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Notizie su Israele 228 - 13 marzo 2004

1. Intervista a Ehud Olmert
2. Sondaggio: gli israeliani vogliono la barriera
3. Umm Nidal: «La madre degli shadid»
4. Lo strazio umano che segue un attentato terroristico
5. L'Autorità Palestinese è responsabile dell'anarchia
6. L'Autorità Palestinese vuole applicare di nuovo la pena di morte
7. Un faraone in ascesa nella diplomazia mondiale
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Ezechiele 36:22-23. Perciò, di' alla casa d'Israele: "Così parla DIO, il Signore: Io agisco così, non a causa di voi, o casa d'Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete profanato fra le nazioni dove siete andati. Io santificherò il mio gran nome che è stato profanato fra le nazioni, in mezzo alle quali voi l'avete profanato; e le nazioni conosceranno che io sono il SIGNORE, dice il Signore, DIO, quando io mi santificherò in voi, sotto i loro occhi.
1. INTERVISTA A EHUD OLMERT




Ehud Olmert


Dobbiamo dividerci dai palestinesi

Intervista del quotidiano tedesco "Die Welt" al Ministro dell'Industria e Commercio del governo israeliano.

di Michael Stürmer




Die Welt: Israele si trova evidentemente davanti a un bivio. Israele è la superpotenza della regione, ma è vulnerabile di fronte al terrorismo. Deve Israele, per rimanere ebraica e democratica, costruire un muro di divisione?

Ehud Olmert: Sono domande serie. Ma atteniamoci ai fatti: l'America è una superpotenza, e tuttavia non è onnipotente. Questo non toglie nulla al suo rango di superpotenza. L'incapacità delle moderne democrazie di porre fine al terroristmo è in fondo la prova della loro autodisciplina. Si può far cessare il terrorismo se, per esempio, si distruggono totalmente i nostri vicini di Gaza. Ma noi non lo facciamo, per motivi morali. Si tratta di stabilire quale tipo di Stato vogliamo essere: democratico-ebraico o binazionale. Se rimaniamo per sempre nei territori dal Giordano al mare, fra poco ci sarà una maggioranza palestinese.

Die Welt. La barriera è la risposta?
Olmert. La barriera è un provvedimento di divisione e nello stesso tempo un mezzo contro il terrorismo. La barriera è contro il terrorismo, non contro la demografia. Possiamo fare due cose in una. Ci siamo decisi per la barriera come misura di difesa, invece di continuare a mandare dei soldati.

Die Welt. Viene sempre citata la sua frase, che Israele deve lasciare tutti gli insediamenti ad est della nuova linea di divisione. Ma dov'è che viene tirata la linea di demarcazione?
Olmert. Ci dobbiamo separare dai palestinesi. Per questo dobbiamo fare in modo di non mantenere alcun insediamento ad est della linea di divisione. Meno sono, meglio è. Il principio della divisione dovrebbe essere questo: il massimo agli ebrei, il minimo agli arabi. Noi dobbiamo stare da una parte, loro dall'altra.

Die Welt. E che cosa c'è al termine della barriera?
Olmert. Questo dipende dalle condizioni politiche, all'interno e all'esterno d'Israele.

Die Welt. Quali condizioni esterne ha in mente?
Olmert. Il sostegno politico da parte della comunità internazionale, soprattutto gli USA e l'Unione Europea.

Die Welt. Non vale anche il contrario, cioè che il sostegno esterno dipende dalla collocazione della barriera?
Olmert. Credo che il sostegno internazionale contribuirà sostanzialmente a determinare dove la frontiera sarà posta. Due elementi sono in gioco: il sostegno internazionale e il bisogno di sicurezza d'Israele.

Die Welt. In Europa è diffusa l'opinione che la barriera sia giusta, ma il posto dove è messa sbagliato.
Olmert. Se ritorniamo alle frontiere del 1967, volontariamente e senza accordi, perché i palestinesi dovrebbero considerare questo fatto come definitivo? E' impensabile di mettere la barriera sulla linea del '67. Che cosa c'è di così cattivo in una barriera di protezione che non è necessariamente permanente, ma risponde soltanto alle necessità del momento e alla minaccia del terrorismo? Nessun terrorismo, nessuna barriera. Ma questo non interferisce sulla questione della frontiera.

Die Welt. Ma che ne pensa della psicologia? Quando Israele ha ritirato le sue truppe dal Libano, doveva essere un'espressione di forza. Gli arabi invece vi hanno visto una sconfitta israeliana.
Olmert. Sì e no, la situazione è difficile. Io sono per il ritiro, anche se nuoce all'immagine di Israele, però con una differenza essenziale rispetto al Libano. La barriera è una prova di forza e una minaccia per il modo di considerare la cosa dei palestinesi, che temono la barriera e la rifiutano. Noi non scappiamo, ma riorganizziamo la difesa. A differenza che in Libano, continueremo a combattere i terroristi.

L'insediamento ebraico Netzarim
Die Welt. Il Primo Ministro Sharon ha detto qualche tempo fa che a lui l'insediamento Netzarim nella striscia di Gaza è tanto caro quanto Tel Aviv. Il governo d'Israele non sta facendo adesso una marcia indietro?
Olmert. Se qualcuno dice questo, è un sicuro segno che vuole ritirarsi da Netzarim. Perché dire una cosa simile, se il problema non si pone?

Die Welt. Dalla parte palestinese non esiste qualcosa che assomigli anche lontanamente a un'affidabile autorità di Stato, e al presente Israele può riempire questo vuoto di autorità. Dopo non ci sarà il caos al di là della barriera?
Olmert. Là non c'è né governo, né disciplina, né misura, né democrazia. Ma per prima cosa noi dobbiamo pensare a noi stessi.

Die Welt. C'è il terrorismo tra i palestinesi. Non teme che possa continuare a crescere l'influenza di bande e di signori della guerra?
Olmert. Sono sorpreso di questa discussione. Alcuni politici si lamentano di noi dicendo che vogliamo la separazione, e sono preoccupati per l'ordine in Cisgiordania e a Gaza. Io dico: per 35 anni ci avete detto che dobbiamo ritirarci, adesso che lo facciamo, ci dite che è difficile e che sarebbe meglio che non lo facessimo. Ma nella vita si deve decidere, e non è sempre facile. Israele ha deciso che per noi è un male rimanere uniti ai palestinesi. Ci dobbiamo separare, quanto prima tanto meglio. E siamo decisi a farlo.

Die Welt. A conclusione di questa visione c'è, comunque, una pacifica vicinanza?
Olmert. Noi vediamo il ritiro unilaterale di Israele come trasformazione della "Road Map". Come seconda cosa, vogliamo ridurre a un minimo assoluto il conflitto quotidiano. In seguito, così almeno speriamo, si potrà stabilire un'altra realtà, e dopo alcuni anni si potrà raggiungere un equilibio, che potrebbe essere chiamato una pacifica guerra fredda.

(Die Welt, 10 marzo 2004)




2. SONDAGGIO: GLI ISRAELIANI VOGLIONO LA BARRIERA




La costruzione della barriera anti-terrorismo israeliana gode del sostegno dalla netta maggioranza della popolazione ebraica d'Israele (84%) sulla base della valutazione, generalmente condivisa (70%), che la barriera possa ostacolare e ridurre significativamente gli attentati terroristici all'interno d'Israele, sebbene solo una piccola minoranza (16,5%) pensa che possa fermarli del tutto. Il sostegno alla barriera e' quasi totale (90%) fra gli elettori laburisti, del Likud e dello Shinui. Si attesta fra il 60 e il 70% tra gli elettori di Meretz, Shas, Partito Nazionale Religioso e Unione Nazionale.
    Circa due terzi degli ebrei israeliani ritengono che il tracciato della barriera debba rispondere a considerazioni di sicurezza senza seguire necessariamente la Linea Verde (ex confine armistiziale fra Israele e Giordania dal 1949 al 1967). Il 64% degli intervistati ritiene che le difficolta' provocate dalla barriera alla popolazione palestinese devono essere prese in considerazione nella decisione sul tracciato, ma devono restare un criterio secondario rispetto a quello della sua efficacia.
    Altra opinione largamente condivisa dalla popolazione ebraica israeliana (69%) e' che il giudizio della Corte di Giustizia internazionale dell'Aja sia prevenuto a favore della parte araba.
    Oltre ad appoggiare la barriera, la grande maggioranza (71%) sostiene anche il diritto di protesta dei cittadini che si oppongono alla barriera o al suo percorso, purche' espressa con mezzi legali. Quasi unanime invece (92%) la condanna delle proteste fatte con mezzi illegali.
    Ampio consenso (62%) ottiene anche il piano di separazione unilaterale dai palestinesi, in una situazione come quella attuale in cui appare impossibile il rilancio dei negoziati con i palestinesi. La mossa unilaterale viene considerata preferibile, per la sua immediatezza, rispetto all'alternativa (aspettare di arrivare a un accordo di pace concordato con i palestinesi). In ogni caso una consistente maggioranza (63%), costante negli ultimi mesi, si dichiara a favore della ripresa dei negoziati con l'Autorita' Palestinese.
    Nel quadro della separazione unilaterale, la maggioranza (60%) appoggia lo sgombero di tutti gli insediamenti della striscia di Gaza e (per il 64%) degli insediamenti piu' piccoli e isolati in Cisgiordania. Lo scorso dicembre l'80% si dichiarava favorevole allo sgombero di tutti gli insediamenti della striscia di Gaza nel quadro di un accordo di pace. Solo una minoranza (30%) e' favorevole allo sgombero di tutti gli insediamenti in Cisgiordania.
    Infine, il 70% degli intervistati appoggia i colpi mirati delle Forze di Difesa israeliane contro singoli terroristi come mezzo per contenere l'aggressione terroristica.
    Questi i principali risultati del sondaggio telefonico Peace Index condotto tra l'1 e il 3 marzo su un campione di 580 intervistati rappresentativo (margine d'errore ±4,5%) della popolazione adulta israeliana (compresi kibbutz e territori), nel quadro dei periodici sondaggi d'opinione realizzati dal Tami Steinmetz Center for Peace Research dell'Universita' di Tel Aviv, guidato da Ephraim Yaar e Tamar Hermann.

(Ha'aretz, 10.03.04 -  da israele.net)




3. UMM NIDAL: «LA MADRE DEGLI SHAHID»



Umm Nidal Farhat divenne nota al grande pubblico per la prima volta quando fu filmata mentre aiutava suo figlio Muhammad Farhat che esce di casa per compiere l'attentato del 20 marzo 2002, nel quale restò ucciso. Circa un anno dopo, il suo secondo figlio, Nidal, venne ucciso dalle forze israeliane. In un'intervista pubblicata sia del settimanale arabo-israeliano Kul Al-Arab sia dal quotidiano londinese in lingua araba Al-Quds Al-Arabi, Umm Nidal ha ribadito che il martirio (Shehada) è l'atto supremo e uno dei principi fondamentali dell'Islam. Presentiamo alcuni brani dell'intervista.


Domanda: "Prima di tutto, parliamo dello shahid Muhammad. Tu sei paziente e credente. Ma quello che rende il martirio di tuo figlio Muhammad così speciale è che tu gli hai chiesto di andare a combattere la jihad e tornare solo come martire."
Umm Nidal: "Sia lode ad Allah. Questo è uno dei principi fondamentali dell'Islam, a cui noi restiamo fedeli. Noi siamo musulmani credenti. E' la forza di questa fede che ci sprona a compiere questi atti. Io mi considero la madre di tutti gli shahid, non solo di Muhammad e Nidal." Tutti i combattenti ricercati da Israele sono vissuti nella mia casa – ad esempio l'eroe shahid 'Imad 'Aql [uno dei primi comandanti delle brigate Hamas Izz Al-Din Al-Qassam]. Considero la gioventù responsabile e i figli del popolo palestinese come se fossero miei figli. Ho sempre desiderato essere la madre di uno shahid. Mio figlio Nidal mi diceva: 'Non morire prima di diventare la madre di uno shahid'."

Domanda: "Come madre di due shahid, cosa è cambiato nella vita di Umm Nidal?"
Umm Nidal: "Nulla è cambiato. Sono soltanto aumentati la forza e l'onore. Non mi importa se ho due o tre [figli] shahid. [Per quanto mi riguarda] che siano shahid tutti i miei figli. Quello che importa è fare quello che Allah vuole e combattere la jihad per amore di questa patria. Questa è la grazia di Allah e noi siamo al servizio della religione e della patria."

Domanda: "Lo shahid Muhammad era scapolo, ma Nidal era sposato e aveva figli. I bambini chiedono di lui?"
Umm Nidal: " … Ogni giorno, quando vedo i figli del martire Nidal provo dolore. 'Imad, di quattro anni, il più grande dei suoi figli, pochi giorni fa mi ha chiesto: 'Dov'è mio padre? Perché è diventato uno shahid? Sento la sua mancanza'. Queste cose mi bruciano il cuore. Il figlio di Nidal mi brucia il cuore ogni giorno …"

Domanda: "Ti hanno soprannominata Khansaa Falastin (1).  Cosa ne dici?"
Umm Nidal: "Piaccia ad Allah che io sia degna di questo nome, ma penso di non essere l'unica a meritare questo onore. Se tu guardassi la situazione delle donne di Palestina, madri e mogli, vedresti questo miracolo e chiameresti anche loro Khansaa …"

Domanda: "Se potessi mandare un messaggio ai due shahid Muhammad e Nidal, cosa gli vorresti dire?"
Umm Nidal: "Direi loro: 'Figli miei, io prego Allah di potervi vedere in paradiso e che Allah accetti il vostro martirio. Voi avete ubbidito al comandamento di onorare il padre e la madre [nel modo migliore]'. Io non mi aspettavo che i miei figli potessero ubbidire al comandamento di onorare il padre e la madre in un modo migliore che con il martirio (shehada) per amore di Allah."

Domanda: "Cosa vorresti dire alle madri di shahid?"
Umm Nidal: "Prenderei loro le mani e chiederei loro di essere pazienti e ricordare che la morte col martirio assicura l'entrata dei martiri in paradiso. Prego Allah perché dia loro la forza perché il dolore è grande e non è facile dimenticare; ma dico a tutte loro: 'Nonostante il dolore e le battaglie e il sangue che è stato versato, noi dobbiamo continuare nel cammino della jihad fino alla vittoria o shehada, fino a che tutta la patria sia liberata. La ricompensa per il credente musulmano sarà infinita." " Questa è la terra del fronte di battaglia dell'Islam e grande onore ne viene a noi che ci viviamo. Sia lode ad Allah che ci ha scelto come abitanti di questo paese. Sia lode ad Allah che ha scelto che i miei due figli siano fra gli shahid. Ogni madre e moglie palestinese deve essere fiera e andare a testa alta perché Allah ha scelto che suo marito o suo figlio siano fra gli shahid . Questa è la cosa più bella in questo mondo e nel mondo a venire."


(1) La poetessa Al-Khansaa, convertita all'Islam all'epoca del Profeta Maometto. Viene considerata 'la madre degli shahid' perché quando i suoi quattro figli morirono nella battaglia di Al-Qadasiyya (637), lei non portò il lutto, ma ringraziò Allah che 'l'aveva onorata con la loro morte'.

(The Middle East Media Research Institute, 04.03.2004)




4. LO STRAZIO UMANO CHE SEGUE UN ATTENTATO TERRORISTICO




Il prezzo umano del terrorismo

Adattato dal New York Times

di Greg Myre
   

GIAFFA, 23 febbraio - Dopo l'attentato suicida di domenica 22 febbraio, la carne e le ossa sono state raccolte dall'autobus e dalla strada e consegnate qui, all'unico centro di medicina legale del paese. Come sempre al dott. Yehuda Hiss, il direttore, è spettato il sinistro compito di ricomporre i corpi smembrati e di affrontare le terribili reazioni dei vivi.
    Il palestinese che si è fatto esplodere sull'autobus a Gerusalemme

prosegue ->
portava un carico esplosivo relativamente piccolo, che pure è riuscito a disintegrare così completamente alcuni corpi, tanto che non era chiaro quante fossero state le vittime. La polizia aveva comunicato sette morti più l'attentatore, ma quando il dott. Hiss ed il suo team hanno sviluppato il profilo genetico dei resti, ne è stato scoperto un ottavo.
    "Questa persona doveva essere seduta accanto all'attentatore", afferma in tono asciutto il dott. Hiss, da 16 anni direttore del centro di patologia, "Senza l'esame del DNA non avremmo mai potuto identificarlo".
    Israele ha subito oltre 100 attentati suicidi in tre anni, responsabili della morte di circa la metà degli oltre 900 israeliani uccisi nelle violenze di questo periodo. Il paese ha sviluppato un'estesa rete di intervento, in cui il dott. Hiss riveste un ruolo unico. Tutti i morti vengono portati qui, al Centro Nazionale di Medicina Legale. Il patologo-capo ha "perduto" un solo attentato, mentre era in viaggio negli Stati Uniti, e si è occupato direttamente delle vittime smembrate e delle famiglie sconvolte in ogni altro attacco.
    Dopo l'identificazione delle vittime, rimane il compito più difficile per il dott. Hiss. È lui ad informare i famigliari, che nella disperazione possono reagire in maniera furiosa ed irrazionale.
    "Nel caso degli attentati, è necessario farlo perché quando qualcuno esce di casa alle 8 di mattina e rimane ucciso mezz'ora dopo, la famiglia vuole sapere se ha sofferto. Vogliono sapere esattamente come sono morti. Rimango sempre sorpreso dal fatto che facciano tante domande così dettagliate".
    Le famiglie aspettano, a volte tutta la notte, al Centro, che non è stato costruito per la folla di 200 e più persone, che sopraggiunge in conseguenza degli attentati maggiori. Le famiglie, una volta, si lasciavano andare alle proprie emozioni proprio qui dentro: oggi, è stato costruito un centro per famiglie accanto all'obitorio, alleggerendo l'affollamento, se non il trauma.
    Il momento più problematico arriva quando le famiglie chiedono di vedere le vittime: "Io dico sempre che è meglio che se li ricordino da vivi", afferma il dott. Hiss.
    Le famiglie insistono per un quarto d'ora circa: "Io spiego che si tratta solo di una parte del corpo. Ciononostante, abbraccerebbero pure un piede, se fosse tutto quello che c'è rimasto".
    Il dott. Hiss tende a respingere tali richieste, ma gli psicologi raccomandano diversamente: "I famigliari vogliono toccare il corpo un'ultima volta, per prepararsi alla separazione. Se non lo vedono, si tratta di una morte virtuale. Hanno il diritto di chiederlo".
    L'attentato di domenica ha fatto uscire di sé lo staff, nel tentativo di identificare le vittime. I precetti biblici richiedono che il lavoro sia fatto rapidamente e meticolosamente. La legge religiosa ebraica prevede che il corpo sia sepolto interamente, preferibilmente il giorno stesso della morte, tuttavia possono passare giorni o settimane finché anche tutti i pezzi più piccoli vengono identificati. In alcuni casi, si raggiunge un compromesso scomodo. Le parti del corpo più grosse vengono sepolte rapidamente, mentre i pezzi più piccoli solo più tardi, a completamento degli esami del DNA.
    A differenza di molti medici legali che lavorano in solitudine, il dott. Hiss, di 57 anni, spesso sembra essere al centro dei drammi mediorientali.
    Esaminate solo una giornata, il 29 gennaio.
    Per il dott. Hiss è cominciato in un hangar dell'aeroporto di Colonia, in Germania, dove faceva parte della delegazione israeliana, che doveva occuparsi dello scambio di prigionieri con il Hezbollah e del rimpatrio dei resti dei tre soldati israeliani, uccisi tre anni prima.
    La squadra ha montato tre tende nell'hangar e, lavorando sotto le ali degli aeroplani, aveva solo due ore per arrivare ad un'identificazione certa, usando i raggi X, le impronte digitali e le registrazioni dentali.
    Mentre cominciava questo procedimento, un attentatore palestinese colpiva a Gerusalemme, uccidendo 11 persone. In Germania, il dott. Hiss confermava che i resti appartenevano ai soldati israeliani, consentendo allo scambio dei prigionieri di procedere. L'aereo israeliano è rientrato alle sette di sera e dopo mezz'ora il dott. Hiss era già al lavoro all'istituto di medicina legale, occupato nell'identificazione delle vittime dell'attentato.
    Dopo un attentato, le decine di feriti vengono portate agli ospedali più vicini ed è da lì che le famiglie cominciano le ricerche dei loro cari. Se non si trovano fra i feriti, le famiglie devono affrontare la prospettiva di arrivare fino all'Istituto di Medicina Legale qui a Giaffa, subito a sud di Tel Aviv.
    "Non si tratta della tradizionale, normale medicina legale", dice il dott. Yoram Blachar, presidente dell'Associazione dei Medici, parlando del centro israeliano. "Gli attentati suicidi sono fatti estremamente sconvolgenti, da un punto di vista emotivo. Le famiglie possono avere reazioni estreme e devono essere trattate nella maniera più sensibile".
    "L'Istituto svolge un ruolo di primo piano dopo ogni attacco terroristico", afferma.
    Il dott. Hiss è nato in Polonia subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, arrivando in Israele all'età di dieci anni. I suoi studi di medicina lo hanno portato in Italia, Austria, Gran Bretagna e Stati Uniti.
    Le pareti del suo ufficio sono quasi nude, a parte un'asse di legno nero, dove sono esposti 24 tipi di pallottole. Il libro in maggiore evidenza sulla sua scrivania è "Ferite da armi da fuoco". A portata di mano vi è un contenitore di plastica, contenente dei cuscinetti a sfera, che un fabbricante di bombe aveva mischiato all'esplosivo per renderlo più letale.
    Di fronte a questo continuo flusso di morte, il dott. Hiss afferma di affrontarlo senza mezzi particolari.
    "Appena me ne vado da questo posto, non ci penso più veramente", dice, "Mi tengo occupato e non parlo mai del mio lavoro con la mia famiglia".
    "Mi hanno chiesto molte volte se ho bisogno di un sostegno psicologico, ma no, non ho bisogno".
       
(Keren Hayesod, 12.03.2004 )




5. L'AUTORITA' PALESTINESE E' RESPONSABILE DELL'ANARCHIA




L'organizzazione palestinese PICCR (Palestinian Indipendent Commission for Citizens Rights) ha incolpato l'Autonomia Palestinese (AP) governata da Yasser Arafat di aver perso il controllo degli avvenimenti e delle forze di sicurezza. Il rapporto, pubblicato domenica [7 marzo] a Ramallah, critica severamente Arafat, l'Autonomia Palestinese e Israele.
    Anche se l'occupazione israeliana ha contribuito grandemente al peggioramento della situazione sociale ed economica nei Territori, è la stessa Autonomia Palestinese ad avere la responsabilità del peggioramento dell'ordine pubblico e di violazioni dei diritti umani, come la tortura dei prigionieri. Il direttore di PICCR, Mamdouh Eker, ha dichiarato che l'AP è "irresoluta". L'Autorità avrebbe potuto fare molto per il miglioramento delle condizioni di vita, ma neppure le proprie forze di sicurezza sono in grado di far rispettare le leggi. La commissione ha espresso la preoccupazione che l'AP possa definitivamente sciogliersi.
    Il rapporto elenca in particolare 48 omicidi tra le famiglie palestinesi nell'anno passato 2003. In nessuno caso la polizia ha mai arrestato una persona sospetta o avviato indagini. La polizia rimane inerte nel caso di furto di auto, traffico vietato o veicoli non assicurati. In molti casi le condanne di legge non sono applicate.
    Questo rafforza l'influenza delle bande palestinesi, che sempre di più assumono il controllo della situazione locale. "Le uccisioni e i crimini proseguono e l'Autonomia Palestinese non fa nulla per contrastarli. Le persone hanno sempre meno fiducia nella legge", ha detto Eker. Il dirigente PICCR Said Zeidani ha dichiarato: "Il fatto che qualcuno prenda la legge nelle sue mani non è niente di nuovo nell'Autonomia Palestinese, ma negli ultimi tempi la cosa è fortemente peggiorata. La conseguenza è che adesso l'Autonomia Palestinese è più debole che in passato. Qualcosa in lei si è rotto".
   
(Ma´ariv, 08.03.200)




6. L'AUTORITA' PALESTINESE VUOLE APPLICARE DI NUOVO LA PENA DI MORTE




GAZA - Per la prima volta dopo tre anni l'Autorità Palestinese (AP) vuole di nuovo eseguire ufficialmente delle condanne a morte. Questo hanno deciso alti rappresentanti dell'AP qualche giorno fa come reazione alla caotica situazione nella striscia di Gaza.
    La questione riguarda gli omicidi e i palestinesi sospettati di collaborare con Israele. Su pressione della comunità internazionale e di diverse organizzazioni per i diritti umani, l'AP ha interrotto le condanne a morte dal 2001. Da quel momento molti "collaboratori" sono stati assassinati senza processo.
    Il capo dell'OLP, Yasser Arafat, ha invitato le forze di sicurezza e i tribunali della striscia di Gaza a eseguire una serie di condanne a morte. Negli ultimi tre anni queste sono state sospese, ha detto un rappresentante ufficiale dell'Autonomia Palestinese al quotidiano "Jerusalem Post". Si tratta di almeno dieci condanne a morte. "Abbiamo bisogno di provvedimenti molto duri per impedire che il caos si allarghi", ha aggiunto il funzionario. "Le esecuzioni servono come efficaci deterrenti".
    Prima di questa decisione dell'AP, venerdì [5 marzo] migliaia di palestinesi avevano assalito la prigione principale della città di Gaza. Volevano sequestrare quattro tassisti sospettati di aver violentato e ucciso una ragazza di quindici anni.
    I dimostranti hanno gettato sassi e bottiglie vuote contro l'edificio. Quando hanno tentato di irrompere nella prigione, i poliziotti li hanno respinti con le armi. Secondo fonti palestinesi, due dimostranti sono stati feriti dalle pallottole, di cui uno dei due gravemente. Prima di questa azione i palestinesi avevano preso parte alla preghiera del venerdì in diverse moschee.
    Chiedevano che i quattro sospettati fossero consegnati a loro o giustiziati. I dimostranti hanno rimproverato all'AP di non usare misure drastiche contro i criminali e le bande armate della striscia di Gaza. Hanno abbandonato il territorio della prigione soltanto quando l'AP e Fatah, il partito di Arafat, hanno promesso di portare in giudizio i quattro sospettati entro le successive 24 ore.
    Come il presidente dell'Alto Consiglio di Giustizia dell'AP, Radschi Surani, ha detto, i quattro sospettati appartengono a una pericolosa banda responsabile di una serie di omicidi e rapine.
    Durante quei giorni l'AP non ha permesso al personale di sicurezza di lasciare i punti di servizio e gli uffici senza permesso. Temeva che i poliziotti si aggregassero alle bande armate.
   
(israelnetz nachrichten, 08.03.2004)




7. UN FARAONE IN ASCESA NELLA DIPLOMAZIA MONDIALE




Mille facce e mille ruoli per il leader egiziano

di Fiamma Nirenstein   

Che cos'è tutta questa attività diplomatica nel Medio Oriente, specialmente collegata all'Egitto? Perché il ministro Frattini incontra Mubarak proprio mentre il capo dell'intelligence egiziana, Suleiman, vede prima Sharon e subito dopo Arafat, e intanto finalmente Sharon e Abu Ala avrebbero deciso di sedersi allo stesso tavolo? Perché Silvan Shalom, il ministro degli Esteri israeliano, è in visita oggi da Mubarak che ha appena visto Blair? Per quale ragione i tre inviati del governo di Bush tornano in Medio Oriente e Sharon sta per partire? Come mai si parla addirittura di contatti segreti di Israele con il Sudan e con la Libia? La risposta risiede in un sommovimento storico grande e in uno più piccolo, e il secondo diventa sempre più essenziale al primo.
    Il grande movimento è quello che vola sulle ali del previsto incontro dei G8 a Savannah, dove, a giugno, sarà presentata l'«Iniziativa del Grande Medio Oriente» che promana direttamente dalla dottrina Bush per la democratizzazione della regione come arma per combattere il terrorismo e migliorare la situazione di un'area in cui il 40% della popolazione è analfabeta e un terzo vive con meno di due dollari al giorno. Le voci ufficiali e gli intellettuali dei Paesi coinvolti si adoperano per ripetere che non accetteranno mai soluzioni imposte dall'esterno: la verità è che si soppesa quanto il futuro possa essere promettente. L'Egitto non è in condizioni diverse, ma avendo il pregio di aver fatto la pace con Israele si trova in posizione privilegiata. Potenza, anche, della «moderazione» di un leader che tuttavia governa con pugno duro il Paese e che spende il 30% del denaro pubblico in missili, aerei e carri armati, in gara con Israele, ricevendo ingenti aiuti americani.
    Il secondo movimento in vista: il disimpegno da Gaza che Sharon è deciso a intraprendere in tempi brevi (tempi da elezioni americane, tempi per rassicurare che il cambiamento post-Iraq c'è stato, che i terroristi lo vogliano o no). Bush capisce ormai che un grande sgombero dai territori è pur sempre una bella acquisizione per la pace, o appare tale: all'inizio si era opposto a una mossa unilaterale, affezionato com'è alla Road Map. Ma Sharon ha assicurato che la Road Map tornerà a essere la sua strada. Gli Usa chiedono la promessa da parte del primo ministro israeliano che allo sgombero seguiranno altri sgomberi, stavolta nella West Bank; in più, è richiesta la garanzia della tutela araba affinchè Gaza non diventi una zona franca per Hamas e altre organizzazioni terroristiche. Qui l'Egitto diventa fondamentale: se gli egiziani non ci badano, dai tunnel sotto il confine seguiteranno a entrare quantità pericolose di armi di contrabbando; e dall'altra parte potranno infiltrasi in Egitto terroristi palestinesi ed Hezbollah, cioè integralisti all'attacco del regime.
    Mubarak vede qui un rischio e un'opportunità. Il rischio da evitare in ogni modo: essere visto come un poliziotto degli israeliani e degli americani; l'opportunità: che Frattini, l'Europa, gli Usa capiscano che l'Egitto avrà bisogno di consenso e sostegno. Perché i palestinesi, una volta sgomberata Gaza, si volgeranno alla loro area naturale, il mondo arabo, e non a Israele, e ci sarà bisogno di posti di lavoro e infrastrutture. Ma guai a pensare che Mubarak voglia mettersi in un ruolo che verrebbe considerato subalterno dai suoi: per questo Suleiman è andato a parlare con Arafat dei ventimila uomini della sicurezza che ha a Gaza (non toccata dall'operazione «Muro di Difesa», integra quanto a forze dell'ordine) e di Mohammed Dahlan, l'ex ministro che è rimasto fedele ad Abu Mazen, un boss in grado - unico - di controllare gli armati di Al Fatah che possono contenere Hamas.
    Mubarak capisce che il suo atteggiamento su Gaza lo porta diritto nell'occhio del ciclone, ma lo rende anche la pupilla dell'occhio del cambiamento auspicato ormai da tutto il mondo. E cammina sul filo tipico del comportamento egiziano nel corso degli anni: Il Cairo non ha mai consentito il libero scambio con Israele, ha persino favorito sulla stampa e sulla tv statale l'antisemitismo, si è conservato la libertà di dire e fare tutto quello che pertiene al custode panarabo della fede e dell'identità del suo mondo, compresa l'animosità verso gli Usa e l'odio verso Israele.
   
(La Stampa, 3 marzo 2004 - da Informazione Corretta)




MUSICA E IMMAGINI




Dance Medley




INDIRIZZI INTERNET




Jewish World Review

Arm of Salvation




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