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Notizie su Israele 303 - 9 luglio 2005

1. Lettera aperta di Michael Freund ai cristiani
2. Quando si deve scegliere da che parte vivere
3. Il ragazzo che voleva salvare la gente
4. Intervista a Boaz Ganor
5. La Knesset discute sull'inno nazionale
6. Musica e immagini
7. Indirizzi internet
Ezechiele 36:6-8. "Perciò, profetizza sopra la terra d’Israele, e di’ ai monti e ai colli, ai burroni e alle valli: "Così parla DIO, il Signore: Ecco, io parlo nella mia gelosia e nel mio furore, perché voi avete portato la vergogna delle nazioni. Perciò, così parla DIO, il Signore: Io l’ho giurato! Le nazioni che vi circondano porteranno anch’esse la propria vergogna; ma voi, o monti d’Israele, metterete i vostri rami e porterete i vostri frutti al mio popolo Israele, perché egli sta per arrivare."
1. LETTERA APERTA DI MICHAEL FREUND AI CRISTIANI




Michael Freund, che a suo tempo è stato consigliere del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, attualmente è il presidente di "Shave Israel", un gruppo operante a Gerusalemme che aiuta i «perduti ebrei» a ritornare a Sion. Come giornalista scrive sul "Jerusalem Post", e già nel passato ha rivolto a ebrei e cristiani inviti a pregare affinché Dio intervenga a proteggere Israele nella sua attuale situazione politica (cfr. Notizie su Israele 38, 1 settembre 2001). Riportiamo una lettera aperta che recentemente Freund ha indirizzato ai «credenti biblici cristiani» per invitarli a pregare e a prendere posizione per Israele.


Cari credenti biblici cristiani,

questo è un caso di emergenza. Fra meno di due mesi il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon ha in programma di cacciare migliaia di ebrei dalle loro case e consegnare agli arabi parti della terra d'Israele.
Tutto di un colpo, tutte le grandi città di Israele si troveranno alla portata dei razzi palestinesi e gruppi terroristici palestinesi avranno la possibilità di creare uno Stato canaglia terroristico da cui potranno destabilizzare tutta la regione.
Adesso potreste chiedervi in che cosa tutto questo vi riguardi. Che cosa abbiamo a che fare con quello che accade a migliaia di chilometri di distanza nelle dune sabbiose di Gaza o nelle colline di Samaria?
La risposta dovrebbe essere naturale. Può essere riassunta in una sola parola: Genesi.
Più di tremila anni fa un brillante e originale pensatore di nome Abraamo riconobbe l'unico vero D_o e si incamminò sui suoi sentieri. Quando D_o gli ordinò di lasciare la sua patria, la sua terra natìa e la famiglia di suo padre, Abraamo ubbidì senza esitare. In questo modo entrò nella storia come il primo ebreo che fece alià e andò in Israele.
E là, alla quercia di More, presso Sichem (Nablus), D_o concluse con il padre del popolo ebraico quel patto indissolubile: «Io darò questo paese alla tua discendenza» (Genesi 12:7).
Se a quel tempo ci fosse stato l'ONU, si può immaginare come avrebbe reagito. Se fossero stati presenti i media liberali, nel riferire tutto quello che lì era successo certamente avrebbero criticato e distorto i fatti.
Ma resta il fatto che la promessa di D_o al suo popolo eletto costituisce un tema centrale che percorre tutta la Bibbia. La promessa fu ripetuta a Giacobbe e a Isacco, e in seguito ai loro discendenti. E anche i profeti la ricordarono continuamente.
Non c'è niente da fare: la terra d'Israele appartiene a Israele perché il D_o d'Israele ha detto così. Punto.
E tuttavia in Israele si è fatto avanti un Primo Ministro che sta tentando di agire contro la promessa di D_o. Soltanto 38 anni dopo che Giudea, Samaria e Gaza sono ritornate per un miracolo al popolo ebraico, con la guerra dei sei giorni, Ariel Sharon vorrebbe far ritornare indietro questo miracolo e far passare grosse parti di territorio sotto il controllo dei palestinesi.
E c'è anche il Presidente USA George W. Bush, che insiste a voler dividere la Terra Santa di D_o con la formazione di uno Stato palestinese parallelo a quello attuale di Israele.
Questi due uomini sembrano avere la necessaria potenza e la possibilità di portare a compimento un simile ritiro. Chi può infatti opporsi a un Primo Ministro e a un Presidente?

Adesso entrate in gioco voi

Come studente di una scuola superiore di scienza politica, ricordo bene che i professori cercavano sempre di farci capire che le relazioni internazionali in realtà sono il risultato dell'interazione di diversi attori sul palcoscenico mondiale.
Quello che però quegli eruditi trascuravano è il fatto che, oltre agli attori, è necessario che ci sia anche un regista: il Creatore del mondo che guida e influenza tutti gli avvenimenti.
Nella sua grazia, D_o ha dato a ciascuno di noi la capacità di rivolgersi a Lui in preghiera e di chiederGli che cambi il corso delle faccende umane. La storia assomiglia a un film di cui tutti abbiamo la possibilità di influenzare la sceneggiatura rivolgendoci direttamente a Colui che controlla il tutto.

Per questo mi rivolgo a voi nella speranza che riusciate a capire quanto sia critica la nostra attuale situazione e anche voi supplichiate D_o prima che sia troppo tardi.
Ciascuno di noi può usare la potenza della preghiera e chiedere a D_o di intervenire nel suo popolo e nella sua terra.


Noi possiamo - anzi dobbiamo - impedire che questo ritiro avvenga. Questo è un interesse non soltanto degli ebrei, ma riguarda ogni persona timorata di D-o, ovunque si trovi. Come annuncia il profeta Gioele, alla fine dei tempi D_o giudicherà i popoli del mondo secondo il modo in cui essi hanno trattato il suo popolo Israele. E sottolinea in modo particolare: D_o farà i conti con quei popoli che «dividono il mio paese» (Gioele 3:2).
Non è quindi possibile rimanersene da una parte, semplicemente a guardare come va a finire. Per usare una frase che proviene personalmente da George W. Bush: ciascuno di noi deve scegliere se è per o contro la Terra d'Israele. Con tutto quello che ne consegue.
Lascia quindi tutto quello che adesso stai facendo, metti da parte tutti gli altri urgenti problemi e spandi il tuo cuore davanti a D_o affinché Egli impedisca questo ritiro.
Per chiunque prenda sul serio la Bibbia, questo è il momento di alzarsi e dichiarare la sua opinione.

Michael Freund


COMMENTO - Si sa bene che molti considerano con sospetto e irritazione i riferimenti al Dio della Bibbia quando si tratta di affrontare «concreti» problemi politici riguardanti Israele. Resta il fatto che nei «concreti» fatti di cui continuamente si parla non si può evitare il ricorso a nomi come Abraamo, Israele, Gerusalemme, Sion, Tempio, Messia. E sono tutti nomi contenuti nella Bibbia. E' realistico pensare di poterli evitare considerandoli semplici sovrastrutture ideologiche o sentimentali espressioni linguistiche? In realtà, chi pensa di poter affrontare il tema "terra di Israele" trascurando il "Dio di Israele" di cui si parla nella Bibbia, è un sognatore e un illuso. Per questo crediamo che molti cristiani biblici aderiranno all'invito di Michael Freund, sottomettendosi comunque alla sovrana volontà di Dio che conosce meglio di noi i modi e i tempi adatti. Naturalmente, come cristiani eleveremo a Dio anche altre preghiere, perché il tema centrale della Bibbia è contenuto nella domanda rivolta da Gesù ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che io sia?» Essi risposero: «Alcuni, Giovanni il battista; altri, Elia, e altri, uno dei profeti.» Egli domandò loro: «E voi, chi dite che io sia?» (Marco 8:27-29). E' per la risposta dell'ebreo Pietro a questa domanda che adesso molti non ebrei credono nel Messia d'Israele e in tutte le promesse che Dio ha fatto al popolo d'Israele, comprese quelle riguardanti la terra. Tutti dovranno prendere posizione: rispetto al popolo Israele e rispetto al suo Messia. M.C.





2. QUANDO SI DEVE SCEGLIERE DA CHE PARTE VIVERE




Palestinesi che si aggrappano a Israele

di Daniel Pipes

Il Ministro dell'Interno israeliano ha di recente dichiarato che quattro palestinesi accusati di aver partecipato a un attentato suicida nel 2002, che fece 35 vittime, saranno espulsi da Israele una volta usciti di galera. L'Associated Press riporta che i quattro "perderebbero i diritti di residenza, come pure quelli alla previdenza sociale e all'assicurazione sanitaria".

La decisione del Ministro fa sorgere una domanda: Per quale motivo i palestinesi impegnati a distruggere lo Stato di Israele si sentono puniti se perdono il diritto di vivere in Israele? Si supporrebbe che i terroristi contrari a Israele preferiscano vivere nell'Autorità palestinese.

Beh, sarebbe errato pensarlo. I palestinesi – perfino i terroristi – preferiscono in genere vivere in quella che definiscono come "entità sionista". Questo tipo di comportamento divenne espressamente chiaro quando una bella porzione di territorio – la parte orientale di Gerusalemme nel 2000 e parte del "Triangolo" di Galilea nel 2004 – aveva buone possibilità di passare sotto il controllo dell'AP. In entrambi i casi, i palestinesi in questione si aggrapparono a Israele.

Gerusalemme. Quando a metà del 2000 la diplomazia del premier israeliano Ehud Barak rilanciò la possibilità che alcune zone di Gerusalemme a maggioranza araba fossero trasferite sotto il controllo dell'AP, un assistente sociale stimò che "una schiacciante maggioranza" dei 200.000 arabi di Gerusalemme preferiva rimanere sotto il controllo israeliano". Fadal Tahabub, membro del Consiglio nazionale palestinese, specificò che uno stimato 70% di 200.000 arabi residenti a Gerusalemme preferiva rimanere sotto la sovranità israeliana. Un altro politico, Husam Watad, disse che la gente era "in preda al panico" alla prospettiva di trovarsi a vivere sotto il governo dell'AP.

Il ministero dell'Interno israeliano denunciò un sostanziale aumento di richieste di cittadinanza e Roni Aloni, consigliere comunale di Gerusalemme, riportò alcune testimonianze rilasciate dai residenti arabi: "Non siamo fatti per vivere a Gaza o in Cisgiordania. Siamo in possesso di carte di identità israeliane. Siamo abituati a standard di vita più elevati. E anche se il governo israeliano non è il massimo, è sempre meglio dell'Autorità palestinese". Un medico che aveva chiesto di ottenere documenti d'identità israeliani spiegò: "Desideriamo rimanere in Israele. Almeno lì posso esprimere liberamente le mie idee senza essere sbattuto in prigione, come pure avere la possibilità di percepire un'onesta paga giornaliera".

Per fermare la corsa palestinese all'acquisizione della cittadinanza israeliana, i funzionari islamici di grado elevato di stanza a Gerusalemme emisero un editto che ne vietava l'acquisizione e Faisal al-Husseini, agente dell'OLP a Gerusalemme, si spinse oltre definendo ciò come "un tradimento". Essendo la sua minaccia risultata vana, Faisal al-Husseini annunciò che gli arabi di Gerusalemme che prendevano la cittadinanza israeliana avrebbero subito la confisca delle loro abitazioni.

Il Triangolo della Galilea, un'area a maggioranza palestinese situata nella parte settentrionale del paese. Un sondaggio del maggio 2001, rilevò che solo il 30% della popolazione araba di Israele era d'accordo con l'annessione del Triangolo della Galilea al futuro Stato palestinese, il che significa che una larga maggioranza preferiva rimanere in Israele. Dal febbraio 2004, quando il governo Sharon rilasciò una dichiarazione allo scopo di sondare la reazione pubblica in merito al fatto se trasferire il Triangolo della Galilea sotto il controllo dell'AP, secondo l'Arab Center for Applied Social Research di Haifa, la percentuale di coloro che preferivano rimanere in Israele balzò al 90%. E il 73% degli arabi del Triangolo sosteneva che sarebbe ricorso alla violenza per evitare modifiche al confine.

I politici locali riprovarono con veemenza la possibilità che Israele cedesse parte della Galilea; Ahmed Tibi, un parlamentare arabo-israeliano, un tempo consulente di Arafat, definì l'idea come "una proposta pericolosa e antidemocratica". L'opposizione araba alla cessione del Triangolo della Galilea al controllo da parte dell'Autorità palestinese era così forte che Sharon abbandonò velocemente l'idea del trasferimento.

Sempre nel 2004, mentre Israele era intento a costruire il suo recinto di sicurezza, alcuni palestinesi dovettero scegliere da quale parte vivere. La maggior parte di loro, insieme ad Ahmed Jabrin di Umm al-Fahm, non ebbe dubbi: "Noi ci siamo battuti [con le autorità israeliane] per stare dentro il recinto e loro lo hanno spostato in maniera tale che noi stessimo ancora in suolo israeliano".

Che sono in molti i palestinesi che preferiscono vivere sotto il controllo israeliano sembra risultare più da considerazioni di ordine pratico che da un proposito di sommergere a livello demografico lo Stato ebraico. Costoro ritengono che l'AP sia impoverita, autocratica e anarchica. Come spiega un palestinese, si tratta di "uno Stato sconosciuto che non ha un Parlamento né una democrazia e nemmeno delle università decenti."

I palestinesi non sono così impegnati a livello ideologico al punto di disdegnare la bella vita che il soggiorno in Israele è in grado di offrire. Ne derivano due conclusioni a lungo termine. Innanzitutto, se i palestinesi pretenderanno di esercitare un "diritto al ritorno" in Israele di cui non si sono mai avvalsi, si sposteranno nello Stato ebraico in gran numero. In secondo luogo, sarà molto difficile da raggiungere un accordo in merito allo status quo finale sulla nuova definizione dei confini.

(New York Sun, 6 luglio 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes)


* * *

Un'immediata conferma

Il 3 luglio scorso la Corte Suprema d'Israele ha cominciato a dibattere la domanda presentata da alcuni abitanti palestinesi di tre quartieri di Gerusalemme Est che al termine della costruzione della barriera di sicurezza dovrebbero trovarsi dal lato est della città.
Si tratta dei quartieri di Anata, Ras El-Hamis e del campo di profughi Shu'afat, che conta 25.000 abitanti. I lavori sulla barriera in questo settore sono cominciati da qualche giorno.
Questi abitanti palestinesi chiedono che i loro quartieri restino all'interno di Gerusalemme e che la barriera sia eretta in modo che loro vengano a trovarsi all'ovest, separati dalla Cisgiordania.
La procedura è eccezionale perché costituisce un riconoscimento, da parte degli abitanti arabi di Gerusalemme Est, delle frontiere municipali della città definite da Israele. I richiedenti affermano che l'esclusione dei tre quartieri nuocerà alla loro vita, che ha come centro Gerusalemme.

(Haaretz, 3 luglio 2005)





3. IL RAGAZZO CHE VOLEVA SALVARE LA GENTE




"L'Esercito di Israele è arrivato dopo l'attacco terroristico in Argentina. Adesso tocca a me."
 
Gabriel Feingertz ricorda le terribili scene dell'attentato a Buenos Aires, così come i soldati israeliani arrivati per portare soccorso alle vittime. Egli ha ora chiuso un ciclo – è diventato un cittadino israeliano e presta servizio proprio

nella stessa unità militare. Ha anche un messaggio per i suoi amici che sono rimasti nella Diaspora, "Se tutti gli ebrei della Diaspora vengono in Israele, potremmo difenderci da qui."
 

di Miri Hasson
 
Gabriel Feingertz ha iniziato il suo romanzo d'amore con l'Unità di ricerca e di soccorso dell'Esercito d'Israele quando aveva nove anni. I militari di questa unità erano arrivati per portare soccorso alle vittime dell'attacco terroristico al Centro Comunitario Ebraico di Buenos Aires. Le immagini dei soldati che portavano in salvo la gente della sua comunità sono rimaste impresse profondamente nella sua mente e nel suo cuore. Oggi, a dieci anni di distanza, Feingertz  presta servizio nella stessa unità, pronto in ogni momento ad intervenire per soccorrere ebrei in ogni parte del mondo.
 
"Mia madre stava lavorando nello stabile dall'altra parte della strada" rievoca Feingertz. "Io ero a casa, dal momento che la scuola ebraica era chiusa per timore di attacchi terroristici. Mamma era al lavoro. Quando abbiamo appreso la notizia dell'attentato dal giornale-radio, abbiamo cominciato a preoccuparci per lei. Dal momento che non la potevamo raggiungere, siamo andati sul posto dell'attentato. Lei era sana e salva, ma ciò che ricordo maggiormente di quel giorno terribile sono i soldati israeliani. Sono arrivati alcune ore dopo l'attentato con i cani e i mezzi di soccorso. Io non potevo parlare l'ebraico e così sono rimasto a guardarli."
 
E' stato allora che Feingertz ha maturato la decisione che a tempo debito sarebbe emigrato in Israele e avrebbe servito nell'Esercito di Israele, nell'Unità di ricerca e di soccorso. "Quando ho visto quei soldati arrivati appositamente da Israele per portare soccorso, ho sentito che c'era laggiù qualcosa anche per me. E, poi, perchè mai loro dovevano prendersi cura di noi?  Eppure erano venuti per aiutarci, e così ho deciso che anch'io avrei fatto la stessa cosa. Mia madre non ci aveva fatto caso, ci sono pur sempre ragazzi che sognano di andare sulla luna, ma, tuttavia ho fatto in modo che il mio sogno si realizzasse. L'immagine di quei soldati che si dannavano per portare soccorso mi rimarrà per sempre impressa. Volevo diventare come loro, per questo ho preso la decisione di immigrare."
 
Feingertz è immigrato da solo in Israele nel 2002, nel quadro del programma "Na'alè" dell'Agenzia Ebraica. Sua sorella è arrivata un anno dopo per studiare all'Università Ebraica di Gerusalemme. I loro genitori, rimasti soli in Argentina, hanno deciso di raggiungerli dopo sei mesi. Adesso la famiglia vive a Petach Tikva.
 
"Da sempre volevo venire a vivere in Israele" dichiara Gabriel "Ho studiato in una scuola ebraica, ho sempre vissuto tra ebrei e ho frequentato attivamente un movimento giovanile. A sedici anni, però, avevo quasi dimenticato il mio sogno, quando un bel giorno dei delegati dell'Agenzia Ebraica sono arrivati nella nostra scuola per parlarci del programma "Na'alè". Io ne ho subito parlato a mia madre e, in verità, non le ho lasciato tante scelte. Lei mi ha domandato se ero sicuro della mia decisione, mi ha avvertito che non sarebbe stato facile e che avrei dovuto pesare bene la cosa.  Sapeva anche che avrei dovuto fare il militare. Il fatto è che venendo qui in Israele avrei corso qualche pericolo. Tuttavia, che cosa avrebbe potuto fare per impedirmelo?"
 
 
"Uno sente di questi attentati ma si abitua alla situazione"
 
Prima di essere arruolato nell'esercito, Feingertz  ha vissuto e studiato al kibbutz Ashdot Yaakov. Qui ha abitato con altri ventidue nuovi olim, sedici dei quali hanno concluso il liceo e, quindi, sono stati chiamati alle armi. "Ho passato un bellissimo periodo e ho vissuto come un kibbutznik. La maggior parte dei miei amici ha fatto la stessa esperienza. Il programma in sé era molto valido ed abbiamo anche ottenuto l'ammissione all'università. E' stato duro senza la mia famiglia, però qui ne abbiamo trovata un'altra". Gabriel va avanti con il suo racconto "Sei di noi hanno fatto ritorno in Argentina, alcuni perchè sentivano la mancanza dei loro familiari, altri perchè avevano paura di fare il militare"
 
Quando gli viene chiesto se non ha paura sotto le armi, Feingertz  risponde che quando è arrivato in Israele aveva la sensazione di essere un turista, "però quando uno sente di questi attentati terroristici e comincia a pensarci su, alla fine si abitua alla situazione. Agli inizi, quando viaggiavo a Gerusalemme, mi guardavo sempre intorno, ma poi mi c'ho fatto il callo."
 
Feingertz si è arruolato nell'Esercito di Israele nel novembre del 2004. Gli era stata affidata un'altra mansione, ma la sua determinazione e la sua storia personale lo hanno aiutato a realizzare il suo sogno, per cui è stato incorporato nell'Unità di ricerca e di soccorso. "Non volevano prendermi a causa del mio profilo fisico molto alto. Durante uno dei corsi di addestramento, ho raccontato al mio superiore il mio sogno e il desiderio che mi animava per poter entrare in quell' unità speciale. Lui ha esaminato la faccenda e mi ha detto che la cosa era fattibile."
 
Alla fine, Gabriel è stato ammesso nell'unità. "Spero veramente che nessuna disgrazia accada agli ebrei nella Diaspora, e vorrei fare a meno di esser messo alla prova", dice, "ma se dovesse succedere qualcosa, voglio darmi da fare e mostrare agli ebrei di fuori che qui, in Israele, siamo tutti solidali. Vorrei mostrar loro che devono immigrare in Israele. Penso che il popolo ebraico troverà più facile venire a vivere qui dove si può vivere tutti insieme e difenderci da qui. In questo modo, non ci sarà più bisogno di andare all'estero per salvare vite ebraiche."
 
Nei giorni in cui Feingertz e i suoi compagni di unità non operano per portare soccorso a soldati o civili feriti, essi trascorrono il loro tempo in dure esercitazioni di  addestramento e in missioni nei vari corpi di fanteria. "Se dovesse succedere qualcosa, siamo pronti ad intervenire. Per questo, facciamo delle esercitazioni periodiche per utilizzare il nostro equipaggiamento. L'esercito ha più punti in cui noi ci addestriamo e simuliamo situazioni reali, in cui impieghiamo dei fantocci che dobbiamo soccorrere."
 
Quando gli viene chiesto quali sono i suoi programmi futuri, Gabriel sorride. Da parte sua, ritornare in Argentina non rientra nei suoi piani. "Qui è veramente un gran bel vivere," dichiara," vorrei diventare un ufficiale e firmare per intraprendere la carriera militare."
 
(Yediot Aharonot, 12 maggio 2005 - da Keren Hayesod)





4. INTERVISTA A BOAZ GANOR




L'esperienza israeliana      

di Roberto Bongiorni

La sicurezza prima di tutto. Viaggiare in Israele significa convivere con una situazione di conflitto a bassa intensità. Quando si esce, la sera o semplicemente per fare la spesa, si impara a ridurre al minimo il proprio bagaglio. Prima di salire su un bus, davanti a ogni grande esercizio commerciale, locale notturno o mercato, ci si imbatte in un ufficiale della sicurezza addetto alla perquisizione. Si impara a convivere con le armi: ogni soldato le porta sempre con sé, anche al ristorante. Israele è per elezione lo Stato che continua a vivere sotto la minaccia di attentati terroristici. Boaz Ganor, direttore dell'Istituto israeliano per il contro-terrorismo di Herzlyia, è una delle massime autorità del settore.
 
Al di là della recente tregua, da circa un anno in Israele il numero degli attacchi kamikaze si è ridotto sensibilmente. Come siete riusciti a ridimensionarli? 
Nell' ultimo anno abbiamo sventato l'80-85% degli attentati. Un risultato mai raggiunto. Basti pensare che nei tempi successivi agli accordi di Oslo (1993) la percentuale era vicina allo zero. Sono quattro i fattori più efficaci contro il terrorismo: primo un ottimo apparato di intelligence, è fondamentale. Poi una migliore capacità di offesa, cioè attacchi preventivi e mirati. Il terzo è una combinazione dei primi due: una cooperazione stretta tra intelligence e apparati militari. Il quarto è la barriera di difesa. Un ostacolo molto efficace che rende difficili gli spostamenti dei kamikaze. 
 
Controlli davanti a stazioni o centri commerciali servono dunque poco? 
Tali misure sono l'ultimo anello della catena. Diventano importanti solo quando tutte le altre falliscono. In Israele, tutto sommato, hanno contribuito in modo marginale alla sicurezza. Servono a ridurre il numero di vittime e feriti. Quando un kamikaze viene identificato all'esterno di uno di questi luoghi si fa comunque esplodere. Ed è un fallimento per gli apparati di sicurezza. 
 
Cosa devono fare i Paesi europei per prevenire tali minacce? 
Comprendere che stanno fronteggiando una guerra anomala che richiede un apparato d'intelligence ad hoc. Servono cooperazioni tra i diversi servizi nazionali, una banca dati e una forza internazionale dinamica. In Europa è necessaria anche una definizione di terrorismo comune a tutti i Paesi al fine di spianare la strada a una legislazione internazionale.
 
E come giudica la preparazione dell'intelligence europea? 
E' molto migliorata dopo l'11 settembre 2001, ma resta ancora complessivamente lontana da un livello soddisfacente. Sarebbe utile creare ampie alleanze, coinvolgendo anche i governi dei Paesi arabi.
 
Come si vive in un Paese sotto la continua minaccia delle bombe? 
È molto difficile, ma non impossibile. Il 2002 è stato l'anno peggiore con 300 vittime per attacchi terroristici. Ma ogni anno in Israele 500 persone perdono la vita in incidenti stradali. Con ciò voglio dire che bisogna affrontare il problema in modo razionale, e non emotivo, utilizzando le misure più efficaci.
 
Misure che però spesso limitano le libertà di uno Stato di diritto. Come conciliarle? 
È un'arte. Occorre trovare il giusto equilibrio. In Israele è determinante a tal fine il contributo della Corte suprema, che vigila e limita i poteri del Governo. 
 
Ma migliorare le strutture d'intelligence potrebbe richiedere anni. Ci si deve dunque rassegnare? 
Certo ci vorranno anni, ma non ci sono soluzioni miracolose. Il terrorismo islamico cambia faccia di continuo, non si sta ridimensionando. Perché la guerra sia vinta ci vorranno almeno 10 anni, forse una generazione. Bisogna darsi da fare.
 
(Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2005 - newsletter Chicca Scarabello)





5. LA KNESSET DISCUTE SULL'INNO NAZIONALE




Inno israeliano con testo arabo?

GERUSALEMME - Il Comitato della Knesset per Costituzione, Legge e Giustizia ha discusso su possibili cambiamenti del testo dell'inno nazionale israeliano. Alcune proposte vogliono togliere l'esplicita menzione degli ebrei e nominare al suo posto anche gli arabi.
"Fintanto che nell'intimo del cuore freme l'anima ebraica... non è ancora perduta la nostra speranza", si dice nel testo dell'inno nazionale israeliano "Hatikvah" ("La Speranza").
Il presidente della frazione laica Shinui, Reschef Chajne, ha proposto di cambiare le parole con "l'anima di un israeliano". In questo modo verrebbero menzionati anche i cittadini non-ebrei, quindi anche gli arabi. Inoltre, in questo modo il testo non verrebbe fondamentalmente cambiato.
Il deputato Shinui Ronnie Brison vorrebbe aggiungere alla Hatikvah perfino un testo in lingua araba. L'avvocatessa legale e sostenitrice dei diritti umani Ruth Gavison ha proposto di aggiungere, accanto alla Hatikvah, un inno aggiuntivo in lingua araba.
Sorprendente, secondo un rapporto del quotidiano "Haaretz", è stata la vivace partecipazione al dibattito del Presidente del comitato Michael Eltan. Il deputato Likud ha condotto in modo deciso la discussione sul cambiamento del testo dell'inno, ha riferito il giornale.
Il suo collega di partito e capo della frazione Likud, Gideon Sa'ar, lo ha contraddetto in molti punti; alla domanda se per quel che riguarda l'inno fosse disposto a un compromesso, ha risposto: «Con una parola: no. Con due parole: assolutamente no. Io non cambierei niente nella Hatikvah. Sarebbe un compromesso sull'identità dello Stato.»
Il comitato ha discusso il tema nella prima seduta. Prima che possa essere presentata una proposta alla Knesset, devono esserci ancora diverse tappe. La Knesset ha autorizzato l'attuale versione dell'inno soltanto nel novembre scorso, con la condizione che i cambiamenti proposti debbano essere discussi in tre sedute della Knesset.
L'attuale inno istraeliano è stato assunto come inno del movimento sionista nel primo Congresso sionista del 1897. Fino alla costituzione dello Stato d'Israele nel 1948 il testo è stato più volte cambiato. Nel testo dell’inno, della poesia originale è rimasta soltanto la prima strofa.

(Israelnetz Nachrichten , 9 luglio 2005)





MUSICA E IMMAGINI




Mazel Tov




INDIRIZZI INTERNET




Freeman Center for Strategic Studies

DesInfos.com




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