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Notizie su Israele 347 - 17 maggio 2006

1. Antisemitismo negato, antisemitismo confermato
2. A giugno fondi dell'UE ai palestinesi
3. Soldi in cambio di stabilità
4. La grande voglia di aiutare i palestinesi
5. Come tutti gli altri popoli
6. Così Israele difese il suo diritto ad esistere
7. Sacrificati sull'altare del processo di pace
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 2:11-12. Lo sguardo altero dell'uomo sarà umiliato, e l'orgoglio di ognuno sarà abbassato; il Signore solo sarà esaltato in quel giorno. Infatti il Signore degli eserciti ha un giorno contro tutto ciò che è orgoglioso e altero, e contro chiunque s'innalza, per abbassarlo.
1. ANTISEMITISMO NEGATO, ANTISEMITISMO CONFERMATO




La vignetta scomoda

Liberazione pubblica un disegno che solleva le proteste della comunità ebraica e non solo. Intervista con Sansonetti, direttore del quotidiano comunista.

di Marzia Bonacci

La vignetta pubblicata su Liberazione
Una vignetta firmata Apicella che ritrae in primo piano un cancello con tanto di filo spinato e al suo interno un lungo muro. Due simboli, uno attuale e l'altro moderno, di una vicenda storica ancora fortemente discussa. Il muro costruito dallo stato ebraico nei territori e l'ingresso del campo di concentramento di Auschwitz. Soltanto una piccola variazione: il tristemente famoso motto che compare inciso sulle volte della recinzione, quel terribile "Arbeit macht frei" (il lavoro rende liberi), trasformato nel più contemporaneo "La fame rende liberi". Questa la vignetta pubblicata venerdì da Liberazione, quotidiano di Rifondazione Comunista e da ieri al centro delle polemiche. Una comunità ebraica che si dichiara profondamente indignata e che invoca l'intervento del presidente della Camera Fausto Bertinotti: "Ringrazio il vignettista e il direttore di Liberazione per aver mostrato il ventre molle del pregiudizio antisemita" ha dichiarato Yasha Reibman, portavoce della comunità ebraica milanese, il quale ha poi aggiunto "Noi ci rivolgiamo a Berinotti e gli diciamo: si faccia sentire. Il suo silenzio sarebbe un'occasione persa". E, secondo il quotidiano israeliano Yediot Ahronot, l'indignazione è il sentimento provato anche dall'ambasciatore in Italia Ehud Gol. Liberazione viene duramente criticato anche da alcuni esponenti della sinistra come Furio Colombo. Il neo senatore Ds inserisce la vignetta incriminata in un clima più generale e preoccupante, quello che ha di fatto consegnato alla destra la difesa e il rapporto privilegiato con Israele. Sullo sfondo ancora il tema della libertà di informazione.
Della vicenda e delle polemiche abbiamo parlato con Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, direttamente chiamato in causa per la sua scelta editoriale.

Direttore, quale messaggio voleva lanciare la vignetta che Liberazione ha pubblicato venerdì e che ha sollevato così tante voci di protesta?
Era una vignetta molto dura il cui riferimento critico erano le politiche della Comunità Europea, degli Stati Uniti e del governo di Israele che hanno tagliato i fondi ai palestinesi dopo la vittoria di Hamas all'elezioni e che ha provocato una crisi umanitaria molto grave. Perciò una vignetta in nessun modo antisemita, ma che criticava le poltiche europee, americane e israeliane senza alcun riferimento al popolo ebraico. Anzi c'era l'espressione della simpatia di tutti verso il popolo ebraico in quanto vittima dello sterminio. La vignetta si rifaceva ad un argomento molto forte, cioè il paragone dei campi di sterminio al fenomeno di persecuzione politica odierna, che dal punto di vista della verità storica però non sono paragonabili. La metafora ha riacceso una polemica vivacissima, che io stesso non mi aspettavo. D'altra parte, in Italia, da anni le vignette e l'umorismo godono di una maggiore libertà, lontano dalle censure.

Come reagirà Liberazione alle critiche ricevute?
Ho scritto un articolo che comparirà domani (oggi, ndr) sul giornale e che è rivolto al mio ex direttore Furio Colombo, il quale è stato uno dei più critici verso la vignetta. Nell'articolo propongo la sottoscrizione di un appello comune che si snoda in quattro punti:
1)il diritto dello stato di Israele a vivere libero, in pace e sicurezza dentro confini definiti
2)la polemica sdegnata verso chiunque metta in discussione questo diritto di Israele, a partire dal presidente iraniano
3)il diritto dei palestinesi ad avere uno stato dai confini certi e definiti per poter vivere in sicurezza e pace
4)la richiesta al governo israeliano di procedere in tempi rapidissimi alla smobilitazione delle truppe dai territori occupati
Non solo. Nell'articolo lancio anche la proposta di una manifestazione comune e al di là delle diversificazioni in cui Furio Colombo potrebbe portare la bandiera palestinese ed io quella israeliana.

Torniamo ad un aspetto politico che è emerso in modo non irrilevante dalle polemiche degli ultimi giorni: il rapporto fra la comunità ebraica e la sinistra. In diverse occasioni, infatti, il mondo ebraico ha attribuito a questa forza politica la colpa di aver "ceduto" all'antisemitismo nel momento in cui ha espresso ed esprime la sua simpatia verso la causa palestinese. Ha fondamento secondo te questa critica?
Non c'è nessun antisemitismo e nessuna ostilità verso gli ebrei nella sinistra perchè i palestinesi sono completamente estraenei allo sterminio. Utilizzare una vignetta per la polemica politica significa utilizzzare lo sdegno che l'umanità ha per l'esperienza dei lager e delle sue infamanti ingiustizie che, lo sottolineo, furono commesse dagli Stati europei e dalla grande borghesia del Vecchio continente appena 60 anni fa, e non dal popolo palestinese. Sarebbe una sinistra miope quella che, in virtù del suo antico affetto per il mondo ebraico e per lo Stato di Israele, appoggiasse le sue peggiori politiche e i suoi peggiori governi.

Quindi appare del tutto infondata la critica che parte dell'intellighentia di sinistra rivolge al suo stesso interno: cioè di aver abbandonato alla destra la difesa e l'antica amicizia verso Israele e il mondo ebraico?
Assolutamente infondata. L'amicizia della sinistra verso il mondo ebraico è fuori questione, come lo è anche l'affetto da essa nutrito verso il popolo palestinese. Il legame con Israele non comporta la negazione di quello con il mondo palestinese, che in questo momento è oppresso da una sbagliata politica di governo e non certo dal popolo ebraico.

E' come se la Shoa fosse ancora un nervo scoperto...
Certo che lo è, anche perchè è un avvenimento recentissimo: 60 anni nel complesso storico sono un battitto di ciglia. E soprattutto lo è per l'Europa, che va considerata ancora come il luogo dove appena "un minuto fa" sono stati commessi i peggiori crimini contro il popolo ebraico. L'Europa non può però rimuovere questo suo senso colpa scaricandolo su un popolo innocente quale è quello palestinese.

La polemica sollevata intorno alla vignetta di Apicella ripropone un tema di scottante attualità, quello sulla libertà di informazione e su i suoi limiti. Che pensi in proposito?
Esistono dei limiti di civiltà che l'informazione possiede e che alcuni giornali si danno e altri no, anche in Italia. Essi sono rappresentati dal confine che regola la convivenza, ma l'autocensura non ha niente a che vedere con questo e, soprattutto, non credo ce ne sia bisogno nel nostro paese, dove il lavoro dei vignettisti non sconfina mai in una satira estrema.

(AprileOnLine - giornale per la sinistra, 16 maggio 2006)

COMMENTO - Molte parole per cercare di nascondere una realtà più che evidente: è" l'odio per Israele che rende simpatici i palestinesi, che non stanno affatto più male di tanti altri gruppi umani della terra.





2. A GIUGNO FONDI DELL'UE AI PALESTINESI




BRUXELLES - L'Unione europea potrebbe predisporre a giugno del nuovo meccanismo per finanziare l'Anp e poter gia' allora far fronte alle richieste del popolo palestinese.
L'auspicio e' stato espresso oggi dal commissario Ue alle Relazioni Esterne, Benita Ferrero-Waldner, a margine dei lavori del Consiglio Ue a Bruxelles. "Questa settimana lavoreremo sui parametri e speriamo che la prossima settimana possano aver luogo degli incontri a livello tecnico con altri donatori".
"C'e la possibilita' - ha aggiunto il commissario - di aver pronto il meccanismo temporaneo per il mese di giugno anche se non e' sicuro".
Il nuovo meccanismo per convogliare finanziamenti alla Palestina era stato autorizzato la settimana scorsa dal Quartetto per il Medio Oriente e servirebbe per far fronte ai bisogni primari come i servizi sanitari e i servizi pubblici (incluso il pagamento dei salari). "Inizialmente la priorita' ha detto il commissario - sara' data ai servizi sanitari alle medicine e alle cure mediche" ha confermato il ministro britannico Margaret Beckett. "Ci vorra' del tempo per entrare nel dettaglo ma quello che e' importante- ha aggiunto - e che abbiamo iniziato a lavorarci".
L'Ue spera anche che al meccanismo partecipi anche Israele che lo utilizzi per scongelare i pagamenti e i dazi doganali per un totale di 60 milioni di dollari al mese dovuti ai palestinesi. L'importanza della partecipazione di Israele e' stata sottolineata anche dal Ferrero-Waldner che ha affermato che si trattera' "di un meccanismo aperto a tutti gli altri donatori, inclusi Israele e i paesi arabi".
Il commissario Ferrero-Waldner incontrera' domani a Strasburgo il leader palestinese Abu Mazen per discutere di aiuti.

(AGI 15 maggio 2006)





3. SOLDI IN CAMBIO DI STABILITA'




L'Occidente cede al ricatto dei palestinesi

di Martino Pillitteri

Il mondo arabo sta speculando sui fondi da dare ai Palestinesi. La comunità internazionale sembrava risoluta nel non finanziare l'Olp finché lo stato di Israele non verrà riconosciuto. In settimana però, il quartetto (Onu, Stati Uniti, Ue e Russia) ha annunciato di aver raggiunto un accordo per far giungere dei sussidi ai palestinesi bypassando Hamas. In base al comunicato ufficiale "il quartetto ha espresso la sua volontà di creare un meccanismo temporaneo limitato nello scopo e nel tempo che opererà in totale trasparenza per la diretta assistenza alla popolazione palestinese." I fondi coprirebbero principalmente servizi sanitari, scolastici e lo stipendio del personale dell'autorità palestinese. Mentre da un lato i territori "occupati" non patiranno un tracollo economico, la coscienza dell'occidente sta patendo "l'occupazione" dai ricatti del vittimismo dei palestinesi e della minaccia del terrorismo. Ancora una volta l'occidente si è assunto la responsabilità di mantenere il popolo palestinese, compito che per prossimità geografica e affinità culturale dovrebbe essere assolto dal mondo arabo che sebbene possa contare su 70 dollari al barile continua a cedere a palestinesi solo le briciole ma in cambio riceve nuovo materiale per le solita propaganda anti occidente. Da quando gli Usa si sono impuntati contro i finanziamenti ad Hamas coinvolgendo anche l'Europa, la propaganda araba sulla Palestina si sta facendo più raffinata e dai sacrosanti finanziamenti è arrivata al profano.
    Non a caso, in un recente incontro a Doha, i leader musulmani più orientati all'estremismo hanno ufficialmente islamizzato la questione palestinese incitando tutti i musulmani a combattere per i palestinesi e la creazione di una grande nazione islamica. La parte fanatica e anti occidentale del mondo musulmano sta palesemente strumentalizzando la questione dei fondi palestinesi e la sta trasformando in un conflitto di religione non solo verso gli israeliani ma anche contro l'occidente cristiano. Se anche i musulmani moderati vengono convinti che dietro ai fondi ai palestinesi ci sia in realtà una causa a sfondo religioso per la quale vale la pena combattere non è da escludere che una parte del mondo musulmano potrebbe sentirsi ulteriormente vittimizzato e potrebbe reagire assumendo posizioni sempre più estremiste e radicali. La lezione delle vignette dovrebbe averci insegnato qualcosa. Siamo davanti un ricatto a sfondo politico-religioso il cui assioma implicito è soldi in cambio di stabilità, che attenua la crisi di coscienza del west ma ci manterrà schiavi del vittimismo palestinese e succubi politici del terrorismo.

(L'opinione delle libertà, 15 maggio 2006)





4. LA GRANDE VOGLIA DI AIUTARE I PALESTINESI




Quanto è autentica la crisi economica palestinese?

Da un articolo di Arlene Kushner

A quanto pare, l'Autorità Palestinese sta affrontando una grave crisi umanitaria a causa dei donatori che hanno congelato i fondi dopo l'avvento del governo controllato da Hamas. Ad un esame più attento, tuttavia, non sorprende scoprire che la realtà è un po' più complicata.
    Secondo una tesi assi diffusa, il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che detiene il controllo del Fondo d'Investimenti Palestinese, dal quale si porrebbero trarre 200-300 milioni di dollari, vieta di sbloccare questi fondi per indebolire Hamas.
    Il Fondo d'Investimenti Palestinese venne istituito nel 2002 quando l'allora ministro delle finanze palestinese Salam Fayyad riuscì a mettere le mani su una parte dei beni di cui si era indebitamente appropriato Yasser Arafat. Dopo la vittoria di Hamas, l'ufficio di Abu Mazen annunciò che avrebbe assunto il diretto controllo del Fondo d'Investimenti Palestinese. Oggi il Fondo, che dovrebbe valere circa un miliardo di dollari, certamente non è controllato dal governo Hamas. Tuttavia non è chiaro se e fino a che punto sia effettivamente sotto il controllo di Abu Mazen. Il CEO Muhammad Mustafa afferma che il Fondo ha già trasferito quasi 300 milioni di dollari alle casse dell'Autorità Palestinese, lasciando intendere che non ne sono in arrivo altri.
    Secondo persone ben informate, ma che preferiscono mantenere l'anonimato, l'attuale crisi finanziaria dell'Autorità Palestinese sarebbe di natura prevalentemente politica, e cioè "artificiale". Mustafa sembra condividere questa opinione. Esistono altre holdings dell'Olp, di dimensioni considerevoli, da cui Abu Mazen potrebbe attingere.
    Fino a tempi molto recenti i finanziamenti internazionali pro capite che riceveva l'Autorità Palestinese erano i più alti di qualunque altra entità politica al mondo. Purtroppo somme enormi sono state impiegate per scopi illeciti. Lo scorso febbraio l'Attorney General dell'Autorità Palestinese Ahmed al-Meghami riferiva d'aver documentato ruberie e malversazioni all'interno dell'Autorità Palestinese per 700 milioni di dollari, ma di sospettare che le cifre realmente implicate fossero nell'ordine di miliardi di dollari.
    Durante gli anni in cui queste irregolarità erano abituali, i fondi internazionali – in particolare quelli dall'Unione Europea – continuavano ad affluire all'Autorità Palestinese: trasparenza e responsabilità fiscale semplicemente non erano richieste. Nel marzo 2005 l'Ufficio anti-frodi della Commissione Europea (OLAF) pubblicò un rapporto secondo il quale non v'erano "prove conclusive" che il denaro europeo avesse coperto le spese per attacchi armati o altre attività illegali. D'altra parte non veniva nemmeno esclusa la possibilità di un abuso di quei fondi giacché, diceva il rapporto, "la capacità di audit [verifica], interna ed esterna, nell'Autorità Palestinese è ancora sottosviluppata". In altre parole, l'OLAF ammetteva di non essere in grado di ricostruire dove fossero finiti i soldi mandati all'Autorità Palestinese. Il che comunque non sembrò sufficiente alla UE per sospendere i finanziamenti. Anzi, gli europei sembrarono rassicurati dal fatto che non fossero emerse prove certe che i loro denari avessero finanziato il terrorismo. Le donazioni UE – nell'ordine di centinaia di milioni di dollari – continuarono ad affluire nelle casse dell'Autorità Palestinese attraverso uno specifico fondo della Banca Mondiale.
    L'Autorità Palestinese capì l'antifona: i soldi europei erano garantiti. Cioè, lo erano fino a poco tempo fa.
    Nel novembre 2005 Nigel Roberts, direttore della Banca Mondiale per Cisgiordania e striscia di Gaza, scrisse in un rapporto: "L'Autorità Palestinese si è procurata da sé una grave crisi finanziaria a causa della spesa per stipendi sostanzialmente fuori controllo". Stando al Fondo Monetario Internazionale, nel 2004 i vertici dell'Autorità Palestinese avevano concordato un piano per rimediare al deficit stabilendo regole che contemplavano limiti all'assunzione di personale e agli aumenti salariali per il biennio 2004-2006. Il fatto grave è che questo accordo è stato poi cancellato. Nel luglio 2005 gli stipendi dei dipendenti pubblici palestinesi vennero aumentati del 15-20%. Un mese dopo, una riparametrazione delle paghe del personale per la sicurezza si tradusse in aumenti del 30-40% per il personale in servizio attivo.
    Nel settembre 2005 il ministro palestinese per i detenuti spiegò in un'intervista che ogni mese venivano stanziati quattro milioni di dollari in remunerazioni destinate ai palestinesi detenuti in Israele. Inoltre, alcune fazioni terroristiche sono state cooptate all'interno delle forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese, e così circa quattromila "militanti" sono andati ad aggiungersi al libro-paga dell'Autorità Palestinese, mentre tra gli otto e i diecimila uomini delle forze di sicurezza si possono oggi definire come "non in funzione".
    Tutto questo non andava certo bene alla Banca Mondiale, che era alla ricerca di interlocutori finanziariamente responsabili. Già poco prima delle elezioni palestinesi, essa incominciò a trattenere alcuni fondi. Poi, dopo le elezioni e l'ascesa di Hamas, i finanziamenti vennero sospesi del tutto.
    Se ora Abu Mazen attingesse alle considerevoli risorse che risultano a sua disposizione, potrebbe dimostrare autosufficienza. Siccome però vuole garantirsi che siano i finanziamenti europei a coprire gli stipendi dell'Autorità Palestinese, preferisce sostenere la scena di una crisi finanziaria,
    Vi sono ragionevoli probabilità che Abu Mazen ottenga ciò che vuole. Si moltiplicano i segnali a livello internazionale della volontà di movimentare

prosegue ->
un fondo che copra gli stipendi palestinesi direttamente, aggirando il governo dell'Autorità Palestinese.
    Dal 1993 ad oggi sono stati elargiti all'Autorità Palestinese grossomodo dieci miliardi di dollari in aiuti. Nell'agosto 2004 Muhammad Dahlan diceva al Guardian di Londra che un totale di cinque miliardi di dollari in donazioni internazionali "sono volati via e non sappiamo dove siano finiti". Il patrimonio personale di Arafat è stato stimato pari a 3,1 miliardi di dollari. Al suo capezzale, la moglie e massimi notabili di Fatah si diedero pubblicamente battaglia per assicurarsi quella fortuna. Dove sia finito ciò che è rimasto di quei soldi e quanto ne possa disporre Abu Mazen resta un segreto.

(YnetNews, 12 maggio 2006 - da israele.net)





5. COME TUTTI GLI ALTRI POPOLI




Cancellate nel 1993 le norme contro i «diversi» nelle truppe

Israele, è gay la prima unità di intelligence

TEL AVIV — Quello che la «8200» scopre nei sotterranei della base affollata di computer è segreto. Ma la squadra è diventata famosa. Non perché da questi monitor sia stata intercettata la Karin A, una nave carica di armi destinate ai palestinesi. O perché vengano decifrati i messaggi in codice tra l'Iran e il Pakistan. E' l'unità dell'esercito israeliano con il più alto numero di omosessuali tra i suoi militari.
    Per la festa di Purim, una sorta di carnevale ebraico, i ragazzi hanno tolto la divisa e indossato parrucche, tacchi a spillo, minigonne per partecipare a un concorso di bellezza en travesti ed eleggere Miss 8200. «I giovani sanno di non dover nascondere nulla, anche tra gli ufficiali ci sono molti gay. Il lavoro di intelligence richiede apertura mentale. Così provano a essere arruolati qui», racconta un soldato al quotidiano Maariv. Le forze armate israeliane hanno cancellato nel 1993 la norma che espelleva dall'esercito chi si dichiarava apertamente omosessuale. E come la «8200» ci sono altri gruppi, anche nel quartier generale di Kirya, il pentagono di Tel Aviv, dove può capitare di sentire un capitano rivolgersi ai suoi uomini urlando «sbrigatevi, ragazze». «Proprio come succede nella nostra comunità — spiega Shaul Gonen, che guida l'associazione Aguda —. Le parole sono declinate al femminile, il clima è amichevole e rilassato. Alla "8200" hanno aperto un forum per scambiarsi foto e informazioni sulle serate gay. Ormai tutti hanno cambiato il nome della strada dove si trova la base, da Glilot a Gaylilot».
    Shaul è mezzo greco e mezzo italiano, un gigante che non sorprende quando racconta di aver fatto il militare in una delle forze speciali più dure, adrenalina, testosterone e sfide da macho. «Tra il 1982 e il 1986, con un paio di anni in Libano. Non ho mai detto di essere omosessuale. Nelle unità combattenti è diverso: condividi le brande, prendi le mutande di un altro in prestito, dormi appoggiato sulla pancia del tuo compagno. Se lo avessi raccontato, magari qualcuno non avrebbe voluto starmi vicino e io stesso sarei stato imbarazzato. Da allora la situazione è cambiata». Un amore omosessuale (segreto) in un avamposto sulle alture del Golan è stato raccontato dal film Yossi & Jagger. E il fotografo Adi Nes è uno dei più venduti all'estero con le sue immagini di modelli muscolosi e seminudi che indossano (solo in parte) la divisa di Tsahal.
    L'atteggiamento dei comandanti riflette quello della società israeliana, molto aperta . «E' vero, non c'è una vera separazione tra religione e Stato — commenta Avner Even-Zohar, gay e capitano della riserva, al settimanale Jewish News Weekly —. Ma anche se alcuni rabbini non approvano l'omosessualità e il sindaco ultraortodosso di Gerusalemme non vuole il Gay Pride nella sua città, il parlamento e il governo fanno passare leggi che parificano le coppie». Nella carriera diplomatica, i benefici e le indennità per il partner che segue il compagno/a all'estero sono equiparati a quelli di una moglie o un marito. La norma che vietava relazioni tra persone dello stesso sesso nell'esercito risale ai tempi del mandato britannico. Nel 1956 due uomini vennero processati perché erano stati scoperti a letto insieme, le condanne erano state ridotte a pochi mesi e da allora (fino all'abolizione) si erano ridotte a multe.
    Il centralino di Aguda raccoglie le denunce di soldati maltrattati dai commilitoni o da qualche ufficiale per aver detto di essere omosessuali. «Quando succede interveniamo subito — spiega Shaul — perché le violenze vengano fermate. Siamo stati chiamati nelle caserme per spiegare ai comandanti come comportarsi. Gli abusi ci sono, in generale il clima è positivo e l'esercito riesce a sorprenderci». Racconta il caso di una ragazza che si è presentata al centro di arruolamento e ha detto «io mi sento un uomo e voglio addestrarmi da uomo». Alla fine lo Stato maggiore le ha permesso di prestare il servizio militare come i coetanei maschi, tre anni contro i due delle donne. «E' diventata istruttore di Krav Maga, l'arte marziale israeliana insegnata ai militari delle forze speciali».

(Corriere della Sera, 16 maggio 2006)

COMMENTO - Levitico 18:22.





6. COSÌ ISRAELE DIFESE IL SUI DIRITTO AD ESISTERE




La risposta di Benny Morris alle falsificazioni storiche di Mearsheimer e Walt

Le ragioni dei sionisti

di Benny Morris

Il supplemento culturale domenicale del SOLE 24 ORE del 14 maggio 2006 pubblica in prima pagina la risposta dello storico israeliano Benny Morris al saggio dei politologi americani John Mearsheimer e Stephen Walt "La lobby israeliana e la politica estera degli Stati Uniti".
Morris contesta in particolare la ricostruzione della storia del conflitto arabo-palestinese-sionista che i due autori ricavano anche da una distorta e strumentale lettura dei suoi libri.

Ecco il testo:

Due eminenti politologi americani, il professor Mearsheimer dell'università di Chicago, e il professor Walt dell'Università di Harward, hanno recentemente sollevato un vespaio con la pubblicazione di un loro saggio su La lobby israeliana e la politica estera degli Stati uniti. Questo pamphlet antisraeliano si sta diffondendo attraverso internet ed è comparso in una versione ridotta anche sulla «London Rewiew of Books». In breve Mearsheimer e Walt affermano che l'appoggio americano a Israele va contro gli interessi nazionali degli Stati uniti e che non è affatto giustificato da «imprescindibili ragioni etiche». Per sostenere quest'ultimo punto, gli autori negano che Israele rappresenti la parte più debole nel conflitto palestinese, che sia una democrazia e che la sua «condotta sia stata moralmente superiore a quella degli avversari».

Le tesi dell'articolo – per "corroborare" le quali le gli autori citano anche alcuni miei libri, travisandone il senso – sono assolutamente indifendibili. Soffermiamoci su due punti del loro discorso. Analizzando il conflitto, essi scrivono che: «La corrente predominante della leadership sionista non era affatto interessata a creare uno Stato binazionale o ad accettare una divisione permanente della Palestina […]. Per raggiungere il loro scopo i sionisti dovevano espellere un gran numero di arabi dal territorio dove sarebbe sorto lo Stato di Israele». Gli autori stanno cioè dicendo che, in realtà, il movimento sionista non ha mai voluto una soluzione di compromesso e non è non è mai stato disposto ad accettarla (una critica che, come vedremo, andrebbe di fatto rivolta non ai sionisti, bensì al movimento nazionale palestinese). Ora, è vero che il sogno originario del sionismo era quello di creare in Palestina uno Stato ebraico – la Terra di Israele – e non un'entità binazionale. I sionisti non volevano certo fondare un altro Stato dove gli ebrei rappresentassero solo, come in tutti i paesi islamici, una minoranza della popolazione. Il fatto che fossero disposti o meno ad accettare l'ipotesi di una spartizione, però, è tutto un altro problema. Mearsheimer e Walt lasciano intendere che la leadership sionista ha sempre rifiutato la prospettiva di una divisione territoriale, quella soluzione giusta e ragionevole che – aggiungono – nemmeno Barak e Clinton hanno saputo offrire ai palestinesi nei recenti colloqui di pace del 2000. Ciò costituisce una palese distorsione della verità storica. Fino al 1936-37, la corrente predominante del sionismo ebbe senz'altro come obiettivo la creazione di uno Stato ebraico esteso a tutta la Palestina; durante la rivolta araba del 1936-39 ci fu però un sostanziale ripensamento di queste posizioni. Nel luglio 1937, la commissione britannica Peel raccomandò la spartizione della Palestina: lo Stato ebraico avrebbe dovuto estendersi su circa il 20 per cento del territorio palestinese, la maggior parte del quale sarebbe ricaduto sotto la sovranità araba. Fu inoltre quella commissione a raccomandare l'allontanamento – con la forza se necessario – dei cittadini arabi dall'area destinata allo Stato d'Israele.
    Nel movimento sionista ci furono accesi dibattiti, ma alla fine – sotto la guida di David Ben Gurion e Chaim Weizmann – esso accettò il principio della spartizione come una base per le trattative, pur respingendo la clausola del 20 per cento. Se è vero che nel 1937 Ben-Gurion nutriva ancora la speranza che questa spartizione sarebbe stata soltanto il "primo passo" di una futura espansione sionista, è altrettanto vero che negli anni successivi – con il deteriorarsi della situazione europea e il bisogno di trovare un rifugio sicuro per gli ebrei – resero più sobrie le aspettative del movimento.
    Così, nel novembre 1947 i sionisti - tranne alcune frange minoritarie – avevano ormai pienamente accolto l'idea della necessità della divisione e appoggiarono la risoluzione votata dall'Onu. Israele combatté la guerra del 1948 avendo come obiettivo la spartizione della Palestina; che fu di fatto l'esito del conflitto, nonostante la superiorità militare israeliana. E, fino al 1967, la sua posizione fu generalmente quella di accettare la realtà della divisione territoriale, come un dato di fatto ormai consolidato.
    Come sappiamo, la vittoria israeliana del 1967 riaccese la controversia e rafforzò per un po' di tempo le posizioni di coloro che si opponevano alla spartizione in nome del "Grande Israele", fino alla loro sconfitta definitiva con l'elezione - nel 1992 – del primo ministro Rabin. Anche dopo la morte di Rabin, la soluzione dei due Stati è rimasta l'obiettivo di tutti i suoi successori – Peres, Barak e, in particolare, Sharon e Olmert – con la sola eccezione di Netanyahu; un obiettivo condiviso dalla maggior parte dell'opinione pubblica israeliana.
    Al contrario, il movimento palestinese – da Al Hussein a Yasser Arafat – ha sempre rifiutato la soluzione dei due Stati: ha respinto i piani di spartizione del 1937 e del 1947, il "piano di autonomia avanzato da Begin e Sadat nel 1978 e l'offerta di Clinton e Barak nel 2000. Esso ha sempre sostenuto – e continua tuttora a farlo, per bocca di Hamas – che gli ebrei non hanno diritto di occupare nemmeno un singolo centimetro quadrato della terra palestinese. Veniamo ora alla questione del "trasferimento" .
    E' vero, come scrivono Mearsheimer e Walt, che «l'idea del trasferimento è nata assieme al sionismo moderno»; ma si tratta comunque di un problema complesso, dove è di centrale importanza vedere esattamente che cosa hanno detto e fatto i diversi protagonisti, e perché. Tra il 1881 e la metà degli anni Quaranta, i leader sionisti – da Herzl fino a Ben-Gurion e Weizmann – espressero occasionalmente il loro appoggio all'idea di "trasferire" gli arabi fuori dai confini del futuro Stato ebraico. Occorre però tenere presenti tre fatti. In primo luogo la leadership sionista non integrò mai questa idea nella piattaforma politica vera e propria del movimento. In secondo luogo, i capi sionisti erano generalmente convinti che in Palestina gli ebrei sarebbero comunque diventati maggioranza grazie all'immigrazione. Infine, l'idea del trasferimento venne di fatto ripresa dai leader sionisti in occasione di particolari momenti storici di crisi: in risposta alle ondate di violenza scatenate dagli arabi, che sembravano minare alle radici la possibilità della pacifica convivenza arabo-israeliana, e la risposta alla violenza antisemita in Europa, che per i sionisti rendeva necessaria la conquista di un porto sicuro dove gli ebrei minacciati potessero rifugiarsi; e non certo solo per poi ritrovarsi esposti alla violenza omicida degli arabi. Inoltre, lo stesso muftì al- Hussein perseguiva una politica decisamente espulsionista. Egli dichiarò più volte che nel suo futuro Stato palestinese sarebbero stati accolti come cittadini soltanto quelli ebrei che risiedevano in Palestina dal 1917: in pratica, 60mila-80mila persone. Per quanto riguardava gli altri (circa l'80 per cento della popolazione ebraica), i membri della commissione Peel compresero che la sua intenzione era quella di espellerli, o forse anche peggio.
    All'inizio degli anni Quaranta, in seguito ai crescenti episodi di violenza, era ormai chiaro a tutti che la divisione della Palestina andava accompagnata da un allontanamento degli arabi dalle terre del futuro Stato israeliano. La forte minoranza araba rimasta al suo interno avrebbe infatti mantenuto un atteggiamento eversivo, facendo naufragare ogni tentativo di convivenza. Fu per questo motivo che la soluzione del trasferimento venne sostenuta non solo dai capi sionisti, ma anche dai funzionari britannici e dai leader arabi moderati. Nel 1947-48, gli arabi palestinesi respinsero la risoluzione dell'Onu sulla spartizione e scatenarono una sanguinosa guerra civile, seguita da un'invasione panaraba. Dal canto suo, la leadership sionista aveva accettato il piano di divisione, che prevedeva l'assegnazione del 55 per cento dei territori della Palestina allo Stato ebraico; con una popolazione composta da 550mila ebrei e 450mila arabi. Fino alla fine del marzo 1948, dopo quattro mesi di attacchi palestinesi, il movimento sionista mantenne come proprio obiettivo la creazione di uno Stato ebraico con una forte minoranza araba al suo interno, e l'Haganah (la milizia ebraica) perseguì una politica difensiva, evitando di colpire i civili. Gli ordini erano di muoversi tenendo conto di «tutti i diritti, le necessità e la libertà degli arabi residenti nello Stato ebraico». Fu solo ad aprile che l'Haganah, di fronte alla minaccia di un'invasione da parte della Lega Araba, passò all'offensiva iniziò a espellere i palestinesi. Inutile dire che l'invasione panaraba del 15 maggio non fece altro che esacerbare gli animi degli ebrei nei confronti di coloro che avevano chiamato gli invasori con l'unico scopo di «ricacciarli in mare». Nonostante questo, però, Israele non adottò mai una politica di espulsione generalizzata. La nascita del problema dei profughi palestinesi fu quindi in realtà la diretta conseguenza di una guerra che era stata scatenata dagli arabi e in cui gli ebrei videro messa in gioco la loro stessa sopravvivenza. (traduzione di Daniele Didero)

(da Informazione Corretta, 17 maggio 2006)





7. SACRIFICATI SULL'ALTARE DEL PROCESSO DI PACE




I cristiani palestinesi sono sempre più svantaggiati

I cristiani nei territori palestinesi stanno molto peggio di quello che di solito dichiarano i loro portavoce. L'islamizzazione portata avanti dalle autorità dell'Autonomia Palestinese ha drammaticamente peggiorato le condizioni di vita della minoranza, ha dichiarato il politologo prof. Justus Reid Weiner del Centro di Gerusalemme per le questioni pubbliche. Tra i soprusi tollerati dalle autorità c'è il boicottaggio dei negozi cristiani e il ricatto del pizzo. Un'ordinanza vieta la vendita di terreni a cristiani. Nel comune di Betlemme, la città natale di Gesù Cristo, nel 1994 sono stati incorporati 30.000 musulmani, così che nel giro di dieci anni la percentuale cristiana è scesa dal 60 al 20 per cento. Anche contro gli stupri operati da musulmani su ragazze cristiane la polizia non interviene con decisione, ha detto Weiner. Molte donne cristiane si vestono come musulmane per non essere aggredite. L'Islam considera i cristiani come persone di seconda classe, e alle autorità manca la capacità e la voglia di proteggere i cristiani dagli attacchi dei musulmani.
    Durante l'intifada i militanti palestinesi sceglievano di sparare sul territorio israeliano da chiese e quartieri cristiani, per provocare la distruzione di questi edifici da parte dell'esercito israeliano. E tuttavia molti leader ecclestiastici minimizzano queste sofferenze. Alcuni temono che un'aperta denuncia peggiorerebbe la situazione. Altri non vogliono perdere i loro privilegi, come l'accesso ai media o i permessi di viaggio. Alcuni sono talmente accecati dal nazionalismo palestinese che non vogliono ammetterne il lato negativo. Weiner critica il silenzio dei governi occidentali, che sacrificano la minoranza cristiana sull'altare del processo di pace.

(Rivista evangelica "Perspektive", maggio 2006)





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