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Notizie su Israele 393 - 30 giugno 2007

1. Il problema del Medioriente
2. Desiderio di pace
3. Desiderio di guerra
4. In Israele la vita continua
5. Un'analisi ottimistica della situazione
6. Legittimità terroristica
7. I diritti «umani» di organismi disumani
8. Israele istituisce un centro per lo studio dell'arabo
9. Musica e immagini
10. Indirizzi internet
Geremia 31:7-8. Infatti così parla il Signore: Innalzate canti di gioia per Giacobbe, prorompete in grida, per il capo delle nazioni; fate udire le vostre lodi, e dite: "Signore, salva il tuo popolo, il residuo d'Israele!" Ecco, io li riconduco dal paese del settentrione, e li raccolgo dalle estremità della terra; tra di loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e quella in doglie di parto: una gran moltitudine, che ritorna qua.
1. IL PROBLEMA DEL MEDIORIENTE




Rushdie dimostra come l'islamismo sia attivo e non reattivo

di Davide Romano


Salman Rushdie è il migliore esempio di come l'islamismo radicale sia violento in sè, e di come il colonialismo, gli USA, Israele, e mille altri alibi non centrino nulla.
    Lo scrittore indiano infatti, scrisse un libro ("Versetti satanici") ritenuto blasfemo (dai fanatici) nel 1988. Il leader spirituale (e politico) iraniano Khomeini lo condannò a morte. L'occidente lo difese e la Gran Bretagna lo protesse fisicamente. L'altro giorno la regina Elisabetta ha deciso di concedergli il titolo di Baronetto. I fanatici si sono scatenati in proteste di piazza: Iran e Pakistan hanno convocato gli ambasciatori inglesi per protestare ufficialmente. "Salman Rushdie merita di essere ucciso e chiunque ne abbia il potere deve farlo" è il concetto ripetuto dai leader islamisti.
    Questo esempio è lampante di come l'islamismo radicale sia desideroso di eliminare ogni voce non ortodossa. Chi si oppone agli omicidi dei dissenzienti viene accusato di essere anti-islamico. Di fronte a questa accusa, ancora oggi, in occidente, c'è chi dice che forse non bisognerebbe esagerare con la difesa di Rushdie. Nossignori, sulla vita delle persone non ci può essere mediazione. Dovremmo fare uccidere Rushdie per placare la "rabbia islamica". Tranquilli, tale rabbia non si placherà. Non si è placata dopo 200 mila morti in Algeria, dopo decine di migliaia di morti in Iraq, dopo le lapidazioni in Afghanistan, perchè dovrebbe farlo "offrendogli in sacrificio" uno scrittore indiano?
    Il problema è che questi ignoranti fanatici pseudo-islamici sono musulmani tanto quanto sono cattolici i nostri mafiosi. Si nascondono dietro simboli sacri, vanno a pregare, ma altro non sono che l'essenza stessa del nichilismo e di un desiderio incontrollato di morte. Sono loro la bestemmia primaria, non chi vive pacificamente la propria religione.
    Per questo sbaglia chi pensa che il problema del Medio Oriente sia Israele. E' esattamente l'opposto: costoro hanno il problema di Israele perchè sono intolleranti. Se fossero tolleranti, Israele non sarebbe un problema. Tanto è vero che a riconoscere Israele sono i paesi vicini (Egitto e Giordania), mentre a non volerne l'esistenza sono paesi che non hanno direttamente nulla a che fare con lui (Iran, Arabia Saudita, i regimi fanatici, insomma).

(Libero Pensiero, 22 giugno 2007)





2. DESIDERIO DI PACE




Il mio kibbutz sul confine
 
di Edna Angelica Livnè Calò

Angelica si è trasferita nel kibbutz Sasa quando aveva vent'anni e insieme al marito Yehuda ha cresciuto i suoi quattro figli. Insegna teatro, ha fondato il teatro dell'Arcobaleno - una compagnia di ragazzi ebrei, cattolici e musulmani - ed è autrice di due libri: "Un sì, un inizio, una speranza" edito dalla Casa Editrice Tempi e "Giù le maschere" edito da Proedi.
Questo è il racconto di una donna che vive vicino al Libano, che ogni giorno si confronta con le difficoltà di vivere in un paese costretto a difendersi da chi lo vuole distruggere, ma che non rinuncia alla speranza.

 
"Dopo la guerra torna la pace. Si stipulano accordi. Si leniscono le ferite, si piangono le vittime. Si comincia a ricostruire. Poco alla volta il dolore, la paura, le notti insonni e il ricordo degli spari, del terrore negli occhi diventano più lontani. Le immagini si affievoliscono. Nuove nascite, gioie e progetti sostituiscono incertezza e instabilità. Si ritorna alla vita. Nonostante le difficoltà, diventate abitudini con gli anni.
    Sono nata a Roma nel 1955 e sono cresciuta ascoltando le storie di mia madre e mio padre, le loro fughe sui monti, tra rifugi e conventi. Racconti di quando era proibito affermare di essere ebrei. Ci sono voluti decenni, ma per l'Europa la guerra è ormai un ricordo. Per Israele no. L'anno prossimo il nostro Paese compie 60 anni e in questo arco di tempo ha dovuto combattere sette guerre e affrontare due Intifade. E non è finita. Nel Sud del Paese hanno ripreso a cadere i missili Kassam su case e scuole, evacuate come accadde qui in Galilea. Quasi un anno fa.
    Vivo a Sasa, un kibbutz di confine. Basta aprire le finestre per vedere le colline del Libano e se si sale in cima alla torre dell'acqua, il punto più alto, si scorge la Siria a 60 chilometri in linea d'aria. Vorrei tanto dire che ormai ci siamo abituati alle guerre, che tutto è solo un ricordo, che abbiamo superato il trauma. Ma non è così. Al male, al dolore per i nostri morti e per quelli dell'altra parte non ci si abitua. E non hai neanche il tempo di riprenderti che sei già attaccato un'altra volta e devi difenderti, mandando la carne della tua carne su un nuovo fronte. Perché là, in prima linea, ci sono i nostri figli di 18, 20, 30 anni, i mariti, i fratelli, i padri, e quest'ultima guerra ci ha colto mentre stavamo ricostruendo con fatica la speranza. Dopo che ci eravamo disfatti delle maschere antigas contro Saddam, dopo che la barriera di difesa ci aveva dato qualche mese per regolarizzare il respiro, il sonno, la paura di un boato. Il rapimento dei nostri soldati e i missili degli Hezbollah arrivarono come un fulmine nel cielo sereno di luglio lasciandoci sbalorditi, sanguinanti, pieni di rabbia e sorpresa. Ma noi israeliani siamo impareggiabili nei momenti di emergenza: organizzati, efficienti, pronti a ogni evenienza. Un milione di persone lasciò la Galilea rifugiandosi da amici e parenti a Tel Aviv, Gerusalemme e nel resto di Israele. Riaprimmo i rifugi, incassammo tremila missili e, per non soccombere, dovemmo rispondere. E finalmente, dopo un mese, anche quella guerra finì.
    Ma la pace, nei nostri cuori, non è tornata, anche se le giornate hanno riacquistato la loro regolarità. Il kibbutz è una piccola città autosufficiente con la posta, la biblioteca, l'infermeria. C'è chi si divide tra la propria occupazione e le attività comuni (la cucina, la lavanderia, la falegnameria, l'elettricista). Molte delle abitudini che si erano instaurate per trovare un po' di conforto l'uno nell'altro durante la guerra sono diventate tradizione: ogni martedì nel Moadon, il nostro luogo di ritrovo, viene organizzato un sostanzioso happy hour per far sì che la gente continui a incontrarsi. Sembra che sia tornata la routine. Vent'anni fa mi venne un'idea: aprire un agriturismo all'italiana. Lo chiamammo "Una vacanza tra le nuvole" per ricordare che a Sasa siamo più vicini al cielo, a 900 metri di altezza. Oggi in Israele ci sono decine di Country Inn, come li chiamano qui, ma allora questa forma di accoglienza non esisteva e ricevemmo un premio dal ministero del Turismo. Da quando la guerra è finita ogni fine settimana è pieno di turisti da tutto il Paese.
    La tranquillità però non esiste. I bambini chiedono: " Ci riattaccheranno di nuovo? Che significa che gli hezbollah si stanno preparando? Perché sparano su Sderot? Ormai non ci sono più ebrei a Gaza…" Gli adulti serbano tutto dentro di loro, ma basta un accenno e Haled, musulmano di Jish, inizia a raccontare dei katiuscia che vide cadere vicino alla sua casa, dei 5 chili che perse per la paura, del piccolo Adi, figlio del suo amico ebreo Tomer, che si addormentava solo se lui veniva fino a Zfat a raccontargli una fiaba. Leah, del moshav (un altro tipo di comunità simile al kibbutz) religioso Dalton, racconta di come rimase chiusa in casa per un mese intero terrorizzata dai rombi dei missili. L'incontro mensile dei genitori del Teatro Beresheet LaShalom, la nostra fondazione per educare alla pace attraverso le arti, è diventato una sorta di riunione terapeutica dove ognuno, magari scherzando (come in una danza scacciademoni) parla delle vicissitudini di quell'ultima incredibile estate. Quando il 16 agosto tutti tornarono a casa sembrava che l'incubo fosse finito. Il 1° settembre le scuole riaprirono. Il ministero dell'Istruzione comunicò che "per regolarizzare al più presto la situazione" gli studi sarebbero dovuti iniziare come se nulla fosse accaduto. In una settimana le insegnanti ricevettero la preparazione per affrontare le domande e le paure degli alunni. I danni agli edifici furono riparati.
 

Perché la vita continua.

  La violenza non può spegnere lo spirito: il nostro Teatro dell'Arcobaleno di ragazzi ebrei ed arabi, da una media di 15 partecipanti è salito a 25 e si sono aggregati anche drusi del vicino villaggio di Hurfeish (dove sono cadute decine di missili). Turisti e pellegrini ricominciano a popolare la Galilea: Nazareth, il lago di Tiberiade, Tagba, il Monte delle Beatitudini. La preparazione di campeggi e colonie di bambini per l'estate è al culmine e i professori di una delegazione dell'università di Firenze, dopo l'incontro con le metodologie di educazione alla pace di Beresheet LaShalom vogliono aprire una cattedra dell'Unesco nel nostro Kibbutz e inviare studenti del master internazionale di pedagogia. Ma allo stesso tempo stiamo ristrutturando i rifugi: si cambiano le porte, si installa l'aria condizionata, si controlla il sistema idraulico. Sono i bambini i più preoccupati per tutta questa attività. Problemi che colpiscono anche il resto del mondo, come le grandinate che hanno danneggiato il raccolto delle pesche e delle ciliegie si aggiungono alle preoccupazioni giornaliere e alle notizie dei tafferugli a Gaza e del dispiegamento di forze sul confine con la Siria. A pranzo, ci ritroviamo a mensa ed è inevitabile parlare dell'emergenza che respiriamo. Eppure, vivere sul confine rappresenta una speranza. Una strada bianca. E le case costruite là, in Libano. Un giorno viaggiavo con mio marito, che mi disse: "Dove costruiscono case c'è una famiglia. E chi ha una famiglia vuole la pace".
    Continuiamo a seguire una visione che è parte di noi. I religiosi sostengono che queste non sono che "le doglie prima della venuta del Messia" che, come si sa, per noi ebrei non è ancora giunto. Ogni evento è parte in un disegno più grande. Quando lo scorso anno un amico di Repubblica mi chiese di scrivere le sensazioni che provavo sapendo che mio figlio soldato era sulla linea del Libano, non avrei immaginato che il mio sarebbe diventato un diario letto da migliaia di persone. E che mi avrebbero fermato per le strade di Verona, Alessandria e Cava de' Tirreni per dirmi che avevano sperato e tremato per noi che eravamo da una parte e dall'altra del confine. La sofferenza ha portato molti a riflettere non solo sulle ragioni e sui torti ma sulla vera essenza di una guerra. Una ragazza di Mantova ha preso spunto dai miei diari e da quelli della scrittrice libanese pubblicati per un mese sul quotidiano e ha preparato una mostra sulle donne che rincorrono la pace in tempi di guerra. Qualche giorno fa passeggiavo nel frutteto con la mia giovane amica che è venuta a Sasa come volontaria. Osservavamo i punti in cui erano caduti i katiuscia. Le ho raccontato che ho lavorato là per molti anni: "Nell'81, quando entravano ogni giorno terroristi dal Libano, mentre aspettavo il primo dei miei quattro figli, sola in mezzo ai meli, un pastore arabo tentò di aggredirmi. Tremando estrassi un piccolo coltello a scatto che lo lasciò stupito per un attimo. Ebbi il tempo di correre al mio trattore e  fuggire col cuore in gola. Ero incinta di due mesi e dopo qualche tempo scoppiò la guerra Pace in Galilea. Yehuda, mio marito, fu tra i primi reclutati. Portai a termine la gravidanza da sola, in una delle estati più torride mai registrate in Israele. Gal nacque a settembre e potei riabbracciare Yehuda….".
    Ci fermiamo e guardiamo il confine, così vicino. Lei mi dice: "Deve essere stato un bambino molto forte Gal. E' voluto nascere a tutti i costi!". Sì, è forte. Come tutte le persone che sognano una vita normale anche quando sembra che non ci siano più speranze. Affinché quella sia stata la nostra ultima guerra."

(Donna, 23 giugno 2007 - ripreso da Informazione Corretta)





3. DESIDERIO DI GUERRA




Hezbollah si prepara alla prossima guerra con Israele

Il Partito di Dio continua a ricevere armi moderne ed efficienti, sta fortificando le sue posizioni e si muove anche nelle zone controllate dai caschi blu e dall'esercito libanese. D'altro canto, secondo alcuni esperti, lo Stato ebraico deve riaffermare la sua assoluta superiorità militare, messa in ombra dal conflitto dell'estate scorsa.

BEIRUT (AsiaNews) – Hezbollah si sta preparando per la prossima guerra con Israele, nella certezza che scoppierà, anche se non subito. Il rapporto dell'Onu che denuncia il traffico di armi attraverso la frontiera tra Siria e Libano conferma, indirettamente, che Hezbollah si sta riarmando. D'altro canto il suo leader Sayyed Hassan Nasrallah, ha apertamente sostenuto che il Partito di Dio ha rimpiazzato l'armamento usato o perso durante il conflitto con Israele; ancora all'inizio di questo mese, l'esercito libanese ha intercettato un camion carico di armi delle quali Hezbollah ha dichiarato di essere il destinatario.
     E se nessuno pensa che siano concretamente applicabili le risoluzioni dell'Onu che imporrebbero il disarmo delle milizie presenti in Libano, sono invece numerosi i segnali che il Partito di Dio si prepara ad un nuovo conflitto con Israele. In proposito, Timur Goksel, già portavoce dell'Unifil ed attuale docente all'American University di Beirut, sentito dall'Afp, citata da An Nahar, mette in luce il fatto che "Israele non può vivere in Medio Oriente nella convinzione che è stato battuto da Hezbollah, una milizia". "Fin dal 1949 – egli aggiunge – vivono nella reputazione dell'imbattibilità del soldato israeliano, dell'invincibile esercito israeliano, la leggenda. E adesso vengono gli Hezbollah che dicono: 'vi abbiamo battuto'. Debbono correggere questo. Non hanno altra scelta, debbono ristabilire la loro credibilità".
    "Hezbollah – a suo avviso – sa bene tutto questo e si prepara a tempo pieno". Ciò avviene anche nelle zone di confine controllate dai caschi blu e dall'esercito. Il fatto è che i militanti sciiti sono così accettati dagli abitanti dei villaggi, che nessun estraneo riesce a sapere cosa accade.
     L'Unifil, secondo l'ex generale libanese Whebe Katisha "non sa niente di ciò che accade nella zona sciita. E la situazione non è facile neppure per l'esercito libanese, perché non abbiamo abbastanza uomini né mezzi". Il militare sottolinea un altro aspetto della questione: "Hezbollah è l'avanguardia dell'Iran verso Israele", per cui "se l'Iran fosse attaccato, tutti sanno che la risposta comincerà con Hezbollah". "E Hezbollah è un misto dei metodi militari della guerriglia tradizionale e di armi molto moderne ed efficienti".
     Mentre invece il quotidiano spagnolo El Pais, in un articolo dedicato ai sei militari uccisi in Libano, ha rivelato che secondo il Ministero della difesa di Madrid la gran parte delle forze militari presenti nell'Unifil, non posseggono nei loro veicoli corazzati un inibitore di frequenza, lo strumento che blocca le bombe azionate da un controllo remoto

(AsiaNews, 28 giugno 2007)





4. IN ISRAELE LA VITA CONTINUA




Israele bunker high tech

di Naomi Klein

Seppure in stato di guerra, il Paese conosce un grande boom economico. Grazie alle tecnologie sviluppate per difendere il suo territorio. Che ora vende in tutto il mondo.

Gaza nelle mani di Hamas e miliziani incappucciati sulla poltrona del presidente. La Cisgiordania al collasso. L'esercito israeliano che in tutta fretta predispone accampamenti sulle Alture del Golan. Un satellite spia che sorvola Iran e Siria. Il rischio di una guerra contro gli Hezbollah a breve scadenza. Una classe politica travagliata dagli scandali che deve far fronte a una perdita totale di fiducia da parte dell'opinione pubblica.
    Di primo acchito, le cose non vanno granché bene per Israele. Ecco palesarsi però un interrogativo: perché nel bel mezzo di tale caos e di tale carneficina l'economia israeliana è in pieno boom come fosse il 1999? Perché il suo mercato azionario è in rialzo e i suoi tassi di crescita si avvicinano a quelli della Cina?
    Qualche giorno fa sulle pagine del 'New York Times' Thomas Friedman ha illustrato una sua teoria in proposito. Israele "sostiene e premia l'inventiva individuale", e di conseguenza gli israeliani sfornano a getto continuo ingegnose start-up high tech, a prescindere dallo sconquasso causato dai politici israeliani. Dopo aver letto attentamente i progetti elaborati dagli studenti delle facoltà di ingegneria e informatica dell'Università Ben Gurion, Friedman ha fatto una delle sue celebri dichiarazioni sibilline: "Israele ha scoperto il petrolio". Il petrolio, apparentemente, si trova nei cervelli dei "giovani innovatori e dei venture capitalist" israeliani, troppo impegnati a stringere accordi megagalattici con Google per lasciarsi fermare dalla politica.
    Ecco un'altra teoria: l'economia israeliana non è in piena espansione malgrado il caos politico che fa incetta di titoli sulle prime pagine dei giornali, ma grazie a esso. Questa fase di sviluppo risale alla metà degli anni Novanta, quando Israele era all'avanguardia nella rivoluzione informatica, era l'economia più dipendente al mondo dalla tecnologia. Quando nel 2000 è scoppiata la bolla delle dot-com, l'economia israeliana ne è rimasta sconvolta, e ha dovuto affrontare il suo peggior anno dal 1953. Poi è stata la volta dell'11 settembre, e all'improvviso si sono aperte nuove rosee prospettive per qualsiasi società dichiarasse di poter consentire l'individuazione di terroristi in mezzo alla folla, rendere le frontiere impermeabili a un attacco e ottenere confessioni da prigionieri dalla bocca cucita.
    Nel volgere di tre anni, buona parte dell'economia israeliana basata sull'high tech si è completamente riconfigurata allo scopo di soddisfare le nuove esigenze. Per dirla con Friedman, Israele è passato dall'aver inventato strumenti di networking per un 'mondo piatto' a vendere barriere a un pianeta di apartheid. Molti degli imprenditori di maggior successo del Paese sfruttano lo status di Stato-fortezza di Israele, circondato da nemici agguerriti, come una sorta di showroom aperto ventiquattro ore al giorno, esempio tangibile di come godere di una sicurezza relativa nel pieno di una guerra senza tregua. Il motivo per il quale Israele sta vivendo una supercrescita è che queste aziende stanno attivamente esportando questo modello in tutto il mondo.
    Quando si parla di traffici di armi di Israele di solito ci si concentra sul flusso di armi che entrano nel Paese, per esempio i bulldozer Caterpillar di fabbricazione statunitense utilizzati per distruggere le case in Cisgiordania, oppure le aziende britanniche che forniscono componenti per gli F-16. Si trascura invece di prendere in considerazione il business delle esportazioni israeliane, considerevole e in espansione. Attualmente Israele spedisce negli Stati Uniti prodotti per la difesa per 1,2 miliardi di dollari. Un incremento non indifferente rispetto ai 270 milioni di dollari del 1999. Nel 2006 Israele ha esportato nel complesso 3,4 miliardi di dollari di articoli per la difesa, di molto superiori al miliardo di dollari che riceve in aiuti militari dagli Stati Uniti. Tutto ciò rende Israele il quarto commerciante d'armi al mondo, tanto da aver scavalcato la Gran Bretagna.

(L'Espresso, 26 giugno 2007)

prosegue ->
5. UN'ANALISI OTTIMISTICA DELLA SITUAZIONE




Piccoli segnali di cambiamento

L'intransigenza di Hamas e la minaccia iraniana spingono a nuove inaspettate aperture da parte dei Paesi arabi moderati.

di Emanuele Ottolenghi

Sono passati undici mesi dal rapimento di Gilad Shalit a Gaza e dalla guerra tra Israele e Hezbollah in Libano. La guerra dell'estate scorsa è generalmente considerata come uno scacco per Israele. Oltre ai contenuti dell'inchiesta della Commissione Winograd che puntano il dito contro la leadership israeliana, c'è il sentimento diffuso di una nazione che ritiene di aver sostanzialmente pagato un prezzo troppo alto a causa di un processo decisionale errato, condotto da persone impreparate e attuato con mezzi inadeguati e insufficienti.
    Due elementi suggeriscono come tale lettura sia corretta: intanto l'opinione diffusa nel mondo arabo di una Hezbollah vittoriosa eppoi il fatto che gli obbiettivi principali del governo Olmert - la liberazione dei soldati israeliani presi in ostaggio e la sconfitta definitiva di Hezbollah - non sono ancora stati raggiunti.
    A un anno dalla guerra del Libano, il mondo arabo è in subbuglio, il terreno libanese brucia e molti si aspettano un nuovo round di conflitto nei prossimi mesi, che potrebbe estendersi alla Siria. Le impronte digitali dell'Iran si trovano in ogni teatro di crisi mentre la crisi a Gaza - che il disimpegno israeliano dalla Striscia non ha contribuito a migliorare - ha rivelato la profonda spaccatura tra palestinesi e l'incapacità dei loro leader di essere uniti da null'altro che l'odio per Israele.
    Il mondo occidentale per canto suo sembra paralizzato di fronte alle sfide mediorientali, preso tra il martello del caos arabo che va da Baghdad a Gaza e l'incudine del desiderio di stabilità, che passa per il dialogo con Damasco e Teheran. L'Europa insiste nell'auspicare - e nel credere - in una pace tra Israele e palestinesi prima della fine del 2007, resistendo solo a fatica e solo per ora alla tentazione di cedere alle pressioni per un dialogo con Hamas e di porre fine all'embargo economico contro l'Autorità Palestinese.
    Di fronte a questo scenario che dall'Iraq al Libano, da Gaza al Golfo Persico vede l'Occidente in affanno e il radicalismo in ascesa, la situazione d'Israele appare davvero preoccupante e il desiderio morboso di sacrificare Israele sull'altare dell'accomodamento con il mondo arabo ritorna a essere un rischio reale.
    Ma sarebbe un errore lasciarsi sedurre da questa analisi. La realtà è molto meno grave e le opportunità per Israele sono al meglio degli ultimi sette anni, da quando cioè è iniziata l'Intifada. La verità è che la guerra tra Israele e Hezbollah ha costretto il mondo arabo a guardare in faccia la realtà di un Iran sempre più aggressivo e sempre più radicale e riconoscere che anche dal loro punto di vista il vero pericolo per la regione è Teheran oggi, non Israele. Non solo, ma esiste anche un lento riconoscimento - non pubblicamente e forse a malincuore - che Israele è un partner, non un nemico, e che i palestinesi sono una causa persa, non una da sostenere a qualsiasi prezzo. Un'indicazione di questo epocale cambiamento deriva dal rinnovo della proposta di pace saudita, nella sua versione riveduta e corretta dalla Lega Araba. I contenuti, è vero, non sono realistici, ma in questo contesto va riconosciuto l'intento nell'insieme, non il dettaglio del piano, che segnali sempre più forti indicano essere negoziabile. Importa insomma meno la sostanza del testo e più la volontà generale dei Paesi sunniti moderati e allineati con l'Occidente di aggirare l'ostacolo palestinese e negoziare direttamente con Israele. L'ammissione stizzita da parte del Presidente egiziano Hosni Mubarak che con Hamas è impossibile negoziare, insieme al riconoscimento da parte del monarca giordano, Re Abdullah II, che i rifugiati palestinesi dovranno rinunciare al cosiddetto 'diritto al ritorno' - frasi entrambe pronunciate lontano dai riflettori e puntualmente smentite peraltro - indicano dove soffi il vento in Giordania ed Egitto oggi. Tanto che persino alcuni intellettuali palestinesi - si pensi soltanto a Hanna Siniora, alcuni anni fa un beniamino dei salotti televisivi italiani - hanno recentemente sostenuto la necessità di sostituire l'occupazione israeliana con un accordo sulla falsariga dell'iniziativa della Lega Araba che schieri in Cisgiordania e Gaza truppe della Lega Araba, preferibilmente giordane ed egiziane, visti i loro già firmati accordi di pace con Israele. Il ritorno di una benevola occupazione araba in quei territori riporterebbe la situazione allo status quo ante il 1967 ma significa soprattutto il riconoscimento da parte di importanti voci palestinesi della palese incapacità della loro leadership di potersi guadagnare autonomia e indipendenza da soli.
    Anche in Libano le cose stanno andando per il meglio. A dispetto dei silenzi imbarazzati dei nostri politici italiani che negano l'evidenza, l'Onu ha sostanzialmente riconosciuto che il riarmo di Hezbollah procede rapidamente in barba alle risoluzioni Onu e alla presenza Unifil, e che i guai provengono da Damasco e Teheran. La mano pesante che la Siria gioca in Libano non ha impedito all'Onu di insistere sul tribunale internazionale per la morte del premier libanese Rafiq Hariri, un'inchiesta che potrebbe arrivare fino al Presidente siriano, Bashar el-Assad stesso. Nonostante le indecisioni europee, nessuno è disposto ad abbandonare il premier libanese, Fouad Seniora, al destino del suo predecessore. Certo, il meccanismo Unifil è inadeguato, ma esiste oggi un'atmosfera internazionale e una situazione interna in Libano che giocano a favore degli interessi israeliani, proprio in virtù del fatto che per la prima volta gli interessi del mondo arabo sunnita moderato e dell'occidente convergono in Libano con quelli israeliani. Pur non essendo ideale, questo nuovo scenario offre opportunità a Israele fino a ieri inesistenti.
    L'Iran intanto ha scoperto di aver perso un altro prezioso alleato - i russi - e che l'Europa, a dispetto dei suoi interessi mercantili non ha altra scelta che sostenere un nuovo round di sanzioni - che si aggiunge a quelle già approvate negli ultimi mesi e che farà ancora più danno a un regime già in difficoltà dalle misure finora attuate. L'apertura al dialogo tra Usa e Iran sul tema specifico dell'Iraq non inficia a questo processo di sostanziale isolamento dell'Iran, acuito da un crescente consenso internazionale che include in maniera compatta i paesi del Golfo, che l'Iran è una minaccia per la stabilità regionale che riguarda tutti, non solo e nemmeno soprattutto Israele.
    Tutto questo non toglie alle mancanze e agli errori commessi dalla leadership israeliana nell'estate 2006 nè risolve i problemi messi a nudo da quella guerra. Non risolve i problemi in Libano o la minaccia iraniana. E la crisi sempre più grave a Gaza - dove l'anarchia e l'implosione della società rendono ormai improbabile uno Stato palestinese in questa generazione - non è chiaramente un problema palestinese soltanto, ma anche israeliano, la cui continuazione non farà altro che aggravare. Ma occorre guardare la situazione attuale in una prospettiva diversa, e rendersi conto che oggi, forse per la prima volta dall'autunno del 2000, Israele si trova in una posizione diplomatica e strategica positiva, a dispetto dell'inconcludente risultato militare dell'estate scorsa e che insieme ai rischi evidenti, ci sono notevoli possibilità che, se ben sfruttate, beneficeranno Israele a scapito dei suoi nemici più duri.

(Shalom, 23 giugno 2007)





6. LEGITTIMITA' TERRORISTICA




In Cisgiordania, i municipi di Hamas difendono la loro "legittimità"

di Gilles Paris

Le Monde, 27 giugno 2007

QALQILIYA, JAYYUS (Cisgiordania) – Nelle bacheche, le medaglie in onore dei fondatori di Hamas, Ahmed Yassine e Abdel Aziz al Rantissi, uccisi da Israele nel 2004, sono sempre in vista nell'ufficio del sindaco. Proprio come gli eletti islamisti che hanno ottenuto nel 2005 la città di Qalqiliya, anche se, oramai, rasentano i muri. All'indomani dell'atto di forza di Hamas a Gaza, i miliziani di Fatah sono venuti a manifestare la propria rabbia davanti al municipio. I vetri sono stati frantumati, alcuni militanti islamisti sono stati arrestati, altri picchiati.
    Poco loquace sull'argomento, il sindaco ad interim, Ouajih Qaouas, acconsente solo a indicare che "una decina di persone" sono state messe in galera, mentre altri membri di Hamas danno la cifra più precisa di 52. "Ci siamo riuniti con i notabili della città, tutte correnti politiche diverse, e il governatore per portare la situazione alla calma", spiega. Il sindaco ad interim sostiene di avere ricevuto di recente un corriere del nuovo ministro delle Comunità locali, Ziyad al Bandak, per confermarlo nelle sue funzioni. "Non è questione di dimissioni, ai suoi occhi siamo legittimati", afferma. Senza rinnegare le sue convinzioni islamiste, riconosce per necessità il governo d'emergenza messo in piedi da Mahmoud Abbas a Ramallah e il cui potere si limita di fatto alla Cisgiordania.

(OsservatorioIraq, 29 giugno 2007)





7. I DIRITTI «UMANI» DI ORGANISMI DISUMANI




Contro Israele l'arma grottesca dei diritti umani

di Harry Wall*

Gli attivisti per i diritti umani hanno molto per cui essere allarmati in queste settimane. Le bande di Hamas hanno conquistato Gaza con incredibile violenza. In Iran, secondo nuovi rapporti, c'è il più alto tasso al mondo di esecuzioni di bambini. In Cina, il New York Times ha pubblicato un devastante reportage sulla schiavitù minorile nelle miniere gestite dallo stato. In Darfur il genocidio continua.
    Ma la comunità internazionale preferisce ignorare tutto questo, e molte altre violazioni dei diritti umani ad opera di entità statali. Piuttosto concentra ancora una volta la sua attenzione su Israele. Nel Regno Unito, il maggiore sindacato ha lanciato una campagna di boicottaggio contro Israele. A Ginevra, il Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu ha adottato un'agenda da cui ha eliminato la Bielorussia e Cuba dalla lista di verifica permanente e vi ha lasciato un solo paese: Israele.
    Entrambe queste azioni non sono solo un capo d'accusa contro coloro che proclamano la loro preoccupazione verso i nemici della democrazia. Ma rivelano che l'accanimento contro Israele è il frutto dell'eterna malattia dell'antisemitismo.
    Cominciamo dal boicottaggio inglese. La decisione dell'esecutivo nazionale del UNISOM stabilisce di tagliare "tutte le relazioni economiche, culturali, accademiche e sportive con Israele fino a quando il muro dell'apartheid e l'occupazione non saranno terminate". L'azione del sindacato segue di qualche settimana altre iniziative di boicottaggio anti-israeliano in Inghilterra. La più grande organizzazione dei docenti universitari ha recentemente chieste ai suoi membri di interrompere qualsiasi rapporto con i loro colleghi israeliani, presumibilmente per la loro "collaborazione" con l'occupazione della palestina.
    Tom Friedman, l'autorevole columnist del NYT, ha così criticato quella parte dell'Università inglese che ha sostenuto il boicottaggio: "Isolare l'Università israeliana con un boicottaggio punitivo è frutto del peggiore anti-semitismo. Diamoci un'occhiata in giro: la Siria è sotto inchiesta dell'Onu per l'assassinio dell'ex primo ministro libanese, Rafik Hariri. Agenti siriani sono sospettati dell'uccisione di alcuni tra i migliori giornalisti democratici libanesi, Gibran Tueni e Samir Kassir. Ma niente di tutto ciò smuove la sinistra per chiedere un boicottaggio delle università siriane. Perché? Il Sudan persegue il genocidio nel Darfur. Perché non si boicotta il Sudan?"
    Il fatto che alcuni tra i migliori medici e ricercatori del mondo non potranno più avere a che fare con le Università del Regno Unito, non fa differenza per questi fanatici (forse dovrebbero spegnere anche i loro computer visto che il chip IntelPentium che molti usano è stato sviluppato in Israele). Neppure interessa loro il gran numero di bambini palestinesi che vengono curati negli ospedali israeliani o che presso le Università di quel pese studiano moltissimi arabi e palestinesi. La logica e la verità non hanno spazio quando sono all'opera sentimenti anti-israeliani e anti-semiti.
    Ma non sono solo i sindacati inglesi a operare boicottaggi contro Israele. Il mese scorso anche l'unione dei giornalisti inglesi ha chiesto l'isolamento di Israele. Pensateci solo un momento. I giornalisti dovrebbero essere imparziali e cercare notizie e fatti per le loro storie, invece chiedono il bando di Israele. Non della Russia di Putin dove la libera stampa è stata annientata; non dei paesi arabi dove i media sono solo organi di propaganda del governo; non in Cina dove addirittura internet è censurata per proteggere il governo dalle critiche. No, il bando si chiede per Israele, l'unico paese del Medio Oriente ad avere una stampa libera e indipendente.
    Questi boicottaggi non hanno in realtà niente a che fare con l'occupazione o con la solidarietà verso i palestinesi. Qualcuno di costoro ha notato che Israele si è ritirata da Gaza l'anno scorso? E hanno visto i risultati?
    A Ginevra, dove il Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu è stato smantellato l'anno scorso visto che i paradossi erano divenuti eccessivi anche per Kofi Annan (la Libia aveva la presidenza), è stato istituito un nuovo organismo. Ma il nuovo consiglio si è subito dimostrato altrettanto viziato come il precedente. Il rispetto per i diritti umani non è richiesto per farne parte: Russia, Cuba, Angola e Arabia Saudita sono tutti membri del consiglio. E anche questa volta il genocidio nel Darfur è ignorato: neppure una risoluzione contro il Sudan è stata proposta, mentre nove risoluzioni sono state approvate in un anno contro Israele.
    Il Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu ha sorpassato il precedente in ipocrisia nella sua ultima sessione. Ha fatto uscire la Bielorussia e Cuba dalla lista dei paesi che richiedono una sorveglianza permanente e vi hanno lasciato solo Israele.
    Gli Stati Uniti, hanno visto che il nuovo consiglio non differisce in nulla dal precedente e hanno preferito rimanerne fuori. Un alto funzionario del Dipartimento di Stato ha accusato il consiglio di avere "una ossessione patologica verso Israele". Per raggiungere il "consenso", l'Unione Europea ha dato il via libera alla decisione di rendere permanente i monitoraggio sugli abusi commessi da Israele. Solo il Canada si è opposto a questa grottesca decisione.
    E così è passata un'altra settimana in cui il concetto di diritto umano è stato capovolto. Nessuno degli oppressi della terra trarrà alcun vantaggio dalle continue condanne contro Israele. L'Isolamento di Israele, previsto dal boicottaggio inglese e la demonizzazione del paese perpetuata dall'Onu a Ginevra, contengono in realtà gli elementi chiave per un solo scopo: delegittimare lo Stato degli ebrei. Si tratta di una minaccia senza tempo e si chiama anti-semitismo. Solo che oggi si ammanta con vesti della difesa dei diritti umani. E' troppo pericoloso per essere ignorato.

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* Harry Wall è consigliere della Anti-Defamation League

(L'Occidentale, 29 giugno 2007)





8. ISRAELE ISTITUISCE UN CENTRO PER LO STUDIO DELL'ARABO




L'arabo all'accademia

In un momento così grave, resta spazio per un filo di speranza? Evidentemente sì, almeno se si pensa alla legge che la Knesset, il parlamento israeliano, ha votato il 21 marzo scorso. Un legge che istituisce in Israele un'accademia per la lingua araba. Non era mai successo prima, in un paese non arabo.

Centro d'eccellenza.
E se succede in Israele, significa molto di più. Non a caso, prima dell'approvazione, la Knesset ha dibattuto per mesi sull'opportunità di prendere questa decisione, sostenuta da parlamentari ebrei e arabo-israeliani, ma osteggiata da molti deputati.
"L'accademia costituirà un ponte tra gruppi di diversa cultura in Israele, e tra Israele e i suoi vicini," ha commentato il deputato laburista Michael Melchior, uno dei sostenitori dell'iniziativa volta a promuovere la lingua araba e a coniare nuovi termini.
L'accademia verrà istituita dal ministero israeliano dell'Educazione e lavorerà coordinandosi in parallelo con un'accademia per la lingua ebraica, promuovendo ricerche attorno agli antichi legami tra le due lingue, ebraica e araba. Gli studiosi approfondiranno anche la terminologia araba, la
grammatica, la dizione e l'arabo scritto. L'accademia studierà la lingua moderna e i nuovi termini, nati dall'avvento delle nuove tecnologie.

Un primo passo. Abbiamo compiuto un altro passo in avanti verso l'eguaglianza," ha aggiunto la deputata laburista Nadia Hilu, riferendosi alla comunità arabo – israeliana, il 20 per cento della popolazione d'Israele, che lamenta discriminazioni nella società israeliana. "Il riconoscimento dell'arabo quale lingua ufficiale ha avuto sin qui soltanto una funzione cosmetica e superficiale," ha affermato l'onorevole arabo – israeliano Tibi, sottolineando come le segnalazioni in lingua araba all'aeroporto internazionale di Israele erano soltanto un paio prima che, due anni fa, lui stesso si lamentasse di tale lacuna.
L'iniziativa è volta a colmare anche la lacuna, emersa da studi recenti, riguardo al fatto che solo una minoranza di ebrei israeliani studia la lingua araba a un livello avanzato, in parte perché si tratta di una materia che nelle scuole superiori è considerata opzionale e non obbligatoria.
L'accademia non risolverà il problema dell'occupazione militare, del muro di separazione e della violazione dei diritti umani subite dai palestinesi, non cancellerà le discriminazioni subite dagli arabo – israeliani, e non farà cessare il lancio di razzi Qassam verso Israele. Ma è una buona notizia, e di questi tempi è preziosa come l'oro. Ch.E.

(PeaceReporter, 20 giugno 2007)

COMMENTO - Per molti, il "buono" che Israele fa è sempre troppo poco e quindi serve soltanto a far risaltare il "cattivo".





MUSICA E IMMAGINI




Ma Avarehk




INDIRIZZI INTERNET




Terrorism Awareness Project

The Messianic Times




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