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L'orizzonte incerto di Israele e suoi effetti
Ripresentiamo larticolo di Romano Prodi pubblicato ieri sul Messaggero, accludendovi una lettera di risposta a lui inviata personalmente da Emanuel Segre Amar, che qui vivamente ringraziamo per avercela inviata per conoscenza. NsI
di Romano Prodi
Forse solo Israele offre un quadro politico più complicato di quello Italiano: le ultime elezioni lo confermano. Il parlamento israeliano (Knesset) si compone di 120 membri e, per formare una maggioranza, occorrono evidentemente 61 voti. Nelle elezioni dell'aprile scorso la coalizione di destra guidata dal primo ministro Bibi Netanyahu non è riuscita ad ottenere il numero dei voti necessari per governare ma nessuna maggioranza alternativa è uscita fuori dalle urne.
Martedì scorso, a distanza quindi di pochi mesi, si sono ripetute le elezioni ma i risultati rendono ugualmente complicata la situazione, anche se segnano un indubbio indebolimento dell'attuale Primo ministro. Il partito di Netanyahu è infatti passato da 35 a 31 seggi e, anche contando i suoi possibili alleati, può arrivare solo a 55 parlamentari. Non molto più facile è però il cammino del suo principale avversario, il generale Benny Gantz, il cui partito ( chiamato bianco-blu dai colori della bandiera israeliana) conta 33 seggi ma ha uguali difficoltà ad arrivare alla maggioranza, anche per la fiera opposizione degli ultraortodossi che hanno riportato un notevole successo.
Essi odiano i parlamentari di Gantz che si oppongono a concedere quanto da loro richiesto riguardo all'esenzione dal servizio militare, all'adozione di programmi scolastici speciali e al rigoroso rispetto del sabato.
La soluzione è ulteriormente complicata dal fatto che la minoranza palestinese (che costituisce oltre il 20% dei cittadini di Israele) è andata a votare in misura superiore al previsto e conta ora 13 seggi in parlamento. Dato che, almeno fino ad ora, nessuno dei possibili raggruppamenti è disposto ad allearsi con i palestinesi, le difficoltà che si oppongono alla formazione di una maggioranza di governo non possono che aumentare.
Quando si creano situazioni così complicate di solito si ricorre alla formazione di una grande coalizione nella quale gli esponenti dei maggiori partiti si alternano nel ricoprire la carica di primo ministro. Netanyahu si è affrettato a proporre questa soluzione anche per presentarsi in posizione più autorevole di fronte al Procuratore generale che, ai primi di ottobre, dovrà decidere se inviarlo a processo, in conseguenza delle accuse di corruzione alle quali deve rispondere. Gantz si è naturalmente affrettato a respingere la proposta della grande coalizione, dato che conta di essere invitato dal Presidente della Repubblica a formare il nuovo governo, anche se la trattativa si presenta lunga e difficile. A questo punto è naturalmente doveroso riflettere su quali potrebbero essere le conseguenze di un passaggio di potere da Netanyahu a Gantz. La più certa e importante è la fine del lungo potere egemonico di Netanyahu, continuamente in lotta con la minoranza palestinese, dato il suo proposito di annettere allo Stato di Israele la West Bank, cioè le tradizionali regioni della Giudea e della Samaria. Allo stesso modo questo cambiamento dovrebbe almeno rallentare la costruzione del muro che non solo separa gli israeliani dai palestinesi, ma divide in modo del tutto crudele e inaccettabile i palestinesi stessi fra di loro.
Molto più difficile è il ritorno ad una strategia di creazione di due Stati: uno palestinese e uno israeliano entrambi indipendenti e sovrani. Questo progetto è sempre più avversato dalla maggioranza degli israeliani e, dopo i tentativi falliti da Ehud Barak e Ehud Olmert, ha poche speranze di essere messo in atto in tempi prevedibili anche in caso di un cambiamento della coalizione di governo. Coalizione nella quale è per ora escluso che i palestinesi possano fame parte, nonostante il loro progresso elettorale e il fatto che si siano presentati alle elezioni con una lista unitaria, mettendo in secondo piano le divisioni che avevano ulteriormente diminuito la loro pur scarsa influenza politica.
Dai risultati delle elezioni non ci si attende perciò alcun radicale cambiamento ma almeno un alleggerimento delle tensioni e rapporti di convivenza meno conflittuali rispetto a quelli che il governo Netanyahu aveva sistematicamente perseguito, con una forte accelerazione negli ultimi anni, dopo che Trump aveva sostituito Obama alla presidenza degli Stati Uniti.
Nelle prossime settimane assisteremo quindi a una lunga e raffinata disputa fra Netanyahu, che cercherà di costruire una grande coalizione e Gantz, che farà ogni sforzo per attrarre intorno a sé un numero sufficiente di partiti minori in modo da formare un governo alternativo. Qualsiasi sia il risultato di questa disputa resta indubbio che il dominio di Netanyahu è tramontato, ma è altrettanto certo che una pace condivisa fra ebrei e palestinesi è ancora lontana, anche se si rafforza la probabilità di arrivare a rapporti di convivenza meno duri e conflittuali. La situazione è tuttavia ancora così intricata che non si escludono nemmeno nuove elezioni.
(Il Messaggero, 22 settembre 2019)
Gentile Professore,
ho letto con molta attenzione l'articolo pubblicato con la sua firma sul Messaggero del 22 u.s.. Spero che non me ne vorrà se le faccio giungere alcune osservazioni, assicurandole comunque che sono a sua disposizione per un colloquio qualora volesse approfondire alcuni argomenti.
- Lei scrive di un "indebolimento della lista di Netanyahu", ma sarebbe stato più corretto affermare che, a causa degli incrementi di seggi di molte liste minori, entrambe le liste maggiori hanno visto ridursi il rispettivo numero di seggi.
- Lei scrive che "nessuno dei due principali raggruppamenti è disposto ad allearsi con i palestinesi", mentre incontri con gli stessi sono avvenuti sia prima che dopo il giorno delle votazioni, e, lei mi insegna, in questi incontri sono spesso presi accordi che poi si preferisce non rendere pubblici. Considerata la delicatezza della questione, lei vorrà convenire che è meglio non esprimersi in merito, come proprio le recenti dichiarazioni del leader del partito arabo dimostrano. Quanto all'uso del termine "palestinesi", memore del fatto che storicamente si chiamavano "palestinesi" gli abitanti ebrei, ed arabi quelli musulmani e quelli cattolici, ritengo più appropriata la dizione "arabi-palestinesi".
- Lei definisce "potere egemonico" quello di Netanyahu, ma le faccio osservare (senza essere personalmente un sostenitore del premier uscente) che, al contrario, Netanyahu si è ripetutamente rimesso alla volontà popolare; proprio noi italiani dobbiamo essere molto attenti prima di muovere ad altri leader simili rimproveri.
- Lei scrive di una volontà di Netanyahu di "annettere la West Bank, cioè le tradizionali regioni di Giudea e Samaria"; non può sfuggirle, professore, che, dopo la firma degli accordi di Oslo, Israele ha il controllo militare ed amministrativo della zona C. Netanyahu non ha mai espresso l'intenzione di annettersi Giudea e Samaria, e ben pochi sono gli israeliani che pensano oggi ad una annessione di tutte quelle terre, pur se furono inizialmente tutte promesse agli ebrei (accordi di Sanremo, 1920, confermati dalla Società delle Nazioni, 1922). Di zona C si deve parlare oggi, e non di Giudea e Samaria.
- Non mi è affatto chiaro a che cosa lei alluda, professore, quando scrive che Gantz dovrebbe "rallentare la costruzione del muro"; quello che lei chiama "muro", ma che, in realtà, per circa il 95% della sua lunghezza è un reticolato (si presenta come "muro" solo nei punti nei quali, per la vicinanza di case o di strade, è troppo facile sparare contro i cittadini israeliani), è già stato ultimato da anni, e nessuno sta pensando di allungarlo, dal momento che la deterrenza che ne ha suggerito la costruzione funziona piuttosto bene.
- "Difficile è il ritorno alla strategia di due stati, dopo i falliti tentativi di Barak e di Olmert", scrive più oltre, ma, professore, i tentativi per arrivare "ai due stati" sono stati fatti fin dall'epoca del mandato britannico, e sono sempre falliti tutti per il costante rifiuto arabo; non sarebbe il caso di riflettere sulle ragioni di questi rifiuti prima di continuare con una politica evidentemente destinata al fallimento, e ciò non per colpa di questo o di quel governo israeliano?
- Professore, lei si augura che, con un eventuale governo Gantz, si possa arrivare ad avere "un rapporto meno conflittuale", ma le faccio osservare che proprio Netanyahu, più di tanti suoi predecessori, ha sempre cercato in tutti i modi di non avere "conflitti" con gli arabi-palestinesi.
Come vede, gentile Professore, gli argomenti che ho sollevato con questa mia sono numerosi, e mi permetto, quindi, di chiederle un incontro per poter approfondire i vari temi che rendono, al momento, impossibile, vedere una soluzione per un conflitto iniziato ben prima della nascita dello Stato di Israele.
Rimango in attesa di una sua cortese risposta e colgo l'occasione per inviarle cordiali saluti
Emanuel Segre Amar
La lista araba sostiene il governo di Benny Gantz
di Giordano Stabile
La Lista araba appoggia la canditura a premier di Benny Gantz, con una svolta che definisce «storica», Benjamin Netanyahu insiste che deve essere lui a guidare il prossimo esecutivo perché alla testa della coalizione con più seggi, mentre l'ago della bilancia Avigdor Lieberman annuncia che non appoggerà nessuno dei due. La prima giornata di consultazioni in Israele ha certificato la stato di blocco nella nuova Knesset. Ma ha anche visto una presa di posizione senza precedenti da parte del presidente Rivlin che ha indicato come unica via di uscita un governo di unità nazionale fra i due maggiori partiti, Blu e Bianco di Gantz, e il Likud di Netanyahu.
 Rivlin: un esecutivo stabile
Rivlin ha puntualizzato che «il primo e secondo partito sono quasi uguali come forza» e dovrebbero «unirsi per creare un sistema stabile» ed evitare «una terza elezione anticipata». Blu e Bianco ha ottenuto 33 seggi, il Likud 31. Ma Netanyahu si è presentato dal capo dello Stato come leader di tutto il centrodestra, 55 deputati, insufficienti a dargli una maggioranza ma comunque il blocco più consistente. La sua tesi è contestata da Gantz, che punta a ottenere lui l'incarico per poi allearsi con il Likud ed eventualmente altre forze. Un aiuto, che però potrebbe essere a doppio taglio, gli è arrivato dalla Lista araba.
Il leader Ayman Odeh ha annunciato il sostegno alla candidatura dell'ex generale, come aveva già anticipato in campagna elettorale. «Per noi - ha detto Odeh - l'essenziale è impedire a Netanyahu di restare al potere. Negli anni in cui è stato primo ministro siamo stati trasformati in un gruppo illegittimo». Una coalizione che comprenda anche gli arabo-israeliani ha scarse probabilità ma i loro 13 deputati permettono al blocco di centrosinistra di arrivare a 5 7 seggi e superare il centrodestra.
L'exploit arabo è arrivato da un massiccio incremento della partecipazione al voto, dal 49 al 60%. Gli arabo-israeliani sono il 21% della popolazione e si sentono discriminati dalla legge sullo «Stato-nazione» approvata dal governo Netanyahu. Il problema per Gantz è che però anche con la Lista araba il centrosinistra non arriva ai 61 seggi necessari a una maggioranza. E un'eventuale alleanza con gli arabi esclude quella con il nazionalista Lieberman e anzi potrebbe spingere «l'ago della bilancia» a riallacciare con Netanyahu. Ieri Lieberman ha detto che per ora non si unisce a nessun blocco.
(La Stampa, 23 settembre 2019)
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Gli arabi appoggiano Gantz, ma Lieberman tace e non c'è maggioranza
Continua a non esserci una maggioranza, al termine del primo giro di consultazioni del presidente israeliano Reuven Rivlin con i leader dei partiti: la lista araba unitaria, che è il terzo gruppo alla Knesset con 13 seggi, ha espresso una preferenza per Benny Gantz, che a questo punto avrebbe la coalizione più numerosa, con 57 seggi contro i 55 di cui disporrebbe Netanyahu.
Il problema è che Avigdor Lieberman, che a questo punto è determinante, ha rifiutato di esprimere appoggio all'una o all'altra delle possibili coalizioni.
Ayman Odeh, il leader della lista araba unita, ha ricordato che i deputati arabi non hanno mai espresso un'indicazione per un premier, ma ha aggiunto: "questo è un momento storico", alludendo evidentemente alla possibilità di mettere fine alla lunga carriera di Benyamin Netanyahu, il premier più longevo della storia di Israele.
Dopo le elezioni di aprile aveva ottenuto il quinto mandato, il quarto consecutivo. Ma poi non era riuscito a formare il governo, e gli Israeliani sono quindi tornati alle urne il 17 settembre.
Elezioni finite in sostanziale pareggio, con la lista Blu Bianco di Benny Gantz a 32 seggi e il Likud di Netanyahu a 32. Con i suoi alleati Netanyahu sarebbe quindi arrivato a quota 55, ancora lontani dai 61 necessari. Ha quindi proposto una "grande coalizione" a Gantz, che ha rifiutato.
E dal primo turno di colloqui il presidente Rivlin non ha avuto una chiara indicazione di una coalizione maggioritaria, perché Liberman, che con il suo Yisrael Beitenu vanta 9 seggi, non ha dato alcuna indicazione.
(euronews, 23 settembre 2019)
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In Israele non si riesce a formare un governo
Il premier incaricato Rivlin ha incontrato le prime cinque formazioni che, in ordine decrescente, hanno conquistato più seggi alle elezioni politiche. Ma il suo problema è Benjamin Netanyahu
Non sono mancate le sorprese nella prima giornata di consultazioni del presidente israeliano, Reuven Rivlin, per il conferimento dell'incarico per il nuovo governo. Rivlin ha incontrato le prime cinque formazioni che, in ordine decrescente, hanno conquistato più seggi alle elezioni politiche di martedì: il Kachol Lavan (Blu e Bianco) di Benni Gantz, il Likud di Benjamin Netanyahu, la Lista Unita dei partiti arabi, lo Shas degli ebrei ortodossi e il partito russofono di destra Ysrael Beitenu di Avigdor Lieberman, l'uomo che è dietro le ultime due elezioni anticipate celebrate.
Rivlin, le cui consultazioni sono state trasmesse in diretta Tv e in streaming su internet, sin dall'inizio è stato chiaro: il Paese vuole un governo stabile, ha detto, facendo intendere che preferisce un governo di coalizione nel quale siedano e si alternino i due partiti di maggioranza relativa, il Blu e Bianco e il Likud che, insieme, già superano, di quattro voti (il Likud dovrebbe raggiungere 32 voti alla conta finale) la maggioranza di 61 voti.
Per il presidente, l'idea di una terza elezione è "disgustosa". Il problema, in questo contesto, ha un nome e cognome: Benjamin Netanyahu. Durante le consultazioni, il partito Blu e Bianco non ha respinto l'idea di un governo di coalizione con il Likud, ma la condizione necessaria è l'assenza di Netanyahu. Difficile che il Likud accetti: un primo no è stato comunicato a Rivlin chiaramente dai parlamentari del partito di destra, che domani si riuniranno. Il presidente, in entrambi i colloqui, si è anche reso disponibile a favorire un incontro tra i due rivali Gantz e Netanyahu, che nel 2014 erano uno capo di stato maggiore e l'altro premier e le cui politiche non sono così distanti. Un accordo in extremis potrebbe essere trovato se Netanyahu facesse un passo indietro, in quel caso potrebbe subentrargli Gideon Saar, ex ministro dell'Interno.
A sparigliare le carte ci hanno pensato due delle altre tre formazioni ascoltate da Rivlin. Già nel pomeriggio, si è capito che quello che è considerato l'ago della bilancia non avrebbe deciso per nessuna delle parti. Lieberman è colui le cui dimissioni portarono alla scioglimento della Knesset a novembre dell'anno scorso e alle successive elezioni, e la cui decisione di non entrare nell'esecutivo con Netanyahu ha portato alle recenti elezioni.
Nel pomeriggio il capo del partito russofono di destra ha detto che non avrebbe raccomandato nessuno dei due candidati più accreditati al presidente Rivlin. L'altra sorpresa l'hanno riservata i partiti arabi. Per la prima volta dal 1992, da quando indicarono Rabin come primo ministro, hanno suggerito al presidente di dare l'incarico a Gantz, pur restando all'opposizione.
La loro decisione, hanno detto alla stampa e in alcuni tweet i diversi leader dei quattro partiti, nasce dalla volontà di far finire l'era Netanyahu. Anche se Gantz non è la loro "tazza di the", hanno scritto, in ogni caso vogliono che l'uomo che hanno associato al demonio biblico, non rappresenti più il Paese. La decisione degli arabi, che non hanno mai partecipato a un governo, non è stata semplice e i membri del partito Balad sono ancora riluttanti, soprattutto per il ruolo avuto da Gantz contro Gaza nel 2014 e le sue idee di destra. Proprio l'endorsement degli arabi allontana Lieberman dalla coalizione di governo a guida Blu e Bianco che, con 55 voti, non riesce ad ottenere la maggioranza. Domani il presidente Rivlin incontrerà gli altri partiti e ha già annunciato che potrebbe prendersi ancora altro tempo per le consultazioni.
(AGI, 23 settembre 2019)
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Chi potrà (o vorrà) sbloccare la situazione di stallo politico in Israele?
I due maggiori leader sembrano escludersi a vicenda. Cruciali gli 8 seggi di Liberman. Il presidente Rivlin promette che farà tutto il possibile per evitare al paese il "trauma" di una terza tornata elettorale in un anno.
Il presidente d'Israele Reuven Rivlin ha iniziato domenica le consultazioni con i leader dei partiti politici israeliani per decidere chi dovrà essere incaricato di formare la prossima coalizione di governo.
Il partito Blu&Bianco ha superato il Likud di due seggi. Ma poiché né il blocco di destra né quello di centro-sinistra sono abbastanza grandi da garantire ai rispettivi leader, Benjamin Netanyahu e Benny Gantz, la maggioranza necessaria di 61 seggi, diventa cruciale la posizione del partito nazionalista laico Israel Beitenu di Avigdor Liberman, e quella della Lista (araba) Congiunta guidata da Ayman Odeh.
Le consultazioni di Rivlin, trasmesse in diretta, dovrebbero durare due giorni, fino a lunedì. Il presidente incontra i partiti in ordine decrescente di dimensioni alla Knesset, partendo quindi domenica dai rappresentanti di Blu&Bianco (33 seggi), Likud (31 seggi), Lista (araba) Unita, Shas e Israel Beytenu, per poi proseguire lunedì con i rappresentanti di Ebraismo Unito della Torà, Yamina, Laburisti-Gesher e Campo Democratico....
(israele.net, 23 settembre 2019)
Boris Johnson accusa l'Iran per l'attacco a Riad
Il primo ministro britannico ha spiegato che il Regno Unito potrebbe contribuire agli sforzi militari degli Usa nel Golfo.
Il Regno Unito considera l'Iran responsabile per l'attacco ai siti petroliferi sauditi. «Stiamo attribuendo la responsabilità con un livello molto alto di probabilità all'Iran» per l'attacco del 14 settembre, ha detto il primo ministro Boris Johnson ai giornalisti, durante il viaggio verso New York, per l'assemblea generale dell'Onu. Aggiungendo che i britannici potrebbero contribuire agli sforzi militari degli Usa nel Golfo, dove invieranno altre truppe. Se ce lo chiedessero, «valuteremmo in che modo essere utili», ha detto Johnson.
 Johnson annuncia il faccia a faccia con Rohani
Il governo britannico, finora, si era astenuto dall'indicare un responsabile dell'attacco a Riad. Adesso, Londra, unica cancelleria europea, si allinea ai sauditi e agli Stati Uniti nel puntare il dito contro Teheran. «Lavoreremo con i nostri amici americani e i nostri amici europei per una risposta che cerchi di ridurre le tensioni nel Golfo», ha affermato Johnson, aggiungendo che incontrerà il presidente iraniano Hassan Rohani all'Onu. Per il premier britannico sono attesi anche colloqui con Donald Trump, Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Per Johnson, la Gran Bretagna dovrebbe essere un «ponte tra i nostri amici americani e gli europei quando si parla della crisi del Golfo».
(Lettera43, 23 settembre 2019)
Rohani avverte l'Occidente: ''Abbiamo un piano di pace"
di Giordano Stabile
L'Iran lancerà questa settimana il suo «piano di pace per garantire la sicurezza» nella regione ma intanto avverte che «le forze straniere» devono stare lontano dal Golfo Persico, in quanto causano «soltanto problemi». Il doppio segnale è arrivato ieri dal presidente Hassan Rohani, che mercoledì parlerà all'Assemblea generale dell'Onu e punta a trovare una soluzione da protagonista alla crisi che ha infiammato il Medio Oriente dopo l'attacco di sabato 14 settembre agli impianti petroliferi sauditi. L'opportunità di un summit a New York con Donald Trump è a questo punto svanita, esclusa ieri dal leader Usa. Ma la strada della diplomazia resta aperta.
L'idea è di presentare il progetto al Palazzo di Vetro, per la massima visibilità, anche se i contorni sono vaghi e Rohani si è limitato ad anticipare che sarà «un'iniziativa che coinvolgerà i Paesi della regione al fine di formare una coalizione per la speranza che garantisca la sicurezza». Un invito esteso in modo implicito anche all'Arabia Saudita, perché «in un momento importante e delicato l'Iran tende la mano ai suoi vicini» ed è determinato «a passare sopra agli errori del passato». Un'offerta che arriva in parallelo alla tregua annunciata dai ribelli sciiti Houthi dello Yemen, in guerra da quasi cinque anni con Riad.
Rohani parlava alla parata militare per l'anniversario della guerra Iran-Iran del 1980, un conflitto durato quasi nove anni e costato almeno un milione di morti ai due Paesi. Un modo per sottolineare che in fin dei conti nei conflitti sono tutte le parti a perdere. Dal progetto di collaborazione per garantire la sicurezza lungo la più importante rotta energetica saranno però esclusi gli Stati Uniti. «Le forze straniere - ha aggiunto Rohani - causano problemi e insicurezza per il nostro popolo: sono un disastro, più stanno lontane e meglio è».
 La soluzione diplomatica
Il riferimento era anche all'ulteriore dispiegamento di truppe da parte degli Stati Uniti, che hanno basi in Kuwait, Qatar, Bahrein ed Emirati e invieranno altri mille militari con batterie anti-aeree per rafforzare le difese saudite. Il segretario alla Difesa Mark Esper ha però precisato che è soprattutto un'accelerazione nelle forniture di equipaggiamento militare, mentre il segretario di Stato Mike ha ribadito che Washington vuole accrescere la deterrenza «per evitare una guerra con l'Iran». La «soluzione diplomatica» è perseguita da entrambe le parti, con l'Arabia Saudita scettica. Il ministro degli Esteri Adel al-Jubeir ha ribadito che gli attacchi agli impianti petroliferi «sono stati condotti con armi iraniane e l'Iran deve essere considerato responsabile».
(La Stampa, 23 settembre 2019)
La minaccia iraniana è una realtà globale. Il piano di Teheran è una trappola
L'Iran che propone un piano di pace punta chiaramente a destabilizzare i paesi "nemici" e a formare un unico potente blocco islamico.
di Maurizia De Groot Vos
Crediamo che ormai il mondo non abbia più scuse per non affrontare la minaccia iraniana per quello che è realmente, cioè una minaccia globale.
Bombardare, come hanno fatto gli iraniani, le più importanti infrastrutture petrolifere dell'Arabia Saudita non è "solo" un attacco a Riad, è un attacco all'economia globale.
Ma l'attacco all'Arabia Saudita è solo l'ultimo tassello di una meticolosa strategia di conquista che l'Iran porta avanti ormai da anni.
Libano, Siria, Iraq e Afghanistan sono ormai entrati in pianta stabile nell'area di influenza iraniana e vengono usati da Teheran come "piattaforme di lancio" per gli attacchi contro i nemici del regime iraniano, Israele e Arabia Saudita prima di tutti.
Oggi a New York inizia l'annuale Assemblea Generale delle Nazioni Unite e il Presidente iraniano, Hassan Rouhani, ha promesso di presentare una sorta di "piano di pace" per la regione.
Le premesse sono tutto un programma. Gli iraniani, forse presi da senso di onnipotenza, promettono di «estendere la mano dell'amicizia e della fratellanza alle nazioni del Golfo Persico» e di essere «pronti a perdonare i loro errori passati».
Insomma, a Teheran sono diventati tutti buoni e fraterni a condizione che tutti gli altri si pieghino ai voleri di Teheran.
Ai più ottimisti può sembrare una sparata, invece è una cosa dannatamente seria. Gli Ayatollah ci credono a quello che dicono e a quello che propongono.
Il piano anticipato ieri da Hassan Rouhani durante la parata militare in occasione della "Sacra settimana della Difesa" è di una semplicità disarmante. Per avere la pace nella regione serve che le potenze occidentali lascino il Golfo e che le potenze islamiche regionali uniscano le loro forze contro "il nemico" (Israele?).
La proposta iraniana ricorda molto da vicino quella fatta nel 2015 dal dittatore turco, Recep Tayyip Erdogan, che in occasione del riconoscimento americano di Gerusalemme capitale di Israele, propose una grande alleanza musulmana e la creazione di un esercito dell'Islam.
Allo stesso tempo si contrappone a quella avanzata dalle potenze sunnite che nell'aprile di quest'anno proponevano una sorta di "NATO araba".
Hassan Rouhani mette insieme queste due "formulazioni" e propone di mettere fine alle divergenze tra sunniti e sciiti costruendo una grande alleanza islamica purgata da interferenze esterne e volta a sconfiggere i nemici dell'islam.
«La presenza occidentale è sempre stata una calamità per la regione» ha detto ieri Rouhani. «Più stanno lontani e meglio sarà per la sicurezza nel Golfo Persico e in Medio Oriente» ha poi continuato il Presidente iraniano.
Rouhani propone quindi che tutti gli Stati del Golfo e quelli della regione si uniscano per garantire la sicurezza delle vie del petrolio che passano per il Golfo Persico e quindi per lo Stretto di Hormuz e per il Golfo d'Oman. In cambio l'Iran è disposto a "dimenticare gli errori del passato".
Lo ripetiamo e lo ripeteremo all'infinito. Non bisogna fare l'errore di sottovalutare le ambizioni iraniane. A Teheran fanno sul serio e ci credono. Lo dimostrano ogni giorno con la loro manovra di accerchiamento verso Israele, lo hanno dimostrato pochi giorni fa con l'attacco all'Arabia Saudita.
Intendiamoci, nella realtà il piano iraniano di unire tutte le potenze islamiche regionali ha ben poche speranze di andare in porto, ma getta un'esca in una mare che pullula di squali estremisti che sostengono questa idea ormai da tempo, e lo fa in un momento delicatissimo.
Gli iraniani sono maestri nell'insinuarsi nelle dinamiche islamiche e nell'insinuare zizzania e sospetti, specie se possono contare sull'aiuto di estremisti islamici che come unico obiettivo hanno l'espansione dell'Islam in tutto il mondo.
La Comunità Internazionale riunita da oggi a New York deve denunciare il piano fortemente espansionistico di Teheran. È un vantaggio che non si può e non si deve permettere di concedere all'Iran specie se questo piano mira a minare l'integrità degli altri Paesi del Golfo.
È arrivata l'ora di mettere fine ai doppi sensi con l'Iran e di affrontare la minaccia iraniana per quello che è in realtà, cioè un minaccia alla pace globale. È arrivato il momento di agire. Più si aspetta e più gli Ayatollah acquistano potere e pericolosità.
Rimandare ulteriormente il problema nella vana speranza che l'Iran si possa accontentare della sua egemonia su qualche paese e che possa rinunciare ad una guerra totale contro Israele, è solo una pia illusione. Prima o poi questo problema andrà affrontato. Meglio prima che poi.
(Rights Reporters, 23 settembre 2019)
«Lo voglio; sii purificato!»
Venne a lui un lebbroso e, buttandosi in ginocchio, lo pregò dicendo: «Se vuoi, tu puoi purificarmi!» Gesù, impietositosi, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio; sii purificato!» E subito la lebbra sparì da lui, e fu purificato. Gesù lo congedò subito, dopo averlo ammonito severamente, e gli disse: «Guarda di non dire nulla a nessuno, ma va', mostrati al sacerdote, offri per la tua purificazione quel che Mosè ha prescritto; questo serva loro di testimonianza». Ma quello, appena partito, si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare apertamente in città; ma se ne stava fuori in luoghi deserti, e da ogni parte la gente accorreva a lui.
Dal Vangelo di Marco, cap. 1
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Intesa Sanpaolo in Israele per il cantiere del futuro tra hi-tech e sostenibilità
Israele è oggi il Paese con il più alto numero di start up pro capite al mondo. De Vecchi: «L'Italia può recuperare il ritardo nel digitale».
di Paola Pica
TEL AVIV - Al numero 2 di Achutaz Bait street nel palazzo di vetro e acciaio della Borsa di Tel Aviv, uomini e donne dell'hi-tech di sei delle principali banche internazionali sono di casa. Nel loft che si affaccia sul salone delle «grida» - luce e colori, aree relax e partitelle a calcio balilla - i banchieri di ultima generazione, se così si può dire, scambiano saperi ed esplorano le nuove frontiere dell'innovazione.
Concorrenti sui mercati, dialoganti in laboratorio. «Può stupire solo fino a un certo punto, almeno in questo Paese fondato sulla ricerca. Israele è la prima Nazione al mondo per numero di startup e produzione di brevetti pro capite» dice Guido de Vecchi, dal giugno scorso direttore generale di Intesa San Paolo Innovation Center, presieduta da Maurizio Montagnese, cui fanno capo, tra le altre, le attività di economia circolare e intelligenza artificiale e tre siti di ricerca, uno nelle neuroscienze.
«Le sei insegne bancarie che vede qui sono i componenti di The Floor, il principale hub fintech israeliano del quale Intesa Sanpaolo è partner fondatore con Rbs, HSBC, Santander, Deutsche bank e Sumitomo», spiega de Vecchi arrivato a Tel Aviv per l'advisory board. Obiettivo del «club» è selezionare le migliori aziende fintech, in settori come pagamenti digitali blockchain, cybersecurity, biometria, big data. «Negli ultimi tre anni Intesa Sanpaolo ha sviluppato con The Floor oltre 25 "piloti" su tecnologie fintech e supportato il "match-making" di quattro differenti delegazioni di imprese», racconta il dg di Innovation Center sottolineando che la società «punta su Israele sia come scouting tecnologico sia come opportunità di investimento per i nostri clienti imprese, dalle pmi ai grandi gruppi». L'accordo di The Floor, recentemente replicato anche a Hong Kong per aprire ai clienti il corridoio dell'innovazione cinese, non è infatti l'unico firmato a Tel Aviv.
Il gruppo guidato da Carlo Messina è partner anche di Ourcrowd, la più grande piattaforma di crowdfunding al mondo con oltre 170 start-up in portafoglio e un miliardo di dollari di raccolta. Intesa collabora anche con la realtà non profit Startup National Central e,tra le altre, con la community di emanazione governativa Ecomotion che promuove le startup della smart mobility: guida autonoma, elettrico, carburanti alternativi. Il tutto supportato dall'ambasciatore d'Italia in Israele Gianluigi Benedetti. Dal prossimo novembre Intesa Sanpaolo Innovation Center collaborerà con l'attaché scientifico dell'Ambasciata d'Italia, Stefano Ventura, per selezionare le giovani start up italiane che hanno risposto al bando per il finanziamento della mobilità in Israele.
Dice ancora de Vecchi: «La smart mobility, così come il cleantech, le tecnologie per l'ambiente e tutto ciò che rappresenta una spinta all'economia circolare è in cima alla nostra agenda. Il piano strategico condiviso con il presidente Montagnese ci porterà a una crescita dei ricavi nei prossimi anni». L'economia circolare è considerata motore di sviluppo dentro e fuori la banca. Intesa - unico partner bancario della Ellen MacArthur Foundation, l'organizzazione che promuove il modello circolare - ha aderito ai principi di responsabilità sociale dell'Onu e sul ridisegno industriale ha puntato 5 miliardi di euro nel periodo 2018-2021. «Le imprese a impatto sociale e ambientale virtuoso sono meno rischiose per la banca e trovano più facilmente investitori - sostiene de Vecchi -, grandi attori globali come Black:Rock stanno riducendo i titoli di aziende non sostenibili». Inutile nascondere il ritardo accumulato dal Paese nella rivoluzione tecnologica, con almeno 50 punti che ci separano da Francia e Germania nell'indice che misura il tasso di innovazione. «Il compito di Intesa Sanpaolo Innovation Center è proprio questo - conclude - permettere al Paese di fare il salto. Possiamo e anzi dobbiamo farcela».
(Corriere della Sera, 22 settembre 2019)
Kelly Craft, nuova Rappresentante USA all'Onu si presenta: "Sarò la migliore amica" di Israele
La nuova ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Kelly Craft, si presenta come la "migliore amica" di Israele e con un attacco a Russia e Siria impegnate nell'operazione antiterrorismo a Idlib.
L'ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, Kelly Craft, ha dichiarato: "Sarò l'amica più fedele di (Israele), che è il rifugio per le persone in fuga dall'oppressione".
(Israele) "è un paese di successo che rispetta lo stato di diritto ed è un centro di modernità e tecnologia", ha aggiunto.
Ha anche osservato che "lei stessa ha attaccato il terrore di Hamas e ha accusato i membri del Consiglio di sicurezza di parzialità contro quel singolo stato attaccandolo ingiustamente".
Craft ha descritto questo pregiudizio contro (Israele) come imperdonabile.
"Lasciami dire chiaramente che gli Stati Uniti hanno sostenuto e continueranno a sostenere (Israele) e io sarò la loro migliore amica".
Craft ha criticato la Russia e la Siria per presunti attacchi a installazioni civili a Idlib, dove i due paesi stanno conducendo delle operazioni contro gruppi armati legati ad al Qaeda, l'organizzazione protagonista degli attacchi dell'11 Settembre 2001.
All'inizio della sessione del Consiglio di sicurezza, la diplomatica ha dichiarato che "il cessate il fuoco dichiarato è stato utilizzato solo per raggruppare le forze del governo siriano".
Ha anche affermato che "le forze siriane hanno bombardato 52 ospedali", oltre ad attaccare i caschi bianchi".
(l'AntiDiplomatico, 21 settembre 2019)
Italia Oggi: uno storico denuncia il passato nazista del Bayern Monaco
Markwart Herzog contraddice il club che si presenta, da sempre, come una vittima del nazismo. Avviato uno studio per accertare la responsabilità della società.
Uno storico denuncia il passato nazista del Bayern Monaco. Lo racconta Italia Oggi. Lui è Markwart Herzog e contraddice il club che si presenta, da sempre, come una vittima del nazismo.
Scrive il quotidiano finanziario:
"Durante la recente tournée estiva negli Stati Uniti, il senatore californiano Henry Stern nel ricevere Karl-Heinz Rummenigge, presidente del club ed ex giocatore dell'Inter (dal 1986 al 1987), ha riconosciuto l'impegno della società per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla Shoah. Ma negli stessi giorni all'Holocaust Museum di Los Angeles veniva inaugurata la mostra sul passato «bruno» del club".
A Monaco si preferisce ricordare il presidente ebreo Kurt Landauer. Che però nel 1938 fu costretto a dimettersi. Venne internato nel lager di Dachau, alle porte della città, poi fuggì in Svizzera.
Herzog denuncia che la società espulse diversi soci ebrei e inserì nello statuto tre paragrafi «ariani».
Naturalmente i fan del Bayern non sono d'accordo. Pensano che lo storico esageri.
Al posto di Landauer arrivò un nazista convinto, Josef Kellner. Fu al Bayern dal 1938 al 1943, ma la società non lo cita nella sua storia.
Kellner prese la tessera del club nel 1910. Dopo la guerra ottenne la tessera del partito nazista, diventò membro della SA, capo della polizia a Dachau, dove era stato aperto il primo campo di concentramento.
Fu un "zelante nazista", scrive Italia Oggi, che ne racconta la carriera. Nel 1938 fu eletto all'unanimità presidente del Bayern. Proprio nell'anno in cui, in Cecoslovacchia, collaborò attivamente alla distruzione delle sinagoghe e dei negozi ebrei durante la Notte dei cristalli.
Fu arrestato dopo la guerra e accusato di "atti tirannici contro la popolazione". Morì in carcere nel '46.
"I responsabili del Bayern sostengono che la squadra non fu mai favorita dai nazisti, nonostante i legami di Hitler con Monaco. Il Führer, si ricorda, non amava il calcio. Durante il III Reich il Bayern di Rummenigge non vinse mai lo scudetto che nel '41 andò perfino al Rapid Wien".
Adesso è stato avviato uno studio storico per valutare la responsabilità del club. Ma durerà almeno tre anni.
(il Napolista, 21 settembre 2019)
Aarabia Saudita: "presto la nostra risposta per gli attacchi alle raffinerie"
L'Arabia Saudita ha annunciato che risponderà con "adeguate misure" agli attacchi contro due impianti petroliferi Aramco, ribadendo la convinzione che la responsabilità sia da imputare all'Iran.
Il ministro per gli affari esteri Adel al-Jubeir ha sottolineato come le armi utilizzate fossero iraniane, promettendo di rendere presto noti i risultati completi delle indagini.
Teheran continua però a negare ogni coinvolgimento negli attacchi, e il Generale Hossein Salami, comandante capo dei Pasdaran iraniani ha fatto eco alle minacce già pronunciate dal ministro degli esteri Zarif: "trasformeremo ogni paese che oserà attaccarci in un campo di battaglia" ha detto Salami durante una cerimonia per mostrare i detriti del drone americano, abbattuto dalle guardie a giugno.
"Le guardie rivoluzionarie iraniane - ha specificato il generale - hanno condotto esercitazioni di guerra e sono pronte per la battaglia o a qualsiasi scenario. Se qualcuno attraverserà i confini dell'Iran, li colpiremo".
(euronews, 21 settembre 2019)
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Il Pentagono annuncia l'invio di altri uomini e mezzi in Arabia Saudita
Gli Stati Uniti, per il momento, giocano in difesa: il Pentagono ha appena annunciato l'invio di nuove truppe e mezzi negli Emirati e in Arabia Saudita, dal momento che il presidente Trump ha deciso di non colpire militarmente l'Iran dopo l'attacco alle raffinerie saudite Aramco.
"Questo è il primo passo che facciamo per rispondere a questi attacchi" ha dichiarato il segretario di stato alla Difesa Mark Esper. "In primo luogo per contribuire a rafforzare le difese dell'Arabia Saudita fornendo attrezzature sia ai sauditi che agli Emirati Arabi Uniti; in secondo per assicurare la libera circolazione del commercio attraverso lo stretto di Hormuz. E in terzo luogo, per garantire la protezione e la difesa della comunità internazionale, cercando inoltre di convincere Teheran a tornare sulla via della diplomazia".
Nei giorni scorsi, il segretario di stato Mike Pompeo ha visitato Emirati e Arabia Saudita dove ha incontrato il principe ereditario Mohammed bin Salman per definire meglio gli sforzi congiunti contro Teheran.
Ma il ministro degli esteri iraniano Zarif ha minacciato "guerra totale" in caso di attacchi statunitensi o sauditi.
(euronews, 21 settembre 2019)
Strage di Bologna, Chiocci: "Conte tolga il segreto sulle carte palestinesi"
"Chi risponde sulle carte palestinesi nascoste? Perché il governo non toglie segreto sulle minacce del Fronte popolare per la liberazione della Palestina all'Italia arrivate appena prima di Ustica e Bologna? Perché la magistratura non acquisisce queste carte? Perché i grandi giornali se ne fregano? Solo Radio Radicale ne parla. Perché anche Conte si adegua? Via il segreto, vogliamo la verità che è custodita a Roma in un ufficio dei Servizi segreti e in Parlamento". Lo ha affermato Gian Marco Chiocci, direttore dell'Adnkronos, intervenuto ad 'Atreju 2019' sulla strage di Bologna, nella quale il 2 agosto 1980 morirono 85 persone e altre 200 rimasero ferite.
Chiocci ha ricordato che "esiste una verità processuale acclarata con sentenza definitiva che condanna gli ex Nar Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, che ha molti buchi e alla quale sempre meno persone - anche a sinistra - credono, che porta alla strage fascista" ed "esiste una verità nascosta per anni, e scoperta solo grazie a giornalisti, consulenti, studiosi, storici, avvocati, che è uscita fuori e sta uscendo fuori, e che porta ad una pista palestinese che è stata forse troppo frettolosamente archiviata dalla procura di Bologna".
Il direttore di Adnkronos ha sottolineato che esistono oggi, dunque, "due nuove verità nascoste": "Una è clamorosa: il governo e i servizi la conoscono, alcuni parlamentari l'hanno letta ma non ne possono parlare, e riapre la pista arabo-palestinese". A ciò si aggiunge il caso del "cadavere scomparso di una vittima", ha continuato Chiocci riferendosi alla storia di Maria Fresu, una delle 85 vittime della strage di Bologna, il cui corpo non si è mai trovato. Le sono stati attribuiti alcuni resti (nonostante non combaciasse il gruppo sanguigno) che ora sono stati riesumati e sottoposti a perizia nell'ambito del nuovo processo sulla strage che vede imputato Gilberto Cavallini. La verità emersa dalla perizia è sconvolgente: nei resti sono stati riscontrati due diversi dna. Ciò vuol dire che appartengono a due persone diverse. Perché nella tomba di Fresu ci sono i resti di due persone diverse? Se nessuno è della Fresu di chi sono quei due resti? - ha proseguito Chiocci - Sono di una 86esima vittima? E chi sarebbe visto che non è mai stata denunciata la scomparsa e non è mai stata catalogata tra vittime?".
"Il lembo facciale, per i periti, è di una donna vicina alla bomba mentre Fresu era più lontana, insieme alla figlia e a un'amica entrambe morte ma con i corpi integri, come riferisce la sopravvissuta - ha concluso .- Se il corpo di Fresu non è disintegrato, che fine ha fatto? E che fine ha fatto il corpo vicino alla bomba? Perché non si trova? Era una terrorista del gruppo Carlos, come ipotizza qualcuno? Era di una fascista? Nessuno lo sa. Sono tutti interrogativi più che legittimi e ai quali ora, a quasi 40 anni dalla strage, va data risposta".
"A 39 anni dall'attentato del 2 agosto 1980 un ricercatore ha trovato, tra gli atti della strage di Brescia, dei documenti del Sismi" che parlerebbero delle minacce di attentati all'Italia da parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) a ridosso delle stragi di Bologna e Ustica, ha raccontato ancora il direttore di Adnkronos.
Nel ripercorrere a ritroso gli ultimi misteri sull'eccidio alla stazione, Chiocci ha ricordato come, un mese e mezzo fa, a 39 anni dalla strage, "in una conferenza alla Camera promossa da Federico Mollicone, alcuni parlamentari hanno ammesso verità sconvolgenti: hanno detto di aver hanno letto atti di cui non possono parlare, collegati anche ad Ustica".
In tutti questi anni, ha proseguito il direttore dell'Adnkronos, "è stato ignorato il messaggio reiteratamente lanciato da Cossiga", quello relativo all'"esplosione prematura", ossia l'ipotesi che l'esplosione sia avvenuta accidentalmente. Una pista che ora potrebbe rafforzarsi con le novità emerse dalla nuova perizia effettuata nell'ambito del processo a Gilberto Cavallini in corso a Bologna. "Adesso è stato trovato, dopo 39 anni, abbandonato tra i reperti, un interruttore che per i nuovi periti potrebbe essere la sicura difettosa usata nel trasporto della valigia", ha proseguito il direttore Chiocci.
(Adnkronos, 21 settembre 2019)
Israele, torna alla luce un mosaico di 1.500 anni
Racconta un episodio del Vangelo
Cinque pani e due pesci, proprio come raccontano gli evangelisti nel Nuovo Testamento. Nell'area archeologica di Hippos, nel nord di Israele, i ricercatori dell'Università di Haifa hanno portato alla luce un mosaico di 1.500 anni raffigurante uno dei più noti miracoli compiuti da Gesù: la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Si tratta della pavimentazione, perfettamente conservata, di una chiesa costruita vicino al lago di Tiberiade, noto anche come Mar di Galilea, distrutta da un incendio nel 700 d.C.
Per il capo del progetto di ricerca, il professor Michael Eisenberg: "Non si può ignorare la somiglianza con la descrizione dell'episodio riportata nel Nuovo Testamento e ciò - aggiunge - potrebbe rendere necessario riconsiderare il luogo in cui Cristo compì il miracolo".
(La Stampa, 21 settembre 2019)
Antisemitismo in Polonia
Con la crescita degli estremisti di destra ritorna l'antico spettro dell'odio razziale.
di Sofia Ventura
Nel marzo di quest'anno si è sfiorato un incidente diplomatico tra Parigi e Varsavia in occasione di un convegno dedicato alla «nuova scuola storica polacca della storia della Shoah», tenutosi nella capitale francese. Il ministro dell'Insegnamento superiore si è rivolto al suo omologo polacco chiedendo spiegazioni circa gli interventi organizzati di disturbo, con affermazioni antisemite, dei militanti del settimanale filogovernativo Gazeta Polska e le ingerenze dell'Istituto nazionale per la memoria, sostenute dalla stessa Ambasciata polacca. Cosa sta accadendo in Polonia?
Due ragazzi che lavorano nei pressi della Vecchia Sinagoga, sulla piazza dell'antico quartiere ebraico di Kazimierz, a Cracovia, non sanno cosa sia quel grande edificio, del quindicesimo secolo, devastato dai nazisti, restaurato e ora parte del sistema museale della città.
Davanti a «Stara synagoga» un cubo di pietra commemora qualcosa, in polacco. Forse qualcuno ha creduto che ricordasse gli abitanti deportati, perché infilata in un vaso c'è una bandiera di Israele. In realtà ricorda 30 polacchi uccisi per rappresaglia, nell'ottobre del 1943. All'epoca gli ebrei di Kazimierz non erano più lì, anzi, la maggior parte di loro non era più e basta. Li ricorda una stele al centro della piazza, della Nissembaum Foundation. Poi ristoranti ebraici, musicisti che alternano musica klezmer alle arie di Schindler's list. Un clima un po' per turisti, ma anche reali testimonianze di un passato e di una sopravvivenza, come la sinagoga Remuh, attivo luogo di culto, e il suo antico cimitero. Nel cortile le lapidi di parenti commemorano i loro cari perduti nello sterminio. La loro assenza non è narrata lungo le strade del quartiere, non vi sono «pietre di inciampo». Tuttavia quell'assenza si ritrova nella mostra del Museo ebraico della Galizia, vicino alla Vecchia Sinagoga, sostenuto da fondazioni.
Un racconto in parole e immagini delle tracce dello sterminio delle comunità ebraiche nella Polonia meridionale e dei successivi pogrom ad opera dei «vicini» non ebrei.
La travagliata storia della Polonia porta con sé una travagliata memoria. Sei milioni di morti durante la guerra, tre milioni ebrei (90% della popolazione ebraica). Un plurisecolare antisemitismo. La contrapposizione tra il dramma dei polacchi e lo sterminio degli ebrei che investe il luogo per eccellenza della distruzione degli ebrei d'Europa: Auschwitz, Oswiecim in polacco, a 60 chilometri da Cracovia.
In Polonia Auschwitz è stato via via interpretato come luogo del martirio polacco (vi furono deportati circa 150 mila polacchi non ebrei); come simbolo della resistenza internazionale al fascismo (durante il regime comunista e in particolare sino ai primi anni settanta); attraverso il simbolismo cattolico. Il suo significato ebraico rimane ai margini sino a metà degli anni Ottanta, sino alle polemiche tra organizzazioni ebraiche e istituzioni cattoliche e attorno al documentario Shoah di Lanzmann e alcuni saggi, che testimoniano di atteggiamenti passivi o attivamente antiebraici presenti nella popolazione. La Shoah cresce di importanza presso l'opinione pubblica polacca. La natura di strumento di sterminio del popolo ebraico di Auschwitz-Birkenau diventa più evidente. Nel frattempo, ricordiamo, cade il Muro e l'oriente si apre all'occidente.
Ma il nazionalismo polacco è resiliente, anche nelle sue componenti religiosa e etnica. Le foto nel corridoio di uno dei blocchi di Auschwitz 1, dove sono raccolti beni, occhiali, capelli degli ebrei mandati al gas, sono soprattutto di prigionieri polacchi: «pole» e «Jew frorn Poland». Gli ebrei non erano percepiti come parte della «nazione polacca». Oggi, con il partito nazionalista e populista Diritto e Giustizia al potere, quel nazionalismo riprende vigore, trascinando con sé l'antisemitismo.
Nel febbraio 2018 il parlamento polacco approva una legge che prevede tre anni di reclusione per chi accusa la nazione o lo stato polacchi di complicità nei crimini del Terzo Reich. Di fronte alle proteste di Israele e degli Stati Uniti il governo arretra, prevedendo solo una sanzione amministrativa. Ma quella legge produce nei media una liberazione del discorso antisemita e alimenta campagne di odio, come quella contro il direttore del Museo di Auschwitz-Birkenau, accusato di sottrarre al campo le testimonianze dell'eroismo polacco, facendo il «gioco delle narrazioni ebraiche». L'abitazione di una guida italiana è vandalizzata con graffiti antisemiti. Il 27 gennaio Auschwitz è teatro di una manifestazione di estremisti di destra contro le «narrazioni di Israele e della nazione ebraica». A maggio, a Varsavia, contro le pressioni americane sul governo polacco per affrontare la questione della restituzione dei beni delle vittime dello sterminio, si tiene quella che il sociologo Rafal Pankowsky ha definito «probabilmente la più grande manifestazione apertamente antisemita in Europa degli anni recenti».
Spesso distratta, l'Unione europea si trova ora di fronte ai fantasmi contro i quali aveva preso il proprio avvio. Fantasmi che così nitidi ad Est, si aggirano anche a Ovest. Nazionalismo e antisemitismo. Potrà ignorarli a lungo?
(La Stampa, 21 settembre 2019)
Cassola, la ricetta del dolce ebraico
di Roberta F.
Conoscete la cassola dolce? Ecco tutto quello che c'è da sapere sulla torta di ricotta ebraica.
La ricetta della cassola, dolce ebraico, ci permette di portare in tavola un delizioso peccato di gola.
Si tratta sostanzialmente di una torta alla ricotta da concedersi in qualsiasi occasione se ne abbia voglia. Non richiede che pochi ingredienti - non sottovalutate la freschezza della ricotta - che vanno semplicemente mescolati insieme dando vita ad un impasto corposo da cuocere in forno per il tempo riportato sotto.
La cassola dolce appartiene alla categoria delle ricette ebraiche romane ma ricorda fortemente le cheescake. La sua preparazione è alla portata di tutti: se avete voglia di provarla cimentatevi senza problemi. Perfetta per allietare la fine dei pasti ma anche la merenda, tale dolce di ricotta al forno del quale, in realtà, esiste anche la versione fritta in padella, è irresistibile. Radunate sul tavolo tutti gli ingredienti e cimentatevi, successo assicurato.
 Ingredienti della cassola dolce
500 g di ricotta fresca di pecora o di mucca
150 g di zucchero
3 uova
1 pizzico di sale
burro
cannella in polvere
scorza grattugiata di limone
1 cucchiaio di rum
 Preparazione della cassola dolce
Il giorno precedente mettete a scolare la ricotta all'interno di un colino in frigo. Il giorno seguente scolatela e trasferitela in una ciotola.
Lavoratela con una forchetta, quindi aggiungete lo zucchero, la cannella e mescolate il tutto fino ad ottenere una crema.
A questo punto aggiungete le uova, una alla volta e man mano che quella precedente è stata assorbita. Ottenuta una crema omogenea e priva di grumi, trasferitela in una teglia imburrata e con i bordi alti.
Fate cuocere il dessert in forno caldo a 180o per un'ora circa.
Alla fine, spegnete il forno e fate raffreddare la cassola, quindi tirate fuori la teglia e gustate spolverata di zucchero a velo sopra.
(Gustoblog, 21 settembre 2019)
Mosca si esercita e fa paura
di Alberto De Filippis
C'è anche il presidente russo Vladimir Putin nella regione di Orenburg per assistere all'esercitazione Tsentr 2019.
Quest'esercitazione vede la partecipazione di Cina, India, Kirgistan, Kazakistan, Tagikistan, Pakistan e Uzbekistan. Il maggiore partecipante straniero sarà Pechino con oltre 1600 uomini.
Le manovre dovrebbero essere un mix tra operazioni di guerra meccanizzata di base e contro-insurrezione, per lo più volte a rafforzare i legami tra i paesi partecipanti. Il ramo artico sarà per lo più un esercizio di blocco dell'area.
Il vero vantaggio per Mosca è il test di mobilitazione e dispiegamento, senza dimenticare che la Russia ha spostato un gran numero di attrezzature fino al confine ucraino con la scusa delle esercitazioni. È questo il motivo per cui, con grande discrezione diversi paesi vicini alle aree interessate della manovre, nonostante le rassicurazioni russe, stanno tenendo esercizi di difesa/prontezza operativa.
(euronews, 21 settembre 2019)
Gli archeologi scoprono il regno di Edom. La Bibbia "aveva ragione"
Gli archeologi ritengono di aver scoperto le prove di un antico regno biblico al confine tra Giordania e Israele.
Alcuni team di ricerca provenienti da paesi come Giordania, Israele e Stati Uniti affermano di aver trovato Edom, sede di un popolo nomade che ha combattuto contro gli israeliti nell'Antico Testamento.
I team di archeologia sostengono che la loro scoperta suggerisce che gli edomiti fossero più avanzati di quanto si ritenesse fino ad oggi, e che vivessero circa 300 anni prima di quanto si pensasse in precedenza.
Secondo il capitolo 36 della Genesi, Edom fu fondata dal fratello di Giacobbe, Esaù e dai suoi discendenti. Timna era uno dei "capi discesi da Esaù". Gli edomiti erano nomadi e non si sapeva molto su di loro al di fuori di quanto scritto nella Bibbia, come riporta anche il Daily Star Online.
 La ricerca si è concentrata sulla "fusione del metallo"
Nella giornata di mercoledì, i team guidati da Erez Ben-Yosef dell'Università di Tel Aviv e Thomas E Levy dell'Università della California di San Diego hanno pubblicato i loro risultati: "Usando l'evoluzione tecnologica, siamo stati in grado di identificare e caratterizzare l'emergere del regno biblico di Edom", ha detto Ben-Yosef.
Secondo i media israeliani, gli archeologi hanno testato le impurità rilasciate dal rame durante la fusione. Dalle scorie è emerso che gli edomiti usavano le stesse tecniche di fusione del metallo utilizzate da altre persone che vivevano in altre aree circa 3000 anni fa.
I ricercatori hanno affermato che ciò ha dimostrato l'esistenza di un sistema sociale che consentiva agli edomiti di comunicare e scambiare idee anche a lunghe distanze.
(New Notizie, 21 settembre 2019)
Tre generali e un giornalista per il dopo-Bibi
Benny Gantz condivide il successo elettorale con due ex colleghi, anche loro al vertice delle forze di difesa prima di scendere in politica. E con una star del giornalismo. Sta a loro costruire la nuova fase politica dopo il lungo regno di Netanyahu. A meno che il premier uscente non riesca a dividerli e a rientrare in gioco.
di Dan Rabà
GERUSALEMME - Che governo sarà, un esecutivo guidato da Benny Gantz? Un esecutivo guidato da un generale? Anzi, da tre generali. La formazione politica che ha avuto più voti nelle recenti elezioni israeliane - Kahol Lavan, Blu-bianco, i colori di della bandiera - vede al suo vertice l'ex generale Benny Gantz, ex capo delle forze di difesa (IDF), e il giornalista Yair Lapid, rispettivamente a capo del Partito della resilienza e di Yesh Atid. A questi vanno aggiunti Telem, guidato da Moshe Bogie Ya'alon, ex generale, ex capo dell'IDF ed ex-ministro della difesa, e gli indipendenti di Gabriel Gabi Ashkenazi, anch'egli ex generale ed ex capo dell'IDF.
In Israele, non è certo una novità la presenza in politica di ex-militari ed ex-generali. In questo caso si tratta di tre generali contemporaneamente in posizione di vertice.
Di solito i generali, quando si trovano al top di una forza politica, vi portano con sé il bagaglio e le modalità proprie dell'ambiente in cui hanno vissuto e si sono forgiati, all'insegna del comando e delle regole gerarchiche. Tendono a essere individualisti e inclini a governare con polso. In questa vicenda, essendo in tre, devono, vogliono, dimostrare di essere capaci di agire in team, di giocare come squadra. Si vedrà.
Ma c'è un altro punto critico. Il rapporto con il "civile" Lapid.
Yair Lapid aveva messo su un suo partito solido e centrale nella politica israeliana, Yesh Atid (C'è un futuro) e puntava sul suo prestigio e notorietà con l'ambizione di diventare primo ministro. Benny Gantz era un generale molto corteggiato da tutti i partiti (sia di destra sia di sinistra) per la sua popolarità. Dopo molte titubanze Gantz ha deciso di fare un suo partito. Un altro generale, ministro della difesa di Netanyahu, estromesso da Bibi in malo modo, ha creato un partito proprio. Moshe Bogie Ya'alon, marcatamente di destra. Un terzo generale Gabi Ashkenazi, anche lui molto ricercato dai partiti, che sono sempre interessati ai militari in pensione, da tempo si stava dando da fare per entrare in politica. Prima si sono messi insieme Gantz e Bogie (mantenendo pero entrambi il proprio partito) In un secondo momento, dopo molte riluttanze, il duo si è unito a Lapid. Il terzo generale, che non riusciva a decidere dove inserirsi e che però era coinvolto nelle trattative, alla fine si è unito alla combriccola. Bisogna ora vedere come può tenere questa "chimica" personalistica, tra i tre militari, e tra loro e Lapid.
Va chiarito che i militari ancora in attività non possono fare politica né fanno sapere con quale partito si schierano. Quando poi vanno in pensione, dopo un periodo di pausa nel quale è loro proibito di militare in partiti, possono infine entrare nell'arena politica. Certo, sono tutti personaggi che, in divisa, hanno avuto contatti frequenti e diretti con il governo, con il parlamento. Se il governo decide e dirige la politica militare, l'IDF gode di considerevole autorità e indipendenza. E si può dire che i vertici delle forze armate, da alcuni anni, tendono a essere molto più moderati di chi è al governo, anzi svolgono anche un ruolo di freno alle velleità militariste dei politici.
Quali siano dunque le idee politiche dei generali, è da scoprire, soprattutto per via della loro estraneità, come s'è detto, alla pratica politica (con l'eccezione di Bogie che è stato per alcuni anni nel Likud).
La capacità di tenersi unite, di queste componenti, è la posta in gioco in questo momento. Riusciranno i tre generali e il giornalista a restare compatti o Netanyahu sarà abile nel dividere il loro schieramento, "comprandone" una delle componenti per fare il suo governo di destra?
Sul fronte avverso, la compattezza del Likud è anche dovuta alla leadership assoluta e autoritaria di Netanyahu. I notabili hanno addirittura firmato un documento di lealtà al Capo. I quaranta candidati in testa di lista del Likud hanno sottoscritto una petizione, lo scorso agosto, nella quale si sottolinea che il primo ministro Benjamin Netanyahu, e solo Netanyahu, è il candidato del partito designato a guidare il nuovo governo. D'altra parte nel Likud non ci sono altre personalità di rilievo, né ci sono correnti, né un successore designato. Tutti giurano fedeltà assoluta a Bibi.
Ora i blu-bianchi vorrebbero fare una coalizione di governo con il Likud, ma senza Netanyahu (perché - dicono - ha in corso i tre processi, e la loro campagna elettorale ha puntato il dito contro di lui, definendolo corrotto e autoritario).
In definitiva, lo scontro in atto tra i due campi è definito dal tentativo di dividere il fronte avversario. Scoppierà la lotta per la successione a Netanyahu? Riusciranno i politici del Likud a emanciparsi e liberare il partito dal potere autoritario di Bibi? E Bibi riuscirà a incrinare la compattezza dei militari?
Determinante il ruolo del presidente Reuven Rivlin. Una carriera nel Likud, ha avuto in passato duri conflitti con Netanyahu. I due non "si pigliano". A chi darà il compito di costituire il governo? Secondo quali criteri? Al partito con il maggior numero di seggi? O al partito che può contare su una rete di alleanze più ampia? Farà pressione, il presidente, per costituire un governo di unità nazionale, con tutti i partiti o solo con alcuni?
(ytali, 20 settembre 2019)
Addio a Marko Feingold: salvò centomila ebrei
Sopravvissuto a quattro campi di sterminio nazisti, aveva 106 anni
di Stefan Wallisch
BOLZANO - È morto a Salisburgo all'età di 106 anni Marko Feingold. Era sopravvissuto a quattro campi di sterminio nazisti, nell'immediato dopoguerra accompagnò dall'Austria verso l'Italia 100 mila ebrei, diretti in Palestina. Ancora da centenario andava nelle scuole a parlare della follia nazifascista.
La vita di Feingold è degna di una sceneggiatura da grande schermo: tra le due guerre il giovane austriaco gira con il fratello l'Italia facendo il commesso viaggiatore e apprende con sorprendente facilità la lingua di Dante.
Poi l'incubo delle persecuzioni naziste, una rocambolesca fuga e infine l'arresto.
Durante il calvario dei campi di concentramento, perde l'amato fratello. Quando arrivano gli alleati, il 32enne pesa appena 40 chili. A Feingold viene riconsegnato l'abito che portava anni prima al momento dell'arresto. «Era enorme per me, ma in perfette condizioni. Questi sono i vantaggi di un'amministrazione efficiente», ironizza Feingold nel libro intervista di pochi mesi fa 'Unfassbare Wunder' (Miracoli inimmaginabili) della giornalista viennese Alexandra Föderl-Schmid e del fotografo Konrad Rufus Müller.
Questo piccolo-grande uomo non perse mai il suo humour, come testimonia anche la risposta data qualche anno fa all'arcivescovo di Salisburgo che voleva conoscere il suo segreto di longevità. L'ultracentenario rispose: «Faccia come me e si sposi una donna giovane». Hanna Feingold ha infatti 35 anni meno di lui.
Feingold era il superstite più anziano della Shoah in Austria e forse anche in Europa. Dopo la guerra, quando l'Austria chiuse le frontiere agli ebrei diretti in Palestina, Feingold con uno stratagemma portò complessivamente 100 mila persone verso sud, attraverso il Brennero, spacciandoli per ex internati italiani.
Quando anche questa rotta fu chiusa, individuò un sentiero di alta montagna tramite il passo dei Tauri. In questo modo, nell'estate 1947, 5.500 adulti, bambini e anziani raggiunsero l'Alto Adige, per poi imbarcarsi verso la Palestina. L'associazione Alpine Peace Crossing ricorda questo evento ogni anno con una marcia della pace su questa via di fuga.
Con la fondazione dello stato d'Israele l'Austria riaprì i confini e Feingold si trasferì a Salisburgo, dove inaugurò il negozio di abbigliamento "Wiener Mode". Fino alla suo morte è stato presidente della comunità ebraica di Salisburgo. Si definì credente, ma poco praticante, come precisava nell'intervista: «Vista la serie di coincidenze nella mia vita, qualcosa deve pur esserci...».
(Trentino, 20 settembre 2019)
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Il sionismo durante e dopo la prima guerra mondiale
Ogni tanto sulla stampa e nei media compaiono articoli di "esperti" che intendono spiegare al pubblico l'origine "storica" dei problemi legati alla presenza in Medio Oriente dello Stato ebraico. Si tratta molto spesso di ricostruzioni monche e partigiane. L'articolo che segue è presente già da tempo sulle nostre pagine, ma poiché sappiamo che pochi vanno a rovistare negli archivi, lo riproponiamo oggi in prima pagina. In seguito faremo così anche con altri articoli. Quello che presentiamo qui proviene da una fonte non accusabile di partigianeria filosionista, essendo stato scritto tra il 1936 e il 1938, cioè durante il fascismo, e provenendo da una fonte che non poteva permettersi ricostruzioni fantasiose e manifestamente infondate: l'Enciclopedia Treccani. Una semplice, attenta lettura di questo articolo potrebbe far cadere tutta una serie di false affermazioni, tra cui quella che presenta la nascita dello Stato ebraico come una conseguenza della Shoah
Il risalto in colore è stato aggiunto.
Nel periodo della guerra mondiale l'attività sionistica pratica dovette naturalmente subire un arresto; d'altro canto si iniziarono quelle trattative col governo inglese che condussero prima (agosto 1917) alla formazione della Legione ebraica, che poi partecipò accanto alle milizie degli alleati a varie battaglie in Palestina, e quindi alla dichiarazione Balfour (2 novembre 1917), preparata da un'intensa attività esercitata specialmente da Hayyim Weizmann che aveva, durante la guerra, reso segnalati servigi all'Inghilterra, e dai suoi collaboratori. In tale dichiarazione Arthur James Balfour, ministro inglese degli Esteri, affermava che il governo inglese intendeva favorire la creazione e lo sviluppo in Palestina di una sede nazionale (national home, «focolare nazionale») per il popolo ebraico, salvi restando i diritti dei non Ebrei in Palestina e quelli degli Ebrei nei vari paesi. Dichiarazioni analoghe fecero in seguito gli altri governi alleati (l'Italia il 9 maggio 1918).
Prima ancora che la guerra finisse, una commissione sionistica, accompagnata da un rappresentante del governo inglese, si recava in Palestina per gli studi preliminari. Il 24 luglio dello stesso anno veniva posta la prima pietra dell'università ebraica sul Monte Scopo presso Gerusalemme. Terminata la guerra, il sionismo agì attivamente per ottenere l'effettiva costituzione della sede nazionale ebraica. Il 24 aprile. 1920 il consiglio delle Potenze decideva, a Sanremo, che la dichiarazione Balfour fosse inclusa nel trattato di pace con la Turchia e che il mandato sulla Palestina venisse affidato all'Inghilterra. Il 1o luglio dello stesso anno veniva insediato, quale alto commissario della Palestina, sir Herbert Samuel, ebreo. Il trattato di Sèvres, stipulato con la Turchia il 10 agosto, comprendeva la clausola della sede nazionale ebraica.
L'elaborazione del testo del mandato fu lunga e difficile. Un movimento, condotto da capi arabi, tendeva a impedire che la sede nazionale venisse costituita: l'opposizione araba ebbe anche episodi di violenza.
II testo del mandato, approvato a Londra il 24 luglio 1922 dal Consiglio della Società delle nazioni, ripete il contenuto della dichiarazione Balfour; stabilisce, fra l'altro, per la potenza mandataria l'obbligo di mettere il paese in condizioni tali da assicurare l'adempimento delle clausole della dichiarazione stessa; costituisce una rappresentanza ebraica (Jewish Agency) riconosciuta come ente pubblico, per cooperare con l'amministrazione inglese della Palestina tutto quanto riguarda la creazione della sede nazionale ebraica, con l'obbligo all'amministrazione del paese di facilitare l'immigrazione ebraica, vigilando a che non sia recata offesa o danno alle altre parti della popolazione. La potenza mandataria deve assumere la responsabilità dei Luoghi Santi; come lingue ufficiali della Palestina vengono stabilite l'inglese, l'arabo e l'ebraico; come giorni di riposo per i membri delle varie comunità i giorni festivi di ciascuna di esse.
Il lavoro ebraico intanto proseguiva non senza gravi difficoltà nel campo politico e in quello pratico. Gl'immigrati, provenienti parte non piccola dalla borghesia e dalla classe intellettuale dell'Europa orientale, si adattarono mirabilmente alle esigenze della vita agricola e del lavoro materiale: le vecchie colonie erano in incremento e nuove se ne fondarono. Tra le regioni bonificate e colonizzate nei primi anni dopo la guerra è particolarmente notevole la vallata di Esdrelon. Il 1o aprile 1925 veniva inaugurata l'università ebraica sul Monte Scopo. Da segnalarsi è l'attività del Qeren ha-yesod (fondo di costruzione) istituito nel 1920 con lo scopo di raccogliere 25 milioni di sterline per mezzo di un'imposta straordinaria a cui veniva invitato ad assoggettarsi ogni singolo ebreo mediante prelevamento di un decimo del suo capitale o del suo reddito annuo. Nei primi quindici anni di vita, e cioè fino al giugno 1935, questa istituzione ha raccolto ed erogato oltre 5 milioni di sterline. In politica prevalsero le tendenze moderate e concilianti del Weizmann, il quale, mentre sosteneva il principio della necessità della collaborazione con l'elemento arabo, favoriva l'allargamento della Jewish Agency, nella quale entrarono anche elementi non sionisti in senso stretto, rappresentanti delle varie istituzioni della diaspora, sì da fare di quella come una rappresentanza generale del popolo ebraico; tendenze contrarie avevano, e hanno tuttora, i «revisionisti», capitanati da Vladimiro Jabotinski, i quali ritengono che solo con la prossima creazione di uno stato ebraico in Palestina si possa risolvere il problema ebraico, mentre i seguaci del Weizmann, detti «sionisti generali», pensano piuttosto a una collettività palestinese binazionale, ebraica e araba.
Allo sviluppo agricolo, segnato dalla fondazione di nuove colonie (alcune delle quali a sistema cooperativo) nelle varie parti della regione, e a quello urbano, rappresentato, oltreché dalla città di Téll Abib (Tel Aviv), popolata ora da oltre 100 mila abitanti (2000 nel 1914), dalla costruzione di nuovi quartieri ebraici a Gerusalemme e a Haifa (la quale ultima città è fornita di un ottimo porto, inaugurato nel 1933) si è aggiunto recentemente quello industriale, segnato particolarmente dall'attività della società elettrica Ruthenberg e di imprese per l'estrazione del potassio dal Mar Morto. La questione araba, sempre aperta, ebbe alcuni episodi sanguinosi, specialmente nel 1929, in cui parecchi centri ebraici furono improvvisamente assaliti dagli Arabi, contemporaneamente quasi alla prima riunione del consiglio della Jewish Agency. In seguito a tali avvenimenti, vennero inviate dal governo inglese delle commissioni per l'accertamento dei fatti. Alcune affermazioni contenute nelle relazioni, che sembravano dare interpretazioni assai restrittive alle clausole del mandato relative all'immigrazione ebraica, suscitarono malcontento e proteste da parte dei sionisti: il Weizmann, alla fine del XVI congresso, che in quell'anno ebbe luogo a Zurigo, si ritirò dalla presidenza dell'organizzazione sionistica e della Jewish Agency; in seguito al XVII congresso (Basilea 1931) la presidenza fu assunta da Nahum Sokolow che la tenne fino a che, nel XIX congresso (Lucerna, agosto-settembre 1935), essa fu ripresa dal Weizmann.
Negli ultimi anni l'immigrazione ebraica, per quanto contenuta entro angusti limiti dalla potenza mandataria, raggiunse cifre assai elevate: un forte contingente le fu dato dall'emigrazione dalla Germania, in conseguenza delle leggi ostili ai «non ariani», ossia agli ebrei.
L'istruzione e l'educazione sono impartite in circa 300 scuole di vario grado, con una popolazione scolastica complessiva di circa 30.000 alunni, poste sotto la sorveglianza dell'organizzazione sionistica. L'università ebraica, con annessi vari istituti scientifici, è in continuo incremento; con l'inizio dell'anno scolastico 1935-36 sono state costituite le facoltà di matematica e scienze naturali. Essa ha presso di sé la Biblioteca Nazionale che possiede attualmente oltre 300 mila volumi. Anche le arti (musica, pittura) e le lettere sono in piena efficienza: nell'anno ebraico 5696 (settembre 1934-settembre 1935) sono stati pubblicati in Palestina circa 500 libri ebraici. La popolazione ebraica della Palestina è di oltre 300 mila anime, che costituiscono il 25% della popolazione totale.
(Enciclopedia Italiana Treccani, Vol. XXXI, pag. 865)
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Gantz non cede: "Netanyahu ha perso, tocca a me governare"
Il premier tenta il dialogo, ma il generale rifiuta. Rivlin insiste per un esecutivo di unità nazionale
di Giordano Stabile
GERUSALEMME - Nella foto dei tre uomini che decideranno le sorti di Israele nelle prossime settimane, il presidente Reuven Rivlin, Bibi Netanyahu e Benny Gantz, ce ne era uno che non sorrideva. Ed era Gantz. L'occasione era la cerimonia in ricordo di Shimon Peres, uno dei padri della patria, scomparso nel 2016. Netanyahu, che l'aveva sconfitto nel 1996, l'ha citato come possibile esempio per il prossimo governo quando ha ricordato che, nel 1984, il leader laburista si era messo d'accordo con il rivale Yitzhak Shamir in un esecutivo di unità nazionale, con rotazione alla carica di premier. Un esperimento durato quattro anni.
Questa è in sostanza l'intesa che il leader del Likud ha offerto ieri. L'ha fatto in maniera plateale, quando ha invitato Gantz a un incontro, subito: «Vediamoci oggi stesso e diamo un governo al Paese». L'ex generale ha però fiutato una trappola. Prima dell'offerta Netanyahu si è blindato con un accordo pre-trattative assieme ai tre partiti di destra alleati. Formano un blocco unico di 55 seggi che «King Bibi» vuol far pesare, soprattutto di fronte al presidente Rivlin, per ottenere i primi due anni di premiership, da cedere in seguito al rivale. O forse no.
«Nessuno si fida più di Netanyahu», hanno fatto sapere i consiglieri di Gantz. Poi è arrivata la risposta del leader. Un no secco. Blu e Bianco, il suo partito, ha replicato «è la formazione politica con più seggi. Netanyahu non è riuscito a ottenere una maggioranza. Costruiremo un governo ampio e liberale in grado di rispondere alle richieste del popolo. Non subiremo alcun diktat. Sarò io a condurre le trattative». Un tono militaresco che nasconde molte preoccupazioni. Rivlin e Netanyahu si amano poco, ma sono politici di lungo corso, e dello stesso partito, il Likud. Il presidente spinge per un'intesa di unità nazionale dallo scorso aprile, dopo il primo stallo alla Knesset. Ieri, alla cerimonia in ricordo di Peres, ha ribadito che chiederà a tutti i partiti «come intendono dare un governo a Israele il prima possibile». Segno che non accetterà i tatticismi che hanno avvelenato il clima per mesi dopo le elezioni del 9 aprile.
Questa volta Gantz ha due seggi in più di Netanyahu, 33 a 31, mentre ad aprile erano pari, 35 a 35. Il blocco di centrosinistra ha 57 seggi, che però includono i 13 della Lista araba, decisiva nella sconfitta del premier. Il centrodestra ne ha 55 e Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman 8. La ripetizione del voto non ha aiutato il premier. Nel 2015 aveva un blocco di 48 deputati di centrodestra laici, più 13 seggi dei religiosi. Lo scorso 9 aprile è passato a 44 laici e 16 religiosi. Martedì ha ottenuto soltanto 39 deputati laici e 17 religiosi. Un'erosione continua. Difficile che ci riprovi una terza volta. Fra due settimane dovrà affrontare l'audizione presso l'ufficio del Procuratore generale Avichai Mendelblit. Rischia il processo in tre casi di corruzione e abuso d'ufficio. Gli serve un colpo di scena. Analisti come Amor Harel non escludono una guerra. Già nel 2012 Netanyahu ha puntellato così la sua maggioranza, con l'ingresso di Kadima durante un'operazione a Gaza. Una provocazione da parte di Hezbollah o della Jihad islamica potrebbe innescare un conflitto per certi versi provvidenziale.
(La Stampa, 20 settembre 2019)
Gantz boccia Bibi: sarò io il premier
L' offerta (per ora rifiutata) del leader uscente: governo di unità. La risposta: si faccia da parte
di Davide Frattini
GERUSALEMME - Dopo quasi nove mesi di campagna elettorale ininterrotta, Benjamin Netanyahu e Benny Gantz si sono stretti la mano. A giudicare dall'espressione impietrita dell'ex capo di Stato Maggiore è probabile che il presidente Reuven Rivlin - erano tutti riuniti per commemorare il predecessore Shimon Peres - gli abbia tirato l'avambraccio verso quello del rivale. Perché il capo dello Stato comincia domenica le consultazioni con un obiettivo: il governo di unità nazionale.
Una soluzione che ieri per la prima volta anche Netanyahu ha appoggiato invitando l'ex generale a incontrarsi «appena possibile, io e te soli». L'ipotesi è durata poche ore. Gantz ha chiarito di aver vinto le elezioni e anche se sulla carta non ha ancora una maggioranza ha ribadito: «Tenterò di formare un governo sotto la mia guida». Bibi, come è soprannominato il primo ministro, ha twittato di essere rimasto «sorpreso e deluso» dal rifiuto.
In realtà gli analisti hanno bollato da subito la sua apertura come uno stratagemma: affibbiare a Gantz la responsabilità di un eventuale fallimento e la colpa di riportare gli israeliani al voto per la terza volta. «È ora di smetterla con gli espedienti e i trucchetti. Sediamoci io, te e Gantz e formiamo un governo liberale di unità nazionale», esorta Avigdor Lieberman rivolto a Netanyahu. Il leader del partito che raccoglie voti tra gli immigrati dall'ex Unione Sovietica considera «liberale» la parola chiave: per lui significa senza gli ultraortodossi, alleati naturali di Netanyahu nelle ultime coalizioni. Ai consiglieri avrebbe già detto di voler indicare Gantz come possibile primo ministro. Anche così esisterebbe una maggioranza solo con l'appoggio della sinistra e della Lista araba, che ha 13 deputati ed è il terzo gruppo in parlamento.
Durante la campagna elettorale il militare entrato in politica ha sempre escluso l'idea di associarsi a Bibi. Ha presentato un'immagine diversa, pulita, sa che il procuratore generale dello Stato ha già annunciato di voler incriminare Netanyahu per corruzione: dopo l'ultimo faccia a faccia con i legali della difesa (il 2 ottobre) è prevista la decisione per il rinvio a giudizio. Gli strateghi di Blu Bianco sono convinti di poter convincere almeno pezzi del Likud - sotto pressione - a sostituire quello che è il monarca incontrastato del partito da ormai 14 anni, i successori si stavano preparando a questo momento. Come spiega Yair Lapid, alleato di Gantz: «Vogliamo creare una coalizione con il Likud senza Netanyahu. È lui a non accettare il risultato del voto e a spingere gli israeliani verso nuove elezioni».
Gli amici si vedono nel momento del bisogno e quello americano ha reagito con freddezza alla sconfitta di Netanyahu: «Vedremo che cosa succede. La relazione degli Stati Uniti è in ogni caso con Israele», ha commentato Donald Trump.
(Corriere della Sera, 20 settembre 2019)
Bibi cerca il governo di unità nazionale
Lieberman favorevole, ma come premier vuole il leader di Blu e Bianco
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME- Chi pensava che finalmente la terribile campagna elettorale in Israele fosse finita, non ha fatto i conti con la determinazione delle due parti: Benny Gantz, che alla fine della conta ha ricevuto, secondo il canale tv 13, 33 seggi, e Netanyahu, che è rimasto a 31 sono ancora come due galli in battaglia. Il primo, se si conta anche il dubbio consenso della lista araba, coi suoi 13 seggi avrebbe 57 seggi, e Bibi 55. Ne occorrono 61 per fare il governo. Nel mezzo, come l'araba fenice, Avigdor Lieberman con i suoi seggi (diventati 8), che dice «Basta trucchetti» e invita Netanyahu a fare un governo di unità nazionale con lui e con Gantz, spingendo - avrebbe detto ai suoi - perché sia quest'ultimo a guidarlo. Bibi comunque non ha nessuna intenzione di arrendersi. Sa che Israele non intende andare per la terza volta alle elezioni, pensa che comunque questa soluzione forse gli darebbe spazio per riconquistare i voti perduti, e quindi gioca libero e veloce. Ha poco tempo: il 25 il presidente comincia le consultazioni, in sette giorni, il 2 ottobre, deve concludere e dare il mandato e il prescelto ha poi 28 giorni fino al voto di fiducia. Proprio il 2 ottobre Bibi sarà sentito dai giudici per una eventuale incriminazione, e qui scatta la sua necessità di ricevere l'immunità parlamentare che gli sarebbe garantita solo se ha il governo. Conta sul suo carisma ancora molto forte e sulla inesperienza e la scarsa coesione del suo diretto interlocutore e nemico, Benny Gantz, un bravo generale ma un neonato del Parlamento.
Ed ecco dunque ieri mattina, nell'anniversario della morte di Shimon Peres, Netanyahu incontra, insieme, il presidente Reuven Rivlin (non un suo grande amico) e Benny Gantz; afferra le mani dei due con un gran sorriso, i fotografi scattano. Gli occhi dietro gli occhiali da sole nella calura gerusalemitana non si incontrano. Ma la foto parla chiaro: sorrisi, speranza, unità nazionale. Quello di cui Israele ha bisogno per curare le ferite: Bibi lo sa bene, ha perduto, ma non ha subito una sconfitta drammatica, i numeri lo dicono. Segue subito un video in cui chiama l'altro duellante a un incontro a due per discutere l'unità nazionale, il governo di coalizione «per tutti quelli che credono in Israele come Stato ebraico e democratico». Senza precondizioni, dice Bibi, non dobbiamo andare a nuove elezioni, e ricorda come Shimon Peres e Yitzchak Shamir, persino loro due, riuscirono a formarlo negli anni 80. La proposta sottintende, così, anche il criterio della rotazione, e quindi la proposta di guidare personalmente il Paese. Rivlin ha subito lodato lo spirito positivo della proposta unitaria. Ma da parte di Gantz la risposta è stata fredda, cauta, nella determinazione di far valere la vittoria, con un'accusa chiara a Netanyahu di tentare una scorciatoia verso un ruolo che ormai appartiene, pensa Gantz, solo a lui.
Le due parti in realtà sono costrette da una serie di lacci e lacciuoli che lasciano aperta l'ipotesi dell'unità nazionale, ma come? Con o senza Bibi? Bibi non ha abbastanza voti per arrivare a 61 e ha riunito subito i partiti religiosi e di destra che stanno dalla sua in una promessa di gestire le trattative insieme. Può fidarsene? Non è detto.
Gantz sa a sua volta che il partito arabo, di cui dovrebbe ottenere l'appoggio esterno, è spaccato e incerto. Il famoso jolly che potrebbe coi suoi otto seggi risolvere ogni problema ha aggredito troppo direttamente i religiosi perché ambedue le parti si sentano a loro agio con lui. Ma più di tutto gioca l'ostracismo culturale della sinistra e anche di Gantz rispetto a Netanyahu: mai con Bibi, diceva tutta la campagna elettorale. Il Likud dovrebbe rinunciare a lui, e questo sembra impensabile, ma chi può giurare che nel prossimo futuro non ci sia una rivoluzione?
(il Giornale, 20 settembre 2019)
Israele e Spagna, due esempi che ci servono
di Alberto Negri
La teoria che la crescita dell'economia si fondi sulla stabilità dei governi forse deve essere rivista. Mentre l'Italia è appiattita su crescita zero o poco più, Paesi come Israele o la Spagna, dove si vota a raffica, vanno bene se non a gonfie vele.
Il caso di Israele poi è clamoroso. Quest'anno si è già andati al voto due volte - e la situazione rimane sempre in bilico - ma l'economia continua a volare. Anzi l'economia israeliana è un fenomeno che dovrebbe essere studiato all'università: un paese inizialmente senza risorse naturali, terreni prevalentemente aridi e situazione geopolitica incandescente, ha sviluppato negli ultimi anni un'economia che con soli otto milioni di abitanti è tra le prime 20-25 al mondo.
La crescita annuale del Prodotto interno lordo non è mai stata inferiore al 3%, il debito nazionale è sceso sotto il 6%; record dell'occupazione, integrazione nel sistema economico delle comunità più svantaggiate: gli arabi israeliani (il 20% della popolazione) e gli ebrei ultraortodossi. Quanto a crescita del Pil, per alcuni anni quella israeliana è stata la più solida economia del Mediterraneo.
Per non parlare dell'innovazione: Israele si colloca al terzo posto al mondo per numero di aziende start-up basate sull'intelligenza artificiale. Dieci aziende israeliane sono state inserite da Forbes nella lista delle 50 "più promettenti" società di intelligenza artificiale degli Stati Uniti dove tengono una filiale o una sede.
Israele, tanto per avere un'idea della diffusione tecnologica e scientifica, ospita oltre 1.000 aziende, centri di ricerca accademici e centri di ricerca e sviluppo multinazionali specializzati in intelligenza artificiale.
Ancora più di Israele la Spagna appare un Paese ingovernabile, con una frammentazione politica che sembra preoccupante e indomabile. Nel tentativo di rompere la situazione di stallo politico dopo le ultime elezioni di aprile, all'elettorato spagnolo verrà chiesto a novembre di andare alle urne per la quarta volta in quattro anni.
Eppure la Spagna è la quarta economia più grande dell'Eurozona, dietro Germania, Francia e Italia. E continua a crescere, sia pure con serie difficoltà strutturali e le recenti perdite in agricoltura per il maltempo. Secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, infatti, la crescita in Spagna sarà del 2,2 per cento nel 2019 e dell'l,9 nel 2020, dopo il 2,6 per cento del 2018. Ma la Spagna, nonostante la precarietà dei governi, è un paese che ha sempre fatto buon uso dei soldi pubblici e dei finanziamenti comunitari. La politica è ferma ma i treni corrono veloci: poche settimane fa è stata inaugurata la tratta ad alta velocità che collega Granada alle due grandi città del centro-nord e di levante, Madrid e Barcellona.
Qui ci mettiamo anni a decidere sulla Tav. Spesso guardiamo con sufficienza ai nostri vicini e alla Sponda Sud del Mediterraneo, ma da qui vengono alcuni esempi che ci dovrebbero fare riflettere. Se Israele e Spagna tengono botta e crescono è perché investono di più e meglio, perché spendono meglio i soldi pubblici e, nel caso di Madrid, anche quelli dell'Unione europea. In poche parole sono più efficienti e forse meno ladri.
(il Quotidiano, 20 settembre 2019)
Netanyahu tende la mano a Gantz. Ma lui rifiuta
Clamoroso cambio di strategia da parte del primo ministro, che fino a ieri sera aveva riunito i suoi e li aveva esortati ad andare avanti sul progetto di un governo di destra. Ma è costretto dagli eventi: con il 95 per cento delle schede scrutinate il suo Likud si ferma a 31 seggi, contro i 32 di Gantz
di Francesca Caferri
Un Benjamin Netanyahu indebolito dal risultato elettorale di martedì ha fatto oggi la prima mossa a sorpresa del dopo elezioni, offrendo al suo rivale, Benny Gantz, di lavorare insieme per un governo di unità nazionale: l'offerta è stata rifiutata da Gantz ma segna l'inizio ufficiale delle trattative per la formazione di un governo dopo le elezioni di martedi'. Il presidente della Repubblica, Reuvlen Rivlin, aprirà ufficialmente le consultazioni domenica.
La giornata è iniziata con un video postato su Twitter dal primo ministro israeliano, 69 anni, il leader più longevo dello Stato ebraico: "Benny, dobbiamo formare un governo di unità nazionale. La nazione si aspetta che siamo responsabili e lavoriamo insieme. Per questo ti chiedo di incontrarci, in qualunque momento e in qualunque luogo". Non un'ammissione di sconfitta, ma comunque un clamoroso cambio di strategia per un leader che fino a ieri sera aveva insistito sul progetto di un governo di destra.
Un cambio di strategia che non prevede la sua uscita di scena e a cui Netanyahu è stato costretto dagli eventi: i risultati ufficiali del voto saranno annunciati a breve, ma con il 95 per cento delle schede scrutinate il suo Likud si ferma a 31 seggi, contro i 32 di Blu e Bianco di Gantz. E la sua coalizione a 55, sei seggi in meno dei 61 necessari per controllare la Knesset, che ha 120 membri. Gantz, con tutti i potenziali alleati, partiti arabi inclusi, sarebbe invece a 54 seggi.
Poco dopo la diffusione del video, Netanyahu e Gantz si sono incontrati ad una cerimonia per il terzo anniversario della morte del presidente Shimon Peres: le immagini tv li hanno mostrati sorridenti e si sono stretti la mano. Un incontro fra i due è previsto nel pomeriggio, ma già prima di vedere il rivale Gantz ha voluto chiarire la situazione. Il compito è stato affidato a Moshe Yaalon, un altro dei leader di Blu e Bianco: "Non entreremo in una coalizione guidata da Netanyahu" ha detto, ripetendo uno dei mantra della campagna del partito, che da mesi sottolinea come le indagini per corruzione aperte a carico di Netanyahu lo rendano un partner improponibile per il governo.
Il leader di Blu e Bianco, 60 anni, è un ex capo di stato maggiore nuovo alla politica. Il suo partito è stato formato per sfidare Netanyahu alle elezioni dell'aprile scorso e vede alla testa 3 generali. Prima delle elezioni aveva aperto a un governo di unità nazionale e si era parlato della possibilità che lui e Netanyahu tenessero a rotazione il posto di primo ministro per due anni ciascuno. Bisognerà ora capire se questo sarà possibile: Netanyahu ha detto di non avere precondizioni da porre per la nascita dell'esecutivo. A un governo di unità è favorevole anche il vero vincitore morale del voto di martedì, Avidgor Lieberman, ex ministro della Difesa e degli Esteri che con i suoi nove seggi è l'ago della bilancia fra i due schieramenti: la sua condizione per unirsi all'esecutivo è l'esclusione dei partiti religiosi. Cosa che Netanyahu finora ha rifiutato.
(la Repubblica, 19 settembre 2019)
Israele e il mondo arabo: un dibattito al CAM
di Nathan Greppi
MILANO - In contemporanea con le elezioni israeliane martedì 17 settembre si è tenuto, al centro CAM in zona Garibaldi, il dibattito "Israele e Mondo arabo: è cambiato qualcosa?", organizzato dall'Associazione Milanese Pro Israele (AMPI). E infatti all'inizio dell'evento si sono seguiti in diretta gli exit poll delle elezioni. I relatori del dibattito, moderato dal presidente AMPI Alessandro Litta Modignani, sono stati Stefano Magni, giornalista e docente dell'Università degli Studi di Milano, e Marco Paganoni, direttore del sito Israele.net.
 Magni e lo scontro Iran-Arabia Saudita
Dopo aver seguito e commentato gli exit poll il primo a parlare è stato Stefano Magni, che ha voluto inquadrare i concetti di guerra e pace come li concepiamo noi: "Noi viviamo in un mondo europeo estremamente privilegiato, non conosciamo più un vero conflitto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Anche se non ce ne rendiamo conto, nel Medio Oriente è l'opposto, è raro trovare un momento di pace, che spesso è una conseguenza di un conflitto in un'altra zona del Medio Oriente, che assorbe le energie circostanti." Su questo ha fatto l'esempio del periodo di pace degli anni '90, dopo l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq, e in cui i sauditi si sono sentiti minacciati al punto di dover accettare la presenza militare occidentale in terre islamiche, "cosa che ha provocato non intenzionalmente la nascita di Al Qaeda."
Dal 2011, ha spiegato, intorno a Israele vi è una relativa calma perché con le Primavere Arabe i suoi nemici sono impegnati in conflitti interni, e in particolare quello in Siria, "che ha mietuto un numero di vittime pari a due volte l'insieme di tutte le guerre arabo-israeliane." Attualmente, secondo lui, la più grande minaccia è una possibile guerra tra l'Arabia Saudita e l'Iran, poiché "c'è uno stillicidio di attentati contro la produzione petrolifera saudita, che il 14 settembre ha visto l'episodio più grave, il bombardamento degli impianti petroliferi." Sebbene sia stato rivendicato dagli Houthi, le milizie sciite yemenite, si sospetta che i droni siano stati lanciati dall'Iraq o peggio ancora dall'Iran, il che costituirebbe un atto di guerra.
Attualmente Israele teme soprattutto gli Hezbollah, che avendo fatto esperienza nella Guerra Siriana potrebbero diventare più forti, e anche per questo ha fatto diversi raid contro le loro basi in territorio siriano. Ha aggiunto che spesso gli analisti tendono "a prevedere degli sfracelli per scelte politiche d'Israele che in realtà non sono successi, come per lo spostamento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Oggi si teme molto per l'annuncio di Netanyahu di una possibile annessione della Valle del Giordano," ma secondo lui non è detto che ci siano risposte serie da parte del mondo arabo.
 Paganoni: "Non dobbiamo abbassare la guardia"
Subito dopo è intervenuto Marco Paganoni, il quale alla domanda "è cambiato qualcosa?" nel titolo dell'incontro ha risposto: "Si, è cambiato molto. Ma è cambiato abbastanza da poter stare tranquilli? No." Ha spiegato che per anni si è detto che Israele avrebbe visto un'apertura con il mondo arabo solo dopo che fosse stata risolta la questione palestinese, "ma Netanyahu ha costruito la sua politica sull'assunto contrario: è la questione palestinese che si potrà risolvere solo dopo che il mondo arabo avrà aperto le porte ai rapporti con Israele." La scommessa fatta da molti analisti, ha spiegato, è che nel mondo arabo sia maturata una posizione diversa verso Israele, che non sia solo in funzione anti-iraniana, ma che ci siano anche interessi economici. Su questo ha ricordato che Israele parteciperà all'EXPO di Dubai nel 2020.
Ma nonostante tutti i segnali positivi in tal senso, Paganoni ha invitato a porsi dei dubbi: "Io sono uno di quelli rimasti scottati dall'esperienza degli anni '90, anche lì si aprirono i paesi arabi, sembrava una strada in discesa e invece non era così." Ha ricordato che questi paesi restano dittature, con cui ci si allea per realpolitik ma pur sempre instabili perché soggetti a colpi di stato. "Abbiamo a che fare con regimi che non danno garanzie di continuità," e ciò fa sì che magari chi oggi è alleato di Israele domani potrebbe non esserlo più e viceversa. Inoltre, anche quando i politici si aprono a Israele "le società del mondo arabo sono molto più arretrate nello sviluppare dei rapporti," anche in paesi già in pace con esso come l'Egitto e la Giordania.
Per dare un'idea dei cambiamenti repentini nella politica araba, ha raccontato che Assad, che fu espulso dalla Lega Araba quando sembrava sul punto di cadere, ci sta rientrando, e con la stabilizzazione della Siria ha ripristinato nel 2017 la Fiera Economica di Damasco, un tempo molto importante, e in cui quest'anno sono tornati anche degli imprenditori degli Emirati Arabi Uniti. In sostanza, finché vi è questo contrasto tra sunniti e sciiti Israele è alleato dei primi, ma non è detto che ciò possa durare.
(Bet Magazine Mosaico, 19 settembre 2019)
"Vendetta araba" su Netanyahu. Gantz cerca la grande coalizione
L'affluenza alta penalizza il premier e lo spinge lontano dal governo. L'ex generale a Lieberman: "Unità nazionale con il Likud ma senza Bibi".
di Giordano Stabile
GERUSALEMME - Se alla fine Benjamin Netanyahu sarà fuori dai giochi, messo ai margini dall'alleanza fra Benny Gantz e Avigdor Lieberman, si sarà, fra le altre cose, consumata anche una «vendetta araba».
C'è un dato che ronza nella testa del premier fin da ieri pomeriggio, quando le urne erano ancora aperte. Ed è l'affluenza degli elettori arabo- israeliani, in crescita di 11 punti, dal 49 al 60 per cento, cioè oltre 150 mila voti in più. L'altro dato è che in totale ha votato il 69 ,4 per cento degli aventi diritto, appena un punto in più rispetto al 9 aprile. Gli arabi sono andati ai seggi in massa, e non soltanto per la loro «Lista unica». Anche per Blu e Bianco di Gantz. Ed è per questo che il partito del generale, quando ieri lo scrutinio era al 95% delle schede, si trovava in testa, 32-33 seggi contro i 31-32 del Likud.
Un vantaggio minimo, ma sufficiente per chiedere l'incarico di formare un nuovo governo al presidente Reuven Rivlin. Una catastrofe per Netanyahu, tanto che ieri ha annullato la visita all'Assemblea generale dell'Onu a New York prevista per la prossima settimana. E anche l'atteso bilaterale con Donald Trump. È emergenza totale. Senza la carica di primo ministro il rischio di finire a processo a ottobre è altissimo. Ma a questo punto «King Bibi» ha poche carte da giocare. La Knesset è bloccata. Il centrodestra, senza Lieberman, ha 56 seggi. Il centrosinistra pure 56. Andare una terza volta al voto è improponibile.
 Le soluzioni sul tavolo
La soluzione più semplice è una grande coalizione tra Blu e Bianco e Likud. Netanyahu dovrebbe comunque cedere la premiership. Ieri, a caldo, ha detto di essere pronto a costruire un «forte governo sionista», cioè senza i tradizionali alleati religiosi e quindi con Gantz e forse anche Lieberman. Tutti e due i rivali però pongono come condizione che non sia l'attuale premier a guidarlo. Il più loquace è stato il leader di Yisrael Beitenu, che ha proposto una «mega coalizione» a tre e tracciato pure un programma, molto laico, con Shabbat lavorativi e matrimoni civili. Gantz è stato più prudente. Ha detto che Netanyahu ha perso e l'unica strada è un esecutivo di unità nazionale. Guidato da lui.
C'è però anche una terza possibilità. Dove la «vendetta araba» si consumerebbe a pieno. Ed è un governo di minoranza del centrosinistra.
Ai 43 seggi di Blu e Bianco, Laburisti e Unione democratica si aggiungerebbero, dall'esterno, i 13 della Lista unica araba. E in più ci potrebbe essere l'astensione dei nove deputati del partito sefardita Shas.
A spingere i religiosi in quel senso è l'ostilità totale, ricambiata, nei confronti di Lieberman. È la soluzione più improbabile. Ma ci sono alcuni segnali. Il leader della Lista unica, Ayman Odeh si è detto disponibile all'appoggio esterno. In campagna elettorale Gantz non lo aveva escluso. Netanyahu lo teme e lo evoca per rinsaldare le file del centrodestra. La scelta, ha avvertito, è fra lui e un «governo pericoloso» che fa affidamento su «arabi anti-sionisti». Uno spettro. O una svolta storica.
(La Stampa, 19 settembre 2019)
Fine di un'era?
Israele diviso dal voto: sconfitto di poco Netanyahu, il vincitore Gantz chiede un governo di unità nazionale, Lieberman ago della bilancia.

32
Sono i seggi ottenuti dal «Blu e Bianco», la formazione politica di Benny Gantz, uscito vincitore dalle elezioni di martedì. Benjamin Netanyahu, invece, si è fermato a 31. Entrambi sono però lontani dalla maggioranza di 61 necessaria per controllare la Knesset.
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Per quattro volte Benjamin Netanyahu è stato eletto premier , ed è divenuto il Premier più longevo deIla storia del Paese: il 20 luglio 2019 ha battuto infatti il record di 13 anni, 121 giorni di mandato detenuto da David Ben Gurion (che si era «fermato» a 4.876 giorni).
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di Fiamma Nirenstein
Unità, governo di unità nazionale: in cima ai pensieri molto confusi di queste ore in Israele, campeggia la consapevolezza, ripetuta da tutti i discorsi post elettorali, che Israele è traumatizzato, spaccato, e che non essendo la Svizzera o la Svezia, deve curare rapidamente le sue ferite. Ma non si sa come fare ancora, e le convulsioni di queste ore mostrano un Paese che comincia a pensare l'impensabile, a immaginare soluzioni machiavelliche, un po' come il governo che Shimon Peres formò con Yzchak Shamir nel 1984.
La conta ancora non è completamente conclusa, ma in realtà i giochi sembrano fatti. «Blu e Bianco» ha un seggio in più del Likud: 32 a 31. Sono tanti, dentro e fuori di Israele, quelli che disegnano la situazione come la fine, il tramonto, la morte politica di Bibi e la vittoria assoluta di Benny Gantz. In realtà il fatto che ambedue le parti siano lontane dal raggiungere col blocco che li sostiene il numero magico di 61 parlamentari che consente la formazione di un governo mette Netanyahu e Gantz in una situazione molto più complicata di quella disegnata dal tramonto di un'era e dal sorgere di un nuovo sole. Il blocco di centro sinistra può infatti contare su 55 seggi, e Netanyahu su 56. Bibi ha perso il posto, ma Gantz non l'ha guadagnato. Potrebbe averlo se riuscisse a tirare dalla sua parte Avigdor Lieberman, che ha 9 seggi, e ottenesse almeno l'appoggio esterno del partito arabo, 13 seggi, oltre ai due partiti socialisti, 6 e 5 seggi. Ma gli arabi non amano l'ex capo di Stato maggiore. E Lieberman il grande capriccioso, l'odiato re professionale di Netanyahu e anche però dei religiosi, ha già detto che il discorso vittorioso di Gantz, che auspicava ricomposizione e unità, non gli è piaciuto affatto, il governo deve essere liberale, ovvero laico (che vuol dire arruolamento obbligatorio per tutti, matrimoni e funerali civili, tagli delle spese dell'educazione religiosa) o preferirà restare fuori da tutto. Dunque, per ora Lieberman, che sembra esaltato dal suo ruolo di oppositore principe del più longevo Primo Ministro della storia di Israele, preferisce gonfiare il suo ruolo. Ma vedremo.
Il presidente Reuve Rivlin ha un compito molto difficile: dare il mandato che eviti le terze elezioni in un anno, spingere a un governo di coalizione, unica soluzione, aggirando il macigno sulla sua strada, il rifiuto della persona di Bibi. Il primo ministro però è deluso, ma per ora non ha intenzione di farsi da parte. Dopo avere rivendicato il ruolo del Likud e invocato «un governo sionista» si è affrettato ieri a fare due cose: la prima è stata riunire il gruppo di partiti della sua parte, Shas, che ha 9 seggi, Unione della Torah, 9, Yamina, 7 in una specie di giuramento di Pontida: insieme vinceremo o moriremo. Ma chissà: l'impegno è per la consultazione col presidente, solo più tardi verrà il governo. Shas per esempio, il partito religioso sefardita, guidato dall'astuto Arieh Deri, molto attento alle sue scuole, sinagoghe, case, e non aggressivo con l'arruolamento, potrebbe passare all'altra parte.
La seconda cosa che Bibi ha fatto, è stato cancellare la sua presenza e quindi il suo discorso all'Onu alla prossima assemblea generale. Così, proprio in queste ore in cui Trump su una linea che certamente ha avuto molti elementi di informazione e ispirazione da Bibi, inasprisce le sanzioni contro l'Iran, l'incontro a New York fra Netanyahu e il presidente americano viene cancellato. Israel Katz, ministro degli esteri andrà al suo posto. Un danno per Israele? Certo che sì, ma Netanyahu aspetta di capire cosa succede prima di prendere ulteriori decisioni. Così come segnala con la riunione immediata della sua parte la decisione di avere un blocco di ferro. Anche la breve conferenza stampa tenuta al pomeriggio ha segnalato la volontà di resistere. Dopo 13 anni di governo, non ha preso la maggioranza che voleva e che a chiesto con ordini, preghiere, promesse, minacce, con colpi di scena come quello di promettere l'annessione della valle del Giordano, o mostrando le foto della struttura in cui l'Iran seguitava fino ad ora a tenere l'uranio arricchito, o con scontri all'arma bianca con la stampa accusata di cercare di defenestrarlo a tutti i costi. Ora che sta per compiere settant'anni, il suo curriculum è insieme sazio ma rassicurante, dai tempi dei combattimenti a fianco dei suoi due fratelli nella Sayeret Matkal, via via su per la scala politica dopo aver cambiato il modo stesso di porsi di Israele sin da quando era ambasciatore all'Onu. Da allora l'ha disegnato finalmente come un Paese senza complessi nella sua propria difesa, fino a fronteggiare Obama, l'uomo più potente e popolare del mondo, fino alla sua audace politica economica, la tecnologia, la capacità di stabilire rapporti internazionali inusitati dall'India all'Africa al Medio Oriente sunnita. Fino agli incredibili successi con gli Stati Uniti. Metà di Israele non ne può più della sua scelta ribalda e forte, ci vede un elemento personale oggi ombreggiato dalle accuse legali che, per minori che possano essere, certo del tutto incomparabili con i furti di Olmert, andranno prima o poi davanti al giudice se l'immunità parlamentare non lo proteggerà. Tredici anni sono un patrimonio ma anche un termine di saturazione per un premier, si comincia a dire di lui che è un dittatore.
Ma l'altra metà vede che Jibril Rajoub, un leader palestinese grande sostenitore della violenza, che una volta disse che avrebbe volentieri sganciato una bomba in testa a Israele, dichiara la sua grande soddisfazione col resto dei suoi conterranei. E certo, i più contenti del mondo oggi sono gli Ayatollah.
(il Giornale, 19 settembre 2019)
«Il regno di Bibi è al termine. E l'asse politico più a sinistra»
Intervista a Sergio Della Pergola
di Fiammetta Martegani
«Un governo di unità mi sembra l'unica soluzione. Anche perché tornare alle elezioni provocherebbe un effetto boomerang per la destra» Te/Aviv
e si trattava di un referendum su Netanyahu, ed è stato un referendum su Netanyahu, ebbene: Netanyahu ha perso». Così, Sergio Della Pergola, demografo e professore emerito all'Università Ebraica di Gerusalemme.
- Quanto ha influito il Dna demografico di Israele in questa tornata elettorale?
La demografia, in un Paese piccolo come Israele, influisce sempre sul voto. In questo caso particolarmente, soprattutto per via delle legge elettorale: il cosiddetto proporzionale puro, con una la soglia di sbarramento attualmente del 3,25 %, favorisce lo spezzettamento, creando partiti di nicchia che tendono ad accontentare gruppi di interesse di tipo etnico o religioso, a scapito della governabilità.
- Insomma, una legge poco funzionale alla stabilità del Paese.
Quando Israele fu fondato, nel 1948, l'idea alla base era quella di permettere a tutte le diverse minoranze di esprimere la propria voce. Settant'anni dopo, però, non ha più alcun senso. Il modello di riferimento dovrebbe essere quello dei due grandi blocchi all'americana. Recentemente, sia Netanyahu che Barak hanno cercato di lavorare in questa direzione, ma senza grossi risultati. Nel campo della sinistra ci sono rivendicazioni, ripicche ed egoismi che da molto tempo continuano a perpetuare la frammentazione politica. Ma nello stesso errore è incappato il blocco della destra: nelle scorse elezioni non era riuscito a passare la soglia Naftali Bennet, con la sua Casa Ebraica; questa volta è rimasta fuori l'estrema destra di Otzma Yehudit.
- In attesa che si formino le alleanze di governo, qual è il risultato politico più rilevante di queste elezioni?
Il dato più evidente è che il regno incontrastato di Bibi è giunto al suo termine. E, a meno che non riesca a escogitare cavilli grotteschi che metterebbero a rischio la governabilità del Paese e forse anche in pericolo il futuro di Israele, mi sembra che le cose siano piuttosto chiare. Per quanto si tratti di un cambiamento fluido, di fatto, dopo queste elezioni, l'asse politico si è spostato a sinistra: non soltanto perché mettendo assieme i voti delle diverse formazioni il blocco di centrosinistra ha raggiunto risultati migliori, ma anche perché la stessa destra sembrerebbe, in parte, essersi spostata a sinistra. E Lieberman, ago della bilancia del voto, ha finito per rappresentare l'ala più "riformista" della destra. Proprio qui sta la chiave del suo successo. E dell'insuccesso di Bibi.
- L'unica formula possibile per formare una maggioranza sembra quella del governo di unità nazionale.
Per forza. Anche perché tornare alle elezioni una terza volta potrebbe provocare un effetto boomerang e spostare gli equilibri ancora più a sinistra. È necessario creare una macrocoalizione e aggregare, eventualmente, anche altri partiti minori. E serve la guida di Gantz, per trasmettere a tutto il Paese un messaggio di cambiamento, per lanciare lo sguardo verso un futuro democratico in cui, anche dentro allo stesso Likud, si possano esprimere altre voci, non solo quella di Bibi.
- Un ultimo dato importante: l'ascesa della Lista Araba Unita
Questo è il classico effetto-paradosso: a furia di attaccare l' elettorato arabo in campagna elettorale, Netanyahu ha finito per contribuire a rafforzarne l'identità, spingendo la comunità araba, che solitamente si reca ai seggi mal volentieri, ad esprimere la propria voce. E i risultati, si vedono.
(Avvenire, 19 settembre 2019)
Israele e la nuova Knesset. La paura dei religiosi, ebrei e islamici. Cosa accade ora
Parla Amnon Lord. "In Israele tutto il sistema politico si è radicalizzato. Ora molte incognite. Gli errori di Netanyahu possono portarlo a finire in un deserto come Ben Gurion".
di Giulio Meotti
ROMA - Il 10 aprile, Bibi Netanyahu e Benny Gantz hanno entrambi cantato vittoria. Il 18 settembre, nessuno dei due lo ha fatto. "Netanyahu ha perso, Gantz non ha vinto", recita l'adagio in Israele dopo la seconda tornata elettorale in sei mesi. I centristi dell'ex capo di stato maggiore Gantz sono avanti di un punto sul Likud. Ma né la destra (55) né il centrosinistra (56) hanno i numeri alla Knesset per formare un governo (61 seggi). Terza, a sorpresa, la Lista araba unita con tredici seggi. Ago del Parlamento, il russo Avigdor Lieberman.
Le elezioni israeliane non sono state una disputa tra destra e sinistra, la "sinistra" è l'ombra di ciò che fu e solo il cinque per cento degli israeliani si definisce tale. Dei palestinesi non si è parlato. "Nessun singolo episodio ha plasmato la popolazione e la politica di Israele come l'ondata di attentati suicidi perpetrati dai palestinesi nei primi anni Duemila" scriveva Matti Friedman sul New York Times della scorsa settimana. "Gran parte di ciò che vedi qui nel 2019 è il seguito di quel periodo". A decidere le elezioni, oltre al referendum su Netanyahu, sono state invece le divisioni identitarie e religiose. Che succede ora? Cinque scenari. Unità nazionale fra Likud e Bianco e blu di Gantz. Governo Likud-Lieberman, che però aveva causato il ritorno alle urne rompendo con Bibi. Governo Likud-Labor, ridotto ai minimi storici. Governo di centrosinistra fra Gantz, il Campo democratico della sinistra, il Labor e un appoggio esterno degli arabi. Ultimo scenario, di nuovo alle elezione. Gantz dovrebbe essere il primo a ricevere il mandato esplorativo per formare il governo.
Poche le certezze dunque. Quel che appare chiaro è che Israele si è svegliato un po' meno religioso e un po' più arabo, dopo che i due grandi partiti hanno agitato lo spettro delle due comunità più stigmatizzate: gli ebrei ultraortodossi e gli arabi musulmani.
Non è entrato alla Knesset il partito della destra messianica Otzma Yehudit e ha perso molto il partito nazional-religioso Yamina di Naftali Bennett e Ayelet Shaked. Ne parliamo con Amnon Lord, l'ex direttore del quotidiano Makor Rishon, columnist del primo giornale del paese Israel Hayom e vicinissimo a Netanyahu, che a Lord ha concesso l'intervista pre-elettorale. "Due giorni fa qui si parlava di annettere la Valle del Giordano, oggi degli arabi in una grande coalizione, tutto cambia in Israele in poche ore", dice Lord al Foglio. "Gli arabi hanno ora un peso enorme. In cambio dell'eventuale appoggio esterno, gli arabi chiederebbero fondi per le loro comunità a Gantz, accordi con l'Autorità palestinese e un progetto post sionista di società. Lieberman era antiarabo e oggi è una manna per gli arabi. Entrambi odiano Bibi". Il capo della Lista araba unita, Ayman Odeh, ieri ha detto che sosterrà Gantz come incaricato premier. E a conferma, ieri Netanyahu ha detto di voler formare un "governo sionista senza gli arabi", dopo che in campagna elettorale li aveva accusati di frode elettorale e di cercare di "impadronirsi" del paese. Secondo Lord, è uno degli errori commessi da Bibi. "Come la sua retorica antiaraba per spingere il proprio elettorato ad andare a votare. Adesso c'è il rischio di un movimento secolarista post sionista, fortemente rafforzato dalle urne, e che tenterà di bloccare l'identità ebraica in Israele. La soluzione ideale sarebbe un governo di unità Bibi-Gantz. I governi di unità nazionale negli anni Ottanta hanno funzionato bene sotto il punto di vista delle riforme economiche. Nel 2009, Netanyahu ha creato un governo con Tzipi Livni e Ehud Barak ed è stato uno dei migliori governi nella storia israeliana, il paese ha superato indenne la crisi finanziaria, ha fermato la nuclearizzazione dell'Iran, due guerre a Gaza. David Ben Gurion dopo dieci anni di potere, al top della popolarità, fu costretto a cedere la guida. E ha finito i suoi giorni nel deserto. Bibi farà lo stesso?".
Tutto il sistema politico si è radicalizzato. "Il Likud era un partito di centrodestra, sotto Bibi è diventato un blocco nazionalista". In caso di unità nazionale, gli arabi saranno il partito di opposizione. E questo avrebbe ricadute importanti per il paese.
"Lo stato dovrà informare gli arabi sulla sicurezza. La cosa positiva è che non potranno più dire che in Israele vige uno stato di apartheid". Amnon Lord abbozza una risata, ma piena di incognite.
(Il Foglio, 19 settembre 2019)
Capolavoro dell'integrazione: in Israele comanda Allah
I partiti arabi per la prima volta pronti a sostenere un governo sionista. Quello di Gantz, il nemico di Netanyahu. La spinta demografica dell'islam sta prevalendo sugli ebrei.
di Renato Farina
L'altro ieri ci sono state le elezioni in Israele. Non ci hanno mai preoccupato. Qui nessuno è tiepido, chiunque governi, destra o sinistra, non ha mai tenuto sulle spine l' Occidente, anzi gliele ha levate dai piedi e dai fianchi. Ora però c'è un fatto nuovo.
Netanyahu ha perso. E la Lista araba unita (Lau) dei palestinesi si candida a essere determinante per la formazione del nuovo governo. Hanno 12 seggi sui 120 della Knesset, la Camera unica. Intendiamoci. Ci sono arabo-israeliani dalla nascita stessa dello Stato ebraico, ed hanno sempre avuto la cittadinanza. Ma la loro capacità procreativa è enormemente superiore a quella degli ebrei. Che pure al tempo della schiavitù in Egitto davano lezioni ai locali. Oggi i palestino-israeliani sono il 21 per cento, in crescita geometrica. Per rafforzare la componente identitaria della popolazione, le frontiere sono state aperte agli ebrei della ex Urss e dell'Europa orientale, sollecitati a trasferirsi qui dopo la fine del comunismo. Niente da fare. I nuovi giunti non si sono integrati con i più occidentalizzati antichi residenti. Anzi sono stati considerati da molte parti come parassiti, tali e quali gli arabi. Il risultato è che adesso molto probabilmente si alleeranno con costoro, nell'alleanza più innaturale del mondo, persino più di quella che incolla alle poltrone Cinque Stelle e Partito democratico.
 L'ammucchiata
Finora parecchi palestinesi votavano a destra o a sinistra ma sempre per partiti di matrice ebraica. Stavolta è passata la linea dell'emergenza antifascista, conglomerando un insieme di nazionalisti, islamisti, progressisti, comunisti, tradizionalmente divisi in più partiti (ci sono anche gli arabo-cristiani ma sono sempre meno e subiscono una doppia persecuzione). Gli arabi con cittadinanza israeliana da sempre si presentano alle elezioni ma sparpagliati. Mai nessuna delle loro formazioni aveva partecipato al governo e nemmeno aveva dato appoggio esterno. Stavolta probabilmente accadrà. Miracoli della tattica, che ha messo a frutto la forza demografica. Hanno fatto lista unica, proprio mentre gli ebrei non sono mai stati così ingrugniti tra loro, che pure litigiosi lo sono da sempre, come insegnano le loro famose barzellette. E mentre in passato gli arabi si recavano al voto in minoranza, l'altro ieri sono accorsi in massa alle urne.
Domanda: gli arabi associati al governo di Israele saranno la quinta colonna di intenzioni potenzialmente nemiche di Gerusalemme? Rispondiamo, come ci insegnano ebrei, con un'altra domanda: secondo voi...? Di certo Israele è troppo democratico per impedire un diritto democratico a una minoranza. Ha sempre contato sulla capacità attrattiva dello stile di vita e dei valori patriottici della componente maggioritaria del suo popolo. Speriamo. Oggi di sicuro la Lau in maggioranza può condizionare alquanto non solo le questioni interne di questo Stato, ma l'intero scenario mediorientale e perciò mondiale.
Quanto accaduto in Israele è una profezia per noi? Nella testa dei capi arabi estremisti e moderati di sicuro. Il futuro nella mente di Fratelli musulmani e soci è quello illustrato da Michel Houellebecq in "Sottomissione". Questa nuova forza politica a connotato etnico-religioso determinante in Israele prefigura pallidamente quanto potrà accadere in Europa, con lo sviluppo demografico potente teorizzato dai capi musulmani che spingono all'immigrazione i loro seguaci. Fino al dominio politico reso rapido dalla cittadinanza facile che la sinistra è lesta a concedere.
 Democrazia
Bisogna però spiegare che cosa è successo in queste ore in Israele. In qualche modo tutto ciò è frutto della democrazia parlamentare, che accomuna Israele con Roma, per cui le maggioranze si formano dopo il voto, cucendo pezze eterogenee.
C'erano in lizza stavolta due partiti centristi. Il Likud di Bibi Netanyahu alleato con la destra religiosa degli ebrei ortodossi e il Kahol Lavan di Benny Gantz alleato della sinistra laburista al lumicino. Ha vinto di un seggio il partito di Gantz. Nessuno dei due può però formare un governo senza lsrael Beitenu di Avigdor Liberman (leader degli ebrei russi). Ma Liberman l'ha giurata a Netanyahu per la sua alleanza con quelli che lui giudica fanatici di destra. Per cui si potrebbe arrivare a un governo di larga unità, che comprenda anche il Likud ma senza il suo leader che avrà anche un processo per corruzione nei prossimi mesi, e - soprattutto - potendo contare sui palestinesi.
Benny Gantz, il nuovo premier che lo sostituirà, passa per moderato rispetto all'avversario, ma non ha certo le ginocchia tremolanti: era il capo di Stato maggiore dell'esercito, non era uno disponibile a mettere fiori nei cannoni, ricordando di che pasta sia fatto lo Tzahal (il nome delle Forze armate ebraiche) non si possono avere soverchi dubbi in proposito. Ma se davvero, come pare, assocerà alla maggioranza i palestinesi, radunati in fascio non certo moderato, temiamo che a Teheran, a Tripoli e a Islamabad balleranno per strada.
(Libero, 19 settembre 2019)
Tra i due litiganti la lista araba gode. A rischio gli affari di Stato in Israele
Alle elezioni né Netanyahu (Likud) né Gantz (Blu e bianco) hanno ottenuto la maggioranza. Lieberman sarà decisivo. La guida dell'opposizione potrebbe andare ai rappresentanti della minoranza palestinese.
di Gabriele Carrer
È troppo presto per dare per finito Benjamin Netanyahu; scriveva ieri sul Financial Times il capo degli affari internazionali David Gardner. Lo stallo parlamentare figlio delle elezioni di martedì potrebbe sbarrargli la strada verso il quinto mandato da primo ministro di Israele ma attenzione a un politico che Gardner paragona all'illusionista Harry Houdini per l'abilità di uscire dalle gabbie che spesso è egli stesso a crearsi.
La sconfitta per il premier uscente, che a luglio è diventato il più longevo nella storia di Israele superando il fondatore dello Stato ebraico David Ben Gurion, si compone di tre elementi. Il primo: la sua coalizione non è riuscita a raggiungere i 61 seggi necessari per dare vita a una maggioranza e superare la crisi istituzionale che va avanti da aprile. Il secondo: il suo partito, il Likud, è di nuovo, a distanza di dieci anni, il secondo partito nel Paese, superato da Blu e bianco, la formazione anti «Re Bibi» guidata da Benny Gantz, ex capo di stato maggiore dell'esercito israeliano, e nata da un'alleanza con Yair Lapid, ex giornalista ed ex ministro di Netanyahu.
Il terzo: l'araba Lista unita (Lau) guidata da Ayman Odeh ha fatto registrare un risultato senza precedenti per un partito arabo alla Knesset arrivando al terzo posto. Il che può renderla centrale sia nel caso in cui finisse all'opposizione (e sarebbe primo partito d'opposizione) sia se dovesse offrire il suo sostegno a un governo guidato da Gantz in ticket con Lapid (i due si scambierebbero premiership ed Esteri a metà mandato).
Nella prima fase della campagna elettorale e della sfida contro Gantz, Netanyahu aveva puntato a bollare i suoi rivali come «di sinistra», in un Paese in cui questa etichetta è temuta da tutti e i laburisti diventano sempre più deboli ogni volta che si torna alle urne. Nella seconda fase, invece, il premier uscente ha scommesso sull'identità sionista proponendo l'annessione della Valle del Giordano e strizzando l'occhio agli ultraortodossi. Che rischiano di essere i grandi sconfitti di questa tornata elettorale. Infatti, i due partiti della destra religiosa, Shas e Giudaismo unito nella Torah, pur avendo aumentato i seggi rispetto al voto di aprile, ora temono di finire fuori dal tavolo delle trattative per la formazione del nuovo governo.
Tavolo al quale sarà presente e decisivo il politico che più li ha contrastati negli ultimi mesi, Avigdor Lieberman, ex ministro di Netanyahu e leader del partito nazionalista laico Israel Beytenu, molto forte tra gli emigrati dell'ex Unione sovietica. È proprio a causa dei contrasti tra Netanyahu e Lieberman sulla proposta di quest'ultimo per l'arruolamento nell'esercito degli ultraortodossi che ad aprile si sono rese necessarie elezioni anticipate.
Diamo un'occhiata ai seggi conquistati prima di addentrarci nella fantapolitica per la formazione del nuovo esecutivo israeliano. Blu e bianco ha conquistato 32 seggi (tre in meno di aprile), il Likud 31 (meno sette), la Lista unita 13 (più tre), Shas nove (più uno) come Israel Beytenu (più quattro), Giudaismo unito nella Torah otto (come ad aprile), la nuova destra di Yamina sette (più uno), la sinistra laburista sei (come sei mesi fa), l'Unione democratica cinque (più uno). Fuori dalla Knesset, Otzma Yehudit, formazione di ultradestra e antiaraba. Così, la coalizione centrosinistra - arabi di Gantz avrebbe 56 seggi contro i 55 di quella destra-religiosa di Netanyahu. In mezzo ci sono i nove decisivi deputati di Lieberman. Ecco spiegato con i numeri perché passerà dall'ex ministro della Difesa il futuro del governo israeliano.
A meno di improbabili patricidi nel Likud, due sono gli scenari più concreti: un governo di unità con Blu e bianco, Likud e Israel Beytenu (ci sarebbero però da vincere le resistenze di Gantz nei confronti di Netanyahu per le accuse di corruzione) o un esecutivo pre aprile, con Netanyahu in ticket con Lieberman e con gli ultraortodossi. A favore di quest'ultima possibilità ci sono le divergenze storiche tra l'ex ministro e alcuni generali di sinistra oggi con Gantz, mentre le tensioni di cui abbiamo detto poco fa tra Lieberman la destra religiosa sono ciò che sconsiglierebbe un accordo simile.
Inoltre, un governo sullo stile di quello esistente prima di aprile eviterebbe che l'araba Lista unita, accusata da più parti di non essere fedele a Israele, debba scegliere il capo dell'opposizione, il quale ha diritto a venire informato mensilmente dal premier sulle questioni definite «di Stato».
Dagli Stati Uniti il presidente Donald Trump, che aveva puntato forte per il suo piano di pace su Netanyahu, aspetta che l'omologo israeliano Reuven Rivlin dipani la matassa durante le consultazioni. In attesa di capire chi andrà all'assemblea generale delle Nazioni unite tra una settimana coma premier israeliano, lo scacchiere geopolitico non sembra rischiare stravolgimenti: sia Gantz sia Lieberman garantirebbe, infatti, una certa continuità rispetto a Netanyahu sui maggiori temi di politica internazionale, dai rapporti con i vicini fino alle questioni energetiche.
(La Verità, 19 settembre 2019)
Voto in Israele, Lieberman, il lupo sovietico che ha travolto il suo «creatore»
Nato politicamente all'ombra del capo del Likud, lo ha «demolito» in poche mosse
di Davide Frattini
GERUSALEMME - Racconta di aver letto Pietro il Primo, romanzo storico pubblicato in epoca stalinista, almeno 300 volte. Ammira Winston Churchill perché «è rimasto saldo sulle sue posizioni, niente ha potuto smuoverlo». Dello Zar ha portato con sé l'accento russo, ancora molto forte dopo quarant'anni dall'arrivo in Israele. Del leader britannico ha coltivato la passione per i sigari. Avigdor Lieberman rispetta gli uomini «capaci di nuotare contro corrente» e in questi mesi ha dimostrato di saper resistere ai cavalloni generati contro di lui dal premier Benjamin Netanyahu.
Eppure Bibi ed Evet i nomignoli che tra loro non usano più si conoscono da un trentennio, da quando Lieberman ha chiesto di diventare assistente volontario e sottopagato di quel giovane viceministro degli Esteri. Il buttafuori immigrato dall'ex Unione Sovietica già dimostrava l'intuito politico: allora aveva scommesso su Netanyahu, adesso scommette di poterne interrompere i dieci anni consecutivi al potere, ha battuto il record del padre fondatore David Ben-Gurion in longevità alla guida del governo.
Fino all'idea di fondare il suo partito personale nel 1999 (Israel Beitenu, Israele è la nostra casa), Lieberman è stato il consigliere più fidato durante l'ascesa di Netanyahu a monarca del Likud: la sua guardia del corpo politica che metteva tutti in riga dentro il partito e smantellava qualunque tentativo di opposizione interna. Gli epiteti con cui lo cominciavano a chiamare i colleghi Kgb, Rasputin gli hanno ricordato che anche in Israele qualcuno lo considerava all'inizio un estraneo, la stessa sensazione «di diversità quando a Kishinev da bambino i miei mi costringevano a parlare yiddish sul bus e tutti ci guardavano male», ha detto alla rivista americana Atlantic.
L'ha superata con la tenacia e una certa brutalità: ha rischiato la crisi diplomatica con gli egiziani dopo aver minacciato nel 1998 di bombardare la diga di Assuan per il loro supporto al leader palestinese Yasser Arafat e per aver «mandato all'inferno» il presidente Hosni Mubarak che si rifiutava di venire in Israele per una visita ufficiale; ha proposto di «affogare» i prigionieri palestinesi rimandati indietro in uno scambio «così di sicuro non tornano»; ha presentato un piano per il trasferimento forzato degli arabi israeliani «sleali verso lo Stato»; quando in parlamento si è ritrovato seduto vicino ad Ayman Odeh, parlamentare arabo, ha chiesto di essere spostato. In queste ore ha già chiarito: «Neppure in un universo parallelo posso entrare in un governo a cui partecipino loro».
Da ministro della Difesa il quotidiano Haaretz lo raffigurava nelle vignette con i denti da lupo che masticano avversari e vittime palestinesi. Alla fine una parte della sinistra che l'ha sempre evitato perché oltranzista e xenofobo l'ha invitato a scendere dalla colonia di Nokdim in Cisgiordania dove abita nei salotti arredati dai designer del quartiere Tzahala a nord di Tel Aviv. Durante la campagna elettorale i liberal delusi dai laburisti in emorragia di consensi hanno voluto ascoltare il nemico. A loro Lieberman ha promesso di impedire la nascita dell'ennesima coalizione tra Netanyahu e le formazioni religiose, ha offerto l'attrattiva di presentarsi come protettore dei laici contro i «soprusi» degli ultraortodossi nella vita quotidiana di tutti (niente matrimoni civili, stop alle attività durante lo Shabbat).
Nahum Barnea prima firma di Yedioth Ahronoth, il quotidiano più venduto scrive che Lieberman ama ripetere la lezione ricevuta dal padre: «Nella vita conta la fortuna, è l'elemento più importante. Guarda i passeggeri del Titanic: erano ricchi, erano felici, gli è mancata la fortuna». Assolto in un caso di frode, dopo che il procuratore aveva già rinunciato alle accuse più gravi, con la mossa di lasciare il governo e costringere Netanyahu a scegliere le elezioni anticipate (due nel giro di sei mesi) sembra avergli sottratto la «fortuna» politica necessaria a fronteggiare l'annunciata incriminazione per corruzione.
(Corriere della Sera, 19 settembre 2019)
L'Iran sospesa dalla federazione mondiale: fece perdere Mollaei per evitare Israele
Provvedimento cautelativo della Disciplinare della IJF da oggi fino alla decisione della Commissione su questo caso emerso ai Mondiali di agosto a Tokyo
di Enzo De Denaro
La brutta storia dell'atleta iraniano costretto a perdere per non incontrare l'israeliano non è ancora finita. I fatti sono recenti, più o meno tre settimane fa a Tokyo, durante le gare degli 81 kg nei Mondiali di judo, l'iraniano campione in carica Saeid Mollaei, fu oggetto di pressioni e minacce da parte delle autorità del suo Paese affinché non si arrivasse mai alla sfida con Sagi Muki, l'israeliano che poi, di fatto, è diventato il nuovo campione del mondo nella categoria degli 81 kg.
La faccenda non passò inosservata, più che altro furono notati quegli incontri anomali nell'area riscaldamento, cui seguirono lacrime di rabbia e paura del povero Saeid Mollaei, che concluse la sua gara al quinto posto. Perse o non volle vincere? Poco importa, ma quei "movimenti strani" furono notati e Marius Vizer, presidente IJF, si attivò immediatamente tutelando Mollaei, ma anche attivando tutte le procedure del caso, che hanno portato alla sospensione inflitta a partire dal 18 settembre alla Federazione iraniana di Judo.
Si tratta di una sospensione cautelativa da tutte le gare, attività amministrative e sociali organizzate o autorizzate dalla Federazione Internazionale Judo e dalle Unioni Continentali associate. "Il 28 agosto scorso durante i Campionati del mondo a Tokyo - recita la nota IJF - la Federazione Internazionale Judo è stata informata che il judoka iraniano Saeid Mollaei (81 kg) era stato istruito dalle autorità iraniane e dalla Federazione Judo iraniana a non gareggiare per evitare d'incontrare un atleta israeliano, nel caso Sagi Muki, che poi ha vinto il titolo iridato. Ed è proprio sulla base di queste azioni e di questo modo di agire, che l'IJF riscontra palese contraddizione con i contenuti della lettera che gli stessi presidenti Seyed Reza Salehi Amiri, presidente del NOC iraniano e Arash Miresmaeili, presidente della Federazione judo iraniano, avevano fatto pervenire in data 8 maggio 2019, specificando che "... attraverso questa lettera, vorremmo confermare che il Noc iraniano rispetterà pienamente la Carta olimpica e il suo principio di non discriminazione e la Federazione iraniana deve rispettare pienamente la Carta olimpica e gli statuti della IJF...". Queste azioni costituiscono inoltre, un pesante affronto ed una grave violazione dello Statuto IJF, dei suoi legittimi interessi, dei suoi principi e obiettivi, nonché, in particolare, ma non solo, del Codice etico della IJF e della Carta olimpica.
Per questi motivi, la Commissione Disciplinare IJF ha pronunciato una sospensione cautelativa della Federazione iraniana Judo da tutte le gare, le attività amministrative e sociali organizzate o autorizzate dalla Federazione Internazionale Judo e dalle Unioni Continentali associate, a partire dal 18 settembre 2019 fino alla decisione della Commissione su questo caso".
(La Gazzetta dello Sport, 18 settembre 2019)
Esegesi di un discorso di propaganda: l'inevitabile svolta antisemita del fascismo
Con il discorso di Trieste del 18 settembre 1938 Mussolini annunciava per la prima volta pubblicamente la promulgazione delle leggi razziali. Dalle colonie si passava così alla metropoli, adattando le norme create per gli abitanti dei territori oltremare al nemico interno per antonomasia, gli ebrei.
TRENTO. "L'ebraismo mondiale è stato durante 16 anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del fascismo". Concludeva così, Benito Mussolini, il suo intervento, tenuto il 18 settembre 1938, davanti alla folla osannante di Trieste.
L'importante porto giuliano, da sempre ospitante una nutrita comunità ebraica, ben inserita nella borghesia cittadina e sostenitrice convinta del nazionalismo italiano, diveniva il teatro del primo discorso pubblico in cui il capo del fascismo presentava al popolo italiano l'ulteriore passo compiuto dalla legislazione razziale italiana, avvicinando definitivamente il Regno d'Italia alla Germania hitleriana.
"Nei riguardi della politica interna, il problema di scottante attualità è quello razziale - esordiva - anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie. Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni o peggio a suggestioni sono dei poveri deficienti - risate divertite della folla - ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà. Il problema razziale non è scoppiato all'improvviso come pensano coloro i quali sono abituati ai bruschi risvegli perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni".
L'Italia fascista, come il regime teneva ad evidenziare, si differenziava nella sua politica antisemita dalla Germania nazista e dalla sua concezione genetica. Il tradizionale antisemitismo cattolico accompagnava semmai quell'evoluzione inevitabile del razzismo fascista cristallizzato nel codice civile durante la conquista imperiale dell'Etiopia.
In Africa il regime stabiliva per legge la superiorità dei bianchi sui neri, punendo pratiche come il madamato e cercando di disincentivare il meticciato. La stessa popolare canzone "Faccetta nera" cadeva in disgrazia a causa della sua celebrazione dell'unione tra popolo italiano (conquistatore e civilizzatore) ed etiope (selvaggio e sottomesso).
"È in relazione con la conquista dell'Impero, poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi ma si mantengono con il prestigio, e per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico non è dunque che un aspetto di questo fenomeno, la nostra posizione è stata determinata da questi incontestabili dati di fatto", annunciava tronfio il "duce" del fascismo.
Una situazione che non poteva che portare ad un'evoluzione in senso antisemita - al termine indigeno si sostituì quello di ebreo - rivolgendo quella stessa legislazione razziale alla metropoli, colpendo così una componente interna alla popolazione della penisola da sempre capro espiatorio perfetto della narrazione vittimistica e paranoica del nazionalismo ma fino a quel momento al di fuori delle luci dei riflettori per gli scarsi numeri che la componevano - la comunità ebraica italiana contava tra le 50mila e le 70mila unità, ed era perfettamente integrata nella società italiana.
Alcuni ebrei parteciparono alla "rivoluzione fascista", entusiasti per la carica anticlericale del primo fascismo. Margherita Sarfatti, amante e fervida sostenitrice di Mussolini, ne scrisse pure una biografia dai toni celebrativi, salvo poi fuggire una volta promulgate le leggi razziali, a partire dal luglio 1938.
La legislazione antisemita italiana si caratterizzava per la sua natura discriminatoria e non persecutoria. Una mancanza a cui l'istituzione della Repubblica sociale 5 anni dopo avrebbe tragicamente ovviato.
(il Dolomiti, 18 settembre 2019)
Netanyahu: io al governo oppure c'è il pericolo arabi
Blu-Bianco di Benny Gantz supera con 32 seggi il Likud che ne conquista 31
In una riunione del Likud dopo il voto in Israele Benyamin Netanyahu ha affermato che adesso "ci sono solo due possibilità: o un governo guidato da me, oppure un governo pericoloso per il Paese che si appoggi sui partiti arabi anti-sionisti. Faremo il possibile - ha detto il premier uscente - per impedire che sia varato un governo così pericoloso".
Al 90% dello spoglio dei voti, Blu-Bianco di Benny Gantz supera con 32 seggi il Likud di Benyamin Netanyhu che ne conquista 31. Lo ha fatto sapere la Commissione nazionale elettorale citata dai media. Nel computo di coalizione, quella di destra avrebbe 56 seggi, quella di centro sinistra 55. Ago della bilancia resta Avigdor Lieberman con 9 seggi. La Lista Araba Unita è il terzo partito con 13 seggi. Entrambe le coalizioni - si conferma - non hanno la maggioranza.
L'ex primo ministro Ehud Barak - presentatosi alle elezioni con 'Campo democratico' che secondo gli exit poll ha avuto 5 seggi - ha chiesto a Gantz di Blu-Bianco di formare una coalizione di minoranza temporanea tra il suo partito, i Laburisti di Amir Peretz e Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman, con il sostegno esterno della Lista Araba Unita. Barak ha spiegato alla Radio Militare che la coalizione di minoranza varrebbe fino alla definizione delle inchieste giudiziarie che coinvolgono Benyamin Netanyahu. Dopo queste - ha aggiunto Barak - il Likud potrebbe decidere se aggregarsi o meno al governo.
"E' possibile che indicheremo al presidente Reuven Rivlin, Blu-Bianco di Benny Gantz" per formare la coalizione di governo. Lo ha detto il leader della Lista Araba Unita Ayman Odeh alla Radio militare."Tuttavia - ha spiegato - noi abbiamo condizioni chiare e su quelle decideremo. Vogliamo sostituire Netanyahu".
(ANSA, 18 settembre 2019)
Lo Stato ebraico odiato dagli arabi può dare lezioni di democrazia a tutti
Un'isola di libertà in Medio Oriente
di Giovanni Sallusti
Focalizziamo il contrasto, perché è immane. Ieri si sono tenute le elezioni politiche nello Stato d'Israele. La notizia, vista da quaggiù, non è (anzitutto) chi ha vinto tra Benjamin Netanyahu e Benny Gantz. No, c'è una notizia preliminare, macroscopica nella sua ovvietà, che viene ben prima dei vincitori e dei vinti: il fatto stesso che nello Stato ebraico si sia votato. E per la seconda volta in sei mesi: la tornata attuale è figlia dello stallo del 9 aprile, quando dalle urne (quel luogo in cui depositate una scheda con dei nomi e una croce fatta da voi medesimi, non so se ricordate) uscì un sostanziale pareggio tra Netanyahu e Gantz.
 La minaccia permanente
Non si sono fatti problemi, a Tel Aviv, a riconvocare il popolo sovrano. Nonostante, con ogni evidenza, Israele sia in uno stato d'emergenza permanente. E circondato da vicini che varie volte nella storia lo hanno attaccato compattamente, per cancellarne la presenza sul mappamondo. «Israele sarà stabilito e rimarrà in esistenza finché l'islam non lo ponga nel nulla», recita tutt'oggi lo Statuto di Hamas, la banda di tagliagole per conto di Allah che controlla la Striscia di Gaza e che ha la simpatica usanza di scavare tunnel fin dentro le viscere dello Stato ebraico, per allietarlo con attentati kamikaze. Pratica supportata e incentivata dall'Hezbollah libanese (il "Partito di Dio", quale è superfluo ripeterlo), a tutti gli effetti un braccio armato della teocrazia assassina degli ayatollah iraniani, club di gentiluomini che su Israele non finge nemmeno di dissimulare le proprie intenzioni. «Eliminarlo dalla faccia della Terra», ha ribadito pochi mesi fa il comandante dell'aeronautica di Teheran, un tipino che sarebbe piaciuto al dottor Goebbels. Per i duri d'orecchi (e di cervice): Israele si trova in una condizione di guerra perenne. E non solo non abdica alle proprie libertà, ma le ostenta. Non solo non stringe le briglie della democrazia, ma le scatena. Si vota, anche due volte in sei mesi se serve, perché questo siamo. Si vota mentre aprono l'ennesimo tunnel sotto i nostri piedi e le nostre vite, si vota mentre mandiamo i figli a scuola ognuno su un autobus diverso, perché statisticamente se ne fanno saltare in aria uno gli altri si salvano, si vota mentre altrove un pugno di macellai invasati pianifica la nostra estinzione, si vota sotto i razzi Qassam e sopra i cadaveri dei nostri cari. Mentre noi, qui, che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, avrebbe detto Primo Levi, noi italiani che godiamo di decenni di pace, che abbiamo il privilegio assoluto di uscire di casa senza tremare a ogni "tic" intuito per strada, che non conosciamo più il suono dell'allarme aereo e che non siamo circondati da nemici (perlomeno non dichiarati), no.
 Un faro di civiltà
Noi non possiamo votare. Signora mia, che volgarità, il popolo bue si è già fin troppo espresso, alle Europee ha addirittura indicato inequivocabilmente preferenze opposte a quelle dell'establishment, qui rischiamo davvero che il sostantivo "democrazia" diventi qualcosa di più che l'orpello per imbellettare il discorso di Capodanno del presidente Mattarella, che si riempia di senso e di quotidianità. C'è la Costituzione, la sacra liturgia della Repubblica voluta dai padri, la legittimità formale di qualsiasi operazione ribaltonistica. Tutto quello che volete. Però là, in un fazzoletto di terra in guerra col mondo circostante, si vota. Due volte in sei mesi. Qua no. Non è un contrasto, è una disfatta civile.
(Libero, 18 settembre 2019)
Israele, vantaggio Netanyahu: ma adesso si rischia la paralisi
Chiuse le urne, adesso c'è attesa per i responsi elettorali: è confermato il testa a testa tra Gantz e Netanyahu. Lieberman ago della bilancia: "Interessato solo ad un governo di unità nazionale"
di Mauro Indelicato
Per la prima volta nella sua storia, Israele torna al voto dopo appena cinque mesi dalla precedente consultazione. Anche per questo l'elemento di curiosità, a Tel Aviv come a Gerusalemme ed in tutte le altre città del paese, appare molto alto una volta aperti i seggi.
I primi exit poll diffusi dalla tv israeliana, contribuiscono ad alimentare una certa incertezza già ben evidente alla vigilia: è confermato infatti il testa a testa tra Blu & Bianco ed il Likud, i due principali partiti, guidati rispettivamente da Benny Gantz e Benjamin Netanyahu. Il divario, secondo i primi sondaggi diffusi dopo il voto, è molto risicato.
Il conteggio delle schede, giunto oramai al 92% del totale, assegna un leggero vantaggio al Likud e dunque al partito di Benjamin Netanyahu: in particolare, la formazione di centro - destra ha il 28.2% dei voti, mentre Blu & Bianco di Gantz si ferma al 27.5%. Divario minimo quello a favore di Netanyahu, che però gli conferisce in questo momento la possibilità di ottenere l'incarico per formare il governo. Al prossimo parlamento, sia il Likud che Blu & Bianco avrebbero, con questi risultati, 32 seggi a testa.
Terza forza dovrebbe essere la Lista araba unita, con 12 seggi all'interno del nuovo parlamento, seguita da Yisrael Beiteinu con 9 deputati nella nuova Knesset. Anche il partito della destra religiosa dello Shas è accreditato di 9 seggi, seguito dall'altro partito religioso, ossia il Giudaismo Unito nella Torah, con 8 seggi. Entra in parlamento anche la formazione di destra Yamina, con 7 deputati. Male il Partito Laburista, con appena 6 seggi dentro il parlamento, seguito dall'Unione Democratica con 5 seggi. Fuori invece tutti gli altri.
In crescita l'affluenza: il dato definitivo parla di un 69.4% di elettori che si è recato alle urne, con un incremento dell'1.5% rispetto al voto di aprile. Anche questo è segno della curiosità attorno a queste consultazioni. Lo spoglio delle schede è già iniziato, i risultati definitivi sono attesi in nottata.
Oltre ai risultati dei singoli partiti, l'attenzione è puntata anche sui possibili abbinamenti delle liste che entreranno nel futuro parlamento. Il numero da tenere d'occhio è il 60: chiunque voglia formare un governo, deve superare la soglia minima dei 60 deputati su 120 per avere la maggioranza. Da questo punto di vista, nessuno tra Netanyahu e Gantz avrebbe i numeri necessari. Sommando infatti i seggi ottenuti da Blu & Bianco con quelli dei papabili alleati, ossia Laburisti, Mereetz e la lista araba unita, si arriverebbe ad un massimo di 55 deputati. Dal canto suo Netanyahu invece, creando un'alleanza tra il Likud, i partiti religiosi e "La Nuova Destra", avrebbe tra i 55 ed i 57 seggi.
Ago della bilancia dunque potrebbe essere Avigdor Lieberman, con i circa 10 seggi del suo Yisrael Beiteinu: il partito, pur essendo considerato di destra, potrebbe essere disponibile per un'alleanza sia con Gantz che con Netanyahu. Ed è proprio Lieberman il primo leader a parlare dopo il lancio degli exit poll: "Siamo interessati solo ad un governo di unità nazionale - dichiara il leader di Yisrael Beiteinu - Governi del genere servono per una situazione di emergenza come questa".
Parlando dal palco ad una folla in festa all'interno del quartier generale del partito, Lieberman spiega quelle che saranno le sue mosse: "Appoggerò solo governo con dentro sia il Likud che Blu & Bianco. Se Gantz o Netanyahu non sono interessati ad un governo del genere, noi non li sosterremo". Il progetto a cui lavora Lieberman, come spiega il Jerusalem Post, è quello di un esecutivo formato da centristi e liberali e che mandi all'opposizione sia la lista araba che la destra religiosa.
Tra i big, si registra anche l'intervento di Ayman Odeh, leader della lista araba unita: "Siamo tornati ad essere la terza forza in parlmento - commenta - Sono contento dell'aumento dei votanti nelle zone a maggioranza araba. L'era di Netanyahu si avvicina alla fine".
Le "grandi manovre" sembrano essere realmente iniziate. Yair Zivan, portavoce di Yair Lapid (l'altro leader di Blu & Bianco) invita esplicitamente il Likud ad unirsi ad un governo di unità nazionale: "Abbiamo detto da tempo che vogliamo un governo di unità, guidato da Blu e Bianco, con il Likud e Lieberman, ma senza Netanyahu. Questo è anche quello che la maggioranza degli israeliani vuole". Parole che non vengono gradite dal numero due del Likud, Yuli Edelstein: "Esorto i leader degli altri partiti a non cercare di determinare chi sarà il nostro leader, qualsiasi tentativo in questo senso non funzionerà - dichiara - Il nostro leader è Benjamin Netanyahu, non ci sono altre alternative".
Soltanto nel cuore della notte parlano invece i due big, ossia Netanyahu e Gantz. Il premier in carica, incontrando alcuni sostenitori alle 3.30 del mattino, afferma di voler lavorare per "un forte governo sionista che rifletta le opinioni di molte persone della nazione". Netanyahu non ha rivendicato alcuna vittoria, ha semplicemente promesso la vigilanza contro possibile esecutivi giudicati non sionisti "e che si appoggiano a partiti arabi".
Poco dopo l'avversario di Blu & Bianco, Benny Gantz, da Tel Aviv fa sapere di essere già a lavoro per i negoziati: "Agiremo per formare un governo di ampia unità che esprimerà la volontà del popolo".
(il Giornale, 18 settembre 2019)
Voto in Israele: Netanyahu lotta per la sua sopravvivenza politica
Del doman non v'è certezza. Con il 92% di schede scrutinate, c'è un testa a testa frenetico, all'ultima scheda, tra il Likud del premier uscente, Benyamin Netanyahu, e i Biancazzurri dell'ex generale con tendenze liberal, Benyamin Gantz. Hanno per il momento 32 seggi a testa. Nonostante il blocco di partiti pro-Netanyahu sia leggermente in testa con 56 seggi, il capo dell'esecutivo avrebbe bisogno di cinque deputati in più per formare il sesto governo della sua carriera.
A questo punto, il primo ministro uscente dovrà affrontare un duro negoziato per restare a galla, dopo oltre una ventina di anni al vertice, cinque mandati da premier, e un processo per corruzione dietro l'angolo. Infatti l'astrazione pura delle svariate combinazioni di governo fa a pugni con la realtà della contrapartita per un Likud non più dominus assoluto dello spettro politico israeliano. E la testa di Benjamin Netanyahu potrebbe entrare nella lista delle concessioni possibili per fare di un ex avversario un partner ragionevole.
Bibi sarebbe una vittima politica eccellente da esibire fuori e dentro Israele, per far passare il messaggio di un cambio di regime in miniatura. Sì, ma per fare cosa? E lui, lo sperimentato premier conservatore del boom dell'economia digitale made in Israel e del siluramento degli accordi di Oslo, non rinuncia al velo ideologico sotto cui traspare la questione dell'esistenza stessa dello stato ebraico.
Lo fa capire, Bibi proclamando: "nei prossimi giorni, negozieremo per creare un forte esecutivo sionista ed evitare un pericoloso governo anti sionista". Traduzione, senza di me la battaglia senza fine per la difesa della patria israeliana non è politicamente percorribile. Conseguenza: il paese cadrebbe in mani inaffidabili, un'autentica minaccia esistenziale per la sua stessa sopravvivenza, tra la minaccia iraniana, la guerra civile siriana e le tensioni di Gaza.
Ecco perché prima delle elezioni ha promesso l'annessione a Israele di una parte della Cis-Giordania.
Tra i rischi annovera chiaramente Benny Gantz e i suoi tentativi di restituire alla politica israeliana equilibri centristi attraverso un'azione di governo moderata sulle varie questioni mediorientali, che prevederebbe un pensionamento di Netanyahu.
Potrebbe essere proprio l'ex ministro della difesa, Avigdor Lieberman, con il suo patrimonio di seggi alla Knesset ad avere il ruolo di ago della bilancia. Anche se avrebbe un interesse diretto nell'uscita di scena di Netanyahu.
Lieberman propone un governo di coalizione tricipite tra il suo partito, Yisrael Beitenu, quello di di Gantz, Biancazzurri e il Likud. Ma quest'ultimo dovrebbe consumare l'uccisione del padre, Natanyahu, per dar modo al leader del nuovo conservatorismo radicale, Lieberman, di assumere la guida del sionismo intransigente.
La variabile dei partiti religiosi ultra-ortodossi potrebbe dare a Netanyahu un appiglio per restare al potere come l'ennesima unica soluzione possibile in un contesto mediorientale completamente destabilizzato. Mentre, per gli altri potenziali partner sarebbe più facile negoziare con un Likud senza Netanyahu, un leader azzoppato dal riscchio di una condanna penale per corruzione.
(euronews, 18 settembre 2019)
Testa a testa Gantz-Bibi: caos Israele
Secondo i primi exit poll, il premier Netanyahu non avrebbe più la maggioranza. Lieberman: ora serve un governo di unità nazionale.
di Fiamma Nirenstein
E' parità sostanziale fra i due grandi protagonisti di questo terribile scontro elettorale che elegge la 22esima Knesset dello Stato d'Israele, anche se i diversi canali televisivi danno numeri un po' diversi. Per esempio Benny Gantz riceve 33 seggi dal Canale 13 mentre Benjamin Netanayhu ne prende 31, ma secondo il primo Canale i due sono pari con 32 seggi a testa. Ma nessuno dei due candidati principi, il capo del Likud e di Blu e Bianco, ha, in generale, contando gli alleati, il numero fatidico di seggi necessari per rappresentare la maggioranza che consente di formare il governo: 61. Netanyahu infatti può contare su 56 o 57 seggi, e Gantz invece su 54. I due partiti che decideranno il destino dei due leader adesso, nella fase in cui il Presidente deve designare il suo prescelto, sono il terzo partito, quello arabo "Lista Unitaria" che è cresciuto fino a 12 seggi e "Israel Beitenu" "Israele casa nostra" di Avigdor Lieberman, lo stesso che ha mandato a gambe all'aria Netanyahu cinque mesi fa, il superlaico che può indifferentemente fare una scelta o di destra o di sinistra tenendo tuttavia fermo un punto: il suo odio conclamato per Bibi e anche per i religiosi (Bibi non lo è). Crescono i partiti ortodossi fino a 17 seggi, si mantengono in sella i due partiti di sinistra che passano le forche caudine per entrare in parlamento con 5 mandati ciascuno. Bibi, sempre fortissimo, però non ha vinto.
Adesso comincia la via crucis del grande scontro fra l'ex capo di Stato maggiore timido e cortese Benny Gantz e il primo ministro che è stato al governo 13 anni e che ormai metà della gente d'Israele vuole fuori, con la sua volontà di ferro di restare alla guida del Paese. Israele vive uno stato post traumatico dopo una campagna elettorale tesa e aggressiva. Anche le ultime ore sono state caratterizzate da drammatiche richieste di aiuto da parte di Netanyahu tramite Facebook: andate a votare, vi sveglierete col governo di "Blu e Bianco" coi partiti arabi, vi ritroverete il Paese diviso e indifeso. Ieri tutti i leader come messaggeri isterici dalle spiagge ai mercati sono corsi a dire personalmente ai votanti di andare ai seggi. Separarsi da Netanyahu con un taglio sarebbe stato un gesto freudiano di uccisione del padre, non si è compiuto il gesto di temerarietà cui un Paese che vive la continua utopistica adolescenza della libertà democratica in tempo di guerra. Ma 13 anni sono tanti, e l'aggressione concentrica ha toccato tutte le corde possibili, familiari, populistiche, giustizialiste, moralistiche. La vera battaglia adesso è su un numero, 61, quello dei parlamentari necessari per avere la maggioranza. Il presidente d'Israele Reuven Rivlin comincerà solo il 25 settembre a ricevere i rappresentanti dei partiti e poi avrà tempo fino al 2 ottobre per dare l'incarico. Certo non vuole un terzo turno elettorale in un anno.
Quattro mesi fa gli exit poll della notte, dettero a Benny Gantz la vittoria. Così il contendente di Netanyahu fece un discorso di trionfo che si rimangiò il giorno dopo: sbagliarono perché non riuscirono a identificare la sconfitta a destra del Likud, che sottrasse voti alla coalizione di Bibi; e quella a sinistra di Gantz, che vide la sparizione del partito laburista. Gantz non ha comunque 61 seggi a meno di non consegnarsi al partito arabo o a Lieberman, l'uomo che anche la volta scorsa ha tenuto le chiavi della situazione predandola. Per Bibi, l'infuocata campagna elettorale ha disegnato un campo religioso più robusto e difensivo a causa dell'aggressione durissima da Lieberman e dal secondo di Benny Gantz (che ne avrebbe volentieri fatto a meno) Yair Lapid. E sparito il partitino messianico dell'estrema destra, Di fatto il partito arabo unito di Ayman Ouda che nel passato, a volte contro i desideri del suo elettorato, ha aggredito lo Stato stesso con parole e episodi di odio e delegittimazione, resta impraticabile.
Alla fine, può darsi che la strada segnata sia quella di un governo di coalizione. Ma essa si profila lunghissima e difficile, dato che i votanti di sinistra, non vogliono accettare un governo con Netanyahu. Tutta la campagna è stata su di lui, contro di lui, con parole grosse, offese sanguinose. La formazione di un governo che si basi su 61 parlamentari rappresenta anche la conferma dell' immunità parlamentare che, a causa delle accuse ancora non formalizzate, Bibi vuole ottenere per restare in carica. Fino all'ultimo minuto le rivelazioni di sinistra hanno inseguito Netanyahu anche sul terreno della sicurezza: si è scritto che martedì notte, dopo che un attacco di missili su Ashdod lo aveva costretto a cercare rifugio durante un comizio, Bibi aveva cercato con una telefonata alle 2 di notte ai ministri del gabinetto di ottenere l'approvazione per una guerra a sorpresa contro Hamas. La guerra non c'è stata, ma su Israele ciò che come al solito più incombe è l'acuto accerchiamento terroristico. Gaza, al sud, seguita coll'attacco di missili, gallerie, aquiloni infuocati, assedio; ma soprattutto la minaccia è quella dell'Iran e degli Hezbollah ormai su tutto il confine del nord. Da mesi Israele è costretta a intervenire per fermare gli attacchi degli armamenti molto avanzati da Siria, Libano, Iraq, dove l'Iran si organizza da conquistatore. Gli Hezbollah hanno istallato fabbriche di missili di precisione vicino a Beirut sotto la direzione del generale Qasem Soleimani, lo stratega delle Guardie della Rivoluzione. Ormai la guerra è aperta e pericolosa: Iran e Israele si guardano negli occhi. Intanto, l'Iran è stato accusato degli attacchi missilistici che la milizia Houthi ha condotto contro l'Arabia Saudita. Il presidente Trump minaccia per questo guerra. Il miracolo israeliano di mantenere la sua incredibile democrazia mentre la guerra lampeggia, è il prezioso retaggio del nuovo leader.
(il Giornale, 18 settembre 2019)
Lista arabo israeliani: «Ora l'opposizione siamo noi»
Il partito degli arabo israeliani vuole guidare l'opposizione in seno alla Knesset. Lo ha detto Ayman Odeh, leader della Lista Unita, formazioni che per la prima volta riunisce tutti i partiti arabo israeliani, ed è arrivata terza alle elezioni di ieri con 12 seggi. Nel possibile scenario di un governo di unità nazionale che unisca il Likud del premier Benyamin Netanyahu e il partito Blu e Bianco di Gantz, Odeh diventerebbe il leader del maggior partito fuori dal governo, una posizione finora mai ricoperta da un politico arabo israeliano.
A quanto riferisce Haaretz, Odeh aspira a questo ruolo e rivendica di conseguenza la possibilità di partecipare ai briefing sulla sicurezza. Al momento il procedere dello spoglio indica un testa a testa dei due principali partiti, Likud e Blu e Bianco, ciascuno con 32 dei 120 seggi della Knesset. Senza il partito laico Israel Beitenu del falco nazionalista Avigdor Lieberman, il blocco di destra di Netanyahy si ferma per ora a 58 seggi, sotto la maggioranza minima di 61. Dato che le elezioni anticipate sono state convocate a causa dell'impossibilità di trovare un accordo fra Lieberman e i partiti ultraortodossi alleati di Netanyahu, bisognerà trovare altre intese.
(Il Messaggero, 18 settembre 2019)
Pompeo vola in Arabia Saudita per decidere ritorsioni contro l'Iran
Gli Stati Uniti affermano di avere le prove che l'attacco è partito dall'Iran
Il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, è volato oggi in Arabia Saudita per incontrare i leader sauditi e concordare con loro una «risposta adeguata all'attacco iraniano alle infrastrutture petrolifere saudite».
Lo rendono noto fonti della Casa Bianca aggiungendo che gli Stati Uniti sono in possesso di prove secondo le quali l'attacco contro le infrastrutture petrolifere saudite sarebbe partito direttamente dall'Iran.
«Come ha detto il presidente, non vogliamo la guerra con nessuno, ma gli Stati Uniti sono preparati», ha detto ieri sera il vice Presidente Mike Pence in un discorso tenuto presso la Heritage Foundation a Washington.
«Siamo pronti e determinati a difendere i nostri interessi e quelli dei nostri alleati nella regione» ha poi aggiunto Pence. «Non commetteremo errori a riguardo».
Un funzionario americano, parlando a condizione di anonimato, ha detto alla AFP che l'amministrazione Trump è arrivata alla conclusione che l'attacco dello scorso fine settimana ha coinvolto missili da crociera partiti dall'Iran e che le prove sarebbero state presentate all'Assemblea generale delle Nazioni Unite la prossima settimana.
 Saltato il possibile vertice tra Trump e Rouhani
Fonti anonime della Casa Bianca fanno sapere che il Presidente Trump non incontrerà il suo omologo iraniano a margine dell'Assemblea Generale dell'Onu che si terrà la prossima settimana a New York. «Non lo voglio incontrare» avrebbe detto Trump ai suoi collaboratori.
(Rights Reporters, 18 settembre 2019)
Cos'altro ci vuole per far capire al mondo la pericolosità iraniana?
Ormai è evidente che l'attacco all'Arabia Saudita è un attacco tutto iraniano
di Sadira Efseryan
In pochissimi anni Teheran ha allargato a dismisura la sua sfera d'influenza in Medio Oriente. Uno alla volta gli iraniani hanno fagocitato lo Yemen, la Siria, il Libano, l'Iraq e probabilmente l'Afghanistan.
Ora stanno passando alla seconda fase del loro ambizioso progetto e forti di una massiccia presenza militare in questi territori, anche grazie ai numerosi proxy, puntano direttamente al cuore di quelli che gli Ayatollah considerano nemici.
L'attacco dei giorni scorsi ai più importanti centri petroliferi dell'Arabia Saudita dimostra senza ombra di dubbio la sfrontatezza e la pericolosità iraniana.
Pur cercando di non alimentare ulteriori tensioni con toni "da guerra", appare ormai chiaro che non solo l'attacco alle raffinerie saudite è stato organizzato a Teheran, ma che probabilmente è partito dal territorio iraniano o, al massimo, da quello iracheno sotto controllo delle milizie che fanno capo agli Ayatollah e in particolare ai Guardiani della Rivoluzione Islamica.
Anche se gli Houti ne hanno rivendicato la paternità, le immagini satellitari e le tracciature fatte a seguito dell'attacco mostrano impietosamente che quei missili e quei droni non provenivano dallo Yemen.
 La sfida dei pasdaran
L'attacco iraniano gli impianti sauditi dimostra anche un'altra cosa di non poco conto: che in Iran ci sono due scuole di pensiero, quella più diplomatica e disposta al dialogo del Presidente Hassan Rouhani, apparentemente disposto ad incontrare il Presidente Donald Trump tra qualche giorno a New York, e quella dei Pasdaran che cercano invece lo scontro totale sicuri di poter tener testa a chiunque.
Non è un caso infatti che l'attacco agli impianti sauditi sia arrivato proprio quando le voci di un incontro tra Rouhani e Trump si facevano più insistenti e concrete.
Ma c'è un'altra cosa che la comunità internazionale non dovrebbe sottovalutare: quando gli iraniani dicono di voler attaccare uno Stato, lo fanno.
Hanno attaccato l'Arabia Saudita e lo avevano promesso, ora con molta probabilità si apprestano ad attaccare Israele dopo che da anni lo annunciano.
La differenza sta nel fatto che attaccare Israele non è così facile come attaccare l'Arabia Saudita.
Probabilmente l'attacco con droni esplosivi sventato qualche settimana fa dagli israeliani era la fotocopia di quello portato contro l'Arabia Saudita due giorni fa.
 Incomprensibile comunità internazionale
È quindi incomprensibile, anche in ragione dell'attacco all'Arabia Saudita, come nella comunità internazionale ci sia così tanta fiducia nel regime iraniano. Vedere nazioni importanti come la Francia che lavorano costantemente per togliere le sanzioni all'Iran appare francamente come una mossa anti-israeliana piuttosto che come una "convinta" linea politica.
Rimane un mistero il perché altre nazioni europee, come per esempio l'Italia, sembrino accettare passivamente la politica di Macron invece che trattare l'Iran per quello che è in realtà, cioè il più grande pericolo per la pace e per l'economia mondiale.
(Rights Reporters, 17 settembre 2019)
Ortodossi e nazionalisti le due destre in conflitto che paralizzano Israele
Oggi il ritorno alle urne a soli cinque mesi dalle ultime elezioni. La vera sfida per Netanyahu: mettere d'accordo i partiti minori.
di Simona Verrazzo
 Il voto
Non sono passati neppure sei mesi e gli israeliani sono di nuovo chiamati alle elezioni per rinnovare la Knesset, il Parlamento mono-camerale. E anche questa volta, proprio come lo scorso 9 aprile, il voto si appresta a essere un referendum sul premier Benjamin Netanyahu, al potere da 13 anni. Proprio lui ne era uscito vincitore ma, senza essere riuscito a trovare un accordo con i partiti di destra che gli consentisse di formare un governo, è stato costretto a dover tornare alle urne.
Ed è proprio a destra del Likud, il partito del primo ministro, che verrà deciso il nuovo esecutivo e la sorte, non soltanto politica ma anche giudiziaria, di Netanyahu, con procedimenti a suo carico per le accuse di corruzione, abuso d'ufficio e frode, ma al momento "congelati" proprio come sei mesi fa in attesa dell'appuntamento elettorale. Il mancato accordo tra le due anime che compongono la destra nazionalista israeliana ha impedito a Netanyahu di formare un governo e ha portato di nuovo alle urne. Da un lato i piccoli ma decisivi partiti ortodossi, che sognano uno Stato teocratico, fondato sulla Torah, così come dichiarato ad agosto dal ministro dei Trasporti uscente, Bezalel Smotrich, membro di Casa Ebraica, definito dagli analisti «partito di estrema destra» per le sue posizioni ultranazionaliste di stampo religioso. Insieme con Tkuma ha dato vita, nelle ultime legislative, all'Unione dei Partiti di Destra. Determinanti e sempre della stessa posizione politico-ideologica anche Shas e Giudaismo Unito nella Torah, entrambi premiati da un buon risultato nel voto del 9 aprile.
 I laici
Sempre a destra ma con un approccio nazionalista di impostazione laica c'è Yisrael Beiteinu, il partito dell'ex ministro degli Esteri e della Difesa, Avigdor Lieberman, che raccoglie l'importante voto degli israeliani con origini nell'Europa orientale. Nazionalista anche lui, ma con una visione laica dello Stato di Israele. Meno di sei mesi fa è stato il mancato accordo con Lieberman a obbligare Netanyahu a ritentare la via elettorale.
Tra i punti su cui finora non si è trovata intesa c'è quello sulla leva obbligatoria per i giovani haredim, l'ala ultra-ortodossa dell'ebraismo. Un vero e proprio braccio di ferro tra Lieberman, che vorrebbe imporla, e le piccole ma agguerrite formazioni religiose, che non vogliono cedere, in mezzo Netanyahu che finora non è riuscito a mediare. Sebbene i risultati delle elezioni siano sempre un'incognita è a destra che gli analisti prevedono si determineranno le sorti di un eventuale nuovo governo. E se la sinistra, a cominciare dai laburisti, rischia una nuova sconfitta, c'è interesse a vedere la tenuta di Resilienza per Israele, la formazione centrista guidata Benjamin "Benny" Gantz, ex capo di Stato maggiore, lo sfidante del primo ministro uscente. Nonostante il buon risultato di aprile, Gantz non è riuscito nell'impresa di fermare Netanyahu, il più longevo leader israeliano incarica.
La situazione rischia così di cristallizzarsi e di fermarsi prima ancora di cominciare, proprio laddove era stata bloccata. Gli ultimi sondaggi rimandano a uno scenario immutato a quello di aprile, con i due principali partiti testa a testa
(entrambi 32 seggi) e l'estrema destra in ascesa anche con le formazioni del blocco Yamina ( della ex ministra della Giustizia, Ayelet Shaked) e del partito Otzma Yehudit, erede del movimento fuorilegge Kahanismo. È incognita anche per l'affluenza alle urne della popolazione arabo-israeliana, di fede sia musulmana sia cristiana, e delle altre minoranze, come quella dei drusi. Per la sinistra, invece, c'è l'incubo di non passare la soglia di sbarramento (3,25%), nonostante le diverse e recenti fusioni.
(Il Messaggero, 17 settembre 2019)
Nelle urne d'Israele
Quanti referendum su se stesso può reggere un leader? Il biografo di Netanyahu ci dà la risposta
di Rolla Scolari
Quanti referendum su se stesso può reggere un leader? Molti, se si tratta di Benjamin Netanyahu. Israele vota oggi per la seconda volta in poco più di cinque mesi. Dopo il "tradimento" del suo alleato ed ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman, leader del partito di ultradestra Israel Beitenu, il premier israeliano ha fallito ad aprile nel costruire una coalizione. E ha preferito sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni piuttosto che lasciare al presidente Reuven Rivlin la possibilità di dare l'incarico a un politico rivale. Non è stata incoscienza politica, la sua, semmai un rischio calcolato. "E' lui stesso a trasformare ogni appuntamento elettorale in un referendum sul suo potere. L'unico modo che conosce per correre in un'elezione è renderla un voto su se stesso", dice al Foglio Anshel Pfeffer, che sul premier israeliano ha scritto un libro, "Bibi: The Turbulent Life and Times of Benjamin Netanyahu".
Per il primo ministro più longevo della storia di Israele in gioco c'è la sopravvivenza politica: il voto potrebbe consegnargli un record, il quinto mandato, o decretare la fine di dieci anni di regno. La minaccia è arrivata inattesa dal suo stesso campo. Senza il sostegno di Lieberman, Netanyahu, che dell'abilità di creare coalizioni di governo ha fatto un'arte, in caso di successo e di incarico da parte del presidente dovrebbe riuscire, senza un alleato storico al suo fianco, a mettere assieme 61 su 120 seggi alla Knesset, il Parlamento israeliano. Si tratta di un processo che potrebbe durare diverse settimane. I numeri dei sondaggi raccontano un buon risultato per i movimenti del blocco pro Netanyahu. Il premier, che rischia entro l'anno di essere incriminato in tre casi di corruzione, potrebbe quindi contare su una serie di partiti di destra più o meno radicale che lo appoggiano. E sui movimenti religiosi. Per Pfeffer, però, la domanda è se questo tipo di coalizione sia oggi popolare: "Molti israeliani sostengono la destra, molti sono religiosi, ma molti non sono le due cose messe assieme". E sono stati in parte i disaccordi tra il partito laico Israel Beitenu e i leader politici ultraortodossi ad accendere la crisi e provocare la defezione di Lieberman. L'ex ministro della Difesa è intenzionato oggi a sostenere soltanto un governo di unità nazionale, che includa il Likud di Netanyahu e il suo più minaccioso sfidante. Gli ultimi sondaggi condotti raccontano un voto "too close to call". In un'elezione fotocopia dell'appuntamento della primavera, il maggior rivale di Netanyahu resta il generale ed ex capo di stato maggiore Benny Gantz. Il suo partito, Blu e bianco - dai colori della bandiera israeliana - e il Likud di Bibi hanno numeri molto simili. Se per riscaldare il proprio elettorato Netanyahu accusa Gantz di "essere di sinistra", Blu e bianco ha posizioni centriste che possono erodere il consenso del premier a destra. Poche invece le novità sulla sinistra, racconta Anshel Pfeffer:
"Non c'è una sinistra", e il ritorno sulla scena politica qualche mese fa dell'ex premier laburista Ehud Barak non ha ravvivato la debole opposizione in un momento in cui i suoi temi elettorali "non dominano la scena: il conflitto con i palestinesi non è una grande questione elettorale, i palestinesi sono divisi in fazioni, il mondo arabo è focalizzato sull'opposizione all'Iran".
(Il Foglio, 17 settembre 2019)
Avigdor il russo è l'ago della bilancia che deciderà le sorti di Netanyahu
Il partito di Lieberman potrà raddoppiare i seggi alla Knesset
Campione della comunità di origine russa, sempre più influente e numerosa
di Roberto Bongiorni
GERUSALEMME - Per molti suoi ex compagni del Likud, il partito conservatore con cui ha condiviso gli ultimi 10 anni di Governo, è divenuto Avigdor il guastafeste. O, peggio, il traditore. Per i partiti di sinistra, è sempre stato Avigdor l'ultra-nazionalista, nemico degli arabi. Agli occhi degli ebrei ultra-ortodossi, e dei loro partiti, è il nemico l'ateo sacrilego dall'accento russo che vuole perfino obbligare gli studenti dei Testi Sacri a fare il militare, quasi fossero normali israeliani.
L'ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman, 61 anni, si candida ad essere l'ago della bilancia del voto di oggi. Volenti o nolenti tutti dovranno avere a che fare con lui e con il suo piccolo partito, Yisrael Beitenu, punto di riferimento per molti immigrati russi in Israele.
È stato Avigdor, infatti, nel novembre del 2018, ad aver aperto la crisi, privando il premier ( e amico di lunga data) Netanyahu della maggioranza, spianando così la strada per il voto di aprile. Il motivo? Troppo debole con Hamas e troppo accondiscendente con i partiti ortodossi. È sempre lui, Avigdor, a impedire all'ex amico Bibi, a cui era stato affidato l'incarico di formare un governo dopo la vittoria nelle elezioni di aprile, di creare quella maggioranza di governo che lo avrebbe reso il premier più longevo nella storia di Israele. Costringendolo quindi ad andare ancora al voto, quello di oggi.
Due elezioni in cinque mesi, non era mai successo. Se poi i sondaggi azzeccassero le previsioni, il partito di Lieberman potrebbe raddoppiare i seggi arrivando ad 8-10. Se così accadesse potrebbe decretare una volta per tutte la fine della carriera politica dell'amico-nemico Bibi, mandandolo tra le grinfie della giustizia (fuori dal Governo l'incriminazione di Netanyahu per tre casi di corruzione potrebbe avvenire già in ottobre). Oppure può rendere possibile un governo di coalizione tra centro e destra, senza tuttavia quei partiti di destra e partitini religiosi che odia tanto e con cui Netanyahu si è alleato. O perfino, se nessuno volesse accogliere le sue richieste, decidere di privare tutti di quel pugno di seggi necessari a formare la maggioranza (61 seggi su 120 alla Knesset).
Questa è la riottosa politica israeliana. Dove in 70 anni di storia nessun partito è mai riuscito ad avere da solo la maggioranza per governare. Se vincesse il nuovo Partito di centro "Blu--Bianco", anche sopra le aspettative, non avrebbe comunque i numeri per formare una coalizione con i partiti di centro sinistra.
È dunque davvero difficile fare previsioni. La politica israeliana è quasi alla mercé dell'uomo divenuto il simbolo per una parte del milione di ebrei (su una popolazione di 8,5 milioni) emigrati in Israele dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Avigdor proveniva proprio da un piccolo Stato ai confini dell'Impero, la povera Moldavia. Nel 1978 riuscì a emigrare in Israele. Dove trovò lavoro prima come trasportatore di bagagli all'aeroporto, poi come buttafuori in un locale notturno.
Giovane scaltro e intraprendente, entrò quasi subito in politica unendosi al carro del nuovo astro nascente della destra, Benjamin Netanyahu. E da lì iniziò l'avventura. Ma già alla fine del primo governo Netanyahu, nel 1999, Avigdor decise di lasciare il partito conservatore Likud per fondare Yisrael Beitenu. Tornò nella casa di Bibi 10 anni dopo, quando all'attuale premier fu affidato l'incarico di formare un Governo, nel 2009. Avigdor fu un agguerrito ministro degli Esteri e poi un ministro della Difesa altrettanto duro.
A Gerusalemme non è raro imbattersi nei manifesti elettorali con il suo volto, e la scritta "Rendiamo Israele di nuovo un Paese normale". Ma qual è il suo concetto di normalità?
Chi è veramente quest'uomo? Di sicuro è un uomo di destra, che vuole mostrarsi laico. Ma lontano dai concetti tradizionali di destra e sinistra. Forse è uno scaltro "populista mediorientale". In un anno in cui il deficit di bilancio ha già ampiamente sforato gli obiettivi, ha promesso di raddoppiare le pensioni gli immigrati. Non c'è volta, poi, che non parli di sicurezza per lo Stato ebraico (insiste sempre molto sull'identità ebraica), quasi fosse un mantra. Da proteggere contro Hamas, contro l'Iran, contro gli arabi in generale. A tutti i costi, con ogni mezzo. È un uomo che ha perfino osato proporre di mantenere i negozi aperti durante lo Sabbath e di introdurre i matrimoni civili. Una proposta che ha fatto balzare dalla sedia i rabbini, che sovente in passato non avevano accordato il permesso agli immigrati russi di sposarsi in Israele poiché, a loro avviso, troppo poco ortodossi. I rabbini sono talmente preoccupati da aver dato il via ad una sorta di vendita delle indulgenze, promettendo la salvezza in cambio del voto. Come i manifesti del partito sefardita Shas nei quartieri ortodossi di Gerusalemme: Shas è il tuo biglietto per il giorno del giudizio.
(Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2019)
Il Golfo e la sfida Netanyahu-Gantz
La minaccia della guerra rilancia la strategia aggressiva del premier
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Le ultime ore prima del voto di oggi in Israele sono state caratterizzate da agitazione e ansia, da reciproco sospetto. Bibi Netanyahu e Benny Gantz si fronteggiano in un'arena in cui non campeggia solo l'elettorato, ma anche una quantità di attori che possono determinare il futuro di Israele stando dalla parte dell'uno o dell'altro al momento della formazione della maggioranza di 61 seggi alla Knesset. Può essere questione di una testa, di una faccia, di una vendetta o di una ripicca ... come è accaduto due mesi fa quando l'antagonismo di Liebermann ha precluso la formazione del governo Netanyahu. Potrebbe succedere di nuovo: i due protagonisti adesso stanno di fronte con una patrimonio di voti per il Likud da una parte e per Blu e Bianco dall'altra che è quasi identico, tutti e due intorno ai 30 seggi. E gli altri 30? Le trattative sono già avviate da tempo, e vertono sul medesimo punto: con Bibi o senza Bibi. Il primo ministro negli ultimi giorni ha giocato due carte: la prima quella dei rapporti internazionali, coi viaggi in Inghilterra e da Putin a Sochì, e le ripetute telefonate con Trump. Una dimostrazione di indispensabile equilibrismo internazionale mentre l'Iran assedia Israele dai confini al Nord.
In un vortice di accuse, anche quella che la tanto vantata amicizia con l'amministrazione americana sembrava venuta meno sulla ipotesi dell'incontro Trump- Rohani: ci ha pensato l'Iran a cancellare l'ipotesi con l'attacco all'Arabia Saudita. Non solo: nelle ultime ore Bibi ha potuto giocarsi la proposta americana di un trattato di alleanza strategica in caso di guerra, una bella assicurazione sulla vita. Il secondo terreno di gioco di Netanyahu è stata l'accusa alla sinistra e al partito arabo (che al momento con 12 seggi appare come il terzo partito con un'unità di correnti che in passato gli era mancata) di «rubare le elezioni» dimostrando che c'erano stati brogli. Nelle sue concitate ultime interviste ha chiesto ancora e ancora ai suoi di andare a votare. Anche Gantz ha invocato la mobilitazione. Tutti temono che la gente seccata di tornare dopo due mesi al seggio, possa preferire una gita al mare. Gantz però non ha mai trovato un punto cui guardare all'orizzonte, un titolo da prima pagina fuorché quelli che invitavano a cacciare Netanyahu. Bibi ha fatto i salti mortali: ha annunciato l'annessione della valle del Giordano o la possibilità di un guerra vicina. Gantz, il bel soldato con tre lauree, quieto e riflessivo, ha preferito uno stile che ha anche coperto la sua totale inesperienza politica. Netanyahu per avere la maggioranza ha bisogno dei partiti religiosi e nazionalisti, escluso quello di estrema destra (Yozma Yehudì, Forza ebraica) di cui ha dichiarato più volte l'impraticabilità politica. Le somme degli ultimi giorni dicono che Netanyahu avrebbe 57 voti, il centrosinistra 42 e ballerebbero il solito partito di Lieberman (Israel Beìtenu, Israele Casa Nostra con 9 seggi), i partiti arabi uniti (12 seggi) che ancora non si sa se entrerebbero in un governo israeliano. Grandi incognite ancora sono i due partiti di sinistra, i laburisti che vogliono rinnovare la propria immagine perdente con la fresca Orly Levy, una parlamentare ex Lìkud, popolare nel mondo sefardìta, e il Meretz con l'ex primo ministro Ehud Barak al decimo posto, scelta sorprendente. Si parla anche di un governo di coalizione se le due forze più grandi non riusciranno a formare il governo, ma il veto su Netanyahu da sinistra per ora è stretto: col Likud sì, ma con Bibi mai. Troppo grande la sua ombra sulla politica israeliana. Ma ce n'è una ancora più grande: quella del rumore di tuono proveniente dal Golfo. Israele non è una graziosa città occidentale dove si va a votare e poi si torna a casa. A volte si va a votare e poi si deve andare a difendersi.
(il Giornale, 17 settembre 2019)
Jacopo Sipari a Tel Aviv sul podio della Israel Symphony Orchestra
Jacopo Sipari di Pescasseroli, il giovane direttore abruzzese, invitato a dirigere la Israel Symphony Orchestra per un grande concerto in programma a Tel Aviv il 19 Settembre 2019.
Redazione
L'AQUILA - "Una emozione davvero grande, difficile da descrivere. Da bambino sognavo solo una cosa: dirigere l'Orchestra di Israele. Per me che sono fortemente credente, avere la possibilità di dirigere nei luoghi più importanti della nostra fede è davvero straordinario. Inutile dire che il livello musicale dell'Orchestra è assolutamente unico. Una esperienza eccezionale che indubbiamente segnerà la mia vita. Non è facile salire sul podio su cui sono stati tutti i più grandi. La cosa che continua a risuonarmi nelle orecchie è il colore di quest'orchestra: sembra un abbraccio costante, ha un calore e una passione insieme che sembrano sollevarti da terra. Una sola volta ho vissuto un'esperienza simile ed è stata con la Qatar Philharmonic Orchestra, un'altra orchestra mondiale".
Così Jacopo Sipari di Pescasseroli, il giovane direttore abruzzese, invitato a dirigere la Israel Symphony Orchestra per un grande concerto in programma a Tel Aviv il 19 Settembre 2019. In programma Debussy Prélude à l'après-midi d'un faune, Grieg Concerto per Pianoforte e Tchaikovsky Sinfonia n. 5. Con Sipari la straordinaria pianista israeliana di fama internazionale Dorel Golan.
L' Orchestra sinfonica israeliana è anche l'orchestra residente della New Israeli Opera di Tel Aviv. In un breve periodo di tempo, è divenuta tra le orchestre più importanti del panorama musicale. Come orchestra d'opera, ISO partecipa a tutte le esibizioni dell'opera israeliana all'opera di Tel Aviv e alle grandi esibizioni all'aperto, incoronate negli ultimi anni con esibizioni al Masada Festival tra i più prestigiosi al mondo.
Direttori musicali dell'orchestra sono stati tra gli altri Shimon Cohen, Noam Sheriff , Asher Fisch , Mendi Rodan , Dan Ettinger e James Judd. Il nuovo direttore musicale e direttore principale è Dan Ettinger, direttore residente dell'Opera di Berlino e direttore principale dell'Orchestra Filarmonica di Stoccarda. L'Orchestra è solita invitare solo solisti e direttori di fama internazionale ed è invitata ad esibirsi nei più importanti teatri al mondo.
È stata la prima orchestra israeliana a eseguire in pubblico opere di Richard Strauss e Alexander Zemlinsky.
Sipari è quindi atteso in Romania con la Filarmonica per il Concerto per Violino e Orchestra di Bruch con il violinista internazionale Ilya Gruber, quindi a Lecce per Carmen di Bizet, a Baku per I Pagliacci di Leoncavallo, a Tbilisi per Verdi Requiem, a Livorno per Nozze di Figaro di Mozart con l'Orchestra Regionale Toscana.
(Il Capoluogo, 17 settembre 2019)
Israele al voto: gli ultimi sondaggi prevedono un nuovo stallo
Testa a testa fra Netanyahu, Gantz e i rispettivi blocchi. Ma dall'incognita affluenza potrebbero venire sorprese sul versante del voto arabo e di quello dell'estrema destra
Secondo il sondaggio di Canale 13 diffuso venerdì sera (ultimo giorno in cui la legge israeliana permette di pubblicare sondaggi relativi alle elezioni di martedì 17), il partito Likud di Benjamin Netanyahu e il partito Blu&Bianco di Benny Gantz potrebbero ottenere un numero di seggi uguale: 32 ciascuno.
Stando al sondaggio, il potenziale blocco di destra che fa capo all'attuale primo ministro otterrebbe 58 seggi (su 120), il blocco di centro-sinistra ne otterrebbe 53, mentre il partito laicista Israel Beytenu di Avigdor Lieberman si confermerebbe cruciale ago della bilancia, con almeno 9 seggi.
Il sondaggio rileva inoltre che il 46% degli intervistati ritiene che Netanyahu sia il miglior candidato alla carica di primo ministro, il 31% ritiene che lo sia Benny Gantz, mentre circa il 14% ritiene che nessuno di loro sia adatto al ruolo....
(israele.net, 17 settembre 2019)
Israele alle urne tra tante incognite
Tra meno di ventiquattro ore milioni di israeliani torneranno alle urne per votare uno dei trenta partiti in corsa per questa ennesima tornata elettorale. E il rischio è che si ripeta lo stallo di aprile, quando i due partiti più grandi, il Likud del Premier Benjamin Netanyahu e il Kachol Lavan dell'ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz, non erano riusciti ad avere i numeri per formare una coalizione. Le similitudini con l'ultima elezione sono molte, su tutte l'idea che si tratti di un referendum sul Premier Netanyahu. La stampa israeliana e internazionale in questi mesi ha sottolineato come le tre indagini a carico del leader del Likud non abbiano scalfito la fiducia che una parte dell'elettorato di destra nutre nei suoi confronti. Mr Sicurezza, come viene chiamato da alcuni, o King Bibi. Un politico solo al comando, come dimostra la scelta di Netanyahu di far firmare ai suoi compagni di partito un giuramento per cui si impegnavano a indicare solo lui come possibile Primo ministro dopo il voto di settembre. Tutti hanno siglato il testo, tutti pienamente fedeli o forse troppo schiacciati dalle capacità del leader per essere autonomi. Anche i sostenitori del Likud fanno fatica a individuare qualcuno che possa succedere a Netanyahu nella guida del partito e del paese. Qualcuno che gli tenga testa. Avigdor Lieberman, il leader del partito dell'ultradestra Israel Beitenu, ci sta invece provando da lontano: dopo aver fatto saltare la possibile coalizione di governo ad aprile e portato Netanyahu a chiedere (ed ottenere) nuove elezioni, Lieberman ha più volte lanciato messaggi di apertura verso il Likud e l'avversario Kachol Lavan, suggerendo una grande coalizione unitaria, possibilmente senza Netanyahu. Un'idea non così folle visto che il giuramento di fedeltà voluto dal leader del Likud è arrivato proprio come risposta alla proposta di Lieberman: Netanyahu è preoccupato che lo scenario di un governo senza di lui possa verificarsi. E Lieberman spera di esserne l'autore o di essere comunque riconosciuto come tale.
L'altro protagonista di questo scenario dovrebbe essere Benny Gantz, il generale del partito dei generali Kachol Lavan (con lui, oltre a Yair Lapid, ci sono due altri ex capi di Stato maggiore, Gabi Ashkenazi e Moshe Yaalon). Gantz ha unito le forze che vogliono il cambiamento e già in aprile ha ottenuto un ottimo risultato, guadagnando 35 seggi alla Knesset. La sua campagna elettorale si basava su un punto: sostituire Netanyahu. Un milione e 125mila elettori sono stati convinti da Gantz e gli altri. Tanti ma non abbastanza per ottenere il mandato dal presidente Reuven Rivlin. L'incredibile ritorno alle urne ha offerto a Kachol Lavan una seconda chance ma in questi mesi molti analisti si sono chiesti "dove è finito Benny Gantz?". A parte qualche uscita - con alcuni svarioni come l'apertura poi ritrattata a una premiership con Netanyahu - la campagna elettorale di Gantz è stata molto poco appariscente. "L'obiettivo del partito è sostituire l'attuale governo, senza usare la retorica distruttiva dell'attuale governo", ha spiegato Melody Sucharewicz. "I tentativi di Gantz di proiettare civiltà sembrano averlo portato a confondere erroneamente la volgarità e l'isteria stridula con il confronto di qualsiasi tipo - afferma invece l'analista politico Guy Frenkel - Di conseguenza, si è lasciato sfuggire occasione dopo occasione per denunciare le numerose trasgressioni del primo ministro, dando l'impressione di essere impreparato, o semplicemente incapace di cogliere la serietà con cui dovrebbe affrontare tali questioni". Secondo alcuni sondaggi, il 42 per cento degli israeliani preferisce vedere ancora una volta Netanyahu come primo ministro, solo il trenta vorrebbe Benny Gantz.
I due partiti sono in ogni caso nuovamente coinvolti in una sfida testa a testa: gli ultimi sondaggi danno il Likud a 32 così come Kachol Lavan. Gli altri partiti costituiscono le variabili più importanti: in particolare l'estrema destra Otzma Yehudit che se dovesse passare la soglia di sbarramento del 3,25% darebbe una grossa mano a Netanyahu. Con gli eventuali 4 seggi di questa piccola fazione il leader del Likud si avvicinerebbe alla soglia dei 61 voti alla Knesset e potrebbe più facilmente negoziare con gli altri partiti (oppure con i singoli) per ottenere i numeri per governare. Se poi uno tra Meretz, il partito della sinistra, o i laburisti non dovesse superare la soglia allora la strada per l'attuale Premier sarebbe spianata. Ma le incognite sono molte e tutto si gioca su pochi voti. Quello che è certo, ha spiegato il demografo Sergio Della Pergola a Pagine Ebraiche, è che si prospettano faticose settimane di trattative prima che Israele possa contare su un nuovo esecutivo. Chiunque emerga vincitore domani.
(moked, 16 settembre 2019)
Gantz spinge Netanyahu a destra. Duello all'ultimo voto per Israele
Benjamin Netanyahu Premier Israeliano
"La Valle del Giordano è un luogo sul quale possiamo affermare la nostra sovranità immediatamente dopo le elezioni"
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Benny Gantz leader di Blu e Bianco
"Stavolta ci vuole un vincitore chiaro. Chi non vota mette a repentaglio la democrazia israeliana"
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32%
Il risultato che, secondo i sondaggi, raggiungerebbe il partito di Netanyahu
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32%
Sempre secondo gli analisti è il risultato a cui arriverebbe Benny Gantz
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 61
Sono i seggi che il premier dovrebbe ottenere per avere la maggioranza
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di Giordano Stabile
GERUSALEMME - Come un generale che lancia le sue truppe all'assalto dalla prima linea Benjamin. Netanyahu ha tenutola sua ultima riunione di governo nella Valle del Giordano, una «frontiera» appena conquistata. Ha annesso a Israele il più importante insediamento nella regione e ha ribadito la promessa di fare altrettanto con gli altri in Cisgiordania. La battaglia di domani è però in salita come mai nella sua trentennale carriera politica, negli oltre tredici anni passati al governo, un quinto della storia dello Stato ebraico, più di Ben Gurion. Ha di fronte un generale di professione, Benny Gantz, nemici a tutte le frontiere, e avversari fin dentro il suo partito. La scommessa delle elezioni anticipate, per due volte nello stesso anno, si gioca nella spazio ristretto di un seggio in più o in meno alla Knesset. Gli ultimi sondaggi danno il suo Likuk appaiato al partito di Gantz, Blu e Bianco, 32 a 32. Ma a «King Bibi» il pareggio non basta.
La strategia di Gantz è la stessa del voto del 9 aprile scorso. Soltanto che in questi cinque mesi ha imparato in fretta il mestiere di politico. Ha rintuzzato i colpi a sorpresa dell'ultima ora, la specialità di Netanyahu. Ha tenuto il timone dritto al centro con lo scopo di raccogliere i voti dei delusi del Likud. L'obiettivo è un seggio in più, il che significa ottenere l'incarico dal presidente Reuven Rivlin anche se la coalizione di centrodestra dovesse risultare in vantaggio. Dopo aver già fallito nella formazione di un nuovo governo, Netanyahu non potrebbe rivendicare un altro tentativo, a meno che con gli alleati non arrivi a 61 seggi su 120, una chimera. Neanche la coalizione di centrosinistra ci arriverà ma Gantz, come hanno fatto trapelare i suoi più stretti consiglieri, punta a un accordo con il Likud. E porrà come condizione la testa di Netanyahu.
Un terzo voto anticipato è inimmaginabile. E le seconde linee del Likud sono pronte a «sacrificare il loro leader per il bene del Paese e del loro partito». Un nome circola su tutti, quello del pragmatico Gideon Moshe Saar. Per Gantz sarebbe la continuazione di una politica cominciata con la fondazione di Blu e Bianco e la cooptazione di due pezzi grossi del Likud, Moshe Yaalon e Gabi Ashkenazi. È un politico di centro che guarda a destra, nonostante le aperture agli arabi e la candidatura di una drusa. Ha liquidato le promesse di annessione della Cisgiordania come «uno scambio di territori con i voti», propaganda elettorale. Ma non è si è sbilanciato sui futuri assetti fra Israele e palestinesi, ha evitato di impiccarsi nella soluzione «due popoli, due Stati», si tiene aperte tutte le possibilità e attacca Netanyahu su temi conservatori, come la sicurezza nelle città del Sud, bersagliate dai razzi della jihad islamica.
Anche la politica estera non gioca più a favore di Netanyahu. Le ultime accuse all'Iran non hanno trovato sponda in Donald Trump. ll leader americano gli ha anche negato un regalo dell'ultima ora, come il riconoscimento della sovranità sul Golan lo scorso aprile. I poster che lo vedono stringere la mano a «Bibi» e che tappezzano Gerusalemme risultano meno efficaci. Il premier è costretto a spostarsi a destra, anche a costo di cannibalizzare i suoi alleati. Ieri ha riunito il governo nella Valle del Giordano, ha annunciato l'annessione dell'avamposto di Mevoot Yericho, che sarà formalizzata «in caso di vittoria», ha ribadito che l'intera valle, diventerà territorio israeliano, con il sostegno americano. Ma molti cominciano ad avere dubbi sull'accordo del secolo promesso da Trump. Nella visione dei partiti religiosi alleati di Netanyahu doveva essere il via libera all'assorbimento della Cisgiordania, pezzo dopo pezzo.
A quanto pare non sarà così. Ieri la sulfurea Ayelet Shaked, ex ministro della Giustizia e leader del partito Yamina, cioè-destra», ha lanciato un attacco inaspettato al premier, accusato di «nascondere i dettagli dolorosi» del piano e cioè «la cessione di quartieri di Gerusalemme Est ai palestinesi». Shaked ha un buon rapporto con Netanyahu ma è odiata, quasi a livello fisico, dalla moglie Sara e forse sono esplose tensioni represse. Ma è anche possibile che l'attacco mirasse in realtà a rubare voti ad Avigdor Lieberman, l'ex ministro della Difesa che ha rotto con il premier e punta a fare l'ago della bilancia. Resta il fatto che «l'accordo del secolo» è stato modificato dai mediatori Jason Greenblatt e Jared Kushner, su pressione della Giordania. Analisti come Seth Frantzman sottolineano come adesso assomigli al piano del generale Yigal Alon del 1967, con un quarto della Cisgiordania annesso a Israele e il resto collegato da un corridoio al Regno Hashemita, per una possibile confederazione. Una soluzione che andrebbe bene sia a Gantz che a un Likud non più alleato con la destra religiosa. Una trappola perfetta per King Bibi.
(La Stampa, 16 settembre 2019)
Referendum su Bibi - Vedo un pericolo di deriva oscurantista
La posta in gioco va oltre Netanyahu. Il voto di domani è soprattutto un giudizio sul premier israeliano più longevo.
di Eshkol Nevo
Per Israele domani sarà un giorno cruciale. Questa volta non si sceglie tra destra e sinistra. Si sceglie tra il Paese che noi conosciamo, in cui siamo cresciuti, che raccontiamo ai nostri figli, e un'entità nuova. Diversa. Estremista. Razzista. Fondamentalista. Che rischia di sorgere se ltamar Ben Gvir Bezalel («Kahana aveva ragione»); Bezalel Smotrich («lo Stato deve seguire le regole religiose») e Rafi Peretz («terapia di riorientamento sessuale») diventeranno le colonne portanti del prossimo governo.
Non finirà solo con il salvataggio di Benjamin Netanyahu dai procedimenti giudiziari e l'indebolimento del sistema giudiziario.
Il rischio è che si proceda a limitare la libertà di espressione. La libertà di istruzione. E la libertà di ciascun essere umano di vivere e amare secondo il suo credo e le sue scelte.
Che si continui con la distruzione dei due equilibri, delicati e fragili, sui quali la nostra società si è sempre basata: fra laici e religiosi, e fra ebrei e arabi.
Che si crei una rottura nei nostri rapporti con il mondo, che emarginerà un Paese oscurantista.
Che venga danneggiata l'economia, a seguito delle sanzioni che i Paesi occidentali imporranno a un governo razzista.
E, naturalmente, che si arrivi alla guerra. Come potrà non esserci una guerra, se nel gabinetto siederanno persone pronte a mandare a fuoco l'intero Medio Oriente in nome della fedeltà al Monte del Tempio?
Uno scenario spaventoso? Decisamente. Io, personalmente, fatico a prendere sonno all'idea. Ma la paura va tradotta in azione. Appendiamo cartelli. Appiccichiamo adesivi. Scriviamo sui social network. Convinciamo quanti possono ancora essere convinti. E naturalmente, dico a noi israeliani, andiamo alle urne. Esortiamo gli altri ad andare alle urne. E diamo il nostro voto a chi si adopera per unire, non per dividere. A chi è capace di raccogliere intorno a sé un consenso israeliano nuovo e ampio, che rappresenta e rispetta le molteplici, belle, sfumature della nostra società. E non a chi, pur di sfuggire al carcere, è disposto ad associarsi con gli estremisti più estremisti.
Questo è il Paese che amiamo. E insegniamo ai nostri figli ad amare.
Queste elezioni sono decisive.
È arrivato il momento che la maggioranza silenziosa d'Israele si svegli.
È arrivato il momento che la maggioranza silenziosa d'Israele ottenga la vittoria.
(Corriere della Sera, 16 settembre 2019)
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Referendum su Bibi - Israele non è a rischio, la democrazia è forte
Qui non c'è spazio per un altro Mussolini. Il voto di domani è soprattutto un giudizio sul premier israeliano più longevo. Se Bibi ha attaccato la giustizia è stato per i suoi processi. Non demolirà la democrazia.
di Benny Morris
Nelle ultime settimane, alcuni analisti hanno scritto che lo Stato israeliano di oggi presenta numerose analogie con la Germania dell'era pre-Weimar, precedente all'ascesa di Hitler, e con l'ltalia mussoliniana, alla vigilia della marcia su Roma. Costoro insinuano, anzi, ipotizzano apertamente che l'attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che dovrà affrontare elezioni fatidiche domani, sia un aspirante dittatore che negli ultimi anni ha eliminato, o gravemente indebolito, vari ostacoli che impedivano il suo cammino verso un regime autoritario.
Io non credo che simili analogie storiche abbiano il benché minimo fondamento. E indiscutibile invece che la polizia e le autorità competenti, sotto la guida del procuratore generale, Avichai Mandelblit (nominato dallo stesso Netanyahu nel 2016, dopo aver ricoperto l'incarico di segretario di gabinetto nel suo governo), hanno messo sotto inchiesta il primo ministro per molteplici accuse di corruzione e di abuso d'ufficio, ed è molto probabile che dopo l'udienza finale prevista per il mese prossimo, Mandelblit farà processare Netanyahu. È proprio per evitare questo processo che Netanyahu negli ultimi mesi ha attaccato ferocemente il sistema giudiziario del Paese, dalla Corte suprema a Mandelblit fino ai ranghi inferiori.
Non credo però che Netanyahu lo abbia fatto con il proposito di abbattere la democrazia israeliana e le sue infrastrutture, ma solo con l'intento di sottrarsi alla giustizia. Dopo tutto, è stata la democrazia israeliana ad affidare ripetutamente la guida del Paese a Netanyahu e a garantirgli l'incarico di primo ministro dal marzo 2009 a oggi. Netanyahu è infatti il primo ministro israeliano con la maggiore anzianità di servizio ( ed è stato primo ministro anche dal 1996 al 1999).
Netanyahu ha ragione da vendere quando si lamenta - come il presidente americano Donald Trump - che i mezzi di comunicazione gli sono ostili, e addirittura lo odiano (i giornalisti attaccano anche sua moglie, Sarah, spesso descritta come «pazza» e corrotta). Parte delle accuse di corruzione, di cui Netanyahu è chiamato a rispondere, nascono proprio dai suoi sforzi per ottenere una copertura mediatica favorevole per se stesso e la sua famiglia.
Sembra improbabile, tuttavia, che Netanyahu riuscirà anche questa volta a ricacciare il genio della giustizia nella lampada, anche se vincesse le elezioni politiche di domani.
Non sono un ottimista, ma finora Netanyahu non è riuscito a spazzar via dalla sua strada i tutori della legge, e il giorno del giudizio si avvicina. Potrebbe darsi che perderà le elezioni, come suggeriscono alcuni sondaggi. Ma anche se dovesse mettere a segno una vittoria sul filo del rasoio, non sembra probabile che tutti i partner della sua potenziale coalizione, e persino i membri del suo stesso partito Likud, si stringeranno attorno a lui per salvargli la pelle.
Alcuni critici affermano che, anche nel caso di sconfitta domani, Netanyahu ha già fatto danni enormi alla democrazia israeliana e ne ha scalzato le istituzioni.
Ma in una democrazia consolidata - e Israele, tra alti e bassi, è una democrazia piena e funzionante da 71 anni a questa parte - la nomina di un candidato inadatto a capo di un'istituzione non sancisce la fine di quell'istituzione, come l'elezione del presidente Trump non segna la morte della democrazia americana né dell'istituzione della presidenza.
Da ultimo, gli ebrei di Israele - benché molti siano originari di Paesi privi di tradizioni liberali - sono saldamente agganciati allo stile di governo democratico e non assomigliano in nessun modo ai tedeschi della breve parentesi di Weimar. E benché Netanyahu abbia cavalcato con successo l'onda messianica che prese avvio dopo la vittoria nella guerra dei Sei giorni, nel 1967, che portò la destra al potere, quel messianismo, forse in crescita sotto il profilo demografico, resta circoscritto a una minoranza di ebrei israeliani.
(Corriere della Sera, 16 settembre 2019)
Tutti contro Bibi
Netanyahu alla prova del voto di domani. Di lui dicono: cinico e corrotto. Ma Israele oggi è un miracolo anche grazie al ruolo che ha dato al Paese.
di Fiamma Nirenstein
In Israele si vota domani: sono elezioni fatali, ma non perché le prospettive dei contendenti siano diverse, come usava nel passato. Lo scontro vedeva in campo figure come Shimon Peres, che credeva in un futuro pacifico con i palestinesi, o dall'altra parte un campo scettico e disincantato, devoto alla difesa del nuovo, agognato Stato. Oggi, specie dopo il fallimento di Gaza, è idea comune che uno Stato Palestinese sarebbe una piattaforma di lancio del terrorismo specie iraniano. Le agende basilari dei due contendenti principali, Benjamin Netanyahu e Benny Gantz non sono diverse, tant'è vero che se uno ascolta la campagna elettorale hanno per oggetto sempre e comunque soltanto un tema: Netanyahu, Netanyahu e ancora lui. Cosa non si è detto: corrotto, egocentrico, cinico, pericoloso, antidemocratico. Ma alternative politiche non ce ne sono: nessuno, salvo il Meretz, torna alla formula «due stati per due popoli», nessuno ipotizza la divisione di Gerusalemme, o mostra particolare propensione a considerare i palestinesi un interlocutore disposto al compromesso. Troppo terrorismo, troppe dichiarazioni estreme di Abu Mazen e soprattutto troppo chiaro il nesso fra l'incombente pericolo iraniano e le ostilità dal confine, quella di Hamas e della Jihad islamica a sud e quella degli Hezbollah a nord.
Questa equivalenza di obiettivi nel campo della sicurezza fa sì che la sinistra non abbia più bisogno di essere strategicamente alternativa per votare contro Bibi. E che
diamine, pensa il cittadino, anche Benny Gantz che è stato Ramat Kal, capo di Stato maggiore, saprà bene come rispondere, cosa fare, quando Hamas ci bombarda o quando dalla Siria l'Iran ci attacca. Eppure, data la capacità di Bibi di mantenere la pace e la deterrenza, resta il dubbio che Netanyahu sia il migliore nella stabilità e la difesa, e questo è il suo migliore asso.
Ma la parola d'ordine è Bibi delendus. Il suo profilo, agli occhi dell'Ue, dell'Onu, dei democratici americani, della sinistra europea, della società culturale internazionale da Hollywood alle estati romane, è fastidiosamente legato a ciò che non piace quando si appartiene all'élite mondiale ambientalista, intersezionalista, femminista, lgbt, anticoloniale, antirazzista, bianca. Non importa che in Israele non ci sia traccia di svolta di destra, o che abbia stabilito ottimi rapporti con l'Africa e con l'India: Netanyahu è un imperialista di destra. Parla di Stato degli Ebrei, diffida dei palestinesi, dice pane al pane, minaccia e colpisce l'Iran, tutte cose fastidiose all'orecchio globalista. Di destra viene giudicata la sua spinta alla nuova Costituzione che stabilisce che Israele è lo Stato ebraico e non «di tutti i cittadini», anche se i diritti di tutte le minoranze sono garantiti.
Bibi può veramente perdere domani perché c'è un'ansia di giuocarsi l'identità alla roulette della normalizzazione, di berla nella modernizzazione egualitaria emarginando l'elemento religioso che davvero ha esagerato. Gioca anche il dna socialista di Israele, così simpatico e amato nell'immagine di Ben Gurion e anche di Ytzchak Rabin. Il cinquanta per cento qui cova il desiderio di rientrare in quell'universo globalista e internazionale di cui Peres era un campione, in cui «stato nazione» è una brutta espressione, si deve glissare sull'odio islamico, si può seguitare a sostenere che parlarne è islamofobia, e dire che l'antisemitismo è soprattutto di destra, nonostante ogni prova contraria. Quasi tutto l'Occidente la pensa così. Anche se oggi Israele è un miracolo: trova il modo di far fare ai suoi disabili il servizio militare, riesce a inviare a tutti nel mondo squadre di salvataggio funamboliche, accoglie palestinesi, siriani, bambini di Gaza nei suoi ospedali. Segnali di una fantastica concezione del proprio ruolo nel mondo.
Eppure la battaglia anti Bibi ha traslocato dagli Usa e dall'Europa la guerra fra populisti e antipopulisti senza capire che Netanyahu non può indossare quella veste. La sua storia familiare, militare e politica raccontano tutta un'altra storia, e il suo ruolo è invece frutto di un'identità israeliana forte, difensiva, nazionale e laica. Citando le teorie di Yoram Hazony, il suo è un nazionalismo che nasce dalla lealtà nazionale e quindi si autolimita. Netanyahu non è un dittatore anche se è un leader leonino, che è stato al potere 13 anni. C'è stato tanto tempo, e soprattutto è «di destra», peccato mortale, ma ha guidato bene. Se, come può essere naturale perderà, sarà una sostituzione di dna, di linfa culturale di Israele stesso. Abu Mazen ha detto che non desidera altro.
(il Giornale, 16 settembre 2019)
Provincia di Jiangsu e Israele, 14 accordi hi-tech
Un centro di innovazione sarà inaugurato a Tel Aviv
GERUSALEMME - La provincia di Jiangsu in Cina orientale e Israele hanno firmato 14 accordi per migliorare la cooperazione nell'hi-tech. Riguardano i settori delle bioscienze, dei dispositivi medici e della produzione intelligente e sono stati firmati ieri durante il Jiangsu (Israel) Opening & Innovation Cooperation Symposium tenutosi nella città israeliana di Tel Aviv. Sia Israele che la provincia di Jiangsu hanno compreso il senso della costruzione di relazioni e l'importanza di condurre la cooperazione tra le due parti. Lo afferma Matan Vilnai, presidente della Camera di Commercio Israele-Asia, che in passato è stato ambasciatore israeliano in Cina.
Un centro di innovazione costruito dalle due parti sarà inaugurato a Tel Aviv il 18 settembre. La decisione di aprire il centro è stata la scelta giusta per promuovere le relazioni tra le due parti, ha detto Vilnai, sottolineando la necessità di compiere ulteriori sforzi per costruire i legami tra Cina e Israele. La Cina è in procinto di diventare un Paese orientato all'innovazione, che ha creato buone opportunità per incrementare la cooperazione hi-tech tra Cina e Israele, ha detto Zhang Xingfu, consulente dell'ufficio del consigliere economico e commerciale dell'ambasciata cinese in Israele. Secondo Zhang, la cooperazione tra Jiangsu e Israele nei settori dell'informazione elettronica, della biomedicina, dell'energia e dell'ambiente è stata ulteriormente migliorata da quando le due parti hanno implementato il piano di cooperazione industriale di ricerca e sviluppo nel 2008. Al convegno, i funzionari provinciali di Jiangsu e i funzionari delle città di Nanchino, Changzhou e Nantong, hanno reso presentazioni dettagliate sulle condizioni geografiche, economiche e culturali della provincia, delle città e sul contesto degli investimenti. Più di 100 delegati della provincia di Jiangsu e di Israele hanno partecipato al convegno.
(ANSA-XINHUA, 16 settembre 2019)
Teheran sequestra una nave emiratina nello Stretto di Hormuz
Navigava a circa 20 miglia a est dell'isola di Grande Tunb, all'ingresso del Golfo Persico. L'accusa è di contrabbando
TEHERAN - Le unità navali dei Pasdaran iraniani hanno sequestrato nello stretto di Hormuz una nave sospettata di contrabbandare gasolio verso gli Emirati Arabi Uniti. Nell'operazione è stato fermato anche l'equipaggio. Lo riporta l'Isna.
Il cargo Linch, che secondo questa prima ricostruzione batterebbe bandiera emiratina, è accusato di trasportare illegalmente 250 mila litri di gasolio ed è stato fermato circa 20 miglia a est dell'isola di Grande Tunb, all'ingresso del Golfo Persico. Secondo la Fars, agenzia vicina ai Pasdaran, a bordo c'era un equipaggio di 11 persone. Non è stata resa nota la loro nazionalità.
I Guardiani della rivoluzione avrebbero posto la nave e il suo equipaggio sotto il controllo delle autorità giudiziarie della provincia meridionale iraniana di Hormozgan, che si era già occupata in passato di altri sequestri, tra cui quello a luglio della petroliera britannica Stena Impero. Stamani, Teheran aveva fatto sapere che quest'ultima imbarcazione verrà rilasciata a giorni.
(tio.ch, 16 settembre 2019)
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