I desideri del pigro l'uccidono
perché le sue mani rifiutano di lavorare.
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Un confronto tra Rabin e Netanyahu

di Ulrich W. Sahm

 
Ai primi di novembre molti israeliani e politici stranieri hanno ricordato l'assassinio di Yitzhak Rabin venti anni fa. Oggi Rabin è celebrato come "uomo di pace", ma un confronto con Netanyahu porta ad una conclusione sorprendente: Rabin e l'attuale primo ministro israeliano hanno diverse cose in comune.
  Rabin ha detto: "Come parte della soluzione definitiva, aspiriamo ad uno stato di Israele come Stato ebraico, in cui almeno l'80 per cento dei cittadini siano ebrei." Netanyahu oggi parla di uno "Stato del popolo ebraico ".
  Palestinesi ed europei accusano Netanyahu per l'espansione degli insediamenti dicendo che questo impedisce la soluzione dei due Stati e quindi rende impossibile la pace. Rabin prevedeva una "soluzione permanente nel quadro dello Stato di Israele", in cui accanto a Israele ci sarebbe stata una "entità palestinese". Questa entità avrebbe dovuto essere "meno di uno stato", diceva Rabin. E con questo restava molto indietro rispetto a Netanyahu, che come si sa parla di uno "stato palestinese smilitarizzato".
  "Non torneremo alle linee del 4 giugno 1967"
ha detto Rabin, e in questo modo escludeva un ritiro completo dai territori occupati.
  Ha sottolineato che Gerusalemme sarebbe rimasta interamente in Israele e che la valle del Giordano sarebbe rimasta il confine con la Giordania. I grandi insediamenti e i luoghi poi evacuati da Ariel Sharon nella striscia di Gaza sarebbero dovuti rimanere in Israele.
  Rabin sottolineava la "sicurezza degli insediamenti" e "la continuazione della loro vita quotidiana". In modo ancora più chiaro ha aggiunto; "Noi (Arafat e Rabin) siamo arrivati all'accordo di non sradicare nessun insediamento e di non ostacolare l'attività edilizia per la crescita naturale (degli insediamenti)". Si scopre così che in quel tempo lo stesso Yasser Arafat non riteneva illegali gli insediamenti e aveva accettato con un accordo la loro crescita.
  Perfino del cosiddetto "blocco marino" della Striscia di Gaza Rabin aveva già parlato. "La responsabilità per la sicurezza esterna lungo le frontiere con l'Egitto e la Giordania e il controllo dello spazio aereo al di sopra tutte le aree e sulla zona marittima al largo di Gaza rimangono nelle nostre mani ".

(israelnetz magazin n.6, dicembre 2015 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


La storia popolare dello Stato d’Israele raccontata a molti, e da molti supinamente e forse volenterosamente accolta, è costituita da un serie chilometrica di imprecisioni, alterazioni, deformazioni, che messe insieme alla fine producono in molti la certezza di aver ottenuto un’autentica verità. Si tratta di invece un’autentica, pura, grande menzogna, che però, essendo costituita da tante piccole menzogne messe insieme e lentamente accumulate una sull’altra, è difficilissima da smontare. Anche se si riesce a smascherare le ultime più evidenti, per l’antisionista medio, cioè quello moderato, equilibrato, equidistante, le piccole, innumerevoli menzogne che restano sono di più che sufficienti perchè si senta confermato nella sua granitica verità: Israele? NO. E poiché di solito non ha alcuna voglia di stare a sentire il resto della storia cominciando dall’inizio, il suo credo antisionista non ne viene minimamente scosso. E per chi tenta di convincerlo del contrario con argomenti razionali la situazione è disperata: lo stesso equilibrio delle sue facoltà mentali è messo a rischio. M.C.


La Cia vuole estirpare la propaganda del Califfo

Nel mirino le redazioni che montano video del terrore e preparano la rivista "Dabiq".

di Fausto Biloslavo

L'intelligence americana sta preparando in gran segreto una mappa di tutti i centri dello Stato islamico dove si confeziona la propaganda del Califfo.
   Nel mirino della Cia le «redazioni» all'avanguardia, che montano i video di reclutamento oppure preparano la rivista mensile Dabiq e lanciano via social network i messaggi delle bandiere nere. Fonti militari anonime hanno rivelato la notizia al quotidiano americano Washington Times. La «mappatura» della costola mediatico del Califfato in Siria, Irak e Libia serve a controllare la potente macchina propagandistica e nel caso colpirla. Il problema è che le «redazioni» si trovano in aree densamente popolate proprio per evitare gli attacchi aerei alleati. La struttura mediatica dello Stato islamico ha già prodotto 12 numeri della rivista mensile Dabiq distribuita on line in inglese, russo, francese, turco e arabo. I contenuti e la confezione del prodotto editoriale sono addirittura migliori di tanti settimanali internazionali. I video montati in stile hollywoodiano con apparecchiature e software all'avanguardia sono il pezzo forte della propaganda del Califfo. L'obiettivo è raggiungere possibili adepti in tutto il mondo. L'ultimo prodotto della scorsa settimana è un video di reclutamento in cinese. Il messaggio è il «risveglio» dei musulmani nel pianeta giallo da secoli di umiliazioni. Anche un recente video in russo è montato con grande professionalità. L'orrore di decapitazioni e stragi è sapientemente proposto sia per incutere timore, che fare proseliti.
   I disertori dello Stato islamico intervistati dal Washington Times hanno raccontato di «redazioni» su due piani con nuovissime videocamere, computer, studi di ripresa. Tutto materiale che arriva regolarmente dalla Turchia. In Siria, nei dintorni di Aleppo, esiste un ufficio della rivista Dabiq e del canale televisivo delle bandiere nere Al Furqan con connessione internet ad alta velocità grazie ad un sistema wi-fi turco.La Fondazione Quillam impegnata in Inghilterra contro il radicalismo islamico ha individuato 35 strutture propagandistiche che rispondono al «Comando dello Stato islamico per i media». Una specie di quartier generale editoriale, che dovrebbe far parte del ministero dell'Informazione del Califfato con sede a Mosul e Raqqa.
   Solo su Twitter, alla fine dello scorso anno, i terroristi avevano aperto 20mila account. Il nocciolo duro di terroristi mediatici varia da 500 a 2000 annidati in Irak e Siria, ma pure Arabia Saudita. Ognuno rilancia una media di 50 tweet al giorno. Della sessantina di sospetti arrestati negli Stati Uniti per collegamenti con l'Isis, l'80% si è radicalizzata sui social network.
La controffensiva americana in rete è affidata al «Centro di comunicazioni strategiche anti-terrorismo» presso il Dipartimento di Stato dove lavorano 69 specialisti, ma con un budget risicato di 5,5 milioni di dollari l'anno.

(il Giornale, 16 dicembre 2015)


Viaggio a Kobane tra le soldatesse che combattono il Califfato

Qui dove l'Isis è in ritirata: tra le donne e gli uomini dell'esercito curdo impegnati nell' offensiva contro Raqqa, la roccaforte degli jihadisti in Siria.

di Lorenzo Cremonesi

 
Ecco il Califfato, con gli orrori delle schiave del sesso, il velo obbligatorio, le flagellazioni e lapidazioni per le adultere, la legge coranica interpretata secondo le declinazioni del più rigoroso oscurantismo medioevale.
  È l'incontro con una delle donne responsabili delle milizie curde all'offensiva contro Raqqa, la roccaforte di Isis in Siria, che spinge a queste considerazioni. «Posso confermare che Barack Obama ha detto il vero nel suo ultimo discorso: l'Isis è in difficoltà, non solo in Iraq, ma soprattutto sul fronte siriano. Senza dubbio non è sconfitto. Gode ancora di sostegni e risorse. Però sono ormai diverse settimane che ha cessato di lanciare offensive. Per la prima volta l'Isis è costretto a difendersi, sta perdendo terreno», dice con fare deciso la 34enne Ranghin Renas, donna comandante dello Ypg (dall'acronimo curdo che sta per «Unità (maschile) di Protezione Popolare») con ai suoi ordini anche le corrispettive unità femminili (Ypj).
  L'abbiamo incontrata martedì pomeriggio in una delle caserme che costellano le rovine di Kobane. Poca luce alle finestre, stanze fredde, l'elettricità a singhiozzo. Fuori un panorama di macerie, fango e le devastazioni delle battaglie di un anno fa. Davanti a una carta geografica la comandante Ranghin punta ai recenti successi dello Ypg, garantiti, sottolinea, «dal sostegno aereo dalla coalizione guidata dagli americani e dagli aiuti internazionali». Seguiamo il suo dito sulla mappa: «Dal fronte di Qamishli negli ultimi tempi siamo riusciti a prendere la città di Hasakeh. Qui l'Isis si è ritirato di oltre 100 chilometri. Ormai noi controlliamo le maggiori vie di comunicazione dalla Siria con l'Iraq e la città di Mosul. I terroristi dell'Isis sono costretti a utilizzare le piste nel deserto da Deir Ez Zor. E adesso stiamo puntando a Raqqa nella zona di Janub Raddah, le nostre avanguardie sono posizionate a soli 60 chilometri dalla capitale del Califfato. Loro si difendono minando le strade, utilizzando attentatori suicidi. Nulla a che vedere con l'impeto delle loro offensive dell'anno scorso».
  Parole confermate dal nostro viaggio nel cuore della regione autonoma curda di Siria. «Rojawa», tramonto in curdo, per distinguerla da «Rojelat», la terra ad est dove sorge il sole, il Kurdistan iraniano: due nomi che sintetizzano l'antico sogno curdo di un grande Stato unitario a cavallo tra Iraq, Turchia, Siria e Iran, ma spesso reso vano dalle loro insormontabili divisioni interne. Rojawa, creata quasi tre anni fa in seguito al caos della guerra seguita alle rivolte del 2011, appare oggi come una rassicurante, ma fragilissima, isola laica nel mare del Medio Oriente in balia del fondamentalismo religioso, ispirata al socialismo di «Apo», il mitico Abdullah Ocalan, leader (turco) del grande partito dei lavoratori curdo in carcere in Turchia. Non c'è posto di blocco che non abbia stampigliata l'immagine del suo volto sulle bandiere, assieme a quelle di decine di morti nelle battaglie degli ultimi tre anni. Un luogo carico di contraddizioni. «Siamo socialisti. La religione è un fatto personale. Non vogliamo uno Stato confessionale. Crediamo nella massima eguaglianza dei sessi e nella democrazia. Ma oggi siamo alleati degli americani, speriamo che anche l'Europa ci venga in aiuto, temiamo che i russi siano solo interessati a difendere la dittatura di Bashar Assad. Per noi i turchi sono pericolosi quasi quanto l'Isis. Ecco il motivo per cui consideriamo i curdi iracheni fratelli, ma non ci piace affatto il loro rapporto di stretta cooperazione con la Turchia di Erdogan», riassumono all'ufficio stampa dello Ypg nella cittadina di Amudah.
  Visto che il confine con la Turchia è adesso praticamente chiuso, il passaggio più facile per raggiungere Kobane è dall'Iraq settentrionale in barca sul Tigri presso il villaggio di Fishkabur. Qui uno stretto nastro d'asfalto corre tra colline brulle puntellate da centinaia di vecchi pozzi ancora funzionanti per l'estrazione del petrolio. «Abbiamo poca acqua. Ma la benzina non ci manca», sostiene l'autista, protestando però che la raffinazione artigianale del greggio rovina i motori. In compenso costa nulla: un euro per 13 litri di benzina. I villaggi sono poveri, ma si trova tutto e la polizia controlla il traffico. La paura di infiltrazioni dell'Isis è cresciuta dopo il blitz del 25 luglio, quando un centinaio di jihadisti travestiti da combattenti delle milizie sunnite moderate e da curdi riuscirono a raggiungere Kobane, mettendo la città a ferro e fuoco. «Uccisero 261 persone, e i feriti furono oltre 300», ricordano all'ospedale. Da allora di notte i movimenti sono strettamente regolamentati e ogni nucleo urbano ha organizzato una fitta rete di posti di blocco. Il centro di Qamishli, l'aeroporto e il punto di passaggio con la Turchia restano sotto controllo del regime di Bashar Assad. Colpisce incontrare le bandiere con le tre stelle di Damasco nel cuore della provincia curda. «La nostra priorità al momento è battere l'Isis, con il regime faremo i conti più tardi. Se Bashar ordinasse alla sua aviazione di bombardarci qui sarebbe il caos. Grazie a questo modus vivendi restiamo invece una delle province più calme di tutto il Paese», spiega Joan Mirzo, giornalista locale.
  Più avanti le rovine della guerra diventano molto più evidenti. Per lunghi tratti le barriere di fili spinati, le reti e i campi minati puntellati dalle torri di guardia e i nidi di mitragliatrici sovrastati dal simbolo della mezzaluna turca sono a poche centinaia di metri dalla strada. Nella regione della cittadina di Tell Abayad molti villaggi sino a un anno fa erano a maggioranza araba. Uno dei tanti territori di confine tra diverse comunità etniche e religiose del Medio Oriente, che nella storia sono stati il cuore di guerre e massacri. Un autista accenna a gravi e recenti episodi di discriminazioni e deportazioni da parte delle unità curde ai danni degli arabi, non molto diversi da quelli perpetrati dai sunniti e l'Isis contro i curdi. I segni del resto sono evidenti: interi villaggi vuoti, danneggiati da bombe e cannonate. Case, scuole, fattorie abbandonate e dovunque slogan sui muri inneggianti alla lotta di liberazione curda. Denunce contro le persecuzioni anti-arabe sono giunte di recente anche da Amnesty International. Ma i militanti dello Ypg negano con forza. «Non c'è stata alcuna pulizia etnica. Anzi, cerchiamo l'alleanza con le milizie sunnite determinate a battere l'Isis», replicano duri. A Kobane 70.000 persone, circa il 60 per cento degli abitanti originari, sono tornate alle proprie case. Meglio vivere in un appartamento danneggiato, che da profughi in Turchia. L'attività di ricostruzione è intensa. Comitati di quartiere si preoccupano dei bisogni primari. Ma il blocco turco e la necessità di viaggiare sino al confine iracheno rallentano l'economia e rendono tutto più difficile. Dato più rassicurante resta l'affievolirsi della minaccia dell'Isis. «Sino allo scorso luglio nel nostro ospedale militare ricevevamo una media di 15-20 combattenti feriti gravi al giorno. Oggi siamo scesi a meno di 5. E tutti per mine, cannonate o colpi di mortaio: ovvio che si spara a distanza», spiega Mohammed Aref Ali, medico anestesista noto per essere tra i quattro dottori che l'anno scorso decise di non fuggire nel momento più grave dell'assedio.

(Corriere della Sera, 16 dicembre 2015)


Nasce la coalizione saudita contro l'Isis (e contro l'Iran)

A Riad il patto fra 34 nazioni, dal Marocco alla Malaysia: potranno intervenire nelle nazioni minacciate dai terroristi. E contrastare l'asse sciita e la Russia.

di Maurizio Molinari

 
L'annuncio è stato fatto ieri a Riad dal principe Mohammed bin Salman, ministro della Difesa e nipote del re
 
GERUSALEMME - L'Arabia Saudita crea una coalizione militare di trentaquattro Stati sunniti che si prepara a coordinare ogni tipo di interventi in Iraq, Siria, Libia, Egitto e Afghanistan al fine di «combattere il terrorismo» jihadista e arginare la crescente egemonia dell'Iran.
Il patto che cambia la mappa strategica di Nord Africa e Medio Oriente è stato siglato a Riad con la pubblicazione di un documento incentrato sul «dovere di proteggere la nazione dell'Islam dal Male portato da tutti i gruppi e le organizzazione terroristiche». La descrizione della nuova alleanza ne suggerisce potenzialità e scopi.
  I pilastri sono le potenze sunnite di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Egitto e Pakistan che sommano i maggiori arsenali regionali e sono protagoniste delle operazioni già in corso in Iraq-Siria contro Isis e in Yemen contro gli houthi. Al loro fianco vi sono le monarchie del Golfo destinate a diventare il motore finanziario e una folta pattuglia di nazioni africane - dal Marocco alla Nigeria, dal Benin alla Mauritania - che suggerisce la volontà di aggredire i «terroristi» anche lì dove operano Boko Haram, gli Shabaab, Al Qaeda in Maghreb e i vari gruppi salafiti del Sahel. L'inclusione di Libia, Egitto, Giordania, Somalia e Yemen legittima da subito la coalizione a intervenire sui territori di queste nazioni lì dove sono minacciate da gruppi terroristi. E l'adesione dell'Anp sottolinea il timore di Abu Mazen di subire il contagio jihadista.

 La pattuglia degli esclusi
  Il resto lo suggerisce la lista degli esclusi: la Siria di Assad, l'Iraq e il Libano ovvero gli alleati arabi dell'Iran di Ali Khamenei - anch'egli non invitato a Riad - rivale strategico dell'Arabia nella creazione dei nuovi equilibri regionali sotto l'impatto della dissoluzione degli Stati post-coloniali. A confermare la sfida a Teheran c'è l'esclusione dell'Oman del Sultano Qaboos, facilitatore dei negoziati segreti sul nucleare iraniano sospettato da Riad di fiancheggiare Teheran. «I nostri Paesi condivideranno intelligence, addestramento e forniranno se necessario truppe per combattere Isis in Siria e Iraq» spiega il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, precisando che «ogni forma di cooperazione è possibile» come anche la volontà di operare «nel quadro delle organizzazioni internazionali». È la formula, concordata con Washington, che porta al plauso esplicito della Casa Bianca perché preannuncia la volontà di mettere a disposizione truppe sunnite per operazioni sotto l'egida di Onu, Organizzazione della conferenza islamica e Lega araba.

 Le prove nello Yemen
  Per capire quanto si sta preparando bisogna guardare al cerimoniale scelto da Riad per comunicare il patto: una rara conferenza stampa di Mohammed bin Salman, principe ereditario e ministro della Difesa nonché nemico giurato dei jihadisti e regista dell'intervento militare pansunnita in Yemen riuscito a reinsediare il presidente Abdel Rabbo Mansour Hadi rovesciato dai ribelli houthi sostenuti - secondo Riad - dagli iraniani.
  Il resto lo dice al-Jubeir: «Sono in corso colloqui fra noi, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e il Bahrein sulla possibilità di inviare in Siria contingenti di truppe speciali a sostegno della coalizione guidata dagli Usa». Ovvero: è iniziato il conto alla rovescia per l'intervento sunnita in Siria, da tempo richiesto dal Pentagono al fine non solo di smantellare lo Stato Islamico (Isis) di Abu Bakr al-Baghdadi ma di contrastare i piani della coalizione militare guidata dalla Russia di Vladimir Putin e composta da Assad, Iran, Iraq ed Hezbollah.
  A evidenziare il debutto del duello strategico fra le due coalizioni c'è quanto Mohammed bin Salman, figlio del monarca wahhabita, tiene a precisare: «Avremo una sala operazioni congiunta a Riad» in competizione con quella di Baghdad dei rivali russo-sciiti. Ciò significa che a neanche una settimana dalla nascita della coalizione fra i gruppi siriani anti-Assad, Riad genera un patto fra Stati sunniti per ridisegnare gli equilibri in un arco di crisi che si estende per oltre 9000 km dallo Stretto di Gibilterra alle vette dell'Hindu Kush. Per Putin significa che la sfida iniziata con la Turchia è destinata ad avere dimensioni assai più ampie e conseguenze assai difficili da prevedere.

(La Stampa, 16 dicembre 2015)


Cooperazione tra Hamas e Isis nel Sinai

Decine di migliaia di dollari per contrabbando di armi.

L'ala militare di Hamas a Gaza, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, ha trasferito lo scorso anno, tramite emissari, decine di migliaia di dollari al mese alla branca dell'Isis nel Sinai. Lo afferma il sito Ynet secondo il quale il passaggio di contante non è che uno dei fattori della "cooperazione strategica e militare tra i due gruppi". Hamas - ha aggiunto il sito - sta pagando i militanti dell'Isis in Egitto per assicurarsi che carichi di armi siano contrabbandati dal Sinai alla Striscia. Tra le armi - ha continuato Ynet - c'è anche il propellente esplosivo che serve ad Hamas per lanciare i razzi verso Israele.

(ANSA, 15 dicembre 2015)



Germania - Arrestato il fondatore della "polizia della sharia"

In manette il predicatore salafita convertito all'islam: è accusato di aver collaborato con un'organizzazione terroristica affiliata a Isis. Avrebbe fornito denaro ed equipaggiamento ai jihadisti.

di Giovanni Masini

Sven Lau
La polizia tedesca ha fatto arrestare questa mattina Sven Lau, il predicatore salafita tedesco noto tra l'altro per avere fondato la cosiddetta "polizia della Sharia", nel settembre 2014 a Wuppertal (che di recente, però, è stata dichiarata legale).
Il sospetto degli inquirenti, riferisce lo Spiegel, è che l'uomo abbia sostenuto un'organizzazione terroristica in Siria. L'arresto è avvenuto questa mattina a Mönchengladbach, città di cui Lau - ora noto col nome islamico di Abu Adam - è solito predicare.
L'ufficio federale del procuratore sospetta che Lau abbia supportato l'organizzazione al-Muhadschirin Dschaisch wal-Ansar (Jamwa), legata allo Stato Islamico. Secondo gli inquirenti Lau avrebbe operato come riferimento dell'organizzazione in Nord-Reno Westfalia, lo Stato federato tedesco dove risiede e lavora. Avrebbe fornito supporto economico e logistico a due jihadisti, tra cui tre visori notturni per un valore di 1440 euro. Lau è noto, tra le altre cose, per essersi recato in Siria più volte nel corso degli ultimi cinque anni. L'avvocato di Lau per il momento si è rifiutato di commentare.
Soddisfazione invece è stata espressa dal ministro degli Interni del Land Nord-Reno Westfalia, Ralf Jäger: "Lau è uno dei leader della scena salafita in Germania, che avrebbe attirato molti giovani verso il radicalismo - ha commentato soddisfatto - La legge tedesca si impone."

(il Giornale, 15 dicembre 2015)


Netanyahu dispone fortificazioni alle fermate degli autobus a Gerusalemme

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat hanno promesso di rafforzare la sicurezza nelle fermate degli autobus dopo che un palestinese di Gerusalemme Est ha investito con la sua auto un gruppo di israeliani, ferendo 14 persone, tra le quali un bambino che resta ancora in condizioni critiche. L'incidente è avvenuto ieri pomeriggio alle porte di Gerusalemme. Dopo l'attacco, Netanyahu ha convocato una riunione di emergenza con Barak, con il ministro della Pubblica sicurezza Gilad Erdan e il ministro dei Trasporti Yisrael Katz. Durante l'incontro, Netanyahu ha disposto di rafforzare i controlli alle fermate degli autobus a Gerusalemme, in base a una lista che verrà formulata da parte della polizia e del ministero dei Trasporti. Barkat ha detto che il comune ha elaborato un piano per rafforzare centinaia di fermate dei mezzi pubblici nelle zone "a rischio" con un investimento di circa due milioni di shekel (circa 519.000 dollari). Secondo il sindaco, il piano può essere attuato in un mese.

(Agenzia Nova, 15 dicembre 2015)


Nessuna violazione dei diritti umani a Gaza da parte di Israele, dice un report dell'HLMG

Il rapporto ha evidenziato come lo stato israeliano ha rispettato il diritto dei conflitti armati durante la guerra dei Cinquanta giorni nell'estate del 2014. Violazioni accertate invece da parte di Hamas.

di Gabriele Carrer

Le forze armate israeliane non solo hanno rispettato il diritto dei conflitti armati durante la guerra dei Cinquanta giorni nell'estate del 2014, ma hanno persino superato i parametri minimi previsti dalle norme internazionali. È quanto emerge dal rapporto di ottanta pagine intitolato "An assessment of the 2014 Gaza conflict" redatto da undici alti ufficiali in pensione del gruppo High Level Military Group provenienti da Australia, Colombia, Francia, Germania, India, Italia, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti. La squadra, di cui fa parte anche il generale italiano Vincenzo Camporini - ex capo di stato maggiore dell'Aeronautica e della Difesa -, non ha riscontrato alcuna violazione dei diritti umani da parte dell'esercito israeliano. "Abbiamo descritto le evidenze che abbiamo documentato - dichiara il generale Camporini al Foglio. Non ho idea delle fonti citate da altre testimonianze che reputo fuori dalla realtà".
  Il documento è stato pubblicato dalla Friends of Israel Initiative, il gruppo fondato nel 2010 per volontà dell'allora premier spagnolo José María Aznar al fine di combattere una "campagna di delegittimazione senza precedenti ai danni Israele". Già all'inizio di quest'anno il gruppo HLMG aveva presentato le proprie conclusioni dinnanzi alla Commissione Diritti Umani dell'ONU. Questo rapporto, frutto di indagini sul campo da parte degli esperti, ha rinnovato la difesa dell'operato di Israele nella Striscia di Gaza nel conflitto del 2014, nonostante le stesse Nazioni Unite assieme a numerose ong avessero accusato lo stato ebraico di crimini contro l'umanità. "Crimini contro l'umanità e genocidi", scrive nella prefazione Rafael L. Bardaji, direttore della Friends of Israele Initiative, "sono gli strumenti della lawfare, la guerra asimmetrica fatta di abusi di norme e procedure internazionali, portata avanti dagli oppositori di Israele". Una guerra combattuta "per raggiungere obiettivi strategici che non possono essere raggiunti con mezzi politici e militari", con armi "nelle mani dei nostri nemici che cercano di limitare e bloccare la capacità degli eserciti occidentali di perseguire i nostri interessi di sicurezza nazionale".
  Il punto di partenza dell'analisi degli eventi è la necessità di scegliere quale sia il diritto applicabile conflitto dei Cinquanta giorni: non le leggi sui diritti umani bensì quelle sui conflitti armati (Law Of Armed Conflict). "L'Occidente - continua il generale Camporini - quasi due secoli fa ha cercato di darsi delle regole per rendere il meno disumano possibile un conflitto armato. Sono regole in linea con le carte più importanti, in primis quella dell'Onu, che quando applicate proteggono civili e infrastrutture civili. O si applicano queste regole oppure si sfocia nell'opinabile e nell'emozionale. E purtroppo l'emozionale serve solo a calmare le anime belle ma non a regolare la convivenza civile tra popoli in conflitto". Il rispetto delle leggi dei conflitti armati è il vero problema delle guerre asimmetriche di quest'epoca, sostiene il generale Camporini: "Sfruttare edifici in linea di principio intoccabili, come luoghi di culto e scuole, per crearsi un vantaggio tattico fa sì che l'altra parte combatta con una mano legata dietro la schiena. Ciò vanifica anche l'asimmetria tecnologica garantita dagli armamenti precisi che contribuiscono a ridurre i danni non voluti contro i combattenti. Questo atteggiamento viene sfruttato anche dal punto di vista mediatico: costringo il mio avversario ad attaccarmi e poi lo accuso di aver commesso un atto contrario ai diritti umani. Questa è la vera asimmetria dei conflitti di oggi, tra chi ha determinate regole e le rispetta e chi queste regole non se le pone, tra chi cerca l'ideale del conflitto senza vittime e chi è disposto a morire e far morire".
  Nel rapporti viene analizzato anche il numeri delle vittime civili, stimate in oltre 2.000 persone. L'Ufficio Onu per gli affari umanitari ha attinto a piene mani dai dati forniti dal Ministero della Salute di Gaza controllato da Hamas. I numeri erano pieni di incongruenze, tra nomi duplicati, età non corrette, morti da fuoco amico causate da Hamas o dalle sue organizzazioni affiliate (come nel caso di razzi che hanno fatto cilecca), morti non attinenti al conflitto ma classificati come tali. Se da una parte nessun crimine di guerra è stato dimostrato, dall'altra l'HLMG accusa della morte della stragrande maggioranza dei civili Hamas e la sua politica volta a causare, direttamente ed indirettamente, il maggior numero morti di civili palestinesi per soffiare sul fuoco dell'odio anti-israeliano.
  Il documento denuncia l'utilizzo da parte di Hamas di scudi umani e conferma molte delle accuse rivolte all'organizzazione terroristica circa lo sfruttamento di mezzi, strutture e "siti sensibili" delle Nazioni Unite. All'occhio degli esperti non è nemmeno sfuggito il circo mediatico orchestrato da Hamas che negava ai media la possibilità di documentare vittime e feriti tra i combattenti indirizzando i reporter sui civili feriti. E non di rado, secondo le testimonianze, Hamas avrebbe "preparato" i set post offensive israeliane rimuovendo armi e combattenti e lasciando solo i civili prima di consentire l'accesso ai giornalisti.
  Il rapporto inoltre ritiene adeguate le misure operative dell'IDF Israele finalizzate ad evitare vittime civili - tra queste il famoso "bussare sul tetto", le chiamate e i volantini per avvisare degli attacchi, - e la struttura organizzativa che ha consentito il costante coinvolgimento del procurato generale militare con il fine di garantire il rispetto del diritto di guerra e delle regole d'ingaggio. "Un rispetto delle standard spesso in contrasto con la convenienza militare che", ha dichiarato il colonello Richard Kemp, comandante delle forze britanniche in Afghanistan, "altre nazioni non sarebbero in grado di gestire".

(Il Foglio, 15 dicembre 2015)


Silvestri Sabatini premiata con la medaglia 'Giusta fra le Nazioni'

FIRENZE - Maria Adelaide Silvestri Sabatini, che fu membro della resistenza antifascista e fece fuggire numerosi ebrei in Svizzera, è stata riconosciuta 'Giusta fra le Nazioni', medaglia che sarà consegnata giovedì 17 dicembre presso la Sinagoga di Firenze. A ricevere il premio sarà il nipote Federico Sabatini dall'Istituto per la Memoria dei Martiri e degli Eroi dell'Olocausto Yad Vashem. Il riconoscimento indica i non-ebrei che hanno rischiato la propria vita per salvare anche un solo ebreo dal genocidio nazista, dalla Shoah. Maria Adelaide Silvestri Sabatini fece fuggire numerosi ebrei in Svizzera, procurando loro anche documenti e carte di identità falsi nonché anche luoghi di rifugio. "Diverse testimonianze - si legge nella nota diffusa - confermano che era lei stessa, alcune volte, ad accompagnare personalmente i fuggitivi da Firenze fino al confine svizzero tra cui le famiglie Della Pergola, Forti, Brunner e Silvia Purita".

(gonews.it, 15 dicembre 2015)


Siglato un accordo di cooperazione scientifica tra Cina e Israele

Il ministro della Scienza, della tecnologia e dello spazio israeliano, Ophir Akunis, ha firmato ieri un accordo di cooperazione per investimenti congiunti con l'omologo cinese, Wan Gang, a Pechino. Lo riferisce oggi il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". In base all'accordo il ministero israeliano investirà un milione di dollari, mentre quello cinese 500 mila dollari. La ricerca congiunta sarà condotta nel campo delle scienze neurologiche, delle nanotecnologie, della stampa 3D, della biomedicina, delle energie rinnovabili, delle scienze informatiche, e sull'invecchiamento della popolazione. Commentando la firma dell'accordo, Akunis e Wan Gang hanno detto "siamo due popoli antichi con un futuro comune". Il rappresentante di Pechino ha detto che "il popolo cinese dà grande valore alla cooperazione con Israele ed alle iniziative israeliane nel campo della scienza e delle tecnologie e quindi vogliono approfondire la cooperazione".

(Agenzia Nova, 15 dicembre 2015)


Hanukkah a Taormina

La storia degli ebrei a Taormina si è rifatta viva. Si è palesata quando il Rabbino Capo di Siracusa, Stefano Di Mauro, è giunto in città per la Festa delle luci. Una festività ebraica, conosciuta in tutto il mondo come Chanukkah (o Hanukkah), che si è svolta nell'antica giudecca di Taormina alla presenza di alcuni ebrei che vivono in zona. Rabbino Di Mauro: «Era dal 1492 che non si svolgeva la Festa delle luci nella giudecca della città».

di
Valerio Morabito

 Un ricordo tenuto in vita dalla toponomastica
 
Festa delle Luci nella giudecca di Taormina
  Gli ebrei a Taormina. Una presenza che affonda le sue radici nei secoli. Del resto è sufficiente ricordare come tra il IV e il V secolo d. C. risale un reperto archeologico che testimonia la presenza degli ebrei a Taormina. Si tratta di un mattone fittile ritrovato all'interno dell'Antiquarium del Teatro antico della Perla dello Jonio. Origini antiche e la storia degli ebrei a Taormina, come in tutta la Sicilia, è stata oggetto di persecuzioni e conversioni forzate. Purtroppo nella capitale del turismo siciliano rimane poco del passaggio degli ebrei in città. Più che altro il ricordo è tenuto in vita dalla toponomastica. Dal Corso Umberto di Taormina, infatti, è possibile scorgere, nella zona di Porta Catania, Vico Degli Ebrei, una Traversa Degli Ebrei e una Via Del Ghetto. Poi ci sono tre Stelle di David affisse sulla facciata di Palazzo dei Giurati, sede del comune di Taormina. Simboli posti per ricordare il passaggio del popolo ebraico dalla città. Segni chiari che mettono in luce come la giudecca di Taormina si trovava nella zona ad ovest della Cattedrale. Confinava con piazza Duomo, il Corso Umberto e l'antica piazza del Tocco, alle spalle del Palazzo dei Duchi di santo Stefano.

 La Festa delle luci
  Il 10 dicembre, però, la storia degli ebrei a Taormina si è rifatta viva. Si è palesata quando il Rabbino Capo di Siracusa, Stefano Di Mauro, è giunto in città per la Festa delle luci. Una festività ebraica, conosciuta in tutto il mondo come Chanukkah (o Hanukkah), che si è svolta nell'antica giudecca di Taormina alla presenza di alcuni ebrei che vivono in zona. A Giardini Naxos, per esempio, si trovano due famiglie ebree. Mentre a Taormina, a parte l'origine ebraica riscontrabile in molti cognomi, al momento non ci sono ebrei. «Dal 1492 non si era più festeggiata la Festa delle luci a Taormina. Si tratta dell'antica lotta del popolo ebraico per la libertà religiosa. Siate tutti fieri di essere o di voler essere ebrei, perché il Signore ci ha dato l'opportunità della rinascita», ha detto il Rabbino Di Mauro che era venuto a Taormina già nel 2010 per una conferenza sull'ebraismo. la festa, che dura otto giorni, celebra la consacrazione di un nuovo altare nel Tempio di Gerusalemme, dopo la libertà conquistata contro i greci nel secondo secolo avanti Cristo. Si festeggia ogni anno a partire dal 25esimo giorno del mese di kislev: il rituale principale prevede l'accensione delle candele di un particolare candelabro a otto braccia chiamato chanukiah, come quello che veniva acceso all'interno del Tempio di Israele: questo rituale è previsto per tutti gli otto giorni della festività in tutte le comunità ebraiche ortodosse che ci sono in giro per il mondo che espongono le candele accese vicino alle finestre.

 Rabbino Stefano Di Mauro: «C'è una volontà divina nel risorgimento dell'ebraismo»
  Il Rabbino Stefano Di Mauro, che abbiamo contattato, ha voluto ricordare cosa significa essere ebrei in Sicilia nell'epoca contemporanea, sottolineando le sofferenze di questo popolo nei secoli. «la maggior parte degli ebrei siciliani, nel corso dei secoli, sono stati costretti a convertirsi al Cristianesimo. Oggi, invece, c'è una volontà divina nel risorgimento dell'ebraismo. Il Papa ha detto, nell'ultimo periodo, che nessuno deve convertire gli ebrei. È una notizia che mi ha fatto molto piacere. Il risveglio ebraico, ha proseguito il Rabbino, ha un significato religioso importante, considerando la libertà religiosa negata per troppo tempo al nostro popolo. Ciò che è auspicabile è creare un'atmosfera di pace con il riconoscimento della storia. Oggi saremmo stati due milioni circa in Sicilia se non ci fossero state le persecuzioni e le conversazioni forzate». Nei prossimi mesi, con ogni probabilità, il Rabbino Di Mauro tornerà in zona, forse a Giardini Naxos, dove terrà un corso sull'ebraico. Shalom aleikhem.

(blogTaormina, 15 dicembre 2015)


Chiese chiuse

Ministro di Cameron sveglia l'Inghilterra: "L'Isis avanza sulle macerie del nostro secolarismo".

di Giulio Meotti

ROMA - Un filmato di un minuto, dove alcune persone in differenti contesti recitano il Padre nostro. Il video, realizzato dalla Church of England per sponsorizzare un nuovo sito, è stato rimosso dagli occhi del grande pubblico inglese. Definito offensivo" dalle tre più grandi catene di cinema inglesi (Odeon, Cineworld e Vue), che l'hanno così eliminato dalla programmazione natalizia. Intanto, i canali di informazione e propaganda dello Stato islamico continuano a penetrare ogni giorno le comunità islamiche del Regno Unito, tanto che sono raddoppiati in questo anno i volontari britannici partiti per combattere e servire con il Califfato. E' questo paradosso a essere denunciato da un ministro del governo di David Cameron, Stephen Crabb, che ha dichiarato che un secolarismo sciatto "sta spingendo i giovani musulmani nelle braccia dell'Isis".
   Laddove "la religione viene marginalizzata, delegittimata, ridicolizzata attraverso il sospetto e la paura", il fondamentalismo islamico avanza. "La risposta alla seduzione dell'Isis non è una dose maggiore di secolarismo", ha detto Crabb. Il ministro ha anche spiegato che "nel 2015 è più facile per un politico ammettere di fumare erba o guardare un film porno, piuttosto che ammettere che possa prendere sul serio la religione nella propria vita quotidiana".
   L'intervento di Crabb arriva pochi giorni dopo la pubblicazione del rapporto della commissione per la Religione e il Credo nella vita pubblica britannica, che suggerisce una analisi e una soluzione a dir poco drastiche: "L'Inghilterra non è più cristiana e quindi le sue istituzioni vanno de-cristianizzate". Diecimila chiese sono state già chiuse nel Regno Unito e altre quattromila lo saranno entro il 2020. "Si dice spesso che le congregazioni della Gran Bretagna si stanno riducendo, ma questo non si avvicina a esprimere il livello del disastro cui si trova di fronte il cristianesimo in questo paese" ha commentato lo Spectator. "Se il tasso di declino continua, la missione di sant'Agostino presso gli inglesi, insieme a quella dei santi irlandesi presso gli scozzesi, arriverà a termine nel 2067".
   Tra il 2001 e il 2011 il numero di cristiani nati in Gran Bretagna è sceso di 5,3 milioni: diecimila ogni settimana. "Le nostre cattedrali sopravviveranno, ma non saranno vere cattedrali perché non avranno vescovi", spiega lo Spectator. L'anglicanesimo sparirà dalla Gran Bretagna nel 2033. Nello stesso periodo, il numero dei musulmani in Gran Bretagna è cresciuto di quasi un milione, secondo un sondaggio condotto dal rispettato NatCen Social Research Institute. In Inghilterra erano chiese e cattedrali, per citarne soltanto alcune, la Central Mosque di Brent, la New Peckham Mosque e la moschea Didsbury di Manchester. A Cobridge la moschea Madina fino a tre anni fa era la chiesa cattolica dedicata a san Pietro e di proprietà dell'arcidiocesi di Birmingham.

 Scruton: "Una religione secolarista"
  Tre giorni fa, il celebre editorialista conservatore Damian Thompson ha scritto sul Daily Mail a proposito del rapporto sulla decristianizzazione: "Quando persone eminenti, nei loro ermellini, vesti accademiche e con le loro medaglie, decretano la morte della Gran Bretagna cristiana e che è il momento per un nuovo ordine sociale, dovremmo chinare il capo rispettosamente, abbagliati dalla loro illuminazione collettiva". "L'Unione europea ha cercato di fare del secolarismo una nuova religione" dice al Foglio Roger Scruton, visiting professor a Oxford, cui il Wall Street Journal ha appena recensito il libro "Thinkers of the New Left". "E' un fenomeno europeo e non soltanto inglese", dice Scruton. In Norvegia, il governo ha appena chiesto alle chiese di eliminare i simboli cristiani per meglio integrare i migranti ospitati nelle sue strutture. In Germania, la festa cattolica di fine autunno di San Martino è stata ribattezzata "festa delle luci" per dimostrare maggiore inclusività. A Parigi, la cattedrale di Notre Dame non sarà adornata con l'albero di Natale. E in Spagna, i comuni eliminano le "stazioni della croce" per non offendere. L'Isis, intanto, sradica la cristianità orientale nell'assenza dell'Europa. 0 per dirla con il Figaro: "Silenzio, stiamo perseguitando".

(Il Foglio, 15 dicembre 2015)


Ovviamente non vediamo con piacere l’espandersi dell’islamismo in zone sempre più larghe della nostra vita sociale, ma come cristiani evangelici non crediamo che il rimedio a questo sia una difesa ad oltranza della presenza della religione cristiana nelle istituzioni pubbliche e nei costumi sociali. Quello che può crollare deve crollare. Certo, il richiamo della tradizioni può essere ammaliante, e anche chi scrive sente con piacere il suono delle campane anche se non frequenta i locali che vi si trovano sotto, e certamente non sostituirebbe volentieri quei familiari rintocchi con degli “Allahu Akbar” gridati dall’alto di un minareto. Ma resta il fatto che il trionfalista cristianesimo occidentale sposato al potere è destinato a crollare. Guardando indietro, alcuni oggi parlano di società giudaico-cristiana, ma non è vero. È stata una società cristiano-antigiudaica. Nelle nostre amate cattedrali abbondano i riferimenti a una sinagoga umiliata e sconfitta ai piedi di una chiesa gloriosa e trionfante. Il più alto rappresentante di questa religiosità gloriosa è proprio l’attuale simpaticissimo affabilissimo democraticissimo papa, che con i suoi atteggiamenti popolari vorrebbe far dimenticare che nei suoi stessi abiti e nello stile della sua corte ci sono i segni di una regalità secolare che si esprime anche con la forza. Di che cosa sono segno le papaline guardie svizzere con tanto di alabarda? E a che servono i cecchini appostati sull’alto dei tetti pronti a sparare su chi mette in pericolo la gente che sente parlare di misericordia da un supercristiano? #notinmyname, forse sarebbe bene che qualche cristiano cominciasse a dirlo nei confronti di certe religiosità popolari che vorrebbero presentarsi come cristiane. A cominciare da quelle promosse da quest’ultimo papa. M.C.


Benedizioni taroccate a due passi da San Pietro

L'imbroglio all'ombra del Giubileo. Ritrovate dalla Finanza 3.500 pergamene con falsi stemmi papali. Oltre 70mila euro di truffa, denunciato un negoziante stampatore.

di Chiara Pellegrini

 
Una moderna vendita delle indulgenze a due passi da San Pietro. Si era organizzato bene un stampatore romano che in occasione del Giubileo della Misericordia aveva ideato per i pellegrini il perfetto souvenir papale: (...) (...) un'elegante benedizione apostolica su pergamena pontificia rigorosamente taroccata. Gli elementi per credere che fosse genuina ed ingannare il credente di turno però c'erano tutti, dagli emblemi della Santa Sede alla fotografia di papa Francesco benedicente, peccato mancassero le necessarie autorizzazioni del governatorato pontificio.
   Infatti per ottenere le benedizione in Vaticano esiste un reparto preposto all'interno del Vaticano: l'"elemosineria apostolica". Un ufficio, nei pressi di porta San-t'Anna, cui inviare via fax tutte le richieste, che devono essere accompagnate tra l'altro da nome e cognome del richiedente e motivo della benedizione. Il costo della pergamena va dai 13 ai 25 euro, a seconda del modello scelto dall'ufficio per l'occasione indicata e va pagata solo dopo il ricevimento o tramite bollettino di conto corrente postale allegato alla spedizione o online con carta di credito. I tempi necessari per ricevere la pergamena sono di circa un mese dal giorno della richiesta. Insomma un iter scandito, nei tempi e nella modalità tutto dalla Santa Sede.
   Negli ultimi tempi però alle orecchie della Guardia di Finanza era giunta una curiosa proliferazione di certificazioni vaticane. Gli uomini del comando provinciale delle Fiamme gialle di Roma, coordinandosi con i colleghi della Gendarmeria vaticana, hanno cosi scoperto che a due passi dalla basilica di San Pietro un negozio vendeva indisturbato benedizioni apostoliche taroccate ad inconsapevoli pellegrini. Un lavoro minuzioso, impeccabile, quello dei finti stampatori, cosi perfetto da non permettere ai poveri malcapitati di riconoscere la truffa e sganciare, invece, dai 10 ai 22 euro per ogni pergamena. In cambio chiedevano ai clienti di compilare e sottoscrivere moduli, assicurando di inviarli all'unica autorità ufficialmente autorizzata ad emettere gli auspici papali. Tra battesimi, matrimoni, compleanni e cerimonie varie le fiamme gialle - impegnate nell'attuazione del piano d'azione "lubilaeum", dedicato a contrastare tutte le forme di abusivismo e frode che affliggeranno i pellegrini nella stagione giubilare - hanno rinvenuto circa 3500 pergamene false, già effigiate con l'immagine del Santo Padre, recanti gli stemmi papali e dello Stato Vaticano contraffatti e riportanti, in lingua italiana, spagnola, portoghese ed inglese, la dicitura "benedizione del pellegrino", personalizzabili con qualsiasi nominativo fornito dall'acquirente e pronte per essere spedite. Stando ad un primo bilancio il valore delle false benedizioni sequestrate supera i 70mila euro, ma è in corso il calcolo delle somme già incassate con le vendite dei primi giorni. II negoziante stampatore, privo delle necessarie autorizzazioni della Santa Sede, è stato denunciato per produzione e commercio di oggetti contraffatti. E' una priorità del governo perché è una battaglia per economia legale e per fare sì che i commercianti onesti abbiano la meglio rispetto a chi contraffà i prodotti senza neanche la minima tutela della salute dei consumatori», ha spiegato il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, commentando l'operazione della Guardia di finanza. «In una sola settimana dall'attivazione del piano "Jubilaeum"», ha aggiunto il ministro, sono stati sequestrati oltre un milione di prodotti contraffatti e denunciati 19 soggetti». Sei i punti operativi di azione delle fiamme gialle contro l'economia abusiva, in altrettanti settori: commercio, settore ricettivo, turistico, del trasporto, della somministrazione di bevande e cibi. Ai quale si aggiunge il rafforzamento dell'azione controllo economico sul territorio, con 32 pattuglie della guardia di finanza al lavoro a Roma. «Il Giubileo», ha tuonato Alfano, «deve essere un affare di spirito per i fedeli ma non un affare economico per i truffatori che cercano nell'Anno Santo occasioni di guadagno».

(Libero, 15 dicembre 2015)


L'odio religioso è contro gli ebrei

Per un report dell'Fbi, il 59 per cento dei reati è a danno degli ebrei.

In reazione alle sparate del candidato repubblicano Donald Trump, che ha proposto di bloccare l'immigrazione musulmana in America, la popolazione di fede islamica si è trasformata in specie protetta. Il New York Times scrve che "i giovani musulmani sentono la morsa del sospetto, e per l'establishment la priorità più urgente è diventata proteggere i musulmani d'occidente dalle reazioni spropositate e dagli attacchi d'odio razziale e religioso fomentati dal populismo. Ma il report annuale sui crimini d'odio in America presentato dall'Fbi dice che quando si parla di discriminazione religiosa bisogna stare attenti a non falsare il quadro con le emergenze del momento. Le principali vittime dei crimini d'odio a sfondo religioso in America nel 2014 sono state di gran lunga gli ebrei, contro i quali si è diretto il 59 per cento dei reati. Il report parla di distruzioni di proprietà, rapine, intimidazioni perpetrate contro ebrei nel corso del 2014.
Secondo il magazine online Forward, inoltre, l'Fbi non include nell'elenco dei crimini d'odio gli omicidi di tre ebrei avvenuti l'anno scorso. La mancata inclusione risponde a ragioni amministrative e burocratiche, ma il dato di Forward aiuta a dare la dimensione del problema. In confronto, i crimini contro i musulmani costituiscono il 14 per cento del totale, anche se sono in crescita, quelli contro cristiani cattolici ammontano al 6 per cento, contro cristiani protestanti all'1. La reazione al populismo à la Trump dovrebbe accorgersi che se c'è un'emergenza è quella che abbiamo sotto gli occhi da sempre, un odio anti ebraico che non ha mai accennato a placarsi, nemmeno in America.

(Il Foglio, 15 dicembre 2015)


Beteavòn, prima cucina sociale kosher in Italia, compie 2 anni

Beteavòn, la prima cucina sociale kosher in Italia, spegne la seconda candelina. Nata a Milano nel gennaio 2014 per iniziativa dell'associazione Merkos, ramo educativo del movimento ebraico Chabad Lubavitch, Beteavòn prepara e distribuisce pasti a chiunque si trovi in una situazione di necessità.

L'apertura della cucina sociale trova le sue ragioni in un momento particolarmente complesso in cui sempre più famiglie ed individui si trovano in difficoltà. La perdurante crisi economica ha moltiplicato infatti i bisogni dei più deboli, accrescendo allo stesso tempo il numero di coloro che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese. Anziani con il minimo della pensione, imprenditori falliti, uomini e donne che hanno perso il lavoro, ma anche papà separati e profughi.
   "Abbiamo iniziato con la preparazione e distribuzione di una decina di pasti per lo Shabbat, il giorno di riposo ebraico, per condividere il calore di questa festa anche con chi è più lontano" - commenta il Rabbino Igal Hazan, ideatore dell'iniziativa.
   "Ci siamo accorti ben presto, però, che la necessità e il bacino di utenza erano molto più ampio e non potevamo rimanere indifferenti. Arrivare a quota 1.000 pasti distribuiti al mese non è stato difficile, purtroppo". Beteavòn(che in ebraico significa "buon appetito") supporta il Comune di Milano e fornisce pasti ai Centri Ascolto Caritas e del Comune di zona 6 e 7 e alla Comunità di Sant'Egidio, distinguendosi come modello di cooperazione e sinergia tra realtà religiose e culturali diverse. Ogni settimana i volontari del Beteavòn cucinano e distribuiscono insieme ai volontari di Sant'Egidio minestre calde per i senza fissa dimora che si raccolgono attorno alle stazioni di Porta Garibaldi e Cadorna. "E' un'esperienza umanamente importante perché nel caldo delle nostre case non ci rendiamo conto di quante siano le "persone invisibili" che vivono nella nostra stessa città", commenta Davide Sonnevald, giovane volontario di Beteavòn.
   La cucina sociale è stata particolarmente attiva anche in occasione dell'emergenza profughi, cucinando e consegnando pasti per i migranti ospitati dal memoriale della Shoah di Milano. "La Torah dice: ed amerete lo straniero perché foste stranieri in Egitto. Il popolo ebraico, che ha vissuto anche di recente il dramma dell'essere profugo, ha come valore fondamentale l'aiuto e l'amore per chi è costretto a fuggire. Ci è sembrato naturale, in un momento difficile come questo, dare un aiuto concreto preparando pasti caldi per chi si trova in una situazione di emergenza", conclude Rav Igal Hazan.

(MilanoToday, 15 dicembre 2015)


In Israele c'è una App contro gli attacchi di panico

Tre mesi di attacchi dei "lupi solitari" hanno inciso profondamente nella vita degli israeliani. Sono state cambiate molte abitudini, a Gerusalemme prima di passare per un quartiere arabo adesso ci si pensa su almeno un paio di volte. La percezione di minaccia continua si è insinuata nella giornata di tutti. Il senso di angoscia è alimentato dalle reti all news che continuano a riproporre, fino al successivo, i video dell'ultimo accoltellamento preso da una delle migliaia di telecamere di sicurezza presenti nella Città Santa. Le strade di giorno sono piene di divise e adesso ci sono anche i Marshal sui mezzi pubblici per la sicurezza su tram, bus e alle fermate, spesso teatro degli attacchi col coltello. Con il buio le strade si svuotano, i lampioni illuminano marciapiedi deserti, i locali pubblici sono semivuoti e i cinema hanno cancellato l'ultimo spettacolo.
   La tensione è palpabile ma adesso c'è un App per smartphone che promette di combattere lo stress e gli attacchi di panico, senza dover ricorrere a farmaci spesso inefficaci e pieni di controindicazioni. Si chiama, guarda il caso, "Serenità" e l'ha messa a punto l'Eco-Fusion, una lanciatissima start-up di Haifa.
   Come funziona? Il concetto è semplice: basta prendere un respiro profondo. "Serenità" è in grado di misurare il livello di stress e offrire esercizi di respirazione personalizzati che aiuteranno ad alleviare la tensione. I livelli di stress sono individuati usando il pulsante di comando dello smartphone come sensore biomedico, basta poggiare per 1 minuto il dito indice. Il sensore rileva impulso e ritmo sangue, ed elabora le informazioni per valutare i livelli di stress dell'utente e la sua capacità di concentrazione. Dopo la diagnosi sui livelli di stress, l'App guida l'utente attraverso una tecnica per ridurre il livello di stress basata su esercizi respirazione, che in media richiedono cinque minuti al giorno e sono su misura per ciascun utente.

(la Repubblica, 14 dicembre 2015)


Le donne dell'Intifada dei coltelli

di Gabriele Carrer

 
Anat Berko, esperta di terrorismo
Cugina di Abdelhamid Abaaoud, la mente delle stragi di Parigi, Hasna Aitboulahcen, 26 anni, è stata la prima donna kamikaze ad essersi fatta esplodere in Europa. E sono sempre di più le ragazze che decidono di combattere la jihad palestinese con attacchi contro i cittadini israeliani ed ebrei.
   «Non è un elemento di novità. Usare le donne per gli attentanti è sempre stato funzionale al terrorismo, in particolar modo quello palestinese, che cerca di far leva sulle anime occidentali sempre pronte a difendere donne e bambini». A parlare è Anat Berko, tenente colonnello in pensione dell'esercito israeliano ed esperta di terrorismo, autrice di numerose ricerche sul tema e del testo The Smarter Bomb: Women and Children as Suicide Bomber. Nata da profughi in fuga dall'Iraq, la dottoressa Berko è entrata alla Knesset nello scorso marzo, eletta fra le fila del Likud del premier Netanyahu. Nelle recenti settimane, durante le quali l'intifada dei coltelli è tornata a colpire nelle strade di Israele, Berko si è distinta all'assemblea di Gerusalemme per un emendamento, approvato in prima lettura, alla Youth Law che prevede l'inasprimento delle pene per i minori condannati per terrorismo. Secondo la proposta di Berko, nata dallo sconvolgente impiego dei minori da parte di Hamas ma anche dello Stato Islamico, i giovani di età superiore ai 12 anni potranno essere messi in strutture dedicate, per poi essere trasferiti al compimento del quattordicesimo anno nelle prigoini israeliane.
   Non solo adolescenti, ma anche ragazze: è questo a caratterizzare l'Intifada dei coltelli. Gli attentanti compiuti da donne rappresentano infatti per i palestinesi occasioni uniche per strumentalizzare e martirizzare le combattenti, facendole passare come le innocenti vittime degli ebrei e degli israeliani. Come accaduto per le due diciottenni duranti i primi giorni dell'Intifada dei coltelli alla Porta dei Leoni e alla stazione degli autobus di Afula. O per la sedicenne che il 17 ottobre ha cercato di accoltellare una poliziotta israeliana a West Bank trovando lei stessa la morte. Come accadde tredici anni fa per la ventiduenne Reem Riyashi, madre di due bambini, che si fece esplodere al Valico di Erez portando con sé nell'aldilà quattro israeliani. Ma «emancipazione e femminismo non c'entrano nulla» sostiene la parlamentare Berko. «È solo un'altra forma di uso e di abuso sulle donne ad opera dei leader della società patriarcale palestinese. Non cercano di essere accettate come pari. Anzi, le giovani che compiono attacchi terroristici lanciano una sfida agli uomini, li spingono a pensare che se può farlo una donna, un uomo può e deve farlo meglio».
   Come Berko analizza anche nel suo libro The path to the paradise, le donne che compiono attentati sono ritenute peccatrici dalla società patriarcale palestinese. Questo vale soprattutto per le attentatrici suicide che, oltre a svolgere ruoli riservati agli uomini, tradiscono i loro doveri prestabiliti, il primo dei quali è sposarsi e avere figli. I due sessi si distinguono per il fatto che le donne compiono prevalentemente un solo attacco, mentre la maggior parte degli uomini ha una vera e propria carriera nel terrorismo che dura per tutta la loro vita. Ma le donne si ritrovano poi davanti ad un finale tragico in cui l'aspettativa di riscatto sociale si rivela pura illusione, nata sulle ali del rispetto artificioso del tempo in cui erano combattenti.
   Nel considerare le ragioni dell'impiego di donne nell'Intifada ci sono anche l'aspetto strategico e l'utilizzo di internet da considerare. Le donne, infatti, hanno maggior facilità a nascondere le armi. «Basti pensare alla morte di Rajiv Gandhi, ucciso da un'attentatrice che si fingeva incinta ma nascondeva sotto le vesti una cintura esplosiva - sottolinea Berko. L'impiego delle ragazze è quindi tattica, non semplice coincidenza». Inoltre, le chat online rappresentano un nuovo fattore che spinge all'utilizzo delle donne nell'Intifada 2.0: mezzi funzionali alla causa in quanto offrono la possibilità di adescare la vittima sul web. Come nel caso del liceale israeliano Ofir Rahum ucciso nel 2001. La parlamentare israeliana Anat Berko invita a diffidare dalle giovani palestinesi che, anche sulle chat, possono trarre in inganno per il loro aspetto molto occidentalizzato. Donne che a volte rifiutano il velo per sfoggiare la loro femminilità anche nella quotidianità. Ma «negli anni Settanta nessuna donna palestinese indossava il hijab, neanche a Gaza» sottolinea Berko. Nonostante i valori di devozione, disciplina e sacrificio che il velo incarna fossero già forti nell'animo delle attiviste palestinesi.
   Quella nata dagli scontri che fine settembre funestano Israele è una sollevazione a forti tinte rosa. Un'Intifada 2.0, degli smartphone e dei social media, dei singoli organizzati e della leadership palestinese nell'ombra, oltre che dei sassi e dei coltelli. Un'Intifada delle nuove generazioni che tramite i social network si allontanano dal controllo degli anziani ma che allo stesso tempi e attraverso questi mezzi alimentano l'antisionismo e organizzano le proteste in cui si brandiscono coltelli e bruciano bandiere israeliane. Ma è anche la sollevazione delle giovani donne che stanno fianco a fianco con i loro compagni pronte a rendersi utili alla causa raccogliendo e lanciando sassi, soccorrendo i feriti e lanciandosi in attacchi individuali. Non è l'Intifada dei poveri, dei rifugiati: le ragazze come i ragazzi protagonisti di questa nuova rivolta vivono infatti una vita agiata, sono istruiti, hanno un lavoro fisso; e come il diciannovenne Fadi Alloun, che nella Città vecchia di Gerusalemme ha accoltellato un ebreo quindicenne, appaiono curatissimi e alla moda sui loro social e frequentano i centri commerciali israeliani alla ricerca di capi firmati.

(East Magazine, 14 dicembre 2015)



«Benedetto sii tu, o Eterno, Dio del padre nostro Israele»

Il re Davide, dopo aver preparato il materiale per la costruzione del tempio che suo figlio Salomone avrebbe dovuto eseguire, invitò il popolo a fare offerte volontarie per la costruzione del palazzo, dando per primo il buon esempio. Il popolo rispose generosamente e con gioia. Alla fine della raccolta «Davide benedisse l'Eterno in presenza di tutta l'assemblea e disse:
    Benedetto sii tu, o Eterno, Dio del padre nostro Israele, di secolo in secolo! A te, o Eterno, la grandezza, la potenza, la gloria, lo splendore, la maestà, poiché tutto quello che sta in cielo e sulla terra è tuo! A te, o Eterno, il regno; a te, che t'innalzi come sovrano al disopra di tutte le cose! Da te vengono la ricchezza e la gloria; tu signoreggi su tutto; in tua mano sono la forza e la potenza, e sta in tuo potere il far grande e il render forte ogni cosa. Or dunque, o Dio nostro, noi ti rendiamo grazie e celebriamo il tuo nome glorioso. Poiché chi son io e chi è il mio popolo, che siamo in grado di offrirti volenterosamente cotanto? Giacché tutto viene da te; e noi t'abbiamo dato quello che dalla tua mano abbiamo ricevuto. Noi siamo dinanzi a te forestieri e pellegrini, come furono tutti i nostri padri; i nostri giorni sulla terra son come un'ombra e non v'è speranza. O Eterno, Dio nostro, tutta quest'abbondanza di cose che abbiamo preparata per edificare una casa a te, al tuo santo nome, viene dalla tua mano, e tutta ti appartiene. Io so, o mio Dio, che tu scruti il cuore e ti compiaci della rettitudine; perciò, nella rettitudine del cuor mio t'ho fatto tutte queste offerte volontarie e ho visto ora con gioia il tuo popolo che si trova qui, farti volenterosamente le offerte sue. O Eterno, o Dio d'Abraamo, d'Isacco e d'Israele, nostri padri, mantieni in perpetuo nel cuore del tuo popolo queste disposizioni, questi pensieri, e rendi saldo il suo cuore in te; e da' a Salomone, mio figlio, un cuore integro, affinché egli osservi i tuoi comandamenti, i tuoi precetti e le tue leggi, affinché esegua tutti questi miei piani, e costruisca il palazzo, per il quale ho fatto i preparativi.»
dal primo libro delle Cronache, cap. 29

 


Sondaggio: 67% dei palestinesi a favore di attacchi con coltello

Il 67% dei palestinesi si è detto a favore degli attacchi con i coltelli contro gli israeliani, ma il 73% si oppone al fatto che questi siano compiuti da giovani studentesse.
Sono alcuni dei risultati del sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey (Psr) e del centro Conrad Adenauer Stiftung, secondo cui i due terzi degli intervistati chiedono le dimissioni del presidente Abu Mazen e considerano la soluzione a due stati non più praticabile.
La stessa percentuale (71% a Gaza, 63% in Cisgiordania) crede che le recenti violenze serviranno di più l'interesse nazionale che nuovi negoziati. Il campione è diviso a metà riguardo la morte degli autori degli attacchi: il 51% è convinto che gli assalitori colpiti dall'esercito abbiano attaccato israeliani, mentre il 47% non lo crede. Gli intervistati pensano anche che gli attacchi abbiano il supporto di Hamas (71%), del Fronte per la liberazione della Palestina Fplp (66%) e di Fatah con il 59%.
La maggioranza degli intervistati è per abbandonare gli Accordi di Oslo (67%), boicottare i prodotti israeliani (70%) e interrompere il coordinamento alla sicurezza con Israele (64%).
Il 65% del campione vuole le dimissioni del presidente Abbas. Nel caso di nuove elezioni con la sola partecipazione di Marwan Barghouti (Fatah) e Ismail Hanyieh (Hamas), il primo vincerebbe con il 56% delle preferenze contro il 38% del secondo. Il 65% dei palestinesi non ritiene più praticabile la soluzione a due stati a causa dell'aumento delle colonie, ma il 70% si oppone alla soluzione a uno stato ed è convinto che (82%) l'aspirazione di Israele sul lungo periodo sia di annettere i Territori.

(swissinfo.ch, 14 dicembre 2015)


Delek Group smentisce il taglio della produzione di gas dal giacimento Leviathan

GERUSALEMME - La compagnia energetica israeliana Delek Group smentisce le voci ventilate dalla stampa sulla presunta riduzione della capacità produttiva del giacimento di gas naturale del Leviathan, al largo delle coste di Israele. Fonti vicine al dossier avevano riferito al quotidiano economico israeliano "Globes" che il gruppo starebbe ponderando una riduzione del target di produzione pari a 16 miliardi di metri cubi di gas naturale all'anno, a causa di un calo della domanda nel vicino Egitto. "Contrariamente a quanto è stato pubblicato, il piano di base per lo sviluppo della struttura del campo di Leviathan, avanzata dai partner del progetto, ha lo scopo di produrre alla massima potenza circa 16-18 miliardi di metri cubi di gas naturale all'anno utilizzando varie soluzione ingegneristiche", si legge nel comunicato. Il gas servirà a soddisfare le esigenze del mercato israeliano, giordano, egiziano e palestinese "in conformità con le lettere di intenti firmate fino ad oggi". Il gruppo israeliano sottolinea inoltre che "lo schema di base del piano di sviluppo non è stato alterato". Delek riferisce che dovranno essere valutate "diverse possibilità per adeguare la capacità del piano di sviluppo ai vari programmi di marketing".

(Agenzia Nova, 14 dicembre 2015)


Gli equilibrismi del presidente turco

Erdogan: "Rapporti con Israele? La normalizzazione serve a tutti".

di Daniel Reichel

In una delle sue ultime uscite sula situazione israeliana, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan aveva definito l'ultima ondata di attacchi terroristici palestinesi come "una nobile lotta". A settembre aveva chiesto all'Onu provvedimenti contro Gerusalemme, accusando il governo israeliano di aver "violato" la santità della moschea Al Aqsa e gettando benzina su una situazione già incandescente. Queste prese di posizione di Ankara sembravano il segnale dell'ennesimo naufragio dei tentativi di riallacciare i rapporti tra i due paesi. Dall'episodio della Mavi Marmara - la nave diretta verso Gaza, teatro nel 2010 dello scontro tra le forze di sicurezza israeliane e gli attivisti filopalestinesi a bordo. Nell'incidente morirono nove attivisti turchi - le relazioni tra Turchia e Israele sono gelide: Gerusalemme ha chiesto ufficialmente scusa ad Ankara, proponendo un risarcimento per i famigliari delle vittime. L'accordo sembrava fatto ma tutto fu poi congelato. Ora, in un Medio Oriente traballante, dove la Siria è in ginocchio, la minaccia dell'Isis è sempre più forte e l'influenza dell'Iran si sta estendendo, Erdogan sembra pronto a riaprire le porte al governo del Premier israeliano Bejamin Netanyahu. Nelle scorse ore infatti il presidente turco ha dichiarato che "un processo di normalizzazione dei rapporti con Israele sarebbe positivo per noi, per Israele, per i palestinesi e per l'intera regione".

(moked, 14 dicembre 2015)


Kalid Chaouki ammette: "L'islam cerca vendetta"

Il deputato Pd su terrorismo, presepi e Papa: la violenza è nel Corano e bisogna controllare gli imam.

di Claudio Cartaldo

 
Kalid Chaouki
"La violenza è la malattia dell'Islam, l'integrazione è fallita, il buonismo di certa sinistra fa il nostro male. E a noi musulmani servirebbe un papa come Francesco".
  Sono le parole di Khalid Choauki, che "confessa" le colpe dell'islam, il rischio del radicalismo, la ricerca di vendetta dei musulmani e gli errori della "sinistra chic che prova un falso senso di colpa verso l'immigrato, ritenuto pregiudizialmente dalla parte giusta". Secondo Chaouki sarebbe un "atteggiamento che offusca il buon senso e deresponsabilizza gli immigrati, che allo Stato non chiedono buonismo".
  Nella lunga intervista rilasciata a Libero, il deputato Pd ammette che l'islam andrebbe riformato: "Andrebbe riformata l'interpretazione del Corano con un concilio islamico che scomunichi la violenza e il terrorismo. Solo che purtroppo siamo ancora lontani da questo". Un'interpretazione che porta al terrorismo islamico e alla violenza, una minaccia per l'europa: "Il mondo arabo - aggiunge Chaouki - ha un complesso di inferiorità verso l'Occidente che si porta dietro dai tempi della sconfitta dell'Impero Ottomano. Sa di aver perso la battaglia con la civiltà occidentale perché qui ci sono una libertà, una ricchezza e un rispetto per l'individio impensabili nel mondo arabo. Per questo i terroristi sono assetati di vendetta e voglia di riscatto".

 Vendetta
  Il problema è che non esiste un controllo, un papa islamico che possa controllare tutti. Abbassare i toni. E poi c'è il Corano in cui - ammette Choauki - "c'è un versetto in cui il profeta annuncia che 'un giorno prenderemo Roma'. La città eterna - aggiunge - è da sempre meta di conquista dell'Islam e ha un valore simbolico unico. La minaccia è reale". Non solo. Perché la sete di vendetta islamica non si fermerà. "I musulmani - dice Chaouki - non si libereranno mai dall'odio verso l'Occidente finché non ci sarà una presa di coscienza che la violenza è purtroppo un cancro insito nella storia dell'islam e come tale va eliminato".
  Dal deputato dem indicazioni anche sugli imam radicali. "I leader politici e gli imam - dice - difendono il loro orticello e non curano gli interessi dei musulmani. Fanno propaganda, alimentano il vittimismo che genera rancore ma non propongono soluzioni. Parlano tanto di politica - conclude Chaouki - e poco di valori, sono litigiosi tra loro e fanno ancora troppo poco per una reale integrazione".

(il Giornale, 14 dicembre 2015)


Le note di Avital per l'Opera S. Francesco

Arriva il mandolinista israeliano che insegna musica nel deserto.

di Piera Anna Franini

MILANO - È stato il primo mandolinista a ricevere una nomination ai Classical Grammy Awards. Si chiama Avi Avital, domani al Dal Verme (ore 20.30) per il Concerto di Natale a favore di Opera San Francesco, messo in campo dalle Serate Musicali. Con lui, l'Orchestra Barocca di Venezia, in un programma che associa la Serenissima di Vivaldi alla Napoli di Paisiello. Avital è uomo del deserto, nato e cresciuto - anche musicalmente - a Beer Sheva, un centro a un'ora abbondante d'auto da Tel Aviv, una bottega strepitosa di musicisti. Da lì provengono Omer Meir Wellber, in questi giorni a Verona per l'inaugurazione di stagione, direttore ospite stabile della Israeli Opera, della Semperoper di Dresda, della Fenice di Venezia e della Raanana Symphonette. Proprio il padre di Wellber, brillante sindacalista degli anni Sessanta-Settanta, lasciava Gerusalemme per Beer Sheva su espressa richiesta di David Ben Gurion, fondatore di Israele. La missione era quella di dare dinamismo a una città in una fase di grande afflusso di immigrati ebrei dai Paesi Arabi. Iniziava col creare una scuola. Lo stesso Avi Avital è nato, 37 anni fa, da genitori ebrei marocchini, migrati a Beer Sheva negli anni Sessanta. Ora vive a Berlino ma ha studiato anche a Padova, allievo di Ugo Orlandi. Si è fatto le ossa proprio a Beer Sheva, dove è cresciuto un altro mandolinista di lungo corso, Jacob Reuven con Wellber artefice di un programma di alfabetizzazione musicale (Sarab) a Rahat, l'insediamento beduino più esteso al mondo, a un passo da Gaza, nel deserto del Neghev, 70 mila abitanti e una fitta rete di moschee. Rahat è il fanalino di coda dell'economia di Israele, il tasso di scolarizzazione è fra i più bassi del Paese, le tensioni all'ordine del giorno. Ora, con Sarab, si lancia un progetto inteso come forza trascinante e di riscatto in un territorio in perenne allarme.

(il Giornale, 14 dicembre 2015)


Scoperto un varco interno ad Akko: genovesi e veneziani litigavano anche lì

di Roberta Olcese

Si può camminare in Israele pensando di essere a Genova, lungo i portici di Sottoripa, in un quartiere sotterraneo e fortificato dove anche il Comune ligure aveva il suo palazzo. È la storia di Akko, nota anche come San Giovanni d'Acri, una delle mete turistiche più frequentate in Israele soprattutto per gli importanti siti archeologici che garantiscono un turismo di oltre 100mila visitatori l'anno. «Per due secoli Acri è stata una delle basi dell'espansione dei genovesi nel Mediterraneo, dal 1104 fino al 1291 quando i Mamelucchi hanno distrutto l'ultimo avamposto franco in Terra Santa». Spiega Fabrizio Benente, archeologo dell'Università di genova e direttore della missione archeologica del Ministero Affari Esteri per ricerche a Tiberiade e Akko che segue gli scavi dal 2006.
   Alla fine dell'estate il Dipartimento israeliano per le antichità ha fatto un'incredibile scoperta: l'accesso alla parte di città abitata dai genovesi era protetto internamente da un'entrata fortificata, con finestre a fessura per gli arcieri incaricati di proteggere i genovesi dagli assalti dei nemici. «Rispetto a quello che conoscevamo, trovare il varco di accesso al quartiere genovese e scoprire che è difeso da arcieri conferma le fonti: i genovesi erano ben protetti e presidiavano i loro beni. È un'entrata molto suggestiva, molto più piccola di Porta Soprana o Porta di Vacca a Genova».
   I genovesi si difendevano da dentro, ma da chi? «Insieme a loro nella città c'erano i veneziani e i pisani». Spiega Benente che a fine agosto, avvisato dai colleghi si è precipitato per controllare i nuovi ritrovamenti lungo la strada medievale lunga 350 metri, circa quattro metri sotto al variopinto "suk" arabo, arteria centrale del Quartiere genovese. Questa settimana anche gli ospiti del Centro internazionale per la conservazione di Akko (intestato alla città di Roma) hanno visto il primo tratto di quella strada.
   In realtà pare che la scoperta del varco fortificato sia stata piuttosto casuale: «A fine agosto-inizi settembre mentre scavavano nella direzione di una vicina sinagoga hanno scoperto il perimetrale esterno e il varco di accesso al quartiere dei genovesi» continua l'archeologo. Dal 2009 la spedizione genovese non ha più fondi per occuparsi della ricerca: «In passato avevamo un contributo dalla Regione» Lamenta Benente. Pare invece che gli israeliani siano molto interessati allo sviluppo di un terzo sito archeologico ad Acri, così da incrementare i flussi turistici con i conseguenti ricavi.

(Il Secolo XIX, 14 dicembre 2015)


Tour EDIPI di archeologia biblica: Promo-Intervista con Dan Bahat.

Redazione EDIPI

 
Dan Bahat
Abbiamo incontrato Dan in un recente incontro organizzato a Como con la collaborazione del pastore Gianni Digiandomenico e in quell'occasione parlando di tante cose ci ha rilasciato la seguente intervista.

- EDIPI: Il ns. presidente Ivan Basana ti ha corteggiato per anni quando andavi a Vicenza per il Festival Biblico e finalmente è riuscito a convincerti di fare da guida in un tour di archeologia biblica in Israele, diventato ormai storico.
DAN: E' stato nel 2012, ero un po' più giovane avendo solo 75 anni, e posso dire che ho un magnifico ricordo di quel viaggio archeologico in lungo e largo per Israele, soprattutto per la partecipazione e il coinvolgimento di tutti i partecipanti, in particolare del prof. Marcello con la moglie.

- EDIPI: Quest'anno proponi con il suggerimento di Andie Basana un tour di archeologia solo a Gerusalemme, perché?
DAN: Mai come in questo periodo Gerusalemme è sotto attacco, non alludo all'intifada dei coltelli, ma alle menzogne che vengono propinate da più parti riguardo alla sua storia e all'indiscutibile ebraicità e come unica vera ed integrale capitale di Israele. Per cui ritengo urgente e importante un percorso archeologico che riveli e confermi che la Bibbia ha ragione e Israele è la nostra terra con Gerusalemme capitale.

- EDIPI: Anche se hai 78 anni la passione e l'amore per l'archeologia sembra aumentare; ricordi i momenti salienti dei tuoi inizi?
DAN: Più di 50 anni fa negli scavi di Masada trovai dei reperti che sottoposti a Yigael Yadin, che era il capo della campagna di scavi, rivelarono uno dei momenti più drammatici della storia di Israele: erano i bossoli dell'estrazione a sorte dei 10 uomini che, unitamente al capo della rivolta Eleazar ben Yair, avrebbero portato a termine il suicidio di massa per non cadere in mano dei romani. Inoltre, quando ero molto giovane, alla fine dei miei studi, fui incaricato dal Ministero degli Esteri israeliano di scrivere una pubblicazione sul legame del popolo ebraico con la Terra di Israele. Il libretto si intitolava "Generazioni dimenticate" fu molto popolare ed ebbe un grande successo. In quell'occasione legai irresolubilmente due realtà: l'amore per l'archeologia con il fatto di esser ebreo in Terra d'Israele.

- EDIPI: Che ruolo può avere l'archeologia e nel nostro caso quella biblica in un periodo storico come questo, in cui antichi monumenti archeologici vengono distrutti.
DAN: Prima di tutto l'archeologia conferma che la Bibbia ha ragione e che la Terra di Israele appartiene agli ebrei e che ci sono sempre stati. Espressioni come "il ritorno del popolo ebraico alla terra dopo 2000 anni" evidenziano, non nel numero, ma nel concetto stesso che c'è un errore fondamentale. Abbiamo trovato sinagoghe del V e VI secolo, poco prima dell'avvento dell'Islam. Inoltre c'è un punto specifico da sottolineare: l'importanza dell'archeologia come strumento a sostegno di ideologia e geopolitica. Anche se è una disciplina relativamente recente, la sua evoluzione in Terra di Israele ha indubbiamente dato un significativo contributo ai drammatici cambiamenti politici e geopolitici della regione. In questo senso è bene rivederne i movimenti cruciali. Molti sostengono che la moderna archeologia sia nata nel 1880, ma io preferisco una data diversa: il 1838, quando Edward Robinson, un pastore evangelico, rifiutandosi di accontentarsi dei racconti e delle spiegazioni di guide locali, localizzò sulla mappa del paese i siti citati nella Torah e nel Nuovo Testamento. Nel 1860 troviamo Charles Wilson, che come ogni buon cristiano, era più interessato alla storia di Gerusalemme ai tempi di Gesù. Nel 1867 è la volta di Charles Warren che eseguì una prima mappatura completa dei siti storici conosciuti, evidenziando che questa terra era cosparsa in ogni sua regione di luoghi chiaramente corrispondenti ai racconti biblici. Oltre che ai testi biblici si avvalse anche di opere di autori successivi come Giuseppe Flavio.

- EDIPI: In quel periodo si può dire che l'archeologia fece un salto di qualità incoraggiando ricerche archeologiche sostenute da vari paesi europei.
DAN: Infatti allora l'archeologia assunse la fisionomia di disciplina scientifica e iniziò a discostarsi dalla razzia di reperti archeologici che avevano contraddistinto le spedizioni del passato e di cui i musei europei sono pieni. Per la prima volta inoltre la disciplina archeologica venne usata anche per scopi geopolitici. Molti governi acquistavano ampie aree dell'impero turco-ottomano, ormai in sfaldamento, con la giustificazione degli scavi archeologici. In questo senso si deve vedere la nascita dell'Israel Exploration Society e il contemporaneo acquisto, finanziato dai Rothschild, per la collina dell'antica e storica città di Davide.

- EDIPI: Purtroppo coincide con il periodo dello scoppio della prima guerra mondiale.
DAN: In effetti tutta l'attività archeologica in terra di Israele si fermò bruscamente per oltre 10 anni, con l'unica eccezione della scoperta fatta dai frati domenicani a Gerico dell'importantissima sinagoga di Na'aran del VI sec.: scavavano mentre tutt'attorno si combatteva furiosamente!

- EDIPI: Il periodo postbellico con il mandato britannico favorì la ricerca archeologica?
DAN: Certamente perché ci si muoveva con maggiore libertà, anche se la ricerca era indirizzata verso gli inizi del cristianesimo. Comunque cominciavano a divenire pubblici gli studi sulle sinagoghe che offrivano un quadro diverso di quello fino allora creduto dell'abbandono e vuoto ebraico, dopo la tragedia romana e, al contrario, legavano nomi e luoghi citati dalle fonti ebraiche post-bibliche (Talmud e Mishnà) a siti tangibili. In questo senso la scoperta della sinagoga di Bet Alfa risalente al 540 è illuminante.

- EDIPI: Che rapporto ha l'archeologia biblica con il movimento sionista che andava sviluppandosi in quel periodo?
DAN: Si può affermare che ne abbia incoraggiato gli inizi e comunque la concezione dell'archeologia al servizio del sionismo continua fino a dopo la fondazione dello Stato di Israele e per molti anni ancora, almeno fino al 1967. Tappe fondamentali sono state la scoperta casuale dei sette rotoli di Mar Morto nel 1947 e gli scavi di Masada iniziati nel 1963. La guerra dei Sei Giorni del 1967 portò ad una nuova situazione: il controllo israeliano di territori che precedentemente erano preclusi.

- EDIPI: Questo fu certamente un fatto molto importante in quanto faceva cadere molte limitazioni alla ricerca archeologica.
DAN: Gli impulsi maggiori e rinnovati si sono indirizzati sul Golan, fin da allora occupato dalla Siria, ma soprattutto a Gerusalemme. Tutta la ricerca su, intorno e sotto Gerusalemme ha continuamente del sorprendente, la reputo la miniera archeologica più interessante. Nonostante l'indifendibile negazione musulmana dell'esistenza stessa del Tempio e di tutto quello che significa in termini di vita quotidiana in quel periodo, mi trovo spesso a indicare a colleghi, turisti e credenti luoghi che sono identificati con precisione assoluta, spesso rovinando le loro convinzioni acquisite.

- EDIPI: Un problema però l'avete con l'organizzazione archeologica islamica di Gerusalemme (WAKF) per la Spianata del Tempio, concessa loro da Moshe Dayan dopo averla inizialmente conquistata.
DAN: I miei colleghi musulmani continuano a sostenere che prima di al-Aqsà c'era un'altra moschea e prima di questa ancora una moschea e così via fino ad Abramo (loro primo profeta) che ricevette da Dio la Ka'ba, la pietra che si trova all'interno della Mecca. Nulla che solo possa ricordare qualcosa di pre-islamico. Tralasciamo che l'accesso all'interno delle moschee è consentito solo ai musulmani. Va ricordato però che alle guide che accompagnano i turisti sulla Spianata delle Moschee è perentoriamente vietato di tenere aperte o mostrare illustrazioni che potrebbero alludere al fatto che quella fosse precedentemente la Spianata del Tempio. Insomma, nessuna apertura al benché minimo dialogo, se non politico, almeno scientifico.

- EDIPI: Veniamo ora ai prossimi programmi, c'è il progetto di questo tour EDIPI di archeologia biblica a Gerusalemme per maggio 2016, cosa puoi dirci in merito.
DAN: Vorrei ancora precisare che l'archeologia israeliana ha smesso dal 1967 di esser strumento geopolitico dello Stato Ebraico e in buona misura del sionismo. Questo non significa che le evidenze raggiunte non abbiano la loro importanza, bensì che quelle prove che lo Stato e il sionismo cercavano a sostegno delle proprie rivendicazioni sono ormai sul tavolo, visibili a tutti coloro che le vogliono vedere. In questo senso il prossimo viaggio organizzato da EDIPI che mi troverà in veste di inusuale guida ha come obbiettivo chi creare dei testimoni di verità storiche inoppugnabili per contrastare l'ondata di menzogne che si sta riversando su Israele e la sua storia. Per cui vi dò l'appuntamento dal 15 al 22 maggio...l'anno prossimo a Gerusalemme.

Locandina

(Edipi, 11 dicembre 2015)


Il tempo e la storia': nazisti in fuga. La rotta d'oriente

di Deborah Fait

 
                 Walter Rauff                                 Alois Hudal
E' da segnalare l'ottimo documentario di Rai 3, Il tempo e la storia sui rapporti strettissimi tra i nazisti e il mondo arabo/islamico, sia durante sia dopo la guerra, con i nazisti in fuga. Siria e Egitto danno immediatamente rifugio agli ufficiali del Reich cercando di sfruttare le loro competenze in campo militare e di intelligence. Migliaia di nazisti lasciano l'Europa scappando attraverso l'Italia, approfittando della tolleranza delle autorità civili e del Vaticano. Vigeva all'epoca nei confronti dei tedeschi del Reich la legge del silenzio, la parola d'ordine era "non è necessario perseguire i nazisti".
   Walter Rauff che fu il coordinatore dei Gaswagen, i camion a gas usati per ammazzare gli ebrei, gli omosessuali e altri prima dell'invenzione della camere a gas nei campi della morte, fu eletto capo della Gestapo a Milano. Riesce a fuggire agli alleati che lo avevano imprigionato, evade e corre a Roma dove lavora addirittura in un convento cattolico finché il Papa in persona, il tanto discusso Pio XII, lo fa insegnante presso la Santa Sede. Il vescovo filonazista Alois Hudal, capo del Collegio teutonico di Roma, era molto attivo nell'assicurare la fuga dei nazisti. Omertà assoluta della Croce Rossa che aiutava la fuga con passaporti falsi. Alla fine Rauff sceglie il Medio Oriente, il suo compito chiaro e semplice, su espressa richiesta del Muftì di Gerusalemme, era di esportarvi la Shoà e procedere insieme agli arabi allo sterminio degli ebrei.
   Insomma un documentario fatto molto bene che mette in chiaro gli stretti rapporti tra mondo arabo e Terzo Reich, tra il Mufti di Gerusalemme, Hitler, Himmler e Goering, suo amico personale. Himmler aiutò il Muftì a creare un corpo di SS musulmane che il generale nazista teneva in grande considerazione perché morivano allegramente convinti di trovare in paradiso. Obiettivo di tutti, arabi, Lega Araba e nazisti era la distruzione di Israele. Nauseante la posizione tollerante dell'Italia e anche di altri paesi europei, complici del nazismo nel portare a termine la Shoah e molto disponibili a guerra finita nell'aiutare la fuga dei criminali nazisti.
I nazisti dal canto loro, a tre anni dalla fine della guerra, erano ancora pronti a una seconda Shoah e organizzarono con 6 stati arabi l'invasione di Israele. E fu una disonorevole sconfitta, 6 eserciti arabi armati fino ai denti, addestrati dai soldati teutonici, messi in ginocchio da una manciata di ebrei, molti dei quali reduci dai campi di sterminio. Subito dopo la disfatta, caduto in disgrazia, Walter Rauff partì per l'Argentina. C'è da augurarsi che simili documentari, non manipolati dalla propaganda, vengano ripetuti e non siano soltanto un piacevole intermezzo in un mare di falsità storiche troppo spesso propinate ai telespettatori.
   Ernesto Galli della Loggia non ha mancato di far presente che Mein Kampf e I Protocolli dei Savi di Sion vanno per la maggiore ancora oggi nei paesi musulmani ad alimentare il tradizionale odio per gli ebrei. Conclude il documentario una breve intervista a Beate Klarsfeld sulla cattura del criminale nazista Barbie.

(Inviato dall'autrice, 14 dicembre 2015)


Sport che unisce: con Kinder bimbi arabi, ebrei, africani giocano assieme

GERUSALEMME, 13 dicembre - Sedici squadre miste di bambini dai 5 ai 14 anni: arabi, ebrei, diversamente abili e di colore. E' il Torneo di calcio 'Kinder+Sport' organizzato dal 'Roma Club di Gerusalemme' con il patrocinio dell'Ambasciata d'Italia in Israele che si e' svolto oggi a Tel Aviv. "E' un progetto globale responsabile sviluppato da Ferrero, a promuovere stili di vita attivi, incoraggiando gioco dinamico e sportivo tra i bambini e le loro famiglie, momenti di formazione fondamentali nella crescita di un bambino. E per questo lo abbiamo fatto nostro", ha spiegato Samuele Giannetti del 'Roma Club Gerusalemme' .
"Attraverso la partecipazione allo sport e all'educazione fisica, i giovani - è detto in un comunicato - imparano l'importanza di valori fondamentali come l'onestà, l'amicizia, l'unità, la fiducia e la fiducia negli altri, e Kinder+Sport vuole essere il sostenitore di questi principi in tutto il mondo". Ha partecipato alla premiazione l'ambasciatore di'Italia in Israele Francesco Maria Talo': "Oggi lavoro = piacere. Una bella giornata con bambini ebrei, arabi, africani", ha commentato su Twitter.
Il Roma Club di Gerusalemme e' una iniziativa ebraica per un tifo senza confini nato nel 1998 per iniziativa di un gruppo di italiani residenti in Israele, ed in primis il presidente Fabio Sonnino, i quali hanno sentito la necessità di rimanere attaccati e tifare per la squadra giallorossa anche a più di 3000 km di distanza aprendo così il primo club di tifosi romanisti in Medio Oriente.
Kinder+Sport è un progetto globale responsabile sviluppato da Ferrero, a promuovere stili di vita attivi, incoraggiando gioco dinamico e sportivo tra i bambini e le loro famiglie. Il progetto nasce dalla consapevolezza che una vita attiva è la formazione non solo per il corpo, ma anche per le emozioni e rappresenta un momento di formazione fondamentale nella crescita di un bambino.

(OnuItalia, 13 dicembre 2015)


Il villaggio neonazista di Jamel, in Germania

Dove i bambini marciano e sognano il ritorno del Terzo Reich

Il nazionalsocialismo sta riprendendo piede in Germania, come racconta un reportage de La Stampa, in particolare nelle aree rurali sparse tra la Pomerania e il Meclemburgo, piccoli villaggi trasformatisi in altrettanti piccoli Reich abitati da contadini "eco-nazi", neo-artamani, skinhead e nazi hipster. In uno di questi villaggi, Jamel, vi è solo una coppia di artisti, i Lohmeyers, che tenta di resistere alla rievocazione del nazismo, ma invano.
   Jamel è entrato nel radar dei nazi una quindicina di anni fa. In questo tranquillo villaggio di quaranta anime a sud di Schwerin è nato e cresciuto un noto naziskin tedesco, Sven Krueger. Esponente degli Hammerskin, pregiudicato, eletto consigliere comunale a Wismar nel partito di estrema destra Npd, ha cominciato a comprare le fattorie intorno alla sua, a invitare i sodali neonazisti a prendere quelle che si liberavano, a cacciare da Jamel chiunque non abbia il culto di Adolf. All'ingresso del villaggio, un cartello indica la distanza da Braunau am Inn, il paese natale di Hitler. Di fronte, un enorme murale copre il lato intero di una casa: rappresenta una famiglia bionda, sorridente, i nazionalsocialisti avrebbero detto «ariana». La scritta è in caratteri gotici: «Comunità di Jamel, libera, sociale, nazionale».
   I Lohmeyer, Birgit e Horst, vivono in questo clima di tensione, cercando di resistere. Per il loro impegno civile hanno addirittura vinto qualche premio, ma la paura è comunque una costante della loro vita.
   La coppia di artisti è circondata da «coloni hitleriani» che non si limitano a guardarli male. «Per anni ci hanno insultati per strada, inseguiti in macchina, hanno tentato di farci andare fuori strada, hanno bucato le ruote delle nostre macchine. Tentano continuamente di terrorizzarci, di farci andare via», racconta Horst. «Da allora non riesco più a scrivere i miei romanzi polizieschi», ammette Birgit. Poi aggiunge, tutto d'un fiato, «abbiamo paura, ma non ce ne andiamo, non l'avranno vinta».

(L'Huffington Post, 14 dicembre 2015)


Buenos Aires - Il nuovo governo applaudito a Gerusalemme

 
Il presidente argentino Mauricio Macri
"Si tratta di un cambiamento di direzione a cui diamo il benvenuto. Spero che vedremo un significativo miglioramento nelle relazioni tra Argentina e Israele così come, negli anni a venire, con altri paesi del Sud America".
   Ad esprime soddisfazione, il Primo ministro d'Israele Benjamin Netanyahu che, durante la riunione di governo di inizio settimana (la domenica in Israele), ha applaudito l'annuncio del neoeletto presidente argentino Mauricio Macri di non voler costituire la commissione congiunta con l'Iran per indagare sull'attentato all'Associazione Mutualità Israelita Argentina (Amia) del 18 luglio 1994. Nell'attacco furono uccise 85 persone e oltre 300 furono i feriti. Seppur in questi vent'anni non si sia riusciti a fare giustizia, la pista più solida (frutto di 600 pagine di inchiesta e avvalorata dall'Interpool) indica come responsabile dell'attentato una cellula del movimento terroristico Hezbollah che prendeva ordini da sei alti funzionari iraniani.
   Dietro l'eccidio di Buenos Aires ci sarebbe quindi la mano del regime di Teheran. Siglare un accordo come quello firmato nel 2013 con l'Iran dall'allora presidente Cristina Fernandez Kirchner per indagare sull'attentato all'Amia per le famiglie delle vittime è suonato come un insulto: per dirla come l'American Jewish Committee equivaleva a chiedere "alla Germania nazista di aiutare a ricostruire i fatti della Notte dei Cristalli". Un tribunale federale ha dichiarato illegittimo l'accordo tra Buenos Aires e Teheran ma la Kirchner aveva annunciato di voler ricorrere contro la decisione. Il cambio alla Casa Rosada ha però nuovamente modificato le carte in tavola portando tra l'altro il rabbino Sergio Bergman, tra i più strenui oppositori del citato accordo, a far parte del governo Macri.

(moked, 13 dicembre 2015)


Netanyahu: il ritorno di Tarabin dimostra la nostra preoccupazione per tutti cittadini del paese

Il ritorno in Israele di Ouda Tarabi, detenuto 15 anni nelle carceri egiziane, dimostra che Israele si preoccupa di tutti i suoi cittadini. Lo ha detto oggi il premier israeliano Benjamin Netanyahu poco prima della riunione di governo che ha discusso, tra le altre cose, del ritorno in patria di Tarabin, cittadino arabo-israeliano ritenuto dall'Egitto una spia di Tel Aviv. Lo riferisce il quotidiano "The Jerusalem post". Il primo ministro ha detto che Israele ha accettato di liberare tre prigionieri egiziani che avevano scontato la loro pena ed altri sei che la stavano ancora scontando per riportare nel paese Tarabin. Netanyahu ha anche ricordato di aver negoziato la liberazione di Tarabin con tre diversi presidenti egiziani, Hosni Mubarak, Mohammed Morsi, e Abdel Fatah al Sisi, e che 18 mesi fa ha mandato il suo inviato Yitzhak Molcho in Egitto per garantire che Tarabin, condannato con l'accusa di spionaggio, sarebbe davvero stato rilasciato dopo aver scontato la sua condanna.

(Agenzia Nova, 13 dicembre 2015)


Archeologia: a San Giovanni d'Acri riscoperto il rione genovese

AKKO - Sotto al variopinto "suk" arabo di Akko (S. Giovanni d'Acri), una delle mete turistiche più frequentate in Israele, a quattro-cinque metri di profondità sotto ai decori natalizi e alle bancarelle di pesci e di spezie, sono stati localizzati i resti di una strada di epoca crociata. Era lunga 150 metri.
   Come in un bazar, si presume che avesse ai lati botteghe e magazzini. Era la arteria centrale del "Quartiere genovese" in quell'affollato porto che (sulla base di reperti archeologici) estendeva i propri commerci oltre che all'Europa fino in Cina e in Marocco. Nove secoli fa, Genova e Acri erano città sorelle.
   Questa settimana, per la prima volta, gli ospiti del Centro internazionale per la conservazione di Akko (intestato alla città di Roma) hanno potuto vedere il primo tratto di quella strada tornato alla luce grazie a numerosi anni di scavi del Dipartimento israeliano per le antichità. Per via delle vicissitudini storiche, Akko è una città su due piani. Quello superiore, che ben conoscono i turisti, è di aspetto ottomano. Fu eretto sui resti della città crociata (1104-1291) che non venne rasa al suolo, ma semplicemente sepolta e sommersa di detriti.
   Dopo secoli di letargo, negli ultimi decenni archeologi israeliani hanno scavato sistematicamente recuperando importanti reperti crociati, fra cui la Fortezza degli Ospitalieri e la galleria dei Templari. Adesso il loro interesse si è concentrato su quanto resta delle repubbliche marinare: Genova, Venezia, Pisa. Ciascuna ad Acri costruì una sua «città nella città», a propria immagine e somiglianza.
   Avendo propiziato con la sua flotta nel 1104 la conquista di Acri, Genova ottenne da Re Baldovino I un terzo della città ed un terzo del reddito del porto. A quell'epoca Acri aveva 25 mila abitanti, il doppio di Londra, a cui si aggiungevano 10 mila pellegrini in transito. La città disponeva di un avanzato sistema di fognature, e di depositi per la raccolta dell'acqua piovana.
   Il rione genovese, spiega l'archeologo Eliezer Stern (che vi ha condotto lunghi scavi assieme a Fabrizio Benente dell'Università di Genova) era nel lato occidentale di Acri. La sua strada principale partiva dal punto dove oggi si trova il Monastero greco-ortodosso di San Giorgio. Proseguiva verso est - sotto all' attuale "suk" - fino alla sinagoga Ramhal, un edificio del Settecento.
   Sotto ai detriti, «si sono conservate pareti alte anche sei-sette metri», di edifici che potevano elevarsi su tre-quattro piani. In alcuni muri sono state scoperte fessure per gli arcieri, simili a quelle di palazzi della stessa epoca a Genova. Per il momento gli scavi si rendono possibili solo alle due estremità.
   Una volta completato un restauro, il suo aspetto ricorderebbe - secondo Stern - alcuni scorci dei vicoli di Genova: ad esempio, Sottoripa. «Se un giorno fosse aperta al pubblico - ha confermato Stern, nella visita organizzata in collaborazione con l'Istituto italiano di cultura di Haifa - rappresenterebbe certo un polo di attrazione per i turisti».

(Il Secolo XIX, 13 dicembre 2015)


I Nets sbagliano la scritta ebraica sulle magliette!

Il Brooklyn Nets volevano celebrare la serata dedicata alle tradizioni ebraiche con una maglietta dedicata… ma hanno commesso un errore di spelling!

di Alessandro Bonfante

Hanno invertito l'ordine delle lettere nella prima parola, che avrebbe dovuto essere מייצג
"Avrebbe dovuto" perché la scritta in ebraico aveva un errore di spelling. La stessa franchigia si è scusata per l'errore su Twitter: «Ci scusiamo per l'errore con le magliette. Abbiamo provveduto a correggere. Non vediamo l'ora di assistere ad una grande partita nella Jewish Heritage Night.»
Le T-shirt con la scritta corretta erano pronte per la vendita in tempo per la partita.
Per la cronaca, la partita è poi stata vinta per 100-91 dai Nets, con il contributo di 23 punti di Andrea Bargnani.

(La Gazzetta dello Sport, 13 dicembre 2015)


Il furgone della vergogna

Cosa lega un'idraulico del Texas direttamente alla Casa Bianca?

L'uomo del giorno, suo malgrado, si chiama Mark Oberholtzer e di mestiere fa l'idraulico in Texas City. La sua impresa di riparazioni ha avuto negli ultimi giorni una campagna pubblicitaria della quale, è facile presupporlo, avrebbe fatto volentieri a meno, e ora si ritrova ingarbugliata a un filo che lega un idraulico del Texas direttamente alla Casa Bianca... ma andiamo con ordine.
Circa due mesi fa Mark Oberholtzer, alla scadenza dei cinque anni di contratto leasing, ha restituito il suo furgone Pick Up alla società che glielo aveva affittato per prenderne uno nuovo. Prima di riconsegnarlo aveva però avvertito che avrebbe tardato la riconsegna di qualche giorno in modo da cancellare le scritte sul furgone con il suo indirizzo e numero di telefono. Il venditore però aveva fretta di riavere quel mezzo indietro e con la scusa di non rovinare la vernice, e su promessa che le scritte sarebbero state cancellate dai loro carrozzieri, lo aveva convinto a non ritardare l'operazione....

(Progetto Dreyfus, 13 dicembre 2015)


Terrorismo ed etichettature, due aspetti della stessa guerra contro Israele

Il boicottaggio dei prodotti 'Made in lsrael' non è una scelta economica ma una politica di discriminazione.

di Ugo Volli

Nel momento in cui scrivo questo articolo, l'Europa è sconvolta da una minaccia terrorista come non ne aveva conosciute da tempo e ciò ha messo in secondo piano l'ondata terrorista che continua ancora in Israele e anche il problema dei rapporti fra Unione Europea e Stato ebraico, che in questo momento si concentra sulla decisione di applicare un'etichettatura obbligatoria ed evidentemente discriminatoria alle merci prodotte nelle località poste al di là della linea armistiziale del '49, che furono il risultato della guerra che sei paesi arabi mossero contro Israele fin dal momento della sua costituzione e che Israele vinse: una "Linea verde" che fu stabilita con accordi che ne escludevano esplicitamente il carattere di confini internazionali.
   E' necessario pensare purtroppo che i tre temi cui ho accennato - terrorismo islamista in Occidente, terrorismo arabo in Israele, conflitto politico fra Unione Europea e Stato ebraico - siano destinati a permanere almeno nel medio termine ed è quindi necessario continuare a riflettere e a intervenire su ciascuno di essi, senza farci abbagliare da ciò che emerge alla cronaca in un momento o nell'altro. Per questa ragione è importante ragionare sull'etichettatura europea dei prodotti di Giudea e Samaria, che è un sintomo estremamente significativo di una situazione di conflitto in corso.
   Una parte importante della popolazione israeliana ha origini europee (magari mediate da un periodo di soggiorno negli Usa), il funzionamento del sistema politico israeliano somiglia di più al modello europeo di ogni altro stato (per esempio la legge è di origine britannica), il sistema multipartitico somiglia molto a quello italiano o francese, il livello di intervento pubblico e l'importanza dei sindacati sono abbastanza simili alle strutture tedesche. Bisogna prendere atto però che da decenni gli stati europei e dietro di essi le loro società sono ostili verso Israele. Le ragioni sono molte, sedimentate le une sopra le altre. C'è il vecchio, durissimo fondo dell'antigiudaismo cristiano, una predicazione d'odio che inizia già con i Vangeli e continua incessante nella teologia e nella pratica cristiana fino a travasarsi nell'odio per gli ebrei del pensiero laico (Voltaire, Kant, Marx) nell'antisemitismo "scientifico" ottocentesco e nel nazismo. C'è il complesso di colpa della Shoà, che si tramuta facilmente in aggressività e rivincita ("anche voi siete come i nazisti"). C'è la voglia di piacere al mondo arabo e dunque di dirsi partecipi del loro antisionismo. C'è la riproduzione degli schieramenti del comunismo, per cui gli arabi fanno parte del campo del progresso e Israele è un "lacchè dell'imperialismo". C'è invidia e timore per un giovane stato dinamico, capace di difendersi e di fare cose che l'Europa ha oggi paura di imitare. Quel che è importante comprendere è che l'etichettatura dei prodotti di Giudea e Samaria non è un provvedimento solo economico, non ha naturalmente nessun rapporto con la "corretta informazione dei consumatori" (negli stessi giorni in cui discriminava i prodotti di Israele, l'Unione Europea toglieva l'obbligo di indicare il luogo di elaborazione dei prodotti alimentari industriali).
   Il danno economico sarà certamente limitato. Quel che conta è l'aspetto politico, cioè il valore simbolico di questa decisione. E cioè che l'Unione Europea, che non è un organismo internazionale superiore se non agli stati che ne fanno parte (dunque non di Israele), si arroga il diritto di stabilire i confini di Israele, escludendone di sua iniziativa i territori contesi. Come se Israele, per ragioni sue, decidesse che la Catalogna non è più Spagna e i prodotti della Corsica e di Nizza debbano essere dichiarati "made in Italy", perché la Francia non li possiederebbe legittimamente. E' chiaro che una scelta del genere è del tutto contraria a ogni legalità internazionale: ogni stato (o superstato, come l'Europa si atteggia) si arrogherebbe il diritto di decidere a casa d'altri.
   Anche su questo punto bisogna chiedersi perché l'Unione Europea prende un atteggiamento del genere solo su Israele e su nessuno degli altri circa 200 conflitti territoriali che agitano il pianeta. Perché per esempio non imporre alla Turchia etichette o altri strumenti che accertino come nei suoi prodotti nulla sia stato fatto nella zona occupata di Cipro Nord (che è territorio europeo)? Perché non chiedere alla Russia lo stesso per la Crimea (territorio ucraino) e l'Abkazia (territorio georgiano)? Perché non farlo rispetto all'ex-Sahara spagnolo col Marocco, che gode di finanziamenti europei per sfruttare le risorse minerali e ittiche di questo territorio occupato?
   Potrei andare avanti a lungo, ma è chiaro che sotto c'è una pretesa di superiorità rispetto allo stato ebraico che non può non far pensare ai secoli in cui gli ebrei in Europa erano "proprietà" di questo o quel sovrano, e al modo in cui "per il loro bene" erano rinchiusi nei ghetti, obbligati a sottoporsi a vari tentativi di conversione, impediti di svolgere molti mestieri. E' un accostamento che non deriva solo da una sensibilità ebraica, ma che risulta chiaro a chiunque esca dalla cronaca e segua la dinamica storica dei rapporti fra ebrei e politica europea.
   Al di là di questi problemi di principio, è evidente che con l'etichettatura, che è premessa strumentale del boicottaggio, e magari in futuro non solo dei prodotti di Giudea e Samaria, ma di tutto Israele, l'Europa ripropone uno schieramento dalla parte degli arabi antisraeliani che è ribadito in mille cose dalle votazioni all'Onu e all'Unesco alle dichiarazioni politiche, dai comportamenti dei diplomatici in Israele fino al finanziamento sistematico delle organizzazioni "non governative" che vivono di fondi governativi o di fondazioni euroamericane che aizzano gli arabi a ribellarsi all'"occupazione" e sono fiancheggiatrici della "lotta popolare" che sfocia nel terrorismo. Questa posizione è un errore gravissimo, che ignora il fatto sempre più chiaro che Israele e l'Europa hanno lo stesso terribile nemico, l'islamismo assassino che colpisce a Parigi come a Gerusalemme. Alcuni stati europei, come la Germania e l'Ungheria si sono accorti di questo e hanno deciso di rifiutare l'etichettatura. Altri, come la Svezia, sono apertamente schierati dalla parte degli islamisti. Su tutto questo è necessario provocare il più possibile dibattito pubblico, perché i pregiudizi delle élites europee sono pieni di contraddizioni e inconciliabili coi fatti. Solo discutendone apertamente è possibile modificarli.

(Shalom, dicembre 2015)


"... una predicazione d'odio che inizia già con i Vangeli...". Se l'autore vede nei testi evangelici espressioni di odio antigiudaico, dovrebbe dire allora che questo odio comincia nell'Antico Testamento, dove si trovano testi ben più duri contro il popolo ebraico. In entrambi i casi lì si manifesta l'amore di Dio, non l'odio. Ma riconoscere l'amore di Dio per noi è umiliante per tutti: per i giudei prima e poi per i greci. M.C.


Netanyahu: sul clima Israele farà la sua parte

"L'accordo sul clima è importante" e Israele, come tutti i paesi, ha interesse che si riduca il riscaldamento globale. Per questo farà la "sua parte". Lo ha detto il premier israeliano Benyamin Netanyahu in apertura della consueta riunione di governo a Gerusalemme. Il premier ha anche parlato di Ouda Tarabin, il beduino israeliano, rilasciato dall'Egitto dopo 15 anni di carcere per aver spiato a favore dello stato ebraico: "Israele - ha detto - non abbandona i suoi cittadini".

(ANSA, 13 dicembre 2015)


C'è l'antisemitismo à la page

Intervista a Giulio Meotti.

È un clima da armi '30. Mentre in Germania c'erano le vignette contro i giudei sui giornali nazionalsocialisti, nell'Urss nei circoli intellettuali albergava l'odio al «cosmopolitismo degli ebrei». Sono gli intellettuali, sempre, i primi a tradire gli ebrei. E non solo oggi. Basta ricordare che, da Norberto Bobbio e Concetto Marchesi, tutti i padri nobili della sinistra italiana firmarono il questionario fascista sulla «razza ebraica» Nella commemorazione delle stragi del 13 settembre, Hollande ha citato tutti gli attacchi dalle Torri gemelle di New York, alle metro britanniche e spagnole, ai massacri a Bruxelles e a Parigi ma non ha mai menzionato gli assassinii perpetrati a Gerusalemme. In questo modo, Hollande ha pubblicamente fatto un'orrenda scelta morale per cui La Città Santa o Tel Aviv sono lecitamente sacrificabili e pure Israele. Ai feroci islamisti dell'lsis (e di tutte le altre parrocchie terroristiche) interessa distruggere i nostri valori e le nostre democrazie. E noi invece, a chi, quei valori, li pratica nel cuore del Medioriente, non guardiamo come se esso fosse un nostro grande alleato, ma lo viviamo come un problema. Sul Guardian 300 accademici hanno dichiarato di voler interrompere ogni rapporto con le università israeliane e l'hanno fatto.
C'è la grande organizzazione delle femministe americane che boicotta pubblicamente Israele, quasi che questo paese fosse il più grande violentatore o imitatore dei diritti di donne nel mondo. Anche Amnesty International non ha mai preso una posizione chiara sul terrorismo in Israele. Per non parlare del rapper ebreo americano Matisyahu che è stato addirittura cacciato da un festival di musica in Spagna. Non diverso è l'atteggiamento della famiglia reale inglese. Le pare possibile che né la Regina Elisabetta, né l'onnipresente Principe Carlo abbiano mai messo piede in Israele? In compenso essi vanno spesso in paesi meravigliosi, dal punto di vista del rispetto dei diritti umani (e in particolare (delle donne) tipo l'Arabia Saudita. Nei paesi scandinavi l'antiebraismo è il più esplicito e viene espresso senza pudore.

di Goffredo Pistelli

 
Giulio Meotti
Il 20 dicembre in libreria uscirà, per Lindau, il suo nuovo libro, Hanno ucciso Charlie Hebdo. «Sarà un pamphlet, a un anno dalla strage, ricordando tutti quelli che attaccavano i vignettisti ma da vivi. E hanno continuato pure da morti, per niente #jesuisCharlie. Ma sarà anche la storia di 30 anni in cui la nostra libertà di espressione si è ritrovata alle prese con l'intimidazione islamista, da Saiman Rushdie a Benedetto XVI, e di come quella libertà l'abbiamo perduta».
  Ma non abbiamo cercato Giulio Meotti, aretino, 36 anni, da 12 al Foglio, per parlare di islamismo quanto, piuttosto, di questo antisemitismo à la page, che circola in Europa, in cui è maturato l'embargo surrettizio contro i prodotti Israeliani: la Commissione vuole che in etichetta sia indicato se sono prodotti oltre la Linea Verde, aldilà della quale ci sono gli insediamenti conquistati con la guerra del 1967.

- Domanda. Che cos'è questo sentimento anti-israeliano che si vena sempre più di antiebraismo? Ce ne sono esempi eclatanti, Dagens Nyheter, il più sofisticato quotidiano di Svezia, che, come lei ha scritto, «ha recentemente pubblicato un editoriale dal titolo «E' permesso odiare gli ebrei», in cui l'autore, lo storico delle religioni Jan Samuelson, spiega che l'odio islamico per lo stato ebraico è giustificato.
  Risposta. Sì questo sentimento nasce dalle élite, è un fenomeno che oggi trovi soprattutto dal mondo intellettuale, nei giornali, nelle università, nell'editoria, nelle ong, nei ministeri degli Esteri e soprattutto nel Nord Europa. È lì che emerge il partito preso anti-Isreale. Io noto che anche negli anni '30 del 900 era già successo qualcosa del genere.

- D. I prodromi del nazismo?
  R. Non solo. Mentre in Germania c'erano le vignette contro i giudei sui giornali nazionalsocialisti, nell'Urss, sempre nei circoli intellettuali, albergava l'odio «al cosmopolitismo degli Ebrei». Oggi ovviamente non ci sono i pogrom ma l'odio altoborghese e colto. Sono gli intellettuali i primi a tradire gli ebrei. Non solo oggi, basti ricorda che da Norberto Bobbio a Concetto Marchesi, tutti i padri nobili della sinistra italiana firmarono il questionario fascista sulla «razza ebraica».

- D. Più pericoloso, perché poi, inevitabilmente, scenderà dai piani alti già fin nella strada.
  R. Certo che è più pericoloso. Già ora, per effetto di questo sentimento, l'opinione pubblica anche italiana non capisce molto di questa terza Intifada, non ha chiaro chi accoltelli chi, chi sia vittima e aggressore. Si è creata una confusa equivalenza morale, Israele e i terroristi sono sullo steso piano. Israele diventa ingiusto, iniquo.

- D. Ricordiamo qualche caso?
  R. Beh, recentissimo quello della ministra degli Esteri svedese, Margot Wallstrom: in un'intervista, dopo Parigi, aveva detto che «per contrastare la radicalizzazione dobbiamo tornare alla situazione in Medio oriente, dove i palestinesi vedono che non c'è futuro per loro e devono accettare una situazione disperata o ricorrere alla violenza». Mentre il premier, Stefan Lofven, ha spiegato che gli accoltellamenti non sono terrorismo ma un'altra cosa: resistenza, risposta all'occupazione. Del resto anche Francois Hollande ...

- D. Anche Hollande?
  R. Nella commemorazione del 13 novembre, ha citato tutti gli attacchi, dalle Twin Towers, alle metro britannica e spagnole, a Bruxelles e a Parigi ma non ha menzionato Gerusalemme. Facendo una scelta morale: la Città Santa o Tel Aviv sono sacrificabili e pure Israele lo è. Si va facendo strada l'idea che, eliminando il problema Israele, si risolverà il problema del mondo islamico.

- D. Che non mi pare sia in cima ai problemi dell'Isis: anche la loro propaganda punta ai paesi islamici moderati o al cuore dell'Europa. O, ancora, a Roma.
  R. Certo. A loro interessa distruggere i nostri valori e le nostre democrazie. E noi, invece, a chi quei valori li pratica nel cuore del Medioriente, non guardiamo con un grande alleato ma come un problema, un fastidio.

- D. Facciamo altri esempi, Meotti.
  R. C'è l'appello, sul Guardian, dei 300 accademici che, in occasione della terza Intifada, hanno dichiarato di interrompere ogni rapporto con le università israeliane e l'hanno fatto. Poi c'è la grande organizzazione di femministe americane che boicotta Israele, quasi fosse il più grande violentatore di donne del mondo. E, ancora, ci sarebbe Amnesty International, che non ha mai preso una posizione chiara sul terrorismo in Israele. E insiste sull'equivoco di fondo della risposta spropositata da parte di Gerusalemme. Per non parlare del rapper ebreo americano Matisyahu, cacciato da un festival di musica in Spagna.

- D. Lei diceva che i più duri stanno nel Nord Europa.
  R. Nei Paesi scandinavi soprattutto, per una serie di motivi, ma soprattutto per la presenza di comunità islamiche molto forti, che fanno pressioni e ricattano, anche se loro, gli intellettuali, i giornali, gli universitari, non lo ammetteranno mai. Laddove l'integrazione è alla prova, si pensa di cavarsela scaricando Israele.

- D. Citava il Guardian. In Gran Bretagna come va? C'è un problema storico, perché i sionisti fecero terrorismo durante l'occupazione inglese in Palestina e ci fu la strage dell'Hotel King David di Gerusalemme, nel 1946.
  R. Sì, è vero ma le pare possibile che né la Regina Elisabetta né il Principe Carlo abbiano mai messo piede in Israele? In compenso vanno spesso in Paesi meravigliosi, dal punto di vista dei diritti umani, tipo l'Arabia Saudita. Però Oltremanica, pur col multiculturalismo spinto e problemi di estremismo islamista, gli ebrei non scappano come dalla Francia.

- D. In Francia, c'era un brutto clima molto prima degli attentati: cimiteri profanati e il rapimento e la barbara uccisione di un cittadino Ilan Halimi.
  R. È vero che sono la comunità più grande, 250mila persone ma da lì fuggono 6mila israeliti all'anno. L'alià, come si chiama l'emigrazione verso Israele, gli costa moltissimo, amano l'Europa, ci vivono da secoli. Ma la storia d'amore fra ebrei e la Francia è finita da quando c'è stata la strage alla scuola ebraica di Tolosa nel 2012.

- D. E da noi?
  R. No, in Italia, si ama e si odia meno intensamente e in modo meno ideologico che altrove. E forse conta che gli ebrei siano poco più di 30mila. Certo, abbiamo le folli esternazioni di Gianni Vattimo e Piergiorgio Odifreddi, sui giornali e nelle università, gli editoriali di Repubblica, ma la gente è lontana da questo sentimento. Se uno va in giro in kippah (il copricapo israelitico, ndr), nessuno ha da dire qualcosa. L'Italia non ha conosciuto il fenomeno di delazione e collaborazionismo di Vichy, per intendersi.

- D. E la politica? Una volta a sinistra, addirittura nel Pci, c'era un nucleo filoisraeliano molto forte.
  R. Sì fino al 1967. Un sentimento che veniva da lontano, una simpatia verso l'ideale del kibbutz, perché Israele è stato a lungo un esperimento collettivista di successo. E poi se, non fosse stato per l'Urss, nel 1948, non sarebbe neppure nato.

- D. E con la Guerra dei sei giorni cosa succede?
  R. Che l'intellinghentzia di sinistra la inquadra come una guerra di espansione, un peccato originale, un corpo estraneo. Si guarda agli Israeliani come occupanti, associati all'Occidente. Da allora si è andati peggiorando, fino a una passeggiata di Massimo D' Alema, ministro degli Esteri del Prodi II, che a Beirut, nel 2006, si fece fotografare a braccetto con un dirigente di Hezbollah, mentre era in corso la guerra del Libano. Ma non siamo arrivati agli eccessi di Jeremy Corbyn.

- D. Il leader laburista è un tantino filopalestinese ...
  R. Amico della peggiore canaglie di Hamas e di Hezbollah, senza vergognarsene affatto. E' la sinistra che si accompagna agli imam dell'odio.

- D. Matteo Renzi è stato accusato di essere filoisraeliano fin dalle primarie del 2012, in cui si ricordavano gli interessi del suo runico Marco Carrai in quel Paese.
  R. Quando è andato in Israele ha parlato alla Knesseth facendo un bel discorso, ma quella di parlare bene è un po' una sua inclinazione ...

- D. Beh, disse «Chi pensa di boicottare Israele non si rende conto di boicottare se stesso, di tradire il proprio futuro».
  R. Infatti. Un discorso alto, da amico.

- D. Ma veniamo al boicottaggio contro il quale, voi del Foglio, il direttore Claudio Cerasa in testa, avete lanciato una campagna a comprare israeliano.
  R. Una cosa assurda, paradossale... Nelle stesse settimane in cui veniva tolto l'embargo all'Iran, si è introdotto questa marchiature dei prodotti israeliani fabbricati nei Territori. Una cosa vigliacca.

- D. Perché?
  R. Ci sono 200 conflitti nel mondo e, per nessuno di questi, Bruxelles sente il bisogno di far scegliere il consumatore. Nessuno pretende che sulle merci cinesi prodotte nel Tibet occupato, ci sia scritto «made in Tibet, under Chinese occupation», ossia «fatto in Tibet sotto occupazione cinese», eppure quando viene il Dalai Lama, tutti si commuovono un sacco. La marchiatura europea di Israele è il primo passo verso un boicottaggio vero e proprio.
  Il più grande magazzino di Berlino, la KaDeWe, aveva già cominciato, poi, per le proteste, sono tornati indietro. Benjamin Netanyau ha telefonato personalmente ad Angela Merkel. Una città irlandese, Kinwara, come quella inglese di Leicester, sono Israel free», si vantano di aver eliminato prodotti israeliani. Del resto la marchiatura europea ha un precedente proprio in Germania, 70 anni prima, con la «Ju» di juden, ebreo.Anche allora si cominciò dai prodotti.

- D. Mi ricordavo i negozi.
  R. Prima Goebbels obbligò la marchiatura dei prodotti ebrei. Ma per tornare al boicottaggio, ci sono fondi pensione norvegesi the non investono in aziende israeliane, supermercati olandesi, ~vedesi, inglesi che non vendono prodotti «made in Israel». Da noi circola una petizione per chiedere ad Acea di non stringere accordi con la società idrica Mekorot.

- D. A cosa punta questa guerra dell'etichetta?
  R. L'interscambio più forte è con l'Europa: si vuole arrecare un danno economico, si vuol colpire la vitalità di quel paese, che è forte perché ha un'economia forte, un Pil alto, che attrae investimenti. Lo si vuole trasformare in un luogo chiuso, isolato, meno appetibile.

- D. L'Europa prima del boicottaggio ha una lunga storia di sostegno economico ai palestinesi.
  R. Un buco nero: rovesciamo fra la Cisgiordania e Gaza miliardi di euro ogni anno e nessuno sa dove vanno.

- D. Paradossale, perché se c'è un mantra europeo si chiama «rendicontazione».
  R. Vero. Volevano far fallire la Grecia per un punto percentuale e qui abbiamo un fiume carsico di euro.

- D. Per fare?
  R. Un tempo quei soldi finanziavano le ville dei gerarchi dell'Olp e le loro corruttele ideologiche, oggi vanno all'Autorità nazionale palestinese-Anp ma nessun controllo su come vengano spese. Per esempio su che cosa si scriva nei libri di testo, stampati grazie a quei finanziamenti, che invece contengono spesso incitamento all'odio anti-israeliano

- D. E i soldi vanno anche a Gaza
  R. Certo. E non si può escludere che il cemento per costruire i tunnel con cui Hamas entra in Israele per fare i suoi, attentati venga da lì.

- D. Non fa specie la natura islamista di Hamas.
  R. Hamas è stata tolta dalla lista delle organizzazioni terroriste, dove era entrata nel 2003, merito, va detto, di Silvio Berlusconi, durante il somestre a guida italiana. È stato detto che l'esclusione di Hamas dalla black list è avvenuta «per un errore tecnico».

- D. Una manina, qualcuno potrebbe pensare ...
  R. Ma non mi sorprende: dialoghiamo apertamente con Hamas ed HezboIlah. E si continua a parlare di occupazione israeliana, quando la Gaza non c'è più un soldato di Tsahal, l'esercito israeliano.

- D. Perché l'Europa ha assunto negli anni questa posizione? Un contraccolpo emotivo alla creazione dello stato di Israele?
  R. Una sorta di complesso di colpa. Di cui il finanziamento a fondo perduto di uno Stato palestinese che però non ha dato frutti se non la perpetuazione del conflitto. L'Europa ha messo sullo stesso piano la Shoah e la «Nakba», la catastrofe della nascita di Israele come la chiamano i palestinesi.

- D. E ora, nel pieno della minaccia terrorista Isis, paradossalmente si arriva anche al boicottagio.
  R. Israele è diventato una foglia di fìco per le classi dirigenti europee per parlare d'altro. E i terroristi di Hamas diventano, con tutte le sfumature semantiche, combattenti, partigiani, resistenti. Eppure i kamikaze, le bombe, umane, li hanno inventati loro. Già ai tempi dei dirottamenti aerei e delle stragi degli anni '70: quelli dell'Olp si facevano ammazzare col kalashnikov in mano ma erano votati alla morte.

- D. Ma cosa pensa Giulio Meotti di questo problema? Come si risolve? Non si può negare che anche certi israeliani, con la loro radicalità, abbiano le loro colpe. Lei non ha fiducia nella formula «due popoli, due Stati»?
  R. È difficile applicare un'utopia, bella e sfuggente, alla realtà. Secondo mc imporre dall'alto una soluzione a Israele è un rischio. Sarebbe chiedergli di suicidarsi. Chiedere di riconsegnare i territori del '67 non avrebbe precedenti.

- D. Sì perché poi ci furono anche quelli annessi con la guerra del Kippur del 1973, poi riconsegnati.
  R. Oltre a Gaza e la Cisgiordania, Israele si è ritirato dal Golan, dal Sinai, dal Sud Libano. Ma «terra in cambio di pace» non ha funzionato: spesso, proprio da quelle terre, sono partiti e partono gli attacchi.

- D. Insomma come ne usciamo?
  R. I miei amici israeliani, quando glielo chiedo, mi dicono che è importante gestire il conflitto, minimizzare i danni e aumentare il benessere dei palestinesi.

- D. Il benessere contro le sirene del terrorismo…
  R. Oggi a Ramallah, a Nablus, a Jenin si vive meglio che al Cairo, a Riad e a Tunisi. Soluzioni politiche non ne vedo, anche perché non vedo palestinesi disposti a fare scelte impopolari come fece Anwar el Sadat, che pagò con la vita l'aver messo piede in Israele.

- D. Anche Yitzhak Rabin pagò con la morte, per mezzo di un terrorista ebreo, l'aver firmato la pace.
  R. E vero. Ma Abu Mazen, che pure non è una figura negativa, non pare disposto a firmare accordi. Il punto è che il massimo che Israele può offrire è meno del minimo di quanto cchiedonoi Palestinesi. Il conflitto è sul 1948 e non sul 1967, è sull'esistenza stessa di Israele.

- D. La sua citazione di Sadat mi fa venire in mente che i principali nemici della causa palestinese sono stati spesso i Paesi arabi: il re di Giordania li cacciò con le baionette nel famoso Settembre nero.
  R. I paesi arabi hanno sempre strumentalizzato la Palestina. Saddam, per esempio, finanziava i kamikaze e usava la questione palestinese. Ma le pare che potrebbero tenerli come li tengono da decenni nei campi profughi? Dal 1948 agli anni Sessanta, 800mila ebrei scapparono dal Medio Oriente e dall'Africa del Nord.

- D. Dallo stesso Iraq, con l'operazione Tappeto volante…
  R. Esatto. Ma nessuno in Europa è finito in un campo profughi. La comunità internazionale ha le sue colpe, a cominciare dall'Onu, che ha dedicato ai palestinesi una specifica agenzia, unico popolo al mondo, la Unrwa che sta per «United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees», Durante l'ultima guerra a Gaza si è scoperto che nelle scuole e negli ospedali gestiti dall'agenzia, Hamas aveva ammassato missili. Pensi l'ironia: proprio contro Israele, nato sul voto dell'Onu...

- D. Che fare allora?
  R. Solidarietà. È l'unica arma che abbiamo noi occidentali a favore di Israele, la frontiera che tutti gli uomini civili dovrebbero difendere.

(ItaliaOggi, 12 dicembre 2015)


Fatah e Isis: il sacrificio dei bambini palestinesi

di Bassam Tawil (*)

 
Di recente, sempre più ragazzi, ragazze e bambini palestinesi hanno lasciato le loro case per andare ad accoltellare gli israeliani. I funzionari dell'Autorità palestinese (Ap) sostengono che i loro figli hanno preso questa decisione spontaneamente e che nessuno li invia a compiere attacchi terroristici. In realtà, però, ogni palestinese sa che dietro questi attentati "indipendenti" e "spontanei" c'è una istigazione deliberata e organizzata, in parte dai politici e in parte dalle fatwa (opinioni religiose) emesse dalle autorità religiose. Uno di questi religiosi, Sheikh Yusuf al-Qaradawi, se ne sta lontano e al sicuro, in Qatar, e manda a morire i bambini palestinesi. Le moschee e le scuole dell'Ap e della Striscia di Gaza, così come i social media, spesso sfruttano spudoratamente i minori palestinesi - che magari sono un po' smarriti e che anelano a compiere un grande "atto eroico" per una grande "causa" romantica.
  Ma poiché i soldati israeliani catturano spesso questi assalitori, molti omicidi commessi da questi bambini finiscono tragicamente anche in inutili suicidi "passivi". I nostri leader perversi non solo incoraggiano i giovani palestinesi a commettere omicidi, ma quando essi sono uccisi mentre li perpetrano, sia l'Autorità palestinese sia Hamas affermano che sono stati "giustiziati" dagli israeliani. Poi, chiamano i nostri figli morti "martiri" (shuhadaa), li glorificano e li trasformano in figure di riferimento per altri ragazzi perdenti. E infine pagano alle loro famiglie ingenti somme di denaro. Essi mandano i minori a fare il lavoro sporco, ben sapendo che rischiano di essere uccisi dalle forze di sicurezza israeliane. Ma come possiamo giustificare noi stessi? Che cosa abbiamo permesso che accadesse alle belle menti che Allah ci ha dato? Che fine ha fatto il nostro senso della morale? È penoso vedere come questi ragazzi siano trasformati in cose di nessun valore. Sono bambini sacrificati da una cinica leadership palestinese che promuove una cupa cultura di sangue e morte.
  Se i palestinesi preferiscono davvero combattere Israele, allora perché mandano i loro figli a combattere una "guerra santa", invece di farlo loro in prima persona, da uomini? Da queste morti da entrambi i lati non ne viene nulla di buono - e nemmeno verrà. E la situazione della Moschea di al-Aqsa è migliorata? Non è più "in pericolo"? Il problema è che la Moschea di al-Aqsa non è mai stata in pericolo. Secondo l'agenzia di stampa ufficiale palestinese, Wafa. non ci sono mai stati topi resistenti al veleno, liberati dagli israeliani con lo scopo di far scappare dalle loro case i residenti arabi di Gerusalemme. Come ha scritto sardonicamente un giornalista arabo: "Non è chiaro come a questi ratti sia stato insegnato a stare lontani dagli ebrei, che guarda caso vivono anch'essi nella Città Vecchia". Non c'è mai stata alcuna gomma da masticare impregnata di afrodisiaco dagli israeliani per corrompere i nostri uomini e donne. E questo ha liberato un metro di terra palestinese? Gli ebrei sono davvero fuggiti "in preda al terrore" da Israele? Al contrario, gli ebrei europei fuggono in Israele. Paradossalmente, mentre gli ebrei sembrano divisi e scannarsi tra di loro, noi continuiamo a farli riavvicinare.
  In qualche modo, gli israeliani sembrano superare i rapimenti, gli attentati suicidi, gli omicidi e gli atti di terrorismo in generale che noi palestinesi perpetriamo contro di loro. Non indietreggiano mai, anzi avanzano. Ci sono due problemi che sembrano essere urgenti. Innanzitutto, dobbiamo decidere, e in fretta, se vogliamo davvero un altro conflitto armato con gli israeliani. In secondo luogo, dobbiamo veramente fare in modo che i nostri figli stiano lontani dai nostri campi di battaglia. Chiunque mandi giovani - molti di loro probabilmente con problemi emotivi - a uccidere e ad essere uccisi, è un assassino egli stesso e alla fine sarà distrutto. La società palestinese sembra regredire verso l'epoca oscura della jahiliyya, ossia verso l'era dell'ignoranza prima che l'Islam ci portasse nella luce. Anziché educare i nostri figli, come si fa in Occidente, a far parte della Generazione Start up, seguiamo l'esempio dell'Africa nera, dove i bambini sono armati con Kalashnikov e mandati a uccidere altri bambini. Siamo diventati niente di meglio degli iraniani, che inviavano i bambini, armati di "Chiavi del Paradiso" di plastica, a bonificare i campi minati, durante la guerra Iran-Iraq. Questi non sono "crimini di guerra"?
  Ogni giorno i nostri figli bevono al pozzo avvelenato di Internet e imparano come decapitare, crocifiggere e tagliare gole. Torniamo alla jahiliyyah e sacrifichiamo i nostri figli e le nostre figlie, in nome di Allah, come se Allah fosse una statua pagana con tanto di altare che deve essere placata con il sangue dei bambini. Questa è più o meno la situazione del terrorismo palestinese oggi. Quelli che trascurano l'educazione dei loro figli devono ricordare che le ragazze indifese che oggi escono di casa all'insaputa dei genitori per andare ad accoltellare un israeliano potrebbero un domani arrecare disonore alla loro casa. Una tale società non spaventa gli ebrei né chiunque altro. Alla fine, probabilmente riusciremo solo a favorire la comparsa di fondamentalisti tagliatori di gole e a distruggere noi stessi. Viviamo in una società malata, nella quale la legge di autoconservazione esige omicidi e vendetta. Nei giorni di festa, i nostri figli guardano come noi uccidiamo le pecore, così si abituano all'uso dei coltelli, a tagliare le gole e al sangue che scorre. Vedono video di persone bruciate vive e affogate in Iraq e Siria. Vedono l'Isis. Niente li sconvolge. In Occidente, la morte di un animale domestico, anche di un pesce rosso, fa quasi svenire un bambino. I nostri figli guardano le pecore che lanciano gridi nell'agonia, e non battono ciglio.
  L'Islam proibisce l'uccisione di donne, bambini e anziani, ma i palestinesi ascoltano le fatwa degli islamisti radicali che dicono loro di uccidere sempre e comunque - purché siano ebrei, anche fossero neonati. "Domani saranno soldati", asseriscono i palestinesi. Le fatwa come questa distorcono e falsano il fondamento stesso del nostro Islam mandando i bambini incontro alla morte. Hamas, la Jihad islamica palestinese e l'Isis - tutte organizzazioni terroristiche - si sono estremizzate e nutrite nello stesso piatto dei Fratelli Musulmani. I coltelli dei palestinesi non sono poi così diversi dai coltelli dell'Isis. Essi decapitano i bambini, i giornalisti, i lavoratori impoveriti e altre vittime innocenti - tutto nel nome di Allah, e poi vanno a compiere attacchi terroristici nel resto del mondo. L'unica differenza è che i membri dell'Isis combattono in prima persona, mentre i palestinesi mandano a combattere i loro ragazzi.
  Chi pensa di costruire il futuro della Palestina sulle spalle dei bambini assassini non solo sta distruggendo la società palestinese, ma ha imboccato la via delle fiamme dell'inferno. Anche il profeta Maometto (che la pace sia su di lui) e i suoi compagni decapitarono gli infedeli - ma questo nel VII secolo. Sempre più numerose sono le voci dei pii musulmani che invocano la riforma. Proprio la settimana scorsa, l'illustre accademica e giornalista Ibtihal Al-Khatib, dell'Università del Kuwait, ha detto in televisione: "Se non riformeremo noi stessi, ci estingueremo. Le nazioni che si attengono ai principi che sono contrati al progresso della civiltà scompariranno. Tali paesi non sopravvivranno. Qualsiasi tentativo di giustificare o legittimare il terrorismo è un'idea terroristica: l'idea e l'atto sono altrettanto pericolosi".
  Quanto asserito dalla Al-Khatib ha dimostrato come la studiosa sia anni luce più avanti rispetto al segretario di Stato americano John Kerry, che stupidamente si è lasciato sfuggire di bocca che certi attacchi terroristici avevano "una legittimità... una logica". Per questa dichiarazione egli è stato apertamente ridicolizzato. Le scuse che i terroristi trovano per giustificare l'uccisione di persone innocenti sono infinite, illimitate nella depravazione e inquinano le nostre società. Queste voci che invocano la riforma sono spesso frenate dalla paura che il loro potere, l'influenza e gli ottimi posti di lavoro - che mantengono solo grazie alla zakat [la decima] - potrebbero essere in pericolo. Alla maggior parte di noi non piace perdere benessere materiale e comodità. Molti musulmani non vogliono rinunciare ad avere schiavi, e questo non solo in Mauritania, ma ai vertici della comunità musulmana.
  Ma non vi è alcuna giustificazione per il terrorismo. I francesi, che facilmente giustificano il terrorismo contro gli ebrei in Medio Oriente, ora si trovano a dover affrontare la stessa situazione in casa. L'unica cosa sorprendente è che sono stati sorpresi. L'immagine del terrorismo islamico globale diventa sempre più chiara. Qui, gli islamisti vogliono "liberare" Gerusalemme dall'occupazione da parte degli infedeli sionisti e crociati. In seguito, vorranno "liberare" la Spagna occupata, che una volta era l'Andalusia musulmana, e restituirla all'Islam. Dopodiché, vorranno occupare il Vaticano e stabilire l'Emirato islamico sulle rovine del Cristianesimo, come fecero "nell'epoca d'oro", quando conquistarono Costantinopoli, la capitale dell'Impero bizantino.
  Mentre gli ebrei sono bravissimi a migliorare l'agricoltura, vincere i premi Nobel, inventare farmaci salvavita, creare startup e in genere a fare passi da gigante nelle scienze e nelle tecnologie di punta, noi palestinesi, indietreggiando verso la jahiliyya, non abbiamo dato nulla al mondo, se non terrorismo e morte. Anche prima che il palestinese Abdullah Azzam diventasse mentore di Osama bin Laden, i palestinesi avevano avviato una campagna terroristica globale. Il terrorismo palestinese ha preso il via negli anni Settanta. Nel maggio 1972, i passeggeri presenti nell'area ritiro bagagli dell'aeroporto israeliano di Lod (oggi chiamato Ben Gurion) furono massacrati. Nel settembre 1972, vennero trucidati 11 atleti della squadra olimpica israeliana, a Monaco. Nel maggio 1974, i terroristi palestinesi fecero strage di bambini israeliani nella cittadina di Ma'alot. Nel 1976, i terroristi dirottarono un aereo dell'Air France in volo da Tel Aviv a Parigi e individuarono i passeggeri ebrei a bordo. Nel 1978, sulla Strada costiera israeliana venne dirottato un autobus e furono uccisi i civili israeliani presenti sul mezzo di trasporto. Nel 1985, i palestinesi dirottarono la nave crociera "Achille Lauro", al largo dell'Egitto, e poi uccisero a sangue freddo e gettarono in mare un invalido sulla sedia a rotelle di 69 anni.
  E la lista potrebbe continuare all'infinito - dagli attacchi suicidi su autobus, nei caffè, negli alberghi, negli asili, nei centri commerciali e nelle discoteche, il più delle volte diretti contro la popolazione civile, all'attuale ondata di attentati contro gli israeliani accoltellati in strada, nelle loro auto e nei luoghi di culto. E adesso? I nostri leader palestinesi difendono questi minorenni accoltellatori spiegando che cercano di uccidere i civili ebrei a causa della "occupazione" o perché "al-Aqsa è in pericolo" - false dichiarazioni alla fine messe a tacere da un sondaggio palestinese della settimana scorsa. Nonostante i nostri figli siano manipolati a uccidere se stessi, ci sono ancora i leader di Fatah, come Abbas Zaki, un attivista anziano dell'organizzazione Fatah, che fa loro credere che ci sia qualche vantaggio da un'altra Intifada inutile o dal porre fine al coordinamento per la sicurezza con Israele. Lui e quelli come lui farebbero bene a ricordare che, come la maggior parte dei palestinesi sa benissimo, il coordinamento per la sicurezza con Israele è prima di tutto nel loro interesse. Impedisce all'Autorità palestinese di crollare; protegge i nostri leader dalla possibilità di essere assassinati per mano di Hamas, com'è stato il destino dei leader di Fatah nella Striscia di Gaza. È l'unica garanzia che abbiamo per una eventuale creazione di uno Stato palestinese.
  Potremmo fare anche bene a ricordare gli effetti delle prime due Intifade. Centinaia, forse migliaia, di palestinesi sono morti, ma gli israeliani non si sono mossi di un metro. Portiamo avanti una campagna terroristica dopo l'altra. E la violenza non ci conduce da nessuna parte e non ci porta nulla - né da Israele né dalla comunità internazionale. Se davvero vogliamo avere il nostro Stato palestinese, possiamo averlo domani. Tutto ciò che dobbiamo fare è cambiare la nostra immagine di terroristi.

(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 12 dicembre 2015 - trad- Angelita La Spada)


Il maratoneta

Yossi Cohen, la prima kippah alla guida del Mossad. La super spia "arrivata da un altro pianeta" ha gli occhi puntati su Teheran.

di Giulio Meotti
Camicia bianca, curato alla perfezione, è il contrario di Tamir Pardo, l'uomo che l'ha preceduto: schivo, introverso, pallido. Dovrà gestire una sorta di diplomazia non ufficiale con gli stati arabi sunniti che hanno in odio l'Iran. La Turchia è contenta. A ventidue anni fu l'unico cadetto del Mossad a indossare il copricapo degli ebrei religiosi. Ha studiato col rabbino Druckman. Netanyahu vorrà rafforzare l'opzione militare contro il nucleare dell'Iran, cui erano contrari i predecessori di Cohen.
La prima cosa che ha fatto Yossi Cohen non appena è stato nominato dodicesimo capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, è stato ringraziare uno dei quattro figli: "Yonatan è, ai miei occhi, il vero guerriero". Una storia familiare drammatica. Yonatan ha sofferto per una paralisi cerebrale durante il parto prematuro ed è oggi costretto su una sedia a rotelle. Eppure, questo non gli ha impedito di servire in una unità di intelligence informatica dell'esercito israeliano.
  Il padre di Yossi Cohen era un combattente dell'Irgun, la milizia di destra attiva prima delle nascita di Israele nel 1948, foriera di un nazionalismo che nulla aveva a che fare con l'umanismo tolstoiano, nell'accezione rural-populista del pioniere ebraico Gordon, né dal marxismo teorizzato da Borochov, cui si ispireranno i kibbutz. La madre di Cohen, Mina, è una insegnante la cui famiglia affonda le proprie radici a Hebron, la città dove sono sepolti Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe e le loro mogli Rebecca e Lea. La famiglia di Cohen è fra i fondatori anche del quartiere di Mea Shearim, l'enclave ulrtaortodossa di Gerusalemme.
  Scelto questa settimana dal premier Benjamin Netanyahu, Cohen prende il posto di Tamir Pardo alla guida delle spie israeliane e non potrebbero essere più diversi i due. Schivo, paziente, fumatore incallito, appassionato di cyberintelligence, ebreo laico figlio di una famiglia originaria della Turchia e dei Balcani, Tamir Pardo: quando è stato nominato da Netanyahu capo del Mossad nel 2012, i suoi vicini di casa nel moshav Nir ne ignoravano perfino l'esistenza. "Nessuno sapeva quello che stava facendo", diranno. Di Cohen, oltre alla kippah, non passa inosservata neppure la cravatta, in un ambiente da sempre informale come Israele, anche al vertice della sua sicurezza, e il fisico prestante, tanto da essersi guadagnato il soprannome di "maratoneta". Uno spymaster con una reputazione per l'attivazione e la gestione di agenti segreti in tutto il mondo, compresi i lunghi sforzi tesi a sabotare il programma nucleare iraniano tramite operazioni clandestine.
 
Yossi Cohen
  "Un funzionario che si presenta in giacca e cravatta, la camicia bianca stirata, curato alla perfezione, come un visitatore da un altro pianeta", lo ha definito Haaretz. Soprannominato "il modello" per l'aspetto e l'acconciatura, Cohen parla un arabo perfetto. E, forse ancora più importante, è riuscito a forgiare un linguaggio comune con il primo ministro israeliano, una caratteristica mancata spesso al suo predecessore, per non parlare dell'altro capo del Mossad prima di lui, Meir Dagan, che contro Netanyahu aveva avviato una battaglia pubblica e politica. I critici, che abbondano sempre sulla stampa israeliano, accusano Cohen di essere troppo legato a Netanyahu e perfino alla moglie, Sara: "Cohen è intelligente, affascinante ed è un reclutatore leggendario di agenti, ma i suoi orizzonti sono limitati", ha scritto Ben Caspit, un commentatore per il quotidiano Maariv. "Questo è esattamente ciò che Netanyahu ha voluto come capo del Mossad: qualcuno che sa come identificare la volontà del suo padrone". Esagerato, visto che anche Pardo era stato nominato da Netanyahu e gli ha dato non pochi mal di testa.
  Come consigliere per la sicurezza nazionale, Cohen ha avuto il grande merito di tenere aperta una linea di comunicazione costante con l'Amministrazione Obama proprio mentre le relazioni fra Washington e Gerusalemme erano ai minimi storici. Annunciando la nomina di Cohen, Netanyahu ha detto che si aspetta che il Mossad continui ad assisterlo "nello sforzo di sviluppare rapporti diplomatici in tutto il mondo, anche con gli stati arabi e islamici". Un riferimento importante, visto che Cohen dovrà curare in particolar modo i legami con gli stati arabi islamici avversi all'egemonia iraniana e alla sua fame di energia nucleare. Non a caso nei giorni scorsi anche i media turchi hanno salutato con favore la nomina di Cohen, perché in passato aveva cercato di riportare alla normalità i rapporti fra i due paesi dopo l'incidente sulla Mavi Marmara del 2010.
  "Questo tipo di diplomazia segreta è tradizionalmente il dominio del Mossad", ha dichiarato Yossi Alpher, ex direttore del Centro per gli studi strategici Jaffee e lui stesso un ex agente del Mossad. "Ogni paese arabo sunnita che come Israele percepisce il doppio pericolo di militanti sunniti e militanti sciiti è un candidato per questo tipo di rapporti". Cohen ha contestato il discorso controverso di Netanyahu al Congresso degli Stati Uniti, alla vigilia delle elezioni in Israele, e ha fatto del suo meglio per evitare un'escalation nel confronto con l'Amministrazione Obama. Il successo e l'influenza sono stati parziali, ma non insignificanti. Mentre l'ambasciatore a Washington, Ron Dermer, è stato considerato spesso non gradito alla Casa Bianca come "agente repubblicano", Cohen ha sempre tenuto un canale aperto con il sottosegretario di stato Wendy Sherman, che ha condotto i negoziati degli Stati Uniti con l'Iran, e con Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale. L'agenzia del Mossad ha avuto in precedenza soltanto undici capi nei settant'anni di storia israeliana: sei agenti del Mossad che hanno fatto carriera attraverso i ranghi e cinque generali dell'esercito. Yossi Cohen ha vinto la corsa alla guida del Mossad sugli altri due candidati di maggior peso: l'ex vice capo del Mossad, Ram Ben-Barak, che oggi è il direttore generale del ministero dell'Intelligence di Israele, e l'attuale vice capo del Mossad, di cui si conosce soltanto l'iniziale del nome "N", perché la sua identità è secretata. Cohen aveva l'esperienza necessaria in tutte le tre aree che Netanyahu ha discusso: in campo diplomatico, per via del suo lavoro come vice capo del Mossad sotto Tamir Pardo, e anche dal suo incarico come capo del Consiglio di sicurezza nazionale; nel campo dell'intelligence, in quanto ha diretto il ramo più importante del Mossad, "pane e burro" dell'organizzazione, ovvero la "Tzomet" (intersezione), la divisione responsabile nella individuazione, arruolamento e attivazione degli agenti; e in terzo luogo, l'aspetto operativo, in cui Cohen ha un'abbondante esperienza di trent'anni. Nel presentarlo al pubblico, Netanyahu ha ricordato che "i suoi agenti hanno lavorato ventiquattro ore su ventiquattro temerariamente e talvolta con grande rischio personale, al fine di garantire la sicurezza di Israele".
  Yossi Cohen ha due record alle spalle. Il primo quando a ventidue anni, nel 1984, venne ammesso al corso di ufficiali del servizio segreto israeliano. Era la prima kippah a entrare nei suoi quadri. Cohen era appena uscito da una yeshiva, una accademia religiosa, quella del rabbino Haim Druckman, oggi popolarissimo fra il pubblico nazionalreligioso in Israele. Il secondo record Cohen lo ha stabilito questa settimana, diventando la prima kippah a guidare il Mossad. Cohen non la indossa tutti i giorni, ma durante le feste e ogni Shabbath. Fa parte, infatti, della corrente ebraica Masorti, i tradizionalisti religiosi, e ha legami importanti con il mondo ultraortodosso. Il giorno prima della nomina, Cohen era con il leader del partito sefardita Shas, Aryeh Deri, e insieme sono andati a incontrare Menahem Gescheid, uno dei capi della politica ultraortodossa in Israele.
  La nomina di Cohen è il compimento di una rivoluzione culturale in Israele: i tre funzionari più alti in grado nella sicurezza dello stato ebraico sono oggi tutti religiosi. Non era mai successo prima. Oltre a Yossi Cohen, si tratta di Yoram Cohen e Roni Alsheich, rispettivamente capi del servizio segreto interno (Shin Bet) e della polizia israeliana. Il primo indossa ogni giorno il copricapo religioso e viene da una famiglia poverissima dell'Afghanistan. Il secondo è stato appena nominato capo della polizia, sfoggia anche lui la kippah, è figlio di ebrei yemeniti e ha vissuto per molti anni in un insediamento in Cisgiordania. Nell'ambiente della sicurezza era noto come "the fox", la volpe.
  Secondo Ronen Bergman, esperto di Mossad e giornalista di intelligence militare, corrispondente per il più grande giornale israeliano, Yediot Ahronot, "Cohen ha bisogno di essere in grado di aprire la strada non solo per la guerra, ma anche per la pace. I nemici sono sempre più sofisticati". Secondo Bergman, la priorità per il Mossad di Cohen sarà il progetto nucleare iraniano, seguito da "obiettivi classici" come la "rete estera di Hamas" negli stati del Golfo e e in Iran, così come Hezbollah in Libano e Siria. Uri Dromi, portavoce per i governi Rabin e Peres, ha detto che per essere un capo del Mossad, si deve avere la capacità di prendere decisioni che mettono a rischio delle vite umane per raggiungere gli interessi dello stato, il coraggio di alzarsi in piedi di fronte a un primo ministro e una prospettiva geostrategica. "Il fatto che sia riuscito a ottenere la fiducia di Netanyahu ha dato a Cohen un vantaggio importante sugli altri due candidati, soprattutto se Netanyahu prevede il rilancio dell'opzione militare contro l'Iran nucleare, cui gli ex capi del Mossad si erano opposti", ha detto Dromi. Oltre alle sigarette, resta da vedere se Cohen sarà diverso da Pardo. "E' più appassionato di operazioni aggressive di Pardo", dice Dromi. "Ma solo il tempo lo dirà". Intanto. Teheran è avvertita.

(Il Foglio, 12 dicembre 2015)


«Roma diventerà la capitale dell'lsis»

Nuovo video del Califfato con i carri armati dal Colosseo a San Pietro La strategia mediatica dello Stato Islamico: bandiere su Algeria e Libia.

di Francesca Musacchio

«L'Italia sarà nostra. Abbiamo stabilito la nostra capitale a Raqqa. Ora la prossima tappa sarà quella di trasferirla a Roma». L'Isis non molla e continua a minacciare il nostroPaese. Mentre l'allarme per il rischio attentati cresce in Europa e non solo, in un video pubblicato ieri in Rete gli jihadisti mostrano le immagini di San Pietro, piazza Navona, l'Altare della Patria e il Colosseo. Su quest'ultimo puntano i carri armati del
Califfato, con la bandiera nera che sventola minacciosa. Sullo sfondo una sinistra promessa: «Grazie all'aiuto di Allah, clemente e misericordioso, le nostre conquiste andranno da Costantinopoli a Roma. Le capitali cadranno con i loro difensori, così come gli ebrei». Nel filmato, girato come sempre in alta definizione, le immagini di alcuni dei luoghi simbolo di Roma sono riprese dall'alto e montate su scene di addestramento e combattimento dei mujaheddin nel deserto. Il messaggio, oltre alle parole, è chiaro: siamo alle porte di Roma. Nella produzione che dura 14 minuti, inoltre, viene anche mostrata una cartina in cui le bandiere dell'Isis sono puntate su Algeria, Libia e Sinai. Ad indicare che la tattica di accerchiamento, annunciata in numerosi manuali del terrore, è in corso. E nel video, i combattenti dello Stato islamico che lascerebbero intendere di essere molto vicini, forse in Libia o nel Sinai, si rivolgono «al popolo dell'Islam» spiegando che «contro gli infedeli i mujaheddin combattono nel deserto. E nel deserto, trovano rifugio in attesa dei prossimi attacchi e si addestrano per questo. Combattono e si sono privati di tutto' ma lo fanno pensando alla vittoria dell'Islam. Lavorano per l'unità mondiale dell'Islam. Combattono da soli contro tutti gli Stati della Coalizione, degli infedeli e dei miscredenti», E ancora: «Cosa pensano di fare l'America e l'Occidente che non hanno la nostra stessa convinzione nella fede? Sfonderemo tutte le porte che ci si opporranno».
   Ancora propaganda, dunque, e ancora minacce rivolte al nostro Paese che dall'inizio del Giubileo ha innalzato al massimo i livelli di allerta, come altri Stati europei che in questi giorni stanno facendo i conti con il rischio attentati. A Ginevra, secondo quanto riferito dal presidente della Confederazione svizzera Simonetta Sommaruga, potrebbe annidarsi una cellula jihadista legata allo Stato islamico. Ed è per questo che da giorni il livello di allerta è stato aumentato. La polizia svizzera sarebbe alla ricerca di quattro persone sospettate di essere legate al terrorismo. In serata i media locali hanno dato notizia dell'arresto di due siriani: nella loro auto sarebbero state trovate tracce di esplosivo.
   Non va meglio in Germania, dove l'intelligence ha individuato 1.100 islamisti presenti sul territorio nazionale. Di questi 430 sono ritenuti particolarmente pericolosi, in grado di commettere un attacco in qualsiasi momento. Il responsabile dei servizi segreti interni, Hans-Georg Maassen, ha denunciato la presenza di «oltre 8.350 persone appartenenti a gruppi salafiti. Questa cifra è aumentata in modo considerevole negli ultimi mesi, solo a fine settembre erano 7.900». La preoccupazione dilaga anche negli Stati Uniti, dove in un rapporto gli 007 ritengono che lo Stato Islamico sarebbe in grado di stampare passaporti siriani, che
sembrano autentici per aiutare i suoi seguaci ad infiltrarsi in territorio americano. E la Turchia, per fronteggiare l'Isis, ha stabilito una zona di sicurezza al fine con la Siria.

(Il Tempo, 12 dicembre 2015)


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