L'Eterno degli eserciti ha un giorno
contro tutto ciò che è orgoglioso ed altero,
e contro chiunque s'innalza, per abbassarlo.
Isaia 2:12  

Attualità



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Il 24 maggio 2018, duemila giovani ebrei provenienti da tutto il mondo sono arrivati all'aeroporto internazionale Ben Gurion, come parte del diciottesimo anno di Birthright Israel. Ricorrendo 85 anni di attività, l'Accademia di musica e danza di Gerusalemme ha deciso di celebrare il settantesimo anniversario di Israele e di sorprenderli con un caloroso benvenuto ...

























Omofobia

"Omofobia" è un neologismo introdotto in modo puramente strumentale per ingiuriare e intimorire chi non manifesta consenso all'ideologia omofiliaca nelle sue varie forme: omosessualità, bisessualità, transgender e altro. La paura qui non c'entra niente. Il rifiuto di questo modo di pensare, vivere e fare pressioni sulla società ha diversi motivi che possono non essere condivisi, ma sono comunque tutti validi. Il motivi possono essere:
  • Emotivi - Senso di disgusto e repulsione davanti a sfacciate e "fiere" esposizioni in pubblico di effusioni omosessuali.
  • Politici - Convinzione che l'accettazione legalmente riconosciuta dell'omosessualità sia un elemento di grave disgregazione della società, il che implica che tutti devono avere il diritto di esprimere la propria netta opposizione senza ricevere epiteti ingiuriosi e intimidatori.
  • Religiosi - Fede in un Dio che ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza ("li creò maschio e femmina", Genesi 1:27), e conseguente convinzione che rapporti come quelli propugnati dal movimento omofilo sono in aperta ribellione a Dio, e che ad essi dunque è doveroso opporre decisa resistenza, non con la lapidazione o il pugnale come fanno gli islamici, ma con una parola ferma e chiara, oltre che con l'esempio.
Purtroppo lo Stato ebraico si è spinto così avanti nell'approvazione e nella pratica di depravati costumi sessuali occidentali da arrivare al punto di vantarsi del primato raggiunto nella loro omologazione giuridica. E' un fatto grave, un'emblematica scelta di indipendenza da quel Dio da cui in ultima analisi proviene il suo fondamentale diritto a vivere e governare su quella terra. Questo diritto non gli sarà tolto, ma è certo che di questo e di altro ancora dovrà un giorno rendere conto al Signore.
E dovranno renderne conto anche tutti coloro che proprio su questo punto lodano e appoggiano Israele. M.C.

(Notizie su Israele, 11 giugno 2019)


La strana povertà di Abu Mazen e dei palestinesi

di Ugo Volli

Strane cose accadono nell'Autorità Palestinese. Il presidente (o meglio il dittatore, eletto quattordici anni fa per un mandato di 5 anni e mai più sottopostosi al vaglio degli elettori) Mahamoud Abbas non perde occasione per dire che l'AP è in una situazione di bancarotta. La ragione è che rifiuta di prendere i soldi delle dogane che Israele gli versa regolarmente, perché da esse sono detratti i salari che l'AP versa ai terroristi. Abbas ha detto che il pagamento dei terroristi è la sua priorità assoluta, tantè vero che ha bloccato per questo anche i trattamenti sanitari di emergenza come quelli di un bimbo con la leucemia e ha anche proibito ai suoi funzionari di negoziare con Israele e con la Giordania per risolvere la situazione. Gli stipendi pubblici sono stati tagliati del 40%, ma quelli dei ministri aumentati del 67%, suscitando l'indignazione generale e ha accumulato un'enorme ricchezza. Che cosa vuole Abbas? Continuare a fare soldi, naturalmente, lui e i suoi figli. Pagare i terroristi, perché i loro amici sono ancora armati e pericolosi. E probabilmente suscitare una rivolta popolare per uscire dall'irrilevanza, riportare il problema palestinese al centro della scena politica mediorientale e magari costringere tutti a finanziarlo di nuovo, senza badare se i soldi finiscono ai terroristi o ai suoi conti privati e solo in minima parte ai suoi sudditi. Ma non è detto che questo gioco riesca, almeno fino a che in Israele governa Netanyahu e a Washington Trump.

(Shalom, 11 giugno 2019)


I palestinesi stanno pianificando una "spontanea rivolta popolare"

Intanto i giordani sono furibondi con Abu Mazen che blocca tutti i tentativi di alleviare la crisi economica nell'Autorità Palestinese

I palestinesi stanno pianificando una "rivolta popolare" a fine mese per protestare contro il preannunciato piano per la pace in Medio Oriente del presidente americano Donald Trump. Le proteste "spontanee", in programma per il 25 e il 26 giugno, coincideranno con il lancio del workshop economico indetto dagli Stati Uniti in Bahrain, dove l'amministrazione Usa intende svelare la parte economica del suo atteso piano. Sin dall'annuncio della conferenza in Bahrain, la dirigenza dell'Autorità Palestinese fa pressione su palestinesi e arabi perché la boicottino.
Rappresentanti delle varie fazioni dell'Olp, delle organizzazioni della società civile palestinese e diverse personalità palestinesi indipendenti esortano tutti i palestinesi a partecipare alle proteste contro il piano di pace di Trump e la conferenza del Bahrain. L'appello è stato lanciato dopo un incontro domenica scorsa a el-Bireh, la città adiacente a Ramallah.
Wasel Abu Yusef, membro del Comitato esecutivo dell'Olp, ha detto che l'incontro di domenica è stato il primo di una serie di riunioni tese a organizzare "azioni popolari per fronteggiare le macchinazioni israelo-americane volte a liquidare i diritti del popolo palestinese". I palestinesi, ha detto Abu Yusef, devono impegnarsi in "azioni di lotta per sventare l'accordo del secolo, a cominciare dal suo aspetto economico, e dar voce al loro rifiuto di tutte le politiche americane"....

(israele.net, 11 giugno 2019)


Iran, Aiea: Preoccupazione per le tensioni sull'accordo nucleare

VIENNA - L'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) è "preoccupata per le crescenti tensioni" intorno al programma nucleare iraniano, dopo che Teheran ha annunciato che non rispetta più alcune delle restrizioni imposte dall'accordo del 2015. "Spero che possiamo trovare un modo per ridurre le tensioni attraverso il dialogo", ha detto il direttore generale Yukiya Amano.

(LaPresse, 10 giugno 2019)


I capi politici palestinesi si aumentano gli stipendi e la gente muore di fame

Per Abu Mazen e i suoi, ritocchi retroattivi fino al 67%. Ramallah e i territori ribollono di rabbia

di Fiamma Nirenstein

 
GERUSALEMME - C'è modo e modo di essere corrotto. Ma quando lo si fa roteando una spada che annuncia l'avvento della giustizia per tua mano, la cosa diventa particolarmente penosa. È quello che accade all'Autonomia palestinese di Abu Mazen in questi giorni: in nome della resistenza contro il nemico sionista ha rifiutato le tasse che Israele era come al solito pronto a conferirgli anche se decurtate del budget previsto per i terroristi in carcere, e per questo ha tagliato gli stipendi dei dipendenti civili e militari dal 40 al 60 per cento, penalizzando soprattutto la gente di Gaza, che non gli è molto simpatica politicamente ... Ma poi, il governo palestinese si è fatto scoprire con le mani nel sacco.
   Aveva infatti deciso nel 2017 un aumento degli stipendi dei suoi ministri del 67% e lo aveva addirittura reso retroattivo al 2014, un bell'accumulo di shekel. Il primo ministro Mohammed Shtayyeh guadagna sui 6mila dollari al mese e i ministri sono arrivati dai 3mila ai 5mila dollari. Più gli arretrati. Abu Mazen, che è presidente dal 2005 (secondo la legge avrebbe dovuto restarlo per quattro anni) ha approvato la decisione e non l'ha resa pubblica: ci hanno invece pensato, inferociti, i social media e il tamtam della gente impoverita, stanca, disoccupata. La crisi economica è un dato permanente nella vita palestinese, così come lo è l'infinita corruzione che alcuni coraggiosi, incuranti delle sicure rappresaglie, periodicamente denunciano.
   Chi scrive ha incontrato più volte persone di tutto rispetto perseguitate da minacce molto sostanziali, esasperate e inutilmente desiderose di comunicare la loro disperazione. I torti subiti, l'impunità nel fornirsi di pubblico denaro spesso donato da Paesi terzi delle classi dirigenti sono nelle mani dei boss locali: questi, su base di amicizia e di forza tengono soggiogati interi gruppi sociali, e sotto la cenere cova, insieme alla miseria che nasce dal rifiuto di occuparsi di qualcosa che non sia la diffamazione e la guerra continua contro Israele, una ribellione che a Gaza è anche scoppiata in piazza.
   Ramallah a sua volta adesso ribolle: non lo si dice, ma forse brucia insieme ai furti ora pubblici, anche il disprezzo con cui tutta la nomenclatura a partire da Abu Mazen ha preso la parola scandalizzato per rifiutare l'invito di Trump nel Baharain il 25 giugno. Si tratta del primo passo dell'accordo del secolo» che intende parlare di pace sulla base di un futuro economico garantito per i palestinesi: il negoziatore Sa'eb Erakat ha annunciato che i palestinesi non si faranno comprare e ha chiamato al boicottaggio tutti i palesi arabi invitati, desiderosi di affrontare una buona volta l'incredibile conflitto israelo-palestinese.
   I soldi per i palestinesi di oggi sono stati sempre una funzione della pavloviana attitudine europea e americana a versarne un fiume senza le verifiche necessarie: quando questo è stato fatto e gli americani si sono resi conto che, dei 693 milioni di aiuto l'anno, 345 andavano in sussidi ai terroristi in carcere o alle loro famiglie, hanno bloccato il flusso. L'idea che i palestinesi soffrono la fame a causa di Israele è una carta propagandistica che funziona solo in Europa ormai. I palestinesi stessi specie dopo episodi come quello dell'aumento degli stipendi ai ministri desiderano una svolta.
   L'aiuto mirato è una cosa giusta e utile, ma quello che finisce sempre in guerra non è certamente produttivo e non va alla gente. Né lo è quello che finanziando libri di testo si ritrova a manuali di odio antisemita. Chissà che lo scandalo di Ramallah non conduca i palestinesi in Baharain, a parlare di futuro, anche nei termini più critici possibili.

(il Giornale, 10 giugno 2019)


Parma capofila della Giornata Europea della Cultura Ebraica

Avrà una città capofila inedita la prossima Giornata Europea della Cultura Ebraica, in programma domenica 15 settembre: sarà infatti per la prima volta Parma il centro della manifestazione che coinvolge in Italia oltre ottanta località, e più di trenta Paesi in Europa. Tra visite guidate e concerti, degustazioni casher e incontri d'autore, spettacoli teatrali ed eventi per i più piccoli, un giorno dedicato alla conoscenza e all'approfondimento di storia e tradizioni della minoranza ebraica, saranno centinaia le iniziative nelle sinagoghe, nei musei e nei quartieri ebraici, per un grande evento nazionale, coordinato e promosso nel nostro Paese dall'Unione delle comunità Ebraiche Italiane (e in Europa dall'Aepj, la European Association for the Preservation and Promotion of Jewish Culture and Heritage), che vede partecipare ogni anno, solo in Italia, decine di migliaia di persone, con picchi di oltre 50mila presenze, un argomento, come ogni anno, unisce idealmente tutte le località partecipanti: quest'anno la traccia scelta è "I sogni". Tema molto presente nella cultura ebraica, a partire dalla Torah, con il mondo onirico che compare a più riprese nella narrazione biblica, e dal Talmud (è famosa la massima "Un sogno non interpretato è come una lettera non letta"), fino alla psicanalisi di Sigmund Freud, che all'interpretazione dei sogni dava un valore profondo e terapeutico.
   L'edizione italiana è una delle più riuscite in Europa: un successo dovuto anche al fatto che, da nord a sud alle isole, in Italia c'è uno straordinario patrimonio artistico e architettonico ebraico, fatto di decine di sinagoghe grandi e piccole, di musei, di antichi quartieri, di siti archeologici e di una storia particolarmente ricca di cultura e di tradizioni, ogni regione con le sue peculiarità, un mondo da scoprire. A partire da Parma (e dalla vicina Soragna, dove c'è una sinagoga e un museo ebraico), per continuare con le altre decine di località in tutto il Paese.

(Pagine Ebraiche, giugno 2019)


L'I.C. "Marco Polo" di Borghesiana racconta il viaggio della memoria ad Auschwitz e Birkenau

Alla presenza della presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello e del vice presidente della Regione Lazio, Daniele Leodori

 
Si è svolto giovedì 6 giugno l'evento conclusivo del progetto "Il nostro viaggio della memoria. Per non dimenticare, perché non accada mai più" che ha coinvolto 33 alunni ed alunne dell'I.C. "Marco Polo" di Borghesiana nel viaggio organizzato dalla Regione Lazio, con la partecipazione di circa 500 alunni provenienti dalle scuole della provincia di Roma.
   Insieme al Dirigente scolastico Francesco Senatore, hanno portato il saluto ai ragazzi, ai genitori e ai docenti, il vice presidente della Regione Lazio Daniele Leodori e la presidente della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello.
   I protagonisti sono stati i nostri ragazzi e le nostre ragazze, che hanno saputo trasmettere il senso più profondo del viaggio ad Aschwitz e Birkenau. "Un viaggio che non si è concluso con il ritorno a casa, ma che continuerà per tutta la vita come testimoni di una storia che non deve più ripetersi. Sulla locandina di questa manifestazione c'è l'immagine triste ed evocativa della ferrovia del campo di sterminio di Birkenau, ma non a caso vi è stata disegnata una rosa rossa. Ecco - ha detto il Dirigente Scolastico Francesco Senatore, rivolgendosi alle studentesse e agli studenti, quella rosa rappresenta la rinascita e quella rinascita siete voi, testimoni della memoria, che dovrete trasmettere alle future generazioni".
   La presidente della comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, nel ringraziare Daniele Leodori per aver investito tante risorse e tante energie, coinvolgendo degli studenti così giovani in "un percorso educativo evocativo, profondo e complesso", ha confessato di aver avuto qualche perplessità sapendo che si trattava di studenti di terza media, "invece sono stati meravigliosi, attenti a cogliere ogni passaggio ed ogni emozione. "E' stato un momento di crescita, che spero porteranno con sé per tutta la vita. 80 anni fa un popolo intero doveva essere distrutto, qualcuno decise che non avevamo più la dignità di essere italiani perché ebrei, 80 anni fa qualcuno decise che i miei nonni dovevano essere denunciati e deportati, che io non sarei dovuta nascere e invece sono qua a dire grazie a tutti quanti voi, che sono a disposizione vostra perché quel pregiudizio, quell'odio, quella cattiveria non pervada nelle classi, negli atti di bullismo, nei singoli gesti quotidiani e non diventi quello che domina il linguaggio del quotidiano. Sono qua a dirvi che la comunità di Roma c'è e sarò felice di ospitare questi ragazzi al museo ebraico e alla sinagoga, anche se so che già che gli insegnanti fanno un lavoro egregio. Sono qua a dirvi che abbiamo un valore universale, che è quello di rispettarci reciprocamente, cerchiamo di mantenerlo perché è solo così che potremo veramente assicurarci un futuro".
   Tanta commozione quando i ragazzi hanno intonato "Gam Gam", la canzone ebraica tratta dal salmo 23, che le maestre ebree deportate nei campi di concentramento facevano cantare ai bambini; toccante il video con le foto dei campi di sterminio al suono della chitarra di un nostro alunno. Suggestivi i momenti di condivisione quando la platea ha cantato "Auschwitz" e "La libertà" accompagnata dall'orchestra della scuola che ha poi eseguito magistralmente il brano Shalom.
   L'evento ha visto una partecipazione corale da parte dell'intero istituto: a partire dalla terza C della scuola primaria con la rivisitazione della canzone Auschwitz: Guccini cantava le migliaia di bambini ebrei morti passando per "il camino". Ebbene accanto alle vittime del genocidio ebraico, i bambini ci hanno fatto riflettere sulle migliaia di piccole vittime che muoiono oggi nel buio abisso marino.
   E' stata poi la volta della drammatizzazione "E se succedesse domani?" a cura della 2D (secondaria): una classe che si svuota di tutti i suoi alunni ebrei quando la maestra annuncia che sono state promulgate le leggi razziali in Italia. Infine gli alunni e le alunne della 3F si sono cimentati in una significativa coreografia sulle note di "Il mio nome è mai più", canzone di protesta contro tutte le guerre. Numerose sono state le testimonianze dei ragazzi: ognuno ha voluto condividere le proprie riflessioni e il vice presidente della Regione Lazio, Daniele Leodori, nel salutare i nostri alunni, ha detto di tenere molto a questo progetto: "noi tutti cerchiamo di trasmettere il valore del rispetto per l'altro, ebbene credo che l'esperienza di questi luoghi non possa lasciare indifferenti e sono sicuro che vi lascerà un segno per tutta la vita".
   Al termine il preside ha espresso il proprio ringraziamento ai ragazzi, ai docenti coinvolti nella realizzazione della manifestazione e ha ringraziato il vice presidente della Regione Lazio per la preziosa opportunità che ha dato ai nostri ragazzi, "perché una cosa è studiare la storia, ma tutt'altro è viverla".

(ilmamilio.it, 10 giugno 2019)



Auto connessa, Hyundai punta sul medico digitale a bordo

Firmato un accordo di investimento con la israeliana MDGo

Hyundai Motor investirà in una società tecnologica israeliana che produce report automatizzati sulle condizioni mediche dei passeggeri. La tecnologia entra in azione in caso di incidente e allerta i soccorsi.
Hyundai Motor, ha recentemente firmato un accordo di investimento con la israeliana MDGo e ha iniziato a lavorare per applicare la funzionalità di analisi di MDGo al suo servizio pensato per l'auto connessa.
La casa automobilistica non ha specificato l'ammontare dell'investimento o della quota acquistata, ma ha detto di aver partecipato ad una raccolta fondi della serie A a favore di MDGo. Il finanziamento della serie A varia in genere da $ 2 milioni a $ 15 milioni.
MDGo è stata fondata nel 2017 per sviluppare algoritmi e servizi per l'analisi medica automatizzata. In caso di incidente, l'algoritmo di MDGo raccoglie i dati protetti dai sensori del veicolo e li raccoglie in un rapporto che mostra la gravità delle lesioni dei passeggeri.
L'algoritmo invia quindi questo rapporto direttamente agli ospedali vicini e alle ambulanze in arrivo, aiutando paramedici e medici a fornire un trattamento ottimale.
Dall'anno scorso, MDGo ha condotto test sul campo della sua tecnologia in Israele.
Hyundai Motor si aspetta che la tMDGoecnologia medica in auto le offrirà un vantaggio rispetto ai rivali.

(Autoprove.it, 10 giugno 2019)


Nel 2015 Hezbollah voleva colpire Londra ma il governo inglese coprì tutto

Un fatto gravissimo che prova ancora una volta come il gruppo terrorista libanese venga costantemente coperto da interi governi e dall'Unione Europea

Nel 2015 l'MI5, il servizio segreto inglese, sventò un enorme attentato organizzato da Hezbollah a Londra. A rivelarlo dopo una indagine durata mesi è stato il Daily Telegraph.
Secondo quanto riferisce il quotidiano, l'intelligence britannica arrestò un terrorista legato a Hezbollah che aveva accumulato tre tonnellate di nitrato di ammonio da usare in un attentato a Londra.
La notizia all'epoca non venne resa nota perché proprio in quelle ore la Gran Bretagna era impegnata a dare il suo consenso all'accordo sul nucleare iraniano e si temeva che, essendo Hezbollah direttamente legato a Teheran, l'opinione pubblica inglese avrebbe osteggiato l'approvazione britannica a quell'accordo.
Il fatto, gravissimo, ricorda quanto successo negli Stati Uniti quando il Presidente Obama ordinò alla DEA di fermare una indagine su un enorme traffico di droga, armi e riciclaggio di denaro che coinvolgeva proprio Hezbollah. Anche in quel caso l'ordine di Obama arrivò per non compromettere l'imminente accordo sul nucleare iraniano....

(Rights Reporters, 10 giugno 2019)


Bufera sull'Università di Messina, invitato un filosofo russo vicino a gruppi antisemiti

La presenza a Messina del filosofo russo Aleksandr Dugin, prevista per l'11 giugno, e' vista con "sdegno" dalla Fiap, la Federazione italiana associazioni partigiane: "E' verosimile che in Italia siano pochi a sapere chi e' Dugin, - afferma una nota della Fiap - ma forse e' il caso di ricordare che si tratta di un personaggio inquietante che teorizza il cosiddetto neo-eurasiatismo. Nemico dichiarato di Israele, si nasconde dietro quell'antisionismo che, per molti elementi dell'estrema destra, serve spesso a celare un sostanziale antisemitismo. Si richiama apertamente al filosofo razzista e fascista italiano Julius Evola e in Russia ha costituito gruppi politici denominati 'nazionalbolscevichi', il cui contrassegno era la bandiera del Terzo Reich con al centro lo stemma sovietico in versione nera, al posto della svastica".
Dugin, autore del libro pubblicato in inglese con il titolo "The Fourth Political Theory", dovrebbe parlare al rettorato dell'Universita'. Secondo Antonio Matasso, dirigente socialista siciliano ed esponente della Fiap, "sarebbe auspicabile un intervento delle autorita' accademiche, allo scopo di effettuare una valutazione di opportunita' circa la presenza di Dugin nell'ateneo".

(Messina Oggi, 9 giugno 2019)



Abiterò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio. Essi conosceranno che io sono l'Eterno, il loro Dio, che li ho fatti uscire dal paese d'Egitto per abitare in mezzo a loro. Io sono l'Eterno, il loro Dio

Dal libro dell’Esodo, cap. 29


*

La Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità.

Dal Vangelo di Giovanni, cap. 1


*

Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c'era più. E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; ed essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio».

Dal libro dell’Apocalisse, cap. 21

 


Gli Usa: "Possibili annessioni israeliane di aree della West Bank"

di Paolo Mastrolilli

Sotto certe circostanze, io penso che Israele abbia il diritto di annettere parte della Cisgiordania, anche se probabilmente non tutta». A dirlo è stato l'ambasciatore americano nello Stato ebraico, David Friedman, durante un'intervista con il New York Times. Prima delle elezioni del 9 aprile scorso, il premier Netanyahu aveva promesso di cominciare l'annessione di parte dei Territori occupati dopo la guerra del 196 7. Friedman ha commentato così questa ipotesi: «Noi non abbiamo davvero una visione, fino a quando non capiremo quanto, in quali termini, perché ha senso farlo, perché è una cosa buona per Israele, perché è buona per la regione, perché non crea più problemi di quanti ne risolva. Queste sono tutte cose che vorremmo capire, e non voglio pregiudicare». Poi ha aggiunto: «Certamente Israele ha il diritto di conservare alcune porzioni della Cisgiordania».

 Il piano di pace
  Prima di diventare ambasciatore, Friedman era l'avvocato di Trump che si occupava principalmente delle sue procedure nei casi di bancarotta, e aveva sostenuto con aiuti economici gli insediamenti nei Territori occupati. Parlando con il Times, ha accusato la leadership palestinese di boicottare la conferenza in programma alla fine di giugno in Bahrain, allo scopo di raccogliere finanziamenti.
  Questa sarebbe la prima fase del piano di pace elaborato dal genero del presidente, Jared Kushner, a cui poi seguirebbe la fase politica, che però potrebbe essere ora rimandata a dopo le nuove elezioni israeliane. «È ingiusto - ha detto Friedman - il modo in cui i palestinesi l'hanno descritta, ossia una tangente, o il tentativo di comprare le loro aspirazioni nazionali. Lo scopo invece è dare vita alle loro aspirazioni, creando un'economia sostenibile».
  L'ambasciatore ha detto che la responsabilità dell'assenza di un accordo ricade soprattutto sui palestinesi, che in passato hanno rifiutato offerte molto generose. Alla domanda se è vero che il piano di pace non prevede la creazione di due Stati, ha risposto così: «Cosa è uno Stato? Ci sono truppe americane in Germania e Giappone, ciò non è antitetico alla pace».
  Il negoziatore palestinese Saeb Erekat ha replicato con questo commento: «La loro visione è l'annessione di territori occupati, un crimine di guerra secondo la legge internazionale». Quindi, ha aggiunto che tale politica marcherebbe «la complicità degli Stati Uniti con i piani coloniali di Israele».

(La Stampa, 9 giugno 2019)


Israele: deficit fiscale stabile al 3,8 per cento del Pil

GERUSALEMME - Il disavanzo di bilancio in Israele ha raggiunto il 3,8 per cento del prodotto interno lordo da giugno 2018 a maggio scorso. Lo riferisce il quotidiano economico israeliano "Globes". Nei primi cinque mesi del 2019 il deficit è stato di 15,1 miliardi di shekel (circa 3,71 miliardi di euro) mentre nello stesso periodo di riferimento del 2018 era stato di 2,3 miliardi di shekel (circa 570 milioni di euro). La spesa civile del governo è aumentata del 15,8 per cento da gennaio a maggio scorsi, in netto aumento rispetto all'obiettivo del 6 per cento fissato nella finanziaria. Anche le spese nel settore militare sono aumentate rispetto a quanto previsto dalla legge di bilancio. Nei primi cinque mesi dell'anno la spesa per la difesa è cresciuta del 2,9 per cento, rispetto a un tetto dell'1,9 per cento previsto dalla finanziaria. Le entrate fiscali sono leggermente aumentate, raggiungendo 135 miliardi di shekel (33 miliardi di euro) nei primi cinque mesi del 2019, circa 4 miliardi di shekel (poco meno di un miliardo di euro) in più rispetto al corrispondente periodo del 2018.

(Agenzia Nova, 9 giugno 2019)


Come il genio ebraico, rivoluzionò il calcio

Da Erbstein a Czeizler, precursori del calcio totale che il nazismo cercò di cancellare.

di Giuliano Orlando

Niccolò Mello - Stelle di David, come il genio ebraico, rivoluzionò il calcio - Bradipo Libri - Pag. 270 - Euro 15.00
La follia nazista non risparmiò neppure il calcio che il genio ebraico ha fatto evolvere in anticipo sui tempi. Figli di tante, troppe diaspore, ebbero intuizioni oltre che in svariati campi come la filosofia, la musica, lo spettacolo, la medicina e la politica, anche nel calcio, di cui furono i precursori assoluti. Questo nonostante il regime nazista abbia cercato in ogni modo di cancellarne i migliori protagonisti. Molti purtroppo vittime dei lager, altri costretti a fuggire per non cadere vittime di una persecuzione mai finita. Il gioiello calcistico Wunderteam, la squadra austriaca, creata dal tecnico ebreo-boemo Hugo Meisl, attorno agli anni '30, mostrò al mondo una perfezione tecnico-tattica riconosciuta dai più grandi allenatori, compreso Vittorio Pozzo che pure aveva battuto il Wunderteam nella semifinale mondiale del '34, ebbe parole d'elogio per la raffinatezza del gioco austriaco. Meisl è stato uno dell'esercito che il genio ebraico ha prodotto. I nomi scorrono come un fiume in piena: Imre Hirschl, Ernest Erbstein, Lajos Czeizler, che guidò il Milan del trio delle meraviglie Gre-No-Li, Bela Guttman, Lippo Hertzka il primo tecnico a far grande il Real Madrid, negli anni '30, Izidor Kurschner, altro innovatore, dopo aver insegnato calcio in Svizzera e Germania, nel 1937 emigrò in Brasile facendo crescere il calcio carioca alla grande. Gyula Mandi, uno dei pochi sopravvissuti, uno dei più forti difensori nella nazionale magiara negli anni '20, assieme a Gustav Sebes e Bela Guttmann, costruì la meravigliosa nazionale ungherese degli anni '50. Dopo l'invasione dei carri armati sovietici del '56, emigrò prima in Brasile dove col Rio de Janeiro non ebbe successo, mentre in Israele divenne capo allenatore e guidò la squadra al secondo posto nella Coppa d'Asia nel 1960 e quattro anni dopo quella coppa la vinse e centrò la qualificazione ai mondiali del 1970 in Messico. Alexandru Schwartz, ebreo di Romania, cresciuto nl club sionista di Timisoara, città al confine con l'Ungheria, negli anni '60 giocò in Francia, in Germania dove con l'Eintracht vinse la Coppa delle Alpi e in Portogallo nel Benfica. Uno dei pochi che hanno chiuso per anzianità di servizio. Si è spento nel 2000 a 92 anni. Eugen Konrad, ungherese, fratello maggiore del grande Kalman, calciatore senza acuti, si trasferisce in Austria dove guida il team della capitale e contribuisce a formare la squadra guidata dal quel genio di Mattias Sindelar, uno dei calciatori austriaci più talentuosi, mai sottomessosi al nazismo, morto in circostanze misteriose nel 1939. Eugen insegna calcio in Romania, in Francia e Austria, nel 1937 approda a Trieste, ma l'anno dopo viene espulso con le leggi razziali, ripara in Francia e poi in Portogallo. Trova pace alla vigilia della Grande Guerra, quando con la famiglia si imbarca su una nave che trasporta sughero e dopo tre settimane di navigazione sbarca negli USA. L'approdo definitivo
   Solo la vetta di una base molto più ampia. Purtroppo molti di questi geni, con l'Anschluss divennero prede e vittime di una persecuzione pazzesca. Un libro da non perdere. Per riflettere.

(2out.it, 9 giugno 2019)



Palestina - Proteste fra i cittadini: i ministri si sono aumentati lo stipendio del 60%. In segreto

Alcuni documenti rivelati in rete sono stati ripresi dai giornali: nel 2017 le paghe fatte salire da 3000 a 5000 dollari al mese. La decisione approvata riservatamente dal presidente Abu Mazen

GERUSALEMME - Grande indignazione sta suscitando nella comunità palestinese la notizia secondo la quale i membri dell'Anp, l'autorità Palestinese che governa il paese, nel 2017 si sono segretamente attribuiti un cospicuo aumento, determinando un aumento dei loro stipendi in alcuni casi fino al 67%. Lo riportano diverse fonti di stampa locale che hanno ripreso alcuni documenti riservati trapelati in rete. A far montare in particolare lo sdegno del popolo palestinese è soprattutto il fatto che gli stipendi dei governanti sono stati fortemente aumentati proprio in un periodo, il 2017, di grande crisi economica. Una crisi che tuttora persiste nei Territori palestinesi, tanto che il governo sta minacciando la bancarotta.
   In quel periodo, per far fronte alla difficile situazione, l'Autorità nazionale palestinese aveva ridotto di un terzo i salari dei dipendenti pubblici soprattutto nella Striscia di Gaza (controllata da Hamas), sostenendo che al governo mancavano fondi per farvi fronte. Nei documenti pubblicati è emerso che ad esempio lo stipendio del primo ministro è stato portato a circa 6.000 dollari mensili e quelli dei vari ministri innalzati da 3.000 a 5.000 dollari al mese. La decisione era stata approvata dal presidente dell'Anp, Abu Mazen ma tenuta segreta anche perché in opposizione ad una legge del 2004 che fissava i tetti massimi degli stipendi dei ministri.
   E non è tutto. Dai documenti segreti è trapelato che l'aumento di cui hanno beneficiato è stato retroattivo, dal 2014, quando il governo è entrato in carica, dando a ciascun ministro migliaia di dollari.
   Oltre ai soldi, ai ministri sarebbero stati dati anche ulteriori benefit. Tra questi, per coloro che vivono fuori Ramallah, la capitale amministrativa, è stata messa a disposizione una ulteriore somma di 10.000 dollari all'anno per affittare una casa in città. Concessi anche bonus per gli autisti e le spese di viaggio. "I membri del governo si sono comportati come se il governo fosse il loro negozio privato e possono prendere tutto ciò che vogliono senza essere ritenuti responsabili", ha dichiarato il commentatore politico Ehab Jareri.
   Un sondaggio pubblicato ad aprile dal Jerusalem Media and Communication Center ha evidenziato come la stragrande maggioranza dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, non hanno fiducia nella loro leadership politica. Solo una piccola percentuale di palestinesi intervistati, circa l'11%, ha dichiarato di fidarsi del presidente Abu Mazen, il leader di Fatah e del Paese. Il capo di Hamas, Ismael Haniyeh, ha ricevuto l'approvazione solo del 6% della popolazione.
   Sembra tuttavia che, a seguito delle polemiche suscitate dalla notizia, il governo palestinese stia pensando di fare marcia indietro. Nickolay Mladenov, il diplomatico bulgaro coordinatore speciale Onu per il processo di pace in Medio Oriente, ha fatto sapere di aver parlato con il primo ministro in carica da aprile, che avrebbe promesso di cancellare gli aumenti.

(la Repubblica, 9 giugno 2019)


"Kippah, il monito di Klein coerente con clima”

 
Josef Schuster
Nei giorni delle elezioni europee in Germania il tema dell'antisemitismo è tornato in maniera dirompente. A lanciare l'allarme, il commissario governativo Felix Klein, che in un'intervista alla Bild, popolare quotidiano tedesco, aveva dichiarato di non poter raccomandare "agli ebrei di indossare la kippah in qualsiasi punto della Germania e in qualsiasi momento". Parole che hanno aperto una forte discussione, con l'intervento da Israele del presidente Reuven Rivlin: "I timori per la sicurezza degli ebrei tedeschi sono una capitolazione all'antisemitismo e l'ammissione che gli ebrei non sono di nuovo al sicuro sul suolo tedesco", il monito del presidente israeliano. "Volevo dare una scossa con la mia dichiarazione e far capire al pubblico che dobbiamo agire prima che sia troppo tardi" la difesa di Klein. Tra coloro che hanno preso le parti del commissario governativo il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster: "Da tempo, ed è un dato di fatto, gli ebrei in alcune grandi città sono potenzialmente a rischio se sono identificati come tali. L'ho fatto notare già due anni fa" ha sottolineato Schuster, definendo quindi "importante" il monito di Klein. Intervistato da Pagine Ebraiche, Schuster è tornato sul tema, analizzando in prima battuta la situazione politica europea dopo i risultati elettorali che hanno visto in Germania l'estrema destra dell'AfD guadagnare consensi senza sfondare (il partito si è fermato al 10,9%). "Sebbene i partiti populisti di destra in Europa abbiano avuto meno successo alle elezioni di quanto temuto, i loro risultati sono comunque preoccupanti - spiega Schuster al giornale dell'ebraismo italiano -. Stanno cercando di dividere l'Europa e sono contro le minoranze. In Germania, soprattutto i risultati elettorali dell'AfD negli stati federali orientali sono spaventosi". Rispetto all'alleanza del leader della Lega Matteo Salvini con l'AfD, il presidente degli ebrei tedeschi spiega di osservare con attenzione la situazione: "Naturalmente l'AfD sta cercando di entrare in contatto con altre realtà simili. Dovremo monitorare costantemente perché cercheranno di copiare ricette che hanno avuto successo all'estero".
   Rispetto all'antisemitismo, serve secondo Schuster un maggior coinvolgimento da parte della società tedesca perché la minaccia in Germania è in aumento, come racconta quel più 10 per cento di episodi antisemiti registrati nel Paese nel 2018 rispetto al 2017. "Abbiamo davvero bisogno di una maggiore solidarietà da parte della maggioranza della società. Sarebbe auspicabile che tante persone quante quelle che manifestano per la tutela del clima manifestassero anche per un miglior clima politico in Germania. Inoltre, abbiamo bisogno di una maggiore e migliore istruzione nelle scuole e di corsi di integrazione per gli immigrati, per citare due argomenti. Il Consiglio centrale degli ebrei in Germania ha anche lanciato un progetto di prevenzione contro l'antisemitismo tra i musulmani". Rispetto al manifestare pubblicamente la propria identità ebraica Schuster spiega che "in Germania non abbiamo problemi a vivere la nostra identità ebraica, ma da molto tempo sono necessarie alcune precauzioni sulla strada o sui mezzi di trasporto pubblico. Ed è un fatto triste". Dall'altro lato "l'elevata sensibilità al tema dell'antisemitismo, che osserviamo in politica da circa un anno, mi rende ottimista sul fatto che possiamo ottenere grandi risultati nel suo contrasto. La Germania è la patria di migliaia di ebrei e deve rimanere tale".

(Pagine Ebraiche, giugno 2019)



Storia, Passato e Presente: Venezia e il ghetto ebraico

Nonostante il ghetto di Venezia sia il risultato di una misura restrittiva, diventerà negli anni a seguire un crocevia cosmopolita.

di Filomena Fotia

E' il 29 marzo 1516. La Repubblica di Venezia stabilisce che gli ebrei debbano tutti abitare nell'area dove anticamente erano situate le fonderie, "geti" in veneziano. Nasce il primo ghetto della storia. Lo racconta lo storico Franco Cardini con Paolo Mieli, nel nuovo appuntamento con "Passato e Presente" il programma di Rai Cultura in onda domenica 9 giugno alle 20.30 su Rai Storia. Agli ebrei ashkenaziti che vivono nel ghetto (definiti in tal modo in quanto provenienti dalla Germania) viene concessa come sola attività la gestione dei banchi di pegno, a tassi stabiliti dalla Serenissima. In cambio della libertà di culto e della protezione in caso di guerra, inoltre, hanno l'obbligo di indossare un segno di identificazione e di sottostare a una serie di regole. Nonostante il ghetto sia il risultato di una misura restrittiva, diventerà negli anni a seguire un crocevia cosmopolita, nel quale si affermeranno la cultura e le professioni liberali: i medici ebrei saranno i migliori dell'epoca. Occorre, inoltre, ricordare che tra il '500 e il '600, Venezia è un luogo di sosta e di passaggio di ebrei dal levante e dal ponente: tale fenomeno porterà alla costruzione di un secondo ghetto per i sefarditi nel 1541 e di un terzo nel 1633. Nonostante tutto, gli ebrei in quegli anni sono preziosi alleati dei veneziani nelle guerre contro l'Impero Ottomano che minaccia l'egemonia della Serenissima sul mare. Nel 1797, per la prima volta, la Repubblica di Venezia viene conquistata da truppe straniere: Napoleone mette fine alla Repubblica e, nel nome degli ideali di uguaglianza e fratellanza della Rivoluzione Francese, apre le porte del ghetto.

(Meteo Web, 9 giugno 2019)


L'antisemitismo nel Partito Laburista

di Stefano Piazza

In Gran Bretagna, dopo i risultati delle elezioni europee che sono costate ai contribuenti di Sua Maestà 100 milioni di sterline e che hanno visto il Brexit Party di Nigel Farage trionfare, è iniziato il conto alla rovescia per eleggere il successore della premier dimissionaria Theresa May. Il successo elettorale del Brexit Party dovrebbe favorire l'ex ministro degli Esteri, Boris Johnson, che dovrà chiudere la complessa partita della Brexit. In pochi rimpiangeranno Theresa May, con lei infatti è arrivato il peggior risultato degli ultimi 200 anni per i Tories, senza contare gli errori in politica interna come primo ministro e quelli nel periodo 2010-2016 in cui fu responsabile del Secretary of State for the Home Department (il Ministero degli interni). Fu lei a stravolgere gli organici della polizia togliendo risorse economiche. A Theresa May va ascritta la responsabilità politica di aver fatto lo stesso con altri apparati dello Stato che dovevano vigilare sulla sicurezza. Il caos e le tante difficoltà incontrate dalle forze dell'ordine inglesi, nell'arginare il dilagare delle organizzazioni terroristiche islamiche nel Regno Unito, hanno il suo nome ed il suo cognome.
  Oltre ai conservatori, le elezioni europee hanno visto anche la sconfitta del Partito laburista britannico precipitato al 14.1% dei consensi, il che significa 11 punti in meno rispetto alle consultazioni del 2014. Ma i problemi per il Labour non si esauriscono con la batosta elettorale: infatti, la Commissione per l'eguaglianza e i diritti umani britannica ha aperto un'inchiesta dopo le ripetute denunce delle associazioni che combattono il dilagante antisemitismo di chiara matrice islamica, che si manifesta di continuo in Inghilterra. Le accuse sono molto pesanti: i laburisti inglesi avrebbero «illecitamente discriminato, importunato e perseguitato persone della comunità ebraica». La Commissione che si occupa di verificare che siano «rispettate le condizioni di uguaglianza in ogni aspetto della vita pubblica», non va troppo per il sottile quando si tratta di razzismo. È già intervenuta sui partiti politici, come nel 2010, quando obbligò il partito di estrema destra British National Party a cambiare i suoi statuti perché c'era il divieto di adesione per le persone di colore e per i membri delle minoranze.
  I laburisti hanno accolto la messa in stato di accusa con compostezza dicendosi «completamente disponibili a collaborare e aiutare le autorità per indagare fino in fondo» e molto probabilmente la misura era attesa. Dal 2015 le denunce contro i laburisti per comportamenti antisemiti sono state più di 300 senza contare le polemiche sulla figura dello stesso leader, Jeremy Corbyn, che ha trasformato l'ultimo congresso del partito (nel settembre 2018) in una manifestazione contro Israele. Quel giorno Corbyn fece votare un ordine del giorno in cui diceva «che la Palestina era la loro quarta priorità più importante». Le immagini del congresso facilmente reperibili sul web mostrano come non vi fossero bandiere inglesi, ma solo quelle palestinesi tanto che a diversi ospiti stranieri parve più di essere nella Striscia di Gaza che a Londra.
  Sulla manifesta ostilità di Jeremy Corbyn verso gli ebrei e lo Stato di Israele ci sono innumerevoli prove. La più clamorosa venne pubblicata dai giornali inglesi che mostrarono le foto del leader laburista mentre partecipava ad una cerimonia con tanto di deposizione di corone in onore di membri del gruppo terrorista palestinese Settembre Nero, che alle Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972 uccise 11 sportivi israeliani. Il leader laburista si difese così: «Ero presente alla cerimonia, ma non mi pare di essere stato coinvolto» che più o meno suona come «ero al Cimitero dei martiri della Palestina (Tunisia) ma in effetti non c'ero». Impietosa e politicamente inaccettabile la foto che lo ritrae mentre tiene in mano una corona di fiori, di fronte alla targa dedicata ai membri di Settembre Nero.
  Non sono solo questi gli episodi che mostrano il vero volto di Corbyn, il quale per troppo tempo è stato considerato un vecchio militante marxista marginale e quasi innocuo, benché antisemita. Il quotidiano inglese «Daily Telegraph» pubblicò nel 2018 le foto di una conferenza organizzata dai terroristi di Hamas, alla quale partecipò Corbyn seduto accanto a terroristi del calibro di Khaled Meshaal, Husam Badran e Abdul Aziz Umar, questi due condannati all'ergastolo in Israele per aver commesso attentati che hanno ucciso decine di civili inermi. Per le loro attività terroristiche erano stati inseriti nella lista nera dei servizi segreti inglesi e di altri paesi. Secondo Gideon Falter, capo della campagna contro l'antisemitismo, «i laburisti non hanno saputo risolvere il loro problema interno. In soli quattro anni Corbyn ha trasformato il suo partito da pioniere dell'antirazzismo a membro di gruppo degno dell'estrema destra. Siamo ormai convinti che lo stesso Corbyn sia un antisemita, indegno di qualunque carica pubblica e per questa ragione siamo felici che adesso sia finito sotto inchiesta da parte di un'autorità». C'è da sperare che i laburisti inglesi, che tanto hanno dato alla democrazia britannica, approfittino di questa importante occasione per cambiare pelle e per mettere le idee di Jeremy Corbyn nel bidone della spazzatura.

(Corriere del Ticino, 8 giugno 2019)


Il piano di Trump per il Medio Oriente

La strategia del presidente americano si basa su quattro principi: libertà di religione, libertà nelle opportunità di vita e professionali, libertà di movimento e politiche, e infine la sicurezza. Investimenti come formula per stemperare.

di Emanuele Rossi

Dai dati che possiamo verificare nei mass-media, il piano per il Medio Oriente del presidente Donald Trump, non ancora del tutto espresso, è basato, secondo le parole del genero-consigliere Jared Kushner, su quattro principi-base: libertà di religione, libertà nelle opportunità di vita e professionali, libertà di movimento e politiche.
  Poi, ci sono anche le opportunità, ovvero la possibilità, da parte dei giovani, di non essere assorbiti dai conflitti che hanno rovinato la vita ai loro padri, e ancora vi è nel piano la sicurezza, per la vita e il lavoro, di tutti i cittadini del Medio Oriente.
  Infine, il rispetto, tra le persone, le religioni, i partiti e i gruppi etnici. Etica protestante e affari, il classico nesso della politica estera Usa. Quasi un ricordo del vecchio testo, sull'etica protestante e lo spirito del capitalismo", scritto da Max Weber.
  Sul piano economico e operativo, il piano Trump si concentra sulle infrastrutture, soprattutto nella West Bank e nella Striscia di Gaza.
  È questa l'idea, centrale nel piano Trump, di diluire, stemperare e infine eliminare il conflitto tra Israele e gli Stati arabi confinanti, tramite una vasta messe di investimenti.
  Il che può creare il clima migliore per una pacificazione stabile tra lo stato ebraico e l'universo islamico (ma anche laico) che lo circonda.

 La strategia degli investimenti
  Non ci sono dati precisi sugli investimenti collegati al nuovo piano Trump per il Medio Oriente, ma le fonti più autorevoli citano un totale di 25 miliardi di usd tra West Bank e Gaza, da dare in dieci anni, oltre a un investimento di ben 40 miliardi di usd in Egitto, Giordania e, probabilmente, Libano, investimenti regolati su una serie di risultati intermedi da verificare. Il limite temporale è sempre il decennio, anche in questi casi.
  Questi sono, oggi, i dati più certi, ma vi sono anche notizie su un investimento, tra Striscia di Gaza, West Bank e il resto dei Paesi arabi, di almeno altri 30-40 miliardi di dollari, soprattutto in infrastrutture.
  Da chi proviene il denaro? In grandissima parte, dai Paesi arabi "ricchi", ma anche gli Usa collaboreranno agli investimenti, ma non sappiamo ancora di quanto.
  Jared Kushner ha visitato, tra il febbraio e il marzo scorsi, gli Emirati Arabi Uniti, l'Oman e il Bahrain, il presidente turco Erdogan, poi l'Arabia Saudita, nella quale Kushner ha un ottimo rapporto personale con Mohammad bin Salman; e infine il Qatar.
  Sempre Kushner, l'anima della politica del Presidente Trump in Medio Oriente, ha chiarito che, oltre agli investimenti, il Piano riguarda i confini tra le differenti aree.
  Kushner, in effetti, più che pensare a nuovi confini, immagina un Medio Oriente "senza confini".
  Il solito mito post-moderno, questo dei no borders, secondo il quale le linee che separano gli Stati sono tutte artificiali, pericolose, innaturali e generano sempre guerre.
  No, è il contrario: le guerre nascono perché non ci sono abbastanza confini.

 La perdita dei confini
  Alla perdita dei confini, sempre secondo Kushner, segue un aumento degli scambi economici e del passaggio di persone, con un aumento, egli spera, delle "opportunità". Non è vero, poi, che i Paesi che commerciano tra di loro non si fanno guerra: basti pensare agli Usa e al Terzo Reich nella seconda guerra mondiale, o alle infinite azioni britanniche in Asia Centrale e in India. Più si commercia, anzi, più ci sono motivi per deformare o stabilire una egemonia strategica.
  Le stesse opportunità, quelle citate da Kushner, che valgono oggi per i migranti centro-africani, dalle loro terre (che non sono "in guerra", come credono i governanti europei) verso l'Ue, o per i profughi della guerra in Siria, tra la Turchia, i Balcani e l'Europa Centrale. Opportunità senza realismo. Nemmeno un film di Hollywood può trasformare la tragedia delle migrazioni in un mercato delle facilissime "opportunità".
  Naturalmente, l'eliminazione delle frontiere significa anche l'evaporazione dello "stato palestinese".
  Sarà difficile, infatti, che i Paesi arabi finanzino una ricostruzione economica con Gerusalemme come capitale di Israele.
  Peraltro, i sauditi non vogliono nemmeno perdere del tutto l'asset strategico palestinese, proprio ora che l'Iran sta penetrando nel sistema politico e militare della Striscia di Gaza e dei Territori dell'Anp.
  Anche Mohammed bin Salman, il principe ereditario al potere, de facto, a Riyad, vuole comunque "uno stato palestinese unico e indipendente, con Gerusalemme come capitale".
  Difficile pensare che sauditi e israeliani pensino come un ragazzino no borders.
  È proprio questo il punto.
  Se gli Stati Uniti dovranno, in un contesto di delicatissimi equilibri infra-arabi e degli arabi con Israele, prendersi cura direttamente del sostegno ai palestinesi, allora arriveranno sicuramente dei problemi, giuridici ma non solo.
  Il Taylor Force Act, per esempio sancisce, dal marzo 2018, che gli Stati Uniti non potranno più sostenere finanziariamente l'Autorità Nazionale Palestinese, dato che essa aiuta, come recita l'Act stesso, i terroristi jihadisti che attualmente sono detenuti nelle carceri israeliane.
  L'Act, poi, stabilisce dei forti limiti al sostegno finanziario per la Striscia di Gaza e la West Bank.
  Un impedimento giuridico non da poco, per le azioni mediorientali "no borders" della Presidenza attuale degli Usa.

 La conferenza di Bahrein
  Inoltre, gli Stati del Golfo non sono molto contenti di finanziare quasi completamente il piano per il Medio Oriente della Casa Bianca, e vorrebbero un impegno finanziario degli Usa ben più solido di quello previsto.
  I Paesi del Golfo e gli altri paesi arabi integrati nel piano di Trump vogliono "vedere", nel senso del poker, quanto materialmente gli Usa metteranno a disposizione del loro piano, e solo dopo metteranno, se è il caso, mano al portafoglio.
  Il presidente Trump ha poi indetto un "laboratorio economico" a Manama, in Bahrein, per il 25 e 26 giugno prossimo, una conferenza alla quale saranno invitati uomini d'affari e imprenditori anche dall'Europa, ma soprattutto dall'Asia e dal Medio Oriente.
  L'organizzazione della conferenza in Bahrein è ormai decisa: l'amministrazione Trump inviterà solo i ministri delle finanze, non i ministri degli esteri europei, asiatici e mediorientali.
  Ci saranno anche molti e importantissimi dirigenti delle grandi imprese globali, da tutto il mondo, per discutere di investimenti nella West Bank e a Gaza, soprattutto.
  Il piano di Trump è stato comunque discusso, in via riservata, con 25 tra i più importanti dirigenti delle imprese internazionali, alla Milken Conference di Los Angeles, il 29 e 30 aprile di quest'anno.
  Tra i possibili interlocutori di Trump per il suo progetto mediorientale, alla Milken ci sono stati certamente Ibrahim Ajami, il capo del venture capital di Mubadala, il maggior veicolo di investimento di Abu Dhabi, Joussef Al Otaiba, ambasciatore degli Emirati in Usa, Khalid al Rumaihi, CEO del Fondo Economico di Sviluppo del Bahrain, Ibrahim Salaad Almojel, direttore generale del Fondo per lo Sviluppo Industriale dell'Arabia Saudita, la direttrice della Deloitte, Margaret Anderson, Ernesto Araòjo, ministro degli affari esteri del Brasile, e molti altri dirigenti di fondi di investimento e imprese.
  Israele è stata invitata al workshop in Bahrein, probabilmente con il ministro delle finanze Moshe Kalon, o altri, se vi saranno evoluzioni nella crisi politica di Gerusalemme.
  È bene però notare che Israele e il Bahrein non hanno rapporti diplomatici, ma questa missione sarebbe un forte stimolo alla regolarizzazione tra Manama e Gerusalemme.
  Anche la ANP sta, comunque, boicottando l'amministrazione e il Piano di Trump per il Medio Oriente, ma la Casa Bianca ha già invitato anche un folto gruppo di uomini d'affari palestinesi, che potrebbero partecipare, a Manama, solo a titolo personale.

 La reazione europea
  La vecchia classe politica dell'Unione Europea ha reagito al Piano di Trump in modo del tutto prevedibile: essa sostiene ancora il piano dei "due stati" tra Israele e l'Autorità Nazionale Palestinese, roba da vecchia guerra fredda, con un panel di oltre 35 leader europei, da Massimo D'Alema a Franco Frattini fino, per citare i più noti, a Ana Palacio e a Willy Claes, già segretario generale della Nato.
  In effetti, a parte l'astio della ANP per l'amministrazione Trump, non c'è, nel progetto della Casa Bianca, sia pure solo genericamente delineato, un particolare rifiuto della soluzione dei "due stati".
  E, a dire il vero, ieri come oggi, la sopravvivenza dello Stato Palestinese, nelle forme attuali, è spesso impedita dagli stessi Paesi arabi, che hanno interesse più a una guardia stabile ai confini di Israele che non a una sede stabile per il popolo palestinese.
  La polemica di parte democratica, negli Usa, si appella, contro il piano di Trump per il Medio Oriente, a tre principi: infatti essa non accetta le "realtà sul campo", compresa la prevista annessione, da parte di Gerusalemme, di parte della West Bank, poi rifiuta le linee di divisione di carattere etnico o religioso, fino al rifiuto dell'accettazione dello stabile controllo, da parte di Israele, dei territori occupati.
  Diminutio capitis per Israele, e tutto, secondo certi analisti andrà per il meglio. E se fosse vero l'esatto contrario?
  Ma, sul piano strategico, anche senza i territori occupati, la possibilità di un attacco, anche eterodiretto, ad Est verso Israele aumentano verticalmente.
  E, peraltro, questo accade oggi e da tempo anche dalla Striscia di Gaza.
  In sostanza, l'opposizione a Trump è, sostanzialmente, solo punitiva nei confronti di Israele, mentre ritiene l'area palestinese irrilevante dal punto di vista militare e strategico.
  Sono stati in tutto il 2018, ben 17 i lanci di razzi sul territorio israeliano dalla sola Striscia di Gaza, tutti con vettori plurimi. Oltre ad altre varie operazioni militari dal territorio dell'Autorità Nazionale Palestinese nello West Bank. E da qui contro Israele.

 Il rapporto Usa - Israele
  D'altra parte, Trump può anche scommettere sul fatto che il rapporto tra i Paesi arabi e Israele è radicalmente cambiato, negli ultimi 50 anni.
  Quattro stati arabi, Giordania, Arabia Saudita, Egitto e Emirati Riuniti hanno, oggi, un forte ascendente, anche materiale, sulle organizzazioni palestinesi.
  Anche se l'interesse strategico di certo mondo arabo è ormai minimo, per l'ANP e i suoi territori.
  Sia i sauditi che gli Emirati hanno poi oggi, diversamente dal passato della guerra fredda, rapporti costanti, buoni ma, inevitabilmente, sottotraccia, con Israele.
  Quindi, sia i sauditi che gli Emirati possono, oggi, esercitare un influsso politico rilevante sia su Israele che sui palestinesi.
  Da ciò deriva una crisi strutturale della presenza nordamericana in Medio Oriente, mentre sia i sauditi che la Giordania, malgrado la guerra nella vicina Siria, non hanno mai voluto verificare la volontà di Washington di tenere le sue posizioni in Medio Oriente.
  Se gli Usa se ne vanno dall'area mediorientale, allora i sauditi potrebbero giocare una loro pesante carta, per la pace con lo Stato ebraico, mentre gli altri Paesi arabi e islamici interessati all'area, Egitto, Emirati, magari anche la Turchia, potrebbero giocare anche al gioco dell'espansione della loro area di influenza, con o senza l'accordo con Gerusalemme.
  Che, comunque, sarebbe alla fine inevitabile.
  Certo, c'è una notevole disillusione sui palestinesi e la loro "causa", da parte del mondo arabo.
  L'ANP è un fallimento statuale, economico, strategico di grandissima rilevanza, e il mondo arabo saudita e degli Emirati non vuole mantenere ad infinitum una pressione contro Israele, proprio ora che lo stato ebraico, analizzando correttamente la nuova strategia mediorientale, ha buoni rapporti proprio con le potenze petrolifere del Golfo.
  E potrebbe essere un asset inevitabile e risolutivo, l'area palestinese, contro il quadrante sciita, dominato dall'Iran.
  Israele, in questo nuovo sistema, ha la possibilità di un minore isolamento regionale, ma anche una minore pressione araba per la soluzione del problema di Gaza e della West Bank, e la minore difesa internazionale dei palestinesi.
  I sauditi e gli altri alleati, compresi l'Egitto e la Giordania, non scommettono infatti più sui palestinesi, data la rottura tra Hamas (che è una costola dei Fratelli Musulmani, e questo l'Egitto di Al Sisi lo sa bene) e Fatah nei Territori.
  Il frazionamento dei palestinesi annulla il vantaggio strategico che possono offrire al resto del mondo arabo.
  Per evitare che altri, Turchia e Iran soprattutto, si intestino la causa palestinese, i sauditi e i loro alleati sostengono ancora, verbalmente, l'ANP.
  Quindi, o si immagina un nuovo Piano di Pace nel Medio Oriente diverso dal solito, o si fallisce miseramente.
  L'Ue, come al solito, è indietro di almeno dieci anni, con il suo sostegno da "guerra fredda" ai palestinesi. Come se fossimo ancora alla Guerra del Kippur.
  Gli Usa possono risolvere la questione palestinese disinnescandola, chiedendo agli alleati arabi un diverso rapporto con Hamas, eliminando poi la nuova presenza iraniana nell'area al confine con Israele. A parte Hezbollah, che rappresenta una questione a parte.
  Poi, ancora, evitare il mito no borders, l'area va ben controllata proprio perché diventerà un luogo per investimenti di grande rilievo.
  Ancora, infine, occorrerà stabilire che Israele può allargarsi verso Est, ma solo in un nuovo accordo internazionale sul Medio Oriente. Che riguarderà anche confini, aree di influenza, divisioni del lavoro internazionale e investimenti. Anche di tipo militare.

(formiche, 8 giugno 2019)


Roma - Nella Comunità ebraica serve una rivoluzione

Elezioni - Parla il candidato della lista «Ebrei per Roma» Giorgio Heller: «Ecco le nostre priorità su lavoro, scuola e su nuovi rapporti istituzionali»

di Valentina Conti

 
Giorgio Heller
Sei liste - per la prima volta - si contenderanno, il prossimo 16 giugno, i 27 posti del nuovo Consiglio della Comunità ebraica di Roma. Giorgio Heller, candidato presidente di «Ebrei per Roma», lancia un programma rivoluzionario. «La motivazione della mia candidatura parte da un'idea di fondo», spiega.

- Quale?
  «Riteniamo urgente un'alternanza a un governo che ormai da 26 anni è a capo della Comunità ebraica, per apportare novità, una vera innovazione ad un'attività gestita nel tempo con sistemi un po' vecchi a cui si rischia di rimanere ancorati. Crediamo in un cambiamento tramite nuove professionalità».

- I punti essenziali del suo programma?
  «Dotare la Comunità di un ufficio in grado di far utilizzare fondi europei e regionali a tutela di iniziative, progetti scolastici specialmente e culturali, rintracciando anche nuove "emergenze" all'interno della nostra realtà, molte delle quali basate sui temi del sociale e del lavoro».

- Qualche esempio?
  «Una grande fascia della nostra Comunità è rappresentata da venditori ambulanti e urtisti, che in questo periodo stanno subendo alcune scelte dell'amministrazione capitolina che non fanno stare tranquille le loro famiglie. Ecco, penso si debba intervenire su questo».

- Poi?
  «La scuola, un vanto della nostra Comunità, dove l'elemento da migliorare è la fase "di uscita" dalle superiori, dando garanzie di maggiore assistenza ai ragazzi in relazione al loro percorso futuro di studi. Il diplomato che esce dalla scuola ebraica oggi non è ben supportato in tal senso, quando i nostri collegamenti internazionali, ben sfruttati, consentirebbero, invece, di farlo a dovere».

- Quali gli obiettivi a medio termine di «Ebrei per Roma»?
  «Dare impulso agli uffici sulla conduzione del lavoro, sui problemi dei giovani, e il capitolo rapporti istituzionali».

- Una nuova visione del rapporto della Comunità con l'esterno?
  «Esattamente, mi riferisco essenzialmente al diverso rapporto che dovrebbe avere la Comunità con l'esterno, differente da come viene gestito oggi. La linea guida dovrebbe essere l'imparzialità rispetto a tutte le componenti politiche nazionali. Perché non siamo un partito politico ovviamente, quindi serve mantenere rapporti con l'intero arco costituzionale».

- Adesso non è così?
  «Ora emergono spesso dei distinguo. E a questo si lega pure un altro tema importante: la posizione della Comunità rispetto ai temi di Israele».

- La strada maestra su questo?
  «Individuare coloro - politici nazionali ed europei - che abbiano a cuore i temi della difesa di Israele e siano contrari al boicottaggio che molti Paesi europei stanno attuando verso Israele».

(Il Tempo, 8 giugno 2019)


Lettonia-Israele 0-3: Qualificazioni Europei 2020

Gli highlights e gol di Lettonia-Israele, match di qualificazioni agli Europei del 2020. Match senza storia e subito indirizzato a favore della formazione mediorientale in vantaggio al 10’ col bomber Zahavi, autore di una tripletta: l'attaccante replica al 59’ e all'80' per il definitivo 3-0 che porta i tre punti nel bottino israeliano.

(Sportface, 8 giugno 2019)


7 Giugno 1981, Israele distrugge il reattore nucleare di Saddam Hussein

di David Spagnoletto

Decenni di segreti. Nessuno dei protagonisti voleva parlare della missione. Poi un giorno agenti e reduci del servizio segreto israeliano svelano i dettagli di un'operazione rinominata "Opera" o "Babilonia".
Grazie a una spia vicino a Saddam Hussein, allora presidente dell'Iraq, Israele distrugge il reattore nucleare del rais, che per lo Stato ebraico sarebbe stato sinonimo di morte e distruzione.
Era il 7 giugno 1981. Manca un anno alla Guerra del Libano. Nell'agosto dell'anno precedente l'Italia è stata sconvolta dalla strage alla stazione di Bologna e prima da quella di Ustica, in cui nel corso degli anni verrà tirato in ballo un coinvolgimento della Libia di Gheddafi, nemico dichiarato di Israele.
Israele che in quel momento è guidato da Menachem Begin, per cui colpire il reattore nucleare iracheno ha la precedenza su qualsiasi altra azione di intelligence: "fosse l'ultima cosa che faccio da premier".
La missione è tutt'altro che semplice. Nel 1981 Israele non ha aerei che possano reggere la rotta di 3000 km per portare a termine la missione, resa ancora più complicata per il pericoloso ritorno in patria degli aerei, comandati dal pilota Ilan Ramon.
Partono i caccia, cui vengono aggiunti altri serbatoi. I piloti sorvolano il deserto della Giordania fingendo di essere veicoli sauditi fuori rotta. Ad accorgersi dell'escamotage è Re Hussein, che però dalla sua barca di lusso non riesce ad avvertire per tempo il suo amico Saddam.
Il reattore viene distrutto. La prima parte dell'operazione è andata a buon fine. Ora occorre tornare a casa sani e salvi. Il compito più arduo è dato a Ilan Ramon, cui viene affidata la posizione di coda, la peggiore: tutto va per il verso giusto.
Un eroe nazionale che nel 2003 perderà la sua seconda partita contro la fortuna: esplode in volo nella tragica missione dello Shuttle Columbia che avrebbe dovuto farlo diventare il primo israeliano ad andare nello spazio.
La pubblicistica sulla missione in Iraq vuole che i militari dell'antiaerea di Saddam fossero andati a mangiare e avessero spento i radar.
Il reattore non fu mai ricostruito. Oggi come allora Israele vive con la consapevolezza che i paesi arabi vogliono la sua distruzione.

(Progetto Dreyfus, 7 giugno 2019)


India-Israele, contratto di compravendita per cento bombe Spice 2000

NUOVA DELHI - L'India ha concluso un accordo con Israele per la compravendita di cento bombe Spice 2000, prodotte dal costruttore israeliano Rafael Advanced Defence Systems, una transazione da tre miliardi di rupie (38,4 milioni di euro circa).
È il primo contratto nella difesa firmato dal secondo governo del premier indiano Narendra Modi. Si tratta di un acquisto di emergenza, destinato all'Aeronautica militare, con una consegna a breve termine, prevista entro la fine dell'anno. Ogni bomba pesa 900 chilogrammi ed è in grado di contenere circa 80 chilogrammi di esplosivo. L'arma è la stessa usata dalla forza aerea indiana lo scorso 26 febbraio nel raid lanciato in Pakistan per colpire postazioni di Jaish-e-Mohammed (Jem), l'organizzazione terroristica pakistana che ha rivendicato l'attentato del 14 febbraio a Pulwama, nello Stato indiano di Jammu e Kashmir, in cui sono morti 40 agenti della Forza di polizia centrale di riserva (Crpf).
L'India è il secondo paese importatore di armi del mondo, dietro l'Arabia Saudita, stando all'ultimo rapporto del Sipri, lo Stockholm International Peace Research Institute, relativo al periodo 2014-18. Israele è il secondo fornitore dell'India, dietro la Russia, col 15 per cento delle importazioni indiane; la maggior parte delle esportazioni israeliane, il 46 per cento, è diretta verso l'India.

(Agenzia Nova, 7 giugno 2019)


Italia-Israele: festeggiati 70 anni di relazioni diplomatiche

di Giacomo Kahn

 
"Il rapporto tra Israele e Italia ha visto alti e bassi ma insieme siamo cresciuti, il legame storico, culturale e umano c'e' e dura da tanti anni. E come il vino, con il tempo migliora sempre di piu'". Cosi' l'ambasciatore israeliano a Roma, Ofer Sachs, ha salutato gli ospiti ( circa un migliaio) del ricevimento per i 71 anni dello Stato d'Israele e i 70 anni delle relazioni diplomatiche tra Italia e lo Stato ebraico. L'Italia riconobbe Israele già il 18 febbraio 1949 a pochi mesi dalla sua fondazione.
   Sachs, che a breve terminera' l'incarico per ritornare in patria, ha ricordato le tante attivita' e gli eventi che hanno scandito quest'anno. Il diplomatico ha anche ricordato, con emozione, il vessillo della Brigata Ebraica che ha sfilato il 25 aprile, "particolarmente emozionante per il nipote di una persona che combatté in Italia con la brigata".
   Non solo cultura ma anche economia, con un "interscambio commerciale tra i due Paesi - ha ricordato Sachs - che ha totalizzato i 4 miliardi di dollari" e "un futuro di continua grande crescita, dall'agroalimentare allo spaziale dall'automobilistico al cyber", ha sottolineato l'ambasciatore. A questo si aggiunge il turismo: "e' stato superato il record di turisti italiani in Israele con una crescita del 40% e per gli israeliani, l'Italia e' tra le mete preferite". Sachs ha ricordato le visite in Israele dei ministri degli Esteri e dell'Interno, Enzo Maovero Milanesi e Matteo Salvini, cosi' come quella in Italia del presidente israeliano, Reuven Rivlin, al quale ha fatto le condoglianze per la morte della moglie.
   E tra gli ospiti molto applaudito l'intervento del ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi. "In un'epoca lontana ma non ancora consegnata alla storia, questo Paese tradi' una parte della comunita' nazionale. E' un elemento che non va mai dimenticato, certe brutte pagine non devono piu' riproporsi", ha affermato il capo della diplomazia italiana. Moavero ha anche ricordato la sua visita in Israele nel Giorno della Memoria "importante dal punto di vista delle relazioni tra i due Paesi, ma anche molto coinvolgente dal punto di vista emotivo" e ha concluso esortando alla pace, con la parola ebraica 'shalom'.
   Salutando gli ospiti, l'ambasciatore Sachs ha quindi ricordato che "tra poco finisce il mio percorso in Italia: citando Ben Gurion, sono le persone che incontri che fanno il viaggio e questo e' stato unico e speciale. Ho incontrato migliaia di persone e alcuni di loro sono fiero di chiamarli amici". Al ricevimento c'erano, oltre al ministro Moavero, il vice ministro degli esteri, Emanuela Del Re.

(Shalom, 7 giugno 2019)


Sempre più italiani in Israele, crescita a doppia cifra

L'ufficio Nazionale Israeliano del Turismo ha diffuso le ultime statistiche degli arrivi italiani in Israele: nel solo mese di maggio 2019 sono infatti giunti in Israele ben 14.000 turisti italiani, il 40% in più degli arrivi di maggio 2018.
   L'Italia è il 7o mercato mondiale nel turismo verso Israele e da inizio anno a ora sono 72.800 gli italiani che hanno deciso di scoprirne le bellezze. Confrontando questi dati con quelli dello stesso periodo del 2018, la crescita è stata del 34%: un risultato straordinario che conferma come l'Italia si annoveri tra i 5 mercati mondiali con il miglior trend di crescita.
   "Continua a crescere l'interesse dei viaggiatori italiani verso Israele, attirati sempre di più da bellezze del posto, sport ed eventi oltre che da motivi di natura culturale. Il 2018 è stato un anno molto positivo per il turismo in Israele e l'Italia si è confermata un mercato chiave per la destinazione con 150.600 arrivi, in aumento del 40%. - afferma Avital Kotzer Adari, direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo - Proprio in questa stagione il calendario di eventi, settore che attira sempre più turisti, incorona Tel Aviv quale regina indiscussa del 2019: dal 14 al 18 maggio ha ospitato la 64esima edizione dell'Eurovision Song Contest ed è stata sotto i riflettori non solo per la movida e la vivacità culturale che la caratterizza, ma anche per il respiro internazionale e gli artisti che ha ospitato".

(il giornale del turismo, 7 giugno 2019)


Antisemitismo nel calcio tedesco

Gli immigrati islamici attaccano gli ebrei con la kippah.

di Roberto Giardina

C'è una squadra che gioca sempre fuori casa, anche quando scende in campo nel suo stadio, il Makkabi Berlin. Sempre e ovunque gli spettatori insultano i giocatori, urlano di volerli gasare, e inneggiano a Hitler. Quelli del Makkabi ci sono abituati, ma non è una scusante. Il club fu fondato nel 1898, nel 1930 arrivò a contare oltre 40 mila soci. Fu vietato dai nazisti come tutte le altre società sportive ebraiche, rinacque nel 1970 nella Berlino divisa dal Muro, oggi conta 500 soci, e gioca in una lega cittadina.
  Non tutti i giocatori sono ebrei, mi racconta Ruggero, il patron del Cafè Italia, con una effe, ritrovo degli italiani che vogliono seguire a Berlino in tv le nostre partite. Ci giocava pure lui, finché non si fece male a un ginocchio, e dovette rinunciare a una promettente carriera. Il Makkabi accoglie chiunque, da qualsiasi parte arrivi. Gli stadi si sono trasformati in una zona libera dove tutto è ammesso, non solo in Germania, razzismo e violenza. Non ho mai capito perché se insulto un vigile che mi multa passo, giustamente, un guaio. E invece gli posso rompere il naso durante la partita, e non essere perseguito.
  Nel 2006, durante i campionati del mondo in Germania, mi veniva di continuo chiesto alla radio e in tv se non ero preoccupato per le bandiere tedesche che sventolano negli stadi e per strada, sulle auto ed esposte sui balconi. Fino a quel momento non si osava. Un inquietante ritorno al nazionalismo? Rispondevo che non mi preoccupavo perché loro, i tedeschi, si preoccupavano, mentre in Italia alle partite si sventolavano bandiere con la croce uncinata, e tutti fingevano di non vederle. Paolo Di Canio, giocatore della Lazio, sempre nel 2006 a Livorno si esibì nel saluto fascista, e poi si limitò a chiedere scusa. In Germania avrebbe rischiato di essere sospeso a vita.
  Ma tredici anni dopo la situazione è cambiata, come denuncia Florian Schubert nel saggio Antisemitismus im Fussball - Tradition und Tabubruch (Wallstein Verlag, 488 pag., 39,90 euro), non occorre tradurre il titolo. Per strada gli ebrei che portano la kippah rischiano di venire insultati e picchiati, le aggressioni antisemite aumentano, ma spesso i responsabili sono immigrati islamici. Allo stadio, i colpevoli sono sempre tedeschi, i profughi non vanno a vedere le partite. Ormai, scrive Schubert, è normale durante una partita sentire urlare contro gli avversari «Jude, Jude», il termine ebreo è un insulto, come «sporco negro». Oppure si intona Deutschland den Deutschen, la Germania per i tedeschi, come durante il Terzo Reich. Ma fino a pochi anni fa non si osava, e i vicini sugli spalti avrebbero reagito. Oggi è ridiventato normale? I dirigenti della Federazione Calcio, la Dtb, sono responsabili e complici, denuncia Schubert (il libro è la sua tesi di dottorato, che è obbligatorio venga pubblicata).
  Antisemitismo non solo nei campetti di periferia, ma anche nella Bundesliga, la Serie A, e negli incontri della nazionale. Nel 1994 fu organizzata una partita amichevole contro l'Inghilterra, ad Amburgo, e fu scelta la data del 20 aprile, compleanno di Hitler. Ci furono proteste, e Amburgo, città antinazista anche negli anni trenta, finì per rinunciare. Berlino si dichiarò disposta a ospitare l'incontro, ma a questo punto dissero di no gli inglesi. Il portavoce della Federazione, Wolfgang Niersbach, reagì in modo inconsulto, denunciando «un intollerabile complotto degli ebrei ... ». Secondo lui, la stampa americana che aveva denunciato il fatto «era per l'80% in mano agli ebrei». Nel 2005, a una conferenza internazionale ad Amsterdam sul tema «antisemitismo nello sport», la Dtb non ritenne di dover partecipare. E ancora oggi si trascura di sensibilizzare i club, e le associazioni dei tifosi delle diverse squadre.
  Lo scorso 8 marzo, durante l'incontro tra Union Berlin e Ingolstatd, in serie B, i tifosi berlinesi per 90 minuti hanno insultato il mediano avversario Almog Cohen, «uno sporco ebreo». Un episodio che non si trova nel libro, che era già in corso di stampa.

(ItaliaOggi, 7 giugno 2019)


Gay, sposato e con figli: il ministro che fa la Storia (e soccorre Netanyahu)

Ohana alla Giustizia. Fedelissimo del premier, è il primo omosessuale al governo del Paese

A Gerusalemme
Oltre ai religiosi ha contro i gruppi Lgbt: contestato ieri alla parata arcobaleno
La scelta
Bibi può contare su un appoggio in una difficile fase politica e giudiziaria

di Fiamma Nirenstein

Ha 41 anni, una piccola barba, un faccia molto simpatica, e ha dedicato il suo nuovo incarico al suo compagno «l'amore della sua vita Alon Haddad» un altro bravo ragazzo come lui, e ai loro due bellissimi bambini Ella e David, gemelli di 4 anni avuto da una madre surrogata americana. Insomma alla sua vita normale di nuovo ministro dello Stato d'Israele, il primo apertamente LGTB. Il suo nome, che passa adesso alla storia è Amir Ohana. E molto interessante leggere per intero la sua dedica, fatta «come ebreo, come orientale, come membro del partito Likud, come nativo di Beersheba (nel profondo sud del deserto, ndr), come liberal e come avvocato che ha speso migliaia di ore in tribunale», per il quale «è un grande onore servire come ministro della giustizia».
   Nel pomeriggio di ieri Amir ha partecipato in giacca e cravatta ministeriale a una controversa e difficile manifestazione del Gay Pride a Gerusalemme, accolto da grande entusiasmo da una parte, dall'altra dalla feroce disapprovazione dei religiosi che non mancano mai nella capitale, e infine dall'aggressività scomposta della parte più classica del movimento che non ama le sue posizioni di decisa approvazione, di simpatia, di sostegno decennale per Netanyahu. Gli hanno addirittura gridato «vergogna». È un aspetto collaterale della famosa quanto stupida accusa di «pink washing» che fanno i movimenti gay di sinistra ( che ieri l'hanno contestato al Gay pride» di Gerusalemme) e il mondo arabo a Israele, alle sue leggi e del suo atteggiamento totalmente aperto, fra i più avanzati del mondo nonostante l'opposizione del rabbinato, accusandolo di usare quest'atteggiamento come una foglia di fico sui suoi molteplici peccati contro i palestinesi. Ma questo non impedisce ai palestinesi gay che possono, insieme agli altri arabi e anche iraniani della zona, di cercare rifugio dentro i confini israeliani da persecuzioni crudeli e anche mortali. Ohana, che nella città di Beersheba, patria di mentalità retrograde tipiche del mondo meridionale ed orientale, osò uscire dall'armadio a 15 anni: il suo coraggio non è mai venuto meno nemmeno nel non facile compito di difendere Israele con tutto sé stesso e di essere considerato un conservatore in un ambiente laico. Netanyahu, che laico lo è anche lui, sta sistemando il governo nella prospettiva delle prossime, inaspettate elezioni del 17 di settembre. Si era parlato di quel ministero per un personaggio di estrema destra Bezalel Smotrich dell'Unione dei Partiti di Destra, ma una sua uscita per cui avrebbe usato il portafoglio «per ristorare la legge della Bibbia, come ai tempi di Salomone e di David nello stato ebraico» ha cancellato, fortunatamente, le sue possibilità. L'incarico di Ohana potrebbe durare fino a novembre, ammesso che non venga rinnovato. Questo consente a Netanyahu di contare su un ministro fedele in un periodo difficile per la sua vicenda giudiziaria, e per la possibilità di restaurare la decisione della Knesset nei confronti del restauro della immunità parlamentare cui il premier potrebbe ambire.
   Ohana rimpiazza Ayelet Shaked, una ministra di un piccolo partito che non è stata rieletta alla Knesset e che potrebbe riservare molte sorprese nel futuro fino a diventare una candidata presidenziale: Netanyahu per ora l'ha mandata a casa insieme a altri per liberare posti per il Likud, e incoraggiarlo in una inaspettata guerra che Bibi vuole assolutamente vincere, ancora di più dopo il tradimento di Lieberman. La sua assenza dalla scena cade in un momento molto delicato, tanto che Trump mostra incertezze sul suo «programma del secolo»; i nemici come l'Iran e gli hezbollah, oltre naturalmente ai palestinesi, fanno sentire un clangore di spade più assordante del solito, a nord in Siria, come al Sud a Gaza. Intanto la polizia israeliana ieri è stata tutto il giorno rafforzata in centro mentre i gay marciavano. Un giovane uomo nato da genitori marocchini in questo paese in guerra è stato capace di studiare quello che ha voluto, di sposare il suo compagno gay, di diventare un politico importante e, ohi ohi, persino di scegliere di essere un conservatore dalla parte di Netanyahu. Questa è libertà.

(il Giornale, 7 giugno 2019)


Non riportiamo le ripugnanti foto del ministro della giustizia e del suo “compagno” che “amorevolmente” tengono in braccio due gemelli ricevuti da una “madre surrogata”. Due bambini che al posto di un padre uomo e una madre donna avranno come genitori due padri (uomini?). E’ questo l’occidente laico di cui Israele sarebbe il baluardo? I tempi avanzano, i nodi si avvicinano al pettine, anche per Israele. E Netanyahu sembra davvero aver finito la sua corsa. M.C.


Shtisel, la serie che racconta gli ebrei "ultraortodossi"

di Ugo Volli

 
Li chiamano ultraortodossi, una denominazione che è già una condanna; oppure "i neri", dal colore del loro abbigliamento - un altro soprannome poco simpatico. Li confondono spesso con i nazionalisti che fanno della difesa dello Stato di Israele un dovere anche religioso, mentre la maggior parte di loro sono poco interessati all'esistenza dello Stato e alcuni anzi decisamente contrari, perché credono che solo la volontà divina e non la politica può riportare gli ebrei nella loro terra. Per questo, e per non distrarsi dallo studio dei libri sacri, buona parte di loro rifiuta il servizio militare, suscitando le proteste dei laici.
  Sono i charedim, una parola che significa "timorati" (del Cielo). Della variopinta popolazione ebraica e di Israele costituiscono l'ala più tradizionale, che si sforza non solo di rispettare minuziosamente i precetti biblici, ma anche di mantenere i costumi adottati durante l'esilio, soprattutto in Polonia: la lingua yiddish, i vestiti neri di stile ottocentesco per gli uomini e quelli molto tradizionali e modesti per le donne, l'educazione nelle scuole talmudiche o Yeshivot, la fedeltà a dinastie di rabbini che prendono il nome dalle cittadine dell'Europa orientale dove avevano sede i loro antenati; una religiosità molto sentita, che impregna di sé ogni momento della vita; una convivialità intensa ma assai chiusa, per cui non si fraternizza se non coi membri del gruppo; un'organizzazione sociale basata su famiglie assolutamente tradizionali con tanti figli, in cui hanno un ruolo speciale gli anziani e i capifamiglia. E' un mondo caldo e rassicurante, che cerca di non farsi contaminare dalla modernità sociale e spesso anche tecnologica. Per questa ragione risulta difficile da capire a chi non la condivide e può apparire oppressivo e artificiale. Il dato significativo è che questi gruppi non stanno affatto estinguendosi, come credevano i fondatori laici dello stato di Israele, ma si espandono grazie al loro tasso demografico, ma anche per la loro capacità di coinvolgere ebrei non religiosi.
  E' difficile per un laico israeliano e ancor di più per un europeo capire come si viva in questo ambiente, quali siano le abitudini, i gusti, gli interessi di chi vi vive e perché esso sopravviva alla cultura contemporanea, all'edonismo e al materialismo che lo circondano. Alcuni hanno provato a raccontarlo, come lo scrittore Chaim Potok, ma in ambiente americano (2Danny l'eletto", "Il mio nome è Asher Lev"), e il regista Amos Gitai in maniera assai ostile (Kadosh 1999), ma senza riuscire a rompere davvero la barriera dell'incomprensione. Per questo ha molto colpito il grande successo di una serie israeliana dedicata a questo mondo, intitolata "Shtisel". Essa è iniziata nel 2013 e ha avuto un tale successo nel paese da essere comprata da Netflix e diffusa in tutto il mondo, "Shtisel" è il cognome di una famiglia dei charedim che vive a Gerusalemme. C'è un padre, Reb Shulem, di recente rimasto vedovo, ci sono sua figlia Gitty e il figlio più giovane Akivà, in forte contrasto col padre perché si sente un artista e non sopporta i limiti che deve subire ed è innamorato di una donna che il padre pensa non sia adatta a lui e molti parenti e amici intorno a loro. C'è il rimpianto per la madre morta, la ricerca di combinare un matrimonio per Akivà come si usa fare nell'ambiente, cioè con una scelta fatta dalle famiglie, e non dai fidanzati; c'è il matrimonio di Gitty che invece fallisce; storie della scuola dove padre e figlio lavorano; vicende minori ma curiose come quelle del nipotino che ha trovato un cagnolino e vuol portarlo in casa, suscitando grande sconcerto perché i charedim non sono abituati agli animali domestici, ci sono le vicende quotidiane grandi e piccole di una famiglia che si attiene strettamente alle regole tradizionali e deve risolvere i suoi problemi aderendo a questa cornice, quando occorre consultando i rabbini.
  La serie in Israele ha avuto un successo molto trasversale, è piaciuta ai tradizionali consumatori di fiction, che naturalmente sono per lo più laici; ma si è conquistata anche il pubblico dei charedim, che normalmente evitano l'intrattenimento televisivo, giudicandolo immorale, e questa volta invece sono stati conquistati da una storia in cui si possono riconoscere. Il segreto del successo di "Shtisel" è certamente l'atteggiamento non discriminatorio della narrazione, il suo rifiuto di giudicare la società che descrive. Anche la crisi di Akiva avviene dentro quel mondo, non si spinge mai fino a indurre all'abbandono delle regole. Vi è insomma il tentativo di capire e raccontare un fenomeno religioso molto particolare, quello di un gruppo sociale che in genere senza violenza né aggressività rifiuta ogni compromesso con l'ideologia e i costumi contemporanei. L'altro aspetto che colpisce è la precisione con cui sono raccontati i dettagli della forma di vita ebraica ortodossa, la competenza con cui la storia è ambientata. Guardarla può servire non solo a capire un po' di più gli spesso diffamati charedim, ma anche a vedere in che cosa consiste la vita ebraica in generale, quali sono i suoi riti e le sue regole.

(Vita e Pensiero, Anno 2019, n.2)



Impressioni da Israele. I muezzin suonano più silenziosi

I minareti e i muezzin appartengono all'Oriente, ma - deo gratias! - almeno nelle città turistiche sono diventate molto più riservate. Questa è una delle impressioni positive del viaggio del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana in Israele. 20 anni fa, l'ostello accanto alla Chiesa dell'Annunciazione di Nazareth non poteva essere chiuso al pubblico perché intorno alla chiesa sono state costruite piccole moschee solo per infastidire i cristiani. A Nazareth non ho sentito una sola moschea questa volta, né di giorno né di notte.
   Anche a Gerusalemme non ho più sentito alcun rumore nel centro storico. Per tutto il tempo mi chiedevo cosa fosse successo. Poi ho letto nel foglio informativo dei francescani su un accordo in corso tra lo Stato e le moschee per non far salire il decibel oltre la dignità umana e in questa occasione anche per rimuovere gli antichi e scoppiettanti altoparlanti. Sembra che sia stato fatto davvero. La prima volta che ho visto una moschea a Gerusalemme è stata quella del Monte degli Ulivi. Ora si sentono i richiami alla preghiera in modo sobrio, e ci si sente in Oriente, non più come in una zona di battaglia acustica. Questa considerazione per gli altri esseri umani avrà senza dubbio un effetto molto benefico.

(Römisches Institut der Görres-Gesellschaft, 7 giugno 2019)


Comunita ebraica romana al voto

Sei liste per 135 candidati in lizza. Sono questi i numeri in vista delle elezioni per il rinnovo del consiglio della Comunità ebraica di Roma che si terranno domenica 16 giugno dalle 8 alle 22,30. Rispetto a quattro anni fa, in queste consultazioni ci sono in campo due liste in più: cosa che renderà piuttosto difficile raggiungere il 45 per cento delle preferenze, e dunque la maggioranza dei 27 consiglieri. Ad avere diritto al voto sono circa 9.000 ebrei romani che si recheranno nei seggi dislocati nei vari quartieri della Capitale. Il sistema elettorale prevede che ogni lista presenti un candidato presidente e una lista di candidati consiglieri, eletti secondo un sistema proporzionale.

(Il Messaggero, 7 giugno 2019)


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Elezioni Comunità ebraica di Roma, sei liste e 135 candidati

Sei liste in corsa, per un totale di 135 candidature, alle prossime elezioni della Comunità ebraica di Roma in programma domenica 16 giugno. Ventisette i Consiglieri che saranno eletti.

Prima lista iscritta alla competizione è "Per Israele", guidata dalla presidente in carica Ruth Dureghello. Con lei anche Edoardo Amati, Stefania Astrologo, Vito Anav, Uri Bahbout, Ruben Benigno, Piero Bonfiglioli, Giordana Caviglia, Daniela Debach, Ruben Della Rocca, Barbara Di Castro, Deborah Di Castro, Daniel Di Porto, Roberto Di Porto, Daniel Funaro, Massimo Finzi, Lello Mieli, Alberto Moresco, Claudio Moscati, Giordana Moscati, Alberto Ouazana, Donatella Pajalich, Alex Aaron Pandolfi, Claudio Spizzichino, Angelo Sed e Antonio Spizzichino.

Seconda lista iscrittasi è "Ebrei per Roma", guidata da Giorgio Heller. Al suo fianco Manuela Di Porto, Angelo Sed, Sara Di Segni, Giovanni Cristofari, Rebecca Mieli, Dov Hayem Debach, Giorgia Pavoncello, Angelo Di Segni, Giovanni Di Veroli, Giovanni Di Veroli, Pacifico Moscato, Daniel Pavoncello, Roberto Perugia e Morris Sonnino.

Terza formazione candidatasi è "Dor va dor", guidata da Benedetto Alessandro Sermoneta. In lista anche Isaac Tesciuba, Elia Sassun, Marco Fiorentino, Giordana Guetta, Haim Vittorio Mantin, Amy Hayon, Fabio Mieli, Roberto Saul Carlo Steinhaus, Rachel Pontecorvo, Marco Misano, Marco Pavoncello, Daniel Tesciuba, Amos Tesciuba, Deborah Sabatello, Fabio Cristofari, Alessandro Luzon, Raffaele Rubin, Elisabeth Tesciuba, Enrica Di Veroli, Raffaele Marcheria, Armando Calò e Fabio Tesciuba.

Quarta lista in corsa "Menorah", guidata da Ilan David Barda. In lista anche Dora Anticoli, Ariel Arbib, Massimo Bassan, Massimiliano Boni, Jacopo Castelnuovo, Claudio Della Seta, Daniel Della Seta, Alessandro Di Veroli, Enrico Gattegna, Deborah Guetta, Cesare Roger Hannuna, Gerard Journo, David Meghnagi, Andrea David Mieli, Sandra Mieli, Livia Ottolenghi, Emanuele Pace, Piero Piperno, Fiammetta Segre Tagliacozzo, Tamara Tagliacozzo, David Terracina, Joel Terracina e Sharon Aviva Zarfati.

A guidare "Binah is real" è Daniela Pavoncello, affiancata da Andrea Ajò, Daniel Federico Coen, Lello Della Rocca, Claudia Di Cave, Claudia Fellus, Linda Gean, Sandro Lauder, Saul Meghnagi, Micol Mimun, Giacomo Moscati, Silvia Mosseri, Simona Nacamulli, Margherita Perugia, Marina Sermoneta, Loredana Spagnoletto, Cynthia Spizzichino, Gioia Spizzichino, Sergio Tagliacozzo e Marinella Veneziani.

In corsa anche "Maghen David", guidata da Marco Sed. In lista anche Alberto Piazza Sed, Raffaele Pace, Marco Sed, Simona Di Castro, Barbara Vivanti, Giada Piperno, Dalia Di Veroli, Natania Di Porto, Alessandro Spizzichino, Enrica Di Segni, Angelo Liscia, Aurora Pavoncello, David Buaron, Antonella Di Nepi, Ariel Di Porto, Valerie Di Segni, Colomba Sermoneta, Aldo Di Consiglio, David Vivanti, Martina Spizzichino, Avner Zarfati, Alberta Moscato, Laura Gai, Cesare Piperno, Sandra Calò e Alberto Sermoneta.

(moked, 7 maggio 2019)


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Roma ebraica, le sei liste a confronto

Sono sei le liste in corsa, per un totale di 135 candidature, alle prossime elezioni della Comunità ebraica di Roma in programma domenica 16 giugno.

di Adam Smulevich

Prima lista iscrittasi alla competizione è Per Israele, guidata dalla presidente uscente Ruth Dureghello , che afferma: "Ho deciso di ricandidarmi per senso di responsabilità, per dare continuità ad un lavoro intenso e perché sono cosciente di poter dare ancora molto a questa Comunità". Nei quattro anni passati, prosegue, "abbiamo fatto tanto, intervenendo su diversi aspetti della gestione comunitaria che pensavamo dovessero essere migliorati e rafforzati". Un lavoro "che ha richiesto impegno e dedizione, che oggi sta vedendo i suoi frutti". Anche per questo, sostiene, "una ristrutturazione così importante del sistema di gestione comunitaria non può essere lasciata a metà".
Valori fondanti di Per Israele, prosegue Dureghello, "sono gli stessi di quando Riccardo Pacifici fondò questa lista: siamo dalla parte d'Israele da sempre e lo saremo per sempre; lo siamo stati anche quando qualcuno ce lo rimproverava". Dureghello dichiara inoltre di non credere che possa esistere "una Comunità senza un'identità ebraica forte". Un'identità basata "su educazione ebraica, rispetto della Halakhah e assistenza ai bisognosi". Per questo, sottolinea, "riteniamo la scuola ebraica e i Bate Hakneset imprescindibili". Tra gli elementi che minano la continuità e la stabilità comunitaria indica calo demografico, crisi economica e contesto generale. "Da qui - spiega - la necessità di impegnarci almeno su tre direttrici. La prima, aiutare chi è in difficoltà. Con la Deputazione abbiamo fatto tantissimo, ma ci sono ancora tante famiglie da aiutare. La seconda, dobbiamo tenere la Comunità unita senza dimenticare che questa per esistere deve essere sostenibile da un punto di vista economico. La sfida più urgente però, è pensare al futuro. Pensare alle urgenze non ci può far prescindere da una visione di Comunità per i prossimi 20 anni".

"La mia sensazione è che la Comunità sia troppo statica. Serve invece un maggior dinamismo, e in particolare per quanto riguarda l'offerta scolastica e di assistenza sociale. I fondi europei offrono molte possibilità in questo senso, bisogna saperle cogliere in modo serio e rigoroso". Così Giorgio Heller , a capo della formazione Ebrei per Roma, che rivendica di aver scritto "un programma volutamente sintetico, ma tutto improntato all'innovazione". A tenere insieme i componenti della lista, sostiene, è un principio: "Quella di Roma è una Comunità ortodossa, con solide radici plurimillenarie. Una Comunità inoltre particolarmente vicina allo Stato di Israele e alle sue ragioni. Siamo orgogliosi di questa lunga storia fatta di tradizione, identità, cultura. Qualcosa che ci appartiene e che vogliamo difendere". Tradizione, quindi. Ma anche "necessario ricambio". Per Heller, "checché se ne dica, c'è bisogno di volti nuovi". Perché "è vero che chi ha dato alla Comunità l'ha sempre fatto con il cuore, ma c'è un gran bisogno di portare all'interno del Consiglio esperienze diverse che finora non sono state coinvolte o non hanno vissuto la Comunità al cento per cento". Le loro esperienze, sottolinea, "sono un valore aggiunto". Due quindi i punti cardine del progetto Ebrei per Roma: Memoria e futuro. Afferma Heller: "In un mondo rapidamente globalizzato, attraverso le nuove tecnologie, è giunto il tempo di conquistare nuovi spazi e cercare nuovi fronti di comunicazione con il mondo esterno, sempre nel rispetto imprescindibile delle nostre regole religiose, della nostra identità e della tutela assoluta della nostra Memoria".

Terza formazione candidatasi alle elezioni è Dor va dor, guidata da Benedetto Alessandro Sermoneta . "La nostra - afferma - è una lista che ama pensare collegialmente e che condivide l'idea che le migliori risorse debbano essere messe in condizione di potersi esprimere". Una lista eterogenea "composta da commercialisti, avvocati, imprenditori, dirigenti aziendali", ma anche "da chi vive intensamente la vita comunitaria, sul versante sociale, di assistenza e sportivo". Sermoneta stesso ha all'attivo anni di lavoro nella Deputazione ebraica e quindi la vita comunitaria, spiega, "l'ho vissuta in quest'arco di tempo nella sua parte più complessa". L'idea condivisa con gli altri membri di Dor va dor è di "un maggiore orientamento del volontariato" e di un lavoro da svolgersi su due ritmi: una gestione ordinaria, ma anche una vision futura ispirata alla domanda: "Cosa sarà di questa Comunità nei prossimi anni?".
Tra le aree di intervento individuate, un supporto concreto ai giovani che permetta loro di non perdere una relazione con la Comunità dopo aver completato il percorso di studi alla scuola ebraica o la loro esperienza nei movimenti giovanili e un loro più agevole ingresso nel mondo del lavoro. Sul versante organizzativo, secondo Sermoneta serve che "la Comunità di Roma, ma direi poi in fondo tutte le Comunità, digitalizzino le loro attività". Diventa quindi necessario, aggiunge, "creare un sottofondo di strumenti tecnologici che possano aiutare i processi decisionali". Apparentemente non la cosa più urgente da fare, conclude, "ma nel medio-lungo termine darà senz'altro i suoi frutti".

"Sono da sempre attivo nel volontariato, per me questa è la naturale prosecuzione di un impegno che svolgo da diversi anni. Mi metto in discussione anche per dare un futuro ai miei figli". Così Ilan David Barda , dal 2016 presidente della Casa di riposo, che guida la formazione Menorah. Una lista, afferma, "caratterizzata da persone con un'alta professionalità che hanno l'ambizione di aggregare parti significative di Comunità che si sono allontanate". Queste, secondo Barda, alcune parole chiave della lista che guida: accoglienza, solidarietà ed educazione. "Il nostro sforzo deve essere rivolto in prima istanza verso le fasce più deboli e verso i nostri giovani: in questa prospettiva - sostiene - intendo rafforzare la scuola, portandola a un livello qualitativo più alto. E ciò anche attraverso l'innesto di nuove forme di collaborazione internazionale". Altra sfida in questo ambito "il coinvolgimento dei giovani nelle attività di volontariato" e "un concreto sostegno da parte nostra al loro ingresso nel mondo del lavoro". Tra le questioni che Barda intende mettere al centro anche l'implementazione di un progetto per favorire l'accesso a prodotti casher a prezzi più contenuti e un approccio "più consapevole" al tema delle conversioni. Tra i temi ritenuti meno urgenti, ma che intende comunque affrontare nel corso del mandato, "un approfondimento su potenziali conflitti di interesse in essere, affinché vengano chiarite meglio le singole posizioni". E inoltre la formazione del personale comunitario affinché "attraverso una migliore conoscenza di lingue e strumenti tecnologici" sia in grado di intervenire "in modo più incisivo".

"Vogliamo continuare a fornire il nostro contributo in Comunità, perché nei quattro anni appena trascorsi, in più di un'occasione, abbiamo dimostrato capacità di mediazione, rispetto e analisi delle diverse posizioni senza pregiudizi aprioristici, con proposte innovative, impegno, dedizione e professionalità messe a disposizione con spirito di squadra". Lo afferma Daniela Pavoncello , ex assessore UCEI e candidata alla presidenza di Binah is real.
"I nostri valori fondanti - dichiara - si basano essenzialmente sulla condivisione, sulla solidarietà, sull'accoglienza. E l'impegno per il volontariato, coinvolgendo soprattutto i giovani, e l'identità ebraica". Tra i progetti realizzati in passato Pavoncello ricorda "Educazione al dialogo" e "La diversità e la gestione del conflitto". Progetto quest'ultimo che, afferma, "è stato adottato da tutte le scuole ebraiche italiane con l'obiettivo di trasmettere e insegnare il valore della differenza, pilastro dell'etica ebraica". Tra le sfide più urgenti segnala un lavoro sulla scuola "in quanto sede naturale per la formazione iniziale e continua dei nostri giovani". Un'altra priorità "sono i giovani e il lavoro, ma anche il sostegno a chi vive ai margini, attraverso un lavoro a stretto contatto con la Deputazione e gli organismi pubblici territoriali". Inoltre lotta all'antisemitismo e sforzo per far conoscere la "realtà socio-politica israeliana e la sua avanguardia culturale scientifica". Occhio inoltre al bilancio. "Bisogna - sostiene Pavoncello - ripartire e cercare di ottenere ulteriori risultati". Al riguardo ricorda che Binah "si è impegnata in questi anni per mettere a punto una riforma sul sistema dei tributi che garantisse equità e trasparenza che va ora messa in atto".

"Prima con Yachad, poi con Efshar, quindi con Israele siamo noi. Nomi diversi, ma garanzia assoluta di qualità. Siamo al centro della vita comunitaria da molti anni. Forse meno appariscenti di altri, però fondamentali per la concretezza e le professionalità che portiamo all'interno del Consiglio e della Giunta". Così infine Marco Sed , assessore al Culto uscente e leader di Maghen David. "La lista, anche in questa tornata, si avvale di persone che amano fare, essere d'aiuto, mettersi al servizio della collettività. Una lista - afferma Sed - che è composta da mondi molto diversi con un progetto comune: da religiosi come il sottoscritto e da chi invece lo è meno. Tanti i giovani inoltre, cui vogliamo dare la possibilità di assumersi delle responsabilità. Uno spettro ampio di proposte, nel segno di valori irrinunciabili, di amore per la Comunità e di competenze marcate che vogliamo far valere". Tra i risultati rivendicati dello scorso mandato l'aver fatto risparmiare "ben 80mila euro l'anno al culto, per tre anni: risorse dirottate per sanare i bilanci dell'ospedale israelitico e che oggi vorremmo mettere in circolazione per raggiungere altri obiettivi" e l'aver valorizzato "un giovane Maestro di talento come rav Jacov Di Segni". Sed sottolinea in particolare "l'ottimo lavoro svolto dall'assessore Alberto Piazza o Sed sul patrimonio in termini di valorizzazione e di ristrutturazioni, un lavoro che garantirà per i prossimi anni un miglior suo utilizzo e maggiori rendite". L'obiettivo di Sed è di riportare a Roma alcuni rabbini che oggi esercitano altrove e di realizzare un Eruv anche nella Capitale. "Un bisogno avvertito da molti come urgente. E un risultato che, se raggiunto, garantirebbe anche un ritorno economico davvero significativo".

(moked, 7 giugno 2019)


Sventata da Israele una manovra di Hamas

ROMA - L'esercito israeliano ha sventato un tentativo da parte del movimento palestinese Hamas di introdurre nella Striscia di Gaza materiale per la costruzione di razzi lo scorso 11 maggio. Lo rivela oggi l'Esercito, spiegando che nel corso dell'operazione sono stati arrestati quattro sospetti che cercavano di rompere il blocco e raggiungere l'Egitto attraverso due barche. I sospettati cercavano di raggiungere la penisola del Sinai per prendere 24 fusti di fibra di vetro. Secondo l'Esercito, questo tipo di materiale, di cui è vietata l'importazione nell'enclave, sarebbe stato poi utilizzato per costruire razzi. Il presunto tentativo di traffico di materiale sospetto è avvenuto circa una settimana dopo l'escalation di violenza tra Gaza e Israele avvenuta all'inizio di maggio. Lo scorso 3 maggio, infatti, e per i due giorni successivi da Gaza sono stati lanciati oltre 700 razzi in Israele.

(Agenzia Nova, 7 giugno 2019)


Bahrein, i maggiori organismi finanziari mondiali parteciperanno alla conferenza palestinese

MANAMA - Organismi finanziari globali, tra cui il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale, saranno presenti ad una conferenza sull'economia palestinese organizzata dagli Stati Uniti, prevista a fine giugno a Manama che l'amministrazione del presidente Donald Trump ha lanciato come un'apertura al suo piano di pace. L'efficacia dell'incontro del 25-26 giugno in Bahrein è stata messa in dubbio dal momento che i leader politici e gli imprenditori palestinesi hanno deciso di non partecipare. Le recenti elezioni di Israele, un aumento dei combattimenti transfrontalieri e il risentimento dei palestinesi al riconoscimento di Gerusalemme da parte degli Stati Uniti come capitale di Israele si aggiungono al complicato scenario. Tuttavia, l'Fmi, che opera in Cisgiordania e Gaza dal 1995, ha confermato la sua presenza, e altre istituzioni saranno presenti nella capitale del Bahrein, Manama. Il consigliere della Casa Bianca, Jared Kushner, ha concluso questa settimana un viaggio in Medio Oriente e in Europa, finalizzato in parte a sostenere la conferenza "Peace for Prosperity" per svelare la parte economica del piano di pace di Trump per risolvere il conflitto israelo-palestinese.

(Agenzia Nova, 6 giugno 2019)


Israele, Nechama Rivlin sepolta tra i Grandi della Nazione

di Alessandra Boga

Si è svolto mercoledì 5 giugno, in Israele, il funerale di Nechama Rivlin, moglie del presidente Reuven Rivlin. La first lady israeliana, spentasi martedì a 74 anni dopo una lunga malattia, è stata sepolta tra i Grandi della Nazione nel cimitero del Monte Herzl di Gerusalemme, ha riferito l'ANSA.
Alle esequie erano presenti le più alte autorità del Paese, tra cui il primo ministro Benjamin Netanyahu (che per primo aveva espresso le condoglianze al capo dello Stato), il presidente della Knesset Yoel Edelstein, i due rabbini capo ed il capo di Stato maggiore Aviv Cochavi.
Numerosi i messaggi di cordoglio giunti al presidente Rivlin, sia da parte di altri capi di Stato (tra cui Donald Trump) che da comuni cittadini, i quali hanno reso omaggio alla salma della first lady esposta in un teatro di Gerusalemme.

(al maghrebiya news 24, 6 giugno 2019)


Venezia: per i 90 anni di Anne Frank il 12 giugno pubblica lettura del "Diario"

Il 12 giugno 2019 Anne Frank avrebbe compiuto 90 anni. Arrestata e deportata, è invece morta di tifo nel febbraio 1945 a soli 15 anni nel lager di Bergen-Belsen. Ebrea tedesca, Annelies Marie Frank detta Anne si è rifugiata con la famiglia ad Amsterdam, nel tentativo di salvarsi dalle persecuzioni della Germania nazista. Lì per due anni scrisse un diario, divenuto simbolo della Shoah.
   Matteo Corradini, ebraista e scrittore, ha curato per BUR Biblioteca Universale Rizzoli una nuova versione del Diario. "I numerosi approfondimenti finora inediti, la preziosa traduzione dall'olandese di Dafna Fiano, la straordinaria testimonianza di Sami Modiano - che nella prefazione ripercorre per noi la dolorosa esperienza del campo - offrono a questa edizione autorevolezza, forza e una ritrovata freschezza. Da queste pagine la voce di Anne parla ai contemporanei schietta e cristallina come non mai, riaccende la memoria e la prolunga nel presente" spiega Corradini.
   Mercoledì 12 giugno 2019, giorno del suo compleanno, Anne verrà ricordata attraverso un evento-maratona pubblico e gratuito, trasmesso per intero in diretta web e aperto a tutti: a partire dalle ore 10 di mattina, dopo i brevi saluti istituzionali, 90 persone leggeranno integralmente e pubblicamente il Diario in Campo di Ghetto Nuovo a Venezia, luogo suggestivo e simbolico insieme che diverrà per l'intera giornata un luogo di ascolto e racconto.
   Se vuoi donare il tuo tempo e la tua voce per la lettura integrale del Diario, diventare una candelina sulla torta di compleanno di Anne, puoi far parte del gruppo di 90 voci per Anne Frank, che il 12 giugno leggeranno le 483 pagine del Diario, dandosi il cambio ogni 5-6 pagine. 90 lettori come 90 sono gli anni che compirebbe Anne se non fosse stata uccisa in un lager nazista. Per partecipare compila il form.
   L'evento è progettato dallo scrittore Matteo Corradini e organizzato insieme a Consiglio d'Europa - Ufficio di Venezia, Associazione Figli della Shoah, Museo Ebraico e Comunità Ebraica di Venezia, Università Ca' Foscari, con il supporto di Rizzoli Editore.

(Bet Magazine Mosaico, 6 giugno 2019)


"Dalla Siria si prepara il nuovo conflitto tra Israele e Iran". L'intervista all'Ammiraglio De Giorgi

"Sempre più il conflitto Arabo-Israeliano e quello Siriano si legano in un gioco più grande regolato da alleanze fluide dove l'odio del mondo arabo per Israele impallidisce se paragonato a quello che divide sciiti e sunniti nel mondo mussulmano". A parlare è l'ammiraglio Giuseppe De Giorgi, ex Capo di Stato Maggiore della Marina Militare.

di Daniele Piccinin

Ammiraglio Giuseppe De Giorgi
- Ammiraglio De Giorgi, che idea si è fatto della situazione siriana?
La Siria, che già da sette anni è martoriata da una guerra civile, è diventata un "laboratorio" nel quale si manifestano coalizioni e giochi di potere che sembrano rappresentare il futuro nelle nuove relazioni internazionali nell'epoca di Trump e di Putin.

- Ci sono segnali che possono prefigurare una Guerra Fredda 2.0?
  Mai, da decenni, la situazione internazionale è stata più tesa. C'è chi dice che sia tornata la guerra fredda. In effetti i due maggiori contendenti e i loro alleati stanno già combattendo, ad esempio in un teatro di guerra angusto e confuso come quello Siriano. Vi è però una differenza fondamentale. Nella guerra fredda l'ideologia giocava un ruolo fondamentale. Da un lato c'erano le democrazie occidentali che si riconoscevano nel capitalismo, dall'altro dittature che si ispiravano al modello marxista-leninista o almeno che dichiaravano di esserne l'incarnazione.

- Pensavamo fosse superata la fase del "due blocchi" contrapposti, invece…
  Due blocchi contrapposti che con i rispettivi stati clienti si dividevano il mondo in due blocchi ben riconoscibili. Le guerre si sviluppavano sulla cerniera dei due mondi, penso a Vietnam, Africa, Nicaragua. Oggi la situazione è assai più complessa, anche se è ancora riconoscibile la divisione del mondo stabilita a Yalta. Certamente si è fermata l'ondata espansiva Usa negli spazi soggetti all'Urss, che la Russia di Putin sta progressivamente rioccupando, vedi Crimea, Siria, Ucraina. In alcuni teatri, gli Stati Uniti giocano addirittura la propria partita con la Russia. Un esempio è la Libia, dove Trump ha abbandonato la linea dell'Onu per sostenere il Gen. Haftar protégée della Russia, vicino agli Arabo Sauditi e agli Egiziani, senza riguardo alcuno per gli interessi di uno dei suoi più fedeli alleati: l'Italia, a cui, in teoria, gli Usa avevano affidato il dossier Libia.

- Non crede che il conflitto siriano sia sfuggito di mano alle grandi potenze mondiali?
  Dopo Obama, anche in Siria gli Usa di Trump hanno sostanzialmente accettato di lasciare alla Russia di dettare la linea in Siria. La Francia è più attiva che mai, mentre la Gran Bretagna sembra in ritardo, appannata dalla Brexit e dalla peggiore classe dirigente della sua storia. L'Iran gioca da protagonista estendendo la sua influenza addirittura su una sponda del Mediterraneo. Caduto l'Iraq di Saddam, rimane solo l'Arabia Saudita a ostacolarne le mire espansive. Sempre più il conflitto Arabo-Israeliano e quello Siriano si legano in un gioco più grande regolato da alleanze fluide dove l'odio del mondo arabo per Israele impallidisce se paragonato a quello che divide sciiti e sunniti nel mondo mussulmano.

- Perché ritiene che dalla Siria possa partire un conflitto tra Israele e Iran?
  Nella notte tra l'8 ed il 9 aprile, due F-15 hanno attaccato la base militare T4 in Siria causando la morte di almeno 12 militari. Incerta inizialmente la nazionalità dei due velivoli, solo pochi giorni dopo è stata confermata ai media direttamente dagli alti esponenti militari israeliani che hanno deciso l'attacco. Secondo fonti israeliane, infatti, la presenza militare di Teheran in Siria ammonta ad almeno 15mila militari e pasdaran cui si aggiungono 10mila Hezbollah libanesi e circa 50mila miliziani sciiti iracheni, afgani e pakistani. Il disegno iraniano sarebbe di espandere la propria influenza di potenza sciita a Iraq, Siria e Libano, circondando di fatto Israele da una tenaglia Iraniana.

- Quello messo in campo dalle forze israeliane è il cosiddetto attacco preventivo, Giusto?
  L'intelligence israeliana sa che gli iraniani stanno usando il territorio siriano, e la cortina fumogena del conflitto civile, per passare armi al "partito" libanese Hezbollah. Sempre secondo il Mossad, quelle armi saranno usate contro Israele quando il conflitto coi libanesi si riaprirà, fattore dato quasi per certo dalla maggior parte degli analisti israeliani e molti studiosi ed esperti della regione. Teheran starebbe così sfruttando la Siria, e il sostegno dato al presidente Bashar el Assad nel mantenere il potere, per trasformare il Paese in una piattaforma militare strategica in mezzo a Israele e Arabia Saudita. Aiutati in questo dalla Russia che vede con favore il ridimensionamento nel Mediterraneo dell'influenza Saudita, troppo vicina agli Usa.

- Dobbiamo prepararci ad un nuovo conflitto in medioriente?
  Solo pochi giorni fa intanto il parlamento israeliano ha approvato una legge che garantisce al primo ministro Benjamin Netanyahu, previa la sola consultazione con il ministro della Difesa, di ordinare un attacco militare senza dover passare dal governo come richiedeva invece la legge esistente che necessitava l'unanimità di voti da parte dell'esecutivo per poter portare Israele in guerra. Una legge controversa e destinata ad esacerbare ulteriormente le crescenti tensioni con l'Iran. Intanto sulle prime pagine dei maggiori quotidiani e siti web israeliani si susseguono le analisi degli strateghi militari, convinti che la questione non sia più "se" ma "quando, come e dove" si concretizzerà il confronto armato tra lo Israele e l'Iran. La minaccia dell'Iran di chiudere Hormuz, qualora si concretizzasse, potrebbe essere il detonatore di una crisi di portata assai più grande e gravida di conseguenze difficili da prevedere ma che vedrebbe con ogni probabilità chiamare in causa direttamente gli Stati Uniti d'America e i suoi alleati.

(labparlamento, 6 giugno 2019)


Israele crea grande struttura di intelligence sul Golan per controllare Hezbollah

Sul versante siriano del Golan Hezbollah sta cercando di creare una vera e propria struttura militare permanente. Per sventare la minaccia è stata creata una delle più grandi strutture di intelligence dello Stato Ebraico.

È una delle più grandi strutture di intelligence dello Stato Ebraico quella appena nata al confine tra Israele e Siria, sulle alture del Golan.
Si tratta di uno sforzo congiunto tra l'intelligence delle IDF e il Mossad, una struttura che ha a disposizione le migliori tecnologie disponibili per il controllo in tempo reale di ogni movimento sospetto al di la del confine siriano.
Ma l'obiettivo principale di questa nuovissima struttura non è tanto controllare i movimenti dell'esercito siriano, quanto piuttosto quelli di Hezbollah.
Infatti è stato appurato che l'esercito siriano sta giocando decisamente sporco. Secondo gli accordi dei quali si è fatta garante la Russia, l'esercito siriano - e nessun altro - avrebbe dovuto prendere il controllo delle aree di confine con Israele nel Golan....

(Rights Reporters, 6 giugno 2019)


«L'ebraismo come scienza»

Giuseppe Veltri e Libera Pisano, “L'ebraismo come scienza”, Paideia, 158 pp., 32 euro.

di Vincenzo Pinta

L'editore torinese Paideia, quale secondo titolo della collana "Biblioteca di cultura ebraica italiana" (guidata da Giuseppe Veltri), ha dato alle stampe uno dei capisaldi dell'emancipazione ebraica tedesca ottocentesca (e non solo). Pur trattandosi di un tema specialistico e di una pubblicazione rivolta prevalentemente ai cultori di storia e filologia ebraiche, l'antologia di testi di Leopold Zunz (1794-1886) permette al pubblico italiano non solo di entrare a contatto col dibattito ottocentesco della Wissenschaft des Judentums ("Scienza dell'ebraismo o ebraismo come scienza"), ma anche e soprattutto di comprendere le ragioni profonde di un'opera etica e politica. I curatori hanno scelto otto testi. La statura intellettuale di Zunz, variamente definito come "storico antiquario" (Jost) o "Lutero ebraico" (Ehrenberg), traspare nitidamente dall'affiato etico delle sue lotte pedagogiche e politiche per la riforma religiosa dell'ebraismo tedesco e per il suo inserimento nella cultura "gentile", attraverso quella che si può definire la sua "umanizzazione". Che cosa significa "umanizzare" una cultura/civiltà come quella ebraica in un contesto chiaramente "alieno" (e alienante)? Né assimilazione, né integrazione, termini che richiamano due visioni opposte e tuttavia analoghe della politica identitaria. Se è vero che l'assimilazione intende imporre il modello sul diverso e l'integrazione far spazio nel modello al diverso, lo è altrettanto che nemmeno l'orizzontalità del multiculturalismo può essere ritenuto l'orizzonte di Zunz. Sarebbe antistorico, inutile e deleterio all'estensione dell'umanità, che infatti è un termine (oggi spesso abusato nel dibattito pubblico) che dovrebbe riscoprire il suo senso più profondo nelle cose. Umanizzare significa elevare internamente una comunità e un gruppo, senza tradire il "patto sinaitico". Non significa imporre la crescita dall'esterno, ma attivarla dall'interno. Questo fu ciò che Zunz cercò di fare: "Rispolverare" l'immenso patrimonio culturale dell'ebraismo per avviare la crescita interiore degli ebrei come "uomini". Se l'Ottocento conobbe la "nazionalizzazione parallela" degli ebrei, forse il nuovo millennio potrà conoscere la "cittadinanza parallela" delle altre culture, che devono e possono contribuire alla crescita delle istituzioni europee. Tutto questo non certo erigendo muri o abbattendoli, ma capendole storicamente. Ecco che la pubblicazione di classici delle religioni (come il Talmud in italiano, per esempio) può avere un significato (oltre che un senso). A condizione però, come insegna Zunz, che questi testi servano a radicare anzitutto le comunità di appartenenza nella propria storia.

(Il Foglio, 6 giugno 2019)


Nominato da Netanyahu il ministro della giustizia

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha nominato, mercoledì sera, ministro della giustizia il parlamentare Amir Ohana, che prende il posto di Ayelet Shaked (destituita dopo che non è stata rieletta). Ohana è il primo membro dichiarato della comunità LGBT a ricoprire un ruolo di primo piano nel governo israeliano. "Come ebreo, come israeliano, come partner dell'amore della mia vita Alon Haddad, come padre di Ella e David, come mizrachi (ebreo mediorientale ndr), come membro del Likud, come residente di Beersheva, come liberale e come avvocato che ha trascorso migliaia di ore in tribunale, è per me un grande onore servire Israele come ministro della giustizia", ha dichiarato Ohana.

(israele.net, 6 giugno 2019)


Forse è questo il segnale più alto dell’inizio della fine di Netanyahu. M.C.


Il villaggio tedesco in Israele

Tibi: "La vita ebraica è in pericolo in Europa". E in Israele una scuola si riempie di ragazzi dalla Germania

di Giulio Meotti

ROMA - "La vita ebraica è in pericolo in Europa, gli ebrei lasciano". Queste parole, appena pronunciate di fronte al Parlamento austriaco, sono arrivate da Bassam Tibi, il sociologo nato a Damasco e che vive in Germania dal 1962, dove ha studiato a Francoforte con due giganti come Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, che al tempo del nazismo ripararono in America. Ai parlamentari di Vienna, Tibi ha detto che l'antisemitismo contemporaneo "spesso appare come una critica a Israele, personificato come l'ebreo mondiale che deve essere spazzato via". "Dobbiamo combattere l'antisemitismo islamico", ha continuato Tibi, che ha criticato il paragone tra islamofobia e antisemitismo, liquidandolo come "pura ideologia" e si è lamentato che a parlare di antisemitismo islamico "corri il rischio di essere etichettato come islamofobo".
   Che la vita ebraica fosse in pericolo in Europa ce lo ha appena ricordato il caso tedesco. Nei giorni scorsi, per la prima volta un ufficiale del governo tedesco, il delegato alla lotta all'antisemitismo Fritz Klein, ha invitato gli ebrei del suo paese a nascondere la kippah in pubblico a causa delle aggressioni. La situazione è seria. Il centro non governativo per la ricerca e l'informazione ha registrato 1.083 episodi antisemiti a Berlino lo scorso anno.
   Un programma israeliano sta portando fuori dal paese tantissimi ragazzi tedeschi. Si chiama "Naale", in ebraico sta per "gli adolescenti emigrano prima dei genitori". E' un programma sotto la guida del Ministero dell'Istruzione israeliano e dell'Agenzia ebraica: prima partono i giovani, poi seguono i genitori. Ogni anno, circa 700 giovani ebrei emigrano in Israele con "N aale" e il loro numero sta aumentando. Dalla Germania, in cinquanta sono partiti negli ultimi mesi. Il quotidiano Welt in edicola ieri è andato a vedere dove vivono. Ed è stato un déjà vu per la Germania.
   "Negli ultimi mesi qui la questione della ricezione della gioventù ebraica sta diventando sempre più urgente". Sono le ultime righe di una lettera scritta nel 1938 da Ben Zion Mosenson, direttore della prima scuola di grammatica ebraica di Tel Aviv, che perorò l'uscita degli ebrei dal paese sotto il nazismo. Su sua iniziativa, nel 1941, vicino a Tel Aviv, fu costruito un collegio per giovani emigrati mandati nell'allora Palestina mandataria dai genitori. Il "villaggio dei giovani", ora intitolato a Mosenson, serve ancora a questo scopo oggi. E ottant'anni dopo che Mosenson ha scritto quella lettera, i giovani ebrei dalla
   Germania emigrano sempre più in Israele. E il loro numero potrebbe più che raddoppiare nel prossimo anno scolastico. "Mai prima d'ora abbiamo avuto così tante richieste dai paesi di lingua tedesca", afferma la preside Haya Belhassan. Michael, Emil e Ludwig passeggiano tra i banani del Mosenson. I nomi dei tre non sono pubblici secondo le linee guida del Ministero dell'Istruzione israeliano: "Non vogliamo che cose brutte accadono alle loro famiglie solo perché i loro figli sono emigrati in Israele", afferma Belhassan. "L'antisemitismo era di routine", dice Ludwig. Il fratello maggiore era già andato in Israele e oggi è nell'esercito. Ai ragazzi tedeschi Israele paga il volo, l'istruzione, l'alloggio e l'assicurazione sanitaria. Per Emil e Michael, la Germania è lontana: "Sto lentamente dimenticando il mio tedesco". Anche Evelyn Mende vuole andare al Mosenson: "I giovani ebrei non hanno futuro in Germania. Per me era normale al liceo mettere la stella di David sotto i vestiti e i ragazzi indossano berretti da baseball sopra la kippa". E al Mosenson si trova lo studente berlinese di cui ha parlato la stampa anche italiana e che nel suo liceo berlinese venne aggredito in quanto ebreo. E' Liam Ruckert, I suoi compagni vengono anche dall'Italia, dalla Francia e dai Paesi Bassi. "Da ebreo era insopportabile rimanere in Germania". "Il prossimo passo sarà di nascondere la stella di David", ha scritto sulla Deutsche Welle Michael Friedman, già vice-presidente del Consiglio degli ebrei in Germania, in risposta all'invito a celare la kippah. "In futuro, dovrei consigliare ai miei figli di nascondere la propria identità ebraica? Seguendo il consiglio di Klein alla lettera, allora vivere in modo visibile come ebreo non è più sicuro in Germania. Essere invisibili è sicuro. Puoi essere solo un ebreo a porte chiuse in Germania? Se è così, la vita ebraica in Germania non ha futuro". E' quello che pensava Mosenson nel 1938 e che pensano oggi tanti di quei ragazzi, i profughi dell'antisemitismo europeo.

(Il Foglio, 5 giugno 2019)


La sinagoga "riapre" dopo 1.650 anni

Nozze ebraiche nei resti dell'antica Scyle, risalente al IV secolo dopo Cristo

Felice Manti

Nozze ebraiche nei resti dell'antica Scyle
Le lancette della storia ieri in Calabria sono tornate indietro di 1.650 anni. Tanti nel sono passati dall'ultimo matrimonio di rito ebraico fino a ieri, quando due ragazzi hanno deciso di giurarsi eterno amore secondo il rito del nissuìn, la cerimonia del matrimonio ebraico, dentro il Parco archeologico ArcheoDeri di Bova Marina (Reggio Calabria), in quella che si ritiene l'antica Scyle (con diverse varianti toponomastiche come Scillàca o Scilliàca), località di passaggio tra Taranto e Reggio Calabria.
   A officiare diversi rabbini (Ezra Raful, Rav Momigliano, Elia Richetti, Gad Fernando Piperno), sindaci, studiosi, giornalisti e ovviamente amici della coppia, Roque e Ivana, che hanno avuto l'idea di sposarsi in Calabria.
   La sinagoga ArcheoDeri risale almeno al IV secolo e in Occidente è seconda solo a quella di Ostia Antica (I secolo). Negli anni Ottanta, quando venne alla luce, venne identificata come una villa romana, poi si è scoperta un'antica necropoli e il parco ha iniziato a dischiudere i suoi preziosissimi tesori. Un grossa anfora e una brocca infossata nel pavimento e dentro uno scrigno con 3.070 monete bronzee, parecchie anfore d'argilla di manifattura ebraica e soprattutto un mosaico che rappresenta i principali simboli giudaici: la menorah (il candelabro a 7 bracci), lo shoffar (il corno d'ariete), il cedro e, il ramo di palma e il nodo di Salomone.
   I rapporti tra la Calabria e Israele si confermano antichissimi. Secondo la leggenda la stessa Reggio Calabria fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé. La prima opera in ebraico con indicazione di data certa venne stampata proprio a Reggio Calabria: si tratta di un commentario al Pentateuco di Shelom ben Yshaq stampato da Abraham ben Garton a Reggio «nel mese di Adar dell'anno 5235 della creazione del Mondo», vale a dire tra il febbraio e il marzo del 1475, scoperto dal bibliografo e orientalista piemontese Giovanni Bernardo De Rossi che nel 1816 lo avrebbe ceduto a Maria Luigia d'Austria, duchessa di Parma, dove adesso si trova conservato anche se da settimane si parla di un possibile ritorno dell'incunabolo di 115 pagine in riva allo Stretto.
   Piccoli segnali di pace in un periodo difficile per la comunità ebraica in Italia e in Europa, stretta tra rigurgiti antisemiti e minacce jihadiste.

(il Giornale, 5 giugno 2019)


Hamas: vogliamo ripristinare i rapporti con Assad

Lottare assieme contro 'l'Accordo del secolo' di Trump

GAZA - Dopo una rottura di diversi anni, iniziata con la 'Primavera araba', Hamas cerca adesso di ristabilire relazioni col regime di Bashar Assad in Siria. "Fra noi e la Siria - ha detto un dirigente di Hamas, Ismail Radwan - non c'è alcuna ostilità. Dobbiamo ripristinare relazioni corrette per far fronte all''Accordo del secolo' (elaborato dal presidente Usa Donald Trump, ndr) che arreca danno sia alla Siria sia alla causa palestinese".
Secondo la stampa locale, Assad per il momento mantiene un atteggiamento rigido perche' anni fa, sotto la guida di Khaled Mashal, Hamas trasferì i propri uffici centrali da Damasco al Qatar. Nel frattempo però la leadership di Hamas è passata nelle mani di Ismail Haniyeh, Yihya Sinwar e Saleh al-Aruri.
Quest'ultimo, secondo i media, ha incontrato di recente un generale siriano vicino ad Assad. Un'opera di mediazione fra le parti, secondo i media, viene inoltre svolta anche dall'Iran e dagli Hezbollah.

(ANSAmed, 5 giugno 2019)


La blogger che ha ingannato la Shoah. «Non ha parenti morti ad Auschwitz»

Rivelazione dello «Spiegel»: Marie-Sopbie Hingst, premiata come giornalista dell'anno, si era inventata lo sterminio di 22 familiari


Roberto Fabbri

 
Marie-Sopbie Hingst
Ventidue parenti ebrei sterminati ad Auschwitz e in altri campi dell'orrore nazisti. Solo una nonna sopravvissuta di un'intera grande famiglia cancellata dall'odio antisemita. E lei, una giovane storica poco più che trentenne con studi a Berlino, Lione e Los Angeles - più un dottorato al Trinity College di Dublino in Irlanda - destinata a raccogliere le loro storie dimenticate in un blog di grande successo e a registrarle debitamente presso lo Yad Vashem, il memoriale ufficiale dell'Olocausto in Israele. Una storia toccante e di successo: peccato che fosse inventata. E adesso Marie-Sophie Hingst sta cominciando a pagare il prezzo della sua fantasia davvero troppo fervida.
   La dottoressa Hingst aveva cominciato nel 2013 a trascrivere in un blog intitolato «Continua a leggere, mio caro, continua a leggere» i ricordi che la sua nonna ebrea le avrebbe trasmesso. Storie terrificanti e vivide, ricche di particolari drammatici sulla vita e sulla morte ad Auschwitz e in altri lager nazisti. Storie che Marie-Sophie, dotata di un brillante talento per il racconto, aveva saputo rendere così bene da conquistarsi l'attenzione di 250mila lettori. La giovane storica non si era limitata a questo: dopo aver condotto (così affermò) anni di ricerche d'archivio, nel 2013 prese un volo per Israele e si recò allo Yad Vashem per far registrare i nomi di 15 suoi parenti presuntamente sterminati nell'Olocausto. In seguito, per buona misura, inviò i nomi di altre sette persone per posta elettronica.
   Tanto zelo le valse nel 2017 il premio di blogger dell'anno della Golden Blogger, il già citato dottorato in Irlanda e una fama crescente. Tanto che la dottoressa Hingst cominciò a scrivere - sotto pseudonimo - sul rispettato settimanale Die Zeit e a presiedere eventi dedicati all'Olocausto tenuti a Berlino. Una collega esperta di genealogica, però, cominciò ad avanzare dei dubbi, seguita da altri scettici e spingendo la Hingst a contrattaccare, dicendosi vittima di pregiudizi ostili. La dottoressa Gabriele Bergner, però, aveva ragione: facendo quello che indubbiamente si sarebbe dovuto fare subito, cominciò a scavare nella storia familiare della blogger e mise a nudo le sue bugie. La famosa nonna ebrea non era mai esistita: si chiamava Helga Brandi, aveva fatto la dentista, era cristiana e aveva sposato un pastore protestante di nome Rudolf Hingst.
   Queste imbarazzanti menzogne sono costate alla fantasiosa storica tre conseguenze, queste sì, tombali: la chiusura del suo sito web, il ritiro del premio cui tanto teneva e la comunicazione allo Yad Vashem degli opportuni aggiornamenti sulla storia della sua famiglia. Nel frattempo, a valanga, sono emerse altre invenzioni ascritte alla Hìngst, tra cui la fondazione di un ospedale per i poveri di Delhi in India e una meritoria quanto mai avvenuta attività di consulenza a favore degli immigrati siriani in Germania su come comportarsi nei rapporti con le donne tedesche. Il suo legale ha tentato un salvataggio fuori tempo massimo, sostenendo che l'opera della giovane storica fosse «letteratura, e non giornalismo o Storia» e negando che in essa siano state riferite falsità sul conto della sua famiglia.
   La cosa più buffa in questa vicenda è che a renderla pubblica sia stato il settimanale Der Spiegel. Buffa perché nello scorso dicembre proprio ad un suo cronista, Claas Relotìus, era stato revocato il premio di giornalista d'inchiesta tedesco dell'anno: era stato scoperto che si inventava di sana pianta le storie che raccontava così bene, proprio come la dottoressa Hingst.

(il Giornale, 5 giugno 2019)


Sulle tracce di Sefarad

di Damiano Laterza

La Sefarad c'è ma non si vede. Per questo motivo, indagare sul campo il millennio di presenza ebraica nella penisola iberica, tragicamente interrotto dal famigerato editto di espulsione del 1492 - che diede origine a un'intera stirpe di judios erranti (i sefarditi, appunto) - è ormai un imperativo irrinunciabile. Per fortuna ci ha pensato l'Università di Roma Tor Vergata, finanziando uno stimolante viaggio-studio in Andalusia sulle tracce della Sefarad. Si tratta del momento culminante della seconda edizione del Corso di formazione in Archeologia Giudaica, promosso dal CeRSE - il Centro Romano di Studi sull'Ebraismo - e in collaborazione con la Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma (SSABAP). Un'iniziativa degna di menzione con gli studenti a caccia dei segreti indicibili di un mondo perduto. Ma il lavoro più grosso bisogna farlo con l'immaginazione. Gli epigrafisti sono a corto di epigrafi; le tracce sono impercettibili. Persino nella sperduta Lucena di Granada, cittadina adagiata nella calura andalusa, un tempo capitale ebraica col nome di Eliossana (D-o ci salva), nota da secoli come la "Perla di Sefarad". Non una città col classico quartiere ebraico - definito qui, non ghetto ma judería - bensì una città totalmente ebraica e totalmente fortificata, con gitani, mori e cristiani relegati nei quartieri poveri al di fuori della cinta muraria. Sembra fantasia invece è un mondo realmente esistito, dall'VIII al XII sec. e.v. Con i momenti di massimo splendore vissuti intorno all'anno 1000 e.v., quando qui vi era un'Accademia di studi talmudici che ospitò i più grandi intellettuali del tempo, tra i quali i famosi Jehudà ha Leví e Abraham Ibn Ezra. E ovviamente non poteva mancare il Maimonide, che visse proprio a quel tempo e proprio in questi luoghi.
   Nella Lucena di oggi, a parte le scritte stradali, lo stemma comunale con tanto di Magen David e qualche piccolo reperto esposto nel locale museo, non ha ufficialmente abitanti di religione ebraica. Ma, a ben guardare, tra una processione cattolica in stile rococò e una mastodontica sedia che accoglie i visitatori all'ingresso del paese - la più grande del mondo appena certificata dal Guinness dei Primati, simbolo della locale e fiorente industria di mobilio - non è raro imbattersi in testimonianze lampanti dell'assoluta e attuale giudaicità del luogo. Ad esempio dando un'occhiata ai manifestini mortuari tipici dei quartieri ortodossi di Gerusalemme (e dell'Italia meridionale) che qui abbondano anche nelle zone più moderne. Ed è tutto un fiorire di cognomi ebraici sefarditi purissimi. Cognomi che ritroviamo in alcune raccolte di cognomastica sefardí, nella piccola ma sincera biblioteca allestita da una volenterosa signora a Granada, nell'antico quartiere del Realejo, che un tempo era abitato in prevalenza da ebrei. In quattro stanze della sua abitazione, la donna, che in realtà è ashkenazita ha fondato un piccolo museo (più piccolo che museo) ebraico a sue spese e con scarso sostegno da parte delle istituzioni. Per preservare la memoria di un luogo simbolo, Granada, in cui di ebraico c'è rimasto poco, o niente. La città da cui i re cattolici emanarono lo sciagurato atto di espulsione era ebraica sin dalla sua fondazione e nell'alto medioevo il suo nome ufficiale era addirittura "Granada degli ebrei". Anche qui, piccoli indizi sparsi in ogni dove. È venerdì pomeriggio. Nelle vetrine dei forni della città non turistica compare pane intrecciato in bella vista. Sarà un caso. Sabato, poi, è tutto chiuso. Chissà. A Lucena nel frattempo nel piccolo cimitero scoperto di recente si racconta di esami approfonditi sui resti umani, fatti con la supervisione dei rabbini di New York dai quali è venuto fuori un dettaglio sorprendente: le dentature dei defunti presentano incisivi con 4 radici. I dentisti della Lucena moderna, interpellati in proposito rivelano che molti degli attuali abitanti hanno questa insolita caratteristica.
   Perché la Sefarad c'è ma non si vede. È nascosta nel DNA.

(moked, 5 giugno 2019)


L'azienda agricola Pighin arriva in Israele

Pronti a sbarcare sul mercato i gioielli della produzione vitivinicola friulana

L'azienda agricola Pighin
L'azienda Pighin, ambasciatore del vino friulano tra i più conosciuti nel mondo, scrive un nuovo capitolo della sua storia, portando nel mercato israeliano i gioielli della sua produzione vitivinicola.
   Ubicata nella culla della più alta tradizione vinicola friulana, tra Risano nelle Grave e Capriva nel Collio, l'azienda sbarca in Israele per raccontare attraverso i suoi vini la storia di due grandissimi terroir Doc, oggi disponibili nel canale Horeca.
   Dal Pinot Grigio al Friulano, dal Sauvignon allo Chardonnay, i vini targati Pighin si presentano al nuovo mercato con tutte le carte in regola per essere ampiamente apprezzati. Si tratta infatti di vini che nascono da una terra fertile e da sempre vocata ed è proprio in queste zone che, a partire dal 1963, la famiglia Pighin coltiva l'amore per la terra e la passione per il buon vino. Una passione fondata su un preciso valore: difendere sempre la più alta qualità del prodotto, dalle vigne alla tavola.
   "Siamo orgogliosi di essere stati scelti da un'importante società di importazione e distribuzione leader del mercato israeliano", racconta Roberto Pighin titolare dell'Azienda, "e siamo desiderosi di cogliere tutte le interessanti e concrete opportunità commerciali che questo Paese può offrire".
   Di antica tradizione ed elemento di benedizione di ogni occasione sociale, per lungo tempo il vino è stato prodotto in Israele soprattutto per motivi religiosi con scarsa attenzione alla sua qualità. Negli ultimi 30 anni si è registrata tuttavia un'inversione di tendenza e oggi il comparto vino rappresenta una realtà dinamica ed in espansione: attualmente si contano circa 300 aziende con vigneti che coprono circa 6.000 ettari (78% uve rosse e 22% bianche) per 336.000 ettolitri annui di vino prodotti.
   Questi sono consumati prevalentemente in loco, con un 15% destinato all'esportazione. Per quanto piccolo sia il comparto del vino israeliano, presenta una notevole variabilità di zone e climi con alcune macroaree: la Galilea, la Samaria, il Samson, le Colline della Giudea e il deserto del Negev - ciascuna con microclimi molto variabili anche ogni 2 o 3 chilometri. Le varietà più diffuse sono Cabernet, Carignan e Merlot, che coprono il 50% della produzione.
   Un ulteriore elemento caratterizzante questo mercato, abitato da una popolazione per il 20% di religione mussulmana e per il restante di religione ebraica, è che il vino consumato deve essere kasher ovvero "adatto", idoneo al consumo nel rispetto dei dettami religiosi e possedere la relativa certificazione. Per essere kasher le uve, dalla vendemmia all'imbottigliamento, devono essere manipolate solo da ebrei osservanti che ne certificheranno poi l'idoneità al consumo nel rispetto delle regole alimentari previste dalla religione ebraica.
   Non è tuttavia obbligatorio per il vino venduto in Israele avere il certificato del Rabbinato anche se ad oggi l'85% del vino venduto e consumato in Israele e tutta la produzione nazionale è kasher. Il 70% del vino venduto in Israele si vende nell'area metropolitana di Tel Aviv, quella che viene chiamata la Grande Tel Aviv, che è la città più cosmopolita del paese. E sarà proprio nei ristoranti e alberghi della Città e nelle boutique wineries sempre più diffuse nel Paese che sarà possibile trovare e degustare alcune delle etichette gioiello dell'azienda friulana Pighin che una volta di più si fa testimone nel mondo della più alta produzione dei nobili vini bianchi del Friuli.

(il Friuli, 5 giugno 2019)


La Lega Araba a Tunisi tra divergenze e ipocrisie

Una debole dichiarazione congiunta conclude il trentesimo Summit della Lega Araba, tenutosi a Tunisi il 30 marzo scorso. Importanti i temi all'ordine del giorno, ma profonde le divergenze e grandi le ipocrisie che minano l'auspicata unione tra i Paesi arabi nell'affrontare le delicate questioni in agenda e il duro appello della società civile.

di Maria di Martino

 L'agenda del Summit
  Il 30 marzo scorso, per la terza volta nella storia, Tunisi ha ospitato il Summit dei Paesi della Lega Araba, giunto alla trentesima edizione in uno dei suoi momenti storici più delicati. I temi all'ordine del giorno sono stati molti, più o meno recenti, spinosi e senza dubbio fondamentali per gli equilibri mediorientali. Tra questi la vicenda siriana e la possibilità di reintegro della Siria espulsa dall'organizzazione nel 2011, il recente riconoscimento da parte degli Stati Uniti della sovranità israeliana sulle Alture del Golan, la questione libica e in particolare i futuri sviluppi del piano ONU per il Paese diviso tra Al-Serraj e Haftar. E ancora, le recenti proteste civili scoppiate in Sudan e in Algeria, l'interferenza iraniana nella regione e la lotta al terrorismo. Dei 22 leader attesi, solo tredici hanno effettivamente presenziato al Summit. Tra loro il re saudita Salman, il principe ereditario del Qatar, l'emiro del Kuwait, il presidente iracheno, il presidente egiziano al-Sisi e il presidente palestinese. Tra i grandi assenti il re del Marocco Mohammed VI. Non sono mancati i colpi di scena, con l'Emiro del Qatar che a sorpresa ha abbandonato il vertice senza pronunciare il suo discorso in programma, e con il re saudita Salman che ha minacciato di lasciare l'assemblea prima dei discorsi previsti del Segretario Generale dell'ONU, Antonio Guterres, e dell'Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza dell'Unione Europea, Federica Mogherini, che avrebbero inevitabilmente evidenziato le responsabilità saudite nella crisi umanitaria in Yemen.

 Aspettative e risultati
 
I principali leader degli Stati arabi durante il trentesimo summit della Lega Araba il 31 marzo 2019
  Viste le premesse, decisamente poche aspettative sono state riposte sull'incisività del Summit e delle decisioni prese. A conclusione dei lavori, una dichiarazione finale congiunta composta da 19 articoli ha condannato il riconoscimento da parte degli Stati Uniti della sovranità di Israele sulle Alture del Golan, dichiarandolo nullo e non valido, e ha sottolineato l'importanza della questione palestinese per l'equilibrio e la stabilità della regione. L'Iran è stato accusato di interferire negli affari arabi e di incitare il risentimento sciita nei confronti dei sunniti, oltre che di armare le milizie e le organizzazioni terroristiche attive in molti Paesi arabi. Si è fatto riferimento all'occupazione da parte dell'Iran delle tre isole del Golfo Persico appartenenti agli Emirati Arabi, alla necessità di risolvere la questione libica e la questione siriana e di preservare l'integrità di Iraq e Libano. Il documento prodotto ha affrontato molte delle questioni che attualmente affliggono l'equilibrio mediorientale, ma manca della credibilità e della forza che solo un fronte veramente coeso potrebbe dare. Israele, accusato di portare avanti una politica aggressiva sotto l'egida statunitense, è in realtà parte di una nuova visione dell'ordine mediorientale a guida saudita e le evidenti divergenze tra i Paesi arabi non possono che depotenziare qualunque condanna o promessa di azione. Nel chiudere il vertice, il presidente tunisino Essebsi ha sottolineato come le sfide e le minacce che la regione araba affronta non possano essere risolte separatamente, ma quanto sia necessario identificare le cause dei fallimenti nell'azione comune araba, inesorabilmente sostituita dalla volontà di tutelare i singoli interessi nazionali.

 Il vertice parallelo della società civile
  In concomitanza con il Summit della Lega Araba, un Vertice della società civile araba ha cercato di focalizzare l'attenzione su un altro tema particolarmente spinoso e attuale. Lo stato della tutela dei diritti umani nei Paesi arabi, in particolare in Algeria, Egitto, Siria e Yemen, continua a essere uno dei grandi fallimenti delle Primavere Arabe. Riuniti in occasione del vertice di Tunisi, giornalisti, intellettuali e scrittori tunisini hanno lanciato un appello alla Lega Araba, esortando i Paesi membri ad assumersi le proprie responsabilità nei confronti della causa palestinese e delle recenti proteste in Algeria e Sudan. Del resto era fortemente improbabile che un tale argomento potesse trovare spazio nel corso del Summit, se non per esprimere solidarietà nei confronti dei regimi sotto attacco, in una fase storica in cui la rinascita dei regimi autoritari e il proseguimento di conflitti civili dimostrano quanto i diritti umani, politici e civili dei popoli della regione continuino a essere negati.

(Il Caffè Geopolitico, 4 giugno 2019)


Addio a Nechama, moglie del presidente di Israele Reuven Rivlin

 
Nechama Rivlin, moglie del presidente Reuven Rivlin, è morta nella mattina di martedì 4 giugno all'età di 73 anni. Lo ha riferito la residenza del presidente in una nota.
La dichiarazione afferma che Rivlin è morta alla vigilia del suo 74o compleanno al Beilinson Hospital di Petah Tikva, dove è stata curata dopo una ricaduta a seguito di un trapianto di polmone a marzo.
"Tre mesi dopo un trapianto di polmone, Nechama Rivlin è morto questa mattina", ha detto il Beilinson Hospital in una nota. "Con nostro rammarico, gli sforzi medici per stabilizzarla nel tempo durante il complicato periodo di riabilitazione dopo il trapianto non hanno avuto successo."
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha offerto le sue condoglianze alla famiglia Rivlin. "Insieme a tutti i cittadini di Israele, mia moglie Sara e io sentiamo un profondo dolore per la morte della moglie del presidente, Nechama Rivlin", ha detto Netanyahu in una breve dichiarazione.
"Abbiamo pregato tutti per la sua guarigione durante il recente periodo in cui ha combattuto con coraggio e intensamente per la sua vita. Estendiamo le nostre sentite condoglianze al presidente e a tutta la sua famiglia ", ha affermato.
Nechama Rivlin, 73 anni, soffriva di fibrosi polmonare, una condizione in cui il tessuto cicatriziale si accumula nei polmoni e rende difficile respirare. Negli anni precedenti al trapianto, era stata vista di solito in pubblico con un serbatoio di ossigeno portatile, anche durante le cerimonie ufficiali.
Il trapianto polmonare è stato dichiarato efficace il 12 marzo, ma i medici hanno avvertito che le sue condizioni sono rimaste tenui e che ha dovuto affrontare una lunga strada per il recupero. È stata poi portata all'ospedale in aprile dopo un improvviso peggioramento delle sue condizioni, quasi tre settimane dopo aver ricevuto il trapianto.
Nechama Rivlin nasce nel 1945 a Moshav Herut nella regione di Sharon. Ha sposato Reuven Rivlin nel 1971 e ha lavorato per molti anni all'Università ebraica di Gerusalemme, fino al suo ritiro nel 2007, quando le sue condizioni polmonari sono state diagnosticate.
"Quando Nechama si è trasferita nella Residenza Presidenziale, ha scelto di concentrarsi sull'arte, sulle attività per bambini con bisogni speciali, sull'ambiente e sulla natura, attraverso la compassione e l'amore per le persone", si legge in una dichiarazione.
"Nechama ha allestito un orto comunitario nel giardino della residenza presidenziale, dove bambini provenienti da tutto il paese venivano regolarmente a piantare erbe e fiori", dice.

(Bet Magazine Mosaico, 4 giugno 2019)


Quell'onda anti-Israele che minaccia la libertà e lo spirito del Pride

Polemica per la presenza di attivisti del movimento BDS

di Maria Teresa Martinengo

Polemica a più voci sul Pride, che si terrà a Torino sabato 15 e che viene presentato stamane con una conferenza stampa in Regione. A scatenarla, la scelta del Coordinamento di promuovere alla vigilia della parata, alla Tesoriera, l'incontro «Voci dal movimento Lgbtq + in Palestina: vivere e lottare tra eterosessismo, apartheid e pinkwashing» al quale parteciperanno attiviste dell'associazione femminista queer palestinese Aswat. L'associazione aderisce al BDS, movimento «per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro l'occupazione e l'apartheid israeliane». Fabrizio Ricca, capogruppo della Lega in Consiglio comunale e probabile presidente del nuovo Consiglio Regionale, attento ad ogni manifestazione di carattere antisionista ha dato il via alle critiche: «La scelta del Coordinamento Torino Pride è inaccettabile. Ci auguriamo - ha detto - che possa tornare indietro. La Regione, con il precedente Consiglio, ha concesso il patrocinio, e quindi resta, ma in futuro si potrebbero fare altri ragionamenti». Per Ricca l'iniziativa del mondo lgbtq torinese «è una "lotta contro se stesso", dal momento che in Medio Oriente l'unico Paese dove il Pride si fa è proprio Israele e dove la comunità lgbtq non è discriminata». E aggiunge: «Sarei curioso di sapere perché i movimenti pro Palestina non chiedono ad Hamas di organizzare un Pride. Non so cosa farò nei prossimi mesi in Consiglio Regionale, ma se dipendesse da me, qualsiasi iniziativa che preveda il boicottaggio dell'unica democrazia esistente in Medio Oriente non otterrebbe mai il patrocinio».
   Anche Elena Loewenthal, neo consigliera regionale di + Europa interviene nella polemica: «Al Gay Pride di Torino entra a gamba tesa il movimento BDS, dichiarato illegale in molti Paesi fra cui la Germania. Con questa iniziativa Israele diventa il bersaglio di una campagna diffamatoria, con tutta la visibilità che il Gay Pride offrirà». Il timore è che la parata possa trasformarsi in una manifestazione politica. E l'Associazione Italia Israele esprime sconcerto e indignazione. Il presidente Dario Peirone ricorda, tra l'altro, che «il linguaggio adoperato dagli attivisti del movimento BDS è stato giudicato dal governo tedesco paragonabile a quello utilizzato durante il nazismo nei confronti degli ebrei». Peirone chiede al nuovo governo regionale «di sostenere la posizione di Ricca negando il patrocinio».
   Dal Coordinamento Torino Pride sotto accusa la risposta è quanto mai pacata. «Si tratta semplicemente di una testimonianza. Abbiamo accolto - spiegano - la proposta arrivata da attivisti di quell'area del mondo in un puro spirito di pluralità. Prima di accettarla c'è stato un lungo dibattito, li abbiamo auditi, abbiamo posto loro molte domande. Non c'è l'idea di avallare posizioni, ma di ascoltare. Ed è proprio questa pluralità che ha sempre contraddistinto il Torino Pride: l'obiettivo è di far sì che ognuno possa maturare una propria opinione sulla base di quanto ascolta». Ancora: «Nel momento in cui altri ci chiederanno di essere ascoltati per esprimere altri punti di vista, lo faremo. Sempre che siano diretti: non vogliamo mediazioni, vogliamo sempre andare alla fonte per comprendere quanto succede in uno spirito di assoluta libertà di opinione».

(La Stampa, 4 giugno 2019)


LGBTQ e BDS sono sigle di due movimenti che si muovono nella stessa direzione: contro Israele. Si dirà che non è così, che il BDS entra a gamba tesa nel LGBTQ per strumentalizzarlo; che l’LGBTQ danneggia se stesso perché il suo centro si trova a Tel Aviv; che una cosa è la politica e un’altra è il sesso, ma resta il fatto che i due movimenti sono entrambi contro Israele perché sono contro il Dio d’Israele, che è l’unico Dio che ha creato i cieli e la terra. E a differenza di quello che molti pensano, Dio non è contro Israele. Al contrario. M.C.



Un capolavoro del diavolo
Essere riuscito a fare in modo
che il mondo considerasse Tel Aviv
la capitale degli omosessuali
e nello stesso tempo indicasse Tel Aviv
come capitale d'Israele
al posto di Gerusalemme
è un capolavoro del diavolo.

 


Gerusalemme, respinte le obiezioni alla cabinovia della Città Vecchia

Il tracciato arriva al Monte Sion

La Commissione per le infrastrutture nazionali ha respinto quasi tutte le obiezioni al progetto di una cabinovia che collegherà Gerusalemme Ovest alla 'Porta dell letame' della Città Vecchia, passando per l'elevazione del Monte Sion. Lo riferisce la stampa odierna secondo cui questa iniziativa - lanciata dal ministero del turismo e dall'Ente per lo sviluppo di Gerusalemme - attende adesso solo l'autorizzazione definitiva del governo.
Il tracciato della cabinovia è di 1,4 chilometri. Secondo gli autori del progetto, essa consentirà il trasferimento da Gerusalemme Ovest alla Città Vecchia di tremila persone all'ora.
In questo modo - è stato affermato - servirà a ridurre il congestionamento del traffico di automobili e torpedoni nel lato meridionale della Città Vecchia. Il progetto ha suscitato le rimostranze di ambientalisti preoccupati che esso deturpi il panorama. Ma queste e altre obiezioni sono state respinte dalla Commissione per le infrastrutture nazionale.

(ANSAmed, 4 giugno 2019)


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