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Notizie su Israele 423 - 6 maggio 2008

1. Intervista a Benyamin Netanyahu
2. Vite umane salvate dallo sterminio
3. La stampa ebraica sottovalutò il fenomeno nazista
4. Storie di italiani in Israele
5. Nuovo rapporto dell'Università di Tel Aviv
6. Una testimonianza di Luciano Segre
7. Evangelici e messianici in Israele
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Gioele 3:1-2. In quei giorni, in quel tempo, quando ricondurrò dall'esilio quelli di Giuda e di Gerusalemme, io adunerò tutte le nazioni, e le farò scendere nella valle di Giosafat. Là le chiamerò in giudizio a proposito della mia eredità, il popolo d'Israele, che esse hanno disperso tra le nazioni, e del mio paese, che hanno spartito fra di loro.
1. INTERVISTA A BENYAMIN NETANYAHU




Ora Israele confina con l'Iran

di Francesca Paci

Benyamin Netanyahu
Benyamin Netanyahu siede alla scrivania del suo ufficio alla Knesset, il parlamento israeliano sui colli di Gerusalemme. Completo scuro, camicia celeste, sorriso assertivo di chi è pronto a traslocare al piano nobile del primo ministro, il leader dell'opposizione però prima di rispondere alle domande ne fa a raffica: Silvio Berlusconi può contare su una maggioranza stabile? La Lega è un alleato sicuro? Che contributo potrà dare Gianfranco Fini? L'Italia lo interessa, «un Paese piccolo ma importante». Un alleato «storico» d'Israele sebbene a volte percepito come recalcitrante.
Il premier israeliano Olmert si è rammaricato per «l'incidente» di Beit Hanun in cui hanno perso la vita 4 bambini palestinesi.

La situazione a Gaza è grave: c'è da aspettarsi un'escalation?
«Quanto accaduto a Gaza è drammatico. Che siano palestinesi o israeliani i civili sono civili. Ma c'è una differenza enorme: quando Hamas bersaglia da Gaza le scuole di Sderot o del Negev punta deliberatamente la popolazione civile, noi cerchiamo di evitarla. Israele si confronta militarmente con gente che usa donne e minori come scudi umani. Siamo addolorati per la famiglia decimata a Gaza. Avete mai sentito un leader palestinese piangere le nostre perdite, i bambini, gli anziani? L'opposto: a ogni attentato, a ogni razzo Qassam che centra l'obiettivo, i sostenitori di Hamas si rallegrano, fanno festa».

Chi è il leader palestinese attualmente più credibile?
«La situazione è tragica. Il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen è molto debole e per Israele l'ipotesi di parlare con Hamas è impraticabile. Non si incontra qualcuno che non ti riconosce. Quando abbiamo trovato leader arabi coraggiosi, come Sadat o re Hussein, abbiamo fatto concessioni generose alla pace. Ma in tutti questi anni i palestinesi non hanno prodotto un Sadat. Oggi abbiamo di fronte un partner volenteroso ma politicamente debole e Hamas, potente proprio perché irriducibile».

Sderot conta più razzi che attestati di solidarietà, le colonie ebraiche in Cisgiordania aumentano, qualcuno comincia a dubitare della formula «due Stati per due popoli»: come vede il futuro?
«L'unica soluzione è rafforzare economicamente la società palestinese. Noi abbiamo bisogno di sicurezza, loro di prosperità, possibilmente con l'assistenza della Giordania. A lungo, prima e dopo Oslo, si è creduto che la pace fosse l'antefatto alla prosperità. Molti Paesi, come l'Irlanda, mostrano che talvolta è vero il contrario. Non dico che la prosperità sostituisca la pace, ma la può incoraggiare. Dipendesse da me lavorerei a una rapida crescita dell'economia palestinese in Cisgiordania, lo sviluppo rafforzerebbe i leader moderati a danno dei fondamentalisti islamici. Allora, solo allora, penserei a un accordo di pace».

Facendo a meno di Gaza?
«Gaza ha bisogno di una leadership diversa. Con Hamas non possiamo parlare. Il presidente egiziano Mubarak dice che ormai l'Egitto confina con l'Iran: si riferiva a Gaza. Cosa dovrebbe dire Israele che non ha neppure il Sinai a fare da cuscinetto? Da quando Hamas è al potere abbiamo contato 4 mila razzi: come reagirebbe l'Italia se fosse bombardata ogni giorno da un Paese limitrofo? Hamas deve tirarsi indietro».

Alcuni analisti ritengono che gli interessi americani inizino a divergere da quelli israeliani. E' d'accordo? E' preoccupato?
«Gli Usa hanno la loro politica estera e nazionale. Ma da Truman in poi il sostegno a Israele è rimasto stabile. Se domandate agli americani chi preferiscono tra noi e i palestinesi il rapporto è di 9 a 1. L'Europa non capisce, spiega l'amicizia tra Israele e Usa con l'influenza della lobby ebraica, importante ma numericamente poco significativa. Il nodo non è l'ebraicità d'Israele ma la sua libertà, l'essere un'isola democratica circondata da Paesi islamici autoritari».

Potendo, voterebbe McCain, Barack Obama o Hillary Clinton?
«Non ho un candidato da sponsorizzare. Ma sono convinto che chiunque venga eletto non metterà in discussione i valori, le idee, l'identità americana. L'Europa travisa perché guarda Israele con le lenti del colonialismo, quasi fossimo arrivati qui come i francesi o gli olandesi in Africa e non avessimo alle spalle tremila anni di rapporto con questa terra. Gli americani, estranei all'esperienza coloniale, colgono meglio la profondità della nostra esperienza, l'aspirazione alla libertà, un patrimonio biblico che ci accomuna sin da quando Jefferson definì la nascita degli Usa "la rinascita di Zion"».

Secondo il Jerusalem Post l'Europa è pronta a sanzioni contro Melli Bank, una delle principali istituzioni finanziarie iraniane. E l'Italia sarebbe della partita. Una buona notizia per Israele?
«Se vera è una notizia importante. L'Iran, che nega l'Olocausto, non minaccia solo Israele ma l'intero Occidente. Teheran supporta direttamente l'islam militante globale. Il sostegno europeo sarebbe benvenuto e quello italiano ancor di più: il segno di un cambiamento nella politica estera incoraggiato dal nuovo governo».

Tra gli elettori del centrodestra italiano ci sono i ragazzi che lunedì hanno accolto con il saluto romano l'elezione di Alemanno sindaco di Roma. Non l'imbarazza?
«Ogni governo democratico deve rigettare il vecchio e il nuovo fascismo e ogni tipo di ideologia estremista. Non conosco queste frange dell'estrema destra italiana. Ma ho parlato a lungo con il Cancelliere tedesco Angela Merkel di alcuni casi in Germania, vanno messi al bando. Ci siamo trovati d'accordo nella volontà di combatterli con forza».

(La Stampa, 30 aprile 2008)





2. VITE UMANE SALVATE DALLO STERMINIO




Fuga per la vittoria grazie a due italiani

di Filippo Maria Battaglia

Ottobre 1939: da poco più di un anno l'Italia ha iniziato ad emanare le leggi razziali. Gli ebrei sono espulsi «dalle scuole del Regno», «sollevati dagli incarichi e dalle cattedre universitarie», cacciati dagli impieghi pubblici. Nel frattempo, a Varsavia il capo della polizia di sicurezza nazista, Reinhard Heydrich, dà ordine di costituire il Consiglio ebraico, il cosiddetto Judenrat. Ed impone la concentrazione degli ebrei: circa 150.000 persone devono essere aggregate in un'unica area entro tre giorni. Nel marzo del 1940, la zona sarà definita «infetta». Il 27 dello stesso mese lo Judenrat riceverà l'ordine di costruire un muro perimetrale: cingerà ciò che resterà tragicamente noto come «Ghetto di Varsavia».
    In quelle settimane, due diplomatici italiani, Mario Di Stefano e Giovanni Vincenzo Soro, spesso con il tacito consenso di alcuni dei più alti gerarchi fascisti, salveranno migliaia di polacchi ebrei. Fino ad oggi, la notizia è rimasta praticamente inedita. La vicenda è ora raccontata da Sergio L. Minerbi nel numero della rivista Nuova Storia Contemporanea diretta da Francesco Perfetti (Le Lettere, pagg.168, euro 10,50), che sarà in libreria da lunedì prossimo.
    Dopo l'occupazione nazista di Varsavia, il 29 settembre 1939 quasi tutto il personale dell'ambasciata italiana di stanza in Polonia abbandona la capitale e, insieme con il governo polacco, va in Romania. Da lì, dopo venti giorni, fa rotta in Italia. L'unico che non rientra è Vincenzo Soro, a cui nei giorni seguenti è trasmessa «l'autorizzazione tedesca a recarsi per 15 giorni a Varsavia per chiudere l'Ambasciata». Resterà li per sette mesi e insieme con Mario Di Stefano salverà dallo sterminio nazista migliaia di ebrei e di aristocratici polacchi.
    In Polonia, le notizie di deportazioni e di stermini di massa sono all'ordine del giorno. Di una Soro è addirittura testimone oculare: «A quell'epoca, - racconta il diplomatico in una testimonianza inedita rilasciata allo stesso Minerbi e pubblicata dalla rivista - fui per combinazione presente a un eccidio effettuato dalle truppe tedesche in un parco nelle immediate vicinanze di Varsavia». Dopo la strage, il diplomatico decide così di scrivere «due rapporti che Ciano (allora ministro degli Esteri ndr), non voleva presentare a Mussolini per non farmi passare dei guai, ma io lo pregai di farlo lo stesso, e infatti vennero consegnati direttamente a Mussolini».
    Le due relazioni hanno l'effetto sperato: «Ricevetti subito una risposta del Conte Vidau (plenipotenziario al ministero degli Esteri, ndr), il quale mi autorizzò a rilasciare i visti necessari per salvare polacchi ebrei e non ebrei. Cominciai così a rilasciare i visti mentre in strada si allungava la fila dei richiedenti».
    Tra questi, c'è anche il rabbino capo di Góra Kalwaria, Avraham Mordechai Alter, che in Polonia viene chiamato il «Papa degli ebrei»: con oltre 100.000 fedeli, la sua è una delle più importanti comunità di Hassidim in Polonia. In quella circostanza è «Mussolini stesso - racconta Soro - a darmi istruzioni di ottenere che Alter e la sua famiglia potessero espatriare e recarsi in Palestina».
    Passano diverse settimane, ma il flusso di richieste non diminuisce. La disponibilità italiana è ormai sospetta, tanto che al consolato si affollano affaristi che tentano di farsi consegnare il visto più volte per poi rivenderlo. E giorno dopo giorno Berlino diventa sempre più diffidente verso i diplomatici stranieri a Varsavia.
    Di Stefano decide così di scrivere all'ambasciata italiana a Berlino, sempre più sollecita a fare pressioni per «un tempestivo rientro». La risposta di Bernardo Attolico, allora a capo della missione tedesca, è immediata: in un telespresso del 28 dicembre 1939 ricorda «l'opportunità di limitare il nostro interessamento presso le autorità del Reich in favore di cittadini polacchi, soltanto ai casi in cui si possa invocare l'esistenza di un interesse italiano».
    Alle pressioni da parte nazista seguono pure gli ostacoli burocratici. «A un certo punto i tedeschi mi domandarono: ma come può rilasciare dei visti per l'Italia se il vostro governo ha deciso l'espulsione degli ebrei stranieri?». Per Soro, l'unica soluzione resta il visto di transito: «Per renderli plausibili, chiesi ad un amico, che era il Console onorario di Santo Domingo, di darmi il suo timbro. Egli accettò ed io apponevo su una pagina il timbro del visto italiano e sull'altra quello di Santo Domingo».
    Ma i guai non sono destinati a diminuire. Adesso l'obiezione dei nazisti è un'altra: «Come andranno a Santo Domingo senza biglietti di imbarco?». Soro si rivolge così all'agenzia «Italia», chiedendo «un pacco di biglietti di navigazione in bianco che riempivo di volta in volta e i numeri dei quali sarebbero stati comunicati alla sede centrale affinché non fossero onorati».
    Le attività sono così frenetiche che - complice il Ministero - Di Stefano e Soro mandano a Roma gli elenchi nominativi solo dopo aver già concesso i visti, senza chiedere quindi alcuna autorizzazione preventiva. Contravvenendo alla legge, i passaporti sono compilati solo una volta arrivati a Varsavia dagli stessi diplomatici italiani.
    Finiti anche quelli, - continua Soro - «ci trovavamo nell'impossibilità di aiutare le centinaia di ebrei che volevano abbandonare la Polonia. Pensai allora di emettere dei passaporti collettivi». Il ministero degli Esteri è informato quasi quotidianamente; la sua complicità - come conferma il diplomatico - è evidente: «Fui sempre aiutato dal Conte Vidau, con la completa cognizione di Ciano che coprì sempre tutte queste attività».
    Presto però la condotta dei due italiani diventa un vero e proprio caso politico: il 18 marzo 1940, durante l'incontro del Brennero, è Hitler in persona a chiedere a Mussolini la rimozione di Mario Di Stefano. Lo stesso giorno, Soro è costretto ad abbandonare Varsavia. Negli ultimi cinque giorni è riuscito comunque a concedere altri mille visti. Saranno utili a salvare altrettante vite umane dal più tragico sterminio del secolo scorso.

(Il Giornale, 30 aprile 2008)





3. LA STAMPA EBRAICA SOTTOVALUTO' IL FENOMENO NAZISTA




E' quanto emerge da uno studio di una giovane ricercatrice.

ROMA - I giornali ebraici pubblicati in Palestina sotto il mandato britannico seguirono con crescente interesse l'ascesa di Hitler in Germania sin dalla fine degli anni Venti, ma non colsero la centralità della componente razzista nell'ideologia nazista. E' quanto emerge dalle ricerche di una giovane studiosa, Ilana Novetsky-Bendet, dottoranda all'Università ebraica di Gerusalemme, di cui dà conto oggi il quotidiano israeliano Haaretz.
Bendet, che sta svolgendo una tesi sull'atteggiamento della stampa ebraica verso la Germania Nazista, spiega: "Più cresceva la forza elettorale del partito (nazista) maggiore era l'interesse" della stampa. "Ma a stento i giornali compresero la durezza dell'antisemitismo nazista".
In Palestina all'epoca uscivano sette giornali di diverso orientamento politico, tra cui lo stesso Haaretz, che esprimeva una linea liberal. Gran parte delle notizie pubblicate riguardanti l'Europa provenivano dalle agenzie, ma alcune testate avevano anche loro corrispondenti dalla Germania, in gran parte ebrei russi che rimasero sul posto fino alla metà degli anni Trenta.
E' sorprendente la miopia della stampa ebraica del tempo sul fenomeno nazista. Dopo le elezioni del luglio 1932, a seguito delle quali il Partito nazista divenne la prima forza del Reichstag, il corrispondente di Haaretz Yeshayahu Klinov scriveva: "Gli eroi delle elezioni sono senza dubbio i comunisti".
Dopo le elezioni del 6 novembre 1932, in cui i nazisti persero alcuni seggi, Haaretz, sotto la direzione di Moshe Glicksman, annunciava "la fine della carriera di Hitler". E il 7 dicembre il giornale ribadiva: "Hitler non ha alcuna speranza di diventare l'unico governante in Germania, al massimo c'è la possibilità che i nazisti conquistino solo briciole di potere".
Secondo la studiosa, questa miopia si spiega con la situazione caotica in cui versava allora la Germania e con le informazioni frammentarie che giungevano alla stampa ebraica. Non a caso, spiega ancora Bendet, "quando Hitler fu nominato cancelliere (nel gennaio 1933) fu uno shock per tutti i giornali".

(Alice News, 29 aprile 2008)





4. STORIE DI ITALIANI IN ISRAELE




Un reportage a pochi giorni dall'anniversario della Dichiarazione d'Indipendenza

Olim, gli italiani che scelgono Israele

di Giorgio Bernardelli

Sara e Andrea sono arrivati l'anno scorso. E adesso, a Gerusalemme, sono alle prese con gli orari (non sempre canonici) del piccolo Dov, nato in Terra d'Israele. Sharon, invece, nonostante i suoi 25 anni, è già una veterana: dopo avere finito il liceo a Milano, si è iscritta alla Hebrew University. Ci è arrivata il giorno prima dell'attentato suicida che, nel luglio 2002, sconvolse proprio questo ateneo. Ha comunque scelto di specializzarsi in studi islamici. E adesso, senza rinunciare a un millimetro della sua identità israeliana, le piacerebbe andare a vivere un po' in Egitto. «Per capire dall'interno il mondo arabo», spiega. Storie di italiani di Israele.
    Storie di giovani cresciuti nelle nostre comunità ebraiche e che hanno deciso di diventare olim, cioè di andare a vivere nel Paese che tra qualche giorno festeggerà i sessant'anni anni dalla sua fondazione.
    Cadrà l'8 maggio, quest'anno, lo Yom Haazmauth, l'anniversario della Dichiarazione di indipendenza letta nel 1948 dal padre della patria, David Ben Gurion. Una data che, come ogni cosa che riguarda Israele, in Italia ha già dato la stura alle solite barricate ideologiche. A quel prisma che ci porta a leggere tutto ciò che accade a Gerusalemme a partire dal conflitto con i palestinesi. Invece non si può capire davvero Israele se non si comincia dalle sue storie. Ad esempio da quelle di una manciata di giovani che, ancora nell'Italia degli anni Duemila, ha scelto di lasciare tutto per andare a vivere a Gerusalemme.
    Nonostante i rigurgiti di antisemitismo, vecchio o nuovo che sia, non si può certo dire che il nostro sia oggi un Paese a rischio per un ebreo. L'ideale socialisteggiante del kibbutz, poi, non ha più una grande presa nemmeno tra gli israeliani. Che cosa li spinge, allora, a partire? «Venire in Israele è sempre stata una delle poche certezze fin dai tempi dell'università, quando l'ebraismo è diventato nella mia vita una scelta consapevole », risponde Sara, la mamma di Dov, che ha trent'anni, una laurea in filosofia a Pisa e un'esperienza importante alle spalle in Italia nelle fila del movimento ebraico riformato. Racconta del suo primo viaggio in Israele, compiuto tre anni fa.
    «Mi sentivo come un bambino che ha appena imparato a camminare e si stupisce di farlo finalmente da solo – spiega –. Ho provato la sensazione che è possibile, che questo posto esiste e che adesso ci sono anch'io ». Vivendoci, però, anche la percezione

di Israele cambia. «Prima di venire – continua Sara – questo Paese era l' assicurazione sulla vita, un rifugio per qualsiasi momento di difficoltà. Dopo la prima visita era già diventato il posto dove avrei voluto vivere. Adesso quest'idea ha preso più sostanza, attraverso tante esperienze quotidiane. Stando qui, ad esempio, capisci che oltre ai grandi problemi politici internazionali, sui quali dell'estero ti eri sempre focalizzata, devi comunque vivere e mangiare tutti i giorni. E che esistono problemi degni della stessa attenzione delle notizie che riempiono i titoli dei giornali fuori da Israele. Penso ad esempio al dibattito sul sistema scolastico».
    La questione del conflitto, però, ha avuto a che fare con la scelta di Sharon. «Al liceo, a Milano, non ero una di quelle persone che parlano sempre di Israele – racconta –. Nonostante qui vivessero già due mie sorelle, di venirci non ci pensavo proprio ». Poi, nel 2000, è scoppiata la seconda Intifada. E per Sharon qualcosa è cambiato. «Si parlava tanto di Medio Oriente, in maniera anche violenta – ricorda –. Allora, a diciassette anni, mi sono messa a leggere, a studiare tutto quello che trovavo. Con un amico andavamo nelle scuole dove c'erano le occupazioni a presentare il nostro punto di vista e ne uscivamo scossi. Scegliere Gerusalemme per l'università è stata la conseguenza della mia voglia di capire». Stessa provenienza, Milano, stesso passaggio per la Hebrew University per Claudia, anche lei in Israele ormai da qualche anno. «È innegabile che questo Paese rappresenti una parte essenziale del percorso identitario di ogni ebreo – spiega –. Ma lo è in modo paradossale: da un lato Israele è un concentrato di ebraismo, una specie di macrocomunità. Ma dall'altra per noi rappresenta anche una sorta di uscita dal 'ghetto', dall'esistenza all'interno di un piccolo nucleo sociale. Le prime volte che sono venuta mi ha colpito proprio questa sensazione di trovarmi in una comunità molto allargata. Insieme alla presenza di tanti giovani e a una certa atmosfera antiborghese, basata sul fare pittosto che sull'avere ». Su un aspetto, però, Claudia ci tiene a mettere l'accento. «Non sono stata mai sionista – racconta –. Né sono mai stata antisionista. Non ho mai pensato che tutti gli ebrei dovessero venire a vivere in Israele. Mi ritrovo piuttosto nelle posizioni di Yeshayahu Leibowitz, che vedeva nello Stato un mezzo e non un valore. Come ebrea osservante, poi, sono inorridita dagli sviluppi del sionismo religioso, che vede nel ritorno alla terra d'Israele la manifestazione di un processo dove il nome di Dio compare troppe volte. È un'impostazione con due conseguenze inaccettabili: porta all'idolatria della terra e mina alla radice ogni discorso democratico».
    Giovani con storie e idee tra loro diverse, perché anche questo è Israele. Giovani comunque con motivazioni forti. Più simili ai primi sionisti italiani che al gruppo che arrivò qui subito dopo la terribile esperienza della Shoah? «Può darsi risponde David Cassuto, in Israele da sessant'anni e già vicesindaco di Gerusalemme quando l'attuale premier Olmert era alla guida dell'amministrazione municipale –. Di certo molti di questi ragazzi vedono nella loro venuta in Israele il compimento di una vocazione. Portano con sé una profonda carica di idealismo. E per una società in cui, soprattutto tra i giovani, il cinismo è in crescita, sono una ricchezza non da poco». C'è anche un pezzo d'Italia nel futuro di Israele.

(Avvenire, 1 maggio 2008)





5. NUOVO RAPPORTO DELL'UNIVERSITÀ DI TEL AVIV




Allarme antisemitismo, i casi nel mondo crescono del 7%

ROMA - Non si arresta la preoccupante ondata di anti-semitismo nel mondo. I casi registrati nel 2007, rispetto all'anno prima, sono aumentati del 6,6%, mentre sarebbero addirittura triplicate le aggressioni violente nei confronti di ebrei. E' quanto emerge dall'ultimo rapporto dell'Istituto Stephen Roth dell'Università di Tel Aviv, uno dei più noti centri di "studio sull'antisemitismo e il razzismo contemporanei".
Stando all'indagine, come riportano i principali siti israeliani, l'anno scorso sono stati denunciati 632 episodi di violenza a motivazione razziale contro gli ebrei, rispetto ai 593 del 2006. Il 57% degli attacchi del 2007 sono stati giudicati "particolarmente gravi", mentre un anno prima, in questa categoria erano stati classificati appena il 19% dei casi.
Gli autori del rapporto, del resto, sottolineano che il trend di crescita della violenza anti-semita è proseguito nel 2007 anche in assenza di un "catalizzatore esterno", come era stata, per l'anno precedente, la Seconda guerra in Libano. L'ultima ricerca parla comunque di una "doppia tendenza": da un lato, ci sono diversi paesi in cui gli episodi di antisemitismo sono diminuiti, dall'altro è stato riscontrato un aumento di aggressioni gravi condotte con un'arma o con l'obiettivo di uccidere, e di incendi dolosi, spesso negli stessi paesi.
Esemplare il caso della Francia, dove i crimini dell'odio sono diminuiti dai 97 del 2006 ai 47 dell'anno scorso, mentre il numero di aggressioni pericolose è cresciuto da due a otto. In Australia è andata esattamente in senso inverso: gli episodi violenti sono diminuiti, da 49 a 29, ma nel 2007 sono stati messi agli atti cinque episodi di violenza grave rispetto all'unico caso registrato nel 2006. Nel frattempo, in Germania, Canada e Regno Unito si è riscontrata una crescita in entrambi i trend. Per quanto riguarda l'Italia,spiegano dall'istituto di ricerca, i dati raccolti non sono ancora completi.
Il rapporto del 2006 (l'ultimo disponibile sul sito del centro di ricerca, ndr) rifletteva una crescita ancora più allarmante dell'antisemitismo a livello mondiale, denunciando che i casi erano addirittura raddoppiati rispetto all'anno precedente. Gli autori del rapporto attribuiscono il miglioramento in alcuni paesi al maggiore impegno dei governi nella lotta all'anti-semitismo e alla più forte cooperazione fra comunità ebraiche e forze dell'ordine.
L'aumento dei casi in altri paesi, suggeriscono gli analisti, potrebbe essere collegato a tensioni sociali o economiche e al conseguente aumento di islamofobia. La stragrande maggioranza delle aggressioni violente sono state denunciate in Europa occidentale e centrale, per via della presenza crescente di milioni di immigrati, fra cui circa 20 milioni di musulmani, che rappresenta ancora - sostiene il rapporto - una fonte costante di attrito.

(Alice News, 3 maggio 2008)





6. UNA TESTIMONIANZA DI LUCIANO SEGRE




Israele: i ricordi di un italiano che ha combattuto nel 1948

di Luciano Segre

Cugino affezionato di Primo Levi, Luciano Segre ha avuto parte della famiglia sterminata ad Auschwitz. Storico dell'economia, insegna all'Università di Milano. Nel 1948 fu uno dei sette italiani che andò in Israele a combattere contro gli eserciti arabi che volevano "buttare a mare gli ebrei". Ecco la sua testimonianza.

    Era l'aprile del 1948 e avevo 18 anni. Stavo partendo per quella che al tempo si chiamava Palestina. Di passaggio a Milano, ero andato a salutare mia zia Sara. Avevo le calze bucate e le chiesi di aggiustarmele. "Un combattente deve sapersi rammendare le calze da solo" fu la sua predica. Nei mesi successivi imparai a lavorare di ago e filo. Anzi, introdussi un brevetto, poi adottato da tanti altri soldati. Quando il tallone di una calza si sdruciva, lo rammendavo alla meno peggio e poi lo indossavo al contrario, mettendolo sul collo del piede.
    Non erano solo le calze a essere primitive nell'esercito israeliano del 1948. I fucili sparavano un colpo sì e tre no. La nostra divisa: una camicia kaki e pantaloni lunghi o corti, come capitava. Fino a tre anni prima ero stato sulle montagne piemontesi con i partigiani di Giustizia e libertà. Poi avevo finito il liceo e m'ero iscritto a filosofia all'Università di Torino, lavorando nel contempo in un'agenzia di pubblicità. Riuscii a non interrompere gli studi perché un'amica mi prendeva le firme dei professori sul libretto facendosi passare per me.
    In Israele c'era il mio fratello minore, Bruno, che era partito nel 1946 all'età di 14 anni. "In questa Europa che ha sterminato milioni di ebrei non voglio più stare" aveva detto a nostra madre Jole. E lei lo aveva lasciato andare. Gli inglesi lo intercettarono su una barchetta e lo chiusero in un campo di concentramento a Cipro. Bruno era sionista e riteneva che il futuro degli ebrei stesse in un paese creato da loro. Io non ero sionista, ma trovavo intollerabile l'idea che chi si era salvato dai nazisti potesse essere sacrificato in un nuovo massacro.
    Al mio arrivo a Haifa la guerra era già scoppiata. Chiesi di essere inquadrato come soldato ultrasemplice nel Palmach, il battaglione d'assalto formato da gente che veniva dai kibbutz, in buona parte già nati in Palestina. Erano così sicuri di sé e rotti a tutto, pensavo, che insieme a loro c'era qualche chance di non perdere. Con noi c'erano bellissime ragazze di origine ungherese che ci facevano girare la testa. Facevamo tutto assieme, compresa la doccia. Un giorno dal perbenista comando generale arrivò un ordine: "Docce separate". Il comandante scrisse su due porte che portavano alla medesima doccia: "Bachurim" e "Bachurot", ragazzi e ragazze.
    Alla prima licenza andai a cercare mio fratello che non era più prigioniero. Andai in un kibbutz in cui sapevo che era passato, Ghivat Brenner. Lì trovai una signora di origine italiana che per prima cosa mi chiese: "E tu hai già mangiato?". "Veramente no". "Allora siediti là", in sala da pranzo. Poco dopo arrivò con un enorme secchio di latta, 7-8 litri, pieno di minestra. Al che io dissi: "Mi pare un po' tanta". "Tu sei il fratello di Bruno. Quando lui arrivò se ne mangiò due. Tu almeno uno te lo farai fuori".
    Attraverso la signora rintracciai mio fratello. Era in un altro kibbutz, Ramat a-Chovesh, vicino al confine giordano. Arrivai in autostop. Verso sera Bruno mi portò in cantina a dormire. "Tu sta qui, perché di notte c'è un po' di rumore. Io ho da fare". Poco dopo sentii grandi sparatorie: colpi di fucile, di mortaio, di cannone…
    Il mattino dopo Bruno mi spiegò che era sulla torre dell'acqua, una cisterna dove era montato un faro, che serviva a illuminare i soldati nemici che attaccavano il kibbutz. Mio fratello, che lo manovrava a mano, era il bersaglio principe. E i tre o quattro che lo avevano preceduto sulla torre erano tutti morti. Bruno aveva 16 anni. Lo feci arruolare nel mio reparto con la scusa che nel kibbutz si annoiava. Rimanemmo assieme vari mesi. Anche a Sdom (la Sodoma biblica), nel deserto del Negev, circondati per tre mesi da egiziani e giordani. Faceva un caldo torrido. E lì inventai un altro brevetto adottato da mezzo esercito: la doccia in divisa.
    Alla fine della guerra rientrai in Italia. Mentre mio fratello, da autentico sionista, mise su casa a Haifa. Adesso che ho 78 anni inizio a credere che i sionisti come lui non avevano del tutto torto, quando pensavano che gli ebrei dovevano difendersi da sé. Perché tutti sono disposti a compiangerli, ma pochi a difenderli.

(Panorama, 3 maggio 2008)





7. EVANGELICI E MESSIANICI IN ISRAELE




Le Assemblee o Chiese evangeliche (o Chiese libere)

di Daniel Attinger

Dati storici
Sotto questo nome può essere raggruppato un insieme molto vario e numeroso di comunità che si sono moltiplicate in Europa, in America del Nord e nei paesi del terzo mondo, dove alcune di loro hanno conosciuto una larga diffusione. Si tratta di solito di movimenti nati da diverse chiese uscite dalla Riforma che hanno accentuato qualche punto particolare del messaggio evangelico: la questione del battesimo degli adulti (Battisti), una certa concezione del metodo missionario (Metodisti), il ruolo dello Spirito Santo e i suoi doni (Pentecostali), l'importanza dello Shabbat, delle prescrizioni alimentari dell'Antico Testamento e l'attesa messianica (Avventisti del Settimo Giorno), ecc. Queste comunità, che spesso dichiarano di rifarsi ai primi tempi della Riforma, sono nate generalmente nel XIX secolo nei paesi anglosassoni, in reazione alla situazione delle chiese protestanti di allora, che avevano la tendenza ad andare verso il razionalismo e il liberalismo.

Caratteristiche particolari
Una delle principali caratteristiche di queste comunità è la loro volontà di annunciare l'Evangelo per creare delle nuove assemblee, dei luoghi dove si ritrovano coloro che sono "nati di nuovo". In opposizione alle chiese tradizionali "moltitudiniste", che si considerano cioè come chiese della nazione dove si sono impiantate, queste assemblee sono "confessanti", cioè considerano come parte di loro soltanto quelli che decidono esplicitamente di farne parte. Per questo rifiutano generalmente il battesimo dei bambini e praticano il battesimo dei soli credenti. Si chiamano anche "Chiese libere", perché mantengono una grande libertà in diverse aree: libertà nel senso di decisione libera e volontaria nell'atto di fede, libertà nei riguardi dello Stato, libertà nell'espressione della fede (i culti sono spesso occasioni di improvvisazioni liturgiche), libertà riguardo a ogni insegnamento dogmatico e predominanza della pietà individuale e della testimonianza pubblica dell'esperienza personale di Dio. Vi si pratica spesso una lettura molto letterale della Scrittura, che rifiuta di solito ogni riflessione critica sui testi. In generale, queste comunità formano delle congregazioni locali autonome che possono accordarsi fra di loro per formare unioni a diversi livelli. Spesso sono anche diffidenti verso gli organismi ecumenici.

Le Chiese libere in Israele
Anche se alcune di queste comunità locali sono presenti da molto tempo nella regione (i Battisti, per esempio, sono lì dal 1911), numerose sono quelle che si sono impiantate in seguito alla fondazione dello Stato d'Israele, vedendo nel ritorno degli ebrei sulla loro terra un segno della fine dei tempi e della venuta del Messia atteso. Sono molto attive nel paese e spesso condividono delle convinzioni vicine al sionismo. E' a loro che si deve la fondazione a Gerusalemme di una "Ambasciata cristiana in Israele", creata in reazione al rifiuto delle nazioni di riconoscere Gerusalemme come la capitale dello Stato d'Israele. Qualche volta sviluppano anche un'attività parallela negli ambienti arabi. Inoltre, nuove assemblee locali sono nate in Israele, particolarmente nella città vecchia di Gerusalemme, come per esempio l'"Assemblea dell'Alleanza", l'"Assemblea di Gerusalemme". Queste comunità riuniscono arabi cristiani che sono molto impegnati nella testimonianza fra i musulmani. Tutte insieme, queste comunità rappresentano qualche migliaio di persone.

Le comunità messianiche
Molto vicine a queste si trovano gli ebrei messianici, che generalmente rifiutano di essere chiamati "cristiani", perché secondo loro questo termine si applica ai cristiani che provengono dal paganesimo. Essi costituiscono diverse comunità locali, spesso molto diverse fra di loro, sia nella teologia, sia nell'organizzazione e nelle celebrazioni. Nonostante la loro autonomia, ogni tanto trovano il modo di riunirsi per manifestare la comunione che esiste fra di loro. Si stima a 10.000 il numero degli ebrei messianici in Israele.

(Un écho d'Israèl - trad. www.ilvangelo-israele.it)

COMMENTO - L'articolo è di provenienza cattolica. Anche se sull'argomento molte altre cose si potrebbero dire, e se qualche cosa dovrebbe essere corretta o precisata, è utile sottolineare che la realtà delle chiese evangeliche libere e delle comunità messianiche in Israele lascia tracce nella vita del paese. M.C.





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