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Notizie su Israele 331 - 27 gennaio 2006 - GIORNO DELLA MEMORIA

1. Testimonianza di Goti Bauer
2. Testimonianza di Liliana Segre
3. Intervista a Liliana Segre
4. Musica e immagini
5. Indirizzi internet
Isaia 45:24-25. “Solo nel Signore”, si dirà di me, “è la giustizia e la forza”; a lui verranno, pieni di vergogna, quanti si erano adirati contro di lui. Nel Signore sarà giustificata e si glorierà tutta la discendenza d’Israele.
1. TESTIMONIANZA DI GOTI BAUER




Avevo 14 anni

Avevo 14 anni quando nel 1938 la nostra vita che, fino ad allora era stata perfettamente integrata nella società, fu sconvolta dalle leggi razziali. Leggi che ci privarono da un giorno all’altro dei più sacrosanti diritti civili, quelli che consentono ai giovani di frequentare le scuole, ai loro padri di esercitare le loro professioni.
    Vivevo a Fiume con i miei genitori e un fratello di 12 anni. Fummo emarginati: solo pochi ci dimostrarono solidarietà mentre la maggioranza
Goti Bauer
della popolazione fu del tutto indifferente al dramma che stavamo vivendo. Per opportunismo o per totale insensibilità era più comodo far finta di non vedere adeguarsi alle disperazioni governative.
    Nel 1943, quando dopo l’8 settembre i tedeschi invasero l’Italia ed estesero qui da noi le loro leggi antiebraiche, la nostra condizione divenne tragica. Si veniva arrestati per strada, spesso denunciati da ignobili individui che, pur di intascare la squallida taglia che c’era su ogni ebreo, non si ponevano problemi di coscienza.
    Intere famiglie, neonati, malati, centenari inclusi venivano prelevati di notte dalle case e sparivano nel nulla. Disperatamente ognuno cercava una qualsiasi via di scampo: pochi fortunati trovavano ospitalità presso generosi amici che affrontavano il rischio di severe punizioni pur di soccorrerli, c’è chi trovò rifugio nei conventi, altri, noi tra questi, cercarono di mascherare la propria identità attraverso documenti falsi. Una copertura alquanto precaria in un clima sospetto e di terrore qual era quello di allora in cui in ogni luogo e in ogni momento potevi essere fermato e interrogato sui dati che su quella carta figuravano. E quando ogni minima esitazione nella risposta equivaleva a un’autodenuncia.
    Cercammo allora di trovar rifugio in Svizzera dove, prima di noi, molti erano riusciti a trasferirsi. Ci rivolgemmo a un’organizzazione di Milano che, dietro lauto compenso, aiutava chi era in pericolo a varcare clandestinamente il confine. Purtroppo le cose andarono male: a Varese fummo affidati a due guide, contrabbandieri che conoscevano ogni nascosto sentiero di montagna attraverso il quale accompagnare i fuggitivi. Ci portarono a Ghirla e da lì, dopo ore di faticato cammino, durante il quale, spudoratamente, ci avevano rassicurati e illusi, arrivammo a Cremenaga dove ci tradirono. Sì, proprio lì, sul confine, ci consegnarono ai militi della Guardia di Finanza italiana. Era un losco tranello in cui, notte dopo notte, cadevano intere famiglie in cerca di salvezza.
    Cominciò allora il nostro calvario finale: le SS che vennero a prenderci e ci condussero da un carcere all’altro. La locanda di Ponte Tresa che fungeva da quartier generale, poi Varese, Como e San Vittore qui a Milano. Infine il convoglio di vagoni bestiame sprangati che da Fossoli partì il 16 maggio 1944 per destinazione ignota. Una settimana di orribile viaggio, di indescrivibile sofferenza, fisica e morale, dopo la quale approdammo a Birkenau, il lager di Auschwitz dove erano state allestite le poderose strutture di sterminio.

Goti Bauer

(da “binario 21”)





2. TESTIMONIANZA DI LILIANA SEGRE




A tredici anni nel campo di sterminio

    Avevo otto anni al momento delle leggi razziali e mi ricordo come una netta cesura nella mia vita quella fine estate del 1938 quando mio papà cercò di spiegarmi che, poiché ero una bambina ebrea, non avrei più potuto continuare ad andare a scuola. Non posso dire di aver capito allora quello che stava succedendo, però mi sono sempre ricordata, dopo, come mi ero sentita quel giorno che ha diviso la mia vita in un prima e in un dopo. La mia era sempre stata una famiglia laica e io non mi ero mai posta il problema di che cosa volesse dire essere una bambina ebrea. Lo avrei ben capito in seguito, anno dopo anno, giorno dopo giorno, man mano che la persecuzione si è fatta più dura, quando è scoppiata la guerra e i nazisti sono diventati i padroni dell'Italia del Nord. Nel 1943 ero una ragazzina ormai tredicenne, molto consapevole di quello che avveniva intorno a lei.
    Falliti altri tentativi di sfuggire alla persecuzione, nel corso dei quali dovetti abbandonare la mia casa e dire addio ai miei nonni, poco prima che venissero deportati e uccisi ad Auschwitz, prima che ci arrivassi io, anche per me e per mio papà venne il momento di tentare la fuga in Svizzera.
    Anche per noi le cose andarono male, non trovammo però, come Goti, dei contrabbandieri che ci vendettero per quattro soldi, ma un ufficiale svizzero, di una piccola stazione di polizia di frontiera del Canton Ticino, che ci riconsegnò alle autorità italiane dopo che eravamo già riusciti a espatriare.

    
Una bambina in carcere

    Entrai così, a 13 anni, nel carcere femminile di Varese ed ero da sola nell’umiliante trafila della fotografia e delle impronte digitali, da sola a camminare in quei corridoi dietro a una secondina e a chiedermi per quale colpa mi trovassi lì. Io le prigioni le avevo viste solo al cinema, non sapevo come erano fatte, non sapevo che all'ora del tramonto le guardie venivano a picchiare sulle sbarre per controllare che non fossero state segate da me o dalle altre poverette prese come me sul confine! Fu così a Varese, fu così a Como, fu così a San Vittore, dove rimasi per 40 giorni. Ma lì ero contenta, perché le famiglie erano state riunite e io ero in cella con il mio papà.
    Due o tre volte alla settimana gli agenti della GESTAPO portavano via tutti gli uomini del raggio degli ebrei per interrogarli. Io sapevo che erano interrogatori terribili, in cui si torturava e si picchiava, e ci pensavo quando rimanevo sola nella cella aspettando che tornasse mio padre. Aspettavo un'ora, due ore, tre ore; diventavo vecchia leggendo le scritte di quelli che erano passati prima di noi: maledizioni, addii, benedizioni, nomi, "ricordatevi di me". Poi lui tornava: era pallido, la barba lunga, gli occhi segnati, non mi raccontava niente, ci abbracciavamo. Mi svegliavo qualche volta di notte nella branda che era quasi rasoterra, una brandina di ferro, e lo trovavo qualche volta inginocchiato vicino a me che mi chiedeva scusa per avermi messo al mondo. Lui che avrebbe voluto darmi il massimo.
    Alla fine di gennaio, nell'implacabile appello dei 650 nomi circa compresi nel successivo trasporto, furono pronunciati anche i nostri. Un vecchio cugino di mio padre, che a gran fatica, da Ravenna, aveva raggiunto la Svizzera e da là era stato respinto, a sentire il suo nome si uccise buttandosi giù dall'ultimo piano del raggio. Quel corpo scomposto, grottesco, quel fagotto buttato sul pavimento del carcere, fu il primo morto che vidi nella mia vita.
    Ci misero in fila e ci caricarono sui camion per portarci alla stazione centrale. Da lì cominciò il nostro viaggio verso il nulla. Un viaggio di gente che era alla vigilia della morte, un viaggio in cui non c'era più niente da dire, un viaggio in cui tutti, dopo aver pianto e i più fortunati pregato, stavano in silenzio.
    Arrivammo ad Auschwitz in pieno inverno. Era stato un viaggio inumano, ma inumano fu l'arrivo: quando fummo scaricate a calci e pugni su quella spianata enorme che i nostri aguzzini avevano preparato per noi nel lager di Birkenau, un lager femminile enorme, una città di disperazione. Fummo separati, uomini e donne, e io nei miei tredici anni spauriti, non conoscendo nessuna lingua straniera, senza capire dove mi trovavo e che cosa mi stava succedendo, io, senza saperlo, lasciai per sempre la mano del mio papà. Lui è rimasto là quel 6 febbraio 1944.

    
Noi sceglievamo la vita

    Io passai la selezione senza sapere che venivo scelta per la vita o per la morte. Ero tra le più giovani, anzi io non conobbi in campo nessuno che fosse più giovane di me. Mi scelsero perché ero grande e grossa e dimostravo più anni di quelli che avevo. Entrai nel campo e iniziò anche per me quella vita, fondata sulla più totale disumanizzazione in cui la voglia di vivere, per noi che siamo tornate, era l’unica cosa che contasse. Anche nella situazione più spaventosa noi sceglievamo la vita, anche se ci volevano uccidere ogni minuto per farci scontare la colpa di essere nate.
    Fui scelta per un lavoro che si svolgeva per fortuna al coperto. Dico sempre che sono viva per quello. Rimasi un anno nella fabbrica di munizioni Union, che apparteneva alla Siemens. Eravamo schiavi senza alcun diritto che lavoravano fino all'esaurimento delle forze.
    Com'erano i rapporti fra di noi prigioniere? I rapporti per me furono difficilissimi: io mi rinchiusi in quei mesi sempre di più in un silenzio doloroso. Dapprima il silenzio in cui mi aveva costretto la separazione da tutti coloro che avevo amato, poi il silenzio perché non capivo le lingue che si parlavano, poi il silenzio perché avevo paura di attaccarmi a qualcuno che mi sarebbe stato di nuovo strappato. Ma era anche il silenzio spaventoso che sentivamo intorno a noi, il silenzio del mondo che non si dava pensiero di quello che ci stava succedendo. Era forse anche il silenzio di Dio che in quel momento, ad Auschwitz, si è distratto.
    Tre volte passai la selezione nel corso di quell'anno. Nude, perché la nudità era un'altra umiliazione costante della nostra vita di tutti i giorni, passavamo davanti agli ufficiali delle SS, elegantissimi nelle loro uniformi. Noi, le disgraziate ragazze della fabbrica Union, ci specchiavamo le une nelle altre con i nostri corpi scheletriti mentre i nostri aguzzini, decidevano chi era ancora in grado di lavorare e chi no. Ragazzi, è difficile attraversare un corridoio, dover varcare una porta obbligata e sapere che chi ti osserverà, nuda, davanti e dietro, in bocca, dappertutto, poi deciderà se tu continuerai a vivere oppure no. Come bisogna atteggiarsi davanti a un tribunale così, composto di uomini che a casa avevano una famiglia, delle figlie forse della nostra età, e che ci guardavano, sorridendo calmi, tranquilli, senza una parola? Solo un cenno del capo per dire "avanti". E io ero felice quando mi facevano quel cenno, perché ero ancora viva, perché io volevo vivere. Io avevo 13 anni, e poi 14, e volevo vivere.

    
La "marcia della morte"

    Alla fine di gennaio del 1945, quando era passato un anno dal mio arrivo nel campo, cominciammo a sentire da lontano rumore di cannonate e di bombardamenti: qualche cosa stava succedendo. Ed ecco che dalla fabbrica Union arrivò il comando di evacuare il campo. E, così come eravamo, ci fecero alzare da quei banchi, dove lavoravamo per fare proiettili e munizioni, e venimmo avviate per quella che sarebbe stata chiamata la "marcia della morte". Io, quando cominciai a capire che dovevo camminare, comandai al mio corpo: "Una gamba davanti all'altra! Devi andare avanti, devi andare avanti...". Camminammo per giorni attraverso la Germania, camminavamo soprattutto di notte: città deserte, paesini deserti e le nostre sentinelle implacabili finivano con un colpo di pistola quelle che cadevano. Io non mi voltavo, non mi voltavo a vedere quelle che cadevano, non mi voltavo a vedere la neve sporca di sangue. Io non mi voltavo neanche quando ero nel campo e c’erano i mucchi di cadaveri scomposti fuori dal crematorio pronti per essere bruciati. Io non mi voltavo per guardare le compagne in punizione, io non volevo sapere di torture, di esperimenti, di racconti spaventosi, Io non volevo sapere, io volevo vivere e mi sdoppiavo in un'altra personalità: non ero lì, non ero io quella che faceva la marcia della morte. Ci buttavamo come pazze sugli immondezzai e raccoglievamo bucce di patate, torsoli di cavolo marcio, un osso già rosicchiato dal cane di casa, e ci disputavamo questi orrori io e le mie compagne, le bocche sporche, scheletri orribili. Alzavo la testa a vederle, le mie compagne, e vedevo me stessa, la mia faccia scheletrita, ferina, bestiale. Eravamo le stesse a cui un anno o due prima, intorno a una tavola ben apparecchiata qualcuno aveva detto: "Ho fatto per te la torta che ti piace, ne vuoi ancora?". Ma lì non c'era la tovaglia bianca, non c'era il viso amato della nonna Olga davanti a me. Rosicchiavo felice quel pezzo di osso. Non importa se poi avrei vomitato e avrei avuto la diarrea: intanto mettevo qualcosa nello stomaco.
    Passammo così da un campo all’altro, sempre più a Nord della Germania, fino a quello di Malchow, l’ultimo dove fui detenuta. Ci eravamo arrivate con la forza della disperazione, come non lo saprei più dire; eravamo tanti chilometri lontano da Auschwitz! Non lavoravamo più in questo campo, non c’era più quella disciplina dell'orario, della fabbrica. Passavamo delle giornate infinite, quasi più nessuno si alzava da quei giacigli su cui stavamo ammucchiate. Ma eravamo ancora vive. C’erano dei ragazzi, dei prigionieri francesi, che passavano fuori dal campo e ci dicevano: "Non morite! La guerra sta per finire. I nostri aguzzini la stanno perdendo, arrivano i russi da una parte e gli americani dall'altra." Noi rientravamo nelle baracche e dicevamo a quelle che veramente erano ormai alla fine: "Ci hanno detto: non morite! Noi lo ripetiamo a voi: non morite! La guerra sta per finire."
    Era una gioia troppo grande, noi che eravamo abituate alla fame al freddo, alle botte, all'aver perduto tutto, alla paura costante, non eravamo preparate a una gioia così grande come quella. Era vero: gli aguzzini stavano perdendo la guerra e nel giro di pochi giorni portarono via tutto da quel campo. Portavano via scrivanie, macchine da scrivere, soprattutto portavano via documenti compromettenti su quegli orrori che avevano perpetrato per anni e dei quali non volevano lasciare tracce. E, ancora una volta, ci comandarono di evacuare il campo. Noi eravamo ormai dei fantasmi e non ce l'avremmo più fatta a fare una marcia, ma quasi tutte ci alzammo da quei giacigli, anche quelle in punto di morte. E però, nel giro di pochissime ore fummo testimoni della storia che cambiava: i vincitori diventavano vinti e i nostri aguzzini buttavano le divise nei fossi sul lato della strada, buttavano le armi, scioglievano i cani. I civili scappavano dalle case trascinando dietro tutti i loro valori. E noi, attonite, ci guardavamo attorno e ci chiedevamo che cosa stava succedendo. Vedevamo i soldati tedeschi mettersi in borghese, li guardavamo e li immaginavamo tornare alle loro case: affettuosi padri, solerti maestri, coscienziosi impiegati di banca.
    Poi, nel giro di pochissimo tempo, arrivarono prima i camion dei soldati americani che ci buttavano tavolette di cioccolato, frutta secca, sigarette. Poi le truppe dell'Armata Rossa, gente di tutte le etnie: mongoli, circassi, russi bianchi. Un esercito disordinato, con pochi mezzi, ma che aveva tenuto in scacco l'esercito nazista per molto tempo sul fronte russo. Erano loro i vincitori.
    A noi restava questa grande, straordinaria, terribile esperienza: il dolore, che non passerà mai, di aver avuto Auschwitz nella nostra vita. E il dovere di testimoniare di quello che è stato, noi che abbiamo avuto salva la vita, per tutti quelli che non possono più parlare.

Liliana Segre

(da “presentepassato”)





3. INTERVISTA A LILIANA SEGRE




L'obiettivo dei nazisti era cancellare dal mondo gli ebrei, uomini o donne che fossero, e tutti, nell'indicibile orrore dello sterminio, seguirono lo stesso
Liliana Segre
percorso di fame, sfruttamento e morte. Tuttavia riflettere sulla peculiarità delle sofferenze e delle sopraffazioni patite da uomini e donne può aiutarci a superare il neutro della testimonianza e a comprendere le differenti traiettorie esistenziali di individui segnati da una diversa educazione, da diversi ruoli sociali, da diversi modi di percepire e affrontare la separazione, l'umiliazione, la perdita. "Nel Lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti maschi verso donne umiliate. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa" dice Liliana Segre, deportata nel Lager femminile di Auschwitz-Birkenau all'età di tredici anni. "Qualunque delinquente comune aveva diritto di vita e di morte su noi donne ebree, generatrici di un popolo odioso. E tuttavia noi di questo, allora, non eravamo consapevoli. Sapevamo la sopraffazione, la vergogna, la brutale umiliazione che ci spogliava della nostra umanità, e con essa anche della nostra femminilità."


Mi ha sempre colpito l'immagine usata da Primo Levi quando paragona le donne di Auschwitz a rane d'inverno.

Sì, il secondo passo del celebre comando con cui Primo Levi si rivolge ai lettori di Se questo è un uomo: "Considerate se questa è una donna/ senza capelli e senza nome/ Senza più forza di ricordare/ Vuoti gli occhi e freddo il grembo/ Come una rana d'inverno." Una rana d'inverno fa pensare a una bestiolina che rabbrividisce nuda.
Mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz'altro una cosa umiliante e terribile. L'uno è vestito, magari in divisa, con le armi; l'altro è nudo, inerme, in stato di completa debolezza. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all'uomo armato sia sottoposta a un oltraggio ancora maggiore. Ti insegnano a stare sempre composta, a vestire accollata, a provare pudore del corpo. Poi, di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, nello stesso giorno in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare geograficamente su una cartina, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono niente di quello che sta succedendo. Non c'è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude.


Una tortura che continuava nelle continue selezioni.

Quando c'erano le selezioni, le donne sfilavano per essere lasciate in vita o per essere messe a morte, sempre nude, tra i soldati in divisa. Era una persecuzione talmente grave, talmente umiliante, che per me è rimasta indimenticabile tra i milioni di cose che non ho mai dimenticato. Spesso mi capita di raccontare nelle scuole che l'anno prima, quando ero ancora una persona, ero stata operata di appendicite. Alla prima selezione che passai, tra le SS c'era un medico che mi mise un dito sulla pancia, dove avevo la cicatrice. In quel momento il mio cuore si fermò. Pensai che quello mi mandasse a morire. Invece no. Compiaciuto, spiegava ai colleghi che il chirurgo italiano era un cane, perché quella cicatrice sarebbe rimasta visibile per sempre, anche quando fossi stata una donna adulta. Non mi guardavano come una donna, ma come un capo di bestiame di cui andassero esaminati i quarti. Quando facevo la doccia con le mie compagne, all'uscita dal turno nella fabbrica di munizioni Union, dovevamo tenere con un braccio i nostri vestiti perché nessuno li rubasse e con l'altro lavarci sotto uno sgocciolio d'acqua di volta in volta bollente o ghiacciata, con un pezzetto di sapone che non bisognava perdere, altrimenti non ce ne sarebbe più stato dato un altro. Poi uscivamo nel gelo della notte, grondanti, rimettendoci addosso i nostri stracci. Durante tutto quel nostro balletto grottesco sotto la doccia, passavano i soldati. Non c'era un solo momento in cui venisse rispettata anche minimamente la dignità della persona. E credo che questo fosse ancora più doloroso per una donna. Gli uomini normalmente andavano a fare il militare, erano abituati a una certa promiscuità in cui la nudità non era sconvolgente come lo era per noi. Non ho mai sentito che avvenissero stupri o violenze di quel genere, anche se sicuramente ce ne saranno stati: le leggi di Norimberga proibivano agli ariani di accoppiarsi con le donne delle razze cosiddette inferiori. Ma era questo sprezzo a essere intollerabile, questo ridere di noi, questo punire ogni minima disobbedienza facendoci stare inginocchiate nude per delle ore. La nudità è stata una costante e io l'ho vissuta come una grande persecuzione morale, aggiunta a una situazione che era già di per sé terribile.


Alcune superstiti raccontano della vergogna della nudità provata dalle madri davanti alle proprie figlie.

Mi è difficile rispondere a questa domanda, perché una costante della mia prigionia è stata la grande solitudine. Mia madre è morta poco dopo la mia nascita e il rapporto fondamentale che ho avuto è stato quello con mio padre. Ho visto pochi gruppi familiari, nel Lager. Sicuramente i legami familiari, se da un lato potevano costituire un grandissimo conforto, potevano trasformarsi in un dolore insostenibile, qualora all'altra, sorella, madre, o peggio ancora, figlia, succedesse qualcosa di irreparabile. Non dico che fossi contenta di essere sola, perché ho sofferto tantissimo di solitudine, però forse è stato meglio.


La spoliazione della femminilità, la rasatura, la perdita delle mestruazioni, sono state un percorso comune a tutte le donne.

Sì, ne abbiamo risentito tutte moltissimo. Io soffrivo parecchio per le mestruazioni e ricordo che uno dei primi pensieri arrivando lì dentro era stato: e quando arriveranno le mestruazioni come farò? Non c'è stato questo problema perché, vuoi per lo spavento, vuoi per l'assoluta mancanza di cibo, vuoi perché nell'orribile zuppa mettevano, come si diceva, del bismuto, a quasi nessuna vennero più le mestruazioni, man mano che il corpo perdeva le sue forme originali e si trasformava in uno scheletro di vecchia. D'un tratto, là dove c'era il seno non c'è più niente o, in certe donne, solo un po' di pelle cascante. Le ossa delle anche ti bucano la pelle, premendo come spunzoni sul tavolaccio dove sei costretta a dormire senza poterti voltare, incuneata nei corpi delle altre. Ti guardi le gambe e ti sembra impossibile che ti possano sorreggere. Hai la testa rasata, non hai uno specchio, non hai nulla. Sei una persona che non ha più nulla. Non possiedi altro che quei pochi stracci che ti metti addosso. Ricordo che avevo una giacca con la fodera mezzo strappata, e quella fodera l'ho usata tutta per andare in gabinetto. Anche queste cose, giorno dopo giorno, vanno tutte a scapito della tua femminilità, del tuo essere una donna che lotta per non abbrutirsi completamente. Quando non hai un fazzoletto, come fai a soffiarti il naso? Erano tutti passaggi che portavano via un pezzo di te.


Come si poteva, in quelle condizioni, tentare di mantenere una sorta di integrità?

Ti racconto di quando mi hanno rasato i capelli. E' una storia che racconto molto raramente. Come si vede nell'unica fotografia che è rimasta di me a tredici anni, qualche mese prima dell'arresto, avevo una massa enorme di capelli neri, ricci, ribelli, proprio come mia figlia oggi. Quando sono stata deportata ad Auschwitz erano già due mesi che non potevo lavarmi la testa, però avevo un pettine e una spazzola e cercavo di tenerli ravviati. Il giorno del nostro arrivo a Birkenau vedo le altre che venivano rasate, ed ero già pronta con la testa giù, rassegnata al fatto che anche i miei capelli sarebbero caduti lì, su quel pavimento. Passa una sorvegliante SS e dice alla prigioniera addetta alla rasatura di non tagliarmi i capelli, perché erano così belli che sarebbe stato un peccato. Mi danno un fazzoletto da legarmi in testa. Di tutto il gruppetto sceso dal treno, in quel gelo di Birkenau, eravamo rimaste trenta ragazze non mandate a morte; tutte le altre rasate, e io con i miei capelli. Non più un pettine, non più una spazzola, non più una doccia per tutto il tempo della quarantena. Avere i capelli era un segno distintivo. Tutte le kapò, tutte le prigioniere più anziane che evidentemente avevano dei meriti, tutte le politiche avevano i capelli; eravamo noi a non averli. Dopo quindici giorni mi scelgono per lavorare nella fabbrica Union, e intanto la testa mi prudeva sempre di più. Erano due o tre giorni che andavo in fabbrica, e mi grattavo mentre ero al tavolo - mi avevano appena insegnato che cosa dovevo fare con certi pezzi di munizioni - quando mi sento camminare qualcosa sulla faccia, proprio sulla guancia. Tocco, prendo in mano, è un pidocchio, quell'immondo insetto che è il pidocchio e che io non avevo mai visto nella mia vita. La prigioniera vicino a me - non era italiana, non so chi fosse - rapata, come ha visto il pidocchio ha chiamato la kapò e questa mi ha fatto subito uscire, prendendomi il numero. Non sapevo che cosa mi sarebbe successo. La mattina dopo mi hanno mandato in una baracca che si chiamava la Sauna, dove mi hanno rapato a zero. La mia testa completamente glabra era tremenda solo da toccare. Sono stata lì tutto il giorno. Non so se posso dire che sia stato il giorno più brutto della mia vita, perché ce ne sono stati tanti, ma certamente uno dei peggiori. Sono rimasta da sola per ore, nuda, aggrappata a una piccola stufa in quella stanza gelida, enorme, con una finestra rotta. Fuori c'era una tormenta di neve. Era febbraio. Non c'era da sedersi, non c'era da mangiare, nessuno che mi dicesse una parola. Ero veramente a un punto di non ritorno psichico quando è entrata un'altra ragazza, anche lei nella mia stessa situazione, appena rapata, in attesa che le disinfestassero i vestiti. Poteva essere cecoslovacca, o polacca. Certamente non ci capivamo, perché nessuna delle due aveva ancora imparato il tedesco. Poteva avere sedici anni. E volevamo così tanto comunicare, che ci facevamo dei segni, ci salutavamo, ma non sapevamo come rivolgerci l'una all'altra. Alla fine abbiamo trovato il latino. Mea familia pulchra est. Mea patria pulchra est. E poi non so cos'altro ci dicessimo: il mio cuore è triste… bello che tu sia qui… Pochissime frasi imbastite a fatica in

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quella specie di esperanto dei colti, che abbiamo continuato a ripetere infinite volte, perché dire la mia casa è lontana, la famiglia è bella, il mio cuore è triste, in quel contesto, nella nostra nudità - lì sì, proprio rane, mentre continuavano a passare i soldati che si sganasciavano dalle risate, che ci prendevano in giro - ci dava una grande gioia.


Ti sei mai data una spiegazione riguardo a questo episodio? Lasciarti i capelli è stato un semplice arbitrio?

La spiegazione al momento non l'ho capita, ma poi dopo, ripensandoci, era semplice: in quello che avveniva non c'era assolutamente mai una logica, anche se all'apparenza tutto era preordinato. Nei giacigli dove dormivamo in cinque o sei, si agitavano gli insetti più schifosi. Erano sui nostri corpi, nelle cuciture dei vestiti. E nel campo passavano dei topi spaventosi, enormi, che si nutrivano di rifiuti, di morti, di tutto. C'era una sporcizia profonda, incredibile, ma noi dovevamo ricoprire questi giacigli a suon di bastonate, con un'unica coperta in ottimo stato, che doveva avere la piega fatta in un certo modo, perfettamente geometrico. Quando ho capito tutto questo, e cioè che sotto la coperta ci poteva essere qualunque schifezza, ma che sopra tutto doveva avere un aspetto perfetto, ho trovato la risposta a un sacco di cose. Entrando nella baracca, subito all'ingresso, c'era la stanzina della capo baracca, con le tendine con i volant. Dentro si intravedeva il divanoletto coperto di cinz. Poi andavi più avanti e c'era una carriola che di notte si riempiva degli escrementi, e più oltre i giacigli a tre piani, luridi, pieni di gente piagata, malata, urlante. Noi, nelle condizioni psicofisiche in cui eravamo, per andare al lavoro dovevamo marciare cantando, e passare davanti all'orchestrina delle donne violiniste sulla porta del Lager, sia che si andasse a morte, sia che si andasse a lavorare. Vedi che è un po' tutto la stessa cosa?


Quali strategie di sopravvivenza hai adottato?

Adesso che sono nonna e che mi rivedo lì come ero allora, mi dico: quante scelte ho fatto da sola, come sono stata triste, come sono stata matura, come sono stata ingenua, come ho sfidato determinati pericoli senza neanche capirli. Nessuna mi ha suggerito come comportarmi, ho capito da sola di dover fare tutto quello che stava in me per non farmi notare, soprattutto quando non ho più avuto i capelli e sono diventata molto più uguale alle altre. Anche se avere i capelli era uno status symbol, non averli mi rendeva ancora più invisibile. D'altra parte non avrei avuto alcuna capacità di mantenere uno status symbol, perché non capivo cosa mi dicevano, ed ero così assolutamente giovane… e poi io sono una mite, non avrei mai potuto prevaricare nessuno. Una nullità sono stata sempre, e una nullità sono rimasta, però ho sempre fatto in modo di non essere nessuno. Non piangere, non ridere, non star male. Ho avuto degli ascessi, la febbre, ma non sono mai andata a dire a nessuno che stavo male, e a tredici anni non è stato facile. Qualche anno fa ho incontrato un politico che era stato anche lui ad Auschwitz e mi ha detto, ti ricordi la Vistola? La Vistola? Io non l'ho mai vista, la Vistola. A parte il fatto che noi facevamo un percorso in cui non si andava vicino al fiume, ma se anche ci fossi stata, io la Vistola non l'avrei neanche guardata, perché mi guardavo sempre i piedi. Avevo un'idea perfetta di come erano fatti i miei zoccoli, ma quello che mi circondava era talmente orribile che io non guardavo. Avevo sempre paura di non ritrovare la mia baracca quando uscivo dalla doccia, che era in un'altra baracca un po' discosta. Andavo dietro a qualcun'altra, perché anche dopo mesi, soprattutto d'inverno, quando c'era la neve, non riconoscevo i posti. Era tutto uguale, baracche uguali, nessuno ti dava una risposta, non si poteva stare in giro. Andavo a testa bassa dietro a un'altra. Era troppo per me, capisci? Volevo mantenere il mio cervello funzionante, pensavo sempre ad altre cose, lungo la strada magari ripercorrevo tutta la trama di un film che avevo visto. Mi toglievo da lì, non so come dirti.


Una volta hai raccontato che immaginavi di essere una stella, e che questo ti ha salvato la vita.

Sì, la stellina è stata importante. Infatti io ho sempre delle stelline, come questo ciondolo che porto al collo, perché me le regalano. Quando c'era sereno la ritrovavo nel cielo, e pensavo di essere quella stellina, di non essere lì, di essere libera. Non avevo certo dei manuali di sopravvivenza, né mai avrei pensato che ne avrei avuto bisogno, però i metodi per sopravvivere mentalmente li ho sperimentati tutti. Quando, molti anni dopo, ho letto Bettelheim, in certe cose non mi sono assolutamente riconosciuta, soprattutto nella violenza che sostiene si sviluppi in chi è passato attraverso queste esperienze. Io sono assolutamente il contrario di una persona violenta. Sono una persona di pace, non ho mai cercato vendette, non sarei mai stata capace di fare nulla di violento neanche contro il mio carnefice. Non ho sviluppato questi meccanismi di autodifesa psicologica, però tanti altri sì. Proibirmi i ricordi, soprattutto. Dopo sì, dopo i ricordi mi hanno aggredito per tutta la vita, ma appena arrivata lì dentro avevo già capito che non potevo permettermeli. La nostalgia era un'arma terribile nei nostri confronti, perché come si fa a ricordare e a sopravvivere senza impazzire?


Vi scambiavate delle ricette.

Spesso i ragazzi delle scuole mi domandano di che cosa parlassimo nel Lager. Credono che tra noi prigioniere facessimo discorsi molto elevati, che analizzassimo la nostra situazione, che cercassimo di capire i meccanismi dell'odio contro gli ebrei, e io mi sono sempre resa conto di deluderli nella mia risposta, ma le prigioniere non facevano discorsi aulici. Ci sarà certamente stata qualcuna che li avrà fatti, ma non quelle disgraziate con cui stavo io. Quello che racconto sempre è che, man mano che i corpi diventavano scheletri, man mano che i crampi si facevano più forti, immaginavamo di mangiare, e facevamo una specie di gara in cui ognuna inventava il pranzo più buono, ed era tutto un immaginarsi, a seconda del luogo di provenienza, montagne di spaghetti, di crauti, di palacinche. Soprattutto i dolci. Nella nostra fantasia creavamo torte ricchissime, piramidi di bignè con la crema, la panna, il cioccolato, ci aggiungevamo qualunque cosa. Oppure dicevamo: se riusciremo a tornare, io ti invito. Questa era una cosa ricorrente: io ti invito a casa mia e ti faccio questo e poi quello e poi quell'altro… Adesso che siamo vecchie, io e Luciana Sacerdote, che sta a Genova e che era con me ad Auschwitz, qualche volta ci incontriamo e andiamo a mangiare al ristorante insieme, e ogni volta ci diciamo: io ti invito, e mangiamo questo e quell'altro. E poi una ha mal di stomaco, l'altra sta attenta a non ingrassare. Siamo vecchie e la fame non è quella di allora, però ce lo ricordiamo sempre.


Quindi, pur nella solitudine di cui parlavi prima, ci sono state delle relazioni significative.

Guarda, lei era con sua sorella, erano un duo autosufficiente. La sorella aveva dieci anni più di me, poverina, è morta subito dopo la liberazione. Certamente, essendo tre ragazze abbastanza giovani che provenivano da famiglie agnostiche, borghesi, tutte e tre con lo stesso tipo di educazione, ci siamo trovate più che con altre, e poi abbiamo lavorato nella stessa fabbrica. Altre italiane che sono arrivate insieme a noi sono state mandate altrove. C'era anche Graziella Cohen, una ragazza di Roma, analfabeta, che veniva da una famiglia di ambulanti. E' rimasto un discreto legame ma, devo dire la verità, io ero molto più giovane di loro eppure ero estremamente più matura. Loro erano più vaghe, in un certo senso anche più incoscienti, e poi io non mi volevo attaccare. Volevo bene anche a Laura, poverina, che si è ammalata molto presto di cuore, era uno scheletro gonfio, le caviglie gonfie, il collo gonfio… Ma quello era uno dei miei meccanismi di sopravvivenza: i distacchi non li potevo sopportare, e allora temevo i legami stretti. Sicuramente se avessi incontrato una Goti Bauer sarebbe stato diverso… Goti era una spalla su cui piangere. Goti è una persona assolutamente eccezionale in qualunque contesto. Che la si incontri in cima al Monte Bianco o all'inferno - com'era quello - lei è un dono. Le persone assolutamente eccezionali, anche in quella situazione, ti potevano dare, ma gli altri, noi comuni mortali, noi che non abbiamo la ricchezza spirituale che ha una Goti, o che hanno avuto altre, come si capisce da diari come quelli di Etty Hillesum o di Anna Frank… Là dove sei un essere qualunque con altri esseri qualunque a cui capita una cosa di questo genere, pretendere di trovare la grande umanità, la generosità, la disponibilità per l'altro sarebbe chiedere molto. Io non l'ho chiesta, ma neanche l'ho data. Eravamo delle isole, capisci? Proprio delle isole… Sai, quelle isole che ci sono in mezzo agli oceani, attorno alle quali, per paura che le onde spazzino via il faro, si costruiscono delle muraglie, dei contrafforti. Così eravamo noi. Io me l'immagino così la mia mente, la mia anima, com'era allora. Per non farmela portar via, forse.


Parliamo invece delle donne dall'altra parte.

Non so perché, avevo sempre visto l'uomo come carnefice. Mio padre era stato arrestato da uomini. Quando ero stata in prigione, i secondini erano uomini. Solo nel carcere di Varese e di Como era stata una donna carceriera a buttarmi nella cella, ma per il resto nella mia testa erano sempre gli uomini quelli che esercitavano violenza. Invece nel Lager femminile di Birkenau, dove erano rinchiuse sessantamila donne, c'erano tutte le gerarchie femminili. Per me è stato terribile vedere che le efferatezze più straordinarie venivano compiute da donne su altre donne. Erano forse peggio degli uomini, per quello che ho visto. Non per nulla alcune SS donne sono state condannate a morte dopo la guerra. Qualcuna di loro me la ricordavo perché l'avevo vista ad Auschwitz. Eravamo le pariah del campo, noi triangoli gialli. Le altre categorie di prigioniere - delinquenti comuni, prostitute, non parliamo delle politiche - avevano qualunque diritto su di noi, potevano farci qualsiasi cosa. Le kapò erano prese tra le assassine delle carceri, tra quelle che avevano fatto le cose più atroci, in modo che potessero tranquillamente bastonare a morte una prigioniera che non obbedisse ciecamente agli ordini. Al di sopra delle kapò c'erano le SS donne, che avevano stivaloni con un puntale di ferro, ufficialmente per non consumare la suola, ma in realtà per sferrare calci più violenti. Quando tornavamo dal lavoro, vedevamo ai lati della strada principale del campo donne prigioniere scheletrite che dovevano tenere alto un masso, per ore. Questa era tra le punizioni più consuete. E se il masso cadeva, allora raddoppiava il tempo. Venivamo trattate con una violenza infinita. Ho preso tanti schiaffi e pugni senza sapere neanche perché. Passavi e ti tiravano un ceffone da voltarti la faccia. E poi, d'un tratto, queste sorveglianti tedesche si trasformavano davanti ai maschi SS in femmine che sbattevano gli occhi, sorridenti. A quei tempi l'approccio col maschio era assolutamente più sottile, ma inequivocabile, e questa doppia faccia era impressionante. Erano degli studi che non avevo la maturità, la cultura, e neanche il tempo di fare. Non sto parlando del tempo scandito dalle ore, ovviamente. Non avevo il tempo perché dovevo sopravvivere. Eppure erano dei personaggi da studiare a fondo. Nella donna devo dire che questo comportamento mi faceva molto effetto, così come mi ha fatto molto effetto sapere che ci sono state - io non le ho conosciute personalmente, ma Goti sì - anche delle kapò ebree. E Goti, che ha questa nobiltà d'animo eccezionale di cui parlavo prima, diceva, sai, anche condannare una persona è molto difficile, perché quando una invece di stare lì dentro sei mesi, un anno, come siamo state noi, ce ne sta cinque, come si deve trasformare per sopravvivere giorno dopo giorno? Per me è difficile giudicare, perché allora, in un certo senso, anche la prigioniera che rubava i vestiti all'altra, o le scarpe, avendo necessità di scambiarli con una fetta di pane, non era colpevole. E invece era estremamente colpevole. Una che in quella situazione ti ruba una cosa senza la quale non puoi sopravvivere è estremamente colpevole. Andare senza scarpe nella neve poteva significare morire di polmonite. Non lo so, non lo posso neanche immaginare, perché a me non hanno mai rubato nulla.


Ci sono persone che ti tornano in mente?

Quando ero a San Vittore entravano continuamente nuove persone prese con le retate, parlo sempre del quinto raggio in cui c'erano gli ebrei. Un giorno arriva un certo Peppino Levi di Milano, un amico di mio papà. Era un bellissimo uomo, trentottenne. Io non l'avevo mai visto, o perlomeno non me lo ricordavo. Forse lo avevano preso in montagna, perché era abbronzato, il ritratto della salute, muscoloso, sportivo, aitante. Avevo tredici anni, l'età in cui si cominciano a guardare i ragazzi con un occhio diverso. Questo era un uomo, ma sentivo che mi piaceva, anche se in un modo assolutamente infantile. Entra e dice subito a mio papà, Alberto, mica ci faremo portare via da qui come pecore, dobbiamo assolutamente fuggire. Ogni giorno prendeva appunti sugli orari delle sentinelle, calcolava l'altezza del muro, rimuginava su come rompere il vetro e saltare giù dal muro, e ogni giorno veniva con un foglio a spiegare i suoi piani a mio padre, e mio padre rispondeva sempre, ancora ancora fossi solo, lo farei, ma con la bambina… Credo che ci avrebbero sparato sul muro, intendiamoci, ma Peppino Levi rimase tanto male. Arriva il giorno della deportazione e ci portano via. Ci caricano su vagoni diversi. Non l'ho più visto, neanche all'arrivo. Passa un anno. Viene gennaio, l'evacuazione dal Lager, la Marcia della Morte che abbiamo fatto in 56mila. Pochissimi sono arrivati a destinazione e io, non so come, sono stata tra questi. In uno spostamento tra un Lager e un'altro, forse eravamo partite da Ravensbrück, ci fanno entrare in una struttura di passaggio. Eravamo in uno stato di sporcizia inenarrabile e, sempre per quelle cose di cui era incomprensibile il motivo, decidono che tutte dovevamo passare alla disinfestazione prima di entrare nell'altro Lager. Ci fanno entrare in una costruzione molto grande in cui c'erano degli uomini prigionieri, vestiti a righe, con quella pompa del fleet, quella per dare il disinfettante sulle viti. Dovevano disinfettarci la testa, le ascelle e il pube, dove nel frattempo erano cresciuti un po' di peli. Chi mi ha fatto questo lavoro? Io nuda, scheletro, e lui ridotto da non dire, tanto che poi è morto? Peppino Levi. Peppino Levi era il prigioniero adibito alla fila dove mi trovavo io. Era il febbraio del '45, era passato più di un anno. Ci siamo riconosciuti. Mi vengono ancora i brividi a pensarci. Mi aveva visto con i miei ricci, vestita ancora normale, e adesso ero uno scheletro con un fagotto penzolante dal braccio. E lui, da quell'uomo muscoloso che era, uno scheletro, anche lui. Obbligato a farmi quel lavoro. Quei tre spruzzi di disinfettante. Ci siamo guardati, solo un attimo. Liliana. Peppino. Sarebbe stato meglio se avessimo saltato quel muro. Tutto qui. Sono passata oltre. Non l'ho più visto. Qualcuno mi ha detto che è morto a Mauthausen.


Ti senti di raccontarmi il dopo, il ritorno?

Il ritorno per me è stata una pagina molto pesante. Sono passati quattro mesi prima che tornassi a Milano, dopo la liberazione, perché gli americani avevano organizzato il rimpatrio di tutti, anche di quei seicentomila soldati italiani di cui non si parla mai, quei seicentomila che non hanno aderito alla Repubblica Sociale Italiana e che avrebbero potuto uscire dai campi e tornare in Italia, se avessero scelto di combattere a fianco dei nazi-fascisti. Sono storie eroiche di cui si è parlato poco o niente, ma io li ho conosciuti, questi ragazzi. Sono stata liberata il primo maggio ma sono stata rimpatriata in agosto. In quei quattro mesi io, che ero trentadue chili, pesata dagli inglesi, sono ingrassata di quaranta chili, dieci chili al mese. Sono tornata che ero grossa, gonfia, mi sono tornate le mestruazioni nel mese di luglio. I miei parenti, che erano i nonni materni che si erano salvati a Roma, e mio zio, il fratello di mio papà, che si era salvato in Valsesia in una zona di partigiani, quando mi hanno visto, cosa ti posso dire? si aspettavano lo scheletro e hanno trovato questa ragazzona selvaggia, brutta, malmessa, goffa. Non hanno celato sufficientemente quanto gli dispiacessi, perché era così, io lo capivo. Mentre alla ragazza scheletro avrebbero fatto un certo tipo di accoglienza, di questo personaggio quasi irriconoscibile, così diverso dalla ragazzina bene che era uscita da casa, non sapevano che farsene. Sono stata ingombrante da subito. Baci, abbracci, io stavo lì come un pupazzo. E' stato tremendo. Ero andata alla mia casa di un tempo, abitavo in corso Magenta. Finestre chiuse. Gli altri coinquilini sono venuti giù, chi mi ha fatto lavare nella vasca, chi mi ha dato i vestiti, e intanto il portinaio ha telefonato a mio zio che era già passato varie volte per sentire se c'erano notizie di suo fratello, dei suoi genitori, e di me, naturalmente. Dopo un po' che ero lì sono arrivati questi poveretti, commossi, stupiti di vedermi. Ero un personaggio selvaggio, abituata da quattro mesi a stare con i soldati, dicevo parolacce. Tutto da rifare, e tutto da rifare in tutti i sensi, perché non avevo più la mia famiglia, non avevo più la mia casa. Ero profondamente cambiata, certo, e me l'ero cavata da sola. Pensa che al ritorno, quando la tradotta militare ci ha riportati indietro e ha passato il confine al Brennero per poi fermarsi a Bolzano, ho visto un foglio affisso in una bacheca dove c'era scritto che per sei mesi avrebbero dato vitto, alloggio e un minimo stipendio a chi non avesse ritrovato casa e lavoro. Sono andata immediatamente a mettere il mio nome, cognome e l'indirizzo di certi amici cattolici, che quindi speravo esistessero ancora, perché, mi sono detta, se io non trovo nessuno cosa faccio? torno qua per sei mesi e qualche cosa succederà. Non avevo ancora quindici anni. Li ho compiuti dopo.


Secondo te il reinserimento è stato più difficile, per le donne?

Ho incontrato all'Aned le famose operaie della Franco Tosi, e ricordo che una di loro mi raccontava che, tornata a casa, i genitori l'avevano apostrofata: cosa hai fatto, te? Cosa hai fatto per cavartela? Si dava per scontato che la donna fosse andata a letto con tutti, per cavarsela, mentre a nessuno veniva in mente di chiedere a un uomo se si fosse prostituito, per cavarsela. L'altro sospetto nei confronti delle donne che tornavano dal Lager era: sei diventata una kapò? Io ero di un'ingenuità tale, nonostante la vita con i soldati, che è stata una mia cugina, al ritorno, a raccontarmi come funzionava la vita sessuale tra uomo e donna. Poi, quando sono entrata sotto la tutela dei miei parenti, sono iniziati anni tremendi: non uscire se non sei accompagnata, vai a lavarti le mani, saluta educatamente, adesso non pensare più alle brutte cose, è tutto passato. Io ero un animale ferito e veramente mi sono sentita di una solitudine… non posso dire maggiore che nel Lager, perché, certo, avevo un bel letto, potevo fare un bagno ogni volta che lo desideravo, potevo mangiare quanto volevo. Erano cose che valutavo molto, che non davo per scontate, perché avevo provato a stare completamente senza. Ho cominciato ad andare dal parrucchiere, non avevo più pidocchi. I vantaggi erano tantissimi, ma la solitudine era maggiore, perché non c'era la condivisione con le altre prigioniere. Anche se non andavo d'accordo con loro, se parlavano una lingua che non capivo, se le condizioni di vita erano così orripilanti da farci essere guardinghe l'una nei confronti dell'altra, però eravamo tutte prigioniere, eravamo tutte oppresse dallo stesso dolore. Qui io non ero più niente. Le mie coetanee, che cosa avevano a che fare con me, interessate com'erano ai vestiti, ai ragazzi? Io che sono una persona molto socievole, che ho sempre avuto tante amiche, e ne ho tuttora, allora ero… cerco una parola più forte di solitudine. Era proprio un'unicità della Shoah che si rifletteva in me. Non avevo un referente di nessun tipo, non avevo nessuno che mi amasse così tanto da dire non ti capisco ma ti accetto come sei, ti amo come sei, sono comunque felice che tu sia qui, fai quello che vuoi ma sei qui. Anche i miei nonni materni, mia nonna soprattutto, che ho molto amato, soffriva per come ero, ribelle, maleducata. Diseducata, più che maleducata. Non accettavo i discorsi, mi dava fastidio tutto. Mi tenevo male. Il fatto di essere lavata e coperta mi bastava. Ricordo che una volta, dopo pochi giorni, sono uscita con un mio zio, un fratello di mia mamma che si era salvato in Svizzera e che mi accompagnava forse al cinema… Mi ha guardato e mi ha detto come sei conciata? Sei brutta. Stai malissimo. Io volevo essere accettata, bella o brutta che fossi. Il desiderio di essere decente è venuto dopo. Al momento ero viva, ed era già una cosa così straordinaria. Che cosa mi importava di essere mal vestita? Avrei voluto essere morta, veramente. Avevo tanto lottato per essere viva, per tornare, per non essere uccisa, per sperare, sperare, sperare. Tutte le mie difese erano cadute, e niente e nessuno era come me lo immaginavo. Non avevo più la mia casa, non avevo più i miei oggetti, non avevo più quelle persone di cui non posso neanche parlare da quanto la sofferenza è acuta, anche dopo tanti anni. Tutto un mondo che mi doveva accettare. Non avevo neanche il conforto di appartenere a una famiglia che mi avesse trasmesso dei valori religiosi. Ero un essere disgraziato che voleva morire, che riteneva una gran disgrazia non essere morta là. Sono stati degli anni molto duri in cui non so che cosa avrei potuto diventare, forse una disadattata mentale. Poi invece, piano piano, prima di tutto lo studio, e poi la fortuna immensa di incontrare mio marito, che ha dieci anni più di me e che era uno di quei seicentomila soldati che hanno detto no. Un cattolico che era stato preso dopo l'8 settembre in Grecia, portato in Germania dove ha fatto sette campi - che non sono stati di sterminio, sono stati di concentramento - ma sapeva bene che cosa voleva dire, e che è uno di quelli che sono rimasti volontariamente nel campo per non aver aderito alla Repubblica. Ci siamo innamorati, e quando ho avuto vent'anni ci siamo sposati. Ho avuto la fortuna di diventare mamma, non una ma tre volte. Sono diventata all'apparenza una donna normale, e in fondo anche abbastanza nella sostanza, perché io mi sento normale. Sì, ci sono delle cose che anche adesso mi fanno molta impressione, proprio a livello visivo, il fuoco, certi odori, la ciminiera, il treno merci. Ci sono tante cose di questo tipo, però nel complesso faccio una vita normale e la continuo a fare. Adesso poi, da dieci, undici anni sono diventata una donna pubblica, tra virgolette, perché mi sono messa a fare la testimone, ma prima ero una donna normale che lavora, che ha una sua casa, una sua famiglia. Una donna di pace.


Com'è il rapporto con tua figlia?

E' splendido, perché mia figlia è splendida. Tutti e tre i miei figli hanno molto risentito di avere una madre con questo bagaglio di passato, ma lei che è l'ultima e che, essendo femmina, sta molto più con me, a un certo punto ha molto sofferto della consapevolezza di ciò che ho passato. E' stata sette anni in analisi, ha dovuto fare un duro lavoro per arginare la sua enorme sensibilità. D'altra parte molti psicanalisti sanno che cosa significhi aiutare i sopravvissuti, i loro figli e anche quelli di terza generazione; sanno benissimo che cosa significhi essere figli dell'Olocausto. Significa essere segnati da una ferita non rimarginabile, anche senza aver vissuto in prima persona lo sterminio. Ci sono tanti modi di rispondere a queste storie familiari: c'è il rifiuto, c'è l'identificazione, c'è il volere a tutti i costi compensare il tuo amato di quello che non ha avuto. Mia figlia mi vorrebbe proteggere anche da un moscerino, è sempre pronta: ci sono io, ci sono io, ci sono io, mi dice sempre.


Hai raccontato ai tuoi figli ciò che ti è accaduto, oppure c'è una trasmissione che passa per altre vie che non sono la parola?

Credevo di non aver mai parlato di questo argomento con loro, però quello che ho vissuto è venuto fuori mille volte, in mille modi, dal mio numero sul braccio al fatto che a tavola non si doveva mai dire questo non mi piace. Ho paura di tante cose, del buio, di stare da sola. Evidentemente le ferite non si trasmettono solo con le parole. Mia figlia è tra i fondatori dell'associazione Figli della Shoah, che ha proprio questo scopo, trasmettere la memoria della Shoah, ma anche dare sostegno alle persone segnate da uno stesso dolore: essere figli di noi sopravvissuti. Tutti e tre i miei figli si sono documentati, hanno approfondito, e sono dei grandi difensori, dei grandi paladini della loro madre, ma con lei c'è questa straordinaria unione. Non che io ami meno i miei figli maschi, ma è che con mia figlia condivido molte più cose. Sì, devo dire che in linea femminile c'è una grande identificazione, una solidarietà, una vicinanza che io non ho conosciuto, avendo perso così presto la mamma. Avevo una nonna, la mamma di mia mamma, che ho molto amato, ma sono sempre stata io a proteggerla, non è lei che ha protetto me. Non è stata una spalla su cui piangere. Questo mi è molto mancato nella vita. Però l'amore ha sostituito la spalla, perché con mio marito volevo ridere, non volevo piangere.

Daniela Padoan

(da “Donne e conoscenza storica”)





4.MUSICA E IMMAGINI




Exodus




5. INDIRIZZI INTERNET




Storia dell'Olocausto

binario 21




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