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Notizie su Israele 323 - 2 dicembre 2005

1. Nelle colline e nelle valli della Terra d'Israele
2. Una analisi degli investimenti possibili in Israele
3. Il nuovo simbolo della Croce Rossa
4. Intervista all'ex segretario del Tesoro in Israele
5. La sinistra parlamentare e Israele
6. La sinistra extraparlamentare e Israele
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 1:27-28. Sion sarà salvata mediante il giudizio, e quelli che in lei si convertiranno saranno salvati mediante la giustizia; ma i ribelli e i peccatori andranno in rovina assieme, e quelli che abbandonano il Signore saranno distrutti.
1. NELLE COLLINE E NELLE VALLI DELLA TERRA D'ISRAELE




Insediamenti illegali?

di Ze'ev Orenstein

Ho avuto recentemente il grande onore di essere stato invitato da alcuni amici che vivono a Sde Boaz, un nuovo insediamento ebraico poco distante da Neve Daniel, Gush Etzion. Vorrei fare qui alcune considerazioni su Sde Boaz e gli altri insediamenti.
     - Sde Boaz sorge in uno dei posti piu' alti in Israele e vi si gode un panorama stupendo che spazia su vari chilometri in tutte le direzioni. E' uno dei posti dove si puo' vedere gran parte della Terra d'Israele, e' forse questa la ragione per cui questa zona fu molto frequentata dai nostri predecessori.
     - Sde Boaz e' circondata da colline e valli rigogliose. L'aria e' pura, limpida e fresca e respirandola purifichiamo il nostro corpo sia in senso fisico che spirituale, l'aria qui sembra possedere anche qualita' mistiche. Ho l'opportunita' di visitare la sorgente situata alle porte di Sde Boaz (vi sono pure dei pesci rossi) e di mangiare fichi raccolti dagli alberi della zona. Questo ha per me un gran significato, perche' i fichi sono una delle 7 specie di piante della Terra d'Israele. Ho pure modo di recitare la benedizione di shehechiyanu su tali frutti visto che e' da molto tempo che non li assaggiavo, e ringrazio D. o per avermi dato la possibilita' di mangiare uno dei frutti della Terra da Lui prediletta, e mi sento orgoglioso di essere ritornato a casa.
     - A Sde Boaz risiedono sia ebrei religiosi che laici, nuovi immigranti e sabra, che vivono insieme accomunati dall'amore per il Popolo Ebraico e la Terra d'Israele ed il desiderio di stare in uno Stato Ebraico.
     - Sde Boaz non e' protetta da un reticolato difensivo perche' questo impedirebbe lo sviluppo naturale della comunita', a Sde Boaz tutto il lavoro e' opera ebraica.
     - Sde Boaz e' agli occhi del mondo e di alcuni israeliani un avamposto illegale che Israele deve rimuovere.
     - Sde Boaz e' considerato un insediamento "illegale" nonostante sia stato fondato su un terreno comprato dal Keren Kaiemet Leisrael nel 1946 con i soldi raccolti dai nostri nonni nei bossoli perche' gli ebrei avessero il diritto di risiedere in qualsiasi parte della Terra d'Israele. Gli insediamenti "illegali" come Sde Boaz sono comunita' costituite da persone straordinarie, i pionieri dei nostri giorni, che vivono lavorando la terra e costruendo nuove comunita' ebraiche nella Terra d'Israele. Ebrei che non a parole ma con i fatti dimostrano il diritto del Popolo Ebraico ad uno Stato Ebraico nella Terra d'Israele. Ebrei che hanno lasciato i comfort materiali ma che vivono una vita cosi ricca che nessun denaro al mondo puo' comprare. A me, cittadino israeliano che vive al di qua della "linea verde" (una delle tante "linee di cessate il fuoco" causate dai vari tentativi arabi, grazie a D. o falliti, di cancellarci dalla faccia della terra), logorato dalla vita di tutti i giorni, la visita a Sde Boaz da modo di ricaricarmi le batterie.
     - C'è qualcosa di speciale nel camminare nelle colline e nelle valli della Terra d'Israele, mangiare i frutti raccolti con le proprie mani dai suoi alberi, ed incontrarvi sorelle e fratelli ebrei che hanno scelto di fare la loro Aliyah e di far rifiorire col loro duro lavoro la nostra Patria.
La prossima volta che sentite dire che Israele deve rimuovere gli insediamenti "illegali" considerate quanto segue:
     - Sono veramente posti come Sde Boaz ad essere l'ostacolo sulla via della pace tra ebrei ed arabi?
     - Non sono piuttosto i valori e gli ideali ebraici e pionieristici ed il diritto degli ebrei ad abitare in tutta la Terra d'Israele simboleggiati da Sde Boaz e dagli altri insediamenti ebraici che certuni vorrebbero realmente rimuovere dalla nostra societa'?
     - Che cos'e' esattamente un insediamento "illegale'? Perche' e' illegale - un crimine - per gli ebrei vivere, costruire e risiedere nella Patria ebraica?
     - Qualcuno pensa veramente di rafforzare i diritti del Popolo Ebraico sulla Terra d'Israele rimuovendo queste comunita' di eroici pionieri? Non rafforza piuttosto la propaganda araba (gli arabi stanno rimuovendo tutte le vestigia delle presenze ebraico e cristiana nel Monte del Tempio a Gerusalemme e nei territori da loro amministrati) che afferma che qui siamo degli invasori e come i crociati finiremo di essere cacciati?
     Spero che quanto detto vi faccia almeno un po' meditare.

Sde Boaz

("Illegal outposts" and building our Homeland, THE JEWISH PRESS ISRAEL EDITION, dicembre 2005, p. 4; liberamente tratto e tradotto dall'ebraico da Eleazar Ben Yair)





2. UNA ANALISI DEGLI INVESTIMENTI POSSIBILI IN ISRAELE




Investire in Israele: tutto quello che c'è da sapere
    
Conoscere meglio Israele può significare anche riuscire a intrecciare rapporti culturali ed economici con una realtà in vorticoso divenire. Potrebbe significare anche una possibilità in più per l'Abruzzo e le imprese locali. Di questo è convinto Massimo Leonardo Vene, presidente dell'Associazione Amici d'Israele "Abruzzo". Il documento che segue è un modo per scoprire Israele e le diverse possibilità che offre.
    
di Massimo Leonardo Vene
    
L'investimento di capitali in Israele, un Paese che tutti conoscono per l'alto livello della sua tecnologia, per gli scienziati all'avanguardia e per la fertile creatività, sembrava un argomento che da anni non si osava più prendere in considerazione, ma stando alle analisi condotte sul fronte economico già nel 2005, secondo la Banca d'Israele, gli stranieri hanno investito nella Borsa di Tel Aviv 3 miliardi di dollari, mentre il totale degli investimenti esteri in Borsa ha raggiunto alla fine di marzo i 56 miliardi di dollari, spiegato dal fatto che la corsa alle azioni israeliane da parte di banche e istituti finanziari esteri va considerata come conseguenza che il loro investimento iniziale è salito del 32%, per tale motivo l'economia d'Israele si sarebbe pienamente ristabilita e dopo anni di recessione, appare in netto miglioramento senza alcuna inflazione prevedendo nel 2006 un aumento del Pil pari al 4,5%.
     La moneta israeliana, lo shekel, è stabile e apprezzata. Vale la pena ricordare che, su 10.000 lavoratori, in Israele ci sono 175 tra scienziati, ingegneri e tecnici, contro gli 83 degli Stati Uniti e i 25 dell'Italia! Di fatto, gli investitori stranieri sono riapparsi alla fine del 2004, infondendo un aumento del 10% alla Borsa, sempre secondo la Banca d'Israele: il 91% di tali investimenti si è riversato sui mercati di Tel Aviv che, da allora, hanno preso un andamento migliore di quelli di New York. Accade che le giovani società di soli pochi anni di vita vengano vendute per centinaia di milioni di dollari a giganti americani, grazie alla presenza di tecnici israeliani nella Silicon Valley. Lo stesso accade con la scoperta, da parte di israeliani, di importanti prodotti medico-scientifici o studi matematici quali gli algoritmi usati per la criptografia e utilizzati dalla televisione saltellitare.
     Il settore della biotecnologia è decisamente all'avanguardia e anche qui gli investimenti esteri sono in forte aumento. Più precisamente, Psagot Ofek Investment House, Member of the Leumi Group, ha pubblicato una affermazione netta: " il mercato dei capitali d'Israele nel 2005 è il migliore del mondo". A sostegno di tale tesi anche la McKinsey&Company scrive che la performance delle imprese israeliane quotate al Nasdaq è più elevata dell'indice totale e ricorda che la politica economica del governo israeliano in pochi anni ha ridotto le spese correnti, investito nello sviluppo, ridotto le tasse, rafforzato gli incentivi agli investimenti stranieri e all'investimento in ricerca e sviluppo, offrendo liberalizzazioni e privatizzazioni volti a migliorare la produttività dei servizi.
     C'è un'altra novità, rispetto al passato: lo Stato di Israele oggi promuove gli investimenti locali ed esteri offrendo un'ampia gamma di incentivi e agevolazioni a coloro che investono nell'industria, nel turismo e nel settore immobiliare, con particolare attenzione per le aziende hi-tech e le attività di ricerca e sviluppo. Gli incentivi agli investimenti sono fissati da una legge per la promozione degli investimenti di capitale, recentemente modificata. La nuova legge si differenzia dalla precedente in quanto aggiunge un nuovo percorso per gli incentivi, una via automatica. I programmi di incentivazione sono divisi in due grandi categorie e, per rientrarvi, i progetti di investimento devono rispettare alcuni criteri, tra cui: competitività internazionale, investimento assegnato minimo, elevato valore aggiunto e registrazione della società in Israele.
     Infine i programmi Magneton e Noffar mirano a sostenere la ricerca universitaria applicata in tutte le aree e in particolar modo in biotecnologia e nanotecnologia, al fine di promuovere il trasferimento di tecnologia nel settore. I finanziamenti coprono fino al 90% delle spese approvate. Infine, Il programma Magnet, che incentiva la formazione di consorzi di singole ditte e istituti universitari volti allo sviluppo congiunto di tecnologie generiche e pre-competitive, offrendo finanziamenti fino al 66% del bilancio preventivo approvato. L'augurio vero è che si possa vivere in pace, lavorare, costruire, migliorare, salvaguardare i beni comuni e favorire la crescita di un Paese capace di accogliere nuovi residenti, tanti turisti e capitali desiderosi di aumentare.
    
(PrimaDaNoi.it, 30 novembre 2005)





3. IL NUOVO SIMBOLO DELLA CROCE ROSSA




GINEVRA — La società della Mezzaluna rossa palestinese (Prcs) e la società di soccorso israeliana Magen David Adom (Mda) hanno firmato ieri a Ginevra un accordo di collaborazione che dovrebbe aprire la strada all'adozione di un terzo emblema del Movimento internazionale della Croce rossa e al riconoscimento del Mda nel Movimento. L'accordo è stato siglato dai presidenti della Prcs Younis al-Khatib e del Mda Noam Iftah, in presenza del ministro svizzero degli esteri, signora Micheline Calmy-Rey. L'accordo riconosce che la società palestinese della mezzaluna rossa è «la società nazionale autorizzata» ad operare nei Territori palestinesi. L'accordo afferma l'impegno a facilitare la circolazione e il passaggio delle ambulanze palestinesi ai checkpoint, dove disporranno di una corsia rapida riservata. L'Mda - che ha per simbolo la stella rossa di Davide, emblema non riconosciuto dal Movimento - potrà eventualmente lavorare nei Territori palestinesi ma sotto la protezione del «cristallo rosso», il nuovo emblema (un quadrato bianco con cornice rossa che poggia sull'angolo) che dovrebbe essere ufficialmente approvato dai 192 Paesi membri delle Convenzioni di Ginevra la settimana prossima.

(Il Tempo, 29 novembre 2005)





4. INTERVISTA ALL'EX SOTTOSEGRETARIO DEL TESORO USA




«L'Europa continua a finanziare Hamas»

di Anna Momigliano

«Il senso d'urgenza post 11 settembre sembra svanito e questo falso clima di sicurezza favorisce al-Qaeda»

Jimmy Gurulé si occupa da decenni di riciclaggio di denaro sporco e fondi illeciti. È stato sottosegretario del dipartimento del Tesoro dal 2001 al 2003, dopo avere lavorato per anni nel dipartimento della Giustizia: dall'undici settembre in poi, il suo lavoro si è concentrato sulla lotta ai finanziamenti di al-Qaeda all'interno degli Stati Uniti e sulla strategia di cooperazione internazionale necessaria a renderla effettiva.

Secondo gli esperti, l'attentato contro le Torri Gemelle è venuto a costare intorno ai 300 mila dollari. Se basta così poco per fare così tanto, forse cercare di combattere al-Qaeda sul piano economico sembra un controsenso.
«Se è per questo un attentato suicida che provochi una dozzina di morti costa meno di duemila dollari - racconta Gurulé al Riformista - I fondi a livello operativo, ma diversi milioni di dollari sono necessari per il livello super-operativo».

Ovvero?
«Al-Qaeda è una confederazione che spazia dall'Indonesia alla Cecenia, e ha bisogno di molti soldi per mantenere quel network, perché la fedeltà di vari gruppi locali non è affatto gratuita. Lo stesso vale per i "porti sicuri": quando è stato espulso dall'Arabia Saudita nel 1991 bin Laden è andato in Sudan, dove il governo lo ha sostenuto per anni perché lui li finanziava. Poi è andato in Afghanistan dove ha finanziato i talebani, pagando profumatamente per la sua protezione, per non parlare di quello che ha speso per i 20 mila campi d'addestramento. Secondo le nostre stime solo il 10 per cento dei fondi di al-Qaeda vanno a finanziare direttamente gli attacchi terroristi, il resto è tutto a livello organizzativo. Si sa che bin Laden è probabilmente protetto dai signori della guerra nelle montagne del Pakistan, e che questo gli stia costando molti soldi. Se noi riuscissimo a tagliare ulteriormente i suoi fondi, si troverà sempre più isolato».

Finora che risultati avete ottenuto?
«Penso che il risultato più grande sia stato raggiunto sul campo della cooperazione internazionale, per esempio attraverso diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu, la 1373 in particolare. Un altro progresso sono i 408 enti che sono stati messi all'indice dal dipartimento del Tesoro, bloccando 200 milioni di dollari».

È relativamente facile convincere un paese a firmare un accordo contro i fondi ai terroristi. Ma finora sono stati solo Azerbaigian e Bosnia, oltre agli Usa, a congelare di fatto i conti della Holy Land Foundation, che sappiamo finanziare Hamas e altri gruppi terroristi minori.
«È per questo che dobbiamo continuamente fare pressione sui paesi e negoziare con loro affinché rimangano vigili. Una delle mie preoccupazioni più grandi a proposito è che il senso d'urgenza che si era percepito dopo l'undici settembre si è fatto da parte, e naturalmente questo falso senso di sicurezza gioca tutto a favore dei terroristi».

L'Ue è il principale finanziatore dell'Autorità palestinese. Esiste ancora, come ai tempi di Arafat, il rischio che i soldi dell'Unione finiscano nelle buste paga dei kamikaze?
«Il rischio rimane. Perché molte organizzazioni caritatevoli finanziano non solo direttamente, ma anche indirettamente i terroristi».

Ovvero?
«Molte organizzazioni caritatevoli non fanno distinzione tra sostegno ai più deboli e quel genere di aiuti che invece possono aiutare indirettamente il reclutamento dei terroristi, come per esempio il sostentamento delle vedove e dei figli dei bombaroli suicidi. Il che facilita il compito dei reclutatori che possono avvicinare i giovani dicendo che le loro famiglie non avranno di che preoccuparsi. Il punto è che non basta mettere dei nomi di organizzazioni all'indice, servirebbe un sistema che richieda la registrazione di tutte le organizzazioni caritatevoli al dipartimento del Tesoro e che ci permetta di avere un'idea di dove finiscano i soldi raccolti dalle organizzazioni stesse. Anche, anzi soprattutto, quando questi soldi vanno all'estero. È common sense: serve un controllo migliore sulla distribuzione dei fondi, e oggigiorno non esiste alcun obbligo da parte delle organizzazioni di rendere conto di dove mandano i soldi».

In molti sostengono che la "guerra al terrorismo" rappresenti una sfida difficile per i sistemi legali dei paesi moderni.
«La comunità internazionale deve comprendere che gli Usa sono governati dalla rule of law, e quindi esiste la percezione che anche i terroristi abbiano diritto a un processo equo e che gli Usa non perdonano trattamenti inumani verso chicchessia. Certo sono stati commessi gravi errori, e tutti condanniamo per esempio quanto successo a Abu Ghraib».

Recentemente il Congresso ha approvato una legge che permette ai detenuti di Guantanamo di avere accesso alle corti Usa in alcuni casi specifici, per esempio quando rischiano una condanna superiore a 10 anni. È un passo avanti?
«A essere onesto, non credo che la natura del tribunale, se si tratti cioè di un tribunale civile sul territorio americano o di un tribunale militare, sia così importante. È molto più importante assicurarsi che i detenuti abbiano accesso a un processo equo e conforme alla legge internazionale».

Ha seguito il recente scandalo sulle prigioni irachene? Un istituto gestito direttamente dal ministero degli Interni di Baghdad è stato accusato di torturare sistematicamente i prigionieri, ma la vicenda ha avuto molto meno rilievo di Abu Ghraib.
«È una dinamica interessante quella dei media su queste due vicende, che suggerisce un doppio standard quando si parla di Usa. Come se la comunità internazionale mantenesse aspettative più alte nei confronti degli States quando si parla di diritti civili, e quando gli Usa non si attengono a questi standard c'è molto criticismo. Possiamo metterci a dire che non è giusto, ma io accetto la sfida e credo che anche gli Usa siano pronti a farlo. Questo certo non condona quello che è accaduto nelle prigioni irachene, ed è imperativo che ci siano delle investigazioni e che i responsabili, se trovati colpevoli, vengano puniti».

Cosa ne pensa dell'uso di fosforo bianco in Iraq?
«Non posso commentare».

(Il Riformista, 1 dicembre 2005)





5. LA SINISTRA PARLAMENTARE E ISRAELE




La sinistra e Israele

Intervento al seminario romano del 24 novembre 2005 "La sinistra e Israele".

di Anna Borioni

Intervengo come promotrice di Appuntamento a Gerusalemme, una delle entità organizzatrici di questo seminario insieme a Libertà Eguale, il quotidiano Il Riformista e all'Associazione Romana Amici d'Israele. E desidero ringraziare innanzitutto una serie di persone che si sono impegnate per la realizzazione di questo incontro e in particolare Dora Anticoli, Cesare Anticoli, Anita Friedman, Adriana Martinelli, Enrico Molinaro e Chiara Di Segni. Ma intervengo anche come convinta sostenitrice dei valori della sinistra democratica che, tuttavia, non si riconosce più da tempo nella linea praticata da gran parte di quest'area politica sulla questione israeliana.
     In questi ultimi anni, con la seconda Intifada, si è disvelato sotto i nostri occhi un progetto di distruzione di una società democratica, quella israeliana, che si è avvalso prevalentemente di due armi: la propaganda ideologica e il terrorismo suicida. Eppure questo disegno di distruzione non è stato

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riconosciuto come tale da gran parte della sinistra. La base teorica di questo progetto è stata realizzata in occasione della Conferenza Mondiale contro il Razzismo promossa dalle Nazioni Unite a Durban, nel 2001. Da lì è partita una campagna per la delegittimazione dello Stato ebraico e, di conseguenza, per la legittimazione di una aggressione nei suoi confronti, che era destinataa registrare un'escalation senza precedenti. Non si è riflettuto a sufficienza sul fatto che tale conferenza, in cui Israele, unico fra gli Stati, è stato messo sul banco con accuse infamanti di apartheid, razzismo e genocidio, è stato un evento generato da ambienti progressisti e democratici, dalle organizzazioni paladine dei diritti umani e degli oppressi, da quegli ambienti, cioè, che la sinistra ritiene un suo naturale bacino di consenso. In quel consesso vi erano rappresentati decine di regimi totalitari e dittature sanguinarie che furono lasciati indisturbati, mentre vennero utilizzati, senza subire censura, i più beceri stereotipi antisemiti, incluso la diffusione da parte palestinese dell'infame libro dei Protocolli dei Savi di Sion. Eppure, se si levarono voci di protesta di progressisti, ebbero troppo toni bassi nell'assordante clima d'odio instaurato contro Israele.
     Da parte sua la sinistra si rivelò incapace, o non volle valutare che l'atto di accusa contro Israele era parte di una strategia mirata, messa in atto fin dalle conferenze regionali preparatorie delle Nazioni Unite, una delle quali si tenne a Teheran. L'Iran escluse lo Stato ebraico dall'incontro preparatorio dell'area dei paesi asiatici e l'Onu non solo non obiettò, ma con tale premessa si avviò a realizzare la conferenza contro la discriminazione e il razzismo! L'Iran che oggi invoca a chiare lettere la cancellazione dello Stato d'Israele, ha avuto un ruolo preminente nell'influenzare gli esiti della Conferenza di Durban. Come si vede i conti, alla fine, tornano.
     La delegittimazione morale d'Israele, partita da Durban, non sarebbe potuta avvenire se non avesse preso le mosse da un ambiente democratico. Da quell'ambiente, cioè, che nel lontano 1948 aveva appoggiato la costituzione del nuovo Stato dei kibbutz e della colonizzazione agricola del deserto, salutandola come un evento progressista e visto nel sionismo un movimento di liberazione ed emancipazione del popolo ebraico, unico nel novecento, a realizzare il sogno di uno Stato su basi socialdemocratiche. L'immagine della società israeliana lanciata a partire da quel consesso, di una società guerrafondaia, dominata dall'integralismo religioso e razzista, colonialista, avamposto dell'imperialismo americano, non avrebbe attecchito così bene nei media e nell'opinione pubblica europea (ricordate il sondaggio della Commissione Europea, in cui Israele era indicato come il maggior pericolo per la pace nel mondo?) se non si fosse basata su stereotipi già presenti nel mondo cosiddetto progressista e della sinistra. Questo mondo, a Durban, è stato chiamato a maledire la nascita di una sua creatura e settori di esso lo hanno fatto, barattando valori fondanti come il ripudio dell'antisemitismo, la condanna del terrorismo, il sostegno alla democrazia, in nome di una solidarietà acritica alla causa palestinese che non indagasse sui reali scopi di essa.
     D'altro canto, la delegittimazione morale d'Israele, la costruzione di un'immagine odiosa della sua società, è stata la chiave che ha aperto le porte alle tesi giustificazioniste del terrorismo suicida. Contro un paese così agguerrito e compattamente reazionario, che non lasciava vie d'uscita ai palestinesi se non l'atto finale di massima disperazione, non ci sarebbe stata più alcuna pietà, né alcuna concessione al diritto di difesa. Nel disegno propagandistico arabo-palestinese che accompagna la strategia del terrorismo suicida, Israele doveva diventare un mostro indifendibile, soprattutto da parte di quei settori di mondo dediti alla difesa dei diritti umani e dei popoli oppressi. E infatti, nessun corteo di sinistra, dei sindacati, dei pacifisti e dei no global, ha manifestato, anche solo semplice solidarietà umana alle vittime civili delle terribili stragi terroristiche che in questi ultimi anni hanno insanguinato Israele. Eppure, in cinque anni, le occasioni non sono mancate. Parliamo infatti, di 26.259 attentati avvenuti dal 2000 ad oggi, con 1.060 morti ammazzati, oltre il 75% civili, fatti esplodere negli autobus e nei bar o nei supermercati e di 6.089 feriti che stanno ancora soffrendo negli ospedali e nelle loro case. In compenso le proteste anti israeliane si sono moltiplicate, raggiungendo toni ed espressioni di tale veemenza, che hanno di gran lunga superato il legittimo dissenso politico.
     In questo modo ampi settori della sinistra hanno potuto semplicemente ignorare il progetto di distruzione dello Stato ebraico, continuando ad attribuire alla volontà d'Israele la mancata nascita dello Stato palestinese. Ma così facendo la sinistra ha diseducato se stessa, a favore della costruzione di uno schema ideologico interpretativo del conflitto mediorientale che sembra rinunciare all'analisi della realtà, dando vita a una posizione pregiudiziale su Israele che lo colloca sempre dalla parte del torto. Dalla leadership palestinese non si è preteso in modo chiaro e inequivocabile la fine di ogni atto di terrorismo e della propaganda antisemita, mentre si è consentito che le giuste aspirazioni del popolo palestinese a un proprio Stato e a una vita dignitosa, continuassero a essere strumentalizzate dal folle disegno di eliminazione della nazione ebraica perseguito dal nazionalismo arabo e dal razzismo islamico.
     Se questo seminario iniziò a essere concepito a seguito degli eventi di Durban, tuttavia solo ora è stato possibile realizzarlo perché la storia ha fatto piazza pulita dell'infame base teorica formulata in quella sede e spiazzato molte posizioni di sinistra che su quella teoria si erano consolidate. La morte di Arafat ha messo in evidenza ciò che gli israeliani dicevano da tempo e cioè del dispotismo, ambiguità e corruzione che caratterizzava il suo regime e che solo la sua uscita di scena avrebbe potuto aprire nuove prospettive di dialogo e di risanamento della società palestinese. La seconda Intifada, per ammissione degli stessi leader palestinesi, si è rivelata un vero disastro che ha immiserito a tutti i livelli la sua gente. Con lo smantellamento degli insediamenti a Gaza, l'immagine di Israele è oggi più vicina ad essere valutata per quello che realmente il paese è: una vivace democrazia, costretta a conquistarsi giorno dopo giorno il diritto alla sopravvivenza. Il terrorismo suicida ha oltrepassato le frontiere israeliane per mostrarsi anch'esso per quello che è: una megastrategia di attacco alla democrazia e alla libertà. Così sulla questione israeliana si è riaperta una finestra di dialogo a sinistra, e noi ci aspettiamo che oggi la riflessione faccia un passo avanti importante. Riconoscere il diritto all'esistenza d'Israele e a vivere in sicurezza non basta, perché questo è un diritto basilare per ogni nazione. Un diritto che il popolo israeliano si è comunque assicurato, non solo sacrificandosi per la sua difesa, ma soprattutto impegnandosi a fondo nella costruzione del proprio Stato, che oggi è in grado di offrire un notevole contributo allo sviluppo della scienza, della tecnologia, della cultura e della democrazia. Ed è quest'ultimo aspetto, più che la forza militare che, nonostante le cattive teorie, fa la differenza sostanziale con l'esperienza politica palestinese, la quale in 60 anni di lotta non è stata capace di produrre un risultato positivo duraturo per il suo popolo. Così oggi, anche lo slogan "Due popoli, due stati" non basta più, perché come dice il mio amico Adriano Mordenti, bisogna elevare l'obiettivo a "Due popoli, due democrazie" per aiutare i palestinesi a uscire dal tunnel del terrorismo.
     Sono certa di interpretare il pensiero dei miei tanti compagni di "Appuntamento a Gerusalemme" che non è un qualcosa di formalizzato, ma un'iniziativa politica bipartisan nata nel 2002 in seno alla cosiddetta società civile come testimonianza di solidarietà diretta con Israele e contro il terrorismo, affermando che è giunto il momento di riconoscere che vi è stato nei riguardi dello Stato d'Israele, dei suoi leader, della sua gente, del suo esercito, un vero e proprio linciaggio morale che non è stato riservato a nessun altra nazione al mondo, neanche alle dittature più feroci. Linciaggio perpetrato grazie alla complicità di ampi settori della sinistra, con diverse responsabilità e livelli di coinvolgimento.
     E' necessario che la sinistra restituisca l'onore a Israele, perché è un atto di giustizia dovuto. Perché Israele è il centro spirituale, ideale e territoriale di tutto il popolo ebraico e merita rispetto. Perché deve essere chiaro al mondo che la sua esistenza non va più messa in discussione. Perché sarebbe un atto di onestà intellettuale da parte della sinistra che gioverebbe molto al rinnovamento dei valori democratici. Perché gli ebrei possano esprimere liberamente la propria identità nell'ambito della sinistra e partecipare ai cortei con le loro kippà e simboli senza timore di essere aggrediti. Perché gli attivisti della sinistra che, come me, sostengono le ragioni d'Israele, non si debbano più sentire isolati e discriminati.

(Informazione Corretta, 26 novembre 2005)

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Manifesto della «Sinistra per Israele»

"Continueremo il processo di pace come se non ci fosse il terrorismo combatteremo il terrorismo come se non ci fosse il processo di pace".

1. Sinistra per Israele si batte perché sia pienamente e definitivamente riconosciuto il diritto dello Stato di Israele ad esistere, a vivere sicuro e in pace con i suoi vicini.
2. Sinistra per Israele si batte perchè si riconosca che in Medio Oriente non sono in conflitto un torto e una ragione, ma due ragioni: il diritto di Israele a esistere sicuro; il diritto del popolo palestinese ad una propria patria.
3. Sinistra per Israele vuole promuovere la conoscenza della realtà israeliana, intensificare relazioni con la sinistra e le forze progressiste israeliane e promuovere solidarietà nei confronti del "campo della pace" in Israele.
4. Sinistra per Israele intende combattere i pregiudizi antiisraeliani che albergano anche in una parte della sinistra italiana e promuovere una conoscenza corretta e valutazioni più equilibrate su Israele e sulle parti in causa nel conflitto.
5. Sinistra per Israele non ha alcun timore ad esprimere critica e opposizione ad azioni dei governi di Israele, ma si batte perché tali critiche non si traducano in pregiudizio, in condanne generalizzate e in boicottaggi a tutta la società israeliana, l'unica società democratica e pluralista in Medio Oriente.
6. Sinistra per Israele combatte fenomeni di antisionismo – presenti anche a sinistra – che possono nascondere con troppa facilità una nuova e più sottile forma di antisemitismo.
7. Sinistra per Israele considera storicamente sbagliata e moralmente non accettabile ogni equiparazione del sionismo al razzismo, perchè il sionismo ha le stesse radici di reclamo della patria per un popolo, che ha avuto il Risorgimento italiano e gli altri movimenti europei di fondazione e unificazione nazionale. Lo stesso reclamo di patria che è adesso la legittima aspirazione del popolo palestinese.
8. Sinistra per Israele ritiene il terrorismo è un crimine inaccettabile, che deve essere condannato con forza e senza condizioni, e sollecita la dirigenza palestinese ad assumere atteggiamenti chiari, espliciti e coerenti di lotta al terrorismo. E, al tempo stesso, ritiene che ci si debba ispirare all'insegnamento di Rabin: "Portare avanti il processo di pace come se non ci fosse il terrorismo, combattere il terrorismo come se non ci fossero trattative".
9. Sinistra per Israele appoggia le legittime rivendicazioni nazionali palestinesi e chiede alla dirigenza palestinese di superare definitivamente ogni diffidenza verso trattative di pace con Israele. Rifiuta atteggiamenti acritici che non distinguano nel movimento palestinese le componenti riformatrici che mirano alla costituzione di uno Stato palestinese accanto allo Stato di Israele dalle forze estremiste votate alla sua distruzione.
10. Sinistra per Israele si batte perché Israele sani le ferite prodotte dalla costruzione degli insediamenti in Cisgiordania, dalla barriera di separazione laddove essa penetra in profondità nel territorio palestinese e dagli atti di punizione collettiva che producono sofferenze e umiliazioni per la popolazione civile palestinese e auspica, insieme con molti cittadini e politici israeliani, il ritiro dagli insediamenti in territorio palestinese per incoraggiare condizioni di fiducia reciproca e rendere perseguibile una comune costruzione di pace.
11. Sinistra per Israele resta fedele al principio "due popoli due Stati" e sostiene ogni azione – come l'Iniziativa di Ginevra e la Road Map – utile al processo di pace e si batte perchè, in sede europea e in ogni sede internazionale, l'Italia agisca per una pace giusta in Medio Oriente.

(libertàEguale, 25 novembre 2005)





6. LA SINISTRA EXTRAPARLAMENTARE E ISRAELE




Ebrei, stato di Israele e
Medio Oriente di popoli liberi ed eguali

[I grassetti sono nell'originale]

La sua legittimità storica lo stato di Israele la deve alla secolare, terribile persecuzione subìta dagli ebrei in Europa (in Europa!, non certo nel mondo arabo o nell'impero ottomano, dove per secoli hanno convissuto senza problemi con le popolazioni maggioritarie arabe, turche, etc.), per mano della chiesa cattolica (non di quella sciita!), dei signorotti feudali polacchi, ucraini, russi, etc., ed infine, sempre su pacifico suolo europeo, ad opera del regime nazista e del fascismo. La vergognosa speculazione imbastita su questa tragica vicenda, in particolare sullo sterminio degli ebrei comuni nel corso della seconda guerra mondiale (è stato un ebreo statunitense, Norman Filkenstein, a denunciare la esistenza di una "industria dell'Olocausto"), o la stessa oppressione sistematica del popolo palestinese ad opera di Israele, non possono e non debbono farla, per reazione meccanica e cieca, dimenticare.
     Il progressivo insediamento nei passati cento anni di gruppi di ebrei in Palestina è stato l'esito, per certi versi naturale, specie per gli ebrei senza riserve (i ricchi finanzieri ebrei non sono mai stati sfiorati dalla "tentazione" di trasferirsi laggiù, e come si fa a non capirli?), delle persecuzioni da loro subìte. Va ricordato che alle origini alcuni tra questi gruppi o comunità erano mossi perfino da ideali socialisti ed egualitari, e non nutrivano sentimenti di ostilità o superiorità razziale verso gli arabi (così come era vero anche l'inverso). Tuttavia il sionismo vincente, quello che ha impregnato di sé la nascita e la vita di Israele, come stato e come società, e li ha diretti dal 1947 ad oggi, ha fatto di questo stato e di questa società, più che il sicuro rifugio della massa degli ebrei sparsi per il mondo, l'agente primo della colonizzazione imperialista del Medio Oriente, trasformando quanti vi si sono rifugiati in altrettanti soldati in servizio permanente effettivo di una causa estranea e oggettivamente opposta a quella della creazione di un "focolare nazionale" intorno a cui riscaldarsi finalmente in pace. Questo tipo di deriva era largamente implicita nella stessa concezione dello stato ebraico ad opera del suo padre putativo, T. Herzl, che la offrì alle grandi potenze colonialiste europee quale "un avamposto della cultura [europea] contro la barbarie [araba]", e non per caso lo concepì, al contempo, come uno stato in cui l'organizzazione del lavoro sarebbe stata "del tutto militare".
     Ciò che ne è venuto fuori è uno stato certamente moderno e modernizzatore, in fatto di tecniche produttive anzitutto, tanto più se lo si mette a confronto con stati di tipo ancora semi-feudale quali le petrolmonarchie arabe, ma uno stato che in nessun campo è stato altrettanto moderno e razionale quanto nell'organizzazione della guerra, uno stato permanentemente militarizzato che, altrettanto certamente, si è specializzato nella distruzione spietata del "focolaio nazionale" dei palestinesi, ha aggredito tutti i suoi vicini e si segnala per la progettazione, in proprio e in combutta con gli Stati Uniti (e l'Europa "pacifista"), di una serie di azioni di guerra e di guerre.
     "Israele come stato ebraico costituisce un pericolo non solo per sé stesso e per i suoi abitanti, ma per tutti gli ebrei e per tutti gli altri popoli e stati del Medio Oriente e anche altrove": a scrivere queste sagge parole non è un qualche orrido "anti-semita", bensì Israel Shahak, un ebreo israeliano "nato in Polonia, deportato a Belsen e residente in Israele da oltre quarant'anni", dunque "un sopravvissuto dell'olocausto", che lo scrittore statunitense Gore Vidal definisce "l'ultimo dei grandi profeti" (il suo testo si intitola Storia ebraica e giudaismo. Il peso di tre millenni, Centro Librario Sodalitium, 1997). Le scrive in quanto considera lo stato di Israele uno stato fondato sull'apartheid nei confronti della popolazione araba, uno stato razzista e discriminatorio nei confronti dei non ebrei in generale come pure degli ebrei che non si riconoscono nello "sciovinismo ebraico", uno stato fondamentalmente confessionale che ha nella "ideologia della Terra Redenta" un'ideologia utile ad espellere tutti i non ebrei dalla terra destinata a far nascere la "Grande Israele" entro non meglio precisati "confini biblici"; uno stato proteso, perciò, ad un indefinito processo di espansione e di colonizzazione, il contrario della "società aperta" propugnata dal liberalismo (ancorché tutti i liberali europei, e non solo G. Ferrara e Rutelli, lo amino alla follìa). La sua severa conclusione è la seguente: "il corpo sociale ebraico-israeliano ha solo due possibilità di scelta: diventare tutto un ghetto chiuso in guerra perpetua, una Sparta ebraica, fondata sul lavoro degli iloti arabi e mantenuto in vita dalla condizione di poter contare sull'appoggio economico-militare dell'establishment politico degli Stati Uniti e dalla costante minaccia delle armi nucleari, oppure diventare una società aperta" (pp. 31-2).
     A quest'obiettiva descrizione dello stato che "nessuno deve toccare" (nel quale vi è un livello di tutela ineguagliato altrove per le sette ultra-ortodosse e »tanto per toccare un tasto della propaganda antiaraba - il loro disprezzo per la donna) ci permettiamo di aggiungere solo: Israele è uno stato di classe che non "protegge" affatto tutti gli ebrei indistintamente, ma» come denuncia a suo modo, e del tutto inconseguentemente, lo stesso Peretz, il nuovo capo dei laburisti, toglie agli ebrei poveri per dare agli ebrei ricchi, investe sempre e solo nella guerra e nella espansione delle colonie in Cisgiordania (di cui quasi tutti si sono dimenticati nel mezzo del cancan sul ritiro da Gaza) nel mentre sta demolendo il proprio welfare per chi colono non è, ed è uno stato che pratica la gerarchizzazione etnico-razziale tra gli stessi ebrei israeliani con gli ashkenaziti preferiti ai sefarditi, e i russi preferiti ai falasha, veri e propri pariah neri, per non parlare poi del trattamento riservato agli immigrati non ebrei.
     No, macché, non sono i malfìdi capi borghesi o semi-feudali arabi, tessitori di mille ed una trame di cointeressenza con Israele e con chi Israele protegge; non è l'anti-israelismo propagandistico di un Ahmadinejad e simili; non è l'anti-semitismo vero o presunto a mettere in discussione la legittimità dello stato di Israele; è lo stesso stato di Israele, divenuto sempre più pericoloso non solo per i palestinesi, gli arabi, gli iraniani e quant'altri, ma anche per il proprio stesso popolo, per la sua parte non sfruttatrice. Esso non ha rappresentato la soluzione della "questione ebraica", ma è divenuto parte del problema. Lo hanno cominciato a comprendere le centinaia di giovani refusnik, le decine di migliaia di lavoratori israeliani partecipanti agli scioperi generali che si sono susseguiti negli ultimi tempi, e gli ebrei che in numero crescente abbandonano questa "terra promessa".
     Se ci fosse un nucleo comunista operante in Medio Oriente (e se c'è, non siamo in grado di dirlo, lo sta già facendo) non lascerebbe nulla di intentato per gettare un ponte nella loro direzione e per spiegare loro una semplice verità: non ci potrà essere mai pace in Medio Oriente, né per gli ebrei né per palestinesi e arabi, finché rimarrà in piedi un simile stato, e finché resteranno in piedi gli stati arabi poliziotti dell'imperialismo dei Mubarak, degli Abdallah, dei Saud, etc., che, al pari di Israele, fanno la fortuna solo e soltanto delle classi sfruttatrici, locali e internazionali. Uniamo le nostre forze per abbatterli tutti, per cancellare dalla ""mappa politica" del Medio Oriente questi stati di kapo, e sulle loro macerie costruiamo una grande federazione sovietica di popoli, di lavoratori liberi che abbatta tutti i muri vecchi e nuovi che ci hanno finora resi nemici gli uni degli altri e perciò schiavi. In una Palestina, in un Medio Oriente di popoli liberi ed eguali che potrà dedicare tutte le sue risorse naturali ed umane al benessere delle proprie popolazioni, non ci sarà da buttare a mare altro che un passato di scontri sanguinosi e le classi sfruttatrici e parassitarie, interne ed esterne, che ce lo hanno costruito addosso. E vi fiorirà finalmente una vera civiltà umana. 

(Organizzazione Comunista Internazionalista "Che fare", 23 novembre 2005)

COMMENTO - Come si vede, gli argomenti cambiano secondo i tempi, ma la questione numero uno per molti resta l'esistenza degli ebrei, anche se adesso il problema si presenta sotto la forma dello Stato d'Israele. E la soluzione passa ancora una volta attraverso un'opera preliminare di distruzione, che naturalmente include gli ebrei.





7. MUSICA E IMMAGINI




I Have A Little Dreidle




8. INDIRIZZI INTERNET




Israel Antiquities Authority

Kehilat Judia Mesianica Ortodoxa




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