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Notizie su Israele 283 - 24 febbraio 2005

1. 29.000 ebrei in Italia: aumentano gli ortodossi
2. Pregiudizi che crollano
3. La verità sul tesoro di Arafat
4. Arafat: 1,3 milioni investiti in bowling
5. Se lo Stato di Israele non ci fosse
6. Ricerca di identità
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 29:22-23. Perciò così dice il Signore alla casa di Giacobbe, il Signore che riscattò Abraamo: «Giacobbe non avrà più da vergognarsi e la sua faccia non impallidirà più. Poiché quando i suoi figli vedranno in mezzo a loro l’opera delle mie mani, santificheranno il mio nome, santificheranno il Santo di Giacobbe, e temeranno grandemente il Dio d’Israele.»
1. 29.000 EBREI IN ITALIA: AUMENTANO GLI ORTODOSSI




Servizio speciale realizzato per conto della Presidenza del Consiglio dei Ministri

TORINO - Sono tredici milioni oggi gli ebrei nel mondo, (erano sedici milioni e mezzo nel 1939, prima della Shoah), di cui 29 mila in Italia. A rivelare il dato e' una ricerca del Cesnur, (Centro Studi sulle Nuove Religioni), di Torino, che sara' presentata lunedi' prossimo durante un convegno nel capoluogo piemontese, dal direttore del Cesnur, Massimo Introvigne e dallo storico delle religioni, il californiano J.Gordon Melton. Al convegno di Torino, cui prenderanno parte, tra gli altri, anche il sottosegretario alla Giustizia, Michele Vietti, il rabbino capo di Torino, Alberto Somekh, ed il teologo cattolico, don Pietro Cantoni, la ricerca, oltre a rispondere alla domanda di quanti siano oggi gli ebrei nel mondo, spieghera' anche quali tendenze culturali e religiose prevalgano fra gli ebresi stessi. Sul controverso problema di quanti ebrei siano 'religiosi', la ricerca del Cesnur, (che si propone di presentare una vera e propria 'mappa' dell'ebraismo mondiale), ritiene probabile che un terzo degli ebrei frequenti, almeno occasionalmente, una sinagoga, ma che piu' del 70% mantenga qualche pratica tradizionale come il digiuno del Kippur, o l'accensione di candele per lo Shabbath. E la ricerca rivela ancora che "se in termini di preferenze le forme di ebraismo piu' 'progressista' sono in maggioranza negli Stati Uniti, (non in altri Paesi), fra chi frequenta settimanalmente le sinagoghe, gli ordotossi sono maggioritari e l'ala in piu' rapida crescita e' quella dei movimenti hassidici come i Lubavitcher".
   "L'ebraismo come religione - e' il commento di Gordon Melton - non e' ne' morto, ne' moribondo. Contrariamente a metodologie diffuse, anche nel mondo ebraico vi e' piuttosto, un ritorno alla religione di molti giovani, che lascia ben sperare per il futuro". Un secondo tema della ricerca e del convegno e' quello dell'antisemitismo. "Se l'antisemitismo tradizionale e di estrema destra appare stabile, cresce in modo preoccupante, a parere di Introvigne, un nuovo antisemitismo, antiglobalista ed influenzato dalle tesi del radicalismo islamico che odia l'ebreo, non in quanto estraneo all'Occidente, ma in quanto rappresenterebbe tipicamente l'Occidente di George Bush. Si parte dall'antisionismo, conclude Introvigne, ma come gia' affermava Martin Luther King nella 'Lettera ad un amico antisionista', del 1967, e' importante 'non sbagliarsi: quando la gente attacca il sionismo, intende gli ebrei', ed il cosiddetto antisionismo spesso e' solo il punto di partenza per il nuovo antisemitismo".

(AGI, 23 febbraio 2005)





2. PREGIUDIZI CHE CROLLANO




Anche a sinistra si "riabilita" Sharon

La notizia, per cominciare: il governo israeliano ha approvato il piano di sgombero della striscia di Gaza voluto dal premier Ariel Sharon. L'esecutivo si è espresso con 17 voti a favore e cinque contrari. La decisione dà a Sharon la possibilità di preparare l'ordine di sgombero dei circa 8.mila coloni di Gaza e i circa quattrocento della Cisgiordania, da completare entro la fine dell'anno. I coloni avranno cinque mesi di tempo per lasciare le proprie case spontaneamente prima che intervenga un ordine del tribunale. Inoltre circa cinquecento palestinesi detenuti per reati di terrorismo sono stati liberati. Significherà qualcosa, vero?
    Lo ha riconosciuto qualche giorno fa il direttore de "l'Unità" Furio Colombo. Intervistato dal "Corriere della Sera" Colombo ha esplicitamente riconosciuto che vi sono, radicati e difficili da estirpare, dei pregiudizi nei confronti di Israele, e che Sharon è "un grande personaggio"; non solo: vi sono stati dei gravi ritardi nel capire, e denunciare, l'orrore dei terroristi kamikaze. Un dire, quello di Colombo, che meritava riflessione, dibattito. Per confutare quanto sostiene, o per ragionare sul perché‚ la denuncia è invece fondata. Sarà per questo che sull'intervista è calato invece un silenzio rigoroso quanto imbarazzato? Colombo parla di Sharon come di un caso: "La vicenda straordinaria di un uomo che ha avuto un ruolo drammaticamente spostato a destra nella vita politica del suo paese, in un momento di particolare rischio, quando Israele si difendeva ad oltranza dal pericolo di cessare di esistere; e che è cambiato con il cambiare della situazione, anzi un attimo prima". Annotiamolo: si riconosce intanto che Israele si è difeso, e in ballo c'era, letteralmente, la sua esistenza. Si difende chi è aggredito, e Israele è stato, fin dalla sua costituzione, aggredito dai paesi arabi confinanti: lo scopo era distruggere Israele, e non hanno lasciato nulla di intentato. Non si tratta di recriminare, piuttosto di non smarrire la memoria. Ricordare è la premessa fondamentale per capire quel che è accaduto e accade. Il dramma dei palestinesi è figlio della scellerata politica dei paesi arabi "fratelli", più che delle pretese vocazioni "imperialiste" israeliane che per anni la sinistra europea ha cercato di accreditare.
    Ma riprendiamo il filo del ragionamento di Colombo: "L'uomo più duro della destra israeliana è andato in cerca della sinistra, di Peres, di un governo di unità nazionale, per dare maggiore forza ad accordi che in quel momento non erano ancora all'orizzonte, ma erano forse già nelle sue intenzioni". Poi si arriva a cose che ci riguardano più direttamente: "C'è a sinistra un antico pregiudizio nei confronti di Israele, visto come parte potente e prepotente nei confronti di una parte occupata e disperata". Un pregiudizio che non riguarda il solo Sharon, dice Colombo, ma Israele nel suo complesso.
    E poi il ritardo nel "rivedere certi aspetti fondamentali, nel non capire quale trasformazione paurosa avevano per esempio portato le bombe umane, nel non vedere la disperata grandezza dell'orrore dei kamikaze, nel pretendere e pensare che Israele potesse reagire in modo 'usual' di fronte alle stragi sugli scuolabus".
    Colombo, poi si concede un'ultima "revisione": "Ho seguito con simpatia lo stile e i modi del primo viaggio europeo di Condoleezza Rice. Non c'è dubbio che il personaggio abbia stile, eleganza, qualità comunicativa di prim'ordine. Non so se alla forma corrisponderà la sostanza... Però adesso ho assistito a un passaggio pieno di buone qualità. Attendiamo con rispetto e comprensione di sapere quale sarà l'approdo". Non ce n'è abbastanza per ragionare, discutere, dibattere? Fino all'altro giorno Sharon era descritto come un macellaio assetato di sangue e incapace anche solo di pensare alla pace. E' comunque interessante questo esplicito ripensamento sul ruolo e l'azione svolta da Sharon: indubbiamente un "duro" e un "destro", ma come anche da queste colonne abbiamo detto spesso, l'unico forse che è in grado di portare avanti una politica di pace, e di far "ingoiare" al Likud e ai partiti religiosi israeliani quei "rospi" che la pace necessariamente deve far ingoiare agli israeliani.
    In passato abbiamo avuto analoghe "rivalutazioni": è il caso del generale e presidente americano Dwight Eisenhower, di Richard Nixon e di Ronald Reagan: dipinti in vita come biechi reazionari guerrafondai; poi portati agli altari; solo dopo morti se ne sono riconosciuti gli indubbi meriti. Forse un giorno, chissà, accadrà anche con George W. Bush.

(Il Giornale di Sicilia, 22 febbraio 2005)





3. LA VERITÀ SUL TESORO DI ARAFAT




«Ne ha fatto un uso personale soltanto per la giovane moglie»

PARIGI - Centinaia di milioni di dollari «spariti», conti in Svizzera, agenti finanziari di origine israeliana, transazioni in paradisi fiscali. Il settimanale francese «Le Nouvel Observateur» ha indagato sul patrimonio dell'ex leader dell' Olp Yasser Arafat e, spulciando tra documenti ufficiali e riportando testimonianze importanti, ricostruisce quella che definisce «una delle più incredibili saghe politico-finanziarie di questi ultimi anni».
    Si parte dalla ormai famosa scoperta di dicembre scorso [ved. notizia seguente], che uno dei più famosi bowling di Manhattan a New York appartiene in parte ad Arafat. Le Nouvel Observateur afferma che il leader palestinese «non ha mai approfittato personalmente del suo fondo segreto, ma l'esistenza del suo tesoro di guerra non è tuttavia un fantasma». Viene ricordato il rapporto del Fondo monetario internazionale: tra il 1994 e il 2000 circa 898 milioni di dollari hanno lasciato il circuito ufficiale del budget palestinese.
    Sfuggendo al controllo del ministero delle Finanze, questa somma ha transitato dalle banche di Gerusalemme a quelle di Ramallah sotto il nome di Yasser Arafat e del suo consulente finanziario, Mohamed Rachid. Il denaro - secondo il settimanale - proveniva da diverse fonti: da decime su tasse d'importazione di una serie di prodotti fino a fondi occulti su contratti importanti con l'Autorità palestinese.
    A cosa serviva il fondo segreto di Arafat? Una piccola parte, afferma il settimanale, è andato sicuramente alla moglie Souha. Con il resto il leader pagava una decina di forze della sicurezza palestinese, comprava la fedeltà di alcuni, faceva tacere le critiche di altri, portava avanti la propaganda politica, donava 800 dollari a qualcuno che aveva perso il lavoro o 1.000 dollari ad una famiglia alla quale era stata distrutta la casa da un bombardamento.
    Dal 2001 - ricorda Le Nouvel Observateur - «ci si pose la domanda: ma Arafat sostiene i kamikaze? Gli israeliani dicono che il leader ha finanziato le organizzazioni terroristiche che dipendevano dal suo partito Al Fatah». Secondo il settimanale, «se comunque si dà credito all'ipotesi israeliana, le somme così spese arrivano a milioni di dollari, piuttosto che a centinaia di milioni. E l'essenziale del tesoro di Arafat era probabilmente destinato ad essere conservato nel caso in cui.... Il leader palestinese poteva, da un giorno all'altro, essere espulso da Israele. In esilio, come una volta a Tunisi, avrebbe avuto bisogno di questo denaro».
    Le Nouvel Observateur fa anche il ritratto di Salam Fayyad, nominato il 9 giugno del 2002 ministro delle finanze di Arafat, definito «l'incorruttibile» ed «interlocutore privilegiato della comunità internazionale a Ramallah». «Conti tornati a posto? Versione ufficiale: grazie alla tenacia di Fayyad e alla collaborazione di Mohamed Rachid - scrive il settimanale - tutto è rientrato nell'ordine». «Ma ad oggi, in ogni caso, nessuno è in grado di provare che il denaro nascosto di Arafat sia stato integralmente recuperato.
    Una cosa è comunque sicura: dalla morte del rais - conclude Le Nouvel Observateur - il vento è cambiato. Le mele marce non hanno più alcun protettore». Intanto il premier Abu Ala ha perduto il braccio di ferro con il parlamento palestinese, e ha chiesto la fiducia per una lista di 24 ministri molto diversa da quella che ieri l'altro era stata aspramente criticata dall'assemblea parlamentare, evitando cosi un probabile voto di sfiducia che lo avrebbe costretto alle dimissioni. Dopo una notte di consultazioni nel partito Al-Fatah, Abu Ala si è presentato in parlamento per annunciare che inserirà nella squadra di governo «soprattutto tecnici» e non politici.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 23 febbraio 2005)





4. ARAFAT: 1,3 MILIONI INVESTITI IN BOWLING




WASHINGTON - Bar Mitzvah in casa Arafat: il defunto leader palestinese risulta essere un investitore occulto in un popolare bowling di Manhattan, dove gli ebrei facoltosi della Grande Mela organizzano la festa legata al rito per i ragazzi che compiono 13 anni.
    Attraverso l'investimento di 1,3 milioni di dollari, Arafat ha acquisito una quota del 2% della società che controlla il Bowlmor di Greenwich Village, secondo una serie di documenti resi pubblici che fanno un po' di luce sui 799 milioni di dollari investiti nel mondo dal leader storico dell'Olp a nome della Pcsc (la holding dell'Autorità nazionale palestinese con sede a Ramallah).
    La Bloomberg Markets Magazine ha diffuso per prima la notizia del bowling, che ha destato scalpore nella città più ebrea del mondo. "Bowling for Palestine" ha intitolato il suo servizio sulla vicenda il Daily News, con un'allusione al documentario di Michael Moore sulla lobby delle armi, 'Bowling for Columbin'.
    Il Bowlmor, che si trova a pochi passi dalla New York University in un quartiere di moda di Manhattan, è frequentato dai divi della politica e dello spettacolo, dall'attrice Cameron Diaz all'ex sindaco di New York Rudolph Giuliani. Nell'estate scorsa, a margine della convention repubblicana, il partito del presidente George W. Bush ha svolto ben due feste nei locali del bowling.

(ticon@nline, 23 dicembre 2004)





5. SE LO STATO DI ISRAELE NON CI FOSSE




Senza Israele il mondo sarebbe perfetto?
    
di Josef Joffe, direttore del settimanale "Die Zeit"
    
    Dai tempi della Seconda guerra mondiale, nessuno Stato ha subito un rovesciamento così radicale della sua considerazione sulla scena mondiale quanto Israele. Ammirato in modo totale sino agli anni ’70 come lo Stato di «quei coraggiosi ebrei» in grado di sopravvivere ad ogni avversità e di far fiorire la democrazia e il deserto nonostante il clima di incessante ostilità cui erano sottoposti, Israele è diventato il bersaglio privilegiato di una continua, strisciante delegittimazione. La costante denigrazione si manifesta in due forme. La prima, la versione cosiddetta «soft», ritiene Israele il primo e più grave colpevole di tutti i mali che affliggono il Medio Oriente e responsabile di aver corrotto la politica estera degli Usa. La versione più dura mette in dubbio lo stesso diritto all’esistenza di Israele: è Israele in quanto tale, e non il suo comportamento, l’origine dei problemi del Medio Oriente. Da qui la conclusione che la nascita dello Stato ebraico, sostenuta dagli Usa e dall’Urss nel 1948, sia stata un gravissimo errore, anche se al momento poteva sembrare un’idea giusta e meritoria.
    Cominciamo il nostro viaggio nel 1948, con la nascita d’Israele da un conflitto armato. Forse che un suo aborto avrebbe stroncato sul nascere il problema palestinese? Niente affatto. Egitto, Transgiordania (oggi Giordania), Siria, Iraq e Libano marciarono su Haifa e Tel Aviv non certo per liberare la Palestina, ma per conquistarla. L’invasione è stata un gioco di potere da manuale tra Stati confinanti, decisi ad acquisire territori per loro stessi. Se i rivali di Israele avessero vinto, non sarebbe emerso uno Stato palestinese e ci sarebbero stati migliaia di rifugiati. Anzi, se si presume un risveglio del nazionalismo palestinese nel periodo della sua manifestazione storica, ovvero alla fine degli Anni ’60 e ’70, oggi i palestinesi invierebbero forse le loro bombe umane in Egitto, Siria e in altri Paesi islamici.
    Immaginiamo ora che Israele sia scomparso nel 1967, invece di aver occupato la Cisgiordania e la striscia di Gaza, che erano nelle mani rispettivamente di Re Hussein di Giordania e del presidente Gamal Abdel Nasser dell’Egitto. Forse che questi capi di Stato avrebbero rinunciato ai loro possedimenti per donarli al leader palestinese Yasser Arafat e magari anche regalato Haifa e Tel Aviv per gentilezza? Improbabile. I due potentati, nemici in tutto tranne che nel nome, erano uniti soltanto dall’odio e dal disprezzo per Arafat, il fondatore di Al Fatah, giustamente sospettato di complottare contro i regimi arabi. In breve, la «causa principale» della situazione palestinese avrebbe continuato ad esistere, anche senza Israele.
    Infine, facciamo l’ipotesi che Israele «scompaia» oggi. Come potrebbe questa circostanza influenzare le patologie politiche della regione? Solo coloro che ritengono che il problema palestinese sia il cuore dei conflitti del Medio Oriente potrebbero con leggerezza prevedere un futuro roseo per l’area più turbolenta del mondo una volta che Israele scomparisse. Perché non esiste un conflitto: sono cinque gli scenari che si presenterebbero se lo Stato ebraico cessasse di esistere, nessuno dei quali assicurerebbe un futuro migliore alla regione. Anzi.
    1) Stati contro Stati. Il ritiro delle potenze coloniali, Gran Bretagna e Francia, alla metà del ventesimo secolo, si è lasciato dietro un coacervo di giovani Stati arabi che hanno cercato freneticamente di ridisegnare la mappa della regione. Sin dall’inizio, per esempio, la Siria avanzò pretese sul Libano. E nel 1970 solo la forza militare di Israele dissuase Damasco dall’invadere la Giordania con il pretesto di sostenere un’insurrezione palestinese. Ancora: nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, il presidente egiziano Nasser si autoproclamò il messia del panarabismo intervenendo nello Yemen. Il successore di Nasser, il presidente Anwar Sadat, si trovò immischiato in scontri di confine con la Libia alla fine degli anni Settanta. Per quanto riguarda la Siria, marciò sul Libano nel 1976 e 15 anni dopo se lo annetté a tutti gli effetti. Poi l’Iraq: aggredì due Paesi islamici scatenando due guerre, con l’Iran nel 1980 e con il Kuwait nel 1990. Quella contro l’Iran è stata la guerra con armi convenzionali che è durata di più nel ventesimo secolo.
    Nessuno di questi conflitti ha a che fare, però, con quello israelo-palestinese. E la scomparsa di Israele non farebbe altro che liberare risorse militari che verrebbero utilizzate nelle rivalità interne degli altri Paesi.
    2) Credenti contro credenti. Quanti ritengono che il conflitto mediorientale sia «un affare tra musulmani ed ebrei», dovrebbero dare un’occhiata ai 14 anni di scontri faziosi e bagni di sangue in Libano, oppure al genocidio degli

prosegue ->
sciiti perpetrato da Saddam alla conclusione della prima Guerra del Golfo, o anche al massacro di 20mila persone organizzato dalla Siria durante l’assedio di Hama da parte della Fratellanza Musulmana nel 1982 o, infine, alla violenza terroristica contro i cristiani egiziani negli Anni ’90. A tutto questo si aggiunga l’oppressione interconfessionale, per esempio quella in Arabia Saudita, dove la setta fondamentalista dei Wahhabi ha usato l’arma del potere statale per imporre il proprio severo stile di vita ai meno devoti.
    3) Ideologie contro ideologie. Il sionismo non è l’unico «ismo» di questa regione. Qui convivono infatti molte ideologie in aperta competizione. Per esempio, sebbene abbiano le stesse radici fasciste europee, i partiti baathisti di Siria e Iraq si sono dati battaglia sin dall’inizio per il dominio del Medio Oriente. Nasser ha utilizzato il panarabismo coniugandolo con il socialismo per scuotere le nazioni-Stato arabe. E sia i baathisti che i nasseriani si sono opposti con forza alle monarchie, come quella che regna in Giordania. L’Iran khomeinista e l’Arabia Saudita wahabita rimangono acerrimi nemici.
    Esistono connessioni con il conflitto arabo-israeliano? No. Fa eccezione Hamas, un esercito di terroristi e «guardiani della fede», un tempo sostenuto da Israele come rivale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e ora responsabile di numerosi attacchi kamikaze nello Stato ebraico. Ma Hamas si scioglierebbe se Israele dovesse scomparire? Difficile. L’organizzazione ha ambizioni ben più grandi della semplice eliminazione dell’«entità sionista»: cerca di creare niente meno che uno Stato arabo unificato sotto un regime teocratico.
    4) Utopia reazionaria contro modernità. La comune ostilità nei confronti di Israele è l’unico fattore che impedisce agli arabi più conservatori e a quelli progressisti di arrivare a un confronto violento all’interno della società civile. I fondamentalisti lottano contro i secolaristi e i riformisti islamici per l’unione della moschea e dello Stato sotto il vessillo verde del profeta. E una lotta di classe sempre più difficile da nascondere mette costantemente a confronto una borghesia ridotta ai minimi termini e milioni di giovani disoccupati con la struttura del potere: di solito, una forma di statalismo che controlla i mezzi di produzione. In tale contesto s’inserisce il ruolo d’Israele: ben lungi dall’essere la causa di certe tensioni, lo Stato ebraico tiene attualmente sotto controllo le tensioni nella regione.
    5) Regimi contro popolazioni. L’esistenza di Israele non è in grado di spiegare l’ampiezza e la profondità con cui gli Stati Mukhabarat (Stati segreti di polizia) si sono diffusi nel Medio Oriente. Perché, a eccezione di Giordania, Marocco e degli sceiccati del Golfo, che praticano con la massima cautela una forma illuminata di monarchia, tutti gli altri Paesi arabi (cui si aggiungono Iran e Pakistan) non sono che variazioni del dispotismo. Esaminiamole. Le difficoltà e le lotte intestine in Algeria hanno portato all’assassinio di quasi 100mila persone e ancora non s'intravedono sbocchi alla situazione. Si dice che le vittime di Saddam siano state 300mila. L’Iran, dopo la salita al potere dei khomeinisti nel 1979, è rimasto invischiato, oltre che nella guerra con l’Iraq, in una situazione interna che vede un dissenso difficile da contenere. Quanto al Pakistan, è una bomba che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Alla fine, l’unico mezzo per ottenere la stabilità nella regione è una spietata repressione.
    Ci vuole molta immaginazione per supporre che la semplice eliminazione di Israele possa portare all’avvento della democrazia liberale nell’intera regione. Può invece essere plausibile ipotizzare che la dialettica dell’ostilità in qualche modo finisca per favorire la dittatura negli Stati «in prima linea» quali l’Egitto e la Siria - governi che attualmente invocano la vicinanza con la «minaccia sionista» come pretesto per sopprimere i dissidenti. Ma in che modo si potrebbero poi spiegare i massacri nella lontana Algeria, il bizzarro regime fondato sul culto della personalità vigente in Libia, la devota cleptocrazia dell’Arabia Saudita, il dispotismo clericale dell’Iran, o il continuo fallimento dell’esperimento democratico in Pakistan? Israele è forse responsabile in qualche modo dei vari colpi di Stato che avevano trasformato l’Iraq in una repubblica del terrore? E se la Giordania, lo Stato che condivide il più lungo tratto di confine con Israele, può sperimentare la monarchia costituzionale, perché non può farlo la Siria?
    Due rapporti Onu sullo sviluppo umano del mondo arabo - preparati da autori arabi - affermano che i suoi gravi problemi sono causati da ragioni intestine. Stagnazione e mancanza di speranza hanno tre cause principali. La prima è l’assenza di libertà. Le Nazioni Unite citano la persistenza delle autocrazie assolute, le elezioni truccate, i giudici ridotti a schiavi del potere esecutivo e i vincoli alla società civile. La libertà di espressione e quella di associazione sono anch’esse severamente limitate. La seconda causa è la mancanza di conoscenza: 65 milioni di adulti sono analfabeti e quasi 10 milioni di bambini non hanno avuto esperienze scolastiche. Terza causa: la partecipazione femminile alla vita politica ed economica è la più bassa del mondo. La crescita economica continuerà ad andare a rilento sino a quando il potenziale di metà della popolazione dei Paesi arabi rimarrà inutilizzato.
    La domanda è: i milioni di giovani disoccupati e senza interessi, carne da cannone per i terroristi, i partiti unici, la corruzione, le economie chiuse svaniranno se Israele dovesse scomparire? Infine, ecco la questione più importante: il mondo islamico odierebbe meno intensamente gli Stati Uniti se Israele scomparisse?
    L’odio arabo-islamico nei confronti degli Usa precede la conquista della Cisgiordania e della striscia di Gaza. Non appena Gran Bretagna e Francia hanno abbandonato il Medio Oriente, l’America è diventata la potenza dominante nella regione, e di conseguenza il bersaglio numero uno. Un altro fatto importante è che l’antiamericanismo più feroce è presente nei sedicenti alleati di Washington nel Medio Oriente arabo, ovvero in Egitto e in Arabia Saudita.
    Si prenda la dichiarazione del Cairo contro «l’egemonia Usa», sottoscritta da 400 delegati di tutto il Medio Oriente e dell’Occidente nel dicembre del 2002. Il lungo documento di accusa cita la Palestina solo marginalmente. Il principale argomento della condanna rimprovera agli Stati Uniti di aver monopolizzato il potere «nel contesto di una struttura di globalizzazione capitalista» finalizzata alla restaurazione del «colonialismo», e di bloccare l’«emergenza di forze che potrebbero spostare l’equilibrio del potere mondiale verso una possibile multipolarità». In breve, l’America globalizzatrice è responsabile di tutti i mali del mondo arabo, mentre Israele si trova al secondo posto, a notevole distanza.
    Questo piccolo aneddoto ha anche uno strascico ironico: uno dei principali firmatari del documento è Nader Fergany, principale autore del rapporto Onu del 2002 sullo sviluppo umano nel mondo arabo. Quindi, persino chi è disposto a confessare i guasti interni del mondo arabo finisce con il dare la colpa «agli altri».
    Data perciò l’enormità dell’accusa, abbandonare Israele non assolverà gli Usa. Ciò che irrita davvero quanti detestano gli Usa in Medio Oriente è l’intrusione di Washington nei loro affari, che avvenga per ragioni di petrolio, terrorismo o armi di distruzione di massa. Questo è il vero motivo che ha spinto Osama Bin Laden, il quale poi ha citato la causa palestinese quasi sovrappensiero, a chiamare gli americani i nuovi crociati e a definire gli ebrei come i loro servi imperialisti. La vera fonte dell’odio integralista è l’Occidente come simbolo palpabile della miseria e bersaglio irresistibile per quella che il famoso studioso mediorientale Fouad Ajami ha definito la «rabbia araba».
    Niente di quanto detto può naturalmente servire come argomento per sostenere la continuazione dell’occupazione da parte di Israele della Cisgiordania e della striscia di Gaza, né può scusare la crudeltà e la durezza imposte ai palestinesi, che sono dannose anche per lo spirito stesso di Israele.
    Una vecchia storiella che risale alla guerra di indipendenza di Israele dice: mentre i proiettili fischiano sulla loro testa, due ebrei nella loro trincea stanno finendo i colpi e uno si lamenta: «Se proprio gli inglesi dovevano darci un paese che non fosse di loro proprietà, non potevano darci la Svizzera?». Purtroppo, Israele è proprio una striscia di terreno nella regione più difficile del mondo e la situazione è ancora ben lontana dall’essere anche solo lontanamente risolta.
    
(Corriere della Sera, 1 febbraio 2005)





6. RICERCA DI IDENTITA'




Nata da madre ignota

a cura di Claude Bensoussan

L'unico legame che mi ricollega alla mia identità occupa un posto enorme nella mia memoria, ma in realtà è ben riposto.
    Mia nonna mi accarezza il viso e i capelli con le sue mani, cercando così di fare conoscenza con me, la figlia di Fleurette. E' cieca, e i suoi diti inquisitori, fini e leggeri, mi procurano una deliziosa sensazione di benessere. Parla una lingua arcana, a me sconosciuta: l'yiddish. Lunghe cantilene e bisbigli talvolta appena udibili in cui vorrei discernere dei nomi: quelli dei miei, mio padre e mia madre.
    Ero orfana, e mia nonna era l'unica che avrebbe potuto dirli. Ma ormai nulla di comprensibile usciva più da quelle labbra esangui, dal suo viso incavato dalla vecchiaia e dalla mancanza di speranza, se non quelle parole di yiddish, che oggi mi sono così familiari per avervi cercato il nome di mia madre. Enigmatica, quella vecchia donna silenziosa cercava una traccia vivente dei suoi figli morti in deportazione nel toccare, accarezzare una bambina di tre anni, la cui testa poggiava docilmente sulle sue ginocchia. Complicità intensa di due esseri femminili, ciascuna ad un estremo della scala della vita, con in mezzo quel gran buco nero spalancato dei pogrom e della Shoah, quei morti, quella mancanza di un linguaggio comune. Non eravamo in grado di rievocare, e quella cecità impediva di verificare che, sì, ero proprio la figlia di Fleurette. Ma sapeva almeno chi era mio padre?
    Ha portato il segreto nella tomba...
    Alla mia nascita, Fleurette mi aveva messo un nome al di sopra di ogni sospetto di ebraicità: Christiane: E quanto al padre era ricorsa a un falso, aveva pagato per denunciarmi al Comune come segue: "Christiane Delaporte, nata da madre ignota. Padre: Gaston Delaporte." Solo la scienza ai nostri giorni può riuscire a rendere plausibile una simile assurdità. Ma è grazie a questa enorme menzogna, che faceva marameo al regime di Vichy, che sono sopravvissuta. Mia madre ha avuto appena il tempo di affidarmi alla mia grande nutrice, Maguite, prima di essere deportata, e poi gasata, ad Auschwitz.
    Fu dunque sua sorella, Louise, che venne a prendermi dopo la liberazione (dopo tre anni!) per consegnarmi all'esplorazione delle mani di una nonna.
    Ma la deliziosa parentesi di questa parentela ritrovata si chiuse subito sui miei sogni di bambina. Né Louise, estenuata da anni di campo di concentramento, né Gaston, di cui non si trovò mai la traccia, né gli altri fratelli e sorelle di mia madre che erano probabilmente occupati a cercare di sopravvivere e a contare i loro morti, poterono o vollero prendersi cura di me. La piccola Delaporte visse i primi anni della sua vita in campagna, ad aiutare la sua nutrice Maguite ad occuparsi dei bambini che aveva in custodia. Punto. Andava alla scuola del paese con la vettura del lattaio. Punto. E' tutto quello che rimane di quella parte della mia identità: francese, cattolica, orfana di guerra.
    Ma la mia vita si capovolse di nuovo quando mia zia Louse mi presentò agli Z. Avevo sei anni.
    Arrivarono una domenica, come se sbarcassero da un altro pianeta. Io non vedevo che lei: Maroussia. Non avevo mai visto una donna così bella e così elegante.
    Indossava una lunga veste blu a pois bianchi, largamente scollata, che le conferiva una silhouette di fata, e un cappello col velo che donava al suo viso sconosciuto un soprappiù di mistero.
    La mia prima domanda fu: "Perché porta una tendina davanti al viso?" Il che li fece ridere.
    Ci mettemmo un anno a fare conoscenza. Erano subentrati finanziariamente alla mia povera zia per sostenere le mie spese, fino al giorno che, stanchi di tergiversare sul mio avvenire, mi inclusero nella loro vita. Mi installarono nel loro salotto su un letto improvvisato fatto da due poltrone messe l'una davanti all'altra. E nella buona e nella cattiva sorte iniziammo la nostra vita comune.
    Erano ebrei russi, parlavano russo tra di loro e con i loro amici, ed ebbi immediatamente l'impressione di essere l'oggetto di una cospirazione, di essere caduta in mano a degli stranieri, ma non di quelli buoni. Vi chiedo: che cosa ha il russo in comune con l'yiddish?
    Mio padre era fiero di me perché i miei risultati scolastici erano promettenti. Maroussia, al contrario, disperava di fare della piccola paesana che io ero una bambina borghese della buona società. Continuavo a gettare via le scarpette di vernice che si ostinava a farmi infilare, con una rabbia che possono capire soltanto quelli che non hanno portato altro che zoccoli e galosce. E urlavo al vedere la testa ridicola che mi facevano i parrucchieri, a cui insistevano a mandarmi per farmi tagliare i capelli, o, peggio, per arricciarli, per migliorare il mio aspetto. Mi sentivo male davanti a questa trasformazione del mio essere e, con l'aiuto anche della meningite, divenni un incubo vivente.
    La rottura con la mia precedente vita di orfana a casa di Maguite fu dolorosa perché improvvisa e totale. Di nascosto quindi le scrissi delle lettere che restarono tutte senza risposta. Molto più tardi seppi che aveva cercato di rivedermi, ma forse non riuscì a superare il muro che separa le classi paesane da quelle della borghesia.
    Quanto a mia nonna, ero risoluta ad andarla a vedere di nascosto. Una vera spedizione attraverso i dedali di un metrò pieno di insidie per una bambina in fuga. Non volevo la sostituzione di mia madre con una falsa madre. Volevo preservare la magia dell'evocazione di Fleurette, scomparsa ma ben viva ancora nel fondo del mio cuore.
    Ho cambiato cognome. Christiane, sono rimasta. Bastarda, perché di famiglia ebraica russa, agghindata con un nome da cristiani. Saprò un giorno chi era mio padre?
    In questo la mia immaginazione era feconda:
    Christian von Braun, un pilota tedesco, caduto sul fronte russo poco prima della mia nascita, che avrebbe avuto amori tormentati con Fleurette. Voci, dicerie, ma era verosimile. O magari un povero ebreo polacco del Marais, anche lui deportato, e che Fleurette non aveva avuto il tempo di sposare.
    A che pro? Mi avevano tagliato, senza che me ne rendessi conto, da tutta una famiglia (mia nonna era fuggita davanti ai pogrom di Russia e di Ucraina con tutti i suoi marmocchi) per appiccicarmi un'altra identità falsa, quella lì, con un passato di borghesia russa in cui non mi riconoscevo.
    Ho finito per sottomettermi. Ma ho perduto la mia ebraicità, se il ricordo di una carezza di nonna al suono dell'yiddish e la memoria di Fleurette possono da soli qualificare questa faccia della mia identità.

Assimilata

    Dalla scuola al liceo, dal liceo all'università, ho corso il rischio di dimenticare tutto. La laicità faceva il suo cammino. Poi, arrivò il momento in cui volli conoscere Israele. Gerusalemme risvegliò tutta la mia mistica ebraica. E' là che avrebbe dovuto formarsi l'unica strada con avvenire per "il figlio dell'olocausto". Ma il tempo aveva tessuto dei legami che papà Pouchkine delimitava autoritariamente nello spazio parigino. Rinunciai. Ero figlia unica.
    I miei genitori adottivi, di cui avevo imparato ad ascoltare le ultime parole, morirono di vecchiaia. Liberata soltanto allora dal peso di quella filiazione, a questo punto tardivo della mia vita mi sono decisa a fare delle ricerche sul mio lato materno. Tutti quelli che ho incontrato non avevano saputo niente dei miei e del mio album di famiglia fantasma.
    Serge Klarsfeld mi ha permesso, grazie al suo schedario, di aggiungere date e cifre alla breve vita di Fleurette. La sua foto, ritrovata tra le poche carte che la zia Louise mi ha lasciato, uno o due braccialetti che le appartenevano, fanno ormai parte dei miei oggetti familiari.
    Ho vissuto una doppia dissimulazione: una prima volta sotto una falsa identità, perché il mio diritto a vivere come bambina ebrea era quasi zero. E una seconda volta, ma in forma anche più sottile, una dissimulazione voluta dai miei genitori adottivi, che di proposito ruppero tutti i miei legami con un passato che giudicavano indesiderabile.
E' un problema questo per l'affermazione di sé? Sì, è qualcosa che destabilizza. Il senso di appartenenza è fondamentale per il riconoscimento di sé. Credo che il mio vissuto di paesana m'ha dato un forte attaccamento alla natura e un'inclinazione all'ecologia, il mio vissuto di ebrea russa una passione per il folclore, l'arte, la storia e il divenire geopolitico della Russia, il mio vissuto di bambina deportata una ribellione contro tutti gli attentati al diritto d'esistere dei bambini di tutte le razze e di tutte le religioni, e un'accrresciuta avversione contro gli effetti devastanti dell'antisemitismo e del razzismo in tutti gli uomini.

Iana Zbar

(Guysen Israël News, 23 febbraio 2005)





7. MUSICA E IMMAGINI




Jehovah Jireh




8. INDIRIZZI INTERNET




Jerusalem Newswire

God's Clay - Israel




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