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Notizie su Israele 454 - 15 febbraio 2009

1. La stirpe protetta dei profughi palestinesi
2. Menzogne mediatiche e propaganda filoterrorista
3. Una giornalista israeliana che lavora in Cisgiordania
4. L'ebraismo è necessariamente di sinistra?
5. Ariel Sharon, in coma dal 2006
6. Libri
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Salmo 94:7-10. Dicono: «Il Signore non vede, il Dio di Giacobbe non se ne preoccupa». Cercate di capire, uomini stolti! E voi, sciocchi, quando sarete saggi? Colui che ha fatto l'orecchio forse non ode? Colui che ha formato l'occhio forse non vede? Colui che ammonisce le nazioni non saprà pure castigarle, lui che impartisce all'uomo la conoscenza?
1. LA STIRPE PROTETTA DEI PROFUGHI PALESTINESI




L'ONU e l'UNRWA, la gallina dalle uova d'oro

di Maurizio De Santis

L'agenzia dell'ONU, il semisecolare carrozzone preposto all'aiuto dei profughi palestinesi UNRWA (United Nations Relief and Works Agency), ha "temporaneamente" alzato le mani.
Superato dagli eventi, l'Agenzia in questione ha affermato, "obtorto collo", lo scorso mercoledì 4 febbraio, che la polizia del governo Hamas si era indebitamente appropriata degli aiuti umanitari, che la stessa Agenzia aveva provveduto a "stoccare", presso alcuni depositi nella Striscia di Gaza.
    Secondo l' UNRWA (che provvede a sfamare il 60% della popolazione della Striscia), gli uomini di Hamas avrebbero fatto sparire qualcosa come 3.500 coperte, oltre a 406 pacchi di prodotti alimentari del Centro di distribuzione di Chati. Promettendo di fare altrettanto con i successivi rifornimenti.
    La confisca è scattata subito dopo il rifiuto, da parte del personale dell' UNRWA, di porre il materiale passato dall'ONU, sotto la diretta "supervisione" del ministero degli affari sociali del governo del Hamas.
    La (cosiddetta) polizia ha fatto irruzione nel deposito usando chiaramente la forza.
    Solo a questo punto l'ONU, ostinatamente sorda alle avvisaglie dei giorni precedenti, ha preso atto della realtà, inscenando il consueto iter delle lagne. Inutile dire che la prevedibile "condanna, nei termini più duri della confisca degli aiuti" non ha affatto provocato la sperata restituzione degli aiuti umanitari stessi.
    Il movimento islamista ha implicitamente giustificato quest'appropriazione garantendo che doveva distribuire aiuti a tutti i palestinesi e non soltanto alle persone aventi lo statuto di profugo (difficile trovarne qualcuno). Il governo Hamas ha dichiarato che esso è il primo responsabile della distribuzione e del controllo di quest'aiuti in modo equo. "Siamo responsabili di 1,5 milione di palestinesi nella striscia di Gaza", ha dichiarato il ministro degli affari sociali, "perciò respingiamo ogni discriminazione fra il nostro popolo".
    Il "vile" sospetto che il controllo degli aiuti serva a rafforzare un consenso traballante pare, a lume di naso, una spiegazione assai più plausibile.
    Quello di mercoledì non sarebbe che il naturale epilogo per un'organizzazione nata male e gestita peggio. Ricordiamo, per i meno informati, che l'UNRWA venne pensata funzionalmente e specificatamente per i soli profughi palestinesi nel 1949. Basa la propria esistenza sull'abnorme definizione di profugo palestinese, ampiamente diverso da quello valido per tutti gli altri profughi del mondo.
    Secondo l'UNRWA, udite, udite, sarebbero profughi tutti coloro che vivevano nella Palestina Mandataria, tra il giugno 1946 e il maggio 1948, privati delle loro case e i loro mezzi di sostentamento in conseguenza del conflitto arabo-israeliano del 1948.
    L'aspetto sconcertante è che questa elefantiaca organizzazione estende lo status di profugo "ai discendenti delle persone divenute profughi nel 1948", arrivando al poco invidiabile record di garantire lo status di rifugiato anche a chi ha per profugo un solo genitore!
    Tanto per fare i conti dell'oste, assieme al politologo Daniel Pipes, i profughi che furono censiti nel 1948 ammontavano a circa 726.000 unità. Applicando il criterio che viene seguito per tutti gli altri profughi del mondo, oggi i profughi palestinesi ancora vivi sarebbero poco più di 200.000.
    La geniale creatura dell'ONU, l'UNRWA appunto, sommando ai figli dei profughi (o di un solo profugo), i nipoti e i pronipoti, oltre ai palestinesi che hanno abbandonato le loro case nel 1967 con a loro volta i loro figli e nipoti, è riuscita a battere persino il mitico Nazareno che, partendo da soli cinque pani e due pesci, quanto a moltiplicazione non ci andò certo leggero. Così, tra la gioia dei pacifinti e dei tuttologi, i rifugiati palestinesi ammontano oggi a qualcosa come 4 milioni e 250.000 unità.
    Profughi che, ricordiamolo, per lo standard internazionale, non sarebbero considerati tali nel 95% dei casi.
    A chiosa, converrebbe riflettere su un ultimo elemento.
    Ai rifugiati palestinesi in Libano non è concessa la cittadinanza, nonostante siano presenti sul territorio ormai da mezzo secolo. Hanno limiti per accedere al sistema sanitario - invece concesso ad altri stranieri - o alle scuole statali. E, in linea con quanto deciso a Beyruth, la stragrande maggioranza dei paesi arabi (moderati o meno) non si sogna nemmeno lontanamente di concedere il proprio passaporto ai rifugiati palestinesi.
    In questo contesto, evidentemente, l'UNRWA assomiglia sempre di più ad un gigantesco carrozzone occupazionale, costruito ad hoc per una causa prima pan-araba e, di ripiego dopo il fallimento del panarabismo di Anwar Al-Sadat, finalmente pan-islamista.

(Giustizia Giusta, 9 febbraio 2009)





2. MENZOGNE MEDIATICHE E PROPAGANDA FILOTERRORISTA




Israele e il "conflitto mediatico"

di Elena Lattes

Ogni qualvolta Israele decide di reagire alle aggressioni dei propri vicini, la propaganda filoterrorista (e non filopalestinese, perché se così fosse appoggerebbe il popolo che non ne può più delle organizzazioni fondamentaliste o ultranazionaliste e corrotte come quelle di Hamas e Fatah) si risveglia dal suo torpore e rimette in moto quell'industria mediatica che è stata definita negli ultimi anni come "pallywood" e che niente ha da invidiare alla diffamazione e alle prediche contro gli ebrei condotte nei secoli passati.
    Queste ultime settimane non hanno fatto eccezione, ma con una, forse due, novità: tra i giornalisti che hanno sempre privilegiato le fonti palestinesi e che anche questa volta avevano tenuto il minuzioso e macabro conteggio dei morti (quello comunicato dalle super citate "fonti mediche palestinesi" o di medici, come quello norvegese, sostenitore degli attacchi jihadisti, che pare facciano troppo spesso da portavoce dei peggiori terroristi della zona) e che hanno immediatamente condannato (senza processo né verifiche) la "strage della scuola dell'Onu (salvo poi accorgersi che lo scontro con i terroristi era avvenuto a diverse decine di metri dall'edificio) c'è stato chi ha avuto la faccia tosta di incolpare Israele anche di questo "Gran parte delle responsabilità di questa nebbia dell'informazione ricade sulle autorità israeliane, che hanno chiuso ai giornalisti la Striscia durante le operazioni".
    Questi giornalisti dimenticano che la fornitura di cifre gonfiate è una prassi che non è mai mancata, nemmeno quando tutti i media avevano libero accesso, senza nessuna restrizione. E' successo a Jenin nel 2002, quando si parlò inizialmente di oltre il migliaio di morti, e poi venne fuori che erano rimasti uccisi solo 56 persone di cui la maggioranza terroristi armati in combattimento.
    Storia molto simile a Qana, in Libano nel 2006. Dimenticano anche che sono i giornalisti stessi a prendere parte attiva nella propaganda filoterrorista, come fu per il caso Al Durra: un bambino che muore in diretta tra le braccia del padre e solo dopo anni di indagini e di processi si scopre che il video girato e mandato in onda da France2 era solo uno spezzone di una montatura (montatura che è costata la vita a migliaia di persone!).
    O Tuvia Grossman, ebreo picchiato dai palestinesi e fatto passare dal New York Times per palestinese picchiato dai soldati israeliani. O ancora, la lettera di Riccardo Cristiano che ammise candidamente che era stata "Una delle reti private italiane, nostra concorrente, e non la rete televisiva ufficiale italiana RAI" a riprendere le il linciaggio di Ramallah di due malcapitati israeliani " quella rete ha filmato gli eventi. (...) noi rispettiamo sempre e continueremo a rispettare le procedure giornalistiche dell'Autorità Palestinese per il lavoro giornalistico in Palestina".
    Si potrebbe citare anche la messinscena della ragazzina che si dispera davanti al cadavere di un congiunto sulle spiagge di Gaza, che costò a Israele la condanna immediata (anche lì senza processo!) per aver massacrato un'innocente famiglia che faceva picnic in riva al mare e che invece si rivelò essere la morte accidentale di alcune persone per lo scoppio di una mina nascosta appositamente tra le sabbie da Hamas come trappola per eventuali sbarchi israeliani. Anche quel che successe realmente non fu reso noto dai giornalisti che immediatamente accorsero a frotte, ma dopo alcuni giorni e in seguito a serie indagini israeliane.
    Di esempi simili ce ne sono così tanti che ci si potrebbe scrivere un'intera enciclopedia, ma non c'è solo questo.
    Sarà per la vicinanza con la Giornata che il Parlamento Europeo ha dedicato alla Memoria delle vittime della Shoah, o forse per un clima di crescente negazionismo conservatore e filonazista, ma la suddetta propaganda durante gli scontri a Gaza, ha alzato i toni e le aggressioni e le discriminazioni antisemite e razziste sono aumentate.
    Sempre più spesso si paragona la Striscia (il posto dove arrivano più soldi e aiuti umanitari che in tutta l'Africa) ad un lager, ad un campo di sterminio, i cui responsabili ovviamente non sono i capi di Hamas che rubano i generi di prima necessità per rivenderli a prezzi esorbitanti, o chi li ha votati, ma sempre e solo Israele.
    Così, poco prima della negazione delle camere a gas da parte dei lefebvriani, molti hanno ricevuto una e-mail con un link a un sito in cui accanto alle foto del ghetto di Varsavia e dei campi nazisti, si mostravano foto false o vecchie di anni di presunti palestinesi (a volte ebrei residenti nei territori contesi, a volte libanesi, probabilmente anche iraqeni) perseguitati, torturati e uccisi dai cattivissimi soldati israeliani.
    Non c'è bisogno di andare a Gaza per accorgersi che quelle foto sono prese da altri contesti e che vengono fotografati "morti" che resuscitano (seduti o in movimento), così come basta fare un giro nella rete per accorgersi che anche nel sito del PD (www.youdem.tv) si può trovare un video su Gaza, intitolato "holocausto", come se l'autore (non smentito da nessuno dei partecipanti al sito) volesse far passare il messaggio che "le vittime di ieri stanno facendo ai Palestinesi esattamente quello che fu fatto a loro dalla Germania nazista", in un misto di demonizzazione degli israeliani e di banalizzazione della storia.
    Tutto questo, durante il Giorno della Memoria è stato taciuto perché come sempre più spesso accade, si preferisce piangere gli ebrei morti (e dovremmo anche tenerci stretto, come "il meno peggio", o lodare chi ancora lo fa, visto il rimontare del negazionismo e il dilagare del razzismo in genere) per demonizzare quelli vivi.
    Non solo. Ora, nonostante tutto quel che è stato detto contro Israele e nonostante tutto quel che è stato appurato durante o dopo, in alcuni Paesi europei e non, ci sono segnali di un ulteriore passo "avanti" in questa aggressività verso non solo gli israeliani, ma anche degli ebrei: accanto alle svastiche, alle proposte (corrette, ma solo dopo le numerose proteste) di boicottare i negozi i cui proprietari appartengono ad una comunità ebraica, la Spagna, dopo aver cancellato le commemorazioni per la Giornata della Memoria per reazione - questa la scusa - all'operazione difensiva israeliana, ha impiantato un processo per i "crimini" dei militari israeliani.
    Non dei capi di Hamas che usano i civili come scudi umani, che hanno attaccato Israele e i suoi cittadini, ma nei confronti di chi tenta di difendersi. Così molti ufficiali dell'esercito israeliano non potranno mettere piede in Spagna e probabilmente nell'immediato futuro anche in altri Paesi europei, senza correre il rischio di essere immediatamente arrestati.
    In Danimarca un direttore di una scuola pubblica ha consigliato ai genitori di bambini ebrei di non iscrivere i propri figli in quell'istituto perché frequentato da una maggioranza di alunni musulmani.
    Se, speriamo di no, si dovesse proseguire su questa strada, gli ebrei non potrebbero vivere in Israele perché perseguitati e cacciati dagli arabi, non potrebbero vivere nei Paesi a maggioranza musulmana da cui sono già stati cacciati negli ultimi 60 anni, non potrebbero vivere in Europa perché non avrebbero diritto all'istruzione e alle libertà fondamentali. Sarebbe interessante sapere dove potrebbero essere cittadini a pieno titolo e vivere in pace.

(Agenzia Radicale, 5 febbraio 2009)





3. UNA GIORNALISTA ISRAELIANA IN CISGIORDANIA




SCHEDA - Amira Hass (nata nel 1956 a Gerusalemme) è una scrittrice e giornalista israeliana, conosciuta per i suoi articoli pubblicati sul quotidiano israeliano Ha'aretz. Ha deciso di stabilire la propria residenza nei territori della West Bank e nella striscia di Gaza, condizione che le dà l'opportunità di raccontare i fatti e di osservare da una prospettiva palestinese il conflitto israelo-palestinese. Figlia di due attivisti comunisti ebrei, sopravvissuti all'Olocausto di Bosnia (la madre, Hanna Levi) e di Romania (il padre, Avraham Hass), Amira Hass è nata a Gerusalemme. La sua carriera come giornalista ha avuto inizio nel 1989 come membro della redazione di Ha'Aretz e cominciò a scrivere articoli dai territori occupati nel 1991. Attualmente è l'unica corrispondente israeliana dai territori occupati (è stata a Gaza dal 1993 al 1996 e a Ramallah dal 1997 a oggi). Dal 2001 scrive un diario per il settimanale italiano Internazionale. (Wikipedia)


Amira Hass. Una giornalista oltre il confine


di Daniela Gross

Amira Hass
"Sono abituata a essere considerata impopolare. Per me non è un problema. Molti israeliani mi considerano una traditrice, ma altri mi leggono con interesse e si sentono solidali con le opinioni che esprimo". Amira Hass, prima e unica giornalista israeliana a vivere a Gaza e in Cisgiordania, ha uno stile diretto e pungente. Anche quando le domande entrano nel vivo della sua esperienza personale. Non teme per se stessa? le chiede l'intervistatore. E lei, serafica, "sono abituata": "credo che fare il giornalista significhi sorvegliare i centri di potere, osservare da vicino come vengono applicate le politiche dei governi e se rispettano nei fatti ciò che hanno promesso i governanti".
    A 53 anni Amira Hass è una delle voci più note e discusse dal Medio Oriente, conosciuta in Italia soprattutto per il suo diario sul settimanale Internazionale. Nata a Gerusalemme, figlia di due attivisti comunisti bosniaci sopravvissuti alla Shoah, scrittrice e giornalista di Ha'aretz, inizia le sue corrispondenze dai territori nel '91. Due anni dopo si sposta nella Striscia di Gaza dove vive per un paio d'anni per approdare nel '97 a Ramallah. Da qui racconta in presa diretta lo scoppio della seconda intifada.
    La sua è una scelta controcorrente, vissuta con coraggio e grande semplicità. "Come giornalista - spiega - mi occupo di questioni palestinesi. Quindi sentivo che per fare bene il mio lavoro dovevo vivere lì". Ma la decisione di varcare quel confine non risponde solo al senso profondo di un'etica professionale. E' un'opzione civile e politica. "Io - dice - sono una donna di sinistra, figlia di ebrei russi e comunisti. Mia madre è scampata all'Olocausto e ritiene che l'occupazione straniera di un territorio sia sempre sbagliata. Sono, dunque, stata educata nel principio dell'eguaglianza, che è un principio dell'ebraismo, per questo ho deciso di vivere tra i palestinesi".
    "Abito a Ramallah - continua - ma sono una privilegiata: con l'auto raggiungo Tel Aviv in un'ora, mentre per un palestinese ci vogliono cinque o sei ore, quando va bene. Un altro enorme privilegio è avere l'acqua. Per i palestinesi c'è il razionamento e perfino il diametro dei tubi che la trasporta è molto più piccolo".
    Le sue cronache non risparmiano né gli israeliani né i palestinesi. Amira Hass narra la progressiva militarizzazione dell'intifada, l'affermarsi dei fondamentalismi, gli scontri tra i diversi gruppi armati, la corruzione della leadership palestinese. E poi l'inasprimento dell'occupazione, le violazioni dei diritti umani e la grande povertà che minaccia d'inghiottire i villaggi e dei campi palestinesi. Le sue critiche le attirano molti attacchi, anche da parte delle autorità d'ambo le parti.
    Ma Amira evita toni da vittima o da prim'attrice. La sua scelta di vivere al di là della linea verde, sostiene, in Israele suscita in fondo "una sorta d'indifferenza": "gli israeliani non vogliono sapere", "ai lettori israeliani non importa dei reportage accurati da Gaza. Da Gaza gli interessano solo le notizie su Shalit". La voce sommessa di questa donna dal volto serio e intenso, incorniciato dagli immancabili occhiali, riesce però in questi anni a disegnare nel concreto la realtà quotidiana e dolorosa di due popoli così vicini e così lontani.
    Nelle sue cronache s'intrecciano le vite d'amici e conoscenti: Abu Yussef rifugiatosi in Norvegia e Nir nato in un kibbutz, Muna e le amiche israeliane. E poi il thè alla menta dei pomeriggi sereni; gli ulivi nei campi palestinesi tagliati dagli israeliani (con "i rami amputati come se stessero implorando aiuto"); la costruzione della nuova superstrada israeliana e l'eterna attesa degli abitanti di Gaza ("Aspettare i pezzi di ricambio di elettrodomestici e automobili; aspettare elettricità, acqua e gas; aspettare che apra il varco di frontiera per portare fuori le fragole; aspettare che Israele autorizzi una spedizione umanitaria delle Nazioni Unite. Ormai i palestinesi non fanno altro").
    A marzo dello scorso anno, stanca e delusa da una situazione politica che sembra in stallo totale, Amira Hass sceglie di fermarsi e prende un'aspettativa dal suo giornale. "Una pausa quanto mai necessaria, dopo quindici anni di cronache sull'occupazione - spiega su Internazionale - A mettermi ko non è stata solo l'indubbia fatica di tanti anni di lavoro. La cosa peggiore è sempre stata il profondo divario tra la gravità di quello che scrivevo e la generale indifferenza dimostrata dal lettore israeliano medio. È logorante rendersi conto che le parole non cambiano niente".
    Ma lo stacco dura molto poco. Qualche mese e le tensioni in Medio Oriente di nuovo salgono a livelli di guardia. Amira decide di tornare sul campo e di riannodare il filo del suo racconto. Riesce a raggiungere Gaza con una delle navi umanitarie che a novembre forzano il blocco. Alla fine del mese è espulsa, per "motivi di sicurezza". "Ad Hamas - commenta lei - non interessa dei lettori israeliani". Addolorata per le tante storie che avrebbe voluto raccontare, Amira Hass però non molla. E riprende la sua cronaca,



questa volta dal fronte doloroso di una guerra.


Una risposta

Leggo il ritratto di Amira Hass su l'Unione informa e vorrei contribuire con qualche modesta considerazione su questa giornalista.
Il lungo elenco delle sofferenze delle popolazioni palestinesi è, mi sembra, arcinoto: da anni non si sente né si vede altro, specialmente in periodi come quest'ultimo, alludo all'operazione "piombo fuso"; per cui mi sfugge la novità della notizia. Sarebbe stato interessante capire perché la Hass goda dei privilegi descritti (acqua, e, aggiungo io: la sua incolumità, laddove ai comuni mortali israeliani o ebrei non solo è interdetto l'accesso e non solo a Ramallah e a Gaza, ma anche a Betlemme e a Gerico; non si tratta di dettglio, dato il continuo pericolo di assassini e di sequestri, vedi il recente episodio di tentato linciaggio di una famiglia di israeliani, la cui auto era rimasta in panne a Umm El-Fahm, che fa parte di Israele). Forse una giornalista intellettuale o d'inchiesta, quale la Hass si presenta, dovrebbe anche chiedersi se ci sia qualche motivo per cui la società democratica israeliana non si riconosce in lei: per esempio, potrei suggerire, forse le sue opinioni e i suoi comportamenti vengono semplicemente giudicati sbagliati. Non voglio certo credere che la Hass sia tanto presuntuosa da ritenere di essere l'unica detentrice della verità. Infine, nel merito: forse, se i palestinesi e i loro vari rappresentanti avessero voluto una volta in tutti questi decenni accettare una pace con Israele, invece di praticare la violenza, gli attentati e il terrorismo, i valichi, anzi, i confini sarebbero liberi, la loro economia, finalmente di pace, fiorirebbe e, chissà, se lo avessero voluto, forse avrebbero potuto darsi anche una democrazia atta a difendere i loro diritti.

Davide Nizza

(Moked - il portale dell'ebraismo italiano)





4. L'EBRAISMO E' NECESSARIAMENTE DI SINISTRA?




"Ma chi l'ha detto che siamo di sinistra?"

di Ugo Volli

Ugo Volli
La settimana scorsa Moked ha pubblicato un ritratto della giornalista israeliana Amira Hass, suscitando una risposta polemica da parte di Davide Nizza, che condivido integralmente. Agli occhi di chi come me studia le relazioni fra i modi di comunicare e i significati trasmessi, in quell'intervista colpiva però un passaggio in cui la Hass affermava questa catena di concetti: in quanto figlia di sopravvissuti della Shoà, era stata educata all'eguaglianza, quindi era di sinistra e di conseguenza aveva deciso di mettersi dalla parte dei palestinesi, almeno dalla loro parte della barriera di sicurezza. E' una catena di ragionamenti molto interessante, anche perché molto condivisa, al di là della vicenda umana della giornalista di Haaretz. Vale la pena di analizzarla con la velocità, ma anche la necessaria superficialità caratteristica di una rubrica come questa.
    Che essere di sinistra voglia dire essere coi palestinesi, con gli arabi, con gli islamici ecc. (e dunque, se non giochiamo con le parole, contro Israele) lo vediamo da cinquant'anni su tutte le piazze del mondo e abbiamo appena finito di rivederlo le scorse settimane. Sarebbe bene che chi si sente di sinistra si chiedesse perché. Per i contenuti culturali del Corano (le pene corporali, la discriminazione o peggio di donne e omosessuali ecc.)? Sfogliando il classico libretto di Bobbio su destra e sinistra mi sembra difficile. Perché i palestinesi e in generale gli arabi sono gli oppressi? Intanto bisognerebbe chiedersi perché e da chi sono oppressi, chi si tenga al potere con la violenza e la tortura, chi non divida i proventi del petrolio. E poi sarebbe una buona ragione per approvare chi come Bush aveva il programma - un po' ideologico, lo ammetto - di risolvere la questione del Medio Oriente importando la democrazia nel mondo arabo.
    Ma qualcuno ha mai fatto manifestazioni bruciando la bandiera del Libano, dove ai profughi sono interdetti 54 tipi di lavoro, non possono avere la cittadinanza anche se nati nel paese ecc. ? O ha bruciato le bandiere dell'islamico Sudan per quel che combina in Darfur? Sono discorsi fatti molte volte, non mi ci fermo. Forse la risposta sta invece nella leniniana "politica delle alleanze" contro il nemico Occidente, che dopo la caduta del comunismo è diventata identificazione con tutti quelli che Toni Negri chiama "la moltitudine". Qualunque cosa, purché contraria alla democrazia e al libero mercato. Ma a qualcuno piacerebbe vivere alla maniera siriana, pakistana o iraniana invece che in quella del corrotto e oppressivo Occidente che c'è qui e in Israele? Anche Amira Hass, per qualche misteriosa ragione ha i tubi dell'acqua più grossi, come ammette; ma soprattutto nessuno le fa portare il velo o le butta l'acido in faccia se vuole andare a studiare, come accade alle ragazze afgane…
    Più interessante sul piano del significato delle parole è chiedersi perché l'ebraismo dovrebbe identificarsi con la sinistra e questa con "l'uguaglianza". E' un'identità spesso proclamata, ammetto di averlo fatto anch'io per anni da ragazzo. Nella Torah e nei profeti ci sono straordinari spunti di giustizia sociale, questo è pacifico. Ma giustizia e eguaglianza sono concetti molto diversi. Kadosh, una parola chiave del nostro linguaggio religioso, prima ancora che la santità indica la distinzione, la differenza. Il nome dei farisei, da cui deriva il nostro ebraismo dell'esilio, probabilmente rimanda anch'esso alla distinzione. E le nostre regole alimentari, sui tessuti e sui semi da non mescolare, sui regimi matrimoniali di levim e kohanim, perfino la restituzione dei territori ai proprietari originali nel giubileo, ecc. ecc.: tutto questo richiama evidentemente all'idea fondamentale che persone e cose hanno una loro identità che non va confusa, nonostante le ragioni di funzionalità. Del resto, non siamo accusati da sempre perché non ci mescoliamo agli altri, perché siamo ostinatamente diversi? Il tema è infinitamente più complesso di quel che si può dire qui, ma è difficile sostenere che l'ebraismo debba per definizione essere identificato con l'eguaglianza - o peraltro con qualunque altra definizione di sinistra, si tratti di anticapitalismo, pacifismo, vicinanza a chi lavora o anche realizzazione della giustizia in terra.
    E allora, qual è la ragione di questa identificazione così radicata, che fa gridare autorevoli esponenti dell'ebraismo in Israele e anche in Italia al tradimento dell'identità di fronte a un sionismo nazionalista e antisocialista come quello che viene da Jabotinski, o alle alleanze "innaturali" che sono state talvolta praticate con forze politiche di destra? Non certo il fatto di essere stati trattati bene dalla tradizione socialista: basta guardare alle parole di Marx, Bauer e tanti altri e soprattutto agli atti di Stalin e dei suoi dipendenti per capirlo. Una ipotesi che mi posso fare è che sia prevalsa la logica secondo cui i nemici dei miei nemici sono i miei amici. Perseguitati dalla Chiesa, dallo Zar, dal nazifascismo, in genere dai potenti, l'ebraismo ha scelto storicamente di allearsi con una sinistra che non era al potere e ha mantenuto l'alleanza fino a oggi. L'altra ragione è che il nostro popolo ha una certa propensione a immaginare l'arrivo del Messia come il rovesciamento della legge, ma anche delle leggi dell'economia, una rigenerazione completa dell'uomo come ha insegnato Scholem, e il socialismo ad alcuni è sembrato un ragionevole surrogato del Messia.
    Ma oggi i nemici sono cambiati e così i loro nemici. E dunque è ragionevole cambiare alleanze. E il socialismo si è mostrato come un falso Messia, disastroso per noi e per il mondo ben più di Shabbetai Zvi. E allora bisogna chiedere ad Amira Hass e a tutti i suoi più o meno morbidi compagni di idee: non sarà che vi siete fatti mettere in trappola da un'associazione puramente verbale? Non siete rimasti intrappolati in parole vecchie che non corrispondono più alla realtà? Le parole contano, per il bene, ma soprattutto per il male.

(Notiziario Ucei, 11 febbraio 2009)





5. ARIEL SHARON, IN COMA DAL 2006




E' stata davvero la Pulsa D'noura?

La collera contro Ariel Sharon era scoppiata nell'estate del 2005, quando - allora era primo ministro - aveva ordinato lo smantellamento degli insediamenti dei coloni ebraici nella Striscia di Gaza, territorio che gli israeliani avevano occupato dal 1967 al 1994 e che negli anni seguenti avevano gradualmente passato ai palestinesi, pur mantenendovi diversi insediamenti.
Con questa mossa radicale Sharon intendeva favorire il processo di pace - che invece non fu favorito - e voleva allontanare i circa 9000 coloni israeliani da un territorio che contava quasi 1 milione e 400 mila palestinesi, pensando fosse meglio che i palestinesi vivessero da soli in quella striscia di terra, gestendola per conto proprio e magari cessando gli attacchi dei kamikaze contro le città israeliane.
I rabbini e i loro seguaci avevano fatto di tutto per contrastare ed impedire il ritiro dei coloni dalla Striscia. Avevano fatto pressioni politiche, organizzato dimostrazioni e cortei, avevano emesso decreti rabbinici che proibivano ai fedeli di lasciare la terra che era stata loro destinata. Ma era stato tutto inutile: i coloni avevano dovuto abbandonare le loro case nella Striscia di Gaza; molti di loro le avevano distrutte prima di andarsene, quelle rimaste in piedi erano state occupate dai palestinesi.
Poi, nel gennaio 2006, dopo un precedente attacco cerebrale a dicembre dal quale si era ripreso, Ariel Sharon era entrato in un coma profondo, dal quale ancora oggi, a distanza di tre anni, non si è svegliato.
Subito si era parlato di un'antica e terribile maledizione pseudo cabalistica, chiamata Pulsa D'noura, la "maledezione delle lingue di fuoco", che gli estremisti religiosi ebraici avrebbero evocato per portare Sharon alla morte.
Al di là del fatto che ci si creda o meno, nella storia degli ebrei questa maledizione è sempre stata usata quando ogni altro mezzo per proteggere "il popolo eletto" aveva fallito. La Pulsa D'noura è, per dirla in breve, un insieme di invocazioni che chiedono la maledizione o la morte di un individuo che non può essere punito per mano dell'uomo.
I rabbini che la invocano al contempo la temono: è proibito metterla per iscritto e a torto si pensa che sia celata in antichi testi cabalistici: la sua trasmissione è permessa unicamente per via orale.
Tornando ad Ariel Sharon, gli israeliani stessi ammettono di non sapere con certezza se l'81enne ex primo ministro sia ancora vivo all'ospedale di Tel Ha-Shomer, nella cui struttura si trova la base militare di Camp Dori.
Le voci sulle sue condizioni sono diverse e contraddittorie. C'è chi parla di coma profondo, chi di coma leggero, chi dice che sta per svegliarsi, chi dice che è già morto da un pezzo. Non c'è niente di sicuro e nessuna notizia attendibile trapela.
Raanan Gissin, il suo ex consigliere commenta che "Sharon non è sempre stato popolare, ma quando c'era una crisi, un problema, si poteva sempre contare su di lui. Era un soldato, un generale, non sfuggiva dalle responsabilità, agiva secondo la sua coscienza. Un atteggiamento non sempre privo di pericoli."

(ticinolibero.it, 12 febbraio 2009)





6. LIBRI




Pentagramma del male

«Ad Auschwitz c'era un'orchestra», diario della cantante Fania Fènelon. L'artista riuscì a salvarsi perché fu messa a dirigere il gruppo musicale del lager

di Maria Pia Forte

Sembra quasi di essere in una vera sala da concerto. In prima fila le autorità, uomini fasciati dai pastrani dell'uniforme, stivali lucidi e collo di pelliccia, e donne bionde, alte, occhi azzurri da pure ariane, in cappotti di pelle e calze di seta. Anche i rumori sono quelli consueti prima dell'inizio di un'esecuzione: raschiare di strumenti, colpi di tosse, bisbigli. Ma niente stucchi e velluti in questo locale gelido, in genere adibito a docce e smistamenti; e gli spettatori sono ufficiali delle SS e sorveglianti, un gruppetto di medici, infermiere e ammalati, e nel fondo un centinaio di deportate tutte ossa e occhi pronte a commuoversi sulle note di Strauss, Mozart, Puccini. Per loro è un'occasione eccezionale, dovuta alla sadica magnanimità di una SS, forse la stessa che domani le destinerà alla camera a gas. Siamo a Birkenau, inferno alle porte di una tranquilla cittadina polacca di nome Auschwitz.
    Ad esibirsi per i capi è l'orchestra femminile del campo di sterminio che diventerà simbolo della spietatezza nazista: immenso, una macchina dai perfetti ingranaggi che macina senza posa migliaia di vite umane, un luogo dove sopravvivere è una quotidiana roulette russa e dov'è quasi impossibile conservare un'ombra di dignità. Terrore, umiliazioni bestiali, abbrutimento provocano nei più la perdita di sé. Solo i più forti moralmente rimangono esseri umani.
    Fra questi c'è Fania Fénelon (nome d'arte di Fania Goldstein), giovane pianista e cantante nei cabaret parigini, scampata al gas grazie alle sue doti canore: cantando «un bel dì vedremo» dalla «Madama Buttertly» ha conquistato la dura, ambigua kapo Alina Rosé, applaudita violinista, figlia di un noto violinista tedesco e nipote di Gustav Mahler. Nominata direttore dell'orchestra organizzata da Alina a Birkenau,
    Fania annota su un taccuino tutto quel che accade nel lager. Molti anni dopo tramuterà quegli appunti in un libro (da cui sarà tratto il film "PIaying for time»), pubblicato in Italia nel '78 da Vallecchi, che lo ripropone oggi - «Ad Auschwitz c'era un'orchestra» - per la prima volta in versione integrale.
    Quel gruppo di quarantasette donne, alcune adolescenti, è un microcosmo di «privilegiate» - finché riusciranno ad accontentare i sensibili orecchi musicali delle SS, avranno salva la vita e godranno di minimi conforti - nel quale si riflettono tutte le mostruosità del lager. Intorno a loro, il fumo e l'odore rivoltante dei crematori e l'abiezione a cui le deportate sono ridotte dagli aguzzini che per non annoiarsi inventano sempre più raffinate forme di persecuzione. All'interno del loro gruppo, gelosie, invidie, livori, amori, razzismo, bieca intolleranza, e tanta paura: possono bastare una stecca, un sorriso fuori posto, un battito di ciglia a decretare la propria disgrazia.
    Fania Fénelon non nasconde niente, non abbellisce, non sublima, ritrae talvolta le sue compagne come «un branco di pecore cieche e stupide», scodella con cruda sincerità la sua avversione per le polacche ariane, piene di astio e di spirito vendicativo verso gli ebrei, il suo odio per il comandante del lager, che ha in sé «tutta la brutalità, tutta la bestialità del mondo».
    Ma sa anche scherzare, e sperare, e amare quelle «pecore cieche e stupide» capaci di slanci di fraternità. In quel mondo partorito dalle allucinazioni di un mostro si muovono belve come l'SS Tauber, «dal fisico aguzzo, che la malinconia e la noia rendono feroce»; o la Lagerführerin Mandel, fiorente trentenne con mani «bianche lunghe sottili delicate», capelli mirabilmente biondi raccolti in trecce sul capo, viso senza trucco e luminoso, denti bianchi grandi belli, perfetta, troppo, «un magnifico esemplare della razza dei signori», che s'innamora di un biondo bambino strappato a una polacca, per qualche giorno lo coccola e lo esibisce con fierezza vestito sempre di blu, per consegnarlo infine ai carnefici, perché una nazista «non ha diritto di anteporre i sentimenti all'ideologia»; e poi il dottor Mengele, noto scienziato «per i suoi studi sulla colorazione dell'iride», non un pazzo, anzi uomo intelligente, colto, raffinato, che sottopone ad atroci esperimenti nani e gemelli e uccide per il piacere che gli procura «quell'impercettibile tremore d'angoscia che scorre anche negli occhi dei più coraggiosi».
    Trasferita a Bergen-Belsen all'avvicinarsi dell'Armata Rossa ad Auschwitz, l'orchestra vi subirà lo stesso destino di una folla di fantasmi abbandonati alla morte per malattie e fame. Quando nell'aprile 1945 gli inglesi entreranno nel lager che fu la tomba di Anna Frank, Fania, delirante per il tifo, troverà la forza di mettersi a cantare. La sua bella voce risuonerà, dalla radio, in tutta la Gran Bretagna. Scrive Fania: «Canto. Davanti a me, attorno a me, da ogni angolo del campo, reggendosi alle pareti delle baracche, si muovono ombre e scheletri. Si levano, si fanno grandi. (...) Sono tornati a essere uomini e donne» .
    
Fania Fènelon, Ad Auschwitz c'era un'orchestra, Vallecchi, 2008, p.266, € 15

(La Gazzetta di Parma, 22 gennaio 2009)





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