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Notizie su Israele 224 - 19 febbraio 2004

1. I giornalisti palestinesi si ribellano ad Arafat
2. «Nessuno ha il diritto di cedere la terra d'Israele»
3. Gli insediamenti israeliani sono il vero ostacolo alla pace?
4. Persino peggio dell'antisemitismo tradizionale
5. Una «barriera di sicurezza» di cui non si parla
6. Ebrei tedeschi trovarono rifugio in Italia durante il nazismo
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Deuteronomio 30:4-6. Quand'anche i tuoi esuli fossero all'estremità dei cieli, di là il Signore, il tuo Dio, ti raccoglierà e di là ti prenderà. Il Signore, il tuo Dio, ti ricondurrà nel paese che i tuoi padri avevano posseduto e tu lo possederai; ed egli ti farà del bene e ti moltiplicherà più dei tuoi padri. Il Signore, il tuo Dio, circonciderà il tuo cuore e il cuore dei tuoi discendenti affinché tu ami il Signore, il tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua, e così tu viva.
1. I GIORNALISTI PALESTINESI SI RIBELLANO AD ARAFAT




La rivolta dei giornalisti palestinesi: il rais Yasser ci tappa la bocca


di Dimitri Buffa
   
Imbavagliati contro la repressione della libertà di stampa nei Territori Occupati amministrati dall'Anp di Arafat. Così l'altro ieri oltre duecento giornalisti palestinesi si sono presentati nella sede del consiglio
legislativo di Ramallah occupandolo per protesta contro gli attentati e le intimidazioni subite negli ultimi mesi. Cioè da quando qualcuno di loro ha avuto la malaugurata idea di cominciare a fare le pulci alla dirigenza palestinese, a cominciare dal rais palestinese.
    Lo stile era quello di Pannella anni '70 in Rai. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l'aggressione notturna che lo scorso 13 febbraio ha subito Munir Abu Rezeq, direttore degli uffici di corrispondenza a Gaza. È stato picchiato all'uscita della redazione e lasciato svenuto per strada. Nessuno ha rivendicato l'agguato. Ma già prima di lui erano stati in molti a venire intimiditi. Valgano per tutte le aggressioni con protagonisti passivi i corrispondenti di tv come Al Arabica e al Jazeera (nonché quelle contro giornalisti di quotidiani yemeniti) che avevano anche dichiarato ai giornali israeliani il perché delle aggressioni subite dagli uomini della sicurezza di Arafat.
    Tre settimane fa ad esempio – e solo la stampa israeliana ne aveva dato notizia - il corrispondente di al-Arabiya da Gaza, SeifShahin, era stato aggredito e picchiato a sangue mentre transitava nei Territori Occupati. I teppisti, armati fino ai denti, gli hanno detto di essere miliziani di Fatah e hanno spiegato al corrispondente che quella era la ricompensa per avere osato parlare della corruzione interna all'Anp e per avere ridicolizzato le cerimonie paramilitari con cui si era celebrato il 39esimo anniversario della fondazione della città di Gaza.
    Sembra che in quell'occasione centinaia di terroristi abbiano messo a ferro e fuoco la città e la popolazione con saccheggi, stupri di gruppo e razzie varie per un totale di danni di oltre sei milioni di dollari. Non era la prima volta che Shanin venne fatto oggetto di simili gentilezze. In un'occasione dichiarò alla stampa dello stato ebraico che "se continueranno a non intervenire, tutto ciò non potrà che configurarsi come un attentato alla libertà di stampa nei territori palestinesi da parte delle autorità di governo".
    C'è da dire che da tempo a monitorare i buoni e i cattivi, e magari a punire chi sgarra, sono stati designati da Arafat gli uomini della Palestinian brodcasting corporation, cioè la proprietaria di Radio voice of Palestina, l'emittente nazionale di Arafat nota per la truculenta propaganda antisemita. Proprio due mesi fa uno dei proprietari aveva detto pubblicamente che "..quasi tutti i corrispondenti radio-televisivi arabi devono essere rieducati politicamente e culturalmente a proposito della situazione interna al mondo arabo e ciò dovrebbe essere fatto dal Palestinian journalist sindacate, sebbene persino alcuni dei suoi dirigenti avrebbero bisogno di essere rieducati.
    Anche il ministero dell'Informazione palestinese dovrebbe avere il compito di aggiornare questi corrispondenti, insegnando loro quali sono le espressioni che si usano nella nostra vita politica".
    Cioè martiri per terroristi, combattenti al posto di assassini e così via.
    Adesso i giornalisti palestinesi e quelli arabi che fungono da corrispondenti per il Medio Oriente hanno osato venire allo scoperto con la manifestazione di lunedì pomeriggio, sperando che la notizia rimbalzi presso l'opinione pubblica europea. Si ignorano eventuali conseguenze del gesto ma molti temono che nei prossimi giorni gli organizzatori dell'happening debbano guardarsi le spalle.
    Nella Palestina di Arafat a chi manifesta per la libertà di stampa, specie se arabo, può capitare in sorte anche di morire in un'aggressione.

(Libero, 18.02.2004 - ripreso da Informazione Corretta)




2. «NESSUNO HA IL DIRITTO DI CEDERE LA TERRA D'ISRAELE»




Più di duecento rabbini hanno partecipato martedì sera al grande meeting che si è tenuto all'hotel Ramada Renaissance di Gerusalemme. L'incontro era organizzato dall'«Unione dei rabbini per il popolo d'Israele e la terra d'Israele e per il rispetto della Torah» e aveva come obiettivo di denunciare il piano del Primo Ministro, che ha annunciato recentemente la sua intenzione di evacuare 17 località ebraiche della striscia di Gaza.
    Il rabbino di Bat Yam, David Hai Hacohen, ha dichiarato nella sua allocuzione che «lo smantellamentamento di località è un crimine imperdonabile contro il popolo ebraico». E ha aggiunto: «Un accordo in questo spirito è simile a quello concluso a Monaco con i nazisti.»
    L'anziano Gran Rabbino d'Israele, Abraham Shapira, ha preso la parola per affermare che «l'esperienza ha dimostrato che quelli che toccano la terra d'Israele o progettano di arrecarle danno, perdono automaticamente il potere». Ha inoltre dichiarato: «Noi siamo qui nel nome della Torah per incoraggiare e attingere nuove forze. Mettiamo in guardia e agiremo, anche se per questo fosse necessario invitare il pubblico a ritrovarsi nella striscia di Gaza, nel Gush Katif. Noi lo faremo con forza e coraggio, per rinforzare la nostra presenza sul posto al fine di impedire la minima evacuazione e il minimo sradicamento».
    Il rabbino Mordehai Eliahu, Rishon LeZion, ha dichiarato che nessuno ha il diritto di cedere anche la minima parte della terra d'Israele, sottolineando che non appartiene ai dirigenti del paese. Evocando l'eventualità di un referendum, ha detto che i suoi risultati non cambierebbero in nulla la situazione.
    Il rabbino di Elohn, Moré Eliakim Levanon, ha dichiarato che se il Primo Ministro si reca negli Stati Uniti e incontra il presidente Bush, deve sapere che gli consegna un «assegno a vuoto».
    Alla fine del meeting è stato distribuito al pubblico un trattato contentente il seguente testo:
    «Il diritto e il dovere del popolo d'Israele sulla sua terra sono eterni e validi per tutte le generazioni. Il progetto di sradicamento di località fiorenti è contrario allo scopo fissato dalla Torah ed è vietato associarsi ad essp.»
    In seguito il testo dice che «secondo la legge ebraica, nessun uomo, dal più semplice al più prestigioso, ivi compreso il Primo Ministro o qualsiasi altro uomo politico, ha il diritto di promuovere un progetto così distruttivo»
    Il testo poi continua così: «Facciamo appello a tutti i partiti, ai ministri e ai deputati, ai fedeli al D. d'Israele e alla sua terra, di fare in modo che questo piano sia rigettato, se mai il governo dovesse adottarlo. Se nonostante tutto il Primo Ministro si recherà a Washington per esporre il suo programma senza la decisione del suo governo, i fedeli alla Torah e alla terra d'Israele devono abbandonare la coalizione».
    La deputata del partito d'estrema sinistra Meretz naturalmente ha subito reagito a questi propositi e immediatamente ha chiesto al consigliere giuridico del governo di esaminarli, al fine di determinare se non si tratti di incitamento alla violenza contro il capo del governo. Ha inoltre qualificato i rabbini come «bombe a scoppio ritardato».
   
(Arouts 7, 18.02.2004)





3. GLI INSEDIAMENTI ISRAELIANI SONO IL VERO OSTACOLO ALLA PACE?




Sharon si smarrisce sugli "insediamenti" israeliani

di Daniel Pipes

    Il primo ministro israeliano Sharon si è liberato di decenni di storia e ha manifestato l'intento di ritirare tutti gli insediamenti israeliani da Gaza e alcuni dalla Cisgiordania . Agire in tal modo solleva una questione di fondo: nel grande schema dei rapporti israelo-palestinesi che peso hanno questi "insediamenti"?
    (Pongo la parola insediamenti tra virgolette, in quanto il vocabolario definisce questo termine come "una piccola comunità" o un raggruppamento di persone "in una nuova regione". Ciò rappresenta in modo impreciso le abitazioni ebraiche in questione, molte delle quali vantano da parecchi decenni decine di migliaia di residenti in loco.)
    Alcuni analisti ritengono che gli ebrei che vivono in Cisgiordania e a Gaza costituiscano uno degli ostacoli più importanti alla risoluzione del conflitto israelo-plaestinese. Ad esempio:

  • Thomas Friedman del New York Times: "Israele deve andarsene al più presto dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza ed evacuare la maggior parte degli insediamenti. Lo sostengo da tempo, ma adesso questa è diventata un'urgente necessità. Diversamente, lo Stato ebraico sarebbe in pericolo. L'ideale sarebbe stato se questo ritiro fosse stato negoziato col piano Clinton. Ma se necessario, dovrebbe essere fatto unilateralmente. Ciò non accadrà troppo presto e gli Stati Uniti dovrebbero essere obbligati a farlo".
  • Jean AbiNader dell'Arab American Institute: "Gli insediamenti rappresentano il maggiore ostacolo politico ad una risoluzione del conflitto".
  • Dennis Kucinich, candidato democratico alle presidenziali: "Gli insediamenti israeliani rappresentano un ostacolo significativo ad una possibile pace tra Israele e i palestinesi".
    Dissento da questa disputa per due principali motivi:
    Innanzitutto, ciò presume che gli arabi palestinesi cerchino solo di ottenere il controllo sulla Cisgiordania e Gaza, mentre è provato che la loro aspirazione sia quella altresì di andare oltre e di avere il controllo proprio su Israele. Pertanto, togliere gli israeliani dai territori non è un'ottima idea.
    In realtà, è probabilmente dannoso. Immaginiamo che gli israeliani siano stati sradicati e che le forze di difesa israeliane siano state fatte ritirare ai confini del 1967 - e dopo? I signori Friedman, AbiNader e Kucinich suppongono che gli arabi palestinesi sarebbero grati e premierebbero Israele curando i loro stessi giardini, permettendo tranquillamente ad Israele di vivere in pace.
    Ma io mi aspetto una reazione del tutto diversa: gli arabi palestinesi vedranno nella ritirata di Israele un segno della sua debolezza, vedranno che esso tende a rabbonirli mediante concessioni eccessive e che è vulnerabile. Lungi dal mostrare gratitudine, pretenderanno di più. Con Jenin e Ramallah nelle fauci, Gerusalemme sarà la prossima nell'agenda, seguita da Tel Aviv e Haifa.
    Il che implica che Israele è destinato a stare attento alle sue città e alle comunità della Cisgiordania e di Gaza. Esse potrebbero essere un inconveniente tattico e politico, ma vanno conservate e difese. Agendo diversamente si farebbe intendere agli arabi palestinesi che si è aperta la stagione della caccia a Israele, incitando in tal modo a una maggiore violenza rispetto alla ventina di incidenti che si verificano quotidianamente.
    In secondo luogo, l'intento di Sharon di sradicare le abitazioni israeliane presume una grossa, e forse insuperabile, barriera alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Io al contrario lo considero un ostacolo di minore entità. Una volta che gli arabi palestinesi accetteranno totalmente e irrevocabilmente, a parole e a fatti, l'esistenza di uno Stato ebraico, si apriranno tutte le prospettive per porre fine al conflitto.
  • Confini rettificati. Come lo stesso Sharon ha proposto la scorsa settimana, l'area "triangolare" a nord di Israele, in cui la maggior parte della popolazione è araba, potrebbe essere soggetta a scambio.
  • Sovranità non-contigua. Gli ebrei che non risiedono nel territorio israeliano potrebbero vivere sotto il dominio israeliano.
  • Sovranità palestinese. Una volta che gli arabi palestinesi accetteranno davvero la presenza sionista, allora gli ebrei presenti nei territori potrebbero vivere sotto il dominio palestinese.
    Di certo, simili schemi, al presente, possono sembrare utopie. Ma quando gli arabi palestinesi finiranno coll'avere un ripensamento, quando accetteranno l'esistenza di Israele e desisteranno dal ricorrere all'uso della forza contro di esso, avranno luogo tutti i positivi sviluppi per mettere da parte le questioni odierne apparentemente difficili.
    E alla domanda: "Come sapremo se questo ripensamento avverrà?", risponderei in tal modo: quando gli ebrei che vivono a Hebron (in Cisgiordania) non avranno più bisogno di sicurezza rispetto agli arabi che vivono a Nazareth (in Israele).
    Finché questo felice giorno non arriverà, la questione degli ebrei che risiedono nei territori è probabilmente quella meno importante da affrontare da parte degli strateghi e dei presunti diplomatici che, invece di focalizzarsi su questa trivialità politica, dovrebbero escogitare il modo per indurre gli arabi palestinesi a riconoscere l'esistenza di uno Stato ebraico sovrano, chiamato Israele. Finché ciò non accadrà, nessuna altra iniziativa potrà sortire l'effetto voluto.
   
(New York Sun, 10 febbraio 2004)




4. PERSINO PEGGIO DELL'ANTI-EBRAISMO TRADIZIONALE




da un articolo di Amnon Rubinstein

    Lo scorso novembre Neil Mackay, uno degli editorialisti del giornale scozzese Sunday Herald, pubblico' un articolo nel quale riproponeva la calunnia - da tempo in circolazione in molti ambienti arabi - secondo cui agenti del Mossad negli Stati Uniti sapevano in anticipo dell'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre ma non fecero nulla per impedirlo. Fino ad allora questa paranoica accusa era rimasta quasi completamente confinata ad alcuni ambienti estremisti arabi e neonazisti.
    Ma il giornale di Glasgow ritenne appropriato divulgare la menzogna senza neppure citare la fonte, come se si trattasse di un fatto perfettamente attendibile.
    L'articolo lascio' sbalorditi due esponenti della comunita' ebraica, il parlamentare laburista Jim Murphy e Lord Greville Janner, i quali protestarono vivacemente chiedendo al direttore del giornale di pubblicare una rettifica. Cosa che il direttore si rifiuto' di fare, sostenendo che il servizio era basato su fonti verificate. Nella risposta, il direttore suggeriva piuttosto a Lord Janner di non cadere nella trappola di Ariel Sharon accusando di antisemitismo chiunque si mostri in disaccordo con il primo ministro israeliano. Curioso suggerimento, visto che Lord Janner non aveva mosso nessuna accusa del genere.
    Per lo stato d'Israele, la risposta piu' diretta al direttore del Sunday Herald sarebbe quella di querelare il giornale per diffamazione a mezzo stampa, cosa che il ministero degli esteri israeliano sta effettivamente prendendo in considerazione.
    Ma il problema e' che l'articolo del giornale scozzese non rappresenta che un esempio estremo delle aggressioni furibonde ed isteriche di cui Israele e' fatto oggetto, e non solo a causa dell'occupazione e degli insediamenti. Aggressioni che descrivono Israele in modo virulento come un paese mostruoso, che sarebbe capace non solo di fare tutto il male possibile ai palestinesi, ma persino di non impedire una strage di massa a New York solo perche' tornerebbe utile ai suoi interessi.
    Chiunque conosca anche solo un poco Israele sa che, naturalmente, Israele non a nulla a che vedere con il paese che viene descritto in molti organi di informazione anche molto importanti, e che le menzogne dette sul suo conto infrangono ogni regola di buon giornalismo. I servizi di questi mass-media ignorano completamente la complessita' della societa' israeliana e presentano Israele come

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una assurda caricatura: la stessa che appare ogni giorno sulla stampa araba, dove Israele viene ritratto come un mostro che calpesta i poveri arabi.
    Le cose sono arrivate a un punto tale che, durante una conferenza sull'antisemitismo organizzata due settimane fa dal ministro Natan Sharansky, un delegato ebreo svedese ha espresso soddisfazione per l'incidente che ha visto l'ambasciatore israeliano a Stoccolma danneggiare un'opera d'arte che ai suoi occhi glorificava la terrorista suicida della strage al ristorante Maxim di Haifa.
    Era contento, spiego' il delegato, perche' grazie a quell'incidente molti svedesi hanno sentito parlare per la prima volta del terrorismo contro civili israeliani.
    Tutto questo e' antisemitismo? Sentimenti antisemiti certamente aiutano a scrivere cose infamanti contro Israele, ma non possono spiegare tutto. Qui c'e' in gioco qualcos'altro. Tradizionalmente l'ostilita' anti-ebraica rigetta la presenza di ebrei nella societa' cristiana, ma - almeno in linea di principio - non nega loro il diritto di condurre un'esistenza separata, magari segregata, da qualche altra parte. Prima della Kristallnacht, la "Notte dei Cristalli", persino i nazisti predicavano "fuori gli ebrei dalla Germania". Il tono anti-ebraico di giornali come il Sunday Herald nega invece agli ebrei il diritto di esistere in modo separato, negando legittimita' allo Stato di Israele che essi descrivono (grazie anche all'aiuto di alcuni accademici israeliani) come uno stato nazista e da apartheid. E' chiaro quale sia la conclusione logica di articoli calunniatori come quello del Sunday Herald: un paese democratico che e' a conoscenza di un piano volto a perpetrare un massacro a New York e non fa nulla per impedirlo, e' un paese incivile che non ha nemmeno il diritto di esistere. E questo e' persino peggio dell'antiebraismo tradizionale. E' negare il diritto del popolo ebraico all'autodeterminazione.
    Quando opinioni di questo genere si accompagnano alla ripresa delle piu' tradizionali manifestazioni di antisemitismo, significa che stanno tornando tempi cupi.

(Ha'aretz, 16.02.04 - israele.net)




5. UNA «BARRIERA DI SICUREZZA» DI CUI NON SI PARLA




Il muro di separazione saudita

di Yotam Feldner
direttore delle ricerche presso MEMRI


Sfondo storico

    Due mesi fa il governo saudita cominciò a costruire una barriera lungo la frontiera con lo Yemen per cercare di separare i residenti lungo entrambi i lati del confine. Il confine fra i due paesi era fissato nel trattato di confine di Gedda del 2000, che comprendeva una zona neutrale larga 20 chilometri, come striscia di pascolo permessa a entrambe le parti. La costruzione della barriera irritò la tribù Wayilah del lato yemenita, che già prima della costruzione aveva avanzato riserve sull'ubicazione del confine.
     La tribù Wayilah possiede circa 200 veicoli militari e migliaia di fucili e in passato ha intrapreso violenti combattimenti contro la tribù saudita Yam. Nel 2000 ha combattuto la tribù saudita Dahm, che si diceva avere il sostegno del governo saudita.
     Il defunto capotribù Wayilah, lo sceicco bin Shag'e, che morì nel 2002 in circostanze misteriose, aveva affermato di essere in possesso di documenti vecchi di 240 anni che provavano il possesso da parte della tribù delle terre comprese nel trattato di Gedda. L'Arabia Saudita cercò di placare i Wayilah, concedendo la cittadinanza saudita a 500 di essi, ma la tribù nondimeno si sollevò in varie occasioni, non ultima quando le autorità saudite arrestarono uno sceicco sciita della tribù e chiusero la sua moschea (1).


La tribù Wayilah: non riconosciamo il confine 

    Quando l'Arabia cominciò a costruire la barriera di separazione, la tribù Wayilah annunciò che se i sauditi non avessero interrotto i lavori e non ne avessero cancellato ogni traccia da quella zona, avrebbero 'fatto saltare tutto in aria", compreso il trattato di Gedda. Essi paragonavano il muro saudita a quello israeliano, e sostenevano che lo stavano costruendo cinque chilometri oltre la frontiera dentro il territorio yemenita.
     I Wayilah  affermavano anche di non riconoscere le frontiere internazionali che passavano attraverso il loro territorio e facevano a pezzi la loro unità tribale, per non parlare della barriera che per quanto li riguardava violava i loro diritti umani. Dicevano: "Il sangue di migliaia dei membri della nostra tribù è stato versato in guerre tribali contro la tribù saudita Yam per causa della frontiera … e i nostri uomini sono pronti a sacrificare la loro vita per difendere le frontiere delle loro terre tribali".
     I Wayilah sostenevano che i confini delle tribù fra Wayilah e Yam vennero fissati con accordi tribali scritti ancor prima della costituzione degli stati saudita e yemenita e che questi accordi vennero ufficialmente riconosciuti dal primo monarca saudita Abd Al-'Aziz Aal Saud e dalla monarchia yemenita durante l'epoca dell'Imam Yahyah Hamid Al-Din
     Un comunicato pubblicato dalla tribù Wayiah afferma: "Rinnoviamo la nostra contrarietà agli accordi che hanno creato una barriera fra noi e le nostre terre e la nostra proprietà. Ugualmente respingiamo il principio di compensazione o la divisione della terra o della tribù … Ogni nuova strada confinaria sarà nulla e non ha niente a che fare con la strada confinaria tribale riconosciuta dalle tribù Wayilah e Yam …" (2)


Il governo saudita: islamisti dello Yemen introducono armi ed esplosivi

    Funzionari sauditi hanno dichiarato al quotidiano londinese in lingua araba Al-Sharq Al-Awsat che il "muro di tubi e cemento " non si può definire in alcun modo "una barriera di separazione". Il comandante di polizia di frontiera saudita Talal 'Anqawi ha detto: "Quello che si sta costruendo entro i nostri confini è una barriera di tubi riempiti di cemento, che hanno lo scopo di scoraggiare infiltrazioni e contrabbando … Questo sbarramento non assomiglia in alcun modo a un muro. Il luogo scelto per edificarlo si trova dentro il territorio sovrano saudita". (3)
     Anche il principe saudita di Najran, Mash'al bin Abd Al-'Aziz ha negato che lo sbarramento sia una barriera di separazione. Stando alle sue dichiarazioni, le autorità saudite hanno costruito uno sbarramento di tubi lungo 95 chilometri in una zona aperta fra due montagne per bloccare i contrabbandieri motorizzati che si infiltrano in territorio saudita, a nord della zona della striscia di 20 chilometri oggetto dell'accordo. Secondo i sauditi, la maggior parte degli esplosivi e delle armi catturata dalle forze di sicurezza saudite  negli ultimi mesi sono state contrabbandate nel paese da islamisti dello Yemen (4).


Lo Yemen sostiene che l'Arabia Saudita si è ritirata

    Stando ai rapporti dei media, i capi sia in Arabia sia nello Yemen negherebbero ogni crisi. I leader dei due paesi hanno cercato di risolvere il problema dietro le quinte, e il presidente yemenita Ali Abdallah Saleh si è recato in Egitto per mediare fra le parti. Contemporaneamente una delegazione yemenita è andata in Arabia per dirimere le questioni. Ma se si presta fede a un rapporto del giornale in lingua inglese Yemen Times, la tribù Wayiah si stava preparando alla guerra:
     "Un eminente sceicco della tribù Wayiah … ha riferito allo Yemen Times che non meno di 3000 membri della tribù si stanno preparando a combattere le forze saudite, a meno che l'Arabia non si ritiri dallo Yemen. Lo sceicco afferma che l'Arabia Saudita ha già costruito una barriera lunga da 4 a 7 chilometri al di là della zona neutrale nel territorio yemenita, che si stende da Jabal Hobash a Jabal Al Fara. 'L'Arabia Saudita ha già costruito una barriera di sicurezza nel cuore dello Yemen,' ha detto lo sceicco 'e noi siamo pronti a combattere da un momento all'altro se l'Arabia non smantella quello che ha costruito nel nostro paese' …"
     "Anche se le tribù si preparano al conflitto, martedì un funzionario governativo yemenita ha dichiarato allo Yemen Times che le autorità saudite hanno accettato di smantellare la barriera lungo i confini con lo Yemen dopo i grandi sforzi da parte di Egitto e Stati Uniti al fine di convincere le autorità saudite. 'Sia gli U.S.A. sia l'Egitto hanno fatto ogni sforzo presso Yemen e Arabia Saudita che si è concluso con un accordo per rimuovere ogni costruzione fatta dai sauditi', ha dichiarato il funzionario yemenita (5).


Note:
(1) Si veda http://www.islamonline.net/
(2) Al-Quds Al-Arabi (Londra), 9 febbraio 2004
(3) Al-Sharq Al-Awsat (Londra), 9 febbraio 2004
(4) Al-Hayat (Londra), 10 febbraio 2004
(5) Yemen Times, 12 febbraio 2004. 

(The Middle East Media Research Institute, 18.02.2004)




6. EBREI TEDESCHI TROVARONO RIFUGIO IN ITALIA DURANTE IL NAZISMO




Due mostre a Monaco sui rifugiati ebrei in Italia


Dal 12 febbraio al 15 aprile 2004 rimarranno aperte al pubblico a Monaco due mostre con l'insolito tema: "Italia, terra di rifugio durante il regime nazionalsocialista in Germania". Le mostre sono organizzate dalla "Gesellschaft zur Forderung jüdischer Kultur und Tradition e.V." in collaborazione con il "Bayerische Hauptstaatsarchiv". Curatore è il dr. Klaus Voigt, Berlino.


Esilio in Italia, 1933-1945

Centinaia di emigranti, soprattutto ebrei dalla Germania, trovarono rifugio nell'Italia fascista durante il periodo della persecuzione nazionalsocialista. Vivevano in condizioni modeste ma accettabili, in un ambiente in maggior parte ben disposto. Tanto più sentita fu quindi la svolta dopo l'introduzione delle leggi razziali fasciste nell'autunno 1938, con le quali l'esilio in Italia diventò uno dei più duri in Europa. Difficoltà, incertezza, paura di essere espulsi e - durante l'occupazione tedesca - soprattutto la paura di essere arrestati e deportati, angosciavano la vita dei profughi. Tuttavia, le spinte umane presenti nella società italiana rafforzarono in loro la voglia di vivere.
    Tra gli esiliati si trovavano anche molti artisti e scienzati, come il teorico di scienza della comunicazione Rudolf Arnheim, il filosofo Karl Löwith, lo scrittore Klaus Mann, il regista Max Reinhardt, il pittore Maler Felix Nussbaum, il compositore Artur Schnabel, l'architetto Konrad Wachsmann e altri.
I profughi alloggiati in Villa Olivieto a Civitella del Chiana durante un pasto comune

    La mostra si sofferma soprattutto su personalità della Baviera, come la famiglia dell'etnologo Erich Ortenaus, lo studioso di scienza delle religioni Friedrich Georg Friedmann, lo storico dell'arte Richard Krautheimer, l'editore Kurt Wolff e l'etruscologa dr. Eva Fiesel.
    Un'esposizione dell'Accademia dell'Arte di Berlino su artisti e scienzati tedeschi in Italia nel periodo 1933-1945 completa la mostra.
   

Bambini ebrei nella Villa Emma a Nonantola, 1942-1943     

La mostra documenta la straordinaria iniziativa di salvataggio degli abitanti della città di Nonantola (Modena), che con la loro solidarietà e il loro coraggio riuscirono a salvare dalla morte 73 bambini ebrei.
    I bambini - molti di loro già orfani - venivano dall'Austria, dalla Germania, dalla Iugoslavia e dalla Polonia, e alcuni di loro erano scappati da Lubiana in circostanze drammatiche.
    Quando scoppiò la guerra partigiana, nel luglio 1942 furono portati a Nonantola. Per un anno Villa Emma offrì asilo ai bambini e ai loro accompagnatori. I bambini ricevevano istruzione scolastica e anche un addestramento manuale ed agricolo in preparazione della loro vita in Palestina.
I ragazzi di Villa Emma vengono addestrati al lavoro nei campi

    La situazione cambiò drasticamente quando nel 1943 irruppero a Nonantola le truppe tedesche. In meno di 48 ore i 73 bambini furono nascosti nei dintorni - nel seminario parrocchiale, presso le suore e presso famiglie del luogo -, fino a che, dopo diverse settimane, fu possibile organizzare la fuga dei bambini in Svizzera.
    Lo storico tedesco dr. Klaus Voigt, Berlino, ha fatto ricerche sulla storia dei bambini di Villa Emma e ha allestito questa mostra.
    Lo sfondo storico è illustrato dall'annessa documentazione "Rifugio fino a nuovo ordine - Esilio in Italia 1933-1945".
    La mostra è patrocinata dal Comune di Nonantola, in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna e il Goethe Institut di Milano.
   
(haGalil.com, 12.02.2004)




MUSICA E IMMAGINI




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