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Notizie su Israele 458 - 24 marzo 2009

1. L'antisionismo non è antisemitismo. E' peggio
2. Intervista a Guido Sacerdoti
3. L'antisemitismo è l'anticamera del totalitarismo
4. Un sopravvissuto ad Auschwitz racconta
5. Tecnologia israeliana
6. Libri
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Osea 3:4-5. I figli d'Israele staranno per parecchio tempo senza re, senza capo, senza sacrificio e senza statua, senza efod e senza idoli domestici. Poi i figli d'Israele torneranno a cercare il Signore, loro Dio, e Davide, loro re, e ricorreranno tremanti al Signore e alla sua bontà, negli ultimi giorni.
1. L'ANTISIONISMO NON E' ANTISEMITISMO. E' PEGGIO




L'antisionismo è odio?

Sì, perché minaccia le vite e la pace in Medio Oriente.

di Judea Pearl

Il campus di UCLA a Los Angeles
A gennaio, durante un simposio dell'UCLA (University of California, Los Angeles) organizzato dal Centro Studi per il Medio Oriente, quattro detrattori di Israele ben noti da molto tempo sono stati invitati ad analizzare le condizioni dei diritti dell'uomo a Gaza e hanno utilizzato quella tribuna per attaccare la legittimità del sionismo e la sua visione di una soluzione di due stati per Israele e per i palestinesi.
    Hanno criminalizzato l'esistenza di Israele, distorto i suoi motivi profondi e diffamato il suo carattere, la sua nascita e la sua stessa concezione. A un certo punto hanno eccitato l'uditorio e, a quanto si dice, hanno scandito frasi come "Il sionismo è nazismo", e peggio ancora.
    I dirigenti ebrei hanno condannato questo festival dell'odio indicandolo come un incitamento all'isteria antisemitica, e hanno sottolineato l'effetto devastante che poteva avere sull'UCLA e il suo impatto su un campus famoso per la sua atmosfera aperta e cortese. Gli organizzatori, alcuni dei quali sono ebrei, si sono trincerati dietro la "libertà accademica" e hanno usato l'argomento secondo cui l'antisionismo non è antisemitismo.
    Io sono totalmente d'accordo con questo slogan, non perché esonera gli antisionisti dall'accusa di antisemitismo, ma perché questa distinzione ci aiuta a focalizzare la nostra attenzione sul carattere discriminatorio e immorale dell'antisionismo, ancora più dannoso dell'antisemitismo.
    L'antisionismo rigetta la semplice nozione che gli ebrei siano una nazione - un collettivo legato insieme da una storia comune - e, di conseguenza, nega agli ebrei il diritto all'autodeterminazione sul loro luogo storico di nascita. Persegue il progetto di smantellare lo stato-nazione ebraico: Israele.
    L'antisionismo merita il suo carattere discriminatorio perché nega al popolo ebraico quello che concede ad altri collettivi legati storicamente (come, per esempio, francesi, spagnoli, palestinesi), cioè il diritto alla nazionalità, all'autodeterminazione e alla legittima coesistenza con altri indigeni che lo richiedano.
    L'antisemitismo rigetta gli ebrei come membri paritari della razza umana; l'antisionismo rigetta Israele come membro paritario nella famiglia delle nazioni.
    Gli ebrei sono una nazione? Alcuni filosofi direbbero che gli ebrei sono in primo luogo una nazione e in secondo luogo una religione. In effetti, la narrazione dell'Esodo e la visione dell'imminente viaggio verso il paese di Canaan si sono impressi nella mente del popolo ebraico prima di aver ricevuto la Torà al monte Sinai. Ma a parte la filosofia, la salda convinzione nel loro futuro rimpatrio nel luogo di nascita della loro storia è stata il motore che ha alimentato la perseveranza e la speranza ebraica durante il turbolento viaggio cominciato con l'espulsione da parte dei romani nel 70 AD.
    Cosa ancora più importante, non la religione, ma la storia condivisa è oggi la più importante forza unitaria che sta alla base della secolare, multietnica società di Israele. La maggioranza dei suoi membri non osserva leggi religiose e non crede in una supervisione divina o nella vita dopo la morte. La stessa cosa si applica all'ebraismo americano, che è in gran maggior parte laico. Sentirsi identificati in un comune ethos storico culminante nel ristabilimento dello Stato d'Israele, costituisce il legame centrale della collettività ebraica in America.
    Naturalmente ci sono anche ebrei che sono non-sionisti o addirittura anti-sionisti. Il movimento ultra-ortodosso di Neturei Karta e il movimento di sinistra di Noam Chomsky sono esempi notevoli. Il primo rigetta ogni tentativo terreno di interferire con il piano messianico di Dio, mentre il secondo detesta tutte le forme di nazionalismo, soprattutto quelle che hanno successo.
    Ci sono anche ebrei che trovano difficile difendere la loro identità contro la crescente perversità della propaganda anti-israeliana, e alla fine nascondono, rinnegano o denunciano le loro radici storiche in cambio di riconoscimento sociale e altri vantaggi.
    Ma queste, nel migliore dei casi, sono minoranze marginali: i tessuti vitali dell'identità ebraica oggi si nutrono della storia ebraica e dei suoi naturali derivati: lo Stato d'Israele, la sua lotta per la sopravvivenza, le sue conquiste culturali e scientifiche, la sua instancabile ricerca della pace.
    Secondo questa comprensione della nazionalità ebraica, l'antisionismo è per molti aspetti più pericoloso dell'antisemitismo.
    Per prima cosa, l'antisionismo prende di mira la parte più vulnerabile del popolo ebraico, cioè la popolazione ebraica di Israele, la cui sicurezza fisica e dignità personale dipendono in modo cruciale dal mantenimento della sovranità israeliana. Detto brutalmente, il progetto antisionista di farla finita con Israele condanna cinque milioni e mezzo di esseri umani, in maggior parte profughi o figli di profughi, a vivere eternamente privi di difesa in una regione in cui i progetti genocidi non sono rari.
    In secondo luogo, la società moderna ha sviluppato anticorpi contro l'antisemitismo, ma non contro l'antisionismo. Oggi gli stereotipi antisemiti provocano repulsione nella maggior parte delle persone di coscienza, mentre la retorica antisionista ha ottenuto un marchio di nobiltà accademica e di accettazione sociale in certi estremisti e loquaci circoli dell'università americana e dell'elite mediatica. L'antisionismo si traveste sotto il mantello del dibattito politico, si esonera dalle sensibilità e dalle norme di civiltà che regolano il discorso inter-religioso per attaccare i simboli più cari dell'identità ebraica.
    Infine, la retorica antisionista è una pugnalata alla schiena del campo della pace, che in massima parte sostiene la soluzione dei due stati. E dà anche credito ai nemici della coesistenza, i quali chiedono che l'eliminazione finale di Israele entri nell'agenda segreta di ogni palestinese.
    E' l'antisionismo dunque, non l'antisemitismo, che costituisce la più pericolosa minaccia per le vite umane, per la giustizia storica e per gli sforzi di pace in Medio Oriente.

(Los Angeles Time, 15 marzo 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. INTERVISTA A GUIDO SACERDOTI




Shoah e negazionismo

di Donato De Sena

Guido Sacerdoti, da anni nelle scuole a trattare di razzismo, totalitarismo, Shoah, questione arabo-israeliana, è Professore incaricato di Allergologia e Immunologia Clinica presso Seconda Università degli Studi di Napoli ed è Presidente della Fondazione Carlo Levi di Roma (allo scrittore e pittore torinese ha dedicato mostre e saggi). Lo abbiamo contattato per parlare di Shoah, negazionismo e reato di negazionismo, presente oggi in gran parte del mondo occidentale, ma non in Italia.

- Non sono certo in discussione le argomentazioni dei negazionisti, ma la opportunità di sanzionare per legge anche in Italia queste posizioni senza ledere il principio costituzionale della libertà di opinione. Cosa ne pensa?
-
Trattare questa questione può essere particolarmente penoso per chi come me, ebreo, è vissuto in una famiglia direttamente ferita da Auschwitz, quell'allegro villaggio turistico dove qualcuno, come mio zio Franco a 24 anni, è morto accidentalmente, forse per indigestione… Direi preliminarmente che la distruzione degli ebrei in Europa (per citare il titolo della monumentale ricostruzione dello storico Hilberg) è di sicuro un fatto acquisito dall'opinione pubblica come un "dato di realtà". Solo una sparuta minoranza di neonazisti nostrani si spinge, via internet, a negare questa "verità delle cose" entrata oramai nel senso comune delle nuove generazioni, soprattutto dopo la istituzione nel 2000 del Giorno della memoria, le testimonianze rese degli scampati nelle scuole, le mostre storiche, ma soprattutto le opere cinematografiche come Schindler's List e i documentari televisivi.

- E dunque?
-
La minoranza negazionista in Italia deve fare i conti con un certo diffuso livello di conoscenza della storia che la contraddice, ma soprattutto con un notevole grado di indifferenza nei confronti dell'intera questione.

- In che senso indifferenza?
-
E' l'indifferenza tipica di una società di massa che galleggia solo nel presente, che si sente estranea al passato, alla memoria, ai valori, ai disvalori e che vive essenzialmente nel recinto angusto e mistificato delle pseudoemozioni televisive, delle finzioni delle fiction, delle banalità del Grande Fratello, del "buonismo" del festival di Sanremo, del cinismo di Porta a porta, ecc.. Questa indifferenza della grande comunità dei consumatori di merci nei confronti di qualsiasi riflessione sulla nostra storia recente (e, più in generale, nei confronti della riflessione su qualsiasi argomento che esuli dalla cronaca spicciola) rende paradossalmente meno pericoloso, almeno nel nostro paese, il messaggio negazionista, per il fatto che questo messaggio non può essere collocato nel chiacchiericcio di TV Sorrisi e Canzoni…

- Ma non tutti la pensano come lei circa il pericolo rappresentato dalla possibile diffusione delle idee negazioniste…
-
Guardi, frange di ultras neonazisti continueranno a esporre negli stadi i loro striscioni , a sfilare con le teste rasate e gli anfibi , a alimentare i loro siti paranoici, ma dubito, per la ragione che ho esposto prima, che queste manifestazioni possano diventare un fenomeno di massa, anche in momenti di grave crisi economica come quello attuale, nel quale potrebbero risvegliarsi antiche pulsioni a trovare il tradizionale capro espiatorio nell'ebreo (capitalista, avido speculatore, ecc.).

- Tuttavia nella società italiana non mancano le spinte razziste e xenofobe, anche se oggi non sono indirizzate nei confronti della minoranza ebraica…
-
Certo. E' innegabile questa deriva, alimentata soprattutto dalla Lega. Ma io vorrei sottolineare il carattere particolare che assume il negazionismo in contesti diversi da quello europeo. Mi riferisco al negazionismo assurto a propaganda governativa, a messaggio dotato di una certificazione di ufficialità, collante di una opinione pubblica di un paese che si ritiene in guerra contro il nemico sionista e imperialista, nelle scuole, negli uffici, in TV. Come in Iran e in alcuni paesi arabi. In questo caso il messaggio, da espressione verbale di una minoranza, assume una valenza direttamente operativa.

- In che senso?
-
Nel senso che solo negando la Shoah, che è l'elemento moderno di legittimazione dello stato di Israele, si può essere "legittimati" a programmarne la distruzione reale. La diffusione nelle scuole e nelle moschee di libelli come I Protocolli degli Anziani di Sion, che hanno fatto parte dell'armamentario della propaganda antisemita di Hitler, si muove nella stessa direzione: gli ebrei sono in perenne complotto per la conquista del mondo e la Shoah è una loro invenzione.

- Lei definisce negazionisti "solo una sparuta minoranza di neonazisti". Ma Lei, così, rischia di definire neonazisti anche quelli che neonazisti non lo sono affatto. Quella neonazismo-negazionismo non le sembra una semplificazione grossolana o quanto meno molto severa?
-
No: mi trovi un negazionista antifascista, liberale, che si professi antirazzista, che non esalti Hitler, che non ce l'abbia con gli Usa, che non ce l'abbia con la modernità e con la democrazia, ecc. Questa equazione è esatta.

- Cosa pensa delle tesi espresse dai negazionisti tecnici?
-
Non si può parlare nè di tesi, nè di tecnici, ma di affabulazioni.

- Lei definirebbe neonazisti anche quei negazionisti che non tendono a negare la Shoah nel senso letterale del termine, ma ad inquadrarla nel contesto generale della seconda guerra mondiale, nel quale potrebbe perdersi l'unicità della Shoah così com'è nell'immaginario collettivo?
-
Necessariamente la Shoah deve essere inquadrata in un contesto, che tuttavia non è quello della Seconda guerra mondiale, ma quello dei secoli XIX e XX. La unicità della Shoah sta nel fatto di essere stato uno sterminio pianificato e portato avanti da una efficiente macchina burocratico-amministrativo-militare di un moderno paese nel cuore della civilissima Europa.

- Torniamo all'Italia.
-
In Italia la Shoah è stata definita, anche da Fini, "Male Assoluto". Con ciò relegandola in una sorta di territorio metafisico, astorico, fuori da ogni contesto. Dire "Male Assoluto" è un po' come dire " Il peccato originale"… Tutti colpevoli, nessun colpevole. Intanto questo è il paese nel quale il reato di apologia di fascismo, pur essendo esplicitamente previsto dalla Costituzione, è stato tranquillamente ignorato in questo mezzo secolo che ci divide dalla caduta del regime, come se l'armamentario verbale, gestuale, rituale del neofascismo dovesse essere una componente naturale del panorama socio-culturale italiano, al pari dei simboli della Chiesa cattolica negli edifici pubblici. Una tolleranza impensabile in paesi come la Germania …

- Eppure il gesto di Fini dovrebbe rendervi soddisfatti ed orgogliosi, non preoccupati.
-
Non vedo perchè il gesto di Fini dovrebbe soddisfarmi e inorgoglirmi. Rimane un puro gesto propagandistico se non si accompagna a una rilettura critica del fascismo. Inoltre la questione non riguarda gli ebrei italiani, ma tutta la società del nostro paese.

- Non crede che l'apologia di fascismo sia una affermazione meno grave, e quindi meno sanzionabile per legge, rispetto al negazionismo?
-
Qui tocchiamo uno dei nodi cruciali dell'argomento che stiamo discutendo: quello delle responsabilità del Fascismo e di una parte della società italiana nello sterminio degli ebrei italiani. Mio zio Franco fu arrestato dai fascisti, in quanto ebreo, nell'autunno del 1943 a Torino per una soffiata del suo portiere (le delazioni erano retribuite), inviato nel campo italiano di Fossoli, di qui a Auschwitz- Birkenau. L'attuale presidente del Consiglio non ha mai voluto presenziare la celebrazione del 25 Aprile per non "legittimare i comunisti"; un folto gruppo di parlamentari vorrebbe istituire una fantomatica onorificenza che accomuni e equipari (anche sotto il profilo pensionistico) partigiani e repubblichini di Salò.

- E allora?
-
E allora il vero problema del nostro paese non è la presenza di qualche negazionista sedicente storico a qualche pseudo-convegno, o di qualche parroco lefebvriano nostalgico delle croci uncinate, ma il fatto che sotto lo slogan della "memoria condivisa" si voglia far passare il mito di una Italia pacificata. Pacificata sotto uno slogan assolutorio quanto storicamente falso: che gli italiani siano stati tutti "brava gente", che le Leggi in difesa della razza del 1938 siano stati un trascurabile "errore", per "accontentare Hitler", ecc. Un armamentario che si potrebbe anche ignorare relegandolo al particolare "uso politico della Storia" che questo governo fa, se non fosse che ci rimanda alla domanda dalla quale siamo partiti.

(Giornalettismo, 16 marzo 2009)





3. L'ANTISEMITISMO E' L'ANTICAMERA DEL TOTALITARISMO




Ginevra, la sfida alle democrazie

di Piero Ostellino

Sale la marea antisemita. Ma l'antisemitismo è l'anticamera del totalitarismo. Perciò riguarda anche me; che non sono ebreo e neppure cristiano praticante. Si incomincia col perseguitare gli ebrei e si prosegue con l'abolizione delle libertà e dei diritti individuali e la condanna di chi li rivendica.
E' bene che l'Europa, seguendo l'esempio dell'Italia, stia pensando, in assenza di nuovi elementi, di non partecipare alla Conferenza di Ginevra sui diritti umani che già minaccia di essere una «Durban-due», la fotocopia di quella del 2001 dove non si discusse del tema, ma solo di Israele — per chiederne la distruzione — e degli ebrei, per auspicarne lo sterminio.
    Indipendentemente dal pericolo — anche per chi ebreo non è — che rappresenta l'antisemitismo, ci sono due ragioni, una di metodo, l'altra di merito, che sconsigliano le democrazie liberali dall'andare a Ginevra. La ragione di metodo è che conferenze siffatte non offrono alcuna garanzia che chi non è d'accordo con la maggioranza (antisemita e totalitaria) abbia la possibilità di far valere le proprie ragioni e, soprattutto, che, a presiedere alla conclusione dei lavori, ci sia un potere «neutro» di garanzia contro ogni tentativo di approvare forme di sopraffazione. Nelle democrazie liberali, c'è l'equilibrio dei poteri: se, per ipotesi, una maggioranza parlamentare impazzisse, e volesse approvare leggi liberticide, oltre all'opposizione, interverrebbe il potere giudiziario (attraverso la Corte costituzionale) a dichiararle illegittime, nonché farebbe sentire la propria voce l'opinione pubblica. Sarebbe ora che le Nazioni Unite prendessero atto di una anomalia che, di fatto, finisce col rinnegare persino i principi stessi che ne hanno ispirato la nascita.
    La ragione di merito è che non c'è alcuna possibilità di compromesso fra un fondamentalismo religioso, che nega i diritti



individuali, e le democrazie liberali che su quegli stessi diritti hanno il proprio fondamento. Il comunismo era un programma politico che solo per le grandi masse era diventato una religione, mentre era rimasto una laica filosofia della storia per i suoi dirigenti. Perciò, il compromesso, fra comunismo e democrazie liberali, si era rivelato possibile perché, fra concezioni politiche, economiche e sociali pur tanto diverse, una «pacifica convivenza» era nella natura stessa a-religiosa dei due sistemi ed era nei loro stessi interessi.
    Il fondamentalismo religioso — che si incarna nell' estremismo islamico — è una religione che è anche un programma politico. Perciò il compromesso, fra l'estremismo islamico e le democrazie liberali, è impossibile perché è nell'inconciliabilità delle «conseguenze sociali e civili » della religione nei due campi che tale impossibilità risiede. Per l'estremismo islamico, rinunciare alle conseguenze sociali e civili della religione equivarrebbe a rinnegare sia la fede sia il programma politico (dall'Ordinamento statuale alla giustizia, dal ruolo delle donne ai rapporti con le altre religioni, eccetera); nelle democrazie liberali, il problema non si pone perché la separazione fra politica e religione è già avvenuta. Noi siamo nella Modernità; loro non ci sono ancora entrati.

(Corriere della Sera, 21 marzo 2009)





4. UN SOPRAVVISSUTO AD AUSCHWITZ RACCONTA




Nedo Fiano, la testimonianza come necessità

Sopravvissuto ad Auschwitz, nei primi anni '90 ha cominciato a raccontare la sua esperienza fino a meritare l'Ambrogino d'oro. Laureato alla Bocconi a 43 anni, ci tornerà per fare in modo che nessuno dimentichi.

Nedo Fiano
Quando verrà alla Bocconi, mercoledì 25 marzo, per testimoniare la sua esperienza di sopravvissuto ad Auschwitz (con il presidente dell'Assemblea rabbinica italiana, Giuseppe Laras), per Nedo Fiano si tratterà di un ritorno. Classe 1925, Fiano, nato in una famiglia ebraica fiorentina, si è laureato in lingue alla Bocconi nel 1968.
    Espulso da scuola a 13 anni all'emanazione delle leggi razziali, Fiano fu arrestato nel febbraio del 1944 e deportato ad Auschwitz, dove giunse a maggio. Subito selezionato per il campo di sterminio, e non per quello di lavoro, si salvò grazie alla conoscenza del tedesco, che gli aveva insegnato il nonno, morto nel 1936. Quando un sergente maggiore delle SS chiese agli ebrei schierati chi parlasse il tedesco, racconta Fiano in "A5405. Il coraggio di vivere", il libro del 2003 in cui racconta la sua vita ad Auschwitz, si sentì come spinto alle spalle dal nonno e rispose di parlarlo. Fu assegnato a un kommando che accoglieva al campo i deportati di tutta Europa (vide arrivare anche sua nonna). Liberato nell'aprile 1945 dagli americani a Buchenwald, dove era stato trasferito dai tedeschi in fuga, Fiano pesava 37 chili e aveva perso tutta la famiglia.
    Gli studi alla Bocconi, dal 1963 al 1968, sono stati intrapresi per adempiere a una promessa fatta alla madre. "Ho studiato mentre lavoravo, frequentando perciò molto poco", afferma oggi, "e quando comparivo in università gli altri studenti, di 20 anni più giovani di me, facevano spazio per farmi passare, credendomi un professore".
    In quegli anni Fiano non aveva un'immagine pubblica. Si è assunto l'incarico di raccontare la Shoah e i campi di sterminio solo all'inizio degli anni '90, quando ha cominciato un'attività di testimonianza in giro per l'Italia che l'ha portato, da allora a oggi, a partecipare a 842 incontri. "All'inizio degli anni '90 non è accaduto nulla, nella vita pubblica o nella mia vita privata, che associ all'avvio di questa attività", racconta Fiano."È che la vita non ha un andamento lineare. C'è un barometro naturale che suggerisce a ciascuno, da un giorno all'altro, di scrivere poesie, o mettersi a cantare. Io mi sono convinto che si debba parlare della Shoah, nella speranza di suscitare nelle giovani generazioni una reazione che impedisca la sua ripetizione. E poi mi sono sentito come un viaggiatore che sente di avere l'ultima possibilità di prendere un treno che, altrimenti, non passerà più". Tale, assidua attività di divulgazione gli è valsa, nel 2008, l'Ambrogino d'oro, mentre una decina di anni prima era stato consulente di Roberto Benigni per il film "La vita è bella".
    Fiano attribuisce al razzismo di stato - la dottrina prima nazista e poi fascista della razza - la gran parte della responsabilità della persecuzione degli ebrei. "Quando furono emanate le leggi razziali", ragiona, "il regime fascista aveva già inculcato nella popolazione un modo di pensare e di obbedire che, all'inizio, convinse anche parecchi ebrei. Mio padre aderì al Partito fascista, nessuno prevedeva come sarebbe andata a finire. Non posso stupirmi più di tanto, perciò, dell'atteggiamento dei miei compagni di classe, che non esitarono a emarginarmi, per la paura dei genitori e delle autorità. Mi rattrista, invece, il fatto che nessuno di loro sia venuto a cercarmi in seguito".
    Fiano, d'altra parte, preferisce raccontare che spiegare l'orrore che ha vissuto. "Non cerco di capire i comportamenti degli aguzzini, perché temo che ne risulterebbe una parziale giustificazione. Mi rendo solo conto che movimenti come quello nazista, quello sovietico o quello fascista, sorgono in momenti di grande crisi, quando la gente sente il bisogno del miracolo in terra, e temo che i nostri tempi condividano questa caratteristica con la Germania di Weimar o l'Italia degli anni '20".
    Dopo una decina d'anni di testimonianza solo orale e il primo libro autobiografico, Fiano torna sulla realtà della Shoah con un romanzo, "Il passato ritorna" (Editrice Monti, 2009, 192 pagine, 16 euro), che riflette i modi asciutti della sua esposizione orale. Costruito per giustapposizione di quadri che lasciano poco spazio all'emotività pur nella narrazione di una vicenda drammatica, racconta della scelta di una coppia di ebrei torinesi, allo scoppio della guerra, di affidare il proprio bambino in fasce a un amico che vive in Svizzera e della agnizione che ne segue, 55 anni più tardi.

(viasarfatti25.it, 18 marzo 2009)





5. TECNOLOGIA ISRAELIANA




Grattacieli, ecco le scialuppe di salvataggio

di Leonardo Servadio

Al diciottesimo piano del grattacielo improvvisamente si scatenano le fiamme: è panico, la gente si accalca alle finestre per respirare mentre l'aria all'interno si fa sempre più pesante di fumo e il calore diventa insopportabile. C'è chi si prepara a saltare giù in un disperato tentativo di evitare il fuoco, quando alla sommità dell'edificio si apre una struttura da cui calano cabine che, manovrate da uno specialista, raggiungono il piano in fiamme e consentono alle persone di scendere in sicurezza. Potrebbe essere un film tra fantascienza e catastrofismo, un genere che andava molto soprattutto prima che certi disastri non si avverassero, ma in realtà è qualcosa di molto simile a una simulazione compiuta, peraltro senza potenziali vittime, su un grattacielo a Ramat Gan, sobborgo di Tel Aviv.
    Gli israeliani, notoriamente esperti in problemi di sicurezza, sanno che la prevenzione è preferibile alla gestione dell'emergenza. Le cabine, che - protette da pareti in materiale ignifugo - scorrono su rotaie esterne alla facciata e raggiungono le stanze isolate predisposte come stazioni dove ci si può rifugiare in attesa che arrivi il mezzo per evacuare il piano incendiato, sono un'invenzione presentata da Jonathan Shimshoni della società Escape, che le definisce 'scialuppe di salvataggio'. Un'immagine efficace: sono appese in alto, come le piccole barche di emergenza sulle navi, e calano per permettere alle persone di allontanarsi dall'edificio rapito dalle fiamme, come una nave che affonda è rapita dal mare. Il motivo che ha spinto a questa realizzazione è l'evento terribile e funesto del World Trade Center in fiamme: in quell'11 settembre del 2001 almeno duecento persone si sono gettate dalle finestre, tra chi stava ai piani superiori a quelli colpiti dagli aerei.
    È l'effetto del panico: se non ci sono vie di fuga possibili si sceglie l'impossibile. Il vuoto piuttosto che le fiamme: la decisione non è ragionata ma subitanea, dettata da un istinto di conservazione che in fondo sa che non c'è alternativa. È sempre stato così, anche dipinti che appartengono alla storia dell'arte raccontano comportamenti simili: per esempio l'Incendio di Borgo, che nelle Stanze di Raffaello in Vaticano raffigura il disastro che colpì il quartiere romano nell'anno 847, mostra gente che si lascia cadere dalle mura per sfuggire al fuoco. Solo che là gli edifici erano di due-quattro piani, non di centodieci. Certo, la probabilità che si ripetano incidenti o attacchi come quello contro le Torri gemelle sono, auspicabilmente, poche; tuttavia da quel tragico momento sono sorti molti interrogativi che riguardano la sicurezza e la gestibilità dei grattacieli in condizioni di emergenza. Il primo problema è di carattere strutturale (si ritiene che le Torri siano crollate perché la struttura in acciaio cedette al calore dopo meno di un'ora dagli scoppi): a questo si può porre rimedio nelle nuove edificazioni garantendo che i materiali presenti delle costruzioni siano prevalentemente ignifughi e soprattutto isolando le strutture portanti.
    Vi sono anche ascensori antincendio: dotati di un circuito elettrico indipendente, scorrono entro un vano autonomo e isolato, e agli imbarchi e sbarchi hanno camere sicure con porte tagliafiamma che tengono lontano il fuoco. Ma sono rari: occupano molto spazio e questo ha un prezzo. L' idea israeliana scavalca il problema dello spazio all'interno degli edifici e può essere applicata alle strutture esistenti prive di ascensori antincendio. Secondo quanto viene riferito, una struttura di questo tipo può operare cinque cabine esterne ognuna delle quali può ospitare venticinque-trenta persone, consentendo di evacuare ogni otto minuti circa centocinquanta persone. «Se nel novembre scorso nell'hotel Oberoi di Mumbai - ha detto da Shmishoni - fosse stato installato questo sistema, le teste di cuoio indiane avrebbero forse potuto salvare un maggior numero di ostaggi».

(Avvenire.it, 15 marzo 2009)





6. LIBRI




Stefania Dazzetti, la storia dell'ebraismo italiano attraverso la sua organizzazione giuridica

di Lucilla Efrati

Un viaggio lungo la storia dell'ebraismo italiano nell'ultimo secolo quello compiuto da Stefania Dazzetti, dottore di ricerca in diritto ecclesiastico e canonico. Un affascinante percorso che si snoda dagli inizi del 900 e giunge ai nostri giorni studiando l'ebraismo italiano attraverso le sue istituzioni. Quello che ne è uscito è un corposo volume che attraverso la mediazione delle fonti storiche e giuridiche fornisce un esauriente immagine della poliedrica realtà giuridica delle organizzazioni comunitarie ebraiche indagando soprattutto il complesso rapporto fra organismo centrale (l'Unione) e comunità. Un libro per addetti ai lavori in ambito storico e giuridico, ma dedicato anche agli appassionati dei temi della libertà e del pluralismo religioso in Italia.
Abbiamo avuto occasione di parlarne con l'autrice qualche ora prima della sua presentazione al Centro Bibliografico dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

- Stefania da che cosa è scaturita l'idea di lavorare su un libro che si occupi della legislazione delle comunità?
- Alla ricerca mi ha condotto, anzitutto, la constatazione dell'assenza, nel panorama
degli studi giuridici, di una trattazione sistematica in tema di autonomia delle comunità ebraiche italiane. Da sempre, e anche dopo la comparsa degli enti unitari di rappresentanza - il Consorzio e poi l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane -, le
comunità hanno rivestito, e ancora oggi conservano, un ruolo di assoluto rilievo nell'assetto organizzativo dell'ebraismo in Italia. Le comunità continuano a costituire le principali istituzioni della vita associativa degli ebrei italiani. E non v'è dubbio che l'autonomia ne costituisca la caratteristica, la prerogativa più significativa, intendendo per essa la capacità di tali enti di darsi un'organizzazione interna, distinta da quelle
dello Stato e degli altri corpi sociali, interni ed esterni all'ebraismo.

- Quanto tempo ha impiegato nella ricerca documentaria?
- La ricerca mi ha impegnato per diversi anni. Mi proponevo di ricostruire gli assetti giuridici che, nel corso del Novecento, hanno regolato la vita delle comunità e l'apporto che ciascuna di esse ha fornito al processo di formazione delle norme regolatrici dell'autonomia. Ho intrapreso così una serie di indagini il più possibile accurate presso gli archivi storici e correnti delle principali comunità, oltre che naturalmente dell'UCEI. Inutile dire che si è trattato di un'esperienza particolarmente laboriosa ma anche molto appassionante sul piano personale, oltre che scientifico: una sorta di viaggio nell'ebraismo italiano che mi ha consentito di attingere, in presa diretta, grazie anche a una serie di incontri con personalità eminenti della vita ebraica - penso ad esempio agli avvocati Guido Fubini, Vittorio Ottolenghi e Dario Tedeschi -, oltre che attraverso la mediazione delle fonti storiche e giuridiche, ai diversi volti e aspetti di una tradizione che trova la sua cifra più significativa proprio nell'estrema varietà e ricchezza delle sue tante componenti dislocate sul territorio nazionale. In questo senso, credo si possa a ragione parlare non di un solo, ma di diversi 'ebraismi', ciascuno dei quali, con le sue peculiarità e storie, concorre a comporre un multiforme mosaico nazionale. E naturalmente, in questo mio personale percorso, ho contratto numerosi debiti di riconoscenza con istituzioni e personalità, che hanno molto agevolato il mio lavoro, accordandomi sia libero accesso a fonti di straordinario interesse, sia consigli e orientamenti preziosi.

- A quale pubblico è indirizzato? E perché ritiene che sarebbe utile leggere questo libro?
- Il lavoro ha naturalmente un taglio scientifico e si rivolge quindi in primo luogo agli addetti ai lavori nei campo storico e giuridico, in particolare a quanti hanno a cuore i temi della libertà e del pluralismo religioso nel nostro Paese. E, tuttavia, credo possa interessare in genere chi intenda approfondire le vicende storiche dell'ebraismo italiano nel Novecento da una prospettiva interna alla minoranza, che di solito si tende a trascurare, ma anche nell'ottica del contributo da essa offerto al consolidamento dei diritti fondamentali in Italia.

- Uno spunto interessante di riflessione che ritiene scaturisca dal suo libro
- Credo si possa riconoscere nella tensione dialettica tra la libertà religiosa del gruppo e quella dei singoli, che impegna ogni confessione religiosa e che, nel caso ebraico, prima ha dato luogo a un ampio, intenso dibattito democratico, quindi è sfociata, a livello normativo, nello statuto dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane del 1987. E non v'è dubbio che, adeguando l'organizzazione interna delle comunità ai principi costituzionali (art. 8), lo statuto si sia a suo tempo proposto e continui oggi a rappresentare in seno all'ebraismo italiano lo strumento più efficace e congruo di contemperamento delle ragioni individuali e collettive.
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Stefania Dazzetti, L'autonomia delle Comunità Ebraiche Italiane nel Novecento, Giappichelli Editore, Torino 2008, pp. 299, 37 euro.

(Notiziario Ucei, 19 marzo 2009)





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