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Notizie su Israele 340 - 1 aprile 2006

1. Le elezioni in Israele
2. Terrorista a bordo
3. La guerra continua
4. Ritiro da Gaza: sondaggio in Cisgiordania
5. Lo spauracchio demografico
6. L'inaffidabile Europa
7. Una nuova rivista di notizie da Israele
8. Una teoria menzognera sorta negli ultimi anni
9. Musica e immagini
10. Indirizzi internet
Isaia 12:1-2. In quel giorno dirai: «Io ti lodo, Signore! Infatti, dopo esserti adirato con me, la tua ira si è calmata, e tu mi hai consolato. Ecco, Dio è la mia salvezza; io avrò fiducia, e non avrò paura di nulla; poiché il Signore, il Signore è la mia forza e il mio cantico; egli è stato la mia salvezza».
1. LE ELEZIONI IN ISRAELE




Dan Segre: "Il voto di chi non ha più paura"

di Maurizio Debanne

Olmert ha vinto, ma non ha convinto. I 28 seggi conquistati da Kadima sono un buon risultato ma il nuovo partito centrista puntava decisamente più in alto. Dei futuri equilibri dello Stato ebraico ne abbiamo discusso con Vittorio Dan Segre, emigrato in Palestina nel 1939, presidente onorario dell'Istituto di studi mediterranei ed autore di numerosi saggi tra cui il recentissimo "Le metamorfosi di Israele" per Utet.

M.D. La percentuale dei votanti nelle ultime elezioni israeliane è stata del 63,2%, la più bassa di sempre. Colpa forse del risultato scontato? Oppure ha pesato la mancanza di Sharon, a conferma che le vicende in Israele e in Medio Oriente sembrano dipendere solo dalla sorte dei singoli individui, che avrebbe contribuito al clima di generale apatia. Lei come se lo spiega questo fenomeno?

D.S. La mia impressione è che la bassa partecipazione sia il corollario delle assenze di grandi programmi. Il paese si è rinchiuso su sé stesso nel senso che, dopo anni in cui si è solo parlato di problemi di politica estera, antisemitismo, pericoli militari, il Paese, che ormai conta quasi 6,5 milioni di abitanti, riflette sui problemi interni. Essenzialmente sono: l'economia, la riduzione delle spese militari, e il fatto che nessuno dei partiti è stato capace di elaborare un programma chiaro e credibile. La sorpresa generale è stata che il partito dei pensionati, a cui nessuno dava credito, ha ottenuto un ottimo risultato, ben 7 parlamentari. Questo dato significa che il Paese ha votato per interessi di settore rendendo evidente che è quella sociale preoccupazione principale dell'elettorato.

M.D. Gli israeliani, dunque, cominciano a pensare più alla pensione che al negoziato con i palestinesi. La questione sociale ha scavalcato quella della sicurezza. Oppure il voto ai pensionati è stato di protesta?

D.S. Guardi la sicurezza in Israele nessuno la tocca. Il Paese è fortissimo. In realtà queste elezioni dicono basta con i coloni che hanno assorbito miliardi dalla casse dello stato senza portare nessuna soluzione. La gente ha detto basta con spese altissime per l'esercito che si prepara ad una guerra che non ci sarà perché la nostra guerra è contro il terrorismo. Ma, soprattutto, ha bocciato i partiti con false ideologie. Il messaggio che gli elettori hanno lanciato ai propri rappresentanti è chiaro: occupiamoci un po' dei nostri affari. Ma vorrei aggiungere un'altra riflessione. l parlamentari del partito dei pensionati vanno direttamente ad aggiungersi con le loro richieste e con il loro peso politico al partito laburista. Di conseguenza il partito laburista diretto da Peretz, che ha ottenuto 20 seggi, in definitiva può contarne su 27. Si colloca, dunque, appena al di sotto di Kadima.

M.D. Mi pare di capire che, secondo lei, il risultato di Kadima è stato piuttosto deludente viste le attese?

D.S. Non c'è dubbio. Ma va ricordato che si tratta di un partito nuovo che partiva da zero. Quello che succederà mi pare piuttosto chiaro. Mentre Kadima sperava di ottenere un consenso che lo trasformasse in un polo di attrazione degli altri partiti ora è Kadima stesso che corre dietro agli altri partiti. La formazione di governo è comunque già visibile: Kadima, Labour, Pensionati e Shas, i religiosi orientali vicini dal punto di vista etnico al marocchino Peretz. Ma bisogna vedere come si sistemeranno all'interno. Come divideranno la torta del potere.

M.D. Dallo scenario politico lo Shinui è completamente scomparso passando da 15 seggi a zero. Un partito laico non c'è più mentre Israel Beitenu canta vittoria.

D.S. Quello dello Shinui è un caso da studiare con molta attenzione. A mio parere la causa del loro pessimo risultato va rintracciata in due ragioni. La prima è la corruzione e l'impotenza di questo partito nonostante tutte le loro buone volontà. E il fatto che lo Shinui ha scaricato Sharon nel momento più difficile e di conseguenza, come il Likud di Netanyahu, paga il prezzo di questo abbandono di una corrente vincente. Su Israel Beitenu non ho niente in contario a dire che hanno ottenuto un buon risultato. Resta da vedere come potranno esercitarlo perché per il momento Beitenu va all'opposizione. E niente è più snervante per il potere che non detenerlo.

M.D. Ad ogni modo tutto lascia pensare che Israele sia davanti alla fine di un'era. E' d'accordo con chi sostiene che queste elezioni segnano la fine di un'era politica caratterizzata perlopiù da atteggiamenti ideologici che da quelli pragmatici.

D.S. Concordo. L'elemento ideologico è scaduto. Ma per fare la pace bisogna essere in due. Ora la disponibilità a fare la pace, che ieri è stata subito annunciata da parte di Olmert, richiede che ci sia qualcuno con cui concludere un accordo di pace definitivo. Di conseguenza, paradossalmente, bisognerà vedere quale posizione assumeranno i palestinesi su questo piano. Perché fare la pace con chi ieri ha approvato in Parlamento un programma che chiede la distruzione di Israele mi pare francamente improbabile.

M.D. Il buon risultato del Labour può spostare l'ago della bilancia nel futuro governo circa la natura del ritiro annunciato da Olmert da parte della Cisgiordania. Avrà Peretz il peso politico necessario per far diventare coordinato il ritiro con i palestinesi oppure su questo punto il discorso è già chiuso, il ritiro sarà unilaterale.

D.S. Il peso lo hanno. Sicuramente alla fine si metteranno d'accordo. Sarà molto importante come saranno divisi i ministeri chiave, da quello delle Finanze a quello della Difesa. Entrambi i partiti dispongono di personaggi di grande esperienza su questi campi. Se viene affidata la Difesa a Yalon del Labour, che è stato un grandissimo soldato e ammiraglio e direttore dei servizi di sicurezza, il quale nel suo programma chiede la ritirata totale di Israele dalle zone occupate, ciò significherà che unilateralmente o non questo ritiro sarà molto più profondo. Se invece la Difesa resterà nelle mani di Kadima ritengo che il ritiro, unilaterale o negoziato, sarà molto più lento e prudente.

M.D. Per rendere negoziato questo piano bisognerà pure collaborare con il presidente palestinese. Non crede che su Abu Mazen Israele doveva parlare male e aiutarlo politicamente, piuttosto che parlarne bene e non aiutarlo in concreto?

D.S. Bisogna sapere cosa si intende per aiutare un movimento e un Paese nemico. E' molto difficile, infatti, aiutare un nemico. Il punto è un altro. Mi spiego: ora bisognerà vedere quale politica deciderà Hamas di intraprendere. Se continuerà nella lotta armata contro Israele, credo che con tutta la buona volontà di pace, non ci sarà possibilità di dialogo. Se invece accetterà una conversione, abbandonando il principio della distruzione dello stato, accettando i principi della road map e gli accordi firmati dall'Anp, allora il discorso è differente. Ma il cambiamento deve venire da Hamas e non da Israele. Non vedo cosa possa fare Israele se da Hamas non viene un'apertura.

(Paceinmedioriente.it, 30 marzo 2006)

COMMENTO - "L'elemento ideologico è scaduto", dice l'intervistato, ma se questo è vero, è vero soltanto per Israele, non per i suoi nemici. Anche durante il nazismo gli ebrei cercarono di risolvere pragmaticamente i loro problemi e non seppero o non vollero riconoscere la follia ideologica del loro mortale nemico. "Il cambiamento deve venire da Hamas e non da Israele", dice sempre l'intervistato, ma è realistico aspettarselo?





2. TERRORISTA A BORDO




Gli ultimi minuti della famiglia di coloni uccisi a Kedumim

TEL AVIV - All'indomani del nuovo attentato suicida palestinese, gli abitanti di Kedumim (una colonia vicina a Nablus, Cisgiordania settentrionale) affermano che negli ultimi minuti di vita una delle vittime si e' comportata in maniera eroica e, perdendo la propria, ha salvato numerose vite.
    ''Rafi ha-Levy (60 anni) aveva capito di avere preso a bordo, per errore, un terrorista palestinese. Ha fatto di tutto per segnalare a chi si trovava nelle vicinanze di allontanarsi, perche' una esplosione era imminente'', ha detto alla radio dei coloni Canale 7 Pnina Kessler, una abitante della colonia.
    Secondo la prima ricostruzione il miliziano delle Brigate dei martiri di al-Aqsa (al Fatah) Ahmed Mahmud Masharqa, 24 anni, aveva scelto ieri di fare autostop vestito da ebreo ortodosso nella speranza di riuscire a prendere un passaggio su un'automobile di coloni. Se intendesse esplodere all'interno o se il suo corpetto con 10 chilogrammi di esplosivo sia stato attivato anzitempo non e' ancora chiaro.
    L'uomo, per qualche ragione, aveva peraltro destato sospetto. Il centralino della zona di Kedumim aveva ricevuto il messaggio di un automobilista israeliano in transito secondo cui era necessario che i guardiani della colonia si recassero subito a verificare la sua identita'. Ma mentre la unita' di emergenza si organizzava, il kamikaze e' riuscito a salire sulla automobile di una coppia di anziani, Rafi e Helena ha-Levy. Con loro viaggiavano anche due giovani: Shaked Leskaar, 16 anni, di Kedumim, e Reut Feldman, 20anni, di Herzlya. Per motivi religiosi, Reut aveva preferito non arruolarsi nell'esercito ed era stata inquadrata in un 'servizio civile' della durata di due anni.
    ''Per una ragione che non sappiamo - ha detto ancora Pnina Kessler - Rafi ha presto compreso di avere un kamikaze a bordo. Allora ha cominciato ad attivare i lampeggiatori, prima a destra, poi a sinistra, e cosi' via''. ''In seguito, con sorpresa di chi lo seguiva, si e' messo a zigzagare sull' asfalto. Quindi, essendo ormai vicino all' ingresso della colonia di Kedumim, deve aver temuto per la vita degli abitanti. All'ingresso della colonia si e' bloccato e la' e' avvenuta la deflagrazione'' ha raccontato la donna.
    L'automobile e' bruciata a lungo: per i passeggeri non poteva esserci scampo.
    L'opera di identificazione delle salme e' proseguita per tutta la nottata. Oggi si sono svolti i funerali dei giovani Reut e Shaked, mentre i coniugi ha-Levy saranno sepolti domenica. Nell'insediamento di Kedumim c'e' un misto di cordoglio e di collera. La coppia ha-Levy era molto conosciuta, in quanto erano stati fra i fondatori della colonia. La collera va in buona parte nella direzione del leader di Kadima Ehud Olmert che nelle settimane passate ha avanzato un progetto di ritiro unilaterale in Cisgiordania. La colonia di Kedumim risulta essere fra quelle (diverse decine) che dovranno essere abbandonate.
    ''Con il suo atteggiamento disfattista - ha detto il sindaco di Kedumim, Daniela Weiss (una dirigente del movimento dei coloni) - Olmert altro non fa che incoraggiare i terroristi palestinesi''.

(Ansa, 31 marzo 2006)





3. LA GUERRA CONTINUA




Israele sfugge alla vittoria

di Daniel Pipes

Gli israeliani si recano alle urne, ma nessuno dei maggiori partiti politici offre l'opzione di vincere la guerra contro i palestinesi. È una lacuna sorprendente e pericolosa.

Passiamo innanzitutto in rassegna qualche antecedente. I precedenti storici mostrano che le guerre vengono vinte quando una delle parti si sente costretta a rinunciare al raggiungimento dei propri obiettivi. Ciò è assolutamente logico, poiché fino a quando entrambe le parti sperano di soddisfare le loro ambizioni belliche il conflitto prosegue oppure può in fieri riprendere. Ad esempio, nonostante la sconfitta della Prima guerra mondiale, i tedeschi non rinunciarono all'obiettivo di dominare l'Europa e di lì a poco avrebbero rivolto l'attenzione a Hitler per riprovarci ancora. La guerra coreana è finita oltre mezzo secolo fa, ma poiché né la Corea del Sud né quella del Nord hanno rinunciato alle loro aspirazioni la situazione potrebbe infiammarsi in qualsiasi momento. Allo stesso modo, nelle innumerevoli fasi negoziali del conflitto arabo-israeliano – le guerre del 1948-49, 1956, 1967, 1973 e 1982 – entrambe le parti non persero di vista i loro obiettivi.

Questi obiettivi sono semplici, immutabili e binari. Gli arabi combattono per eliminare Israele, questo ultimo combatte per riuscire ad essere riconosciuto dai vicini. Il primo obiettivo è offensivo, il secondo è difensivo. Il primo è barbaro, il secondo è civile. Per quasi sessant'anni, i negazionisti arabi hanno cercato di eliminare Israele attraverso una serie di strategie come scalzare la sua legittimità attraverso la propaganda, ledere la sua economia tramite il boicottaggio commerciale, demoralizzarlo con atti di terrorismo e minacciare la sua popolazione con le armi di distruzione di massa.

Malgrado lo sforzo arabo sia stato paziente, febbrile e risoluto, esso non è riuscito nel suo intento. Gli israeliani hanno costruito un paese moderno, ricco e forte, ma esso è ancora in gran parte disconosciuto dagli arabi. Questa discrepanza ha ingenerato due sviluppi politici: un sentimento di fiducia tra gli israeliani politicamente moderati e un senso di colpa e di autocritica tra gli elementi della sinistra. Sono rimasti in pochissimi gli israeliani che si preoccupano dell'annosa questione del riuscire a far sì che gli arabi accettino l'esistenza permanente dello Stato ebraico. Lo si può definire come l'invisibile obiettivo strategico di Israele.

Piuttosto che aspirare alla vittoria, gli israeliani hanno sviluppato una lunga lista di approcci che permettono di fronteggiare il conflitto. Essi includono:
    • L'unilateralismo (costruire un muro, ritiri parziali): l'attuale linea politica adottata da Ariel Sharon, Ehud Olmert e dal partito Kadima.
    • Locare per 99 anni la terra delle città israeliane in Cisgiordania: partito laburista di Amir Peretz.
    • Sviluppo economico palestinese: Shimon Peres.
    • Compromesso territoriale: la premessa della diplomazia di Oslo, avviata da Yitzhak Rabin.
    • Finanziamento esterno per i palestinesi (sul modello del Piano Marshall): Henry Hyde, membro del Congresso statunitense.
    • Ritiro fino ai confini del 1967: estrema sinistra israeliana.
    • Spingere i palestinesi a sviluppare un buon governo: Natan Sharansky (e il presidente Bush).
    • Insistere sul fatto che la Giordania è la Palestina: destra israeliana.
     • Trasferire i palestinesi fuori dalla Cisgiordania: estrema destra
israeliana.

Questi innumerevoli approcci si diversificano nell'essenza e sono incompatibili. Ma essi hanno un elemento chiave in comune. Tutti fronteggiano il conflitto senza risolverlo. Tutti ignorano la necessità di vincere il negazionismo palestinese. Tutti cercano di aggirare la guerra piuttosto che vincerla.

Per un osservatore esterno che nutre la speranza che presto o tardi gli arabi accetteranno Israele, questo modo di evitare la sola strategia vincente causa una certa frustrazione, che sarà ancora più profonda quando si rammenta come gli israeliani avessero sin dall'inizio perfettamente compreso quali fossero i loro obiettivi strategici.

Fortunatamente, almeno uno dei politici israeliani di spicco propugna la vittoria israeliana sui palestinesi. Uzi Landau rileva semplicemente che "quando si è in guerra, si vuole conseguire la vittoria". Egli aveva sperato di guidare il Likud nelle attuali elezioni, ma non è riuscito a ottenere nulla che si avvicinasse a una maggioranza nel suo partito e questa settimana si è classificato quattordicesimo nella lista elettorale, non riuscendo a guadagnarsi una posizione in grado di garantirgli un seggio in Parlamento. Ci si aspetta che il Likud non superi la soglia del 15% delle preferenze elettorali, il che mostra fino a che punto l'idea di vincere la guerra sia impopolare tra gli israeliani.

E così essi continuano a sperimentare il compromesso, l'unilateralismo, arricchendo i loro nemici e impinguando altri schemi. Ma come ha osservato Douglas MacArthur: "Nella guerra non c'è nulla che possa sostituire la vittoria". La diplomazia di Oslo è stata un fiasco, e lo saranno tutti gli altri schemi che eluderanno il duro lavoro che impone la vittoria. Gli israeliani devono prepararsi a riprendere il lungo, difficile, amaro e costoso sforzo necessario per convincere i palestinesi e gli altri che il loro sogno di eliminare Israele è morto e sepolto.

Se gli israeliani non dovessero riuscire a farlo, allora lo stesso Stato di Israele sarà defunto.

(New York Sun, 28 marzo 2006 - dall'archivio di Daniel Pipes)





4. RITIRO DA GAZA: SONDAGGIO IN CISGIORDANIA




Metà dei palestinesi della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme est (il 49,4 per cento) pensa che il piano di ritiro unilaterale dalla maggior parte della Cisgiordania del premier ad interim Ehud Olmert non porrà fine al conflitto nella regione.
E' questo uno dei risultati di un sondaggio condotto dal Palestinian Center for Public Opinion (Pcpo) su un campione rappresentativo della popolazione palestinese di questi territori.
L'11,7 per cento ha invece risposto che il ritiro unilaterale israeliano porterà alla creazione di uno stato di Palestina e al riconoscimento di Israele; il 36,9 per cento pensa che porterà all' allargamento dell'area sotto giurisdizione dell' Autorità nazionale palestinese (Anp) senza che ciò costringa i palestinesi a riconoscere Israele.
Il 47,2 per cento in varia misura si è detto d'accordo con chi chiede la dissoluzione dell'Anp mentre il 52,8 per cento è più o meno in disaccordo. Il 74,4 per cento è in diversa misura contento del governo palestinese formato da Hamas. Il 55,2 per cento approva la decisione di al Fatah di non partecipare a un governo di unità nazionale. Il 44,2 per cento è su posizioni opposte. Il 62,7 per cento ritiene che l'Anp non debba rispettare gli accordi conclusi con Israele; il 33,2 afferma il contrario.
L' 85,5 per cento non si fida dell'impegno di Israele di rispettare gli accordi

prosegue ->
conclusi con l'Anp. Il 48 per cento pensa che nessuno dei partiti israeliani esistenti sia in grado di risolvere il conflitto israelo-palestinese. Tra i partiti esistenti quello laburista è stato indicato dal 18,6 per cento degli interpellati; Kadima dal 17,6 per cento e il Likud dal 14,7 per cento. L'88,5 per cento chiede a Gran Bretagna e Stati Uniti di obbligare Israele a consegnare all'Anp il leader del Fplp, Ahmed Saadat, e gli altri detenuti che sono stati catturati al termine dell' assedio israeliano del carcere di Gerico.
Il 50,7 per cento si oppone in misura diversa al rapimento di stranieri e alla distruzione di uffici e di centri culturali stranieri. Il 48,2 per cento approva, in misura diversa. Il 65,4 per cento ancora dichiara di sostenere, seppure con diversi gradi di intensità, il presidente dell'Anp, Abu Mazen (Mahmud Abbas).

(Il Denaro, 28 marzo 2006)





5. LO SPAURACCHIO DEMOGRAFICO




Il boom demografico arabo non si fermerà, per lo stato ebraico separazione obbligata

C'è un'altra guerra che si combatte tra israeliani e palestinesi: sommersa, speculare a quella visibile, altrettanto strategica. Soprattutto, su due piani opposti: se lo scontro sul terreno semina morti, quello dietro le quinte ruota sui vivi. Non a caso la chiamano "la guerra delle culle"; non a caso i palestinesi della Galilea usano dire che "i confini si negoziano con i bambini".
    Il conflitto è demografico, e a spiegarlo al meglio è un italiano di Trieste che dal 1966 vive in Israele, dove insegna Demografia all'università di Gerusalemme. Sergio Della Pergola, 64 anni, è una delle figure di punta del Jewish People Policy Planning Institute. E si deve anche, e molto, ai suoi studi se Ariel Sharon ha messo in atto la svolta politica su cui il nuovo partito da lui fondato, Kadima, si gioca le elezioni: ritirarsi su un confine che garantisca agli israeliani di non venire "cannibalizzati" dai palestinesi che fanno più figli, finendo così accerchiati in casa loro, un po' come i bianchi in Sudafrica.
    La situazione la spiega con grande chiarezza lo stesso Della Pergola: "Sulla terra dell'ex mandato britannico, Israele e Palestina, vivono poco più di 10 milioni di persone. Gli ebrei sono circa la metà; gli arabi israeliani sono 1,3 milioni; nei territori vivono 3,3 milioni di palestinesi. Se continuasse l'attuale tendenza demografica, entro il 2050 gli ebrei scenderebbero a poco più di un terzo della popolazione. Grandi cambiamenti possono avvenire anche in un arco di tempo relativamente breve, anche prima di quella scadenza, diciamo nel giro di 15-20 anni. Siamo perciò di fronte alla scelta tra il rischio di declinare e la possibilità di rifiorire". E pone un interrogativo stringente: "Può Israele continuare in eterno questo conflitto con i suoi vicini? Può essere Israele attrattivo per numerosi gruppi ebraici, quasi il 90 per cento di tutti gli ebrei sparsi nel mondo, che vivono in nazioni avanzate e democratiche? Oppure Israele diventerà un'entità periferica con reddito basso, e spesso la morte nelle strade per attacchi terroristici?".
    I numeri parlano chiaro, e sono loro a suggerire la risposta. Quest'anno, per la prima volta, ci saranno più ebrei residenti in Israele che negli Stati Uniti: Tel Aviv è diventata la città con più ebrei al mondo (2,7 milioni di persone), sostituendosi a New York, che ne ha 2. Ma l'intero Stato di Israele è equivalente all'Emilia-Romagna; quanto alla Cisgiordania, è grande come la provincia di Torino. E nel mondo il tasso di incremento della popolazione ebraica è prossimo allo zero, e soprattutto scende rispetto alla popolazione mondiale: dal 1970 a oggi è passata dallo 0,35 per cento dell'umanità allo 0,21. Di segno opposto è il tasso di incremento della popolazione palestinese, specie nei distretti del nord: oggi gli arabi rappresentano il 36 per cento, nel 2025 saranno il 46, nel 2048 arriveranno al 50, pareggiando quindi il numero. In alcune città significative, l'incremento sarà maggiore: sempre nel 2048, ad Acco ci sarà il 76 per cento di palestinesi, a Nazaret il 66.
    Il rischio è di finire in mano a una sorta di opposti estremismi della demografia, segnala Youssef Courbage, demografo anch'egli: a Gaza ci sono 7,4 figli per donna palestinese, mentre tra le ebree ortodosse si arriva a 7,6. Conseguenza: "C'è il rischio della libanizzazione dello Stato ebraico, e della trasformazione di un conflitto nazionale in conflitto religioso combattuto dagli ortodossi delle due comunità". Se un grande merito va riconosciuto a Sharon per la sua svolta, è proprio questo: avere capito che in Israele la demografia va a braccetto con la politica. E che dunque, per mantenere uno Stato ebraico che sia anche democratico, non c'è che una scelta: separarsi dagli arabi. F.J.

(Il Gazzettino Online, 28 marzo 2006)





6. L'INAFFIDABILE EUROPA




Ebrei d'Europa: europei contro Bruxelles

di Prune Antoine

PARIGI, Rue des Rosiers - Il cuore del quartiere ebraico palpita: due rabbini affrettati scompaiono tra le viuzze sinuose, mentre il sole mattutino lancia i suoi riflessi sulle vetrine traboccanti di appetitosi bagels. Effluvi piccanti di felafel si diffondono nell'aria. In Francia vivono 600.000 ebrei – la comunità più importante in Europa visto che il Belgio ne conta 30.000 e la Gran Bretagna 400.000. Nei 25 Paesi Ue, il giudaismo si articola attorno a tre istituzioni fondamentali: la Conferenza europea dei Rabbini (per le questioni religiose), il Consiglio Europeo Sociale Ebraico e il Congresso Ebraico Europeo (per le problematiche politiche).

Dov'è l'Ue?
Nonostante la presenza di una tale organizzazione, l'Ue continua a rappresentare per la maggior parte degli ebrei un'entità lontana. Secondo Marc Knobel, ricercatore presso il Consiglio di Rappresentanza delle Istituzioni Ebraiche Francesi (o Crif), la politica estera dell'Ue è ancora «troppo vaga e le relazioni con il Medio Oriente non sono percepite se non attraverso il prisma dei governi nazionali. Nonostante il legame con Israele sia molto forte, gli ebrei sono innanzitutto cittadini dei paesi in cui vivono». Un senso di distanza alimentato anche dalle numerose divergenze nelle attitudini degli Stati membri. «L'Ue non riesce ad avere un'unica voce : se la Francia è tradizionalmente pro-araba, l'Italia si vede più favorevole allo Stato ebraico», sottolinea ancora Knobel.
Il generale clima di sfiducia nei confronti delle istituzioni comunitarie è esacerbato anche dalle ondate di antisemitismo provenienti dal continente: dalla maschera da Ss indossata dall'adolescente principe britannico Harry all'assassinio del giovane Ilan Halimi, il 2005 sarebbe stato caratterizzato dalle polemiche. «La crescita degli atti antisemiti in Europa ha generato una svolta a destra della comunità ebraica», osserva Jean-Yves Camus, politologo presso il Centro europeo per le ricerche contro il Razzismo e l'Antisemitismo. «Il risultato? A partire dalla Seconda Intifada [nel 2000] gli ebrei non gradiscono più la politica dell'Ue. I militanti dell'ala dura sono ostili a ogni forma di aiuto concesso all'Autorità Palestinese».

Dove vanno i soldi?
Senza dover necessariamente negare la sofferenza del popolo palestinese, molti rimettono in discussione l'uso dei fondi stanziati da Bruxelles. Jon Benjamin, direttore del Board of Deputies of British Jews si ritiene scettico: «Se si tiene conto del grado di corruzione del "regno" Arafat, credo che bisogni prestare molta attenzione a che i soldi vengano spesi per scopi umanitari e non militari o terroristici». Lea Magnichever, proprietaria di una libreria nel quartiere del Marais, è ancora più categorica : «L'Ue non è stata abbastanza esigente, neanche quando si è saputo che i soldi dati all'Autorità palestinese sono serviti a realizzare dei libri scolastici in cui Israele non appare sulle carte geografiche o si incita alla sua distruzione. Questo è inaccettabile: una mancanza totale di senso critico e di responsabilità. Secondo me Bruxelles ha fallito la sua missione pacificatrice».
Più moderato Alejandro Baer, docente presso l'Università Complutense di Madrid, che ritiene che il pacchetto da 120 milioni di euro recentemente sbloccato dagli europei rappresenti un «errore perché lascia credere ad Hamas che la porta finanziaria resta aperta, senza la necessità di rispettare le condizioni poste dall'Europa, come la fine delle azioni terroristiche e il riconoscimento dello Stato di Israele». Critiche che vanno di pari passo con un forte sentimento di ingiustizia. «Se l'Europa pretende di voler avere un ruolo nel conflitto, deve essere un po' più ricettiva nei confronti delle richieste dello Stato ebraico e riequilibrare la sua politica», afferma Knobel. Presso la sede parigina del Congresso Ebraico Europeo il presidente, Pierre Besnainou, rivendica la fermezza. «Per noi è inconcepibile che l'Ue versi dei finanziamenti sul conto di un'organizzazione che si autoproclama "terrorista": in questo modo tutta la sua credibilità viene meno».

Meno esitazioni, più azioni
Un altro dossier sensibile è quello dell'Iran. Di fronte alle ripetute provocazioni di Mahmoud Ahmadinejad nei confronti di Israele, la reazione del Congresso ebraico non si è fatta attendere: una petizione che mira a far votare una Risoluzione in cui si dichiari il Presidente iraniano "persona non grata" sul territorio europeo, circola attualmente nei corridoi del Parlamento di Strasburgo. «Una misura del tutto naturale», osserva Besnainou, «viste le molteplici leggi contro il negazionismo votate dai Venticinque». D'altra parte, «un esposto è stato già presentato presso la Corte Penale Internazionale, con lo scopo di far considerare la nozione di esortazione al genocidio come un inizio stesso di genocidio». Queste misure si collocano tra gli atti più forti e visibili mai portati avanti dal Congresso Ebraico Europeo dalla sua fondazione nel 1986. «Tuttavia, mi rattristo del fatto di essere noi a promuovere queste iniziative: il caso iraniano dovrebbe invece preoccupare tutti i cittadini e non solamente gli ebrei», insiste Besnainou.

Nel frattempo, la volontà della troika europea di portare avanti i negoziati sulle ambizioni nucleari di Teheran, è stata severamente criticata, specialmente in Germania. Paul Spiegel, rappresentante degli ebrei tedeschi nel Zentralrat der Juden in Deutschland, lo scorso dicembre dichiarava: «La politica accomodante dei governi europei nei confronti dell'Iran deve finire (…). È necessario esaminare e porre in atto tutte le possibili opzioni: dalle sanzioni economiche a quelle politiche, anche attraverso l'esclusione dall'Onu». David Reihnardt, membro del Betar-Tagar, un'organizzazione sionista radicale, crede solo nell'alleato statunitense: «L'Ue è solo un guscio vuoto che non è stato neanche in grado di impedire la pulizia etnica sul suo proprio territorio, nella ex-Yugoslavia. Che si metta prima d'accordo sul prezzo del vino, prima di occuparsi del conflitto israelo-palestinese». A buon intenditore...

(cafèbabel.com, 28 marzo 2006 - trad. Lucia Pantella)





7. UNA NUOVA RIVISTA DI NOTIZIE DA ISRAELE




Dalla presentazione della casa editrice CDM Italia:

«Notizie da Israele»



 
Rivista bimestrale di avvenimenti riguardanti e provenienti da Israele. Rivista che è al suo esordio in lingua italiana e di cui sono stati ampiamente esposti in alcuni articoli della rivista «Chiamata di Mezzanotte» le motivazioni e l’importanza della sua uscita editoriale. Può essere richiesta una copia gratuita della rivista!

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CDM Italia
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10154 Torino
Tel.: 011 285966
E-mail: info@cdmitalia.org
Sito web: www.cdmitalia.org





8. UNA TEORIA MENZOGNERA SORTA NEGLI ULTIMI ANNI




I musulmani negano l'esistenza dei templi ebraici
    
Il mondo islamico ha impegnato negli scorsi anni numerosi storici, specialisti della religione, uomini politici e intellettuali per «dimostrare» che gli ebrei non hanno alcun rapporto storico con la collina del Tempio di Gerusalemme, che non sono mai esistiti dei templi ebraici su quella superficie e che le attuali costruzioni musulmane sono le uniche ad essere mai state costruite in quel luogo.
    
Nel frattempo è stata pubblicata una vera marea di articoli su questo argomento. Alcuni dei contributi provenienti dalla penna dello storico israeliano dott. Jitzchak Reiter, che lavora per l'Istituto di studi su Erez Israel, sono ora accessibili al pubblico israeliano. Nell'ambito delle sue ricerche ha consultato gli articoli «scientifici» di famosi musulmani e ha constatato che, sebbene esistano varie forme di negazione di una storia ebraica della collina del Tempio, alcune argomentazioni si ripresentano ripetutamente. Un rinomato archeologo egiziano ha affermato, per esempio, che «la favola dei templi ebraici è uno dei più gravi crimini di falsificazione storica». Ad esclusione del tempo dei re Davide e Salomone, gli ebrei non avrebbero mai avuto alcun rapporto con la collina del Tempio.
    Ma anche questi due re, afferma ancora l'archeologo, vi avrebbero costruito soltanto delle piccole case di preghiera storicamente insignificanti.
    Sul sito internet del Wakf di Gerusalemme - l'autorità musulmana che esercita il controllo sui luoghi sacri dell'lslam - si incontra un'altra variante di tale interpretazione storica. I re Salomone ed Erode non avrebbero edificato costruzioni proprie in questo luogo, ma vi avrebbero semplicemente restaurato degli edifici già esistenti. Più avanti si afferma che, ai tempi dei due re, le costruzioni esistevano già da vari secoli, perché risalenti ai primi uomini.
    Il dott. Reiter illustra poi che la negazione di una storia ebraica della collina del Tempio si è sviluppata dopo la riunificazione di Gerusalemme seguita alla Guerra dei Sei Giorni del 1967. Prima della guerra esistevano soltanto rari articoli di musulmani che mettevano in discussione una storia ebraica della collina del Tempio. Diversi secoli fa, non soltanto alcuni studiosi islamici raccontavano la storia della distruzione del primo tempio ebraico per mano di Nabucodonosor, ma essa era parte integrante della tradizione islamica che, dal 1967, è stata gradualmente riveduta.
    Dopo la Guerra dei Sei Giorni i musulmani hanno iniziato a rivalutare il significato religioso delle costruzioni islamiche sulla collina del Tempio. Gerusalemme è stata quindi definita uno dei principali siti sacri dell'lslam ed elevata a simbolo dell'oppressione dei musulmani da parte di Israele. Nel frattempo, la maggior parte dei musulmani crede davvero che le moschee della collina del Tempio siano state costruite dai primi uomini e non risalgano a circa 1400 anni fa.
    In quasi tutti gli articoli sono riportate tre ipotesi fondamentali:
    1) Gli ebrei hanno vissuto a Gerusalemme, ma il tempo della loro presenza nella città si è limitato ad un massimo di settant'anni, per cui non si giustifica una pretesa di sovranità ebraica sulla città.
    2) Non è esistito né un primo né un secondo tempio degli ebrei. Il re Salomone viene descritto nella storiografia musulmana come uno dei primi rappresentanti dell'lslam in fase di sviluppo. Egli costruì o restaurò - secondo quale versione storica viene presentata - soltanto una piccola e insignificante casa di preghiera.
    3) Il Muro del pianto non è affatto ciò che è rimasto del tempio, perché un tempio ebraico non è mai esistito. Il muro è ciò che resta di un antico complesso edile musulmano e riferirlo ad un luogo sacro ai giudei è un'invenzione dell'ebraismo moderno (del XIX sec.).
    In quasi tutti gli articoli di autori musulmani si afferma che non sono mai stati fatti ritrovamenti archeologici che confermino una storia ebraica di questo luogo. Negli scorsi anni, nella versione tedesca di questa rivista, abbiamo ripetutamente pubblicato degli articoli sui lavori illegali di costruzione, promossi dal Wakf, sulla collina del Tempio, nelle vicinanze delle cosiddette Stalle di Salomone. Le macerie sono state eliminate, distrutte e sparse su un'ampia superficie. Ufficialmente il Wakf, che ha il controllo esclusivo della collina del Tempio, non permette opere di scavo. Inoltre si sente ripetutamente pronunciare, da parte di esperti musulmani di religione, un'affermazione che è altrettanto illogica e assurda quanto le altre tesi, ma che incontra l'interesse soprattutto della gente semplice: «Non può essere che Allah abbia donato ai musulmani una moschea e abbia dato loro il compito di vegliare su tale costruzione sacra, se la casa di Dio appartenesse in realtà ad un altro gruppo religioso.» ZL

(Da "Notizie da Israele" Nr.0 - febbraio 2006)





9. MUSICA E IMMAGINI




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10- INDIRIZZI INTERNET




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