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Notizie su Israele 259 - 27 settembre 2004

1. Dettagliato piano del governo per il ritiro da Gaza
2. Timori di guerra civile in Israele
3. Fallimentare destino di Yasser Arafat
4. Intervista del «Canadian Jewish News» con Jean-Claude Milner
5. Un'inconsueta vacanza in Israele
6. Musica e immagini
7. Indirizzi internet
Geremia 14:7, 8. “SIGNORE, se le nostre iniquità testimoniano contro di noi, opera per amor del tuo nome; poiché le nostre infedeltà sono molte; noi abbiamo peccato contro di te. Speranza d’Israele, suo salvatore in tempo di angoscia, perché saresti nel paese come un forestiero, come un viandante che si ferma per passarvi la notte?”
1. DETTAGLIATO PIANO DEL GOVERNO PER IL RITIRO DA GAZA




Netzarim
GERUSALEMME - L'autorità preposta all'attuazione del piano di ritiro ha pubblicato un dettagliato piano su come dovrà avvenire l'evacuazione degli insediamenti ebraici. Da domenica i "coloni" stanno ricevendo dal governo delle lettere in cui viene offerto aiuto e risarcimento a coloro che sono disposti a lasciare volontariamente le loro case.
    L'autorità per il ritiro SELA (acronimo ebraico per "Aiuto per Gaza e Nord-Samaria") offre un'opportunità di dialogo con i coloni che non vogliono opporre resistenza. La lettera, che da domenica è stata inviata a 1.700 famiglie di coloni residenti i in Gaza e nella Cisgiordania settentrionale, è firmata, secondo il "Jerusalem Post", da Jonatan Bassi, che è stato incaricato dell'esecuzione del piano di ritiro. Bassi fa riferimento alla decisione conclusiva del governo del 6 giugno, secondo la quale il ritiro deve essere effettuato. I coloni che volontariamente si trasferiranno, riceveranno "con comprensibile discrezione" un risarcimento economico, oltre a un aiuto sociale e psicologico nella ricerca di una nuova zona in cui stabilirsi.
    Il Consiglio del blocco di insediamenti "Hof Asa", nella striscia di Gaza, ha deciso domenica di rispondere alla lettera con disegni di bambini su cui è scritta la frase: "Gush Katif è la mia casa". I coloni con base ideologica in Gaza, come quelli di Netzarim, visitano regolarmente i coloni secolari nel nord della striscia di Gaza "per rinforzarli", come loro stessi hanno detto.
    Dopo le diverse granate che sono cadute venerdì sull'insediamento Neveh Dekalim e hanno ucciso una donna, il portavoce di Hof Asan, Eran Sternberg, ha detto: "Sharon pungola gli assassini dei resistenti di Gush Katif, facendogli capire che quello che non si ottiene con i vantaggi economici si può ottenere con le granate".

Gush Katif
Nel frattempo l'autorità ha pubblicato una bozza sull'attuazione del piano di ritiro. Il documento è lungo 89 pagine e contiene 150 paragrafi. Verrà presentato anzitutto al Consiglio Legislativo della Knesset. Fino al 14 ottobre l'opinione pubblica avrà la possibilità di commentare la proposta. Il 3 novembre la Knesset voterà. Dal documento si evince tra l'altro che per l'attuazione del piano di ritiro il governo calcola che saranno necessari tra 450 e 550 milioni di euro.

(Israelnetz Nachrichten, 27.09.2004)





2. TIMORI DI GUERRA CIVILE IN ISRAELE




Israele e il pericolo fratricida

di Abraham B. Yehoshua
    
    Nelle ultime settimane un nuovo termine sta prendendo piede nella politica israeliana: guerra fratricida, o civile. Le due definizioni non esprimono esattamente lo stesso concetto e vorrei chiarire non solo le loro differenze ma anche il significato e il rilievo che esse possiedono per il popolo ebreo.
    La vertenza riguarda naturalmente il piano di ritiro unilaterale del governo israeliano da una parte dei territori palestinesi, comprendente l'evacuazione di 17 insediamenti dalla striscia di Gaza e dalla Samaria settentrionale, in cui vivono all'incirca settemila persone.
    Entrambi gli schieramenti, di destra e di sinistra, usano i termini «guerra fratricida» o «guerra civile» a loro discrezione. Circoli governativi, esponenti del centro e della sinistra esprimono il timore che l'estrema destra e i coloni si preparino a una resistenza tanto violenta da trasformarsi in una guerra civile. La destra e i coloni, da parte loro, nonostante promettano a mezza voce che non faranno uso di armi contro i soldati israeliani incaricati di portare a termine lo sgombero, parlano di resistenza passiva ma decisa, di manifestazioni oceaniche che impediranno l'evacuazione e affermano che sfonderanno le barriere dell'esercito ed esorteranno i soldati a rifiutare di obbedire agli ordini. Quindi, per quanto contro la loro volontà, l'evacuazione potrebbe trasformarsi in una guerra fratricida impossibile da evitare, ed è dunque meglio rinunciarvi già da ora.
    Innanzi tutto sento il bisogno di chiarire il significato di «guerra fratricida» per il popolo ebreo, legato alla caduta del Tempio e alla perdita di ciò che rimaneva dell'indipendenza giudaica duemila anni fa.
    Com'è noto, la grande rivolta dei giudei contro i romani, avvenuta nel 70 dopo Cristo, suscitò profonde controversie tra gli ebrei stessi. Molti di loro vi si opponevano, non credendo, a ragione, che la rivolta avesse possibilità di riuscita. Ma gli zeloti, gruppi di nazionalisti religiosi radicali (kanaim in ebraico, un termine in uso ancora oggi), imposero la rivolta a tutto il popolo e perseguitarono chi vi si opponeva. E così, parallelamente alla lotta contro i romani e all'assedio di Gerusalemme, in città scoppiarono duri scontri tra fazioni diverse, dapprima tra zeloti e moderati e in seguito tra varie correnti degli stessi zeloti.
    La perdita dell'indipendenza ebraica è rimasta dunque impressa nella memoria nazionale non tanto come conseguenza diretta del fallimento della rivolta contro Roma ma di una guerra fratricida. «Gerusalemme cadde per un odio superfluo». In altre parole, se i giudei avessero fatto fronte comune forse (anche se è estremamente dubbio) la loro rivolta avrebbe avuto successo e il Tempio e l'indipendenza ebraica si sarebbero preservati.
    Da qui il grande timore di una guerra fratricida, in particolar modo quando un nemico straniero è alle porte. E gli ebrei hanno sempre dei nemici, come dimostra la loro storia.
    Nei lunghi anni della diaspora non vi furono guerre fratricide. Gli israeliti non godevano di alcun potere né possedevano armi. Erano alla mercé dei gentili, sottomessi al loro governo ma, d'altro canto, anche liberi dal dominio di altri ebrei, contro i quali ovviamente non potevano ribellarsi. Così, proprio per la sua natura, la diaspora impedì scontri violenti tra ebrei e le controversie rimasero su un piano verbale. Ma quando all'incirca 120 anni fa gli ebrei cominciarono a stabilire forme di governo indipendente nella terra d'Israele, la minaccia di una guerra fratricida riprese ad aleggiare.
    A merito della storia sionista va detto che nonostante le differenze e gli abissi ideologici, mentali, culturali e religiosi esistenti tra ebrei radunatisi nell'antica Sion da ogni parte del mondo, nessun contrasto politico o ideologico ha mai raggiunto i livelli di violenza di una guerra fratricida. Neppure all'epoca del colonialismo turco e inglese, allorché le istituzioni del movimento sionista non godevano di un'autorità riconosciuta, è mai successo che una particolare fazione si sia rivoltata contro un'altra. E negli ultimi 120 anni, in occasione di feroci controversie in campo politico o economico, solo una ventina di ebrei sono rimasti uccisi per mano di loro connazionali (nei 56 anni di esistenza dello Stato ebraico solo tre ebrei sono stati uccisi da altri ebrei, fra loro il defunto primo ministro Yitzhak Rabin) mentre in nazioni come la Russia, la Grecia, la Spagna, la Finlandia, la Cambogia e altre ancora vi sono state centinaia di migliaia, se non milioni di vittime a seguito di guerre civili.
    È vero che all'autocontrollo degli ebrei di Israele ha contribuito anche la minaccia degli arabi, il nemico comune. Ma la storia ci ha già insegnato che non sempre un nemico esterno può impedire lo scoppio di guerre civili. Da ciò si deduce che il freno e l'autocontrollo sviluppatisi nelle generazioni dal trauma della distruzione del Tempio e della perdita dell'indipendenza siano stati un efficace deterrente.
    Ora però ci si pone la domanda: cosa avverrà tra qualche mese, quando il governo Sharon darà il via allo smantellamento degli insediamenti ebraici nella striscia di Gaza e nel Nord della Samaria? Il tabù della guerra fratricida sarà violato o resisterà? L'attuale violenza verbale slitterà in scontri con morti e feriti? Non bisogna infatti dimenticare che i coloni israeliani (in gran parte armati) non assomigliano ai loro colleghi francesi in Algeria alla fine degli Anni Cinquanta e agli inizi degli Anni Sessanta. L'esercito e la polizia israeliana si troveranno di fronte a uno schieramento omogeneo da un punto di vista ideologico e religioso. Sharon, pur uomo di destra, non possiede l'autorità politica e morale di De Gaulle. Tanto più che in questo caso il ritiro sarà unilaterale, senza alcun accordo con i palestinesi analogo a quello siglato dalla Francia con il movimento di liberazione algerino (che da parte sua non ha mai avuto rivendicazioni nei confronti della Francia e di Parigi, a differenza di molte organizzazioni palestinesi che aspirano ad annettere lo Stato israeliano a quello palestinese).
    Qual è dunque la mia previsione in merito alla possibilità di una guerra civile in Israele? Ammetto che questa è puramente intuitiva, non basata su dati chiari, giacché anche le opinioni dei vari «esperti» sono contrastanti. Personalmente ho la sensazione, e qui spero di non sbagliarmi, che nonostante gli scontri verbali e le manifestazioni imponenti, una guerra vera e propria, con morti e feriti, non avverrà. Gli argini della memoria storica resisteranno.
    Non bisogna infatti dimenticare che la sofferenza e lo sterminio del popolo ebreo avvenuto nel secolo scorso hanno raggiunto livelli senza precedenti nella storia umana, ed è difficile immaginare che un colono possa puntare un'arma contro un soldato o un poliziotto con l'intento di ucciderlo o di ferirlo sapendo che quello stesso soldato, o poliziotto, può essere il nipote o il pronipote di una vittima della Shoah, oppure il fratello, il figlio o il parente di un israeliano rimasto ucciso in guerra o in un attentato terroristico.
    È vero, la lotta contro l'evacuazione degli insediamenti è una lotta per i confini e per l'identità dello Stato d'Israele. Ma, per quanto possa essere importante, è solo agli inizi e la strada è ancora lunga da percorrere per entrambe le parti.
    Non pochi sostenitori della sinistra disprezzano a tal punto i coloni da non essere disposti a definirli «fratelli». Con molta rabbia dicono: non ci avete domandato nulla quando avete deciso di stabilirvi nei territori occupati, quindi non stupitevi se non vi consideriamo nostri fratelli nel giorno dell'evacuazione.
    Io sono però convinto che la solidarietà nazionale deve essere preservata a ogni costo. I coloni sono nostri fratelli e la loro sofferenza per l'evacuazione non solo dalle loro case ma anche da ciò che per loro rappresenta l'espressione di una profonda convinzione ideologica deve toccare anche chi, come me, si è sempre opposto al loro modo di vedere. Se vogliamo evitare scontri tra cittadini-fratelli, che in casi come questi seguono una dinamica propria, dobbiamo fare appello alle nostre migliori forze creative: incoraggiare il dialogo tra le parti e mostrare comprensione per il dolore degli evacuati. E questo affinché lo sgombero attuale non venga ricordato come un trauma nazionale tanto pesante da compromettere la futura evacuazione di altre colonie, quando arriverà la pace.

(La Stampa, 23.09.2004)





3. FALLIMENTARE DESTINO DI YASSER ARAFAT




Il disastroso bilancio della guerra palestinese contro Israele

di Efraim Inbar

    Quattro anni fa i palestinesi lanciarono una guerra contro Israele. Il primo obiettivo era quello di strappare ulteriori concessioni al governo [laburista] di Ehud Barak, che aveva appena offerto invano uno stato palestinese su tutta la striscia di Gaza, più del 90% della Cisgiordania e parti di Gerusalemme.
    In secondo luogo, i palestinesi ritenevano che la società israeliana sarebbe andata in pezzi sotto la pressione dell’ondata terroristica e che, alla fine, avrebbe accettato di essere invasa da milioni di profughi palestinesi (e loro discendenti).
    Il bilancio di questa guerra mostra chiaramente che la violenza palestinese per molti aspetti si è rivelata del tutto controproducente, e che Israele sta vincendo la sua battaglia.
    Yasser Arafat, il simbolo stesso del movimento nazionale palestinese, è stato confinato nel suo quartier generale di Ramallah e gradualmente isolato. La comunità internazionale in gran parte aderisce a questa posizione americana e israeliana, essendosi convinta che Arafat è diventato uno dei principali fattori di estremismo nella società palestinese e un ostacolo alla realizzazione delle aspirazioni del nazionalismo palestinese. La sua leadership autoritaria e corrotta è diventata evidente, mentre la sua totale incapacità come statista ha eroso qualunque funzione di stato di diritto nell’Autorità Palestinese. Arafat e i suoi colleghi della dirigenza del movimento nazionale palestinese hanno fallito il test più importante di un moderno sistema di governo: il monopolio nell’uso della forza.
    Il fallimentare destino di Arafat riflette la situazione generale dell’impresa palestinese. Quello che vediamo è una società frammentata, sottoposta all’imperio di teppisti e locali signorotti della guerra, unita solo nel suo radicato odio verso gli ebrei e nella sua inveterata propensione per la violenza.
    In effetti il conflitto contro Israele ha procurato solo disastri all’economia palestinese, alle sue infrastrutture e al suo tessuto sociale. Se i servizi sanitari ed educativi palestinesi funzionano ancora a livello minimo, tutti gli altri apparati sociali ed economici funzionano solo a intermittenza, e con crescenti difficoltà. Finora il totale collasso dell’Autorità Palestinese è stato evitato solo dal fiume di miliardi di euro versati nei suoi territori dall’estero. Ma la diffusa corruzione che imperversa nell’Autorità Palestinese mette a dura prova la buona volontà dei paesi donatori, suscitando sempre più pressanti richieste di maggiore trasparenza.
    La guerra di Arafat non ha fatto fare ai palestinesi un solo passo avanti verso l‘indipendenza, ed anzi ha seriamente compromesso le prospettive per la soluzione “due stati”.
    Un altro intento dei palestinesi era quello di internazionalizzare il conflitto, cercando di suscitare un intervento dall’estero sul modello di quello avvenuto nel Kosovo. Ma anche qui hanno fallito. C’è in giro ben poca voglia di mandare delle forze internazionali a fare da cuscinetto tra israeliani e terroristi palestinesi.
    Ma la più grande sconfitta dei palestinesi è stata quella di alienarsi il centro dello spettro politico israeliano e gran parte della sinistra. Le “colombe” israeliane erano riuscite a guadagnare grandi simpatie per i palestinesi, un elemento cruciale per spingere la società israeliana verso maggiori concessioni territoriali. Ma la guerra dei palestinesi ha screditato la linea delle “colombe messianiche” (alla Yossi Beilin), spostando la società israeliana su posizioni più di centro, molto meno in sintonia con le richieste dei palestinesi. La maggioranza degli israeliani si è risvegliata dal sogno del processo di pace molto più restia ad assumersi rischi sul piano della sicurezza in nome di un accordo con interlocutori palestinesi inaffidabili.
    Durante la guerra di Arafat, la società israeliana ha dimostrato sorprendenti doti di tenacia e di determinazione nel non cedere di fronte al terrorismo. Israele ha saputo resistere agli obiettivi dei palestinesi ed è riuscito a superare i limiti internazionali imposti alla sua libertà di agire militarmente contro bersagli nei territori sotto Autorità Palestinese, impedendo in questo modo che i terroristi palestinesi potessero disporre di covi inviolabili.
    A partire dall’operazione Scudo Difensivo (marzo-aprile 2002) i terroristi sono braccati, più occupati a nascondersi che a colpire, cosa che ha determinato un vistoso calo nel numero di vittime civili israeliane. Da questo punto di vista, il risultato di Israele (90% degli attentati sventati) è straordinario.
    Senza dubbio l’11 settembre ha rappresentato un punto di svolta anche nella guerra israelo-palestinese. Quell’evento ha reso gran parte del mondo, e in particolare gli Stati Uniti, più sensibili ai dilemmi di Israele nella sua lotta contro il terrorismo. In generale oggi c’è maggiore comprensione per le contro-misure anti-terrorismo israeliane. Viceversa, la dirigenza palestinese non è stata capace di cambiare strada e di dissociare nettamente la lotta palestinese dal terrorismo internazionale.
    La proposta di un disimpegno unilaterale costituisce un successo per i palestinesi dal momento che Israele non ottiene nulla in cambio dello sgombero degli insediamenti e del ritiro delle sue forze dalla striscia di Gaza. Tuttavia, alla luce della tradizionale disponibilità israeliana (che data sin dagli anni trenta e quaranta) ad accettare la spartizione della Terra d’Israele, e alla luce del generale consenso che oggi riscuote in Israele la necessità di uscire da Gaza, il progettato ritiro non è una vittoria palestinese. Se attuato, il ritiro non altererà in modo drastico l’equazione geo-strategica di fondo. Anche un ritiro simile in Cisgiordania non rappresenterebbe una sconfitta per Israele finché Israele riuscirà a preservare libertà di azione anti-terroristi in quei territori.
    La guerra di Arafat verosimilmente continuerà ancora per un po’ di tempo, con alti e bassi nel livello di violenza, finché le organizzazioni palestinesi avranno ancora energie sufficienti. Ma l’esperimento palestinese probabilmente è già fallito. I palestinesi, come i somali, hanno dimostrato che la capacità di costituirsi in uno stato funzionante non è una dote universale. Anche se l’autodeterminazione viene considerata per lo più un diritto fondamentale, non è detto che tutti i gruppi etnici abbiano la capacità politica di esercitarla. In effetti la comunità internazionale considera sempre più i palestinesi come incapaci di governare se stessi con successo. Persino alcuni loro storici sostenitori incominciano a prospettare forme di curatela o gestione internazionale – scenario peraltro assai improbabile – per aiutare i palestinesi nella transizione verso l’indipendenza statale. L’amara verità è che la situazione sembra assai prematura perché la soluzione “due stati” possa stabilizzare le cose all'istante. Forse, dopo quattro anni di guerra, bisognerà pensare a qualcosa di diverso.
    
(Jerusalem Post, 16.09.2004 - israele.net)





4. INTERVISTA DEL «CANADIAN JEWISH NEWS» CON JEAN-CLAUDE MILNER




Gli ebrei devono liberarsi dell'Europa

di Elias Levy

Jean-Claude Milner
Se l'Europa è oggi la terra di elezione dell'antiebraismo, è perché il vecchio continente e gli ebrei sono incompatibili. Da anni l'Europa cerca si sbarazzarsi degli ebrei. E' la tesi tagliente sostenuta dal filosofo Jean-Claude Milner in un libro choc, "Les Penchants criminels de l'Europe démocratique" ("Le tendenze criminali dell'Europa democratica"), apparso recentemente nelle edizioni Verdier. Un saggio corrosivo che ha suscitato vive polemiche.
    Linguista, filosofo e psicanalista di fama mondiale - è stato uno dei più stretti discepoli di Jacque Lacan -, ex presidente del prestigioso "Collège International de Philosophie", professore aggregato dell'Università Parigi-VII (Jussieu), maestro di conferenze all'Istituto Lévinas di Gerusalemme, Jean-Claude Milner è uno dei più importanti intellettuali non-ebrei francesi.

Canadian Jewish News: Secondo lei, l'Europa ha sempre considerato gli ebrei come un problema che bisognava risolvere a tutti i costi?
Jean-Claude Milner: E' quello che penso. La coppia problema-soluzione ha determinato in Europa la storia moderna del nome "ebreo", dal diciottesimo secolo ai nostri giorni. Nel mio libro mi propongo di stabilire in che modo il dispositivo politico e sociale europeo è arrivato a pensare l'ebreo come un problema che richiede una soluzione - favorevole o sfavorevole - alla sopravvivenza degli ebrei. Solo l'Europa ha pensato in questi termini. Il mondo musulmano, che considera gli ebrei come nemici da combattere e perfino da annientare, non pensa per niente in termini di problema-soluzione, e quindi non pensa in questo modo neanche il termine "ebreo". L'Occidente non europeo, cioè gli Stati Uniti, pensa molte cose in termini di problema-soluzione: il problema dei neri, il problema degli indiani, il problema dei ghetti..., ma non in modo particolare gli "ebrei". E' all'interno della configurazione problema-soluzione che si può arrivare a pensare la nozione di soluzione definitiva.

D. Dunque la soluzione del problema ebraico è stata sempre una grande ossessione europea.
R. Sì. Fin dall'epoca dei Lumi, l'Europa, rischiarata dalla scienza moderna e dalla politica razionale, ha cercato una soluzione definitiva

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del problema ebraico, come ha cercato, per esempio, una soluzione definitiva del problema delle maree, del problema della povertà, ecc. Ogni grande nazione della cultura europea moderna ha creduto di trovare la sua soluzione per il problema ebraico. La Francia e la Germania occupano il primo posto. Il nazismo si è inserito nella continuità di questo paradigma. Hitler non ha inventato né la nozione di problema ebraico, né la nozione di soluzione definitiva, né il programma di una ricerca perseverante di questa soluzione. Ha soltanto inventato dei modi nuovi per "risolvere" il problema ebraico. Oggi l'Europa cerca di gestire questa eredità estremamente complessa. E, da un certo punto di vista, arriva a dire che non c'è più un problema ebraico nel vecchio continente, ma che adesso c'è un problema nuovo: lo Stato d'Israele.

D. Non sorprende quindi che dei sondaggi recenti effettuati su scala europea abbiano sottolineato la grande avversione manifestata da una forte maggioranza di europei nei confronti dello Stato d'Israele.
R. I risultati di questi sondaggi non mi hanno affatto sorpreso. Senza rendersene conto, l'europeo medio è fortemente convinto che gli ebrei si siano stabiliti in Medio Oriente soltanto dopo il 1948, cioè dopo la creazione dello Stato d'Israele, e che prima d'allora non ci fosse la minima traccia di ebrei in quella regione popolata in maggioranza da arabi-musulmani. Ai loro occhi, l'esistenza d'Israele è la causa principale dei problemi che ci sono oggi in Medio Oriente. Tuttavia, sappiamo tutti che la storia del Medio Oriente è un po' più complessa.

D. Gli europei considerano lo Stato d'Israele come un'entità coloniale.
R. Per la maggioranza degli europei, Israele è il solo responsabile e colpevole della situazione di guerra che imperversa da molte decine d'anni in Medio Oriente. In realtà, oggi l'europeo medio pensa che lo Stato d'Israele non avrebbe mai dovuto nascere. E' una specie di opinione naturale, spontanea. Profondamente segnati da una storia coloniale che si è rivelata come un cocente scacco, gli europei, soprattutto i francesi, considerano Israele come un fatto coloniale creato di sana pianta dall'imperialismo occidentale. E' per questo che il modello della colonizzazione e il termine "colonie", usato per designare gli insediamenti ebraici della Cisgiordania e di Gaza, ritornano continuamente tutte le volte che si affronta la questione d'Israele. Per la maggioranza degli europei il modello coloniale israeliano è il pendant del movimento coloniale europeo.

D. Gli europei sperano ardentemente di riuscire ad imporre un piano di pace agli israeliani e ai palestinesi. Non è una speranza chimerica?
R. Gli europei sono convinti che il loro modello di unificazione territoriale attraverso la pace sia un modello unico e straordinario. L'Europa, che ha inventato la nozione di Guerra Mondiale, che ha sperimentato due volte nello spazio di un mezzo secolo, inventa oggi una nuova forma di unione attraverso la pace. Gli europei pensano che su questo tema possono dare una lezione al mondo intero, e che il loro modello di pace possa risolvere definitivamente dei vecchi conflitti, in particolare in Medio Oriente. Tutti i piani di pace, ivi compreso quello presentato a Ginevra da Yossi Beilin e dal suo omologo palestinese, Yasser Abed Rabo, s'inseriscono nella lunga tradizione europea di trattati miranti a instaurare una pace perpetua. La triste realtà è che ogni volta che gli europei hanno voluto mettere in opera dei trattati di pace corrispondenti al loro ideale, l'euforia pacifista è durata soltanto lo spazio di una primavera. La domanda che Israele si pone ancora oggi è di sapere se questi piani riceverano un "buon voto" dall'opinione illuminata in Europa e dai giornali che esprimono questa opinione illuminata. La storia è una cosa troppo seria per farla a colpi di "buoni voti". I morti israeliani e i morti palestinesi pesano po' di più sulla bilancia del desiderio di sapere se i piani di pace per risolvere il contenzioso israelo-palestinese corrispondono all'ideale europeo della pace perpetua.

D. Secondo lei, il più grande errore commesso dagli ebrei, soprattutto europei, è di aver preso l'Europa come modello di riferimento?
R. Penso che uno dei grandi problemi degli ebrei di tutto il mondo, e particolarmente degli ashkenaziti, è che da molto tempo considerano l'Europa come un modello insostituibile. Per gli ashkenaziti il modello ideale era la Francia prima del 1914, o la Germania prima del 1914. Ancora oggi molti ebrei europei pensano che quelli siano i modelli europei a cui si deve guardare. Perfino in Israele - e questo mi colpisce molto ogni volta che ci vado - sono numerosi quelli che continuano a difendere l'idea che lo Stato ebraico deve essere governato secondo criteri politici e sociali di tipo europeo, come il parlamentarismo estremo, la separazione dei poteri, il fatto che il potere giudiziario debba essere uguale in importanza al potere esecutivo e al potere legislativo. Tutti questi modelli sono stati inventati in Europa. Non dico che siano cattivi o buoni, dico semplicemente che sono una fonte che è del tutto particolare.

D. Ma, secondo lei, il modello europeo non è che un'illusione?
R. Credo che gli ebrei non dovrebbero più considerare il modello europeo come una sorta di regola assoluta. Suggerisco che gli ebrei si liberino dell'Europa, perché è tempo che cessino di valutare le decisioni politiche chiedendosi: "L'Europa le prenderà bene?" Nel campo del pensiero, gli ebrei hanno voluto sempre essere accolti nelle braccia della cultura europea. Questo movimento non è mai stato ripagato. La cultura europea non ha avuto, nei riguardi degli ebrei, un movimento d'accoglienza paragonabile. Alla resa dei conti questa accoglienza ha preso spesso la forma di una degiudaizzazione sfrenata. Gli ebrei devono smetterla di voler farsi accettare, convalidare o riconoscere dagli europei, perché adesso le cose sono chiare: gli europei non accetteranno e non appoggeranno mai quello che fanno gli ebrei in generale e quello che fa Israele in particolare.

D. Nel subconscio dell'europeo, l'immagine odiosa dell'ebreo avido e capitalista non ha forse ceduto il posto all'immagine dell'ebreo israeliano colonizzatore?
R. Certamente. Qual era, nel XIX secolo, la figura più detestata in Europa? La figura del banchiere. Si diceva allora che gli ebrei erano dei banchieri. E tuttavia non si può non ricordare che, materialmente, il 90 per cento degli ebrei erano poveri, vivevano negli shtetel, senza un soldo in tasca. Qual è invece oggi la figura più detestata dagli europei? La figura del colonialista. Si dice senza mezzi termini: "Gli ebrei sono dei colonialisti". E tuttavia sappiamo che la gran maggioranza degli ebrei non sono dei colonialisti. Ci sono certamente in Israele, come in Francia e in altri paesi, delle persone che hanno una mentalità coloniale. Ma rappresentano un'infima minoranza. In Europa, in ogni periodo hanno trovato la forma più odiosa possibile per designare l'ebreo. Gli hanno appioppato dapprima l'epiteto di "banchiere", poi quello di "apolide", di "ebreo errante"n e oggi... quello di "colonizzatore".

D. Molti europei sostengono che criticare la politica d'Israele non è un atteggiamento antisemita.
R. E' vero. Credo che si possa perfettamente criticare la politica d'Israele senza per questo essere antisemiti. Ma quello che succede oggi è il contrario. Non appena qualcuno in Europa, soprattutto in Francia, è sospettato di avere rapporti con dei membri di una comunità ebraica solidale con Israele, gli si chiede di rendere conto. Gli si dice: "Dimostra che sei contro Sharon. Metti le prove in tavola". Se non dite subito che siete contro Sharon, non vi ascolteranno più! Sono sbalordito da questo rovesciamento di situazione. In Europa, e soprattutto in Francia, non si può menzionare la parola "ebreo" senza che vi si chieda la prova che siete contrari alla politica di Sharon. E' incredibile!

D. Nel suo libro lei afferma che si comincia ad imbastire una "alleanza implicita" tra i paesi membri dell'Unione Europea e il mondo arabo-islamico.
R. E' un'idea che può apparire paradossale, ma che non è tale se vi si riflette sopra. Penso che tutta la geopolitica europea riposa sull'idea che l'Europa può e deve estendersi attraverso la pace. L'Europa è passata da 6 a 15 paesi, e recentemente a 25 paesi. Se gli Stati Uniti si fossero estesi in questo modo, le "anime belle" progressiste si sarebbero affrettate a chiamare "imperialismo" un simile espansione. Ma poiché si tratta dell'Europa, ci si astiene dal parlare di imperialismo. Perché? Perché l'Europa si espande in nome della pace e non della guerra. La sua espansione ) avvenuta senza che sia sparato un solo colpo. La geopolitica europea riposa sulla logica che l'espansione è possibile solo a condizione che si stabilisca una sorta di gentleman's agreement con l'altra grande potenza espansionistica mondiale diversa dagli Stati Uniti: l'Islam. Gli europei non sono stupidi. Loro sanno con certezza che per portare a termine la costruzione europea devono concludere una sorta di implicito accordo di buon vicinato con il mondo arabo-musulmano.

D. Che forma prende questa alleanza europea-musulmana?
R. In linguaggio europeo, l'espansione dell'Europa si chiama "pace". L'espansione musulmana invece si chiama "jihad", la guerra santa. Questo tacito accordo si è fortemente stabilizzato durante la Conferenza contro il razzismo di Durban, alla fine dell'estate 2000, dove, mano nella mano, i sostenitori della pace nel mondo venuti dall'Europa e i sostenitori del jihad venuti dall'area musulmana hanno martellato insieme l'ignobile slogan: "One jew, one bullett" (un ebreo, una pallottola). C'è una vera consonanza tra questi due movimenti espansionistici che, per il momento, non si contraddicono. In ogni caso, gli europei pensano che in questo non ci sia alcuna contraddizione. Da una parte si ha l'espansione europea, che è un'estensione della democrazia formale, della libera circolazione dei beni e delle persone ecc., e dall'altra parte si ha l'espansione islamista, che si realizza anche nei paesi dell'Europa orientale attraverso la via indiretta dell'immigrazione musulmana. E' il caso della Francia.

D. La Francia è il paese più antisemita d'Europa?
R. La Francia è il paese dove l'antisemitismo può mobilitare la più grande quantità di buone coscienze. E' possibile che in Germania o in Austria si possa trovare quantitativamente più antisemitismo di tipo classico di quello che infierisce in Francia, ma penso che in Francia si possa trovare una quantità e una qualità di mobilitazione che dà buona coscienza, che legittima l'antisemitismo in nome dell'antirazzismo, del progressismo, della libertà, della difesa dei deboli nei confronti dei forti... E' in Francia che questo discorso di legittimazione dell'antiebraismo è il più sviluppato e il più portatore di avvenire. L'antisemitismo tedesco, austriaco, est-europeo, ecc. resta aggrappato a vecchi temi. In Francia la giudeofobia è portatrice di nuovi temi.

D. L'antisemitismo continuerà a proliferare in Francia?
R. Sì. Probabilmente assisteremo in Francia a un'estensione di un antiebraismo che diventerà sempre più virulento. Un antisemitismo considerato come legittimo in nome della libertà dei popoli di disporre di sé stessi, della difesa degli oppressi contro gli oppressori, ecc. La situazione degli ebrei in Francia non può che peggiorare. Se però gli ebrei tradizionali si maschereranno da musulmani, non correranno grandi rischi! Se invece manifesteranno apertamente la loro ebraicità, la situazione diventerà sempre più difficile per loro. La Francia è il paese che dà il tono, che indica il cammino che sarà percorso dall'Europa negli anni a venire.

(Canadian Jewish News, 15.09.2004)





5. UN'INCONSUETA VACANZA IN ISRAELE




In divisa per Israele

di  Franca Roiatti
    
Migliaia di volontari di tutto il mondo trascorrono le loro vacanze nelle basi dell'esercito ebraico. Lavano pentole, aiutano in cucina e alleggeriscono i compiti dei soldati. Quest'anno c'era tra loro anche una cronista di Panorama.
     
«In vacanza andrò in Messico a fare la guardia alle tartarughe. Mia madre non è felice, ma io le ho detto che altrimenti sarei partita per Israele come volontaria. A piegare paracadute in una base militare». Io sono scoppiata a ridere. La mia amica Cristiana ha un grande senso dell'umorismo e questa minaccia di Israele e dei paracadute mi era sembrata una splendida battuta. Non lo era. Così mi sono ritrovata su un volo per Tel Aviv, domenica 8 agosto. Trascinata dalla curiosità dentro un programma della Sar-El, l'organizzazione con uffici in tutto il mondo che seleziona chi decide di passare le ferie «sotto le armi», permettendo ai riservisti dello Tzahal, l'esercito israeliano, di restare a casa un po' più a lungo e allo stato di risparmiare un po' di soldi.
    Inutile cercare di conoscere prima del decollo la base di destinazione. Perfino sul sito internet della Sar-El si chiede ai volontari di non dare troppi dettagli sul soggiorno durante le telefonate a parenti e amici. È Israele, con le sue paure e i suoi indispensabili riti, forse un po' paranoici, per scacciare il terrore. Meglio abituarsi. Ma chi lo spiega alla poliziotta del controllo passaporti all'aeroporto Ben Gurion: «Perché è in Israele e dove starà?» chiede secca. «Sono qui per fare la volontaria con Sar-El, ma non so dove». «È ebrea?». «No». «E vuole andare nell'esercito israeliano?»: la sua faccia si incupisce, mette un timbro misterioso su un foglietto e mi spedisce poco oltre, dalla collega, che mi torchia per un'altra mezz'ora. Alla fine decretano che non sono pericolosa e mi fanno passare. Oltre la porta aspettano Anna, 47 anni, insegnante di Roma, Beppe, 57 anni, di Torino, informatico, e Graziano, diciottenne romano alla prima esperienza di vacanze alternative. Lasciamo l'aeroporto dopo un paio d'ore: destinazione la base Julis, non lontano da Ashkelon. È una struttura per la manutenzione dei veicoli, soprattutto carri armati.
    Assieme a noi italiani sono arrivate Karen e Lynn, due americane di 60 anni, Lilya e Rimma, madre e figlia sedicenne di origini russe, che abitano a Boston, Paul, un insegnante quarantenne tedesco, e Daniela, 21 anni, di Ginevra, che studia relazioni internazionali e da bambina è vissuta in Israele. È buio quando arriviamo alla base. Il tempo di salutare i volontari che sono già lì e poi ci vengono assegnate le stanze. Il letto è una brandina di ferro con un materasso alto pochi centimetri. Abbiamo diritto a un unico lenzuolo. Niente cuscino, non ce ne sono più. Confido nella compagnia. Divido la camera con madre e figlia di Stoccarda, Rachel ha una sessantina d'anni, il piglio da marine e due occhi di ghiaccio. Eva, 32 anni, una cascata di ricci e uno sguardo rassegnato. Ogni mio tentativo di creare un clima amichevole viene respinto a monosillabi e sorrisi di circostanza. In tre anni Eva e Rachel sono state 11 volte volontarie con Sar-El. E altri veterani mi giurano che è inutile insistere, preferiscono fare amicizia con gli israeliani. Pazienza.
    Il mattino dopo sveglia alle 6.30, colazione alle 7 con pomodori, cetrioli e uova strapazzate. Poi ci ritroviamo per la consegna delle uniformi e l'assegnazione degli incarichi. Io e Karen, mormone appassionata di archeologia biblica, finiamo in pasticceria. Fantastico: in fondo mi sento più a mio agio tra le pagnotte che sulla torretta di un carro armato. Il soldato che fa il pane non parla inglese. Ci spieghiamo a gesti, tanto bisogna soltanto lavare le teglie e per quello non servono istruzioni dettagliate. Dopo cena Julia e Carla, le nostre madricha, soldatesse con il compito di seguire i volontari, snocciolano le regole: alzabandiera alle 7.40, obbligatorio, segue pulizia delle camere, lavoro dalle 8.30 fino alle 12.30. Poi pranzo, si ricomincia a sgobbare alle 13.30 fino alle 16. Cena alle 18.30. Alle 19.30 attività serale. Qualche lezione di ebraico, la storia dei movimenti giovanili israeliani o quella del ladino, l'antica lingua degli ebrei sefarditi.
    Non si può lasciare la base, se non con speciale permesso. Nel weekend invece bisogna lasciarla, il permesso serve per restare. Non si può discutere di argomenti che possano urtare la sensibilità altrui: tradotto «per favore, niente politica e religione». «Ci sono stati problemi in passato» avverte Julia. Meno male che alcuni dei «compagni d'armi» sono piacevoli. David è un logorroico avvocato ebreo trentaseienne di New York, cresciuto repubblicano «per colpa della politica economica di Jimmy Carter». È un single da sit-com, «con un certo numero di fidanzate improbabili alle spalle». Come Judy, che almeno gli ha lasciato il freezer pieno di «tairamaisù» kasher, «ma sì, quel dolce italiano...». Ah, il tiramisù. «Sì» aggiunge sconsolato «quando farò l'Alyah (il trasferimento in Israele) mi mancherà la pizza kasher di Brooklyn».
    Trovo bizzarri questi slalom quotidiani tra i paletti imposti dalle regole alimentari ortodosse. Quanto poco divertenti possano essere lo scopro il giorno dopo. In panetteria c'è poco da fare, io e Karen veniamo arruolate in cucina a rompere uova per le fettine impanate. Ne abbiamo già rotte una sessantina quando arriva uno dei cuochi che comincia a sbraitare. Ci guardiamo stranite. Il soldato a gesti e monosillabi in inglese ci fa capire che non abbiamo seguito la procedura kasher, che impone di rompere le uova uno alla volta in un bicchiere per verificare che nel tuorlo non ci siano residui di sangue. Oddio, adesso butterà via tutto. Il rabbino di questa base è particolarmente rigido. Nessuno ci ha spiegato la procedura, ma non posso fare a meno di sentirmi in colpa. Per fortuna i tuorli vengono salvati. E io spedita di corsa a dare una mano alla squadra in servizio alla mensa ufficiali. A lavare piatti. Che sia una punizione? Mah...
    Quello che accade dopo cena, invece, ha decisamente il sapore della punizione. La sera si mangiano formaggi e insalate e alla fine i piatti vengono accatastati in un carrello. «Ragazzi, dovete dare una mano in cucina» intima Julia. A lavare quei piatti. Perché, visto che c'è una lavastoviglie grande quanto metà del mio bilocale? Semplice, lì si sono lavati i piatti del pranzo a base di carne e non si possono lavare quelli del formaggio. Sono perplessa. Beppe mi spiega che la regola biblica «Non mangerai il capretto nel latte di sua madre» ha estensioni variabili, che vanno dal non mischiare latticini e carne nello stesso pasto a, per l'appunto, usare lavastoviglie separate. E quando ce n'è una sola, come qui, si sgobba sul lavello. A deciderlo, naturalmente, è il rabbino. È difficile comprendere questa irruzione del sacro nei ritmi militari, soprattutto in un luogo dove perfino l'obbedienza agli schemi marziali sembra tiepida. La maggior parte dei soldati sono ventenni, che scherzano tra loro come al liceo e la sera posano l'M16 per imbracciare la chitarra. Le ragazze hanno le unghie dipinte e i capelli bicolori, flirtano e si truccano. Tutti giocano con il telefonino. «Il clima è più disteso dell'anno scorso» rileva Anna. «Forse perché da mesi non ci sono attentati gravi». «Credo che il muro sia davvero la soluzione» dice Paul, riassumendo il pensiero di molti israeliani.
    «Jaaace!», urla Carla al parrucchiere diciannovenne di Londra, con un bulldog rabbioso tatuato sul braccio. Jace è parcheggiato qui, in cerca di se stesso e in fuga da un figlio di due anni. Colleziona strigliate perché non si sveglia, non va a lavorare, non mette l'uniforme ed è ruvido con le persone. Troppo, secondo Carla. Lui scuote la testa e mi dice: «Ho bisogno di disciplina, devo entrare nell'esercito». Intanto Benjamin sospira, guardando Daniela poco lontano. Lei è la più corteggiata tra le volontarie. Lui è un diciottenne sveglio di Parigi. Fino a pochi mesi fa abitava a Nantes, con la famiglia, che una mattina si è ritrovata svastiche e frasi antisemite sul muro di cinta. «Se fosse successo qualcosa a me o a mio fratello, i miei genitori ci avrebbero portati qui. Non ho dubbi. Per noi ebrei Israele è un baluardo».
    Daniela annuisce. Lei qui sogna di tornarci ad abitare dopo l'università. Ma alle sue compagne di corso non ha detto che avrebbe passato le vacanze in divisa. «Per poi dovere spiegare che non sono andata a uccidere i palestinesi?» sottolinea sarcastica. «Sono stanca delle bugie che accompagnano Israele». Anna, che ebrea non è, si infervora. «Come si fa a non appoggiare un popolo che ha dimostrato un tale coraggio nel resistere ai nemici?». Beppe, invece, è in cerca di un delicato equilibrio tra l'inevitabile slancio verso la patria di tutti gli ebrei e le scelte non sempre condivisibili di chi governa quella patria: «A volte sono critico con Israele, ma mi sembrava giusto venire qui a testimoniare l'importanza che questo paese ha per me e conquistarmi il diritto a esprimere i miei dubbi».
    Dopo qualche giorno mi assegnano all'armeria. Uno stanzone pieno di piante, riproduzioni di cime innevate alle pareti e una voliera con due pappagalli. Ci lavorano ragazzine soldato bellissime, che smontano i Galil (fucili d'assalto) ballando il rap che tuona dallo stereo. Io e Steve, ex militare americano esperto di Iraq, dobbiamo pulire le canne dei fucili, passando con cura all'interno un'asticella con in cima un quadratino di stoffa. Steve mi spiega che anche un solo granello di polvere può deviare la traiettoria di un proiettile. L'idea mi mette terribilmente a disagio. Decido che il giorno dopo, l'ultimo dei 15 trascorsi in divisa, tornerò in cucina. Con in testa il contrasto tra le armi e la freschezza di queste ragazzine soldato, che ridono guardando Steve e i suoi 150 chili accennare un movimento dance. E lui che mi confida: «Io voglio stabilirmi in Israele. Perché la guerra contro il terrorismo si potrà vincere o perdere soltanto qui».

(Panorama, 17 settembre 2004)





6. MUSICA E IMMAGINI




Let My People Go




7. INDIRIZZI INTERNET




Sar-El Volunteers for Israel

Mid-East Eyewitness Speakers Bureau




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