è normale e naturale, su tutti i piani,

Considerato il nuovo dibattito su una questione delicata che tocca il cuore stesso dell'Islam, e senza dubbio il cuore stesso della laicità aperta alle questioni riguardanti le libertà personali nel mondo, dibattito che ha condotto il comitato francese - che ha studiato la questione dell'uso del velo islamico nelle scuole francesi - a redigere un rapporto in favore della decisione di una legge che vieta alle giovani musulmane di portare il velo nelle scuole, rapporto che Lei ha approvato e che conta di presentare al voto del Parlamento francese per promulgarlo sotto forma di legge,

Noi desideriamo aprire con Lei il seguente razionale dialogo:

Primo. Negli interventi sull'uso del velo, come anche nel rapporto e nelle differenti prese di posizione, abbiamo letto che il velo rappresenta un simbolo religioso che potrebbe urtare alcune suscettibilità, e perfino dare l'impressione di un'aggressione verso gli altri scolari. Abbiamo anche letto che il velo inasprirebbe il senso comunitario in seno alla società, toglierebbe all'individuo e alla società la loro laicità... Coloro che hanno formulato queste osservazioni ne hanno dedotto che conviene adottare una legge che protegga la società, per risparmiarle tali pericoli, cosa che vale ugualmente per tutti i simboli ostentatori, siano essi musulmani, cristiani o ebrei, al fine di dimostrare che lo Stato francese non fa discriminazione riguardo all'una o all'altra religione.

Noi vorremmo formulare alcune osservazioni a proposito dei punti sollevati da questi interventi:

1. Il velo come simbolo religioso islamico
Noi assicuriamo che si tratta di un obbligo religioso, come tutti gli altri doveri religiosi. In altri termini, non rispettare quest'obbligo equivale a commettere un peccato, allo stesso titolo degli altri peccati. Di conseguenza, ogni tentativo di fare pressione sulle giovani equivale a intervenire nelle libertà religiose individuali, cioè a perseguitare l'individuo. Il velo è diverso dalla croce per i Cristiani, dalla kippà per gli Ebrei, che non sono considerati obblighi religiosi, per quanto se ne sappia. Noi riaffermiamo tuttavia che l'interdizione rappresenta un'alienazione della libertà. Del resto, non pensiamo che l'uso del velo possa urtare le suscettibilità perché queste giovani praticano la loro religione in un modo naturale, senza alcuna provocazione, e portano il velo come altre un costume tradizionale, diverso secondo i popoli e i costumi.

2. Il velo come atto aggressivo
Non capiamo di quale aggressione si tratti, né nella sua dimensione personale, né riguardo alla scelta che ciascun individuo è libero di fare in funzione delle sue preferenze e delle sue credenze. L'uso di un costume diverso nel seno di una stessa società è un atto di aggressione contro quelli che non portano lo stesso costume?

3. Il velo come mezzo per inasprire il senso comunitario
Sono delle accuse irrealiste, strane, che non possiedono nessuna logica ragionevole. Sono le discussioni confessionali nelle scuole che potrebbero esserne rese responsabili, non l'abito religioso.

Secondo. La Francia della rivoluzione è il paese europeo occidentale che ha difeso le libertà individuali, considerate come un diritto, e che ha difeso la laicità. Sull'esempio di tutti gli inni alla libertà - anche in paesi occidentali come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, madre della democrazia - noi stimiamo che l'interdizione dell'uso del velo islamico aliena la libertà della donna musulmana, nelle scuole, nella società, e nei luoghi pubblici. Se la laicità non può essere rimessa in discussione in Francia, anche le libertà non devono esserlo, come afferma il portavoce del Segretario di Stato americano, e hanno sottolineato alcuni responsabili della Gran Bretagna.
L'interdizione dell'uso del velo rappresenta un'alienazione della libertà del Musulmano che tuttavia non ha trasgredito la legge francese, ma che non vuole che gli si impongano leggi alienanti la sua libertà come cittadino che rispetta gli impegni relativi alla sua religione, impegni che non sono una provocazione per nessuno e che non danno luogo a nessun turbamento o caos.

Terzo. Noi ci chiediamo: la laicità è ormai così fragile che i suoi difensori sono arrivati a temere un pezzo di stoffa, una kippà o una croce? Questa logica non ha senso.

Del resto, lo Stato francese è presente in tutto il mondo musulmano. Questa legge, nel caso fosse approvata, creerebbe numerose complicazioni per la Francia, nei paesi musulmani, e di queste complicazione profitterebbe un altro Stato... Noi auspichiamo che la Francia della libertà sia sempre fedele alla rivoluzione francese e ai diritti dell'Uomo, invece di creare una corrente ostile alla religione e ai suoi cittadini musulmani.

In conclusione, noi non vogliamo intervenire negli affari interni francesi, ma tenuto conto delle nostre funzioni e delle nostre responsabilità, la assicuriamo, come Musulmani, che crediamo nelle virtù del dialogo, soprattutto quando si tratta dei Musulmani e delle questioni vitali, decisive per il loro avvenire.

La preghiamo infine di gradire, Signore Presidente, l'espressione dei nostri sentimenti più rispettosi.

Beirut, 20 dicembre 2003

Mohammed Hussein Fadlallah

(Proche-Orient.info, 23 dicembre 2003)




2. GIUSTIZIA INTERNAZIONALE?




Forse la comunita' internazionale desidera proseguire nella sistematica opera di autodistruzione delle proprie funzioni, liquidate sull'altare del conflitto arabo-israeliano? Questa, e non la barriera di sicurezza israeliana, e' la vera questione su cui tra breve dovra' esprimersi la Corte Internazionale dell'Aia.
    Se la Corte Internazionale fosse una corte corretta avrebbe gia' respinto al mittente il manifesto tentativo da parte dell'Onu di politicizzarla, e con piu' di una ragione.
    Primo, perche' l'Onu ha pronunciato la sua condannato di Israele senza nemmeno preoccuparsi di aspettare il "parere consultivo" da essa stessa chiesto alla Corte Internazionale sulla stessa questione, vale a dire la legalita' della barriera di sicurezza.
    Secondo, perche' nella sua domanda l'Onu ha totalmente ignorato il terrorismo suicida, che e' la causa che rende necessaria la costruzione della barriera difensiva.
    Terzo, perche' la Corte secondo le sue stesse procedure non dovrebbe farsi carico di un "contenzioso" senza l'esplicito consenso delle parti interessate.
    Quarto, perche' la stessa Convenzione di Ginevra, quella che sarebbe violata dalla barriera di sicurezza, ammesso e non concesso che si applichi a questo caso, comunque prevede esplicitamente la costruzione di opere di auto-difesa e persino la confisca di terre per "impellenti necessita' militari".
    Nonostante tutto questo, ora ci si attende che la Corte Internazionale dell'Aia non solo discuta la questione, in aperta violazione della propria giurisprudenza e dei propri regolamenti, ma che si pronunci contro Israele. Tanto per far fare un altro passo avanti al processo di delegittimazione dello Stato di Israele.
    
(Jerusalem Post, 6.01.04 - israele.net)




3. DIALOGO TRA EBREI SULL'ANTISEMITISMO




Lettera ad un ebreo conformista

    Nei giorni scorsi ROCCA (n. 24/2003) ha pubblicato un articolo di un suo abituale collaboratore, il sociologo ebreo Giuliano della Pergola, su antiebraismo, antisemitismo e antisionismo, che esprime perfettamente il punto di vista degli intellettuali "ebrei" conformisti. Della Pergola classifica come "interpretazioni storiche reazionarie" le paure di coloro che vedono con preoccupazione il ritorno dell'antisemitismo, non solo sotto forma di antisionismo, ma anche nella forma classica di antigiudaismo. Nel contestare i loro punti di vista, e segnatamente quelli di F. Nierenstein e O. Fallaci, ma anche di G. Rossella, G. Ferrara e A. Panebianco, egli precisa che essi "non entrano nel merito dello scenario attuale, e interpretano la storia di ieri come paradigma per capire quella odierna".
    Quale sarebbe la novità della storia odierna che i vari Ferrara, Nierenstein ecc. trascurano? Secondo della Pergola questi intellettuali "non fanno i conti con la politica oppressiva dello Stato d'Israele contro i palestinesi e non fanno i conti con l'avvenuta assimilazione degli ebrei nel contesto sociale. In più, non fanno i conti con la scelta occidentale dello Stato d'Israele, con le coperture che all'Onu Israele ha sempre ottenuto all'ombra degli Stati Uniti".
    Le tensioni mediorientali, conclude Della Pergola, sarebbero l'effetto dell'asse politico Bush-Sharon, fintanto che essi resteranno al governo; ma anche dello scenario mondiale che vede, da un lato, la folla degli immigrati e marginali musulmani, dall'altro lato, gli ebrei più o meno integrati ma economicamente consolidati e filo-occidentali. In tale contesto, i palestinesi "schiacciati dagli uni e vessillo per gli altri", si trasformano simbolicamente in un popolo martire".
    Caro Della Pergola, ad esser sinceri questo tuo modo di ragionare si trova a metà strada tra i sofismi di Marx e quelli di Platone. Dov'è la "salda interpretazione analitica" che "ci mette al riparo da stupidaggini ed errori"? dove si trova, nel tuo articolo, la ricerca delle relazioni tra i fatti e l'intuizione innovativa nell'interpretare ciò che accade sotto i nostri occhi? siamo di fronte a una piatta riproposizione delle ovvietà antisemite che tutti i giorni i volenterosi possono leggere sull'Unità, Repubblica, Il Manifesto, e via discorrendo; però, secondo te, solo noi, che condividiamo le opinioni di F. Nierenstein, O. Fallaci, G. Rossella, G. Ferrara e A. Panebianco, e aggiungerei P. Ostellino e molti altri, diamo una interpretazione "reazionaria" della storia dei nostri giorni.
    E' un giornalista e scrittore islamico Joseph Farah a smentirti col sostenere (cosa che fa, peraltro, da anni) che le vere radici del conflitto arabo-ebraico non sono né 'una terra per i palestinesi', né il controllo sui luoghi santi da parte dell'Islam. "Queste due richieste, precisa Farah, non sono niente di più che inganni strategici, imprese di propaganda. Non sono altro che espedienti verbali e razionalizzazioni per il terrorismo e per assassinare gli ebrei. Il vero obiettivo di coloro che fanno queste richieste è la distruzione dello Stato d'Israele". Ma Farah, al contrario di ciò che pensi, non è affatto in imbarazzo nel riconoscere per vero ciò tutti gli studi storici sostengono, e cioè che "la Palestina è non più reale della Terra-che-non-esiste (Never-Never Land)" nel suo Intervento tenuto al Christian Coalition Symposium sull'Islam il 15 febbraio 2003 di Washington, D.C. Perché infatti, secondo gli studiosi della materia, gli arabi di Gaza o di Nazareth non sono distinguibili per cultura, per lingua né per alcun altro criterio dagli arabi di Siria, di Giordania o dell'Iraq. La sola distinzione possibile è tra sedentari e beduini, tra sciiti e sunniti. Ee è ancora Farah a ricordare che "la prima volta il nome venne usato nel 70 A.D. quando i romani attuarono il genocidio contro gli ebrei, distrussero il tempio e dichiararono che la terra d'Israele non avrebbe più avuto un'esistenza. Il nome proviene... dai Filistini, popolo conquistato dagli ebrei secoli prima. Contrariamente a ciò che Arafat vi racconta, i Filistini sono estinti da quell'epoca. Ad Arafat piace sostenere che la sua gente discenda dai Filistini. Realmente, il nome era il modo più semplice per i romani di aggiungere insulto all'ingiuria patita dagli ebrei - non solo essi furono annientati, ma la loro terra fu ridenominata col nome di un popolo che essi avevano conquistato. La Palestina non è mai esistita - né prima né poi - come stato-nazione. Essa venne governata alternativamente da Roma, dall'Islam, dai crociati cristiani, dall'Impero Ottomano e, per breve tempo, dagli inglesi dopo la I Guerra Mondiale. Gli inglesi erano d'accordo per affidare almeno una parte della terra al popolo ebraico come loro propria patria. Chi rifiutò l'idea? Gli arabi. Gli ebrei non avrebbero avuto posto nel Medio Oriente. Nessuno. Zero. Zip. Nada".
    Se la Palestina è un'invenzione storico-politica, ne deriva -come conseguenza logica - che tutta questa faccenda della 'resistenza palestinese', dei 'poveri palestinesi' e del 'popolo martire' è un bluff creato dai convergenti interessi di cattolici, comunisti e islamici reazionari per inchiodare Israele, unica società democratica in Medio-Oriente, in una situazione di stallo con la prospettiva di una sua definitiva fine, o per abbandono da parte degli stessi ebrei, oppure per distruzione dello Stato da parte degli arabi. Sono questi interessi convergenti ad aver fatto di un mafioso trafficante d'armi e di droga, e per di più vile assassino, ladro e ricattatore quale è Arafat un capo 'politically correct' ben accettato in Vaticano e nella buona società della sinistra. Cosa c'entra in tutto ciò "la politica oppressiva dello Stato d'Israele contro i palestinesi"? Non è forse oppressiva la politica dei cinesi contro il Tibet? eppure non ricordo nessuno, a parte qualche radicale o 'liberal', che se ne occupi.
    Caro della Pergola, solo chi interpreta i fatti in un'ottica conformista, nel senso di 'conforme al modello esegetico stabilito da Marx e dai suoi seguaci', può continuare a a illudersi -contro la storia e l'evidenza oggettiva - che antisionismo e antisemitismo non siano coincidenti e neppure parenti stretti. Se vi è una qualche differenza tra chi ha praticato lo sterminio ieri e chi oggi sogna di praticarlo, questa consiste nel fatto che Arafat non ha le potenzialità e capacità organizzative e tecnologiche che Hitler possedeva.
     Ma vi è un altro aspetto del tuo articolo che mi infastidisce personalmente, ed è lo stile dell'invettiva. Essa fa parte del bagaglio culturale di quegli "intellettuali" che considerano se stessi i soli

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portatori della verità; si incomincia con l'invettiva (in questo caso, col classificare gli altri come reazionari) e si finisce con i roghi, i gulag e le fosse comuni. Uno stile che i marxisti condividono con buona parte dei cattolici e degli islamici. Ma per considerare se stessi portatori di verità, occorre aver prima concepito che l'altro non ha i nostri stessi diritti. In una parola, lo stile dell'invettiva è la esplicitazione formale di quell'orientamento mentale e politico che possiamo definire 'totalitario' e che ha per suoi modelli, non già la civiltà greca e il mondo classico, ma i vari esempi di dispotismo orientale antico e moderno.
    Perciò, se proprio vogliamo procedere per classificazioni, sono ben orgogliosa di non far parte di quella folta schiera di intellettuali che portano senza vergogna la bandiera dei loro 'idola theatri' lasciando la ragione al suo sonno.
Alma Cocco, Cagliari

(Morasha.it, 08.01.2003)




4. GLI ATTENTATI PALESTINESI E I COLLOQUI DI PACE




RAMALLAH - I gruppi terroristici palestinesi spesso sincronizzano i loro attentati con le trattative di pace. Questo emerge da un rapporto di un servizio di sicurezza palestinese.
    "Gli attentati suicidi sono un elemento chiave nel combattimento tra israeliani e palestinesi", si dice nel documento. "Un'analisi delle circostanze collegate ai tempi e alla esecuzione della gran maggior parte degli attacchi, soprattutto quelli di Hamas e della Jihad islamica, mostra che la progettazione dei tempi è una questione soprattutto politica, più che di pratica militare."
    Per esempio, l'attentato al "Delfinario" in Tel Aviv aveva come obiettivo di silurare gli sforzi americani di favorire la coordinazione tra Israele e l'Autorità Palestinese nei problemi di sicurezza. Il radical-islamico Hamas ha sentito questo come una diretta minaccia, dicono gli autori del rapporto.
    Nell'attentato dell'1° giugno davanti a una discoteca sono rimasti uccisi 21 giovani israeliani. "L'attentato è avvenuto dopo due speciali incontri tra gli ufficiali dei servizi di sicurezza israeliani e palestinesi a Ramallah e a Gaza", scrivono i palestinesi nel rapporto. "Ad essi presero parte anche rappresentanti ufficiali americani, che cercarono di ristabilire il coordinamento tra le due parti."
     Nello stesso modo valutano gli autori l'attentato di Hamas alla Pizzeria "Sbarro" a Gerusalemme, due mesi dopo. Esso "avvenne mentre si facevano grandi sforzi per fermare le aggressioni nei territori dell'Autonomia", si dice nel documento. "L'atmosfera politica aveva portato anche all'iniziativa di inviare osservatori a Betlemme e a Rafah per far valere il Rapporto Mitchell. Un giorno prima dell'attentato c'era stato un incontro tra Yasser Arafat e il console americano a Gerusalemme, che era stato positivo."
    Secondo il rapporto, le forze di sicurezza palestinesi avevano già arrestato l'organizzatore dell'attacco alla pizzeria, Abdullah Albarghuti, e in questo erano state utili le informazioni israeliane. Ma l'arresto non poté più impedire l'attentato.
    Gli autori del rapporto sostengono che Hamas e Jihad hanno buoni rapporti con rappresentanti dell'Autonomia Palestinese, potendo così ottenere utili informazioni sugli sviluppi politici, come i rapporti con Israele, con gli USA e con la comunità internazionale. In questo modo i gruppi terroristici possono agire con tempestività.
    Secondo il documento, l'obiettivo primario di entrambe le organizzazioni è di "distruggere l'Autorità Palestinese e costituire un governo alternativo, il quale dovrebbe trattare, anche mentre si combatte, alle condizioni imposte da Hamas, che segue la linea degli Hezbollah."

(Israelnetz Nachrichten, 08.01.2004)




5. AMMAZZARE ISRAELIANI E' UN AFFARE PER I TERRORISTI




Dopo l'attacco contro una pattuglia di Tzahal nel villaggio arabo di Ein Yabrud nell'ottobre scorso, che ha provocato la morte di tre soldati, il braccio armato di Fatah ne ha assunto immediatamente la responsabilità. L'inchiesta condotta dallo Shin Beth ha invece dimostrato che dietro l'attentato c'era Hamas.
    Perché Fatah ha manifestato tanta fretta nel rivendicare un attentato che non ha commesso? I servizi di sicurezza generali hanno trovato una spiegazione semplice: le organizzazioni terroristiche ricevono fondi dall'estero subito dopo un attacco riuscito, cioè quando ci sono morti israeliani...
    I soldi costituiscono il problema più grande della lotta antiterroristica. I servizi di sicurezza israeliani, già molto occupati a combattere la propaganda anti-israeliana che viene fatta nei territori sotto il controllo palestinese, fanno molta fatica a risalire alle fonti finanziarie dei terroristi. Il loro compito è tanto più complicato perché certe falle del sistema economico israeliano permettono alle organizzazioni terroristiche di continuare a rimpolpare i fondi dei terroristi palestinesi. Secondo lo Shin Beth, decine di milioni di dollari arrivano ai palestinesi per il terrorismo. Questi fondi sono raccolti da organizzazioni pseudocaritative islamiche che, oltre ad aprire dispensari e giardini d'infanzia, si occupano attivamente di sostenere le famiglie dei terroristi che si fanno esplodere in Israele.
    La caduta del regime iracheno - Saddam Hussein era uno dei grandi finanziatori del terrorismo palestinese - ha contribuito a moderare il gioco. L'intervento di Abu Mazen, quando svolgeva le funzioni di Primo Ministro dell'Autorità Palestinese, ha permesso di congelare dei fondi di Hamas, contribuendo così a rinsecchire un po' le fonti finanziarie dei terroristi. Ma l'Arabia Saudita resta sempre la fonte finanziaria centrale di approvigionamento del terrorismo palestinese.

(Arouts 7, 30 dicembre 2003)




6. UNA RIVISTA DI AL QAEDA PER L'ADDESTRAMENTO DEI TERRORISTI




Recentemente Al Qaeda ha pubblicato il primo numero della rivista on-line 'Campo di addestramento Al-Battar. Rivista edita dal Comitato militare dei mujaheddin nella penisola arabica'. Al-Battar è uno pseudonimo dello sceicco Yousef Al-Ayyiri, in passato leader di Al Qaeda in Arabia Saudita e guardia del corpo personale di Osama Bin Laden, che restò ucciso l'anno scorso in uno scontro con le forze di sicurezza saudite. Questa rivista si occupa di questioni militari e integra l'altra rivista on-line di Al-Qaeda diffusa in Arabia Saudita 'La voce della jihad', che si concentra invece sull'ideologia. Il primo numero ospita articoli di Seif Al-'Adel e di Abd Al-'Aziz bin 'Issa bin Abd Al-Mohsen noto anche come Abu Hajer . Presentiamo una panoramica del primo numero:


Il compito di Al-Battar

L'introduzione di questo numero afferma: "Prepararsi [per la jihad] è un comandamento personale che si applica a ogni musulmano anche quando la jihad stessa è un comandamento che si applica [solo] a tutti i musulmani intesi come comunità, e ciò vale tanto più in questo momento in cui la jihad è diventata un comandamento rivolto a ogni musulmano individualmente, con lo scopo di respingere l'aggressione del nemico che ha invaso la terra musulmana".

"Siccome molti dei giovani dell'Islam non sanno come si portano le armi, per non parlare di come usarle, e siccome gli agenti dei 'crociati' stanno azzoppando i musulmani e impedendo loro di pianificare la jihad nel nome di Allah, i vostri fratelli mujaheddin in Arabia Saudita hanno deciso di pubblicare questo libretto che possa servire al fratello mujaid che si trova in un luogo isolato, e lui si eserciterà e agirà secondo le informazioni militari che vengono qui accluse …"

"Questi sono tempi di jihad e di preparazione alla jihad. All'epoca dell'invasione dei mongoli gli abitanti di Bagdad non furono aiutati molto dal fatto che la maggior parte di loro erano religiosi e maestri … "

In un editoriale Abu Thabit Al-Najdi scrive: " … Il campo di addestramento Al-Battar è una nuova rivista del comitato militare dell'organizzazione di Al Qaeda nella penisola saudita … ed è data in dono ai giovani dell'Islam il cui cuore arde dal desiderio di sostenere la religione per mezzo della jihad per amore di Allah".


Diffondere la cultura militare fra la gioventù

"L'idea che sta alla base è la diffusione della cultura militare fra i giovani, con lo scopo di riempire il vuoto che i nemici della religione hanno cercato di allargare per molto tempo. Col volere di Allah, la rivista sarà facile e semplice, e in essa, fratello mio musulmano, troverai lezioni di base nel quadro di un programma di addestramento militare, cominciando con programmi di addestramento sportivo, attraverso tipi di armi leggere e azioni di gruppo di guerriglia nelle città e nelle montagne, non trascurando punti importanti nella sicurezza e nello spionaggio, così che sarai in grado di … adempiere l'obbligo religioso che Allah ti ha imposto …"


Costituire campi di addestramento in Arabia Saudita

L'articolo successivo, di Mu'aadh Mansour, che si intitola 'L'importanza della preparazione militare nella Shari'a', dice: "La nazione islamica è oggi in aspro conflitto con i crociati, i loro collaboratori fra gli ebrei, e gli apostati. I nemici della religione si sono alleati per combattere con ogni mezzo possibile i mujaheddin – mezzi militari, di intelligence, logistici, economici e i media – e non vi è stratagemma per combattere i mujaheddin a cui non abbiano fatto ricorso … "

"I musulmani oggi amano questo mondo, odiano la morte e si allontanano dalla jihad, e perciò Allah li ha sottomessi ai popoli infedeli che li umiliano. Questo è il castigo divino inflitto a chiunque abbandoni la jihad … "

"Pertanto, nella convinzione dell'importanza della preparazione, è stato creato questo campo di addestramento [virtuale]. Porta il nome di Al-Battar, per i grandi sforzi compiuti dallo sceicco Yousef Al-Ayyiri [conosciuto anche come Al-Battar] per venire in aiuto dei musulmani in molti paesi dell'Islam. Una delle sue ultime benedette imprese fu la creazione di vari campi di addestramento nel paese dei due Luoghi Santi [ossia l'Arabia Saudita], da cui sono usciti molti degli eroi mujaheddin … "!


'Ragioni per la guerra'

La rivista presenta anche una lunga rassegna di Al-Baraa Al-Qahtani sul kalashnikov, seguito da un vecchio articolo di Al-Ayyiri stesso sull'importanza dello sport nell'addestramento dei mujaheddin.

Poi presenta un poema di Muhammad Al-Najdi, 'Un messaggio ai ventisei', in onore dei "fedeli mujaheddin i cui nomi figurano nella lista dei 26 [ricercati, pubblicata dalle autorità saudite] e degli altri mujaheddin della penisola arabica". Segue al poema un articolo di Abu Hajer (Abd al-'Aziz bin 'Issa bin Abd Al-Mohsen), il primo di una serie sulla 'Guerriglia', che afferma: "Le ragioni per la guerra possono dividersi in due parti:

1) Guerre giuste, intraprese da un gruppo o da popoli la cui volontà è stata saccheggiata e che è represso e oppresso, contro l'invasore e il saccheggiatore o contro un tiranno. Lo scopo è rimuovere l'oppressione e l'aggressione e combattere per amore di Allah al fine di imporre la shari'a, sì che la parola di Allah regni suprema. Esempi di questo tipo di lotta sono le lotte che avvengono nella terra dei due Luoghi Santi, in Palestina, in Afghanistan, in Iraq, in Cecenia, in Kashmir, nelle Filippine e così via.

2) Guerre di oppressione, scatenate dalle forze di oppressione contro i repressi, che hanno lo scopo di subentrare alla fede, sostituire le leggi religiose, PERMITTING THE LANDS e saccheggiare le risorse …

Vi è poi un articolo di Abdallah Al-Badrani, 'La guerra dei crociati', che mette in guardia i musulmani dall'offrire il benché minimo aiuto ai 'crociati'. Esso dice: "Sappi, fratello, se vuoi salvarti nel mondo a venire … che chiunque aiuta gli infedeli contro i musulmani in qualunque modo, forma o aspetto, è un apostata, anche se prega e digiuna, e anche se si alza di notte [per la preghiera] … "

L'ultimo articolo, 'Una posizione religiosa', scritto da Seif Al-'Adel, sottolinea il problema della sicurezza e dello spionaggio. L'autore spiega che mentre in tempo di guerra bisogna guardarsi dai nemici, in tempo di pace si deve stare in guardia dalle spie nemiche. Fa appello ai membri di Al-Qaeda a stare attenti a non esporsi, e insieme presenta esempi della vita del Profeta Maometto e dei suoi seguaci.


Impiantare campi di addestramento dovunque

Alla fine del numero, la rivista dice: "Fratello mujahid, per addestrarti nei grandi campi non hai bisogno di andare in altri paesi. Da solo, a casa tua, o con un gruppo di confratelli, anche tu puoi cominciare a realizzare un programma di addestramento. Potete partecipare tutti al campo di addestramento Al-Battar".

(The Middle East Media Research Institute, 09.01.2004)




7. MUSICA E IMMAGINI




Uri Tsyon




8. INDIRIZZI INTERNET




Lo Stato d'Israele

Ariel Ministries




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