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Notizie su Israele 289 - 29 marzo 2005

1. A Berlino molti vorrebbero un dittatore
2. Uniti contro Ireneos I, il Patriarca greco ortodosso
3. Un sondaggio poco rassicurante
4. Nell'esercito d'Israele nonostante l'handicap
5. David, Kader e Sebastien
6. Storia di un gruppo di riservisti israeliani
7. Richiesta di interdizione delle organizzazioni ebraiche
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Zaccaria 14:12. Questo sarà il flagello con cui il Signore colpirà tutti i popoli che avranno mosso guerra a Gerusalemme: la loro carne si consumerà mentre stanno in piedi, i loro occhi si scioglieranno nelle orbite, la loro lingua si consumerà nella loro bocca.
1. A BERLINO IN MOLTI VORREBBERO UN DITTATORE




Uno studio della Freie Universität pubblicato dalla stampa rivela un aumento preoccupante di antisemitismo e xenofobia in Germania. Nella capitale il 12 per cento dei cittadini e nel Land Brandeburgo il 24 auspica l’arrivo di un nuovo führer.


BERLINO - A Berlino e nel Brandeburgo, il Land nordorientale che circonda la capitale tedesca, si registra un preoccupante incremento delle simpatie per neonazismo, razzismo e antisemitismo, e sono sempre più coloro che auspicano l’avvento di un nuovo führer che governi con mano forte e metta finalmente le cose a posto nella Germania dei cinque milioni di disoccupati e dei continui buchi di bilancio. Ad augurarsi l’arrivo di un nuovo dittatore come quello sconfitto 60 anni fa è il 12 per cento dei berlinesi e il 24 per cento degli abitanti del Brandeburgo, come è emerso da uno studio sull’estremismo di destra condotto da ricercatori della Freie Universität in collaborazione con l’istituto demoscopico Forsa.
     Nelle 2.000 interviste condotte per il sondaggio - pubblicato ieri dal quotidiano Berliner Morgenpost , gli esperti hanno scelto sei criteri per accertare posizioni di estrema destra: il desiderio di una struttura autoritaria, l’eccessivo nazionalismo, razzismo e xenofobia, antisemitismo, darwinismo sociale e la tendenza a minimizzare il nazionalsocialismo. Per ogni voce, gli intervistati sono stati posti a confronto con un principio che potevano accettare o respingere.
     Le risposte, sottolinea il giornale, hanno dato in parte un «risultato spaventoso». Ad esempio, sul tema darwinismo sociale all’asserzione provocatoria «ci sono vite che hanno valore e altre che non ne hanno» hanno dato il loro assenso il 16 per cento dei berlinesi e il 27 per cento degli abitanti del Brandeburgo.
     Per quanto concerne la valutazione del nazionalsocialismo, oltre al desiderio di un nuovo Hitler (12 per cento a Berlino e 24 per cento nel Brandeburgo), il 15 per cento degli interpellati nella capitale e il 20 nel Land circostante hanno detto di ritenere che tale sistema ha avuto i suoi lati positivi.
     Preoccupanti anche i dati su xenofobia e antisemitismo, fenomeni anch’essi in espansione. Uno su sei, sia a Berlino sia nel Brandeburgo, ha detto infatti di essere d’accordo con la tesi per cui «gli ebrei hanno troppa influenza».
     Più alta ancora la percentuale in fatto di xenofobia: il 20 per cento dei berlinesi e il 31 dei brandeburghesi ha detto infatti di approvare la tesi per cui «se in Germania mancano posti di lavoro, bisogna mandare a casa gli stranieri».
     Nell’inchiesta della Freie Universität, una delle tre università di Berlino con la Humboldt e la Technische, apertamente antidemocratici si sono detti il 3 per cento dei berlinesi e il 5 per cento dei brandeburghesi.
     Alla domanda poi sull’eventuale voto politico, un berlinese su 10 ha detto di voler dare la propria preferenza nelle prossime elezioni a un partito dell’estrema destra, mentre è emerso che il sei per cento degli abitanti della capitale è su posizioni e vedute neonaziste. Nel Brandeburgo le percentuali sono risultate più alte.
    
(Il Giornale di Vicenza, 25 marzo 2005)





2. UNITI CONTRO IRENEOS I, IL PATRIARCA GRECO ORTODOSSO




Il patriarca immobiliarista fa scandalo a Gerusalemme

GERUSALEMME - L'ultima picconata è arrivata dall'autorevole arcivescovo Aristarcos. «Ireneos si deve dimettere per restituire prestigio al patriarcato nella sua missione in Terrasanta». Ireneos I è, almeno sino ad ora, il patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme. Non solo un uomo di chiesa. Ma anche il rappresentante del proprietario immobiliare più importante dopo lo Stato israeliano. Sua (della chiesa greco-ortodossa) è la terra dove sorge la Knesset, o la residenza del presidente della repubblica. Suoi alcuni degli immobili più «delicati», per dir così, dal punto di vista politico. Come due alberghi, l'Imperial e il Petra. Città Vecchia. Porta di Giaffa. Alberghi storici, gestiti da due delle più note famiglie palestinesi, i Qurash e i Dajani. Lì andava Feisal Husseini, uno dei leader indimenticati di Gerusalemme. Lì continuano ad andare i notabili palestinesi.
     Chissà ancora per quanto, però, se troverà riscontro lo scoop del quotidiano israeliano Maariv che ha trascinato il già controverso Ireneos I nella bufera. Il suo giovane braccio destro, Nikos Papadimas, avrebbe infatti venduto per milioni di dollari la terra su cui sorgono l'Imperial, il Petra e i negozi che si affacciano sulla piazza Omar Ibn al Khatib, alla Porta di Giaffa. Compratori: ignoti investitori ebrei, che hanno usato finanziamenti internazionali per acquistare terre nella zona araba di Gerusalemme. E continuare - secondo l'accusa della comunità arabo-cristiana e il premier palestinese Ahmed Qureia - nell'opera di «giudaizzazione» delle zone musulmane e cristiane della Città Vecchia.
     Nikos Papadimas non può però essere ascoltato, per ora. È latitante da settimane assieme alla moglie. Su di lui, da poco, c'è anche un mandato di cattura internazionale per essersi appropriato di fondi del patriarcato di Gerusalemme. Forse 600mila euro, ma c'è chi parla di milioni. In un periodo, peraltro, in cui i conti bancari del patriarcato sono bloccati perché una società operante in Israele vuole 8 milioni di dollari, come stabilito da un tribunale, per la rottura di un contratto d'affitto riguardante un altro lotto di terra delicato. Appena fuori da Gerusalemme, vicino al monastero di Sant'Elia, a due passi dal muro che separa ormai la città da Betlemme.
     Il posto di Ireneos, insomma, è in bilico. Lo è stato sin dal 2001, quando sostituì il defunto Diodoros grazie a una campagna elettorale condotta da un altro personaggio discusso. Apostolos Vavilis, contrabbandiere di droga, ricercato anche lui come Papadimas, e implicato nello scandalo che sta scuotendo in questi giorni un altro patriarcato, quello di Atene, e il suo capo, Christodoulos. La nomina di Ireneo, che deve essere accettata da Israele, Giordania e Autorità Palestinese, è riuscita ora a unire tutti quanti. Israele la considera, con una sentenza giudiziaria, illegale da settimane. E adesso anche i parlamenti giordano e palestinese chiedono la rimozione di Ireneo. Una settimana di passione in Terrasanta.

(Il Riformista, 25 marzo 2005)





3. UN SONDAGGIO POCO RASSICURANTE




Il razzismo che cresce tra i giovani

di Simone Tedeschi 

ROMA Un ragazzo italiano su 5, fra i 14 e i 18 anni, mostra atteggiamenti di evidente rifiuto verso le minoranze culturali. È questo uno dei preoccupanti risultati che emergono da un'indagine sulla diffusione dell'intolleranza fra i giovani italiani. Condotta da Enzo Campelli - docente di Metodologia delle scienze sociali all'Università La Sapienza di Roma e direttore del Dipartimento di ricerca sociale e metodologia sociologica G. Statera - la ricerca è stata commissionata dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e sarà presentata a Firenze oggi, in collaborazione con il Comune e con l'Indire, l'Istituto nazionale di documentazione per l'innovazione e la ricerca educativa.
Abbiamo deciso di dedicare una parte significativa dei contributi provenienti dall'otto per mille dell'Irpef a un'iniziativa tesa a capire e combattere il razzismo» spiega Saul Meghnagi, che per l'Ucei ha curato il progetto della ricerca. Che affronta l'atteggiamento dei giovani italiani nei confronti delle minoranze in genere, ma si concentra su tre gruppi in particolare: i musulmani, gli extracomunitari e gli ebrei.
Non si tratta di un semplice sondaggio, ma di uno studio approfondito e complesso basato su interviste a 2200 giovani in oltre 100 comuni in tutta Italia. «Non siamo andati solo nelle grandi città» spiega Campelli «ma anche in piccoli paesi di tremila abitanti. E abbiamo intervistato non solo i ragazzi che frequentano le scuole o inseriti nel mondo del lavoro, ma anche quelli che non fanno parte dei circuiti tradizionali».

Razzismo senza confini culturali. Il dato che colpisce maggiormente i ricercatori è come le posizioni di ostilità siano diffuse e trasversali fra ragazzi appartenenti a sfere sociali diverse: «Mentre fino a qualche anno fa esistevano ambienti culturali, sociali , ideologici, politici, relativamente immuni da atteggiamenti di intolleranza, ora sembra che un certo livello sia comunemente accettato, che si trovi anche in ambienti in cui non te lo aspetteresti» continua Campelli «abbiamo avuto delle grosse sorprese: abbiamo riscontrato nei ragazzi che si dicono di estrema sinistra una forte ostilità verso gli ebrei. Certo, l'intolleranza è più percepibile fra i ragazzi di destra, ma lì dove emerge fra i ragazzi di sinistra è nei confronti degli ebrei e non di altre minoranze». Non si tratta dell'unica sorpresa: i ragazzi religiosi sono quelli che mostrano la minore propensione all'accoglienza. «Questo può significare che non vedono la religione come un terreno su cui dialogare, ma come uno steccato per affermare con forza la propria identità».
    
Il blocco indifferente. Ma veniamo ai risultati. Quale atteggiamento hanno i giovani italiani nei confronti delle minoranze? Sono solo il 23% coloro che rientrano nella fascia della valorizzazione, ritengono cioè che le differenze costituiscano un patrimonio per tutti e che ogni cultura abbia molti elementi importanti da trasmettere alle altre. Il 35% rientra nella categoria della accettazione pragmatica: ritiene che le differenze esistano, che siano un dato di fatto, né un bene, né un male. Quasi un ragazzo su cinque viene classificato nella fascia dell'umanesimo antidifferenzialista, considera le differenze come una fonte di separazione e ritiene che quindi, per raggiungere la meta ideale di un'uguaglianza completa, debbano essere superate.
Circa il 14% degli intervistati rientra nel gruppo degli ostili e ritiene che ci si debba invece adeguare alla maggioranza e che le differenze delle minoranze debbano essere relegate alla sfera privata. La categoria della negazione differenzialista, limitata all'8%, presenta con maggior vigore i tratti degli ostili, tuttavia i ragazzi che rientrano in questa fascia non sono solamente ostili a ogni interpretazione positiva delle differenze, ma sono favorevoli a una separazione fra i diversi gruppi e stabiliscono in modo forte una gerarchia fra le diverse culture.
Semplificando, quindi, se aggreghiamo il gruppo dei pragmatici e dei valorizzatori, possiamo affermare che circa il 58% dei ragazzi, sia pure con intensità notevolmente diverse, non considera negativamente la presenza di culture diverse. È la parte restante che, pur con motivazioni e livelli diversi, mostra una forte difficoltà nella convivenza con culture diverse dalla propria.

Bene-Male. «A tanti anni di distanza dalla guerra qualcuno poteva ritenere superato il problema del razzismo. Questa ricerca mostra come non lo sia. Non credo si possa parlare di un ritorno, perché credo che in realtà non sia mai scomparso» afferma Amos Luzzatto, presidente dell'Ucei. «Certo, dopo Auschwitz c'è un certo pudore nel manifestarlo apertamente. Ma nel periodo in cui viviamo i termini dello scontro stanno diventando sempre più una lotta fra Bene e Male intesi in termini assoluti. Oggi nessuno obietta più sul fatto che il segretario di Stato americano sia una donna di colore e oggi è evidente a tutti come non sia possibile sostenere teorie relative alla superiorità razziale. Ma attenzione: il parlare dell'altro utilizzando il concetto di Bene e Male in termini assoluti non è tanto distante dal razzismo biologico».

Extracomunitari, Shoah... È quando si scende nello specifico che i pregiudizi emergono con maggiore chiarezza. Più del 50% degli intervistati crede che «gli extracomunitari rendano insicure le nostre città» e «alimentino la prostituzione». Circa il 50% crede che «stiano diventando più di noi». Più del 50% crede che i musulmani abbiano «leggi crudeli e barbare» e che «sostengano il terrorismo internazionale». Circa un ragazzo su cinque conviene - sia pure con diversi gradi di convinzione - con l'affermazione che «quanto si dice sulla Shoah sia frutto di un'esagerazione» e che «tutti gli ebrei dovrebbero tornarsene in Israele».
«Badate bene: l'affermazione è ancora più grave di quanto potrebbe sembrare» avverte Campelli: «Il termine usato, che i ragazzi condividono è tornare, non andare. Significa che coloro che approvano questa affermazione ritengono che gli ebrei, nonostante risiedano in Italia da tempo immemorabile, non siano mai stati parte di questa terra».
Alcuni risultati mostrano come la disinformazione, come la scarsa conoscenza dell'altro sia piuttosto diffusa: circa il 7% dei ragazzi ritiene che il problema più rilevante nello sposare un partner ebreo sia la diversa lingua parlata. Ma secondo Campelli spiegare certi atteggiamenti dei ragazzi attribuendoli, come spesso accade, solo a una mancanza di conoscenza è un po' una semplificazione: «In generale è vero che i ragazzi che provengono da famiglie più attrezzate culturalmente manifestano meno questi atteggiamenti, ma è una relazione debole, piena di ondeggiamenti» chiarisce il reponsabile della ricerca. «Bisogna impegnarsi in maniera non semplicistica sul problema. Non basta l'informazione, bisogna impegnarsi in pratiche di solidarietà e accoglienza e questo non può essere delegato solo alla scuola. Certo, la scuola dovrà fare la sua parte, ma esattamente come ognuno di noi».

(Studenti.Com, 22 marzo 2005)





4. NELL'ESERCITO DI ISRAELE NONOSTANTE L'HANDICAP




Da Casablanca a Hazor

di Shlomo Isaacson

Il caporale Alex, nuovo immigrato dal Marocco, è un soldato che non ha i genitori in Israele e che ha insistito per fare il servizio militare nell'Esercito d'Israele pur se portatore di un handicap fisico.  Nonostante le difficoltà, Alex è una viva dimostrazione del fatto che quando c'è la volontà c'è anche una strada da seguire e qui descrive come ha trovato una casa calorosa nella base aerea militare di Hazor. 

Il caporale Alex, 22 anni, quando è immigrato da Casablanca (Marocco) quattro anni fa, lasciando i genitori e un fratello, ha deciso di arruolarsi nell'Esercito d'Israele. Oggi è un tecnico di cablaggio in un team preposto alla manutenzione aerea ed è da tutti apprezzato per la sua indole amichevole ed estroversa. A detta di un suo superiore dell'unità di cablaggio, il sergente-maggiore Asher Ifrach, "Alex è molto ambizioso professionalmente, molto socievole e si dà costantemente da fare per aiutare i compagni. E' difficile descrivere a parole la sua gentilezza. Tutti ne sono contagiati, è veramente una benedizione per tutto il reggimento."


Atterrato a Hazor invece che all'aeroporto Charles De Gaulle di Parigi

Alex è nato nel 1983 in Marocco da genitori ebrei. E' nato con un solo occhio, e all'età di tre anni gli è stata applicata una protesi oculare per ovvi motivi estetici. Ha studiato a "Neve Shalom", una scuola religiosa di Casablanca, nella quale gli allievi studiano la Torah insieme alle altre materie scolastiche, ed ha conseguito il certificato di immatricolazione francese. Alla dodicesima classe, ha frequentato il "Rambam", un liceo ebraico laico, in cui i ragazzi ebrei studiano a fianco di quelli arabi, che provengono dai ceti abbienti di Casablanca, che preferiscono mandare i loro figli in questo prestigioso liceo. Nella sua nuova classe, infatti, c'erano più arabi che ebrei. "I rapporti tra noi erano molto corretti. Non avevo amici arabi, però in classe ci aiutavamo e avevamo un ottimo rapporto", rievoca Alex.
     La famiglia di Alex abita in un quartiere misto, che ospita arabi ed ebrei. "A Casablanca non esiste un quartiere ebraico vero e proprio e gli ebrei vivono in quartieri eterogenei", racconta, e aggiunge che la situazione della comunità ebraica nella città è soddisfacente. "Ci sono molte sinagoghe e istituzioni scolastiche, ma il numero degli ebrei è in continuo calo, sia a causa dell'emigrazione che dell'invecchiamento." Alex ha nostalgia dei suoi ma non del paese, sebbene tenga a precisare che non ha mai subito atti di antisemitismo e che i suoi correligionari conducono vite normali. "Non mi sono mai sentito estraneo in  Marocco, ma forse oggi sì, se ci tornassi. Vorrei tanto che anche i miei genitori e mio fratello venissero a vivere in Israele", aggiunge.
     Quando aveva 17 anni e frequentava il liceo, Alex aveva fatto le pratiche per iscriversi alla facoltà di Economia  in un'università di Parigi.  Come la maggior parte dei suoi coetanei ebrei in Marocco, programmava di andare a vivere in Francia, ma, a un certo punto, ha cambiato idea e ha scelto di emigrare in  Israele.  Alex non sa indicare l'esatta ragione della sua decisione, ma è convinto di aver operato una buona scelta. "Ho deciso di scegliere una strada diversa dalle altre. La maggior parte dei ragazzi ebrei in Marocco si trasferisce in Francia, ma io ho deciso di incamminarmi lungo un sentiero molto più avvincente. Ho considerato la mia immigrazione in Israele come un'esperienza di vita. Ho sempre visto in Israele la Patria del popolo ebraico, tuttavia, mi hanno fatto venire qui, soprattutto, la curiosità ed il desiderio di cambiare qualcosa nella mia vita."


I primi passi in Israele

Una volta presa la decisione, Alex è arrivato in Israele nell'agosto 2001. Ha passato le prime settimane da una prozia ad Ashdod, ma non sapeva ancora che cosa avrebbe fatto in seguito. Un bel giorno, ha incontrato un amico del suo paese, che lo ha consigliato di fare una visita informativa al Centro per Studenti di Gerusalemme . "Qui mi hanno consigliato di trasferirmi in un centro di assorbimento a Gerusalemme e di fare l'ulpan". Alex lo ha fatto per tre mesi, facendo molte amicizie e imparando la lingua. Mentre era all'ulpan, ha sentito crescere in sé una forte identificazione con lo Stato di Israele, in seguito agli attacchi terroristici perpetrati in quel periodo. Ha pensato che nel momento in cui la vita della gente era in pericolo e il Paese lottava per la propria esistenza, gli ebrei non avrebbero dovuto vivere all'estero. "Gli ebrei dovrebbero venire qui per costruire il paese, e non solo quando è minacciata la loro esistenza nella Diaspora." dichiara Alex. Dopo aver finito l'ulpan, ha seguito il "Taka", un programma pre-accademico speciale, destinato ai nuovi immigranti, dove si studia ebraico, inglese, matematica ed informatica, tutto in lingua ebraica. Il corso di sei mesi si è tenuto al College Hadassah.
     A questo punto, ad Alex è stato richiesto di scegliere un corso specifico e lui ha scelto l'optometria. La sua decisione derivava dal suo desiderio di capire le cause della propria condizione. Alex ha studiato per un anno ed era molto soddisfatto del corso. Quando è iniziato lo stage, tuttavia, si è reso conto che non avrebbe potuto terminarlo a causa del suo handicap alla vista.  Nello stesso periodo, Alex ha ricevuto la sua prima cartolina-precetto ed è stato sottoposto alle visite mediche d'ufficio. Come nuovo immigrante e

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soldato privo dei genitori in Israele, gli è stata offerta l'opportunità di fare lo studente - soldato. In un primo tempo, Alex voleva continuare a studiare optometria e aveva fatto una richiesta in tal senso alle autorità militari, ma dopo essere stato riformato, ha deciso di arruolarsi come un soldato dell'esercito regolare. Pensava che avrebbe potuto far parte di un'unità di combattimento, ma il suo profilo medico non glielo ha reso possibile. Alla fine, nell'ottobre 2003, Alex è stato reclutato nell'Esercito d'Israele ed ha concluso il regolare corso di addestramento militare. 


La mia casa

Dopo il corso di addestramento, Alex ha cominciato a studiare in una base tecnica ed è diventato tecnico di cablaggio. Ha tratto grande diletto dal corso bimensile, che ha dichiarato esser stato per lui un periodo di grande felicità. Qui si è inserito bene, si è fatto molti amici, con alcuni dei quali è ancora oggi in contatto. Il corso era sopratttutto teorico ed Alex dice che il successo da lui ottenuto si deve alla fisica studiata al liceo in Marocco. Ad Alex è stato conferito il certificato di "Soldato esemplare" in virtù dell'impegno profuso e della buona condotta, dimostrando a se stesso e al suo ambiente circostante una volta ancora che, nonostante la vista ridotta, egli può fare quasi ogni cosa allo stesso modo, se non meglio, degli altri.
     Dopo il corso, Alex è stato messo di guarnigione alla base aerea di Hazor. Nelle sue due prime settimane, ha conseguito l'abilitazione e l'autorizzazione a lavorare sui caccia Barak (Lampo) e Netz (Falco). Inizialmente, i suoi superiori volevano che lavorasse in ufficio, poichè temevano che la sua vista potesse pregiudicare la sua capacità di lavorare sui velivoli. Come al solito, però, Alex era determinato e ha richiesto di fare uno speciale addestramento per lavorare sui caccia. I suoi superiori hanno deciso di non rischiare e lo hanno mandato a fare degli ulteriori controlli medici, che lo hanno comunque ritenuto idoneo ad operare nel settore aeronautico. A questo punto, Alex ha svolto il corso richiesto che gli ha fatto apprendere le necessarie disposizioni di sicurezza e di controllo di tutte le apparecchiature dell'abitacolo del velivolo. Alex ha così cominciato a lavorare sui caccia, diventando in poco tempo un tecnico di primo grado. Il comandante di Alex ricorda, "All'inizio, ero perplesso. Non sapevo come trattare un soldato simile, per cui l'ho mandato a fare ulteriori esami medici. Poi, Alex ha cominciato a lavorare regolarmente, ha fatto rapidi progressi e ora svolge il suo lavoro di routine."
     L'esercito gli ha procurato un appartamento a Gerusalemme con cinque altri compagni; però, Alex preferisce passare la maggior parte del suo tempo nella base di Hazor, che lascia ogni due fine settimana. La gran parte degli amici di Alex si trova nella base e ovunque vada, il ragazzo viene salutato con grandi sorrisi. E' chiaro che qui è amato da tutti.
     Alex non vede i suoi genitori dalla sua ultima visita in Marocco, avvenuta due anni fa. Egli ne ha nostalgia e li sente per telefono una volta alla settimana, pur se questo non compensa la distanza. La sua speranza è che un giorno possano venire a vivere in  Israele.

(Keren Hayesod, 18 marzo 2005)





5. DAVID, KADER E SEBASTIEN




Intellettuali sottoscrivono un appello per stigmatizzare le aggressioni subite da bianchi e francesi

Francia, nuova emergenza razzismo

PARIGI - Decine di studenti aggrediti, sbattuti a terra, rapinati di orologi e telefonini - durante le recenti manifestazioni contro la legge di riforma della scuola - al grido «sono francesi». Ed intellettuali che cercano di spiegare queste violenze, come «espressione di un odio, di un malessere sociale» che proviene dalle periferie delle metropoli. È un’analisi che ha fatto infuriare alcune personalità lontane, molto lontane da quell’estrema destra xenofoba che ha cercato subito di «impadronirsi» dei giovani vittime di aggressioni in cortei studenteschi a Parigi, le scorse settimane.
     Fra i sette che hanno firmato l’appello «contro le spedizioni punitive nei confronti dei bianchi» c’è per esempio l’ex ministro socialista della Sanità e fondatore dei Medici senza frontiere, Bernard Kouchner. «Basta con questa sociologia! Il sociale, sempre il sociale!», ha denunciato uno dei promotori del documento, il filosofo Alain Finkielkraut: « Diciamo le cose come stanno, qui c’è un movimento di odio, una francofobia che mette assieme e colpisce gli ebrei e i francesi».
     L’appello è stato preparato da Hachomer Atzair - un movimento giovanile ebraico, progressista - e da Radio Shalom. Accanto a quelle di un migliaio di studenti, il documento reca le firme di Kouchner, Finkielkraut, del teologo musulmano Galheb Bencheikh, del regista cinematografico Elie Chouraqui, dello scrittore di origine iraniana Chahdortt Djavann, dell’editorialista Jacques Julliard e del politologo Pierre-Andrè Taguieff. Nell’appello-documento si ricorda che due anni fa, a margine di una manifestazione contro la guerra in Iraq, quattro giovani erano stati aggrediti «perché ebrei. Oggi - prosegue l’appello - le manifestazioni studentesche sono diventate, per alcuni, il pretesto per quelle che possono essere chiamate delle "spedizioni punitive" anti bianchi».
     «Scrivere questo appello è difficile - sottolineano Kouchner e gli altri - perchè le vittime sono "rapite" dall’estrema destra. Non si tratta di stigmatizzare una popolazione. È una questione di equità. Si è parlato di David, si è parlato di Kader, ma chi parla di Sebastien?». David, un nome per indicare i giovani ebrei, Kader gli arabi e Sebastien i francesi. «L’ultimo servizio che non si vuol rendere al Fronte nazionale - spiega Bernard Abouaf di Radio Shalom - è quello di non difendere Sebastien». Fra i giovani ebrei - racconta - si diffonde e cresce la paura di un aggravamento di manifestazioni di odio nei confronti dei francesi, che richiamano quelle antisemite. A protestare contro questa descrizione della realtà e contro l’appello è il sindacato studentesco. «È falso affermare - dice l’Unione nazionale degli studenti francesi - che queste violenze abbiano un carattere razzista. Sono prima di tutto l’immagine del malessere sociale e della frattura scavata tra i licei della periferia e quelli del centro della città». Critiche sono venute anche dal Movimento contro il razzismo e per l’amicizia fra i popoli e dalla Lega per i diritti dell’uomo.

(Giornale di Brescia, 27 marzo 2005)





6. STORIA DI UN GRUPPO DI RISERVISTI ISRAELIANI




Doppia vita in Israele
    

di Alberto Stabile

Questa è una storia d’amore e d’amicizia, di quelle che affiorano dal fondo imperscrutabile delle grandi tragedie, come l’attentato terroristico che venerdì 25 febbraio uccise cinque persone e ne ferì cinquanta sulla porta di un locale notturno di Tel Aviv. Doveva essere, all’inizio, un’inchiesta sui riservisti, i 400 mila soldati che costituiscono il grande serbatoio umano dal quale, non è esagerato dirlo, dipende la difesa d’Israele. In un esercito di popolo, come Tsahal, parlare dei riservisti vuol dire parlare della società, in quella fascia d’età tra i 25 e i 45 anni che rappresenta ovunque l’ossatura di una nazione, i suoi sogni, le sue potenzialità. Ma il fatto che un discorso di generazioni e di vita quotidiana si incroci con la cronaca di un attentato, qui è la tragica normalità. Cominciamo con il descriverli, i riservisti. A chiunque visiti Israele, e abbia la ventura di attraversare uno dei tanti posti di blocco che la separano dai territori palestinesi, capiterà sicuramente d’incontrarli spesso, accanto ai militari di leva. La prima immagine che se ne ha è di soldati con la pancetta.
     Le facce dei riservisti conservano gli ardori giovanili. Ma il loro fisico si è, con gli anni, inevitabilmente appesantito. Le divise, spesso scolorite dall’uso prolungato, non servono più ad appiattire e nascondere, ma lasciano intravedere quello che il cinturone non riesce più a contenere. Il contrasto con i giovani coscritti, ragazzi di 18-20 anni fieri della loro età, pronti a scattare come molle, appare evidente. Ma questi soldati dalle tempie grigie hanno, rispetto ai loro commilitoni, un’arma in più: l’esperienza. Le loro mani non tremano, mentre maneggiano il vostro passaporto. I loro occhi allenati sanno distinguere, in mezzo a una folla spesso esacerbata, dove può annidarsi il pericolo. Non pochi parlano o capiscono l’arabo. Soprattutto, prima di agire, riflettono. È in questa integrazione tra esercito regolare e servizio di riserva una delle ragioni dei successi israeliani sui campi di battaglia. I 120 mila soldati in servizio attivo, di cui il 34 per cento è costituito da donne, di per sé non rappresentano una forza imponente. Ma è grazie ai 400 mila “anziani’, pronti ad accorrere nei momenti di pericolo ovunque la patria lo richieda, che l’intera nazione dà l’impressione di mobilitarsi.
     Contrariamente a quanto avviene nell’esercito regolare, dove le donne sono una percentuale rilevante, nella riserva le soldatesse sono soltanto poche migliaia. Infatti una volta conclusa la leva obbligatoria, e alla nascita del primo figlio, per le israeliane scatta automaticamente l’esonero. In pratica, finito il servizio militare vero e proprio - che quanto a durata (tre anni) e impiego in situazioni di guerra non ha forse uguali al mondo - per un mese l’anno, fino ai 45 anni salvo esenzioni particolari, i riservisti vengono richiamati alle loro unità d’appartenenza. Lasciano le famiglie, il lavoro e le incombenze, le comodità della casa, le certezze di una vita tranquilla, gli affetti rassicuranti, le piccole gioie di tutti i giorni. E partono per gli accampamenti. Tornano ad assaporare l’adrenalina delle situazioni difficili, gli imprevisti di un conflitto mai risolto, la spartana vita in caserma. Ma anche la solidarietà che nasce dai pericoli condivisi, l’amicizia non mediata da interessi, il rispetto di una diversa gerarchia dove il denaro, il successo, il potere non sono, contrariamente a quanto accade nella vita civile, i valori dominanti. Sarà forse che l’amore per la vita è più forte laddove la vita è minacciata, ma molti riservisti pensano che quel ritorno periodico al passato guerriero serva anche a mantenersi giovani, a non sentire, o forse a vivere senza angoscia, l’inesorabile trascorrere del tempo. Non tutti, ovviamente, sono propensi ad accogliere con gioia il richiamo annuale del miluim, come viene chiamato in ebraico il servizio di riserva. Alcuni se ne lamentano. Bisogna tenere conto che un israeliano di mezz’età è passato, lungo l’intero arco della sua vita, attraverso una sequela ininterrotta di guerre, attentati, minacce, rivolte, ed è stato almeno sfiorato dalla perdita di un amico o di una persona cara. Di conseguenza molti ritengono, giunti all’età matura, di avere saldato il debito con lo Stato, e sarebbero disposti a fare l’impossibile pur di sottrarsi alla ferma temporanea. Esistono tuttavia eccezioni in senso contrario. Vi sono quelli, cioè, che pur avendo superato la soglia dei 45 anni ed essendo quindi esenti dal servizio, chiedono di poter tornare sul campo. Recentemente un avvocato di Tel Aviv ben oltre i cinquanta mi ha confidato il proposito di ripresentarsi alle armi, «per dare una mano all’esercito» nello sgombero, in prospettiva assai controverso, degli insediamenti di Gaza.
     A un altro fenomeno, infine, bisogna accennare: alle amicizie che nascono nelle unità di riserva e che poi rimangono nella vita civile. È come se l’insolita, temporanea esperienza in divisa servisse a fondare una sorta di famiglia trasversale, un network di rapporti che viene spontaneamente trasferito nell’esistenza di tutti i giorni. È come se persone diverse e spesso lontane – per censo, cultura, residenza, status - trovassero il modo di sviluppare un sentimento comune che la società civile israeliana, soggetta com’è a una crescita tumultuosa, non riesce più a favorire. A una di queste unità della riserva, la Compagnia B - impiegata costantemente, e per quattro anni, sui terreni insidiosi dell’intifada armata – apparteneva un gruppo di persone, una ventina più o meno, molte fra i trenta e i quarant’anni e alcune più giovani, che la sera di venerdì 25 febbraio s’affollavano al botteghino dello Stage club a Tel Aviv, nel momento in cui un kamikaze della Jihad islamica decise di farsi saltare. Le cronache si sono molto occupate di quest’ennesimo attacco alla pace possibile, di questa carneficina venuta a incrinare i sogni di tregua accarezzati da due popolazioni esauste di violenza. Ma che cosa legava fra loro le vittime dell’attentato, che cosa ha accomunato le loro famiglie nel lutto e nel dolore, oltre al fatto di essere state colpite simultaneamente? I morti (cinque) e i feriti (una cinquantina) dello Stage Club non si sono ritrovati per caso alle porte di quel locale notturno, come tante volte in passato è successo ai passeggeri degli autobus o agli avventori dei ristoranti attaccati da terroristi palestinesi. Le vittime dello Stage Club erano tutt’altro che sconosciute le une alle altre. La maggior parte di loro aveva prestato il servizio militare nelle unità di élite, le Brigate Givati, Golani e Nahal (quest’ultima è la brigata dei giovani pionieri combattenti). Si erano incontrati otto anni fa in un’unità della riserva. Era stato quello l’inizio di un’amicizia forte e duratura, la nascita di una piccola famiglia trasversale fatta di fratelli non di sangue ma d’elezione, che abbracciava i quattro angoli d’Israele.
     Quel venerdì sera di febbraio erano arrivati a Tel Aviv da tutto il Paese: dalla valle del Giordano, da Tiberiade, dalla Galilea, da Gerusalemme, da Kfar Sava e dal Neghev, per partecipare a un party a sorpresa organizzato per festeggiare il compleanno di Yaron Grayevsky, uno di loro. «Questa è un’amicizia fiera, nata nella riserva e trasferita nella vita civile», racconta Grayevsky, che al momento dell’esplosione si trovava in un albergo vicino al locale preso di mira, assieme alla moglie, Revital. «Quando ricevevamo le chiamate per il nostro mese di miluim, per noi tutti era una gioia. E poi, dopo la riserva, continuavamo a incontrarci almeno una volta al mese. Almeno due o tre volte, durante il periodo estivo, facevamo campeggio vicino al lago di Tiberiade o ci davamo appuntamento in un albergo di Eilat. Non c’era scadenza importante per chiunque di noi che passasse inosservata». Il party di venerdì sera, in realtà, doveva contenere una seconda sorpresa. Ofir Gonen, nella vita civile un tecnico informatico di Kfar Sava, era arrivato alla festa in compagnia della fidanzata Yael Orbach. Bellissima, dopo il servizio militare in un’unità combattente Yael aveva studiato legge e teatro, sognando un futuro d’attrice. Lei e Ofir avevano progettato di sposarsi. Al party avrebbero dovuto distribuire le partecipazioni che lui aveva stampato al computer. Le nozze si sarebbero celebrate dopo tre settimane.
     Yael è stata investita in pieno dall’ esplosione. Ofir, che per un attimo aveva lasciato la mano della fidanzata, è stato gravemente ferito agli occhi. Yitik Buzaglo, agricoltore nel moshav di Mishmar Hayarden, accarezzava invece il sogno di costruire una casa per sé, la moglie e i due figli, nella piccola azienda sulla valle del Giordano. Per anni aveva lavorato sodo per tirare su quattro fratelli e due sorelle. Adesso, finalmente, aveva intravisto uno spiraglio nel suo futuro.
     Al suo funerale, nel moshav, il comandante della compagnia, Eran Cohen, ha tessuto le lodi di un eroe semplice, che aveva esaurito il suo servizio di riserva ma che continuava a presentarsi, da volontario. I compagni si faranno carico di realizzare il suo sogno: la moglie, gravemente ferita, e i figli avranno una casa, dove Yitik Buzaglo l’aveva immaginata. Poi c’era Arik, il più allegro del gruppo, che «a 36 anni», racconta Yaron Grayevsky, «aveva l’ingenuità e la freschezza di un ragazzo di 18». E Ronen Rubenov, la cui moglie, Linda, aveva organizzato il party a sorpresa ed è ora ricoverata in gravi condizioni, mentre lui è stato sepolto con gli onori militari. Uno strano destino, ha rivelato uno dei sopravvissuti, ha accomunato le vittime. «Alcuni anni fa, alcuni di loro erano sfuggiti per miracolo all’attentato di un kamikaze palestinese nei Territori. Solo per andare a morire a Tel Aviv, in una notte che avrebbe dovuto essere di festa».
    
(La Repubblica delle donne,19 marzo 2005 - da Informazione Corretta)





7. RICHIESTA DI INTERDIZIONE DELLE ORGANIZZAZIONI EBRAICHE




In Russia, un pamphlet antisemita chiede di far interdire nel paese le organizzazionI ebraiche e raccoglie cinquemila firme di "patrioti ortodossi".

MOSCA - Un violento pamphlet antisemita, firmato in gennaio da una ventina di deputati nazionalisti, ha raccolto cinquemila firme ed è stato inviato di nuovo alle autorità per chiedere l'interdizione delle organizzazioni ebraiche in Russia per "estremismo", secondo gli autori.
     La lettera, apparsa la prima volta alla vigilia dell'anniversario della liberazione del campo nazista di Auschwitz, si è trasformata in "lettera dei cinquemila", ha fatto sapere il giornale "Russia ortodossa", precisando che è stata di nuovo depositata al Parquet.
     Tra i firmatari figurano diverse personalità note, tra cui l'ex campione del mondo di scacchi Boris Spassky, il generale Leonid Ivachov, vicepresidente dell'Accademia dei problemi geopolitici, e l'accademico Igor Chafarevitch, matematico, insieme a diverse dozzine di preti ortodossi, direttori o redattori capo di giornali nazionalisti. Il documento esige l'interdizione di tutte le organizzazioni ebraiche, accusate di "estremismo", e denuncia "una situazione avente i tratti di genocidio camuffato riguardo alla nazione russa e alla sua cultura".
     Il documento denuncia in particolare un antico libro basato sul Talmud e ripubblicato in Russia nel 1999 e nel 2001, intitolato "Kitsour Choulkhan Aroukh". Vengono citate numerose frasi attribuite a questo libro in cui si presume di veder dimostrata l'ostilità degli ebrei nei confronti dei non-ebrei, come per esempio: "una ebrea non deve mai aiutare una non-ebrea durante il parto" o, nel caso di un regolamento finanziario, "se un non-ebreo si è sbagliato, si può approfittare dell'occasione", ecc.
     Il presidente russo Vladimir Putin aveva espresso, in occasione delle cerimonie di Auschwitz, la sua "vergogna" per le manifestazioni di antisemitismo in Russia, e affermato la volontà di combatterle "con la forza della legge e dell'opinione pubblica". Nessun seguito è stato dato tuttavia alla pubblicazione del primo testo, che costituiva una richiesta parlamentare. Il procuratore generale Vladimir Ustinov aveva dichiarato che l'affare era "chiuso" dopo il ritiro "volontario" del loro testo da parte dei deputati.

(Proche-Orient.info, 25 marzo 2005)




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