Ascoltatemi, o gente dal cuore ostinato, che siete lontani dalla giustizia! Io faccio avvicinare la mia giustizia; essa non è lontana, la mia salvezza non tarderà; io metterò la salvezza in Sion e la mia gloria sopra Israele.
Isaia 46:12-13

Attualità



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Predicazioni
Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Filippesi 3:17-21
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Romani 12:1-2
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio e a Mammona. Perciò vi dico: Non siate ansiosi per la vita vostra di quello che mangerete o di quello che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non siete voi assai più di loro? E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito? E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio riveste in questa maniera l'erba dei campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede? Non siate dunque ansiosi dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo? Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.

Matteo 6:24-34

Marcello Cicchese
dicembre 2015


Come gli evangelici americani sono diventati l'esercito della Grande Israele

La più grande organizzazione evangelica filoisraeliana degli Usa terrà la sua conferenza annuale questa settimana, in mezzo alle crescenti voci sull'annessione israeliana ...

Una potenza mondiale: gli evangelici. Un "esercito" a sostegno dell'annessione. La più grande organizzazione evangelica filoisraeliana degli Stati Uniti terrà la sua conferenza annuale questa settimana, in mezzo alle crescenti voci sull'annessione israeliana di parti della Valle del Giordano sia a Gerusalemme che a Washington. Christians United for Israel, che ha milioni di membri negli Stati Uniti, terrà una conferenza virtuale quest'anno alla luce della crisi del coronavirus.
  Il fondatore dell'organizzazione, il pastore John Hagee, in un articolo pubblicato su Haaretz la scorsa settimana, sollecitando l'amministrazione Trump a continuare a portare avanti il suo piano di pace per il Medio Oriente, che include l'annessione israeliana fino al 30% della Cisgiordania.
  Christians United for Israel ha espresso il suo sostegno per l'intero piano di pace di Trump a gennaio, e un portavoce dell'organizzazione ha ribadito al quotidiano progressista di Tel Aviv all'inizio di giugno che il gruppo mantiene questa posizione. Lo scorso fine settimana, Friedman e Avi Berkowitz, il funzionario della Casa Bianca alla guida del piano di pace di Trump, sono arrivati in Israele per continuare a discutere le diverse opzioni con Netanyahu e Gantz. Netanyahu ha parlato più volte agli eventi di Christians United for Israel. L'anno scorso ha detto ai sostenitori dell'organizzazione in un video messaggio che Israele non ha amici migliori dei cristiani evangelici. Per Gantz, la conferenza di quest'anno segnerà la sua prima apparizione come leader politico all'evento.

 Potenza globale
  Hanno piazzato un loro adepto, Mike Pence, alla vice presidenza degli Stati Uniti. Hanno avuto un ruolo chiave nel fare eleggere alla presidenza del Brasile, un loro fedele, Jair Bolsonaro, ex cattolico, come Pence, convertitosi alla chiesa evangelica. Ed ora hanno fatto il loro ingresso anche nel Regno Saud, a casa dei custodi dei due più importanti luoghi sacri dell'islam: Mecca e Medina. E l'hanno fatto passando dalla porta principale, ricevuti dall'erede al trono, il principe Mohammed bin Salman. Messo alle strette dal caso-Khashoggi, MbS, acronimo con cui il principe è riportato dai media internazionali, ha avuto ieri un meeting, durato oltre due ore, con una delegazione dell'American evangelical Christians. Un evento, per il suo genere, più unico che raro. I più stretti collaboratori di MbS, hanno provato a offrire ai media internazionali una interpretazione che rilancia l'appannata - vedi l'affaire-Khashoggi - immagine di MbS come il riformatore, non solo in campo economico, ma anche sul terreno minato, della religione, nella terra che ha visto nascere e rafforzarsi la corrente più integralista del fondamentalismo islamico: quella wahabita. La delegazione degli evangelici americani era ai massimi livelli. Ne facevano parte il responsabile della comunicazione Joel Rosenberg e includeva Michele Bachmann, ex congressista Usa. "Si tratta di un momento storico per il Regno", ha affermato l'erede al trono nel dare il benvenuto alla delegazione.
  Ma la religione, in questa vicenda, c'entra molto meno della politica. Perché si dà il caso che sia Rosenberg che la Bachmann, siano tra i capi delle organizzazioni evangeliche americane che più hanno spinto per la saldatura dell'asse tra Riyadh e Gerusalemme. Della delegazione faceva parte anche Mike Evance, fondatore del Jerusalem Prayer Team, che descrive se stesso sul suo sito web come "a devout American-Christian Zionist leader". "E che la politica sia centrale in questa vicenda lo conferma anche il profilo della delegazione saudita che affiancava MbS: il ministro degli Esteri, Adel al-Jubeir, l'ambasciatore saudita a Washington, principe Khalid bin Salman e il segretario generale della Muslim World League Mohammed al-Issa. Va ricordato, in proposito, che quella che più ha spinto l'amministrazione Trump al trasferimento dell'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, non è stata la comunità ebraica americana ma gli evangelici, parte fondamentale del "sionismo cristiano". Evangelico, per l'appunto, è il vice presidente degli Stati Uniti, quel Mike Pence che così ebbe a dire nel suo discorso alla Knesset del 22 gennaio 2018: "Oggi - esordì in quell'occasione Pence - mentre mi trovo nella terra promessa di Abramo, credo che quanti amano la libertà e auspicano un futuro migliore debbano volgersi verso Israele e provare meraviglia per quanto vedono". È stata la fede "a ricostruire le rovine di Gerusalemme e a fortificarle nuovamente", proclamò il vice presidente Usa pronunciando la shehechiyanu la benedizione ebraica. "Sono qui per portare un forte messaggio: la vostra causa è la nostra causa, i nostri valori sono i vostri valori. Siamo schierati con Israele perché crediamo nel bene e nel male, nella libertà sopra la tirannia", proseguì il discorso-sermone facendo un parallelo fra la storia degli ebrei e quella degli Stati Uniti. "È la storia di un esodo, un viaggio dalla persecuzione alla libertà", ha affermato in trance religiosa, ricordando come i padri pellegrini che per primi arrivarono in America si rivolgessero "alla saggezza della Bibbia ebraica".

 Cento milioni
  Non si sta parlando di una minoranza, per quanto agguerrita, di fanatici fondamentalisti. Si tratta, al contrario, di una comunità che oggi conta 100 milioni di adepti, l'81% dei quali ha votato l'attuale quarantacinquesimo presidente alle scorse elezioni, nel novembre 2016. Sempre di quei 100 milioni, un terzo è formato da ferventi supporter dello Stato israeliano, tanto da costituire un movimento autonomo, il cosiddetto "sionismo cristiano". Le cifre dell'endorsement evangelico alla causa sionista diventano ancora più rilevanti se accostate a quelle relative alla comunità ebraica statunitense: solo il 16% , secondo una ricerca del Pew Research Center, supportava, nel 2017, il trasferimento immediato dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme (il 36% era a favore, ma solo quando i negoziati di pace tra Israele e Palestina fossero progrediti); tra gli evangelici, invece, ben il 53% era d'accordo con la decisione di Trump.

 La lobby israeliana
  I "sionisti cristiani" sono parte attiva, influente, e non solo nell'era Trump, nella determinazione delle scelte degli Usa in Medio Oriente e su Israele. E così non appare una forzatura, né desta meraviglia che, come sostiene Daniel Pipes, "oltre alle Forze di difesa israeliane, i sionisti cristiani possono essere ritenuti l'estrema risorsa strategica dello Stato ebraico". O, come ebbe a scrivere nel 2006 Michael Freund, ex direttore dell'Ufficio comunicazioni di Netanyahu, ringraziamo Dio per i sionisti cristiani! Piaccia o no, è assai probabile che il futuro delle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti siano assai meno nelle mani degli ebrei americani che in quelle dei cristiani d'America". Nel 1996 il Terzo congresso internazionale dei sionisti cristiani ha proclamato che "la Terra che Egli promise al Suo Popolo non dev'essere frazionata... Sarebbe un ulteriore errore da parte delle nazioni riconoscere uno Stato palestinese in qualunque parte di Eretz Israel...". Rimarcano John J. Mearsheimer - docente di scienza della politica all'Università di Chicago - e Stephen M.Walt - che insegna relazioni internazionali alla John F. Kennedy School of Government presso l'Università di Harvard - nel loro libro La Israel lobby. E la politica estera americana (edito in Italia da Mondadori): "Fornendo supporto finanziario al movimento dei coloni, e scagliandosi pubblicamente contro ogni concessione territoriale, i sionisti cristiani hanno consolidato le derive intransigenti di Israele e Stati Uniti, e hanno reso più difficile ai leader americani esercitare pressioni sullo Stato ebraico. Senza il sostegno del sionismo cristiano, il numero dei coloni israeliani sarebbe più modesto e i governi di Israele e Stati Uniti sarebbero meno condizionati dalla loro presenza nei Territori occupati e dalla loro attività politica. Oltre a questo - proseguono gli autori - c'è il fatto che il turismo cristiano (una parte cospicua del quale è di matrice evangelica) è diventato una ragguardevole fonte di introiti per Israele, generando nell'area un volume di entrate che si aggirerebbe intorno al miliardo di dollari l'anno" L'associazione di cristiani americani HaYovel (Giubileo in ebraico), fondata nel 2007 dalla coppia Tommy e Sherri Waller, mira a contribuire "alla restaurazione profetica della terra di Israele" rendendola fruttuosa. Prendendosi cura del popolo eletto, i fondatori di HaYovel intendono andare nella direzione della profezia biblica: "Tutte le nazioni saranno benedette se Israele lo è per Dio". E anche gli arabi avranno una vita migliore, come ha dichiarato Sherri Waller a Le Monde. In questa prospettiva stimano che i palestinesi sono ammessi in Cisgiordania ma le terre spettano agli ebrei. Dall'inizio della sua attività, HaYovel ha mobilitato più di 1.800 lavoratori per le vendemmie in Cisgiordania. Come parte dell'associazione evangelica HaYovel, per lo più provenienti dagli Stati Uniti, si offrono volontari per la raccolta negli insediamenti israeliani in Cisgiordania. E si dichiarano felici di contribuire alla profezia biblica. Un chiaro sostegno alla colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati, che questi cristiani considerano il "cuore storico e spirituale di Israele". Non solo. I cristiani evangelici, grandi elettori negli Stati Uniti del presidente Donald Trump, finanziano ormai circa un terzo della migrazione degli ebrei della diaspora verso Israele. Lo rivelano le cifre relative al 2017, pubblicate dalla testata digitale israeliana Ynetnews. Su 28 mila ebrei che hanno compiuto lo scorso anno l'aliyah, ovvero l'ascesa-ritorno alla "Terra promessa», almeno 8.500 hanno goduto dei fondi raccolti ufficialmente da organizzazioni cristiane, divenute partner dell'Agenzia ebraica nell'obiettivo di ricondurre gli "esuli" nella patria israeliana. Denaro che non copre solo le spese di viaggio, ma anche e soprattutto quelle di inserimento nella nuova società, con sussidi sociali e aiuti per la costruzione di nuove case. Le due principali sigle di cristiani evangelici impegnate per la causa ebraica sono l'International Fellowship of Christian and Jews (Ifcj) e l'International Christian Embassy of Jerusalem.Le somme stanziate sono ragguardevoli. Solo la Ifcj ha riferito all'Associated Press di aver distribuito dal 2014 ad oggi 30 milioni di dollari per l'aliyah e di aver donato all'Agenzia ebraica 188 milioni di dollari nei due decenni precedenti. A ciò va aggiunto un impegno finanziario analogo della Christian Embassy, oltre a contributi anonimi.
  Il "sionismo cristiano", pilastro della Grande Israele. Un esercito a servizio di Eretz Israel.

(Globalist, 29 giugno 2020)


Un articolo come questo probabilmente fa scattare nel lettore, in modo quasi immediato, un meccanismo di valutazione secondo criteri già fissati da tempo. Come quasi sempre quando si parla di ebrei, chi riceve un’informazione riguardante loro è convinto di saperne già abbastanza e di non dover far altro che tirare delle conclusioni. Che naturalmente saranno diverse a seconda che si tratti di un ebreo (secolare o religioso), di un cristiano (cattolico o evangelico), di un laico (sovranista o globalista), o di qualsiasi altro. Resta il fatto che per prima cosa bisognerebbe avere elementi di base sufficienti per capire quello che accade e argomenti validi per abbozzarne una valutazione, anche se solo provvisoria. L’argomento di questo articolo però, per la sua natura “multidisciplinare”, con elementi riconducibili a quell’universo semisconosciuto che è la Bibbia, non è facilmente inquadrabile in nessuna delle usuali categorie culturali e politiche. Di conseguenza è altamente probabile che chi ne parla non sappia quello che dice. E tuttavia lo dice, perché gli piace dirlo, e perché gli dispiace di dover cambiare la propria opinione, e perché sa che sarebbe faticoso e rischioso verificarne il valore. Nel nostro sito è già presente una proposta di valutazione del fenomeno, da un punto di vista strettamente cristiano-evangelico, naturalmente. M.C.
"Ebraismo e cristianesimo. Centro e diaspora Ebraismo e cristianesimo. Centro e diaspora"


Imbrattato con sigle anti-ebrei il Giardino della Memoria al cimitero di Alessandria

Una scritta con vernice blu fa riferimento ai campi di sterminio, l'assessore Barosini: "Faremo denuncia contro ignoti".

 
ALESSANDRIA. «VL» è l'abbreviazione di Vernichtungslager, i campi di sterminio pensati come installazioni deputate a eliminare fisicamente in massa e in tempi brevi gli ebrei d'Europa. Probabilmente è questo il significato della scritta apparsa in questi giorni, insieme a un'altra sigla «Sl», nel Giardino della Memoria del cimitero urbano di Alessandria.
Con una bomboletta di vernice blu, presumibilmente di notte e fra sabato e domenica scorsi, ignoti hanno imbrattato quell'angolo dedicato al ricordo. «Ci appresteremo a fare regolare denuncia presso l'autorità giudiziaria e a togliere le scritte» ha assicurato l'assessore ai Lavori pubblici Giovanni Barosini. «È doveroso - ha aggiunto - un ennesimo accorato appello a un maggiore senso civico e profondo rispetto verso i beni comuni, patrimoniali e storico-culturali».

(La Stampa, 29 giugno 2020)


Creato un microscopio così potente da permettere di vedere la luce in movimento

Un team di scienziati israeliani del "Technion-Israel Institute of Technology" vuole scoprire come migliorare la qualità dei piccoli punti quantici su grandi superfici.

Il primo microscopio della storia fu inventato verso la fine del 1500 e ingrandiva solo fino a 30 volte di più l'immagine rispetto all'obiettivo. Da allora la tecnologia ha fatto ovviamente grandi passi in avanti e oggi, per la prima volta, è stato creato un microscopio talmente potente da permettere di osservare la luce in movimento.
   Si tratta dell'ultima svolta nel campo della scienza quantistica che ha consentito ad un team di scienziati israeliani del Technion-Israel Institute of Technology di sviluppare un potente microscopio elettronico in grado di fornire l'immagine più nitida mai prodotta della luce che si muove all'interno dei materiali. Questo nuovo dispositivo, infatti, permette l'osservazione diretta della luce all'interno di un cristallo fotonico, che cattura la luce in un modello diverso per ciascun colore.
   «Con il nostro microscopio possiamo cambiare il colore e l'angolo della luce che illumina qualsiasi campione di nanomateriali e mappare le loro interazioni con gli elettroni, come abbiamo dimostrato con i cristalli fotonici», ha spiegato Ido Kaminer, professore presso l'Istituto israeliano di tecnologia che ha guidato il team.
   Lo strumento è un microscopio elettronico a trasmissione ultrarapida unico nel suo genere. Con questa ricerca si apre un nuovo regno di possibilità per gli scienziati quantistici. I ricercatori, infatti, non solo ora potranno osservare i fenomeni che un tempo erano costretti a modellare o simulare, ma questa tecnica di microscopia consente anche di studiare le sfaccettature del comportamento di particelle come fotoni ed elettroni.
   Precedenti studi che utilizzavano la microscopia per analizzare il comportamento quantistico erano più limitati. In effetti, gli scienziati avevano già sondato atomi o punti quantici, che però avevano una minore flessibilità nel modo in cui potevano rispondere all'energia degli elettroni. In questo nuovo studio pubblicato su Nature, invece, il team ha utilizzato cavità fotoniche, che essenzialmente sono cristalli nanoscopici in cui gli scienziati hanno potuto osservare direttamente elettroni e fotoni che fluivano liberamente al loro interno.
   «Questa è la prima volta che possiamo effettivamente vedere la dinamica della luce mentre è intrappolata nei nanomateriali, piuttosto che fare affidamento su simulazioni al computer», ha affermato il ricercatore del Technion, Kangpeng Wang.
   Secondo gli esperti, grazie a questa innovativa ricerca sarà presto possibile risolvere un problema critico nell'informatica quantistica. I qubit che memorizzano le informazioni nei computer quantistici, infatti, sono notoriamente soggetti a errori. Ora, invece, i ricercatori ipotizzano che la loro tecnica di intrappolamento della luce potrebbe renderli significativamente più stabili.

(tio.ch, 29 giugno 2020)


Coronavirus: Netanyahu convoca una riunione urgente

Oltre 800 contagi negli ultimi due giorni

Il premier Benyamin Netanyahu ha convocato oggi una consultazione urgente con alcuni ministri per fronteggiare la crescente diffusione dei contagi di coronavirus. Fra i provvedimenti che saranno discussi, anticipa il quotidiano Israel ha-Yom, la limitazione degli assembramenti di persone ad un massimo di 50, che potrebbe essere poi ridotto a sua volta anche a 10 persone se la situazione non migliorasse.
Inoltre potrebbe essere ordinata la chiusura delle sale ricevimenti (che erano state riaperte solo di recente). In pericolo anche i campi estivi di ricreazione scolastica così come l'accesso alle spiagge pubbliche.Secondo dati diffusi oggi dal ministero della sanità, i casi positivi sono saliti a 23.462, oltre 800 in più rispetto a venerdì. Le guarigioni assommano a 17 mila, mentre i malati sono adesso 6.127, 41 dei quali in rianimazione. I decessi sono saliti a 317.

(ANSAmed, 28 giugno 2020)


Tutti contro il piano di annessione. Netanyahu pronto alla versione soft

Il premier presenterà mercoledì la sua proposta per l'estensione della sovranità in zone della Cisgiordania probabilmente più limitate rispetto a quanto previsto da Trump. Si tratterebbe dei tre insediamenti ebraici più grandi.

di Fiammetta Martegani

Il primo luglio il premier israeliano Benjamin Netanyahu dovrà presentare alla Knesset il suo piano per annettere a Israele parte dei territori come previsto dall"'Accordo del Secolo' proposto lo scorso 28 gennaio dal presidente americano Donald Trump: il primo capo di Stato americano repubblicano ad aver posto al centro della propria politica estera la questione. Stando agli sviluppi degli ultimi giorni, si ipotizza che la proposta di mercoledì potrebbe prevedere l'estensione della sovranità israeliana su un' area inferiore rispetto a quella suggerita dalla Casa Bianca: circa il 20% della Cisgiordania invece del30%. Si tratterebbe, nello specifico, dei tre insediamenti ebraici più grandi: Ma' aleAdumim, Gush Etzion e Ariel, Aree che de facto sono già parte integrante dello Stato di Israele e che lo diventerebbero anche de jure, rientrando così sotto la legislazione civile israeliana.
  Il piano sta ricevendo molte critiche. Per il centro-sinistra israeliano (e per parte dell'Unione Europea) non funziona in quanto configura una mossa unilaterale: «Il popolo palestinese e i suoi diritti non sono nemmeno stati contemplati - sottolinea Yehuda Shaul, cofondatore della Ong israeliana Breaking the Silence -. Questo, oltre al pericolo di una terza Intifada, potrebbe sottrarre a Israele ogni appoggio della comunità internazionale, e far saltare per sempre il processo di pace». Per i coloni e per la destra estremista, la soluzione dei due Stati ipotizzata dal piano Trump è inaccettabile perché non ricalca il disegno della "Grande Israele", quella compresa tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, che include, per intero, Giudea e Samaria. E costituirebbe un enorme minaccia alla sicurezza del Paese. «Lo stesso termine "annessioni" per noi è privo di senso - commenta Yigal Dilmoni, vice--presidente del Yesha Council, l'organizzazione che rappresenta i consigli municipali degli insediamenti -. Sarebbe corretto parlare di "sovranità"».
  Poi c'è la Giordania (alleato politico fondamentale di Israele), che, come per la maggior parte dei Paesi limitrofi, considera le annessioni una mina sui delicati rapporti diplomatici con lo Stato ebraico. Ma anche con gli Stati Uniti, che peraltro si trovano già alle prese con la pandemia e le proteste del movimento Black Lives Matter. A Trump, per ora, non conviene esporsi troppo. Il suo piano prevedeva fin dall'inizio un percorso graduale e concordato. Preso atto della fuga in avanti di Netanyahu, il presidente Usa potrebbe, a questo punto, chiudere un occhio su una "light annexation", «Procederà a passi lunghi e ben distesi - spiega Moshe Maoz, esperto di Studi del Medio Oriente e dell'Islam all'Università di Gerusalemme - cercando di rimandare tutto il più in là possibile. A novembre, poi, potrebbe rilanciare le negoziazioni per accaparrarsi, in campagna elettorale, i voti, cruciali, degli evangelisti». Non bastasse tutto questo, va sottolineato che sia la proposta americana che il "punto 28" dell'accordo siglato da Netanyahu e da Benny Gantz a maggio (quello che ha dato via libera al governo nazionale di emergenza) prevedono che i due partiti della coalizione (Likud e Blu Bianco) raggiungano un'intesa condivisa sulle annessioni. E l'exgenerale, prudentemente, frena: non vuole deludere ulteriormente il suo elettorato (che lo aveva votato prevalentemente in funzione anti-Netanyahu) e, in attesa di diventare primo ministro tra una anno e mezzo circa (come previsto dal sistema a rotazione), intende impegnarsi al massimo per mantenere saldi i legami diplomatici con il resto del mondo. Vedere Israele nel mirino per la questione delle annessioni non deve piacergli affatto. «La questione che abbiamo di fronte è un percorso complesso e storico che influenzerà le sorti del Paese nei prossimi decenni - ha dichiarato ieri il ministro della Difesa -. La affronteremo in modo responsabile».
  Va detto che la posizione di Gantz potrebbe, mal che vada, risultare un'ottima scusa per Netanyahu per giustificare la "provvisorietà" del piano che aveva clamorosamente sventolato in campagna elettorale. Un buon assist per poterlo ridurre e rimandare. Ottenendo in questo modo il vantaggio di guadagnare altro tempo, senza fare grossi torti a nessuno e, soprattutto, mantenendo, ancora una volta, lo status quo. Un altro numero perfettamente riuscito di Bibi «The Magician».

(Avvenire, 28 giugno 2020)


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«La proposta americana non è tutta da buttare»

A colloquio con la ricercatrice Dikla Cohen

di Fiammetta Martegani

C'è chi legge nel Piano di Trump solo vantaggi per gli israeliani e svantaggi per i palestinesi. In realtà non è, soltanto, così». Dikla Cohen, docente di Studi del Medio Oriente all'Università di Gerusalemme e ricercatrice dell'Istituto Harry S. Truman per la Promozione della Pace, ritiene che la proposta americana non sia da buttare. «È un progetto articolato, con pro e contro per gli uni e per gli altri, e potrebbe diventare tavolo di discussione».

- Quali pro e contro?
  Il vantaggio principale per Israele sarebbe il rafforzamento della sicurezza dei confini, soprattutto sul versante orientale. Per contro, lo Stato ebraico si ritroverebbe ad avere, proprio dentro questi confini rafforzati, alcune enclave palestinesi dallo status "ibrido". Il Piano non prevede infatti l'estensione della legislatura israeliana per la popolazione palestinese che verrà assorbita assieme i territori che verranno annessi, e questo costituirà un enorme problema. Per Israele e per i palestinesi. Che, però, in cambio, potrebbero ottenere come vantaggio il riconoscimento ufficiale di un proprio Stato.

- Quanto è cruciale il ruolo di Donald Trump nel processo di annessione? E quanto le annessioni sono cruciali per la carriera politica del presidente Usa?
  Trump sta giocando una partita importante e delicata: punta a costruire ponti solidi tra Israele e gli altri Paesi arabi della regione, il che comporterebbe una serie di benefici sul lungo periodo, anche per la stabilità del governo americano. Per questo parla di un processo «graduale». Un concetto che però è stato poco considerato da tutti gli interlocutori.

- Fino a che punto queste annessioni potrebbero compromettere le relazioni diplomatiche con la Giordania, partner fondamentale per lo Stato ebraico?
  Re Abdullah ha condannato in modo molto deciso i piani unilaterali di Israele. E la Lega Araba ha già adottato la risoluzione 8.522 relativa alle implicazioni che ci saranno per i circa 70.000 palestinesi che si troveranno nel "limbo", in caso di annessione. I Paesi limitrofi fanno sul serio.

- L'attuale situazione negli Stati Uniti, con l'esplosione del movimento anti -razzista e l'emergenza Covid, potrebbero rallentare tutto?
  Sì: il dirompere della pandemia e l'instabilità politica nazionale potrebbero portare la Casa Bianca a frenare sull'avvio del processo proposto, rimandando il più possibile in là.

- Cosa accadrà dunque martedì?
  Considerando anche il fatto che la proposta del premier Netanyahu dovrà tenere conto del ruolo, determinante, del ministro della Difesa Benny Gantz, suo successore nella staffetta di governo ... Gantz ha espresso fermamente la propria opposizione a estendere la legislatura israeliana in quei territori della Cisgiordania con una numerosa presenza di popolazione palestinese. Inoltre, come ministro della Difesa, teme che l'Esercito si ritrovi ad affrontare non pochi problemi legati ad un aumento di azioni di tipo terroristico. Cercherà di tutelare al massimo la sicurezza del Paese, suggerendo di procedere "per gradi". Esattamente quello che viene raccomandato anche da Washington.

(Avvenire, 28 giugno 2020)


Habibi, la nuova compagnia di Israele

Un intervento come tanti altri in una mattinata come le altre. Si preannunciava così il discorso che il direttore del Mossad Yossi Cohen si apprestava a dare circa un anno fa nel palcoscenico della Conferenza di Herzliya, occasione annuale di incontro dell'establishment politico, diplomatico e militare di Israele. Il salone per metà si era già svuotato dopo l'accesa arringa dell'allora candidato premier Benny Gantz mentre il pubblico più autorevole già si era artatamente dileguato.

di Pietro Baldelli

 
Eppure quell'occasione si rivelò differente. In un discorso estremamente inusuale per un Direttore in carica, Cohen aveva deciso di sfruttare quella rara apparizione pubblica per rivelare che sotto la sua guida il Mossad aveva rappresentato la punta di lancia della politica di avvicinamento perseguita da Israele verso i così detti Paesi arabi moderati. Rivelazione tanto inconsueta da apparire come una sorta di candidatura politica alla stampa israeliana che il giorno seguente diede eco alla notizia. Delitto arcinoto per cui non si avevano prove a sufficienza per incastrare l'esecutore materiale, ora reo confesso. Dossier gestito dai servizi di intelligence e non dal corpo diplomatico, da cui nei giorni seguenti si sollevarono inevitabili voci risentite nella più classica delle lotte intestine tra apparati. A conferma non solo dei requisiti tecnico-operativi richiesti da una tale manovra di abbordo ma ancor più del mandante ultimo di tutta l'operazione, ovvero il premier Netanyahu. Interessato a lasciare ai posteri un grande successo diplomatico, la normalizzazione dei rapporti con alcuni dei principali Paesi arabi della regione.

 Geopolitica del Coronavirus
  Uno scenario del genere è stato replicato nelle ultime settimane a causa dello scoppio della pandemia, crisi sanitaria ma grande opportunità politico-diplomatica. In un ruolo del tutto insolito infatti, il Mossad è stato investito del compito di reperire materiale medico-sanitario per la lotta alla diffusione del virus nei Paesi che non intrattengono ufficialmente relazioni diplomatiche con Israele. Non è dato sapere esattamente in quali teatri abbia agito. Tuttavia è probabile che l'attenzione sia stata rivolta ai ricchi Stati del Golfo, con capofila gli Emirati Arabi Uniti. A conferma di ciò, in una sorta di do ut des Abu Dhabi ha fatto atterrare per ben due volte degli aerei cargo della compagnia di bandiera Etihad all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv per fornire aiuti medici alla popolazione palestinese, peraltro successivamente rifiutati dall'Autorità palestinese.

 La strategia dei Tre cerchi concentrici
  Gli eventi sopracitati si inseriscono in una cornice strategica più ampia delineata da Israele, definibile come la strategia dei 'Tre cerchi concentrici'. Questa consisterebbe nel tentativo di normalizzare le relazioni con Paesi arabi e/o a maggioranza musulmana che in passato venivano qualificati come nemici strategici o avversari ostili. Ciò significherebbe imporre una Vestfalia alle ragioni della fede, all'interno di un generale riassetto dell'equilibrio di potenza regionale in cui, in una più classica competizione tra attori conservatori e revisionisti, l'affinità di interessi trascenderà sempre più le divisioni basate sulla comune appartenenza etnico-religiosa. Il tutto in un macro-quadrante geopolitico affollato che si staglia tra Gibilterra e Malacca passando per il Mediterraneo, il Mar Rosso e l'Oceano Indiano e comprendente altri due colli di bottiglia strategici come Suez e Bab al-Mandab, oltre che il Golfo Persico e Hormuz nella sua propaggine orientale. I tre cerchi sono rappresentati da altrettante organizzazioni internazionali tra loro concatenate: il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), la Lega araba e l'Organizzazione della cooperazione islamica (OIC). Esse vanno a formare una matrioska tale per cui tutti gli Stati membri del GCC appartengono anche alla Lega araba, i cui membri a loro volta appartengono all'OIC. L'obiettivo finale è allargare il parterre degli attori amici nel vicino esterno da affiancare a Egitto e Giordania, ormai partner di lungo corso di Israele.
  1-GCC+ Lega Araba+ OIC à Si tratta del raggruppamento di Paesi più importanti dal punto di vista israeliano. Infatti tra di essi ci sono quelli che per decenni hanno rappresentato i suoi principali rivali strategici. Oggi interessati a un avvicinamento a Israele in primis in chiave anti-iraniana e magari, nel futuro prossimo, anche all'acquisto di sistemi d'arma (Israele ha incrementato del 77% l'export di armamenti dal periodo 2010-14 al 2015-19, dati SIPRI). Tra di essi figura innanzi tutto l'apripista Oman, visitato da Netanyahu nell'ottobre 2018 e noto per la politica di moderazione ed equidistanza del sultano Qaboos, recentemente deceduto. Poi c'è l'Arabia Saudita, di cui è utile rammentare alcuni passi significativi come l'autorizzazione al sorvolo dello spazio aereo da parte di aerei civili israeliani e la concessione dei primi visti di lavoro per cittadini arabi israeliani. Ma anche misure simboliche come la messa in onda durante il mese di Ramadan della serie tv 'Um Haroun' (racconta le vicende di una donna araba di religione ebraica) e la pubblicazione degli auguri in ebraico da parte dell'Ambasciata saudita a Washington in occasione dello scorso Rosh haShana, il capodanno ebraico. Inoltre di recente il giornale Israel Hayom ha rivelato l'esistenza di negoziati con cui gli israeliani starebbero considerando l'opportunità di un ingresso di Riad nel Jerusalem Islamic Waqf, la fondazione a guida giordana che controlla la Spianata delle Moschee, al fine di compensare la recente penetrazione della Turchia. Poi il Bahrein, paese ospitante nel giugno 2019 del Workshop di Manama in cui è stata presentata la parte economica del 'Peace to Prosperity' Plan del presidente Trump. Infine gli EAU, negli ultimi mesi capofila di tale avvicinamento, i quali hanno invitato Israele a inviare una delegazione a Expo Dubai 2021 e il cui Ambasciatore a Washington ha partecipato alla presentazione della seconda parte del piano avvenuta alla Casa Bianca lo scorso gennaio, insieme ai rappresentanti di Bahrein e Oman. Secondo l'ex premier qatariota tali Paesi in futuro potrebbero persino firmare un patto di non aggressione con Israele. Inoltre, seppure con estrema discrezione, in Libia Israele ha già iniziato una collaborazione a livello operativo con alcuni di questi attori a sostegno di Haftar.
  2-Lega Araba+OIC à In questo secondo cerchio è utile rammentare il recente avvicinamento con il Sudan, a un anno dal colpo di Stato che ha deposto il dittatore Omar al-Bashir. Infatti lo scorso febbraio Netanyahu è volato a Entebbe, Uganda, dove ha incontrato il generale Al-Buhran, presidente del Consiglio Sovrano ovvero l'organo collegiale che guida la transizione istituzionale. In quell'occasione si è raggiunta una prima intesa per l'utilizzo dello spazio aereo sudanese da parte dei voli civili israeliani.
  3-OIC à Da una parte il Ciad, Paese a maggioranza musulmana in cui l'arabo insieme al francese è lingua ufficiale. Anello di congiunzione tra il Nord Africa e l'Africa sub-sahariana, visitato nel gennaio 2019 da Netanyahu il quale ha incontrato il presidente Idriss Déby, con cui ha annunciato la prossima riapertura delle relazioni diplomatiche interrotte nel 1972. Da ultimo l'Indonesia, estremo orientale del macro-quadrante geopolitico di cui si è detto. Unico Paese non arabofono di quelli considerati ma dal grande potenziale simbolico in quanto Stato musulmano più popoloso del pianeta, da cui nel luglio dello scorso anno è partita una delegazione della camera di commercio in visita all'Israel Diamond Exchange.

 Il neo palestinese
  Unico elemento di potenziale frizione in grado di congelare il recente avvicinamento tra Israele e i suoi ex rivali è rappresentato dalla questione dell'annessione di porzioni della Cisgiordania al territorio israeliano. In una prima assoluta, l'ambasciatore emiratino a Washington Yousef al-Otaiba nell'edizione ebraica del giornale Yedioth Ahronoth ha invitato Israele a non intraprendere passi unilaterali che minerebbero la stabilità della regione. A tale messaggio è seguita la pubblicazione di un video dai contenuti simili nei social media della direttrice della comunicazione del Ministero degli Affari Esteri. Ciononostante più che una linea rossa quello pubblicato da Abu Dhabi sembrerebbe un mite consiglio di un nuovo amico che invita a non disperdere i cruciali sforzi fatti per il riavvicinamento. Gli emiratini infatti mal digerirebbero accelerazioni unilaterali del nuovo governo israeliano su questo fronte. Tanto più dopo aver fatto comprendere discretamente la loro disponibilità a negoziare sulla base del piano trumpiano, peraltro altrettanto favorevole a Israele. Così che la questione palestinese possa essere alla fine derubricata, anche da parte araba, a neo benigno che non necessiti di essere rimosso con la forza ma con cui al contrario è possibile convivere.

(Geopolitica.info, 28 giugno 2020)


Un giornalista contro Hitler

Il cattolico Fritz Gerlich fu tra i primi a cogliere il pericolo del nazismo. Arrestato, fu assassinato dopo mesi di prigionia. Ma la sua voce ci parla ancora. E ci interroga sul suolo dell'intellettuale.

di Sofia Venura

Fritz Gerlich
La notte del 30 giugno del 1934 a Dachau veniva ucciso il giornalista Fritz Gerlich. Quella data è ricordata non per la morte di Gerlich, ma per il massacro ordinato dal Führer delle ormai ingombranti SA: la Notte dei lunghi coltelli, che ebbe luogo in quelle stesse ore. Gerlich e altri protagonisti della prima resistenza al movimento nazional-socialista e al suo psicopatico leader, cominciata anni prima che questi divenisse cancelliere (1933), hanno avuto un ruolo marginale nel racconto storico del nazionalsocialismo, specialmente a fronte del carattere non solo eroico, ma anche preveggente dei loro interventi pubblici. Un carattere che ancora ci parla, che ci interroga sul ruolo dell'intellettuale nella società del proprio tempo.
  Il decennio che precedette la presa del potere di Adolf Hitler, in particolare dopo il fallito Putsch di Monaco del novembre 1923, fu animato da una incessante denuncia del carattere criminale, oltre che ideologicamente delirante, del nascente movimento hitleriano, che ebbe il suo epicentro proprio a Monaco e pose in aperto conflitto lo stesso Hitler con i suoi "detrattori". In prima linea si distinse il periodico socialista Münchener Post, i cui redattori, come ha scritto il giornalista Ron Rosenbaurn, furono i primi a «entrare in conflitto con lui [Hitler], a ridicolizzarlo, a investigare su di lui, a rendere noto lo squallido lato oscuro del suo partito, il violento comportamento criminale mascherato dalla pretesa di apparire solo come un movimento politico. Essi furono i primi a tentare di segnalare al mondo la natura della rozza bestia che si stava avvicinando a Berlino».
  Fritz Gerlich non era socialista. Durante la Prima guerra mondiale non nascose le sue preferenze nazionaliste e pangermaniste, dalle quali si allontanò successivamente pur rimando nell'area conservatrice. Convintamente anticomunista, nel 1920 pubblicò, spinto dalle sue convinzioni intellettuali e dalla sua militanza contro l'esperienza della Repubblica Sovietica Bavarese (1919), un volume dedicato al comunismo, del quale fu tra i primi a cogliere i tratti pseudo-religiosi, millenaristici; una chiave di lettura che avrebbe poi esteso al nazional-socialismo. In quello stesso saggio dedicò un capitolo all'antisemitismo, da lui risolutamente avversato (una posizione non scontata tra i conservatori tedeschi dell'epoca), contestando l'idea di una origine giudaica del bolscevismo. Calvinista, all'inizio degli anni Trenta si convertì al cattolicesimo dopo aver conosciuto, nel 1927, la mistica Teresa Neumann. Se l'incontro con questo controverso personaggio fornì una nuova spinta e un nuovo coraggio a Gerlich e al gruppo di persone che con lui si erano riunite attorno alla mistica con le stigmate, la consapevolezza del pericolo rappresentato da Hitler fu ben precedente, innescata dal Putsch del '23, del quale Gerlich era stato diretto testimone e che costituì per lui un'illuminazione. Scriveva infatti nel febbraio 1924: «La Storia ci ha proiettati al limite del caos e noi abbiamo ora la scelta. Possiamo sia saltare nell'abisso sia con coraggio e fede, saltare dall'altra parte. L'abisso è il partito nazionalsocialista di Hitler, il partito dell'intolleranza e dell'odio, delle dissimulazioni e delle false speranze, una miniera di assurdità e di pure menzogne. È [Hitler] un agitatore, che crede di poter soffocare la nostra ragione. Ciò che di peggio possiamo fare, il peggio di tutto, sarebbe di non fare nulla contro Herr Hitler».
  Le sue campagne furono condotte prima sul principale giornale della Baviera, il conservatore Münchner Neueste Nachrichten, del quale fu direttore responsabile, e poi del quale fu editore e direttore. Di Hitler mise continuamente in evidenza il profilo patologico e oscuro, e del suo movimento la natura violenta e delinquenziale. La consapevolezza di ciò, insieme alla sua convinzione della qualità pseudo-religiosa del movimento hitleriano, gli consentì, come ha osservato lo storico Rudolf Morsey, di comprendere, dopo che, nei primi anni Trenta, il partito nazionalsocialista si era trasformato in una forza significativa nel Reichstag, il pericolo fatale insito in ogni tentativo di alleanza. Di comprendere come ogni tentativo di "domare" i nazisti coinvolgendoli in coalizioni - tentativo che trovava sostegno anche in ambienti cattolici - fosse destinato a portare la Germania al disastro. «Mostrarsi accomodanti verso demagoghi, eccitatori dell'isteria delle masse», scriveva nel febbraio del 1932, «conduce soltanto all'opposto di ciò a cui porta l'accordo con persone normali e per bene ( ... ). La politica nazionalsocialista conosce una sola cosa, le tattiche per ottenere il potere». I fatti di lì a poco gli avrebbero dato ragione. Così come gli eventi di non molti anni dopo, previsti già nel 1931: «Il nazionalsocialismo significa inimicizia con i nostri vicini, tirannia, guerra civile, guerra mondiale».
  Come i giornalisti del Münchener Post, Gerlich cercò di minare alla base le mistificazioni storiche della propaganda nazista, a partire dall'attribuzione della colpa del trattato di Versailles ai partiti politici, piuttosto che al governo imperiale. Ma il suo tentativo di svelamento dell'impostura nazista fu anche più sottile e provocatorio, andando al cuore delle sue teorie razziali. Come nell'articolo pubblicato da Der gerade Weg il 17 luglio 1932, dove sotto il titolo «Hitler ha sangue mongolo?», si sviluppava un lungo testo satirico che partendo dal «naso di Hitler» - illustrato in numerose immagini - e utilizzando le stesse teorie razziali, ne metteva in evidenza le assurdità e le contraddizioni. Dal carattere tutt'altro che "ariano" della fisionomia del leader nazionalsocialista. Gerlich giungeva a scoprire la sua vicinanza con i tratti mongoli, forse volendo anche evocare una alterità che richiamasse una delle ossessioni di Hitler, ovvero la sua possibile ascendenza ebraica, per attribuirgli poi - sempre seguendo le teorie nazionalsocialiste che legavano alle appartenenze "razziali" anche l'indole spirituale - l'indole asiatica, del dispotismo orientale, che questo capo dal sangue "bastardo" frutto di millenarie migrazioni voleva ora importare nella civile Germania. Quell'articolo, che toccava così profondamente il tormento di Hitler per la propria immagine e il suo controllo, costituì probabilmente la condanna a morte di Gerlich, arrestato nel marzo del 1933 e assassinato dopo sedici mesi di prigionia.
  Ci si potrebbe domandare a cosa servirono questo e altri comportamenti eroici, la testarda volontà di mostrare al pubblico tedesco ciò che l'acuta analisi del presente rendeva evidente alla propria mente, visto ciò che accadde in seguito. Per quegli uomini di allora la domanda forse non avrebbe senso, poiché, che sia la legge morale kantiana o la natura trascendente dell'obbligo di compiere il bene, in alcune donne e uomini la scelta è moralmente obbligata. Ma anche volendo riflettere più prosaicamente, l'esito della crisi tedesca di allora fu inevitabile? Qui si potrebbe aprire una discussione senza fine, tra chi vede il farsi della storia come il procedere di forze sulle quali l'uomo non ha controllo e chi crede che le scelte compiute, accumulandosi o rappresentando delle svolte cruciali, possano produrre nuovi percorsi. Il politologo Juan Linz, nella sua analisi sul crollo dei regimi democratici tra le due guerre (curata insieme ad Alfred Stepan, "The Breakdown of Democratic Regimes", 1979), aveva sostenuto che accanto a variabili sociali, economiche e culturali in grado di affrettare il crollo finale, aveva svolto un ruolo cruciale il processo storico-politico, con le scelte e i comportamenti dei leader e di altri protagonisti, ad esempio relativamente alla tolleranza o meno della violenza politica o alle strategie verso le opposizioni antidemocratiche. Se così è, allora non è indifferente la voce di quanti agiscono sulla scena pubblica, intellettuali (giornalisti, studiosi, politici) compresi. Scriveva lo stesso Gerlich insieme a Padre Ingebert Naab nel 1931: «( ... ) dovesse questa orribile catastrofe [la presa del potere nazional-socialisti] abbattersi su di noi, allora dovremo ammettere che gli intellettuali portano un'ampia parte di colpa. Essa potrà realizzarsi solo se ci comportiamo in modo miope e superficiale, o dimostriamo assenza di carattere e uno spirito cristiano solo di facciata». Queste parole recano un monito senza tempo, che diventa vero e potente ogni qual volta il funzionamento dei sistemi democratici entra in affanno e si presentano sulla scena attori individuali e collettivi, pretese, soluzioni che platealmente o sottilmente, sotto più o meno mentite spoglie, sfidano valori, regole e comportamenti, non solo formali, ma anche di sostanza, necessari alla democrazia e al suo corretto funzionamento. Allora la parola pubblica, con il suo carico di dubbi ma l'integrità e l'intelligenza della sua analisi, diventa essenziale. E figure come quella di Fritz Gerlich, figura estrema in una situazione estrema, possono divenire un modello anche nelle nostre democrazie oggi in difficoltà, dove i rischi che si corrono svelando la nudità dei re sono infinitamente minori e nella maggior parte dei casi comportano al più la compromissione di brillanti carriere. Un modello anche per misurare lo stato del nostro ceto intellettuale, che interseca oggi un mondo dove l'attività intellettuale da vocazione è sempre più diventata un mestiere e la parola pubblica e l'opinione si sono via via trasformate in prodotti in un mercato di performance. Fritz Gerlich e gli uomini e le donne come lui continuano a parlarci perché se invece che ipocritamente emozionarci alle loro vicende li ascoltiamo con attenzione, sono lì per dirci chi siamo e cosa forse dovremmo piuttosto sforzarci di essere.

(L'Espresso, 28 giugno 2020)


La voglia di libertà degli ebrei e le inconfessate cause dell'antisemitismo

di Ugo Volli

Che l'antisemitismo sia diffuso oggi come cento o cento cinquant'anni fa è un dato di fatto purtroppo accertato. Tutti ce ne lamentiamo, ma facciamo poco per comprendere le ragioni di questa nuova epidemia. L'aspetto più significativo è che oggi di nuovo l'antisemitismo non è solo un vizio dell'estrema destra e dei cristiani più reazionari, ma è diffuso largamente anche nel mondo islamico e nella sinistra che la appoggia. E' ritornato insomma quell'odio "progressista" contro gli ebrei che nel 1893 August Babel chiamò "il socialismo degli imbecilli". Ma l'idiozia non è una spiegazione sufficiente per l'antisemitismo e neppure l'odio lo è. Ci sono motivi storici, sociali e psicologici per esso, e pretesti che li coprono. Questi ultimi sono stati a lungo tratti dalle religioni (il "deicidio", la "profanazione delle ostie", l'infanticidio "rituale", in ambito islamico il "tradimento" di Maometto e dei profeti, il "cosmopolitismo"), poi dall'economia (l'equivalenza di ebraismo e capitalismo teorizzata da Marx ma poi anche da Hitler), e dalla "razza". Da decenni il pretesto è la "difesa dei palestinesi", che non è vero interesse per gli arabi della regione, ma solo odio appena travestito per lo stato degli ebrei. Ma la ragione vera e assai costante è stata sempre un'altra: l'attaccamento degli ebrei alla loro identità, il rifiuto di inchinarsi alle altre culture, l'essere rimasti "ostinatamente" se stessi. Questo naturalmente per la parte del popolo ebraico che non è sparita, inghiottita fra i cristiani, i musulmani, i marxisti, le varie nazionalità, il progressismo di moda.
Oggi negli Usa ma non solo, gli ebrei vengono condannati in quanto "bianchi", "occidentali", "suprematisti", oltre che naturalmente come sionisti. Il che significa semplicemente che non sono disposti a inginocchiarsi alla religione terzomondista del "Black lives matter" (come se le altre vite non contassero), dell'antiamericanismo e dell'anticapitalismo; né vogliono passare alla sottomissione (questo significa Islam).
Noi ebrei vogliamo essere liberi, soggetti solo alla Legge (che è libertà, come spiega il Talmud) e al suo Creatore. Vogliamo continuare a essere noi stessi nella nostra patria. Dato che questa è la nostra vera colpa, meglio confessarla e non cercare compromessi con l'ultimo antisemitismo alla moda. Passerà anch'esso, se non ci tradiamo da soli.

(Shalom, 28 giugno 2020)


Sicumera un po’ ardita, quella dell’autore: presumere di aver trovato la causa profonda e costante dell’antisemitismo, al di là delle varie forme storiche in cui si presenta. Che sarebbe: “l'attaccamento degli ebrei alla loro identità, il rifiuto di inchinarsi alle altre culture, l'essere rimasti "ostinatamente" se stessi”. Si possono immaginare le domande, provenienti anche dagli stessi ebrei, Quale identità? Se si prova a definirla, la descrizione che se ne fa implode in mille forme. “Ostinatamente se stessi”? Quali “se stessi”? Chi sa dire qual è il “vero” ebreo fedele a se stesso? C’è poi “il rifiuto di inchinarsi alle altre culture”, e questo è un dato di fatto storico, ma quale ne è il motivo? L’autore indica “la Legge”, ma probabilmente sa bene che per una parte non piccola di ebrei l’interpretazione “autentica” di questa Legge lo porrebbe fuori dal numero dei “veri ebrei”. Allora fa riferimento al Talmud, secondo cui la Legge è “libertà”. E qui arriviamo al punto: la libertà, il concetto più sottolineato oggi nella cultura occidentale. Dov’è allora la peculiarità? Resta la “nostra patria”, questa sì, questa è una vera peculiarità, perché Israele è un unicum di cui non si trova simile da nessun’altra parte del mondo. Ma resta l’interrogativo? Chi è Israele? Perché si odia Israele più di quanto si detestino gli ebrei? Forse perché parlano di patria? Ma non sono i fascisti a insistere sul concetto di patria? L’enigma rimane, secondo quest’ottica. Ma non secondo l’ottica biblica, è bene dirlo. M.C.



Negli ultimi giorni verranno tempi difficili

Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
   --> Predicazione
Marcello Cicchese
luglio 2015



 

Tel Aviv si prepara ad una grande estate

Dopo l'emergenza sanitaria anche a Tel Aviv riaprono aeroporti, locali e spiagge.

di Gabriele Laganà

 
Tel Aviv
Tel Aviv è ormai pronta a ripartire: la vivace città israeliana, riconosciuta a livello internazionale come una delle mete più trendy, vuole richiamare i turisti da ogni angolo del mondo per mettere da parte l'incubo del coronavirus.
  Per questo la metropoli punterà tutto sui tesori che la caratterizzano; tra questi spiccano le deliziose spiagge che si affacciano sul Mediterraneo, la straordinaria cucina che stuzzica il palato e arricchisce lo spirito e l'eccezionale patrimonio architettonico. Proprio in questi giorni è in atto la graduale riapertura dell'aeroporto internazionale Ben Gurion. Inoltre, la Municipalità ha dato il via ad una nuova politica per una ripartenza delle attività in tutta sicurezza per far sì che la città ritorni il prima possibile alla sua normalità.

 Le riaperture
  Fino ad ora Israele ha sancito la riapertura dei parchi e delle riserve naturali, per dare un primo slancio a un'industria turistica colpita in modo significativo dall'emergenza sanitaria. Ora tocca a Tel Aviv, che ha deciso di riaprire ristoranti e bar. Una mossa non casuale, visto che la località vanta una incredibile scena culinaria. A molti locali è stata concessa l'occupazione gratuita del suolo pubblico, mentre oltre 1.000 sedie e ombrelloni sono stati installati nelle aree centrali della città per incentivare il consumo da asporto, così da evitare grandi assembramenti. La riapertura coinvolge anche i mercati della città.

 In spiaggia in sicurezza
  L'estate sarà, per quanto possibile, normale. La Municipalità, di concerto con il Ministero della Salute, ha deciso che quest'anno ci sarà una regolare stagione balneare tanto che già quasi tutte i lidi sono state riaperti. Tel Aviv gode di 13,5 km di spiagge ed accoglie una media di 9 milioni di bagnanti ogni stagione. I cittadini potranno stendersi al sole e fare una nuotata in tutta sicurezza grazie a un regolamento anti-coronavirus, che prevede il mantenimento del distanziamento sociale ed una continua sanificazione delle strutture.
«Il ritorno alla vitalità e all'aggregazione, in sicurezza, è già in atto da tempo per Tel Aviv, la città che non dorme mai: è pronta per rivivere la sua essenza di non-stop city nel rispetto del normative previste», - ha dichiarato Avital Kozter Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo. - «Spiagge riorganizzate, locali ed esercizi la cui logistica è stata riadattata, norme igieniche e di distanziamento applicate a musei, tour ed attrazioni; con grande perizia ed accuratezza la città si è adoperata per tornare alla normalità ed accogliere turisti e visitatori dal resto del Paese e soprattutto dall'estero, all'insegna dell'ospitalità israeliana, ma anche della quintessenza della modernità e della filosofia on the move della città.»
 Nuovi hotel
  Non solo ri-aperture post emergenza corona virus: quest'anno sono previste le inaugurazioni di nuovi hotel. Fra questi, il Soho House, prima apertura in Medio Oriente per la prestigiosa catena alberghiera; il Nobu, una struttura di design su Rothschild Boulevard con 38 camere e terrazzo privato; l'Hotel Bobo, l'ultima creazione del brand israeliano Brown Hotels; il Selina, che porterà in città la sua formula ibrida tra hotel e ostello.

 Visita virtuale
  Continua, nel frattempo, l'opportunità per chi vuole visitare Tel Aviv anche solo virtualmente. Sul sito ufficiale della municipalità, infatti, sono ancora disponibili i tour virtuali del Tel Aviv Museum of Art e del Museo di Beit Hatfutsot; è possibile usufruire anche di alcune lezioni gratuite della Tel Aviv University.

(Latitudes, 27 giugno 2020)


Hamas tra minacce a parole e prudenza. L'obiettivo è la tregua con Israele

Da Gaza il movimento islamico fa la voce grossa ma mantiene un basso profilo sul piano per la Cisgiordania che si prepara ad attuare Netanyahu.

«L'annessione che Israele progetta in Cisgiordania è una dichiarazione di guerra». Ha fatto la voce grossa l'altro giorno Abu Obeida, responsabile per i rapporti con i media delle Brigate Ezzedin al Qassam, l'ala militare di Hamas. Parole alle quali ha subito reagito il ministro della difesa israeliano Benny Gantz. «Israele non accetta minacce. Ricordo ai leader di Hamas che saranno loro i primi a pagare per qualsiasi aggressione», ha avvertito Gantz. Ma dietro le parole infuocate di Abu Obeida c'è davvero Hamas pronto anche ad usare le armi pur di fermare l'annessione a Israele di porzioni di Cisgiordania? I dubbi sono forti.
   In queste ultime settimane non è sfuggito il basso profilo mantenuto sull'annessione dal movimento islamico che controlla Gaza dal 2007 e che da allora è impegnato in uno scontro senza esclusione di colpi con il partito Fatah, spina dorsale dell'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. Di tanto in tanto leader e portavoce di Hamas hanno condannato con forza il piano israeliano. E hanno applaudito alla decisione presa da Abu Mazen di interrompere i rapporti con Israele e Stati uniti. Non sono andati molto oltre, lasciando intendere che, pur sostenendo la lotta dei «fratelli palestinesi» in Cisgiordania, l'organizzazione manterrà una posizione più defilata ma pronta ad intervenire.
   «Ciò non deve sorprenderci» ci dice l'analista Ghassan al Khatib, docente di scienze politiche all'università di Bir Zeit. «Ci sono diverse ragioni che spiegano questa posizione cauta», aggiunge Khatib, «Hamas è una organizzazione islamista e solo vagamente anche nazionalista. Perciò guarda al territorio nel suo insieme, teorizza la liberazione di tutta la Palestina e nell'arco della sua esistenza (dal 1987 a oggi, ndr) ha avuto posizioni fluttuanti sull'idea di uno Stato palestinese solo nei Territori occupati da Israele nel 1967, anche solo a scopo tattico».
   La soluzione a Due Stati (Israele e Palestina), prosegue l'analista, «appartiene all'Anp, all'Olp, ad Abu Mazen, a Fatah e ad altre forze politiche, non ad Hamas che l'ha respinta assieme agli accordi di Oslo del 1993». Secondo Khatib il movimento islamico in questa fase è interessato più di ogni altra cosa «a rafforzare il suo controllo di Gaza e a stabilizzare le condizioni di vita dei (due milioni di) palestinesi che vi vivono».
   Secondo un'opinione diffusa proprio i problemi umanitari a Gaza sono tra i motivi che inducono Hamas a una linea prudente. «La nostra gente condanna Israele e sostiene la lotta contro i suoi piani in Cisgiordania. Però è anche esausta dopo tre offensive militari israeliane negli ultimi 12 anni. Non c'è lavoro, la povertà estrema è in aumento e il coronavirus ha complicato tutto. Migliaia di famiglie sopravvivono grazie agli aiuti che arrivano dal Qatar. Hamas sa che Gaza non è in grado di sopportare le conseguenze di un'altra guerra», ci dice Aziz Kahlout, un giornalista di Gaza che, per le ragioni citate, tende ad escludere che i leader islamisti «possano ordinare alle cellule in Cisgiordania di attivarsi in un confronto armato prolungato con Israele e dare il via a lanci di razzi (da Gaza)».
   E ricorda che Hamas resta sempre impegnato in un negoziato indiretto, attraverso l'Egitto, con Israele per il raggiungimento di una tregua a lungo termine e per uno scambio di prigionieri che, se dovesse concretizzarsi, rafforzerebbe la sua immagine e il suo programma tra i palestinesi.

(il manifesto, 27 giugno 2020)


La strage di Ustica quarant'anni dopo. Rispunta la pista dell'attentato palestinese

Rivelati i telegrammi inviati al Sismi dal colonnello Stefano Giovannone che allora era a capo del servizi segreti Italiani a Beirut .


di Francesco Grignetti

Il disastro
Il volo ltavia IH-870 sparisce dai radar un minuto prima delle 21 del 27 giugno 1980 mentre volava tra Ponza e Ustica diretto a Palermo
La scatola nera
I dati estratti dalla scatola nera recuperata dimostrarono la perfetta efficienza di ogni sistema dell'aereo prima del! disastro
La rivendicazione
Il giorno dopo la tragedia, con una telefonata anonima, attribuita ai terroristi di destra dei Nar, viene rivendicato l'abbattimento dell'aereo
Le prime indagini
Il giudice Rosario Priore inizia l'indagine, ma nel 1999 si conclude con un non luogo a procedere perché restavano «ignoti gli autori della strage
Il processo per depistaggio Iniziato nel 2000 si conclude 4 anni dopo. Due generali vengono assolti e altri due ritenuti colpevoli furono assolti per «intervenuta prescrizione» L'ipotesi francese
L'ex presidente Cossiga nel 2007 dichiara che ad abbattere l'aereo era stato un missile francese. Nel 2008 viene aperta un'altra inchiesta

 
ROMA - Ventisette giugno 1980, quarant'anni fa. Alle ore 20:59 precipita in mare il Dc9 della compagnia ltavia, in volo di linea da Bologna a Palermo, con 77 passeggeri e 4 membri dell'equipaggio. Non si salva nessuno. È la Strage di Ustica di cui, ancora oggi, non conosciamo i colpevoli. Ventisette giugno 1980, sempre quarant'anni fa. Alle ore 10 del mattino, la sede centrale del Sismi riceve un allarme rosso dal Libano: «Habet informazioni tarda sera. L 'Fplp avrebbe deciso di riprendere totale libertà di azione senza dare corso ulteriori contatti a seguito mancato accoglimento sollecito».
   Comincia cosi un telegramma cifrato che per decenni è stato coperto da segreto di Stato, inaccessibile a chiunque, magistrati compresi, e che solo dal 2014 è stato parzialmente declassificato. Attualmente vi è apposto il timbro di «segretissimo». Non è dato sapere se i magistrati di Roma, che tuttora indagano sulla Strage di Ustica, lo abbiano avuto in visione. Di sicuro nel 2016 lo hanno letto i membri della Commissione Moro II, ma senza possibilità di fotocopiarlo, e con divieto assoluto di divulgazione.
   Da allora, su questo documento che La Stampa è finalmente in grado di raccontare, destra e sinistra, cristallizzati in «partito della bomba» e «partito del missile», hanno preso a litigare ferocemente. Sempre per allusioni, ovvio, dato che non gli è possibile tirarlo fuori. Ma è zuffa continua. Perché l'allarme del Sismi, arrivato a Roma poche ore prima del disastro aereo, è oggettivamente inquietante. E rilancerebbe la tesi dell'attentato ad opera di una frangia filolibica del terrorismo palestinese.
   Il telegramma, firmato dal colonnello Stefano Giovannone, l'ottimo capocentro del Sismi che da Beirut copriva l'intero Medi Oriente e si era meritato nel Sismi il nomignolo di Maestro, era l'ultimo di una serie sempre più angosciata. In quei mesi, per via di una storia di missili palestinesi sequestrati in Abruzzo, a Ortona, l'intelligence italiana aveva dovuto sostenere l'urto delle minacce da parte dell'Fplp, l'organizzazione palestinese di fede marxista.
   Il governo italiano aveva promesso che avrebbe trovato un accomodamento. Che il processo in corso sarebbe stato «aggiustato» e che quanto prima sarebbe stato rimesso in libertà il referente in Italia dell'Fplp, tale Abu Anzeh Saleh. Le cose però non erano andate cosi. E nonostante le loro pretese di uno spostamento del processo e le promesse del nostro governo, all'Aquila l'appello era ripreso il 17 giugno.
   A questo punto quelli dell'Fplp erano furibondi. C'era un'ala estremista che volevano passare all'azione ed era sempre più faticosamente contenuta dal leader George Habbash. Nel 1973 aveva sottoscritto anche lui, dopo Arafat, il Lodo Moro che avrebbe dovuto tenerci al riparo da attentati. Ma nel giugno 1980 faceva sapere di non essere in grado di tenere i suoi. «Se il processo dovesse avere luogo e concludersi in senso sfavorevole- scriveva Giovannone - mi attendo reazioni particolarmente gravi in quanto Fplp ritiene essere stato ingannato e non garantisco sicurezza personale ambasciata Beirut».
   Impressionante è la sequenza. Nove giorni prima del 27 giugno, Giovannone aveva inviato un altro allarmatissimo telegramma cifrato: «Non si può più fare affidamento sulla sospensione delle operazioni terroristiche in Italia e contro interessi e cittadini italiani decisa dall'Fplp nel 1973, e si può ipotizzare una situazione di pericolo a breve scadenza».
   Aveva saputo anche di più: «Fonte fiduciaria indica due operazioni da condurre in alternativa contro obiettivi italiani: 1) dirottamento di un Dc9 Alitalia, 2) occupazione di una Ambasciata».
   La soffiata, insomma, riguardava un Dc9 di linea. Ma lo 007 era troppo avvertito per credervi appieno. «Non si può escludere che la notizia sia stata diffusa allo scopo di coprire i reali obiettivi e luoghi delle suddette operazioni». Allo stesso tempo avvisava che l'Olp non poteva più garantire per l'Fplp «attualmente controllato da esponenti filo libici». E infine c'era il timore che facessero «ugualmente le azioni minacciate utilizzando elementi estranei».
   Fin qui le carte del 1980. Capire che cosa significhino spetta alla magistratura. Per il «partito della bomba» e il "partito del missile», però, è più naturale accusarsi a vicenda di depistaggio.

(La Stampa, 27 giugno 2020)


Terroristi a scuola dai terroristi

Erano i leader delle Br tedesche che 50 anni fa andarono ad addestrarsi dai palestinesi. Dal 1970 al '93 le loro vittime in Germania furono 33.

di Roberto Giardina

BERLINO - Esattamente 50 anni fa, nel giugno del 1970, Ulrike, Andreas, Gun e Horst partirono da Berlino per andare a scuola di terrorismo in un campo palestinese in Giordania. Un viaggio grottesco, e dalle conseguenze tragiche. Io non getto mai un libro, anche se non serve più a nulla e, a volte, non l'ho nemmeno letto.
   Devo avere ancora da qualche parte il manuale di guerriglia urbana dei tupamaros pubblicato da Feltrinelli intorno al '68. Lo sfogliai, saltai le istruzioni su come fabbricare una molotov, ma quando lessi il consiglio di gettarla contro una porta di legno e non contro un muro, se si desiderava che prendesse fuoco, lasciai perdere. Il manuale per la guerriglia in Nicaragua non era adatto ai giovani europei.
   Per questo, giudicai male i tupamaros West Berlin. Ragazzi senza cervello. Diagnosi esatta ma sbagliai a sottovalutarli. Erano una quindicina, tentarono un attentato alla sinagoga della Fasanenstrasse, ma la molotov fece cilecca. Sotto accusa, all'epoca, finirono i neonazi. Dai tupamaros, in parte, nacque la Rote Armée Fraktion, il gruppo terroristico che per anni tenne in scacco la Germania. Dal 1970 al 1993, le loro vittime furono 33.
   II 2 aprile del '68, Andreas Baader fece scoppiare una bomba incendiaria in un grande magazzino di Francoforte, di notte per non provocare vittime, per protesta contro le bombe al napalm usate dagli americani in Vietnam. Venne condannato a quattro anni. Per scrivere un saggio sulla protesta giovanile, il 14 maggio del '70, ebbe un permesso per compiere ricerche in una biblioteca di Berlino. I compagni lo fecero evadere, e nell'azione uccisero un guardiano.
   Dove nascondersi a Berlino Ovest, che era una gabbia ai tempi del Muro? Decisero di passare dall'altra parte. E i comunisti proteggevano i terroristi per creare problemi alla Germania capitalista. Il primo a passare l'8 giugno, con sei compagni, è Horst Mahler, l'avvocato della contestazione. La Stasi, la polizia segreta dell'Est, li scorta all'aeroporto di Schönefeld, e volano a Beirut. Nel Libano sono meno accoglienti. Irritato, Mahler va a protestare all'ambasciata della Ddr. Ma si sbaglia e va a quella della Germania Ovest. Così ora tutti sanno dove sono finiti i terroristi di Berlino. Sempre che non lo sapessero già.
   Il 22 giugno passano Andreas Baader, Ulrike Meinhof e Grudrun Esslin. Andreas frequentava la casa di Hans Magnus Enzesberger a Berlino, e quella di Günter Grass, che su di lui scrisse nel '69 il romanzo Anestesia locale. Il protagonista vuole bruciare vivo un bassotto innanzi alle signore sedute al caffè del Kempinski per dimostrare cos'è il napalm.
   Ulrike è la giornalista di punta dell'epoca, come se in clandestinità fosse finita Oriana Fallaci. Il padre di Gudrun è un pastore luterano, amico di Gustav Heinemann, eletto nel '69 presidente della Repubblica. Ulrike e Gudrun si tingono i capelli di nero per farsi passare da arabe. Travestimento comico. Dal Libano e dalla Siria il gruppo, in tutto una ventina, arriva infine in Giordania. E cominciano i problemi. Baader non accetta consigli, è lui a voler spiegare ai palestinesi come si combatte. Le donne danno scandalo. L'addestramento previsto per sei mesi, si conclude in agosto. Tornano a Berlino Est, e passano all'Ovest, sempre senza controlli.
   Andreas ha 27 anni, Gudrun 30, Horst 34, Ulrike la più anziana 36. All'inizio, la loro protesta è contro i padri, complici del nazismo, contro la Germania che si riarma ed è complice degli imperialisti americani. Eppure si alleano con i palestinesi, e sono antisemiti. A sopravvivere agli anni del terrorismo sarà solo Horst Mahler, perché finisce subito in galera, condannato a 14 anni, ne sconta dieci, e quando esce milita con l'Npd, il partito neonazista. Quando proposi al mio giornale di allora un articolo per raccontare chi fossero quei giovani terroristi di Berlino, mi risposero di no: era un fenomeno tipicamente tedesco che non sarebbe mai stato possibile in Italia.

(ItaliaOggi, 27 giugno 2020)


La diaspora degli ebrei è scritta in cartolina

Dai samaritani «vestiti come arabi» ai cappelli di pelliccia dei chassidim, un percorso di identità e integrazioni ricostruito attraverso i «souvenir postali».

di Marco Filoni

Esiste una categoria di oggetti rari, anzi rarissimi, che sono contemporanei di un'epoca. Appaiono in un particolare momento storico e lo caratterizzano - sviluppando una relazione di straordinaria prossimità con l'epoca in cui sono stati creati. Un'attualità, nel vero senso della parola. Fra questi oggetti rarissimi annoveriamo le cartoline. Le quali, tra la fine del Diciannovesimo e i primi decenni del Ventesimo secolo, hanno brillato d'attualità.
   E soltanto a un altrettanto «rarissimo» studioso come Gian Mario Cazzaniga poteva venire in mente di scrivere una storia dell'ebraismo a partire da una collezione di cartoline. Rarissimo, già, perché Cazzaniga scrive poco, ma quando lo fa è poi difficile aggiungere alcunché. E perché il tema di cui si occupa è di quelli che spaventano anche i più audaci: come recitano titolo e sottotitolo, il volume è dedicato alle Diaspore. Storia degli ebrei nel mondo attraverso una collezione di cartoline. E anche se l'arco temporale trattato è quello relegato al periodo di sviluppo e diffusione delle cartoline, ciò che sottende ogni diaspora, ogni storia, ogni insediamento geografico è la complessa storia millenaria dell'ebraismo. Insomma, Cazzaniga in queste pagine tanto colte quanto piacevoli alla lettura ha l'indubbio merito di districare una vorticosa ridda di tracce, genealogie, storie; e lo fa mescolando il rigore della filologia e della storiografia al diletto della curiosità.
   Iniziamo dalla collezione di cartoline dell'autore, tutte a tema ebraico (in particolare, vedremo, dedicate ai costumi e ai luoghi di culto). Le cartoline in generale sono state un importante strumento di comunicazione e di diffusione delle immagini: nate intorno al 1870, hanno poi goduto della massima popolarità fra il 1890 e il 1920. Ora, lo stesso vale per il mondo ebraico, anzi forse ancor di più: in mancanza di una loro terra stabile gli ebrei misero su casa nei loro libri - e la forma scritta, la via narrativa per la conservazione della memoria (l'Haggadàh) trova anche nelle cartoline una sua testimonianza. La storia dell'ebraismo e delle molteplici diaspore è una pluralità di identità culturali, nate da convivenze secolari con altre culture; così Cazzaniga ci mostra come le cartoline possano essere usate per illustrare e raccontare queste forme storiche e geo culturali di identità ebraica, ma anche di come queste venivano viste e lette dalle comunità ospitanti (essendo gli editori di queste cartoline sia ebrei sia gentili) - almeno sino al XX secolo, quando le convivenze furono tragicamente spazzate via, in particolare nel mondo sunnita e in alcuni paesi dell'Europa centro-orientale.
   Per dar conto della molteplicità di identità che emergono da questa collezione di cartoline, Cazzaniga deve necessariamente ripercorrere la trimillenaria storia dell'ebraismo, segnata periodicamente da episodi diasporici. Individua perciò tre poli: il primo è quello dell'impero persiano, dove già fra !'VIII e il VI secolo a.C. vi si ritrovano insediamenti ebraici, tanto che le accademie (yeshivòt) mesopotamiche costituiranno per più di mille anni il centro spirituale dell'ebraismo mondiale, da cui si dirameranno altre diaspore seguendo le vie della seta, fino all'India e alla Cina; un secondo polo è quello occidentale del califfato, con una presenza nei paesi mediterranei meridionali, Levante, Anatolia e Balcani, dove gli insediamenti ebraici (prima grecofoni, poi arabofoni, infine ispanofoni) datano almeno a partire dal III secolo a. C. (con più antiche presenze in Egitto, Nubia e successivamente anche in Etiopia); terzo e ultimo polo è quello europeo, prima pagano poi cristiano (con secoli di dominio islamico nei paesi iberici e balcanici), dove gli insediamenti ebraici risalgono sulle coste mediterranee già a partire dalla fine della repubblica romana (fra il II e il I secolo a.C.) e poi, dopo il XIV secolo, con un'espansione verso Oriente.
   La ricchezza e la diversità di queste lunghe vicende si ritrovano nelle cartoline che Cazzaniga mostra, privilegiando due aspetti: l'abbigliamento e gli ornamenti da un lato; le sinagoghe e i loro arredi dall'altro. Partiamo dall'abbigliamento, prendendo a esempio i samaritani: si tratta di una comunità
 
ebraica che non ha conosciuto esilio e per questo sono molto integrati negli usi e nei costumi degli arabi. Come gli arabi si vestono; i laici parlano un arabo palestinese; hanno una Toràh scritta in ebraico con alfabeto samaritano di derivazione fenicia, quindi ancora più antica di quella masoretica, e rifiutano la tradizione orale accettando soltanto la scrittura. Oggi gli appartenenti a questa comunità, che pratica una rigida endogamia, sono soltanto 800 in Israele, concentrati in prevalenza a Kiryat Luza, un villaggio sul monte Gerizim, e nella città di Holon nel distretto di Tel Aviv, nonché poche altre decine nel mondo.
   In pratica diversi in tutto e per tutto dagli ebrei chassidìm, ora tanto di moda grazie alle serie televisive Netflix Shtisel e Unorthodox. C'è la cartolina di una cerimonia nuziale in Polonia nei primi del Novecento, oppure quella che raffigura nonno e nipote che studiano la Toràh, immagine scattata a Gerusalemme nel 1921. Sono immagini dove i maschi portano tutti il cappello di pelliccia, un cilindro nero circondato da tredici strisce di zibellino o di martora (solo recentemente è stata introdotta la pelliccia sintetica), che in yiddish si chiama shtreimel, copricapo tipico degli ashkenaziti di Galizia, Polonia e Bielorussia.
   Vi sono poi comunità ebraiche in Cina, dove arrivarono nell'antichità dalla Persia seguendo le vie della seta - si stabilirono a Kaifeng, nello Henan, dove nel 1163 costruirono una sinagoga arrivando a contare, intorno al '500, alcune migliaia - oggi la comunità è composta soltanto da qualche centinaio di individui.
   Anche le sinagoghe testimoniano pluralità di identità: costruite nel mondo con gli stili più diversi, dall'orientaleggiante al neogotico, da quelli che mescolano neoclassico e art nouveau e orientalismo a quello bizantineggiante della grande sinagoga di Parigi. Non a caso Cazzaniga ricorda l'architetto Marco Treves (il quale prese parte ai progetti delle sinagoghe di Pisa, Firenze e Torino) quando nel 1872 scriveva: «Uno stile veramente "Giudaico" che io mi sappia non esiste. Anche il Tempio per eccellenza, quello di Salomone, aveva al suo dire degli Archeologi un carattere fra il Fenicio e l'Egiziano; ed è probabile che il secondo Tempio risentisse di questi due elementi con qualche principio dell'arte greca ... ».
   Gli arredi delle sinagoghe sono invece più legati a specifiche identità ebraiche e sono ricercati e preziosi. Questo perché gli ebrei avevano tradizionalmente svolto alcune attività, talora egemoni, come la lavorazione dei metalli preziosi, l'oreficeria e la vetreria, e poi la tessitura, la tintura, il commercio dei tessuti.
   Insomma, questo libro è una miniera di curiosità, informazioni, storie antiche e poco note anche in seno agli studi ebraici-del resto, ammonisce l'autore, le recenti storie sull'ebraismo risentono di un'ottica «giudeocristiana», ovvero la lettura dominante sulla sua identità è tutta interna a un mondo occidentale (cristiano, cattolico e riformato) dove ha minore rilevanza l'Europa orientale, dove però fino alla metà del Novecento ha vissuto la maggioranza mondiale degli ebrei e in cui è presente una tradizione di studi semitistici e biblici davvero autorevole, non sempre nota in Occidente. Del resto, questo si spiega col fatto che attualmente la popolazione mondiale di quattordici milioni e mezzo di ebrei è concentrata fra Stati Uniti e Israele, dove vivono in più di dodici milioni.
   Ma ha ragione Cazzaniga quando conclude che è venuto il momento di nuovi contributi per una storia mondiale delle comunità ebraiche che si sono formate nelle diaspore - e il suo libro va decisamente in questo senso. Anche perché è un paragrafo di quel capitolo di una storia che «dall'abbigliamento alla cucina, dalle sinagoghe agli arredi e oggetti rituali, dall'oreficeria alla musica sembra a noi ancora largamente da scrivere».

(La Stampa, 27 giugno 2020)


Quella "città ideale" chiamata Auschwitz

Frediano Sessi completa la sua ricerca sul campo nazista: la macchina genocida venne sviluppata quando le sorti della guerra erano già segnate. «La tesi negazionista per cui la cremazione all'aperto non si poteva fare perché il terreno era argilloso è smentita dai carotaggi che hanno riportato alla luce resti umani».

di Riccardo Michelucci

L'Italia era appena entrata in guerra a fianco di Hitler quando il primo carico di prigionieri arrivò ad Auschwitz, il 14 giugno 1940. Dai carri piombati scesero 732 esseri umani del tutto ignari della sorte mostruosa che il regime nazista aveva deciso per loro. La storia del più famigerato lager del Terzo Reich inizia ufficialmente in quei giorni ma non si conclude il 27 gennaio 1945 con l'arrivo dell'Armata rossa. Terminata la sua funzione di sterminio, l'ombra di Auschwitz ha attraversato i decenni arrivando fino ai giorni nostri, entrando a far parte della nostra contemporaneità come sinonimo del male assoluto. Ancora oggi, a ottant'anni esatti di distanza, quella "rottura di civiltà" di cui parlò Primo Levi ci costringe a confrontarci con la natura dell'uomo, con il senso della vita e della morte, senza fornirci risposte definitive.
  Secondo lo storico Frediano Sessi, tra i massimi studiosi italiani della Shoah, «le tensioni, le incomprensioni, le strumentalizzazioni e tutte quelle piccole e grandi fratture che si producono attorno ad Auschwitz denunciano il fatto che esso è ancora un luogo vivo, che interagisce con il presente destabilizzandolo e immettendo inquietudine, come fosse un mostro non ancora sconfitto, solo dormiente, perciò minaccioso». Da quasi quarant'anni Sessi approfondisce la storia della Shoah interrogandosi sul valore della memoria, cercando di raccontare un orrore che ha sfidato l'immaginazione umana, fino a diventare un confine morale. Ha portato in Italia l'edizione definitiva del Diario di Anna Frank, ha tradotto un'opera fondamentale per gli studi sull'Olocausto come La distruzione degli ebrei d'Europa di Raul Hilberg e ha scritto decine di libri, anche per ragazzi. Nessuno meglio di lui poteva ricostruire in modo organico l'universo fisico e simbolico di Auschwitz ripercorrendo tutte le ricerche sviluppate nel corso degli anni, dalle prime indagini effettuate dalla Resistenza subito dopo la liberazione alle ultime scoperte d'archivio, riportando nel dettaglio l'evoluzione delle scritture memoriali e le relative controversie.
  Il suo lavoro è confluito in un'opera monumentale (Auschwitz. Storia e memorie; Marsilio, pagine 604, euro 30, con la collaborazione di Enrico Mottinelli) che costituisce lo studio più completo sull'argomento, arricchito dalle cartografie sullo sviluppo dei campi e da uno sguardo di prospettiva sul futuro della mostra esposta all'interno del museo-memoriale. «Dopo il crollo dell'Unione Sovietica tutta la documentazione sparsa in giro per l'Europa, soprattutto nei Paesi dell'Est, è stata recuperata e raccolta all'interno del museo di Stato di Oswiecim», ci spiega.
  «Le fonti d'archivio e la bibliografia sono ormai talmente vaste che da circa vent'anni il lavoro di ricerca può essere effettuato soltanto da équipe di storici». Eppure, nonostante la mole gigantesca di studi compiuti sull'argomento, l'orrore di Auschwitz non è stato ancora raccontato fino in fondo e anche questo libro contiene alcune importanti rivelazioni. «Una in particolare - precisa Sessi - smentisce ancora una volta le tesi dei negazionisti secondo i quali la cremazione all'aperto non era possibile perché il terreno argilloso non l'avrebbe consentita».
  Le carte geologiche dell'epoca, i documenti prodotti dalle ditte che effettuarono i carotaggi nelle zone delle fosse di cremazione e un nuovo studio realizzato dal geologo Fulvio Baraldi affermano invece il contrario, in modo incontrovertibile. «Nei terreni vicini ai crematori IV e V sono stati ritrovati resti umani inceneriti, frammenti di ossa a dimostrazione dell'avvenuta cremazione all'aperto di esseri umani». Scavando negli archivi, collegando le ricerche, recuperando e analizzando le memorie emergono nuovi particolari agghiaccianti sull'evoluzione del sistema concentrazionario del Terzo Reich e sul ruolo che esso doveva avere all'interno del disegno di potere nazista. Un'altra delle conclusioni inedite cui giunge il libro riguarda l'uso dello zyklon B, il veleno letale utilizzato nelle camere a gas.
  «Fu introdotto ad Auschwitz quasi per caso, nel giugno del 1940. Doveva servire per ripulire dai parassiti i locali del primo insediamento, l'ex monopolio dei tabacchi, dove oggi c'è l'università di Oswiecim», prosegue lo storico. «Cominciarono a usarlo sugli esseri umani tra la fine del 1941 e l'inizio del 1942, per eliminare gli ebrei dell'Alta Slesia, prima che ad Auschwitz arrivassero gli ebrei francesi e quelli dell'Europa dell'Ovest. Ciò dimostra che all'epoca non era stata ancora decisa la Soluzione finale. Soltanto in seguito Auschwitz divenne il centro di sterminio principale degli ebrei d'Europa. Siamo dunque di fronte a un processo graduale; all'orrore supremo si arrivò per tappe».
  Il volume di Sessi è suddiviso in tre grandi sezioni: la prima ripercorre i tratti ideologici, legislativi e amministrativi che inquadrano Auschwitz all'interno del più ampio contesto del "nuovo ordine europeo" ideato dal Terzo Reich. La seconda entra nello specifico della vita del campo, con la ricostruzione minuziosa della quotidianità nel Lager, gli alloggi e i luoghi di lavoro, i metodi di sterminio' le forme di oppressione e quelle di resistenza, i processi e le sentenze seguiti alla liberazione. La terza parte approfondisce infine i percorsi della memoria ponendo l'accento sulle diverse declinazioni nazionali e sulle modifiche del complesso museale, sulle testimonianze delle vittime e dei carnefici, nonché sulla ricezione da parte della comunità internazionale. Un ruolo importante è inoltre riservato alle cartografie, dalle quali si apprende che i nazisti continuarono ad ampliare Auschwitz fino al novembre del 1944, quando ormai le sorti della guerra erano segnate.
  «È illuminante osservare come siano stati sviluppati per esempio Auschwitz, Birkenau e i sotto campi attorno che sono circa una quarantina, oltre la metà dei quali venne aperta proprio nel 1944», spiega Sessi. «La città di Oswiecim era all'interno del territorio polacco annesso al Reich ma costituiva la porta d'ingresso verso est dell'utopia tedesca. Rappresentava quindi l'avanguardia del progetto di "città ideale" che prevedeva lo sviluppo della nuova Germania e della nuova Europa. Nell'idea dei gerarchi nazisti tale progetto doveva essere portato avanti anche dopo la caduta di Hitler e la fine della guerra. Le cartografie spiegano molto bene questi passaggi mentre la crescita graduale di Birkenau chiarisce quale fosse l'obiettivo di sviluppo di questa città ideale». Ma nonostante il grande impegno degli studiosi e l'apporto prezioso delle centinaia di testimonianze raccolte dal museo di Auschwitz, molti aspetti della vita e della morte nel campo rimarranno per sempre senza risposta. «Mancano ad esempio la maggior parte delle schede del personale SS in servizio e le liste nominative dei convogli degli ebrei deportati, a esclusione di quelle ottenute dagli archivi di alcuni paesi europei che hanno realizzato ricerche specifiche sin dai primi anni del Dopoguerra», ammette Sessi.
  «Manca la maggior parte della corrispondenza degli organi di comando del campo con le diverse istituzioni del governo del Reich e le tante industrie ed enti privati che hanno collaborato. Non sono stati mai ritrovati neanche gli atti relativi ai decessi dei prigionieri negli ospedali e nelle infermerie». Ma i vuoti più significativi, quelli che nessuna documentazione potrà mai colmare, restano soprattutto sul piano morale. «Per studiare e trasmettere un orrore come quello di Auschwitz non basta la storia - conclude Sessi -. L'indispensabile lavoro di storicizzazione compiuto fino ad oggi spiega soltanto il "come" ma lascia senza risposta il "perché"».

(Avvenire, 27 giugno 2020)


“Trump farà un grande annuncio sulle annessioni”

Donald Trump farà presto "un grande annuncio" sul progetto israeliano di annessioni in Cisgiordania. Lo ha detto ai giornalisti Kellyanne Conway, una dei consiglieri del presidente americano, mentre si avvicina la data del primo luglio a partire della quale il premier Benyamin Netanyahu potrà presentare il piano di annessioni in parlamento, sulla base della mappa allegata alla 'Visione di pace' di Trump. "Ci sono stati dei colloqui. Ovviamente il presidente farà un annuncio. Ne ha parlato in passato e sarà lui a fare un grande annuncio. Molto felice che i colloqui continuino", ha detto la Conway alla Casa Bianca, in dichiarazioni rilanciate dai media israeliani. Trump "vuole essere un agente di pace in Medio Oriente", ha aggiunto. Alla domanda se il presidente americano tema una reazione del mondo arabo di fronte ad eventuali annessioni, la Conway ha detto che già quando l'ambasciata americana è stata spostata a Gerusalemme si parlava di una reazione, ma poi non è arrivata. "C'è sempre questa tattica della paura... deve accadere tutto il peggio, e poi non avviene", ha affermato.

(Adnkronos, 26 giugno 2020)


"Israele non annetterà la valle del Giordano"

Stando ai media Israele frena sull'annessione della Valle del Giordano.

 
Israele ha informato per vie traverse la leadership palestinese che in questa fase non intende procedere alla estensione della propria sovranità alla valle del Giordano.
Lo ha appreso da fonte palestinese la televisione israeliana Canale 12, ma la notizia per ora non ha altra conferma.
Secondo l'emittente il capo del Mossad Yossi Cohen, che nei giorni scorsi è stato ricevuto da re Abdallah, era latore di questo messaggio che è stato poi inoltrato dalla Giordania a Ramallah. Israele, secondo Canale 12, potrebbe invece annettere due zone fittamente popolate da israeliani vicine a Gerusalemme: il Gush Etzion (attorno a Betlemme) e Maaleh Adumim (ad ovest di Gerico).
Intanto, con un vistoso annuncio a pagamento su Haaretz, tre generali della riserva che hanno operato in Cisgiordania mettono oggi in guardia il governo Netanyahu-Gantz da qualsiasi annessione unilaterale. Si rischierebbe, a loro parere, di destabilizzare l'Autorità palestinese a vantaggio di estremisti islamici e di provocare violenze sul terreno. "Non diteci che non comprendiamo le questioni di sicurezza", affermano i generali Nitzan Allon, Avi Mizrahi e Gady Shamni.

(swissinfo.ch, 26 giugno 2020)


Il piano Trump prevede due Stati. Ma dai palestinesi a Ue e Onu è un coro di «no»

Attesa per il varo del programma. L'annuncio degli Usa rischia di slittare. E il fallimento è già dietro l'angolo.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Sembra che la data del varo del piano di pace americano possa slittare. A Washington si aspetta con ansia il verbo di Trump. Difficile decisione in questi tempi di crisi: a Gerusalemme i pareri sono diversi sui tempi e le dimensioni come negli Usa. Si spera ancora nel dialogo, ma i palestinesi si negano perché col rifiuto del piano sono di nuovo sulla cresta dell'onda: qualsiasi cosa Trump preveda nell'«accordo del Secolo», nessuno l'ha letto, basta condannarlo. La falange che si è mossa contro il piano immaginando che sia la pura descrizione di un furto di «territori palestinesi illegalmente occupati» è infiammata dal sacro fuoco della sua ignoranza. Non sa che quei territori non sono mai stati né ritenuti da nessun trattato internazionale palestinesi ma che, originariamente assegnati a Israele, erano stati occupati dalla Giordania nel '48 e poi conquistati nella guerra che la Giordania ha fatto a Israele nel '67.
   Non sa che le risoluzioni Onu non parlano di «occupazione illegale» ma di «territori disputati» e che quella è un'invenzione palestinese. Non sa soprattutto che il piano di Trump è la copia carbone del disegno di Rabin per i Territori (compresa Gerusalemme che Rabin giurò sarebbe sempre stata unita) e la Valle del Giordano. Sette ambasciatori europei all'Onu hanno condannato il piano, il segretario Antonio Guterres con il segretario della Lega Araba Ahmed Abu Gheit con loro, il commissario Ue Borrell minaccia sanzioni, il programma scientifico europeo Horizon cui Israele dà un contributo insuperabile minaccia di cacciarlo, il Belgio annuncia che riconoscerà lo Stato Palestinese, l'Iran non vi dico, i palestinesi hanno indetto una manifestazione in cui turchi e russi primeggiavano col delegato Onu per il Medioriente Madlenoff. L'accusa è sempre la stessa, avalla la promessa di violenza dei palestinesi come Hamas che ha già promesso la solita strage. La critica è la stessa: il piano blocca il dialogo e il processo di pace che porti a «due stati per due popoli». Ma da tempo i palestinesi hanno optato solo per la macchina di incitamento, e non parlano con Israele.
   Il piano invece prevede proprio due stati per due popoli e nessuna acquisizione di territorio che non sia stata già sancita dagli accordi di Oslo. I territori sono stati allora suddivisi in tre zone: A sotto l'autorità palestinese, e vi si trovano tutte le città; B, sotto il controllo di ambedue; C sotto il controllo israeliano. Questa suddivisione è firmata da Arafat. Nella zona C ci sono gli insediamenti israeliani, 450mila persone, che mai i palestinesi hanno desiderato incamerare. L'idea di uno sradicamento di tale massa è da escludere, dato il precedente di Gaza, su cui è fiorita Hamas. Israele passerebbe all'amministrazione civile (e non militare come oggi) il 50% solo di quella zona C. Infatti parte dei settler protesta che resterà isolato e in pericolo. Il pericolo e quindi il tema della sicurezza accompagna tutto il piano, oltre a quello della mai riconosciuta legittimità della storia ebraica in Israele.
   Insieme alla Valle del Giordano che è una specie di autostrada contro eventuali invasioni arabe si arriva al 30% del territorio. Il 70% viene destinato dagli americani allo Stato palestinese, con finanziamenti di 50 miliardi e swap territoriali che li compensino. In 4 anni dovranno camminare sulla strada dei diritti umani e della democrazia Ma ogni richiesta è troppo per i palestinesi, abituati a promettere pace mentre preparano il rifiuto, come già accaduto trattando con Rabin, Peres, Barak, Olmert, Netanyahu. Tutti hanno assaggiato il loro no e il loro terrorismo mentre rifiutano di riconoscere lo Stato ebraico.

(il Giornale, 26 giugno 2020)


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Esiste, dunque è illegale

“Non sa”, ripete per tre volte l’autrice. Ed è così. La gente non sa quello che qui è stato ricordato, ma non ha nessuna voglia di sapere. Per associarsi alla generale riprovazione contro lo Stato ebraico non serve dire che gli ebrei sono cattivi, basta dire che Israele occupa illegalmente territori non suoi e vuole continuare ad occuparli a danno dei suoi legittimi proprietari. Il biasimo morale scaturisce da solo e arriva a coinvolgere tutte quelle brave persone che dicono di “non avere niente contro gli ebrei”. Esaminare la storia dei fatti come sono accaduti, presentare argomenti di diritto internazionale significa insinuare dubbi sulla narrazione universalmente accolta e sulla sua morale: uno Stato ebraico israeliano lì non ci deve stare. Anzi, non deve proprio esistere. E se ora esiste, la sua esistenza non può che essere illegale. Non c’è bisogno di altri argomenti: è la sua esistenza la prova dell’illegalità. M.C.

(Notizie su Israele, 26 giugno 2020)


A Vienna sorgerà il memoriale per le vittime austriache della Shoah

di Ilaria Ester Ramazzotti

È iniziata a Vienna la costruzione del memoriale dedicato "ai bambini, alle donne e agli uomini ebrei austriaci assassinati nella Shoah". "Berlino ne ha uno. Parigi ne ha uno. Vienna non ne aveva. Ma oggi è finalmente arrivato il giorno", ha detto a Reuters il presidente della Comunità ebraica austriaca Oskar Deutsch nel corso della cerimonia svoltasi lo scorso 22 giugno sul luogo della prossima edificazione.
"Ricordare significa commemorare le vittime della Shoah. Questo ricordo e la nostra storia aumentano la nostra responsabilità, la responsabilità quotidiana e collettiva di fare tutto per garantire che qualcosa del genere non accada mai più", ha poi sottolineato Deutsch. Sul luogo, il cantore della comunità ebraica di Vienna Shmuel Barzilai ha intonato delle preghiere (nella foto\Reuters).
Il nuovo monumento sorgerà in un parco e sarà composto da un anello di lastre di pietra verticali poste attorno a agglomerato di alberi. Tutti i nomi delle 64.259 vittime austriache della Shoah vi saranno scolpite. L'inaugurazione è prevista fra un anno.
La decisione di realizzare un memoriale alle vittime austriache della Shoah si inserisce nel percorso di elaborazione così come nel dibattito mai concluso sulle responsabilità austriache rispetto al nazismo e alla questione dell'annessione dell'Austria alla Germania effettuata Hitler nel 1938.

(Bet Magazine Mosaico, 25 giugno 2020)


Starmer contro l'antisemitismo

Il leader del labour inglese licenzia un ministro ombra. ''Tutti vigili" in questa lotta.


Il leader del Labour britannico, Keir Starmer, ha chiesto ieri a Rebecca Long-Bailey, ministro ombra dell'Istruzione, di lasciare il suo incarico dopo che aveva condiviso un articolo che conteneva "una teoria del complotto antisemita". "Come leader - ha detto il portavoce di Starmer - Keir ha detto con chiarezza che restaurare il rapporto di fiducia con la comunità ebraica è una priorità numero uno. L'antisemitismo prende molte forme diverse ed è importante che siamo tutti vigili nel contrastarlo". La Long-Bailey aveva condiviso su Twitter un'intervista all'attrice Marine Peake, descrivendola come un "diamante assoluto", in cui diceva che i poliziotti americani che hanno ucciso George Floyd hanno imparato le loro tattiche dai servizi segreti israeliani, La deputata laburista - che aveva corso per la leadership del Labour ed era la candidata prescelta dall'ex leader Jeremy Corbyn è stata subito rimproverata e si è difesa dicendo che un retweet non significa condividere ogni singola parola. Ha poi chiesto un colloquio chiarificatore con Starmer, ma lui aveva già preso e comunicato la decisione di licenziarla. I corbyniani hanno difeso la Long-Bailey facendo intendere che si tratta di un regolamento di conti tra fazioni avverse, mentre molti esponenti della comunità ebraica hanno ringraziato Starmer per la sua azione tempestiva.
   La questione dell'antisemitismo ha spaccato e tormentato il Labour fin dall'arrivo di Corbyn alla guida, nel 2015, e l'ex leader non l'ha mai affrontata con determinazione. L'articolo condiviso dalla Long-Bailey non è di certo comparabile con dichiarazioni antisemite che nel tempo esponenti laburisti hanno rilasciato e rivendicato (ricordate l'ex sindaco Ken Livingstone), ma l'obiettivo di Starmer, non da oggi, è di sanare la frattura che si è creata con il mondo ebraico e di spezzare il filo rosso ideologico che univa il corbynismo all'antisemitismo. "Cacciare via l'antisemitismo dal Labour'' aveva detto Starmer in radio qualche settimana fa, e ieri la deputata laburista Margaret Hodge ha detto dopo il licenziamento: "Ecco com'è un vero cambiamento culturale".

(Il Foglio, 26 giugno 2020)


"Cisgiordania, l'annessione di Netanyahu che divide Israele",

Tra una settimana dovrebbe scattare il piano per estendere la sovranità su una parte dei Territori palestinesi. Ma gli ostacoli sono molti: dalla fronda interna al governo, ai dubbi dell'alleato americano. Anche negli insediamenti c'è chi dice no.

di Sharon Nizza

 
Jared Kushner (sin.) con l'ambasciatore USA David Friedman
A una settimana dall'1 luglio, che secondo l'accordo di governo Netanyahu-Gantz dovrebbe essere il D-day per una possibile estensione della sovranità israeliana su alcune aree della Cisgiordania, in Israele nessuno ha davvero un'idea chiara di cosa si stia parlando. Non sono state rivelate mappe né quali porzioni di territorio sarebbero incluse nel piano, né tantomeno se verrà effettivamente realizzato tra sette giorni. A Gerusalemme oggi gli occhi sono puntati a Washington, dove sono iniziate discussioni tra i consulenti del presidente Trump fautori del piano "Pace per Prosperità" presentato a gennaio, tra cui il genero Jared Kushner e l'Ambasciatore Usa in Israele David Friedman, rientrato in patria apposta per la consultazione.
   La partita pare si giochi proprio tra questi due attori: Kushner, che ha girato per il Medioriente negli ultimi anni tessendo la base per l'attuale avvicinamento tra l'asse sunnita e Israele, spinge per minimizzare qualsiasi azione unilaterale israeliana che potrebbe minare i suoi sforzi di conciliazione regionale. L'ambasciatore Friedman è invece il sostenitore più agguerrito del via libera a Israele per procedere con la mossa unilaterale "e poi si vedrà". Inizialmente il premier israeliano Netanyahu aveva parlato dell'estensione della legge israeliana da luglio su tutto il 30% dei territori che secondo il "Piano del secolo" di Trump dovrebbe rimanere sotto controllo israeliano. Ovvero le cosiddette "Aree C" della Cisgiordania, dove, in base agli Accordi di Oslo, l'amministrazione civile e la gestione della sicurezza sono nelle mani israeliane e dove si trovano tutti gli insediamenti (circa 450.000 abitanti) e una minima parte della popolazione palestinese (circa 100.000). Questo 30% comprende anche la Valle del Giordano, che Israele considera il suo confine orientale naturale già dai tempi di Rabin Capo di stato maggiore.
   Ma diversi fattori si sono posti nel corso dei mesi come ostacolo a questa prospettiva: innanzitutto, gli Usa di gennaio non sono gli stessi di oggi e la valutazione che stanno facendo i consiglieri di Trump è se, con la crisi innescata dal coronavirus e dalle proteste del movimento Black Lives Matter, sia necessario avventurarsi in altri campi minati in vista delle elezioni. Poi si è sollevata una inaspettata opposizione di una parte del movimento degli insediamenti, rappresentati nel "Consiglio Yesha": qui una parte della leadership preferisce frenare qualsiasi prospettiva di annessione se questa implica il riconoscimento di uno Stato palestinese. Infine l'opposizione interna al governo: il vicepremier e ministro della Difesa Benny Gantz è in contatto diretto con la fazione kushneriana a Washington e ribadisce che "qualsiasi mossa dovrà essere effettuata nel rispetto delle linee guida stabilite dal Piano di Trump e degli accordi regionali esistenti".
   Qui l'attenzione è rivolta in primis alla Giordania, che proprio oggi ha minacciato di richiamare l'Ambasciatore da Israele se porterà avanti un'iniziativa unilaterale. Netanyahu ha dato mandato a uno dei suoi consiglieri più fidati, il capo del Mossad Yossi Cohen - c'è chi ne parla come il suo possibile erede politico - di calmare gli spiriti nel mondo arabo. Questi si è incontrato già diverse volte con il Capo dei servizi segreti egiziani Abbas Kamel e c'è chi riferisce di trattative sottobanco per cui le voci di condanna non avranno conseguenze drammatiche a livello delle relazioni bilaterali, un po' come avvenne dopo lo spostamento dell'Ambasciata Usa a Gerusalemme due anni fa. Al contempo, ieri il Capo di Stato maggiore Avi Kochavi ha allertato sulla possibilità di aumentare il dispiegamento delle forze al confine con la Striscia di Gaza, se Hamas dovesse riprendere le proteste violente.
   A metà maggio il presidente palestinese Abu Mazen aveva annunciato la fine della cooperazione con Israele, una minaccia che era stata ventilata già altre volte in passato. Questa volta però si è riscontrato un rallentamento nel coordinamento ufficiale con le forze di sicurezza israeliane, anche se sul campo un certo grado di collaborazione è ancora in atto, attraverso la mediazione di comitati civili locali nominati dalle forze di polizia palestinese. Lavoratori palestinesi continuano a entrare quotidianamente in Israele e i permessi speciali di ingresso, soprattutto per trattamenti medici, vengono ora gestiti dalle singole persone direttamente con il Cogat (l'organo di coordinamento dell'attività israeliana nei Territori), senza l'intermediazione dei funzionari palestinesi. Lo scenario peggiore che paventano gli oppositori dell'annessione è che l'Autorità Nazionale Palestinese collassi e a quel punto Israele sarebbe responsabile dell'amministrazione non solo nei Territori C, ma anche B e A, dove vivono 2 milioni e mezzo di palestinesi.
   Quello che si può affermare con certezza è che la questione palestinese è tornata ora al centro del dibattito israeliano, assopito da anni da uno stallo che ha caratterizzato anche la comunità internazionale. A Tel Aviv si è tenuta ieri un'altra manifestazione contro l'annessione, questa volta organizzata da fazioni centriste, la cui voce di protesta si aggiunge a quella della sinistra che era scesa in piazza due settimane fa. E lunedì a Gerico, nel corso della prima di una serie di manifestazioni indette dall'Autorità Palestinese, hanno preso la parola anche l'inviato speciale dell'Onu Nikolay Mladenov e diplomatici dell'Unione Europea, Cina, Russia e Giappone per denunciare il rischio che una mossa unilaterale israeliana potrebbe avere sugli equilibri regionali.
   Per tutte queste ragioni, al momento l'ipotesi più probabile su cui puntano gli analisti è che Netanyahu alla fine si accontenterà di una dichiarazione simbolica soltanto: estensione della sovranità solo sulla Valle del Giordano, un'area a maggiore interesse geostrategico, ma dove si trovano invece pochissimi insediamenti. Oppure estensione a uno o due blocchi di insediamenti intensamente popolati, di quelli che anche negli accordi falliti nel passato, da Camp David ad Annapolis, sarebbero comunque sotto giurisdizione israeliana, come Gush Etzion o Maalè Adumim, nei pressi di Gerusalemme. In ognuna di queste ipotesi, oltre alla valenza simbolica, a livello pratico le implicazioni sarebbero principalmente legate allo status giuridico dei cittadini israeliani negli insediamenti, che a oggi formalmente sono sottoposti all'autorità dell'Amministrazione Civile - organo del Ministero della difesa - e che passerebbero alla giurisdizione dei singoli ministeri israeliani. Un'annessione simbolica e circoscritta eviterebbe in questa fase anche di affrontare un'altra questione spinosa: che status dare agli abitanti palestinesi di quelle aree, ovvero se offrire loro la residenza con la possibilità di fare domanda di cittadinanza, così come accaduto per i palestinesi di Gerusalemme Est e i drusi delle Alture del Golan quando Israele estese la propria sovranità su quelle aree rispettivamente nel 1967 e nel 1981.

(la Repubblica, 25 giugno 2020)


Israele contro il Covid-19: una battaglia ancora aperta

di David Zebuloni

Nei mesi di marzo e aprile i cittadini israeliani si sono dovuti abituare a quello che i media hanno definito il "Bibi Show". Con una frequenza quasi quotidiana, il premier israeliano Benjamin Netanyahu si presentava nella sala stampa della Knesset, saliva sul podio e in diretta nazionale comunicava i progressi della battaglia al Covid-19. Netanyahu mostrava dunque grafici, spiegava come tossire sul gomito, portava esempi da paesi vicini e lontani, ma non dava indicazioni precise su come affrontare la pandemia e le restrizioni da lui decretate si rivelavano essere spesso amorfe e incomplete. Di conseguenza, migliaia di israeliani si sono confrontati sul web in cerca di qualche risposta, sperando di capire un po' meglio ciò che stava accadendo. "È permesso uscire per fare sport? Quanto ci si può allontanare di casa? E il cane lo si può portare a spasso?", si sono rivelate essere le domande più popolari.
   Nonostante la confusione generale, Israele pareva essersi salvata dalla tragedia. Nei primi mesi del 2020, mentre l'Europa e gli Stati Uniti contavano decine e decine di migliaia di morti, in Israele erano "solo" 235 le vittime del virus. Un numero astronomico se consideriamo l'importanza di ogni singola vita umana, ma decisamente consolatorio se paragonato alle stragi avvenute nei paesi circostanti.
   Il 4 di maggio Benjamin Netanyahu si è presentato davanti alle telecamere di tutte le principali reti televisive nazionali per annunciare che Israele ha vinto il virus. Durante la conferenza stampa Netanyahu ha elogiato i cittadini per la buona condotta, i team medici per gli sforzi compiuti e sé stesso per la leadership impeccabile. Poi ha annunciato che Israele è pronta per tornare gradualmente alla normalità. Come se la parola "gradualmente" non fosse mai stata pronunciata, il giorno seguente il popolo israeliano era già tornato all'era pre-covid, dimenticando in un attimo le regole igieniche e il distanziamento sociale.
   Tra un elogio e l'altro, la minaccia di un ritorno del virus era presente nel discorso di Netanyahu, ma probabilmente non è bastata a fermare gli israeliani. In poche settimane le spiagge e i ristoranti di tutto il paese si sono riempiti, gli artisti hanno cominciato ad annunciare le date dei primi concerti e il traffico stradale si è fatto più denso che mai. Secondo le indicazioni di Netanyahu, superati i 250 contagi giornalieri Israele sarebbe dovuta tornare al lockdown, eppure un articolo pubblicato il 23 di giugno sul Times of Israel ha annunciato 377 contagi in un giorno solo ma di lockdown non ha parlato più nessuno. Nel mese di giugno si sono superati i 300 morti totali e sono state di nuovo chiuse molte scuole per limitare i contagi.
   "Dopo una crisi economica simile a quella alla quale siamo andati incontro, non vedo come Netanyahu possa fare marcia indietro", spiega la giornalista Keren Marziano alle telecamere di News12. "Bisogna imparare dagli errori commessi in passato e cercare di fermare il virus senza distruggere ulteriormente l'economia". Effettivamente, dopo aver concesso l'apertura di scuole, centri commerciali, uffici e palestre, è molto più complicato rieducare i cittadini israeliani all'isolamento e al distanziamento sociale. È molto più complesso chiedere (o imporre) loro di chiudere di nuovo i negozi e le attività.
   Secondo l'Algemeiner, la commissione istituita dal governo per occuparsi del Covid-19 ha approvato una proposta di legge da sottoporre alla Knesset che prevede una multa di 200 o 500 shekel a chi non indossa la maschera in un luogo pubblico. Una soluzione parziale, sicuramente importante, ma non sufficiente secondo molti.
   D'altronde, come dice il proverbio, prevenire è meglio che curare e, in questo caso, prevenire il contagio è l'unica speranza che Israele ha per vincere la sua battaglia contro il virus.

(Bet Magazine Mosaico, 25 giugno 2020)


E' caccia al tesoro sottratto agli ebrei durante la guerra

I nazisti rubarono tra l'altro 7mila volumi dal 1943 al '44. Firmato l'accordo tra Comunità e carabinieri. Cerimonia al Tempio Maggiore di Roma per la sigla del patto: 19 i libri tornati a casa.

di Flavia Fiorentino

ROMA - Nell'ottobre del 1943, pochi giorni prima del rastrellamento del ghetto, due ufficiali dell'unità speciale nazista «Rosenberg», trafugarono oltre settemila volumi dalla biblioteca del Collegio rabbinico e della Comunità ebraica cli Roma.
   Dovevano far parte del degenerato «archivio» immaginato da Hitler per tenere traccia del popolo che voleva sterminare. Da oggi nella ricerca di questo straordinario tesoro scomparso da oltre 70 anni, ci sarà l'impegno dei carabinieri del «Comando tutela patrimonio culturale» (Ctpc), che hanno firmato un' intesa con la Comunità Ebraica romana per il recupero dei beni sottratti durante la guerra.
   Ieri, in occasione della cerimonia al Tempio Maggiore per la sigla dell'accordo, 19 libri, stampati tra il 1723 e il 1942 sono tornati a casa. «Toccarli - ha detto la presidente della Comunità, Ruth Dureghello - e immaginare chi li aveva toccati prima di me, mi ha dato una profonda emozione». La sottosegretaria al Mibact, Anna Laura Orrico, si è invece detta «orgogliosa per un gesto che rimarca il nostro confronto continuo con la Comunità». Quei 19 volumi hanno una storia dentro la storia: erano stati recuperati dall'agente segreto Rodolfo Siviero, nella sua "caccia" tra Germania e Italia e custoditi nel suo archivio. «Da lì - ha spiegato il generale Roberto Riccardi, comandante del Ctpc - sono passati negli archivi dei ministeri delll'Istruzione e poi dei Beni culturali. Se saranno trovati i discendenti dei proprietari, saranno loro restituiti. Oltre ai 7.005 volumi c'è ancora tanto materiale da ricercare». Due «pezzi» in particolare, sottratti agli ebrei di Livorno, sono nel mirino dei carabinieri: «Il dipinto "Le gabbrigiane" di Angiolo Tommasi, amico cli Giacomo Puccini - ha aggiunto Riccardi - e una "testa" attribuita a Leonardo».
   La firma del protocollo per il comandante Giovanni Nistri «ha un alto valore simbolico: i 19 libri sono le tessere di un mosaico che ci impegniamo a ricostruire».
   Ma è anche un tassello del rapporto tra l'Arma e la Comunità ebraica: «Il 7 ottobre del 1943 furono catturati 2.500 carabinieri e poi internati nei campi, da cui tornarono in 700. I nazisti sapevano che si sarebbero opposti al 16 ottobre», quando 1023 ebrei romani furono deportati. Pochi giorni dopo anche i loro libri: «La parte più sacra di una sinagoga è un armadio con i rotoli in pergamena su cui è scritta la Torah», ha ricordato il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni.

(Corriere della Sera - Roma, 25 giugno 2020)


Catalogazione libri ebraici italiani "Un progetto dalla portata storica"

 
Un progetto per recuperare, valorizzare e rendere fruibile un immenso patrimonio culturale dell'ebraismo italiano rappresentato da 35mila volumi presenti, e non ancora censiti, in quaranta biblioteche sparse per il paese. Intitolato simbolicamente Y-TAL-YA Books - un richiamo al modo in cui gli ebrei italiani chiamano la penisola: Y-Tal-Ya, Isola della rugiada divina - il progetto prende il via ufficialmente in queste ore, dopo una prima fase pilota, e vede la collaborazione tra l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, a capo dell'iniziativa, la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, la Biblioteca Nazionale di Israele e la Rothschild Foundation Hanadiv Europe. Attraverso gli strumenti telematici e nonostante le difficoltà legata all'emergenza sanitaria di questi mesi, l'impegno del team - che va dall'Italia, alla Gran Bretagna fino a Israele - è riuscito a proseguire e ora inizia, a partire da Torino, con la fase di training per procedere al lavoro di catalogazione. "Si tratta di un progetto dalla portata storica e di valore internazionale", l'opinione condivisa nei saluti d'apertura portati da Sally Berkovic, direttore esecutivo della Rothschild Foundation Hanadiv Europe, dalla presidente UCEI Noemi Di Segni, dal direttore della Biblioteca Nazionale Centrale Andrea De Pasquale, dal direttore generale della Biblioteca nazionale d'Israele Oren Weinberg e dalla referente dell'istituzione israeliana per l'Europa Caron Sethill.
   "Nonostante tutte le difficoltà, la tecnologia ci ha permesso di riunirci regolarmente e proseguire senza intoppi un lavoro che ha messo in collegamento Roma, Londra, Gerusalemme - spiega Gloria Arbib, referente UCEI per il progetto - Si tratta di un'iniziativa molto rilevante e ambiziosa: realizzare un catalogo collettivo di tutti i libri a stampa in ebraico depositati presso le biblioteche sul territorio italiano, siano esse delle Comunità ebraiche che dello Stato". Manoscritti, incunaboli e volumi antichi dimenticati torneranno così a disposizione degli studiosi ma saranno anche fruibili al grande pubblico nella teca digitale della Biblioteca nazionale di Roma, adattata per l'occasione con la possibilità di fare ricerche anche in ebraico. Dalla metà del '400 al 1960 (la data fissata come limite della catalogazione), da Trieste a Bari, migliaia di testi riprenderanno vita e con loro le storie ebraiche che portano con sé. "Faremo la storia del libro ebraico - le parole del direttore De Pasquale - Avremo finalmente contezza del patrimonio librario delle biblioteche ebraiche così come di quelle pubbliche statali, finora indagate solo in minima parte. Edizioni altrimenti sconosciute verranno alla luce, con loro, nuovi protagonisti. Penso ad esempio a nomi di tipografi del passato ma non solo". "Si tratta di un'opportunità professionale per tutti coloro che lavorano a questo progetto a cui va il nostro ringraziamento - ha sottolineato la presidente UCEI Di Segni - ma è un'opportunità di crescita per tutta la cultura ebraica di cui andare orgogliosi". Un progetto complesso, avviato tre anni fa, con una prima fase di indagine sulle biblioteche delle Comunità ebraiche italiane e su quelle statali. "Ricordo bene quando è arrivata l'application dall'UCEI. Ne arrivano centinaia alla Rothschild di richieste di finanziamento ma ricordo di aver pensato quanto fosse ambizioso quel progetto e quanto fosse difficile immaginarne la realizzazione - le parole del direttore Berkovic -. Ora siamo qui e quell'idea è diventata realtà grazie a una fondamentale collaborazione tra enti diversi". "Higanu le yom haze, siamo arrivati a questo giorno", le ha fatto eco Sethill, sottolineando come si tratti di un'iniziativa innovativa e dal valore internazionale.

(moked, 25 giugno 2020)


I Rabbini europei: "l'Ue vuole rendere illegale la macellazione rituale kasher"

di Nathan Greppi

Il Presidente della Conferenza dei Rabbini Europei, Rav Pinchas Goldschmidt, ha rilasciato lunedì 22 giugno una dichiarazione in cui ha avvertito che la Corte di Giustizia Europea sta pensando di rendere illegale la Shechità, la macellazione rituale della carne kasher, adottando in tutto il continente una legge già approvata in Belgio nel gennaio 2019. "La shechita è una pratica religiosa vitale per la fede ebraica," ha dichiarato Rav Goldschmidt, "senza la quale agli ebrei verrebbe tolta la possibilità di mangiare carne.".
   Come riporta Algemeiner, Goldschmidt ha spiegato che la richiesta di carne kasher in Europa è tale da non potersi basare esclusivamente sulle importazioni da paesi extraeuropei, e ciò si è rivelato vero soprattutto nel periodo della pandemia. "L'esperienza di Pesach è stata un duro promemoria che le comunità ebraiche non possono fare affidamento solo sulla distribuzione internazionale." Se in Belgio il divieto dovesse proseguire, "il messaggio sarebbe chiaro: gli ebrei non sono i benvenuti."
   Il 1 gennaio 2019 il regolamento contro la macellazione rituale kasher e halal venne approvata nella regione delle Fiandre, e a settembre dello stesso anno anche nella Vallonia. Prima di allora, la capitale delle Fiandre Anversa forniva di carne kasher numerose comunità di tutto il continente. E il divieto è rimasto nonostante l'attuale Primo Ministro belga, Sophie Wilmes, sia la prima ebrea a ricoprire tale incarico.

(Bet Magazine Mosaico, 25 giugno 2020)


Saburo Nei: il diplomatico giapponese in URSS che salvò molti ebrei in fuga dal nazismo

Saburo Nei
Il governo lituano ha dichiarato il 2020 "l'anno di Chiune Sugihara", lo Schindler giapponese che tra il 1939 e il 1940 aiutò più di 6 mila ebrei residenti nella città di Kaunas, in Lituania, a fuggire verso porti più sicuri, rilasciando visti di transito per il Giappone. Il recente ritrovamento di un visto firmato da un altro console nipponico, Saburo Nei - d'istanza a Vladivostok, nell'attuale Russia sudorientale - rivela inoltre che la lista dei diplomatici giapponesi che rischiarono la propria vita e carriera per salvare migliaia di ebrei in fuga dal nazismo potrebbe essere ben più lunga.
   Saburo Nei nacque nel villaggio di Hirose, oggi parte della città di Miyazaki, nel 1902. Studiò all'estero, dove imparò il Russo presso la scuola sino-russa Nichiro Kyokai Gakko e, nel dicembre 1940, fu nominato console ad interim a Vladivostok. Durante quegli anni, avrebbe concesso parecchi visti di transito per il Giappone a coloro che, in fuga dalle persecuzioni naziste, tentavano di raggiungere il Pacifico per salpare verso le coste americane.
   Il ritrovamento da parte di Akira Kitade, scrittrice settantasettenne residente a Tokyo, di un visto firmato da Saburo Nei conferma infatti il lavoro del team di ricerca guidato dal professore Yakov Zinberg dell'Università Kokushikan secondo cui, nel 1941, il console Nei avrebbe ammesso a un rappresentante sovietico per gli affari esteri di "aver rilasciato parecchi visti senza il permesso di Tokyo". Il governo nipponico, alleato nazista, proibiva effettivamente l'emissione di visti di transito per coloro che non avessero il permesso di raggiungere una terza destinazione, diversa dall'arcipelago del Sol Levante. Saburo Nei, come Chiune Sugihara, avrebbe però ignorato le direttive governative di fronte alla disperazione di un popolo in fuga.
   Akira Kitade venne a conoscenza dell'esistenza del visto in questione durante le ricerche per il suo ultimo libro: Visas of Life and the Epic Journey. How the Sugihara Survivors Reached Japan (Visti di vita e il viaggio della speranza. Come i sopravvissuti di Sugihara hanno raggiunto il Giappone). La scrittrice contattò dunque la nipote Kim Hydorn, residente negli Stati Uniti, del beneficiario del visto, Simon Korentajer, e riuscì ad ottenere una foto del documento ormai liso, ma di enorme valore storico. Il visto, emesso il 28 febbraio 1941, riporta infatti la firma di Saburo Nei ed il timbro ufficiale del consolato di Vladivostok. La famiglia Korentajer, di origini polacche, era riuscita a raggiungere la Lituania da Varsavia poco dopo l'invasione nazista della Polonia nel 1939. Dopo essersi vista negata la richiesta di visto all'ambasciata americana di Mosca, viaggiò lungo la transiberiana per raggiungere il limite Orientale dell'Unione Sovietica. Qui, i Korentajer incontrarono Nei, il quale concesse loro un visto di transito attraverso i porti di Tsuruga e Yokohama in terra giapponese.
   Quella della famiglia Korentajer, non è la sola storia di salvataggio simile di quel periodo. Si stima che, tra il 1940 ed il 1941, circa 15,000 ebrei trovarono rifugio in Lituania, di cui, schiacciati tra l'avanzata sovietica ed il pugno di ferro nazista, molti tentarono la fuga verso Est. Attraverso la ferrovia transiberiana, arrivarono ai confini del Pacifico per poi salpare verso il Giappone. Per una buona parte di loro il viaggio si concluse qui, in quanto il governo estese molti dei visti di transito rilasciati. Per altri, proseguì verso le coste americane, Shanghai ed i territori olandesi di Curaçao.
   Alla fine della guerra, l'ex console Nei, allora membro dell'agenzia per l'immigrazione, non parlò mai dei visti emessi. Nel 2016, però, la città di Miyazaki fondò un comitato di apprezzamento in suo onore. "Pare che fosse un uomo estremamente modesto", dice Kitade. E continua: "Questa scoperta mi rende ottimista che si possano trovare altri diplomatici giapponesi che aiutarono gli ebrei in modo simile". Come Sugihara, Nei potrebbe essere inserito nella lista dei "Giusti fra le Nazioni", il titolo conferito dallo Yad Vashem di Gerusalemme e destinato ad onorare il nome di coloro che rischiarono la propria vita per salvare gli ebrei durante la Shoah.

(Gariwo, 25 giugno 2020)


Siria: attacchi missilistici israeliani nel governatorato di Hama

DAMASCO - La contraerea siriana ha abbattuto alcuni missili diretti verso le cittadine di Slamyeh e Al Sabboura nel governatorato di Hama. Lo riferisce l'agenzia stampa governativa "Sana". Quest'ultima - citando fonti militari - attribuisce l'attacco a Israele. Nella tarda serata di ieri, 24 giugno, altri attacchi missilistici sono stati respinti nei governatorati di Sweida e Deir Ez Zor, rispettivamente nel sud-ovest e nell'Est della Siria. Una fonte militare riferisce di attacchi missilistici alle 21.17 del 23 giugno provenienti da east e nord-est di Palmira, nel deserto siriano, diretti verso i siti militari di Kabajib e Al Sakhnah, nel governatorato di Deir Ez Zor. Nel frattempo, una base è stata colpita nei pressi di Salkhad, nel governatorato di Sweida. Due soldati siriani sono morti e quattro sono rimasti feriti a seguito degli attacchi. Negli scorsi mesi, Israele ha lanciato molteplici attacchi contro postazioni utilizzate da forze iraniane e riconducibili al libanese Hezbollah, entrambi alleati del presidente siriano Bashar al Assad.

(Agenzia Nova, 24 giugno 2020)


Restituiti alla Comunità ebraica 19 volumi sottratti dai nazisti

Siglato a Roma un rotocollo tra Carabinieri e Comunità ebraica

 
ROMA - "Non un gesto di riparazione, che non è possibile dopo la tragedia dell'olocausto, ma un segno ulteriore di amicizia e di restituzione di scritti fondamentali per la memoria. Memoria che costituisce la stessa storia di una comunità come quella ebraica". Così il sottosegretario al Ministero per i Beni Culturali Anna Laura Orrico ha spiegato stamane la restituzione di 19 libri alla comunità ebraica di Roma. Una cerimonia che si è tenuta presso il Tempio Maggiore della Capitale con la firma di un Protocollo d'intesa tra il Comando tutela patrimonio culturale dell'Arma dei Carabinieri e la Comunità ebraica romana, alla presenza del Comandante generale dell'Arma, Giovanni Nistri e dei più alti rappresentanti della comunità ebraica romana, il Rabbino capo Di Segni e la presidente della comunità Ruth Dureghello. Presente anche, oltre al sottosegretario Orrico, il gen. Roberto Riccardi comandante del reparto tutela del patrimonio culturale dell'Arma.
   Nella cerimonia odierna sono stati restituiti 19 libri di varia natura, con ogni probabilità tutti riconducibili alla biblioteca del collegio rabbinico di Roma e comunque appartenenti, per argomento e materia, alla comunità ebraica della capitale. Si tratta, è stato spiegato, solo di una piccola parte di quelle migliaia di libri, circa 7 mila volumi, che il 13 ottobre del 1943 furono razziati dai nazisti solo tre giorni prima che avvenisse a Roma la massiccia deportazione di 1.023 ebrei verso i campi di sterminio. Testi che saranno restituiti e che sono stati stampati in vari momenti storici, dal 1723 al 1942.
   Alcuni scritti da religiosi di fede ebraica altri, invece, da cattolici critici nei confronti dell'ebraismo. Il rabbino capo Di Segni ha parlato di una "nuova pagina di storia nell'amicizia e collaborazione simbolicamente rappresentati dalla riconsegna dei libri " ricordando il "profondo rapporto con il Libro e con le letture scritte da parte degli ebrei". Anche il gen. Nistri ha sottolineato il "momento di alto valore simbolico rappresentato dalla sigla del nuovo protocollo perché - ha detto - la sottrazione di beni e oggetti appartenenti alla cultura di un popolo ha da sempre, rappresentato una violazione di identità con lo scopo ultimo di cancellarne la memoria".
   "Il recupero di questi libri - ha detto invece la Dureghello - ha un significato che travalica il valore intrinseco di questi oggetti di studio, perché rappresentano e testimoniano storie personali e vite perdute. Riportandoli al luogo a cui appartengono, cioè alla comunità e al museo ebraico di Roma, possiamo finalmente tracciare un'altra parte della nostra storia ed assicurarci che la memoria non venga perduta ".
Da parte sua il gen. Riccardi ha ricordato, invece, come "le leggi razziali rappresentino una ferita aperta per tutte le istituzioni italiane e che per la comunità ebraica italiana non si farà mai abbastanza per lenire i segni di quella tragedia. Da parte nostra, come Arma dei carabinieri, - ha concluso - abbiamo inserito tutti questi beni e queste tracce di storia sottratta e fatta sparire nella nostra banca dati per una ricerca che assicuro essere costante e speriamo fruttuosa ".

(askanews, 24 giugno 2020)


Gantz: 'Annessioni? non possiamo sempre aspettare i palestinesi'

"Non possiamo continuare ad aspettare i palestinesi. Se dicono 'No' a tutto allora saremo costretti a procedere senza di loro". A parlare così è il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz, che sembra così aprire ad annessioni unilaterali in Cisgiordania come vuole fare il primo ministro Benyamin Netanyahu a partire dal primo luglio.
Secondo il leader di Blu e Bianco, il piano Trump, sulla base del quale partirebbero le annessioni, "è il primo a guardare a ciò che avviene sul terreno in modo realistico". "Quello che faremo avrà conseguenze, ma anche quello che non faremo", ha detto ancora Gantz, aggiungendo di "voler lavorare per ridurre il rischio di trasformare Israele in uno stato bi-nazionale, assicurando che Israele mantenga il controllo del suo territorio". "Non prenderemo palestinesi nel nostro territorio, non violeremo diritti umani o il diritto di movimento, lavoreremo in coordinamento con i paesi della regione, con i quali siamo in contatto, non metteremo in pericolo gli accordi di pace", ha detto ai giornalisti, secondo quanto riporta la stampa israeliana.
Secondo il Jerusalem post, che riporta le sue parole, Gantz, che assumerà la guida del governo fra un anno e mezzo, vorrebbe annettere solo una piccola area, all'interno di un grande blocco di insediamenti, mentre Netanyahu vorrebbe annettere il 30% della Cisgiordania, sulla base della mappa del piano Trump. Intanto l'ambasciatore americano in Israele, David Friedman, si trova a Washington per chiarire quale tipo di passo unilaterale israeliano potrebbe sostenere l'amministrazione Trump.

(Adnkronos, 24 giugno 2020)


Grecia - Accordo con un'azienda israeliana per la coproduzione di corvette Temistocle

ATENE- I cantieri navali greci Onex Neorion e quelli israeliani Israel Shipyards Ltd hanno firmato un accordo per la produzione congiunta delle nuove corvette Temistocle. Lo ha annunciato tramite una nota stampa la stessa società che gestisce il cantiere navale greco con base nell'isola di Syros. Secondo quanto spiegato nella nota, le corvette Temistocle sono un'imbarcazione multiuso di nuova generazione, prodotta allo scopo di proteggere i confini ellenici nel Mediterraneo orientale.

(Agenzia Nova, 24 giugno 2020)


Ciclismo - La Israel vuol crescere ancora: oltre a Froome, insegue Porte e Teuns

di Guido La Marca

 
Tutto ruota intorno a loro, Chris Froome e Sylvan Adams. Il britannico ha in tasca un'offerta per approdare alla Israel StartUp Nation sin dal 1° agosto e disputare il Tour de France con la nuova maglia, ma ha anche una seconda chance, ovvero quella di affrontare la stagione con i colori della Ineos e poi cambiare casacca per le prossime tre stagioni.
Di sicuro c'è che Sylvan Adams, proprietario del team israeliano, vuol costruire uno squadrone attorno a Froome e si sta muovendo in diverse direzioni: colloqui, sondaggi, trattative accennate e altre avviate, sono davvero molti i nomi che vengono accostati in queste ore alla formazione mediorientale che sembra al momento una delle poche ad avere la forza di pensare al futuro.
L'obiettivo di Adams è duplice: dopo aver portato finalmente la sua formazione nel WorldTour, il magnate israeliano punta dritto a vincere il Tour de France e a primeggiare nelle classiche monumento.
Per il primo obiettivo, ovviamente, Froome è il capitano designato ed il britannico avrebbe chiesto di avere accanto a sé Richie Porte, che ha corso con lui per quattro stagioni dal 2012 al 2015 nel Team Sky. Porte ha 35 anni, la stessa età di Froome, e sarà con Mollema il capitano della Trek Segafredo al prossimo Tour de France.
Nel mirino di Adams c'è anche un corridore decisamente eclettico come Dylan Teuns, oggi alla Bahrain McLaren, che potrebbe crescere alla scuola di Froome per i grandi giri e al tempo stesso coltivare le sue doti di cacciatore di classiche.
Intanto dal Belgio rimbalzano anche altre voci che parlano di contatti con Greg Van Avermaet - che ha sempre proclamato la sua fedeltà alla CCC di Ochowicz ma che ovviamente, alla luce dell'addio dello sponsor nel 2021, si sta guardando intorno - e Jasper Stuyven, altro corridore belga, classe 1992, punto di forza della Trek Segafredo.
Un ampio raggio di possibilità, per il team israeliano, che non vuol lasciarsi sfuggire l'occasione di fare un ulteriore passo in avanti e diventare uno dei più forti del mondo. Di sicuro qualcuno dei nomi che radiomercato fa, il prossimo anno vestirà la maglia biancoazzurra e punterà al bersaglio grosso.

(TuttobiciNews, 24 giugno 2020)


Israele esclude un altro lockdown. L' Anp chiude Hebron e Nablus

Il bilancio più alto da aprile

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Il contagio in Israele cresce con numeri vicini a quelli elevati di aprile. Eppure il ministro della sanità Yuli Edelstein esclude un nuovo lockdown nonostante la seconda ondata di Covid-19, forse più insidiosa della prima. Nella riunione del governo di ieri ha prevalso il timore di infliggere un nuovo colpo all'economia in grande difficoltà. Anche le autorità palestinesi non parlano di chiusura totale. Hanno però ordinato l'isolamento completo, per alcuni giorni, delle città di Hebron e Nablus, le più grandi della Cisgiordania, dove si registra il maggior numero di contagi. Le due popolazioni faticano ad accettare la nuova emergenza e per il momento resta limitato il rispetto delle misure di contenimento annunciate dai rispettivi governi.
   In Israele ieri sono stati registrati 459 nuovi casi positivi, la maggior crescita giornaliera dal 22 aprile (556). Il tasso di contagio è del 2,7%, il più alto dall'inizio dell'epidemia che ha fatto 308 morti. Gli ospedali nei giorni scorsi hanno riaperto i reparti per i malati di Covid-19. Virologi e medici prevedono scenari da incubo, molte migliaia di infetti e numerose vittime. La settimana passata il virus aveva percorso i centri abitati beduini del Negev. Negli ultimi giorni i picchi si sono verificati a Bat Yam, Bnei Brak, Elad, Tel Aviv, Giaffa, Gerusalemme e Petah Tikva.
   Il governo si prepara a proclamare altre "zone rosse" e lunedì il premier Netanyahu ha annunciato multe salate per chi non indosserà la mascherina, ma niente lockdown. «Ci sono alcuni centri rosso-arancione che definiamo zone riservate. Chiedo a coloro che vi risiedono di accettare le misure necessarie per spezzare la catena dell'infezione. Non attueremo un blocco totale, optiamo per una chiusura che consenta di respirare», ha detto ieri Edelstein aggiungendo che con la cooperazione delle autorità locali «otterremo lo stesso risultato: rallentare la diffusione del contagio e meno pazienti».
   Sale la preoccupazione anche nei Territori palestinesi occupati.
Il numero complessivo dei casi in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, riferiva ieri la ministra della sanità dell'Anp, Mai al Kaile, è salito a 1.363, 167 più di lunedì. Di questi, almeno 79 a Hebron. I decessi sono stati finora cinque.
   Con ogni probabilità i contagi in crescita a Hebron dipendono dalla vicinanza della città ai centri abitati beduini nel sud di Israele. A Gaza, chiusa da oltre dieci anni nella morsa del blocco praticato da Israele ed Egitto, la situazione appare ancora sotto controllo. Sono 72 i casi positivi dall'inizio della pandemia. Una sola vittima.

(il manifesto, 24 giugno 2020)


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Covid-19, Israele riavvia lockdown in due città

ROMA - Un lockdown parziale su Elad, una città ultra-ortodossa nel centro di Israele, e cinque quartieri anche questi prevalentemente ultra-ortodossi nella città settentrionale di Tiberiade entrato in vigore oggi alle 8, nel tentativo di rallentare la diffusione del coronavirus che nelle ultime settimane nello Stato ebraico ha fatto registrare una nuova impennata di casi. Lo scrive il Times of Israel sottolineando che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato la città di Elad e i quartieri di Tiberiade "zone riservate" per sette giorni.
Dalle 8 di oggi i non residenti non potranno accedere a queste zone, tranne che per andare al lavoro o per la fornitura di servizi essenziali. I residenti potranno lasciare le zone per lavoro, esami di immatricolazione, cure mediche, procedimenti legali, il funerale di un parente di primo grado o il trasferimento di un minore.
La polizia ha dichiarato che non saranno ammesse riunioni di oltre 50 persone e che sette posti di blocco sono stati istituiti dentro e intorno a Tiberiade.

(askanews, 24 giugno 2020)


L'Italia ebraica sta morendo, viva l'ebraismo italiano

Mentre muoiono comunità in Italia ne nascono di nuove in Israele.

di Jonathan Pacifici

 
Il Tempio Italiano di Gerusalemme, originariamente a Conegliano Veneto
 
I bambini di Scola Tempio (Gerusalemme) in Succà
 
Un nuovo Sefer Torà per il Tempio Yom HaYom di Natanya
L'articolo di Davide Cavaliere pubblicato ieri sul Corriere Israelitico dal titolo "L'estinzione degli ebrei italiani" ha suscitato, come è normale che sia, molte reazioni. Quando in ambito ebraico si tocca il tema della sopravvivenza, le emozioni sono giustamente forti.
  Vorrei provare ad allargare un po' la prospettiva. La premessa è incontrovertibile. Numericamente parlando la contrazione delle Comunità è un dato di fatto. L'UCEI parla sempre di 21 comunità in Italia ma questo è - ebraicamente parlando - un falso.
  Nell'ebraismo c'è una definizione semplicissima per la comunità: un quorum di dieci uomini adulti, il minian, che si riunisce periodicamente per le preghiere pubbliche. Un minian è una comunità: grande, piccola con più o meno servizi, con o senza un luogo di culto e via dicendo. Ma è un pubblico. Con tutti i doveri (e qualche diritto) che ciò comporta.
  Dove non c'è un minian, facciamoci uno sconto, almeno di Shabbat, non ha senso parlare di comunità, anche se c'è una splendida sinagoga delle dimensioni di una cattedrale. Ci sono nella migliore delle ipotesi dei singoli ebrei ai quali va tutto il nostro affetto e verso i quali chi ha la fortuna di vivere in una comunità ha certamente delle responsabilità. Ma non sono una comunità, non nell'accezione ebraica del termine.
  La cattiva notizia è che nella lista delle "21 Comunità" dell'UCEI in parecchie il minian non esiste. La pessima notizia è che la contrazione attacca progressivamente anche comunità che ancora riescono a garantire un minimo di servizio. Il trend demografico, purtroppo, è inesorabile. Basta confrontare le nascite con le morti, il numero di matrimoni e milot [circoncisioni, ndr] per capire che nel giro di alcuni anni verrà meno la massa critica che consente ancora oggi alcuni imprescindibili servizi.
  
Come mai questa erosione? Non certo per le alyot. L'erosione parte dall'assimilazione, dai matrimoni misti ma soprattutto dal fatto che gli ebrei italiani, come gli italiani tutti, hanno sostanzialmente smesso di sposarsi e di fare figli. Quando si sposano lo fanno molto tardi e di figli ne fanno pochi.
  Il mio Maestro Rav Roberto Della Rocca disse ad una serata dedicata a questi numeri, qualche anno fa a Milano, che a lui "i numeri stanno sullo stomaco". Rav Della Rocca ha sostenuto, a ragione, che la storia ebraica è una storia che supera i numeri e che riesce a fare grandi cose nonostante (e forse a volte anche in virtù) dei numeri esigui. Vorrei insistere su questo punto di Rav Della Rocca perché quando si parla di questi temi c'è troppo spesso una levata di scudi, quasi fosse un tabù, quasi si attaccasse necessariamente un'etichetta qualitativa o un valore morale all'analisi della realtà. Realtà che spesso tra l'altro è il risultato di scelte (o non scelte) fatte in altre epoche. Non è certo imputabile al giovane di una micro-comunità che cerca di frequentare campeggi ed attività, il fatto che i suoi coetanei ebrei semplicemente non sono mai nati.
  E quindi è vero. Ci sono ragazzi che fanno un lavoro straordinario contro ogni statistica e Maestri, miei Maestri per i quali ho stima e rispetto, che fanno un lavoro enorme, in trincea, salvando il salvabile e spesso anche qualcosa di più. A volte però l'impressione è che "l'operazione è riuscita, il paziente è morto".
  Se è vero che dobbiamo avere rispetto per chi lavora contro e nonostante la statistica a livello individuale, abbiamo l'obbligo, a livello collettivo, di analizzare la situazione per quello che è ed operare conseguentemente. Non fosse altro per il fatto che le risorse sono notoriamente limitate, molto limitate.
  Non ci facciamo abbagliare dal moltiplicarsi di attività, di studio, di kasherut e via dicendo che vediamo a Roma. È tutto bellissimo, tutto giustissimo e tutto encomiabile. E' il risultato dello straordinario lavoro di troppi pochi. Purtroppo però se i numeri continuano così non è distante il giorno in cui semplicemente non ci saranno abbastanza bambini per aprire la prima elementare.
  Come incidono le alyot su questo discorso? Esattamente allo stesso modo: non è solo un discorso di quantità ma di qualità. Esistono, ma sono la minoranza, i casi di alyot di persone lontane dalla vita comunitaria. Molto più spesso chi decide di fare la alyà è relativamente attivo. Molti di coloro che hanno deciso di vivere in Israele lo hanno fatto per profonda convinzione ideologica prima ancora che per contingenze economiche. È innegabile che in un'Italia economicamente compromessa la Startup Nation attrae molti ragazzi ma al centro della maggior parte delle decisioni di alyà c'è piuttosto la volontà di vivere una vita ebraica, in mezzo al popolo ebraico e partecipare alla più grande rivoluzione che questo abbia avuto nella sua storia.
  È per questo che molti figli di dirigenti comunitari e di Rabbini sono in Israele. Ed è per questo che molti di coloro che sono qui, in un'altra vita, avrebbero ricoperto ruoli importanti nelle loro Comunità. È vero allora che le alyot non incidono numericamente come il fatto che non si fanno figli ma è anche vero che sottraggono - e chi scrive pensa che sia ugualmente un bene - risorse umane preziose.
  E qui arriviamo, a mio modesto avviso, al nocciolo della questione. Per parafrasare Indro Montanelli la cattiva notizia è che non vedo un futuro per l'Italia ebraica. La buona notizia è che c'è e ci può essere un futuro radioso per gli ebrei italiani e l'ebraismo italiano.
  Mentre spariscono le comunità in Italia ne nascono di nuove in Israele. Solo negli ultimi anni agli storici nuclei degli italkim, si sono sommate nuove realtà come il Tempio Yom HaYom a Natanya, il Tempio Italiano (di rito tripolino) di Tel Aviv, Scola Tempio a Gerusalemme ed un primo nucleo di comunità italiana a Raanana. Nascono come minianim, con la consapevolezza che il minian è il bulding block senza il quale non ha senso di parlare di collettività ebraica. Queste nuove comunità devono affrontare delle sfide completamente diverse e completamente nuove rispetto all'esperienza italiana.
  Non devono garantire kasherut, scuola cimiteri e mikvaot. Non devono nemmeno utilizzare le poche risorse per il festival della memoria o concerti che di ebraico hanno nulla. Hanno una sfida apparentemente semplice ma in realtà ben più complessa. Devono rispondere ad una fondamentale domanda: se l'ebraismo italiano ha qualcosa da dire, oggi, nel risorto Stato d'Israele.
  Fino a che si parla di servizi, c'è il minian ashkenazita sotto casa che dura meno, è più vicino e se ne occupa qualcun altro. Per convincere qualcuno a continuare ad essere ebreo italiano in Israele dobbiamo, lasciatemi dire finalmente, parlare di contenuti. Ed è molto più complicato rispetto a tutto ciò che abbiamo conosciuto in Italia.
  La risposta a questa domanda, paradossalmente, ha delle ripercussioni importanti anche nell'Italia ebraica o ciò che ne resta. Lo aveva capito perfettamente il compianto Rav Laras z'l, il cui testamento spirituale abbiamo citato proprio nel (ri)partire con il Corriere Israelitico.
  È su questo che non stiamo ragionando abbastanza. È di questo che dovremmo parlare, assieme, in Italia ed in Israele. Il rischio che ognuno vada per la sua strada è insostenibile per le comunità in Italia e per gli stessi italkim. È arrivato il momento di chiederci, tutti assieme, come le poche (ma nemmeno pochissime) risorse umane ed economiche possono essere utilizzate per garantire il futuro, se non dell'Italia ebraica, dell'ebraismo italiano.
  Nei giorni di lockdown abbiamo scoperto che Rabbanim da anni al benemerito servizio di piccolissimi nuclei ebraici hanno raggiunto più persone su Zoom con la loro Torà, che non in anni di attività locale. La loro guida è quanto mai necessaria oggi. Alcuni di loro, venendo per le vacanze, hanno ritrovato in Israele alunni e discepoli e si sono messi a disposizione. Il loro apporto è ed è stato importante ma è arrivato il momento di strutturarlo. È così utopistico pensare che se ha un senso tenere un Chacham italiano in una comunità di cento persone che non ci sarà tra vent'anni, ha un senso averne uno in Israele per le migliaia di ebrei italiani?
  Lo so, c'è un tema di risorse. Però anche su questo dovremmo ragionare assieme. In ogni famiglia che si rispetti il fatto che un figlio vada a vivere altrove non significa la rinuncia al patrimonio di famiglia. Ad oggi il figlio che vive in Israele sta ricevendo zero. Non è un discorso economico - esistono anche in Israele altre risorse alle quali potremmo e dovremmo accedere - è un discorso di merito.
  Abbiamo sinagoghe-cattedrali vuote in Italia e minianim in Israele che lottano per trovare una stanza dove pregare. Non penso si possano spostare qui oggi (anche se in passato è successo), penso invece che quest'immagine dovrebbe spronarci a trovare nuove soluzioni che sono possibili se capiamo che se tutti gli ebrei sono garanti l'un per l'altro, lo siamo ancora di più nella nostra comunità italiana, a Tel Aviv come a Vercelli.
  Io ho l'impressione che fino a che la catalogazione delle lapidi dei cimiteri dei nostri avi a Pisa (con tutto il dovuto rispetto) conterà più delle famiglie che i nostri figli stanno costruendo, grazie a D. con tanti bambini, a Natanya, Tel Aviv e Gerusalemme non andremo lontano.
  L'Italia ebraica sta morendo perché ha smesso di mettere la vita al centro ma l'ebraismo italiano può ancora prosperare se sceglierà, finalmente, la vita. Uvachartà bachajm!

(Il Corriere Israelitico, 23 giugno 2020)


Le truppe iraniane, in piena crisi, riducono la loro la presa in Siria

Sostituite delle più gradite ed efficaci truppe russe

di Dorian Gray

Il tentativo del dittatore siriano Bashar al Assed di oscurare la crisi di coronavirus in Siria è ormai miseramente fallito, anche in quel Paese la diffusione del virus è incontrollabile.A confermarlo sono anche le recenti informazioni di intelligence secondo cui il 12 aprile scorso ben 40 miliziani delle forze paramilitari sciite sono stati ricoverati in ospedale, per aver contratto il Covid-19. Nel frattempo, i medici e i sanitari dell'ospedale Abu Kamal (al confine tra Siria e Iraq) sono stati minacciati da rappresentanti del regime iraniano, che hanno loro intimato di tacere sui casi di coronavirus presenti nella struttura.
   Ovviamente, i militari russi sono completamente coscienti di quanto accade in Siria. Lo sono a tal punto che, a quanto pare, sin dalla metà di marzo, hanno dato ordine a Damasco di non mischiare in alcun modo i soldati russi con le forze iraniane presenti nel Paese (a metà marzo Assad negava ancora la presenza di Covid-19 nel Paese). A metà aprile, quindi, l'opposizione siriana rendeva noto che i militari russi si erano riposizionati lontano dal quartiere Bustan al-Qaser di Aleppo, proprio perché in quell'area erano presenti i miliziani sciiti.
   Recentemente si è discusso di un possibile ritiro proprio degli iraniani dalla Siria. A quanto pare, più che di ritiro, bisognerebbe parlare di ridispiegamento. È sicuramente vero che i raid costanti di Israele hanno colpito duramente le forze di Teheran, ma invece di tornarsene a casa, pare che vengano dislocate in altre aree del Paese. Ad ogni modo, si registra una minor presenza di miliziani sciiti filo-iraniani nelle aree di Deir ez-Zor, presso al-Mayadin, vicino a Palmyra e anche nella capitale Damasco, dove c'è la moschea dedicata a Sayeda Zeinab (si trattava soprattutto di foreign fìghters afghani della Divisione Fatemyoun). È possibile che parte di questi miliziani - soprattutto afghani della Divisione Fatemyoun - siano stati inviati sulla linea del fronte, nelle aree vicine ad Aleppo e alla provincia di Idlib. Nel Sud della Siria, al confine con Israele, viene anche registrato un aumento della presenza di jihadisti libanesi di Hezbollah.
   Ad ogni modo, la Russia si è affrettata a coprire alcuni vuoti lasciati dagli iraniani, in particolare presso Deir ez-Zor, dove una serie di check points prima gestiti da filo-iraniani sono ora nelle mani della polizia militare russa, dei contractors della Wagner Group o di altre forze legate a Mosca. Alcune aree sono finite sotto il controllo della Brigata Gerusalemme (da non confondere con la Forza Quds iraniana), milizia prima legata all'Iran e ora pare controllata direttamente dai russi. Russi che sembrano essere riusciti anche a controllare la Forza di Difesa Nazionale (Ndf), milizia pro-governativa siriana, i cui componenti negli ultimi mesi lamentavano il mancato pagamento dei loro salari da parte sia di Damasco che degli iraniani. Ora pare che diversi comandanti della Ndf siano finiti sul libro paga dei russi. Nei report di intelligence, si sottolinea che la crisi con i Pasdaran iraniani è iniziata proprio a causa della crisi del coronavirus.
   Quanto suddetto, dimostra due cose: la competizione tra Russia e Iran in Siria, che è non solo militare ma anche politica (si pensi alla recente defezione del cugino di Assad, Rami MakhloufJ; e che i russi sono in grado di coprire velocemente i vuoti iraniani, dimostrando di avere adesso una posizione considerata sicuramente più forte e generalmente accettata nel Paese rispetto a quella iraniana. Detto questo, il ridispiegamento dei miliziani iraniani deve preoccupare, non solo a livello militare, ma anche sanitario.
   La crisi del coronavirus in Siria è coperta dalla censura e, come noto, Teheran nasconde a sua volta i dati reali. Il rischio che il contagio degeneri fuori della Siria, magari con l'arrivo di miliziani sciiti e sunniti dalla Siria in Libia, deve preoccupare tutti, Italia in testa, soprattutto davanti al rischio che 20 mila migranti lascino il Nord Africa per arrivare in Europa.

(Atlantico Quotidiano, 23 giugno 2020)


Non si può essere inclusivi con chi strizza l'occhio al BDS

Intervista a Walker Meghnag

- Walker Meghnagi, lei è stato presidente della Comunità ebraica di Milano, e nelle scorse settimane ha aperto una polemica contro una rivista ebraica. Perché?
  Dal 2018 un nuovo giornale online si è affacciato nel mondo dell'editoria ebraica. Si chiama Joi (Jewish, Open and Inclusive). Essere ebrei, aperti e inclusivi è bella cosa ma a condizione di essere leali con i lettori.

- Cosa le ha dato fastidio di Joi?
  Troppa faziosità che porta a dividere la comunità. Il 28 aprile per esempio è uscito un articolo offensivo verso la memoria dei caduti di Israele (Yom Hazikaron, Israeliani e Palestinesi insieme per un futuro di pace) su cui ho sentito il dovere morale di intervenire visto che riguarda un tema che molto caro a tutti noi: quello di onorare chi ha perso la vita per difendere lo Stato di Israele. In tale occasione JOI a mio parere ha superato il limite della tollerabilità, raccontando ed esaltando una manifestazione estremamente minoritaria avvenuta in Israele nel giorno di Yom Hazikaron.

- Ma come può una manifestazione di pace offendere i caduti di Israele?
  In quell'evento i combattenti delle due parti (israeliana e palestinese) sono stati messi sullo stesso piano. Un po' come se il 25 aprile fascisti e resistenza celebrassero insieme il giorno della Liberazione. Abbiamo potuto approfondire la questione grazie a un articolo uscito in Israele (che abbiamo tradotto qui: Cosa si nasconde dietro lo Yom Hazikaron "alternativo") da cui emerge come l'ente organizzatore sia infiltrato da personaggi dell'ANP che non condannano gli attentati dei palestinesi contro gli ebrei e sostengono il BDS. Mostrano quindi un falso volto "buonista" dietro cui si nasconde il tentativo di delegittimare Israele, perfino nel giorno "sacro" in cui piangiamo i nostri caduti.

- Può essere che la redazione non avesse compreso le gravi conseguenza nel pubblicizzare eventi così strumentali contro Israele?
  A tutti può capitare di sbagliare nel riprendere una notizia, ma a questo punto dopo aver appreso la verità nascosta mi aspetto che Joi e i suoi fondatori prendano le distanze da quell'evento inqualificabile e quella vergognosa pseudo-celebrazione, pubblicando un articolo di rettifica che ribadisca la malafede degli organizzatori dello yom hazikaron alternativo, condannandoli in maniera chiara e inequivocabile.

- A parte questo caso specifico, crede sia comunque opportuno dialogare e essere inclusivi per la pace?
  Si può e si deve essere inclusivi, come accade in Israele dove ricordo che durante la giornata dei caduti vengono ricordati le vittime di tutte le religioni. Ma non si può essere inclusivi con chi dimostra odio verso gli Ebrei, e strizza l'occhio alla violenza e al boicottaggio contro Israele. Peraltro mi pare un'ossessione quella di chiedere sempre e solo a un Paese democratico e tollerante come Israele di dialogare, mentre dall'altra parte continuano tranquillamente a incitare all'odio: dai testi scolastici alle televisioni.

(Kolòt, 23 giugno 2020)


Essere comunità

di Dario Calimani

L'emergenza pandemia è stata un vero dono per le persone sole e per chi vive lontano da una comunità. Mai come in questo periodo si sono succedute, ogni giorno e a tutte le ore, lezioni e conferenze online che hanno accompagnato il nostro isolamento. Ci siamo accorti che si possono condividere curiosità e cultura a cui non sempre abbiamo pensato di poter accedere con tanta facilità. Ci siamo avvicinati moralmente a tanta gente, ci siamo sentiti certamente meno soli, abbiamo partecipato e condiviso. Abbiamo preso coscienza di fare parte di un tutto, e questo è un bene. Ci ha aiutato a superare il momento forse peggiore della crisi. Non siamo soli nella sventura, abbiamo pensato, e quando ne usciremo ne usciremo tutti insieme, attraverso la stessa esperienza e con le stesse ansie e le stesse preoccupazioni.
   E, tuttavia, c'è stato uno scotto pesante da pagare, perché è venuto meno il contatto diretto, è stato compromesso il valore del minian, si sono sfaldati i legami sociali, lo spirito di comunità si è drammaticamente allentato. Riprendere le fila, riproporre il senso dello stare insieme, ricostituire lo spirito di comunità dovranno essere, per le dirigenze comunitarie, la priorità e l'impegno per l'immediato futuro. Il rischio, altrimenti, è quello di lasciar credere che per essere comunità sia sufficiente un collegamento online alle sei di sera.
   La via verso la ripresa non potrà che essere la condivisione totale dei problemi comunitari, l'apertura di un ampio dibattito che ci coinvolge tutti, nello spirito dell'interesse comune più basilare. Un ulteriore passo verso l'indifferibile 'democratizzazione' dei processi progettuali - e magari decisionali - che faccia sentire a tutti di essere parte davvero integrante ed essenziale della comunità cui appartengono. Ora, registrare l'allarme non basta, è necessaria la progettualità. Ne va del nostro futuro.

(moked, 23 giugno 2020)


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La socialità a distanza, purtroppo, funziona

Nell’articolo precedente l’autore, riferendosi alla comunità ebraica, inizia con un elenco particolareggiato di molti aspetti positivi della socialità a distanza provocata dalla pandemia. Ne rifacciamo un elenco:
    lezioni e conferenze online hanno accompagnato il nostro isolamento:
    abbiamo potuto condividere curiosità e cultura:
    ci siamo avvicinati moralmente a tanta gente;
    ci siamo sentiti meno soli;
    abbiamo partecipato e condiviso;
    abbiamo preso coscienza di far parte di un tutto;
    siamo stati aiutati a superare il momento forse peggiore della crisi;
    abbiamo pensato di non essere soli nella sventura.
Che dire di più? Gli evangelici potrebbero aggiungere tanti altri elementi all’elenco. Non c’è che dire: la cosa ha funzionato. Nell’immediato. Ma ci sono rimedi che nell’immediato funzionano, e si vede, ma creano le condizioni per un male futuro, che ancora non si vede. Il guaio è che chi sostiene l’efficacia del rimedio può subito esibire i risultati positivi, che si vedono, mentre chi è convinto della nocività del rimedio non può fare lo stesso, perché i mali ancora non si vedono. Questo è tanto più vero quando nel discorso si fa intervenire un elemento che non compare in nessuna analisi e progetto politico: Dio. Che c’entra Dio? obietta subito l’uomo determinato e decisionista: noi abbiamo un problema tecnico, di enorme gravità certo, ma in primo luogo squisitamente tecnico, ed è con tali armi che dobbiamo affrontarlo: così si deve fare. E così hanno fatto e fanno ancora i politici, che non hanno il compito di fare riferimenti a Dio, anzi hanno il dovere di non farli. Ma sorprende che anche coloro che invece fanno, prima di tutto, riferimenti a Dio, come cristiani ed ebrei, si sono egregiamente inseriti nella corrente della soluzione mediatica senza obiezioni serie legate in modo specifico al loro rapporto primario con Dio. La motivazione fondamentale è stata quella di tutti: funziona. Ma il ricorso prolungato e acritico a questo strumento di sofisticazione di incontri di uomini e donne in carne ed ossa intorno al nome del Signore produrrà, anzi sta già producendo, danni forse irreparabili, anche perché non immediatamente riconoscibili. Se ne dovrebbe parlare, ma non c’è tempo. C'è tanto da lavorare, le cose devono funzionare. M.C.

(Notizie su Israele, 23 giugno 2020)


Israele. Per i Servizi Segreti l'annessione della Cisgiordania va fatta ora

di Luigi Medici

Una recente analisi del ministero dei Servizi Segreti israeliano ha stabilito che questo è il momento migliore per attuare l'annessione di alcune parti della Giudea e della Samaria e della Valle del Giordano. Inoltre, i ricercatori del Ministero non prevedono un'esplosione di violenza e ritengono che le relazioni con i paesi arabi torneranno alla normalità in breve tempo.
  Il documento, ripreso da Israel Hayom, presentato al ministro dei Servizi segreti Eli Cohen presenta i vantaggi dell'iniziativa politica: «L'iniziativa migliora le condizioni di partenza dei futuri negoziati con i palestinesi per Israele e cristallizza il costo del rifiuto palestinese dei colloqui di pace, e quindi potrebbe spingere i palestinesi a tornare al tavolo dei negoziati nel tentativo di fermare ulteriori fasi».
  Secondo gli analisti del Ministero israeliano, le critiche internazionali all'iniziativa diminuiranno dopo un breve periodo di tempo: «Dopo un'ondata di proteste diplomatiche, soprattutto da parte dei governi, l'annessione non solleverà le piazze arabe contro i regimi. L'assenza di mobilitazione nelle strade farà capire ai leader arabi che la questione palestinese non è una minaccia per loro. L'internazionalizzazione di questa visione potrebbe a medio termine fornire una piattaforma per migliorare i legami con Israele, senza aspettare un accordo israelo-palestinese», conclude il documento.
  Di conseguenza, gli analisti del Ministero dei servizi segreti ritengono che la sovranità potrebbe, forse in modo controintuitivo, costringere i palestinesi a tornare ai colloqui di pace con Israele piuttosto che allontanarli ulteriormente: «Dopo un periodo in cui il sistema internazionale si acclimata all'annessione, il provvedimento spingerà i palestinesi e gli altri elementi della regione e del mondo a trovare soluzioni e accordi che non siano appiccicati alle linee del 1967 e soprattutto agli aspetti territoriali», si legge.
  Per quanto riguarda la questione dei tempi, la raccomandazione del documento è di effettuare l'annessione ora piuttosto che aspettare, perché è impossibile sapere come si svolgeranno le elezioni presidenziali americane di novembre. Gli analisti hanno inoltre affermato che «non ci si aspetta un disordine diffuso in Giordania, soprattutto se tale disordine è assente in Giudea e Samaria». Un'altra ragione per una rapida annessione è «l'obiezione dell'Autorità palestinese all'uso della violenza, derivante dal suo stesso interesse esistenziale».
  Altre ragioni per attuare l'iniziativa in questo momento sono «la bassa posizione internazionale dell'Ap a causa della spaccatura con gli Stati Uniti; la mancanza di appetito di Hamas per un altro round di combattimenti; l'apatia dell'opinione pubblica palestinese in Giudea e Samaria, che si preoccupa soprattutto dei problemi della vita quotidiana; la preoccupazione del mondo per la pandemia del coronavirus; e le preoccupazioni più pressanti dell'opinione pubblica araba in patria».

(AGCnews, 22 giugno 2020)


Tehran: trama, cast e curiosità sulla serie TV di Apple TV

di Mara D.

 
Tamar Rabinyan (Niv Sultan)
 
Apple cede alle serie TV israeliane assicurandosi un nuovo ed attesissimo thriller: Tehran. Il gigante americano ha infatti deciso di co-produrre la serie TV drammatica, incentrata sul conflitto iraniano-israeliano ed ideata da Moshe Zonder, già sceneggiatore di Fauda.
Tehran è realizzato da Cineflix Rights e dalla rete israeliana Kan 11, ma Apple TV fungerà anche da servizio di streaming esclusivo.

La trama
Tehran è incentrata su Tamar Rabinyan (interpretata da Niv Sultan), una donna ebrea nata in Iran e cresciuta in Israele nonché agente del Mossad sotto copertura a Teheran. Per portare a termine la sua pericolosa missione, ovvero neutralizzare le difese aeree iraniane in modo che gli aerei da guerra israeliani possano bombardare un reattore nucleare e impedire all'Iran di ottenere la bomba atomica, la donna metterà in grave pericolo tutti coloro che la circondano.

Il cast della serie TV
Il thriller di spionaggio è stato ideato da Moshe Zonder, Dana Eden e Maor Kohn e sarà diretta dal regista Daniel Syrkin (Out of Sight). Il cast di Tehran è composto da:
   • Niv Sultan (The stylist) nei panni della protagonista
    • Shaun Toub (Homeland) nel ruolo di Faraz Kamali
    • Esti Yerushalmi (Florentine) in Arezoo
    • Arash Marandi in Ali
    • Moe Bar-El (Le Bureau - Sotto copertura) nel ruolo di Karim
    • Navid Negahban (Homeland) in Masoud Tabrizi
    • Liraz Charhi (Eifo Ata Hai) nei panni di Yael Kadosh
    • Menashe Noy (Our Boys) nel ruolo di Meir Gorev
    • Shervin Alenabi (Le Bureau - Sotto copertura) in Milad

La data di pubblicazione
La prima stagione sarà composta da otto episodi e sarà presentata in anteprima in Israele il 22 giugno 2020. Ad oggi non è però ancora stata comunicata la data di uscita americana e internazionale.
Non è ancora disponibile un trailer di Tehran della serie TV.

(Telefilm Central, 22 giugno 2020)


Israele. Nuova ondata di contagi

L'attività del Centro Santa Rachele per i migranti

Seconda ondata di contagi da coronavirus in Israele dove il ministero della Sanità ipotizza di chiedere nuovamente ai servizi di sicurezza interna, lo Shin Bet, di tracciare le persone contagiate e i loro spostamenti per impedire che l'epidemia si diffonda ulteriormente. Secondo quanto riporta Terrasanta.net, "gli ospedali sono stati posti nuovamente in preallarme e si discute se reintrodurre o meno restrizioni. Il governo puntava sulla data del primo agosto per riaprire gli aeroporti ai flussi turistici, ma i dati di questi giorni interrogano.
   Anche nei Territori Palestinesi si registrano nuovi casi: sorvegliate speciali le città di Hebron e Nablus. Da febbraio alla data del 21 giugno i contagiati complessivamente rilevati in Israele sono 20,734; 306 i morti. Nei Territori palestinesi di Cisgiordania, sono 810 i positivi; 2 i defunti. Nella Striscia di Gaza, 72 positivi e un decesso".
   Intanto il sito del Patriarcato Latino di Gerusalemme presenta un resoconto sul trascorso periodo di 'isolamento' del Centro Santa Rachele (distretto Talbieh, Gerusalemme), nato nel 2016 e che accoglie i bambini dei migranti cattolici e richiedenti asilo in Israele. Il centro, che fa capo al vicariato di San Giacomo per i cattolici di lingua ebraica in Israele, è stato costretto a chiudere i battenti a metà marzo, nel rispetto delle misure adottate dalle autorità civili per il contenimento del virus.
   Tuttavia per dare modo ad alcune famiglie di migranti e rifugiati (indiani e filippini) particolarmente vulnerabili per alloggio e povertà, e quindi più esposte al rischio contagio, hanno accolto nelle due case del Centro nove bambini e le loro madri, disponendo il rispetto delle regole sanitarie imposte dal governo. Il Centro ha garantito anche la didattica a distanza ai bambini e lanciato una raccolta fondi tra le comunità cattoliche di espressione ebraica per garantire l'aiuto. La pandemia, infatti, ha creato gravi problemi economici per i migranti e i richiedenti asilo. Durante questo tempo di 'quarantena' sono stati distribuiti kit antistress ai genitori dei bambini. Il kit, preparato da IsraAid, un'organizzazione israeliana la cui missione è sostenere le persone colpite dalla crisi umanitaria, conteneva una lettera di spiegazione in arabo e tigrino, una pianta di menta, una palla morbida, carte da gioco, colori e altri oggetti pensati per i momenti di pressione e stress. È stata celebrata messa due volte a settimana nel parco giochi del Centro sempre nel rispetto delle regole sanitarie (mascherina e distanziamento sociale). Anche l'amministratore apostolico del Patriarcato latino, mons. Pierbattista Pizzaballa, ha fatto visita al Centro dove ha celebrato messa.

(SIR, 22 giugno 2020)



Gerusalemme da scoprire

Dopo l'apertura di parchi, ristoranti, spiagge e luoghi santi è ora la volta di Gerusalemme che lentamente ritorna ad offrire la possibilità di visitare i suoi straordinari siti e i suoi imperdibili luoghi, sempre seguendo le precise regole del distanziamento.
   La città si sta infatti preparando per poter essere riscoperta in tutti i suoi molteplici aspetti: eccezionale per la storia millenaria che la caratterizza, ma anche per l'offerta culinaria, per un patrimonio museale di grande fama mondiale, per gli hotel di alta classe e per il sempre costante rispetto dell'ambiente e della natura.
   Gerusalemme risulta poi essere la terza destinazione più sicura la mondo a seguito della crisi aperta dalla diffusione del Covid19.
   E' stata poi scelta da TripAdvisor come la quarta destinazione turistica più promettente al mondo, dichiarata tale dal suo stesso fondatore e CEO Stephen Kaufer "destinazione preferita".
   Oltre che per la sua storia millenaria, Gerusalemme è emersa come destinazione di grandissima importanza dal punto di vista culinario, riuscendo così ad essere collocata nel 2017 come una delle 50 migliori location al mondo scelte per viaggiare con questa finalità e una delle 10 città più consigliate in assoluto.
   Inoltre, sia Harper's Bazaar che Conde Nast Traveler inseriscono gli hotel di Gerusalemme nelle loro liste per le scelte relative ad hotel di lusso. Ora la città sta aspettando che i turisti ritornino a fruire dei suoi luoghi: tutte le esperienze sono disponibili secondo le vigenti norme stabilite dal Ministero della Salute, rigorose quanto necessarie, al fine di garantire che i turisti di Gerusalemme si sentano sicuri e ovunque a proprio agio. Questa classifica è stata stilata a seguito della ricerca realizzata dalla Deep Knowledge Ventures che ha studiato il comportamento di 200 Paesi in tutto il mondo durante la crisi covid-19 e ha classificato Israele al terzo posto come uno dei paesi più sicuri.
"Gerusalemme si sta preparando ad accogliere nuovamente i turisti provenienti da tutto il mondo. Un viaggio in Israele rappresenta spesso un sogno per migliaia di persone desiderose di conoscere la Terra dove tutto ha avuto inizio e Gerusalemme costituisce il diamante delle bellezze di Israele, irrinunciabile, affascinante, in un percorso di viaggio che si snoda dentro e fuori ciascun visitatore",
ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo.
   Ad oggi sei hotel sono già aperti: Alegra, Waldorf Astoria, Leonardo Plaza, Post-Hostel, Prima Kings e Arthur per un totale di 762 camere. Questo significa che già oggi sono disponibili alloggi di tutti i tipi: ostelli, hotel di lusso, hotel boutique. Questa settimana dovrebbero aprire altri due hotel: Inbal e Ramat-Rahel. Durante il mese di luglio è prevista la riapertura di altri sei hotel, tra cui: Mamilla, David Citadel, Orient, King David, Leonardo e Abraham per un totale di 1516 camere. Ad agosto altri 5 hotel si uniranno al gruppo: s Ibis, Dan Gerusalemme, Olive's tree e Herbert Samuel per un totale di 1171 camere: il che significa che in estate quasi 4000 camere di tutti i tipi saranno disponibili a Gerusalemme.
   Circa tre settimane fa, i ristoranti sono stati nuovamente aperti al pubblico, pur mantenendo le restrizioni imposte dalle regole Covid19. Insieme alla maggior parte dei ristoranti di questo gioiello culinario che è Gerusalemme ha riaperto anche il suggestivo mercato Mahane Yehuda, un vero paradiso per la sua offerta di cibo.
   Tra le regole relative al distanziamento: la presenza contemporanea di non oltre 100 clienti. I ristoranti con una disponibilità fino a 100 posti avranno una percentuale di occupazione dell'85% mantenendo tra i tavoli una distanza di 1,5 metri. Sarà oltremodo consigliato prenotare in anticipo così da verificare l'effettiva disponibilità nel rispetto della normativa attuale e delle regole di igienizzazione previste.
   Tanto per i musei quanto per le attrazioni in generale sarà possibile effettuare prenotazione e pagamenti in anticipo. Alcune attrazioni all'aperto sono già disponibili, tra cui la suggestiva Colonia degli Artisti. Tutte le gallerie sono aperte così come la suggestiva passeggiata lungo le mura, il Zedekiah's tunnels, l'anfiteatro Givat Ram, l'Ammunition Hill. La Biblioteca nazionale, lo Zoo biblico e l'Acquario sono aperti con però richiesta di prenotazione anticipata, così come la Valle delle Gazelle, i Giardini Botanici, i quartieri di Ein Karem e Yamin Moshe, incluso il celeberrimo mulino, e tutta l'area della First Station insieme all'Hansen House: tutto risulta regolarmente aperto e visitabile. Tra i musei aperti e i siti archeologici: la città di Davide e le passeggiate dell'area esterna e tutte le aree all'aperto, la Torre di Davide con il suo celeberrimo spettacolo di suoni e luci e persino una nuova mostra, il Tunnel del muro occidentale e naturalmente il Muro (Qotel) il museo Hertzel, il Museo di arte islamica, il Museo della Musica, il Museo della Natura e il Museo del Sionismo.

 Gerusalemme si prepara poi per i sui prossimi eventi internazionali.
  La "cucina" del Wohl Rose Park è tornata in attività, tutti i giorni fino alle 17:00 e giovedì fino a mezzanotte con appuntamenti diversi. Lo yoga a Guy-Ben-Hinom ha luogo per esempio ogni venerdì. Il food truck a Guy-Ben-Hinom sarà aperto a partire da luglio ogni settimana da martedì a giovedì.
  Il Festival di Opera Lirica di Gerusalemme si terrà dal 06 luglio al 02 agosto. A luglio avranno luogo anche il Festival d'arte di Gerusalemme, il Beer-Garden alla prima stazione. Il famoso festival del cinema avrà luogo come di consueto alla fine di agosto, tra il 20 e il 30 agosto 2020. Il festival più popolare della città, Open Restaurants, si terrà a novembre o dicembre (TBT) e Open House si svolgerà dal 29 al 31 ottobre p.v.

(JamesMagazine, 22 giugno 2020)


Il rabbino capo degli ebrei iraniani: al contrario dell'Europa, in Iran gli ebrei vivono sicuri

TEHERAN - Il rabbino capo degli ebrei iraniani Yehuda Gheramì ha affermato che la sicurezza degli ebrei in Iran è davvero ottima aggiungendo: "Al contrario dell'Europa, in Iran, non c'è bisogno della presenza delle forze di sicurezza per fare la guardia alle scuole ed ai luoghi di culto ebraici".
Intervistato dalla rete Al-Monitor, Yehuda Gheramì ha spiegato che oggi 25 mila ebrei vivono nelle diverse città dell'Iran e che hanno libertà di culto assoluta e che non trovano alcuna restrizione per le loro cerimonie religiose.
Gheramì ha sottolineato che i musulmani dell'Iran hanno un grande rispetto degli ebrei.
Gheramì ha poi ricordato che il regime sionista non è rappresentante degli ebrei del mondo e che il governo israeliano, si è allontanato moltissimo dai precetti dell'ebraismo con le sue azioni.
Gheramì ha ricordato inoltre che gli ebrei iraniani ritengono importantissima l'opera del martire Soleimani, che con la sconfitta dell'ISIS, ha tenuto lontano dai confini iraniani questo terribile gruppo terroristico.

(ParsToday, 22 giugno 2020)


Politica israeliana: quando l'instabilità è regola

di Ugo Volli

Sarà una conseguenza dell'epidemia, ben lungi dall'essere conclusa ma che in molti paesi si è allentata abbastanza da lasciar spazio anche ad altri pensieri. O sarà il fatto che le questioni non risolte e lasciate da parte per alcuni mesi, come le elezioni americane, la Brexit o il Piano Trump tornano fuori secondo i loro tempi. Fatto sta che vi sono situazioni di instabilità e di tensione in molti importanti sistemi politici. Le violente manifestazioni che hanno devastato parecchie città americane in seguito alla morte di un arrestato non erano solo ira spontanea per la violenza della polizia, ma sono state sfruttate per cercare di mettere in svantaggio la campagna di Trump per la rielezione.
   In Italia dopo il momento della (molto discutibile) gestione dell'emergenza da parte del governo Conte, riemergono le tensioni politiche fra le forze che lo sostengono e l'assenza di una linea politica condivisa.
   In Israele, il nuovo governo Netanyahu-Gantz, nato chiaramente nella diffidenza reciproca fra i partner, non ha avuto che pochi giorni di tranquillità e ora è di nuovo nella burrasca. I temi sono due: uno è la volontà di Netanyahu di approfittare dell'occasione storica per estendere la sovranità israeliana sugli insediamenti ebraici di Giudea e Samaria e sulla valle del Giordano - territori entrambi strategici per Israele e senza una rilevante popolazione araba, su cui Gantz e il suo vice Askenazy invece frenano. Gli accordi di governo prevedono che Netanyahu possa far passare l'iniziativa anche senza l'accordo dei Bianco-Azzurri, e la maggioranza ci sarebbe, ma gli Usa vorrebbero un consenso più ampio e Netanyahu ha minacciato di andare alle elezioni.
   Un altro tema, legato a questo, è legato al bilancio dello stato, che Gantz vorrebbe biennale, per prevenire le elezioni, e Netanyahu annuale, per tenersi le mani libere e soprattutto perché non ha senso impostare un budget lungo quando non si conoscono le conseguenze economiche dell'epidemia. La turbolenza politica insomma è ripresa in Israele e non cesserà tanto presto, perché l'accordo di governo era più una scelta tattica che un programma comune.

(Shalom, 21 giugno 2020)


Hezbollah minaccia di attaccare luoghi in tutta Israele con missili guidati

Hezbollah ha minacciato di bombardare Israele con estrema precisione usando missili guidati.



Un video pubblicato dal gruppo militante libanese sembra mostrare le coordinate di siti sensibili in Israele e nei territori palestinesi che potrebbero essere presi di mira in caso di attacco.
  Con una voce fuori campo fornita dal leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, nel video si afferma che il gruppo è in grado di bombardare "obiettivi molto specifici a Tel Aviv e in qualsiasi parte della Palestina occupata".
  Il video di 39 secondi termina con lanci di missili che emergono da sotto il terreno. Una didascalia in ebraico e arabo recita "Qualunque cosa tu faccia per bloccare la strada - è finita, fatta e completata", come tradotto da The Times of Israel.

 Cos'è Hezbollah?
  Hezbollah ("Partito di Dio" in arabo) è stato fondato nel 1982 a seguito del consolidamento delle milizie sciite con l'obiettivo di cacciare le forze israeliane dal Libano meridionale. Il gruppo ha acquisito una maggiore influenza politica in Libano dal ritiro d'Israele dal paese nel 2000, e fa parte del governo libanese dal 2005.
  Hezbollah ha combattuto una guerra di breve durata con Israele nel 2006 che ha visto migliaia di razzi colpire il nord d'Israele, e da allora è rimasto ostile verso Israele e la sua alleanza con gli Stati Uniti.
  L'esercito israeliano considera Hezbollah, designato in Israele come un gruppo terroristico, un agente dell'Iran (Nasrallah ha ammesso in passato che l'organizzazione dipende fortemente dai finanziamenti di Teheran).
  Hezbollah ha circa 150.000 razzi e missili con diverse gittate, secondo le valutazioni militari israeliane, anche se il numero esatto di missili di precisione rimane sconosciuto. Nasrallah si è vantato il mese scorso che il suo gruppo ha "abbastanza missili guidati con precisione in Libano per qualsiasi scontro, piccolo o grande".
  Si ritiene che l'arsenale del gruppo sia stato acquistato dall'Iran o prodotto sul suolo libanese. Nell'agosto 2019, le forze di difesa israeliane hanno affermato di aver esposto tre comandanti iraniani che presumibilmente lavoravano con Hezbollah per fabbricare missili a guida di precisione. Nasrallah ha risposto al momento in cui il gruppo non ha strutture per fabbricare tali missili e lo confermerebbe apertamente se lo facesse.
  Lo scorso settembre, Israele e Hezbollah hanno visto i loro peggiori scontri da anni dopo che Hezbollah ha lanciato vari razzi anticarro su posizioni dell'Esercito di difesa israeliano lungo l'area di confine controversa nel nord di Israele in rappresaglia per un attacco con droni israeliano a Beirut.

(Sputnik Italia, 21 giugno 2020)


In Israele salgono i contagi, 443 in due giorni

Il governo Anp ordina la chiusura di Hebron e Nablus

Il numero dei casi positivi di coronavirus è salito in Israele da venerdì mattina di 443 unità, portando così la cifra complessiva aggiornata a 20.686. Lo ha riferito il ministero della sanità secondo cui le guarigioni sono state finora 15.664. I malati assommano a 4.716, 209 dei quali sono ricoverati in ospedali e 28 di essi sono in rianimazione. I decessi sono 305.
Alla luce della accelerazione dei contagi, oggi avrà luogo una consultazione straordinaria dei direttori generali del ministeri impegnati nella lotta alla epidemia mentre domani il premier Benyamin Netanyahu presiederà una riunione del 'Gabinetto del coronavirus'.
Anche la Autorità nazionale palestinese è impegnata a contenere la ripresa della pandemia dopo che il numero dei casi positivi ha quasi toccato la cifra complessiva di 1.000 in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza. In Cisgiordania - riferisce la agenzia Wafa - il premier Mohammed Shtayeh ha ordinato la chiusura per cinque giorni di Hebron e di due giorni di Nablus. Ha inoltre vietato da oggi lo svolgimento di matrimoni e di altre riunioni pubbliche.

(ANSAmed, 21 giugno 2020)


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Israele, aumento dei contagi da Covid-19. "Prepariamo i nostri ospedali"

Gli ospedali israeliani si preparino con urgenza a riaprire i reparti per i pazienti contagiati dal coronavirus. È il messaggio inviato nelle scorse ore dal ministero della Salute d'Israele ai direttori degli ospedali del paese. Sale infatti la preoccupazione alla luce del progressivo aumento dei contagi da Covid-19 e il paese prende le sue precauzioni. Parlando nella riunione settimanale del governo, il Primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito scure le previsioni legate ai dati dei contagi e fatto un appello alla cittadinanza a cambiare le proprie abitudini per evitare ulteriori lockdown. "Se non cambiamo immediatamente il nostro comportamento riguardo alle mascherine e al rispetto del distanziamento sociale, dovremo tornare alla chiusura", ha detto Netanyahu, parlando nuovamente della necessità di "appiattire la curva".
"Non abbiamo altra scelta se non quella di osservare una politica responsabile e informata, che ci permetterà di riaprire l'economia e di tornare alla normalità ai tempi del coronavirus", le parole del Premier. Sembra così ulteriormente spostarsi la possibilità di riapertura dei confini del paese agli arrivi dall'estero, in particolare ai voli commerciali. "Il virus continuerà ad accompagnarci per il prossimo anno e mezzo: non dobbiamo essere isterici", il messaggio di Benny Gantz, ministro della Difesa e primo ministro alternativo.

(moked, 21 giugno 2020)


Maccabi ad un passo dal titolo israeliano

Hapoel-Maccabi 0-2, ma lo stadio è comune fra le due squadre a Tel Aviv

Nel derby della città di Tel Aviv, l'attuale campione in carica e leader della classifica Maccabi ha sconfitto "in trasferta" l'Hapoel 2-0 e si è avvicinato ancora di più alla difesa del titolo.
La rivalità cittadina è basata sul fatto che i due club hanno basi di supporto diverse. L'Hapoel è più legato alla classe operaia, mentre il Maccabi è considerato un club più borghese. Entrambe le squadre giocano al Bloomfield Stadium. Quando l'Hapoel Tel Aviv è la squadra di casa nel derby sono riservate ai tifosi avversari le tribune 10-11. Quando il Maccabi Tel Aviv è la squadra di casa, le tribune 4-5 sono riservate ai fan dell'Hapoel.
Con il 2-0 nel derby, il Maccabi di Vladimir Ivi? ha interrotto una serie di due partite senza vittoria. L'Hapoel ha resistito a lungo, più precisamente fino al 72esimo minuto, quando la sua difesa è fatalmente crollata. Il gol del vantaggio è stato segnato da Rikan e gli ospiti hanno tratto ulteriore slancio ed energia da questa rete, tanto che hanno raddoppiato nei minuti di recupero con Almog.
Con questa vittoria, il Maccabi ha rafforzato il suo primo posto e ha 75 punti, 12 in più rispetto al Maccabi Haifa. Teoricamente, la squadra di Vladimir Ivi? potrebbe assicurarsi il titolo nel turno successivo. LHapoel è quinto con 45 punti.

(La Gazzetta dello Sport, 21 giugno 2020)



Dio uccide: uno scandalo dei nostri tempi

L'articolo che segue è stato scritto più di trent'anni fa. Era rivolto soprattutto al mondo evangelico, che già da allora cominciava a subire l'influenza ideologica di una società che si dice laica con radici ebraico-cristiane, mentre si rivela sempre più come una società anticristiana con influenze pagano-libertine.
Il titolo dell'articolo è quello originale: era scandaloso allora e lo è tanto più oggi. Ma se confronto con questa società ci deve essere, allora deve avvenire sulle cose importanti. E nella fede cristiana le cose più importanti, anzi fondamentali, sono questioni di vita e di morte.


di Marcello Cicchese

Temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere                
di gettare nella geenna. Si, vi dico, temete lui
(Luca 12:5).

La società in cui viviamo è una società laica, ma non antireligiosa. Potremmo anzi dire, con l'apostolo Paolo, che è "fin troppo religiosa", perché è disposta a concedere spazio a tutti i tipi di religiosità, nella convinzione che ogni forma di fede può essere portatrice di valori che contribuiscono a promuovere la dignità umana. Naturalmente, una data religiosità è tanto più apprezzata quanto più si accorda con gli obiettivi di progresso che sono già presenti nelle coscienze più sensibili.
   Si può spiegare così la particolare attenzione che il mondo laico italiano ha cominciato a rivolgere, negli ultimi anni, all'ambiente delle chiese evangeliche, e soprattutto a quello delle chiese storiche che naturalmente sono le più raggiungibili dalla società organizzata. Al contrario della chiesa cattolica, la cui immagine classica resta quella di un'organizzazione religiosa che appoggia la conservazione nella politica e nei costumi, il mondo evangelico si presta bene ad essere inserito in un progetto di promozione umana a cui sono invitate a concorrere le più svariate componenti politiche e culturali.
   E' inutile negarlo: come evangelici, la cosa ci lusinga. Essere presi in tanta considerazione dopo secoli di infamante emarginazione, non può che farci piacere.
   Però, c'è anche il rovescio della medaglia. Questa società laica e plurireligiosa ha i suoi inespressi canoni di valutazione, e non sembra disposta a rinunciarvi tanto facilmente. Prendiamo, per esempio, il problema della sofferenza, e chiediamoci come viene sentito e vissuto nell'uomo medio di oggi.
   Venuti meno i grandi ideali del passato, in nome dei quali si potevano richiedere sacrifici personali e, nei casi estremi, anche il sacrificio supremo della vita, l'ideale odierno sembra essere quello di vivere il meglio possibile, con il massimo di soddisfazioni personali e il minimo di guai. Per dirla con parole più eleganti, l'obiettivo che si persegue è quello di una migliore qualità della vita, di una vita più "umana" sotto tutti gli aspetti. In questa prospettiva, la sofferenza non occupa alcun posto positivo. Anzi, essendo di fatto scomparsa ogni superiore legittimazione della sofferenza, è proprio la sofferenza stessa, sociale e privata, ad essere divenuta l'avversario numero uno dell'umanità. Le battaglie giuste sono quelle che mirano a diminuire la somma delle sofferenze umane; l'eroe è colui che nella sua lotta contro la sofferenza pensa più alla collettività che a sé stesso; il cattivo è colui che accresce le sofferenze altrui per voler diminuire le proprie; la lotta per la giustizia è il tentativo di sanare questi squilibri e ottenere una vita più "umana" per tutti. Naturalmente, non per tutte le sofferenze degli uomini si può trovare l'origine in qualche persona o in qualche sistema politico: esistono anche, come tutti sanno, le malattie e le catastrofi naturali. Se le sofferenze provocate dall'uomo si combattono con la politica, le sofferenze provocate dalla natura si combattono con la scienza. Quindi, il militante politico e lo scienziato costituiscono i moderni sacerdoti della nostra società laica. Il compito che si richiede alle comunità religiose è soprattutto quello di procurare militanti politici fidati e coscienziosi e scienziati seri e preparati. Tutto il resto religioso non interessa: fa parte di quel folclore che va rispettato e mantenuto perché rende vario il paesaggio e meno monotona la vita, ma non ha alcuna diretta rilevanza sociale.
   Anche la nostra variopinta "protestanticità" è folclore: non facciamoci illusioni. Possiamo perfino arrivare ad essere ricercati per quel quid di esotico che ci può rendere attraenti, ma questo non significa che la gente sia veramente interessata a quello che ci sta più a cuore. Certo, il nostro Dio si presenta più moderno e meno invadente di quello del Papa, e inoltre dalle nostre file escono non pochi di quei sacerdoti laici di cui si diceva sopra. Possiamo dunque anche essere apprezzati e stimati, e tuttavia non essere presi in seria considerazione come credenti. Perché, per dirla con parole brute, nella cultura progressista della nostra società, Dio serve solo nella misura in cui si presta ad essere un generatore di energia per le persone impegnate nella lotta contro il male, visto sempre nella forma di sofferenza.
   Tra i mali dichiarati, e purtroppo invincibili, c'è ovviamente la morte. L'uomo cerca di fare il possibile per limitarne gli effetti negativi, e naturalmente si aspetterebbe di avere Dio dalla sua parte. Non potrebbe, anzi, un Dio onnipotente e buono porre rimedio al problema della morte? Quante volte questa domanda si è ripetuta, in un atteggiamento di ribellione, davanti ad una bara! E' chiaro che per chi ragiona così la morte costituisce uno degli ostacoli più seri all'accettazione dell'"ipotesi-Dio". La parte migliore dell'umanità sta combattendo contro oscure e caotiche forze che degradano l'uomo e lo mantengono nei travagli: dov'è allora quel Dio che dovrebbe darci una mano nella nostra lotta per una vita più umana e che invece scompare dietro una maschera macabra ogni volta che sembra di averlo intravisto?
   Ed ecco allora lo scandalo, l'elemento non integrabile nella cultura della nostra società laico-plurireligiosa: per la fede cristiana è proprio Dio che fa arrivare all'uomo sofferenza e morte. "Dio uccide" è la forma volutamente urtante che si può dare a questa indiscutibile verità biblica.
    "Temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella geenna. Si, vi dico, temete lui" (Luca 12:5).
A questo punto dobbiamo aspettarci che i moderni ateniesi che con molta urbanità s'intrattengono con noi nell'Areopago (Atti 17:16-34) ci rispondano di non avere tempo per stare a sentire simile cose. C'è tanto da fare per risolvere i problemi di questo mondo che non è il caso di attardarsi a esaminare gelide visioni religiose che invece di liberare l'uomo sembrano volerlo mantenere incatenato alle sue paure, magari per poterlo dominare meglio.
   Le obiezioni di queste persone benintenzionate sono, dal loro punto di vista, legittime. Ma è il loro punto di vista che è sbagliato. Perché non è quello di Dio. Dio considera la morte come la giusta, inevitabile sorte che sopravviene all'uomo che, peccando, si è staccato da Lui, che è il donatore della vita. Ogni funerale, quindi, dovrebbe essere vissuto in uno spirito di contrizione, perché in esso si rinnova il giudizio di Dio su tutti noi, uomini peccatori.
   Nella sua natura, la morte esprime il contrario di ciò che Dio è; ma essa non è una potenza che si possa opporre al volere di Dio. Questo significa che non si esce mai dall'ambito di ciò che Dio permette, nemmeno nella sofferenza, nemmeno nella morte. Dio non rinuncia a far agire la morte al servizio dei suoi progetti. Egli l'aveva detto: "Nel giorno che tu ne mangerai, certamente morrai" (Genesi 2:17). E dopo il peccato dell'uomo ripeté: "Sei polvere, e in polvere ritornerai" (Genesi 3:19). E fu sempre Dio che alla donna disse: "Moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori del.la tua gravidanza" (Genesi 3: 16); e all'uomo disse: "Mangerai il pane col sudore del tuo volto" (Genesi 3:19).
   Non è linguaggio poetico, questo. Anzi, è proprio nelle sofferenze concrete e davanti alla morte vera che dobbiamo ricordare queste parole e chiederci quale valore hanno per noi. L'istinto alla ribellione è più che mai comprensibile; ma si tratta di vedere se siamo disposti ad ascoltare anche il resto di quello che Dio ha da dirci sull'argomento, o se la nostra ribellione ci spingerà ad allontanarci sempre di più da Lui.
   Dalla Scrittura sappiamo che la sentenza di morte non fu l'ultima parola che Dio pronunciò sull'uomo. La Bibbia intera è il racconto di ciò che Dio ha fatto per strappare l'umanità dalle conseguenze del suo peccato, cioè dalla morte. Dio non è rimasto lontano, nella sua posizione di giudice, ma ha voluto fare Egli stesso, nel suo Figlio, l'esperienza della morte per renderci partecipi di una nuova vita nella risurrezione di Gesù Cristo. Egli ha potuto vincere la morte e la sofferenza perché vi ha partecipato, ma senza peccare. Infatti, il nemico vero dell'uomo era ed è il peccato che lo divide da Dio, non la sofferenza, e neppure la morte, che ne sono conseguenze.
   Se Gesù avesse partecipato attivamente al peccato, avremmo avuto un peccatore in più a farci compagnia, ma non avremmo avuto alcuna speranza di salvezza, né per il singolo né per la società. Ma poiché Cristo non ha partecipato attivamente al peccato, le sue sofferenze e la sua morte non l'hanno strappato alla comunione col Padre, ma anzi ci hanno procurato quella riconciliazione con Dio che è la cosa di cui abbiamo urgente bisogno.
   Forse a qualcuno questi discorsi suoneranno troppo teorici, troppo astratti. Si chieda allora che cosa è per lui veramente reale, e quale posto occupa Gesù Cristo in questa realtà.
   Il realismo positivo degli uomini di buona volontà della nostra società laica si arresta davanti alla morte. L'estremo tentativo è quello di integrarla dolcemente tra le altre realtà della vita e di toglierle così il suo aspetto irrazionale e inquietante. Questo è comprensibile, perché non si può sopportare la contrapposizione radicale tra morte e vita se non si è disposti ad accettare la tensione evangelica tra peccato e redenzione.
   C'è da chiedersi se anche noi cristiani non abbiamo perso di vista l'aspetto tragico dell'opera di salvezza di Dio. Si direbbe che non siamo più capaci di esprimere la nostra fede nelle forti e contrastate tinte del giudizio e del perdono, della morte e della risurrezione. Ci siamo abituati ad usare uno stile uniforme, che può essere educatamente pio, o morbidamente progressista, o unilateralmente rivoluzionario. E così restiamo scandalizzati tutte le volte che dalla Scrittura ci arrivano parole che hanno un suono strano per le nostre orecchie. La parola del vangelo può diventare anche per noi un parlare duro, a cui cerchiamo di imporre le briglie delle nostre molteplici mediazioni intellettuali.
   Servire l'uomo nelle sue necessità, mostrargli l'amore di Dio nella dedizione rivolta a lenire le sue sofferenze, fa indubbiamente parte del mandato evangelico. Predicare il messaggio di grazia che annuncia la salvezza gratuita in Gesù Cristo, fa ugualmente parte del mandato evangelico. Ma questi due modi di andare verso gli uomini, che spesso dividono la cristianità proprio là dove invece dovrebbe rimanere unita, risultano insufficienti, e possono addirittura diventare fuorvianti, se manca l'annuncio del giudizio di Dio sull'uomo peccatore. L'apostolo Paolo, che per noi evangelici è l'interprete più significativo del messaggio di grazia del vangelo, non teme di apparire troppo moralista quando espone i suoi elenchi di peccati:
    "Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il reqno di Dio? Non v'illudete: né i fornicatori, né gl'idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né gli oltraggiatori, né i rapinatori erediteranno il regno di Dio" (I Corinzi: 6:9-10).
Per chi vuole deliberatamente continuare a camminare in opposizione alla volontà di Dio non c'è speranza di soluzione ai suoi problemi, né in questa vita né dopo. Chi ragiona diversamente, fosse anche un dotto teologo universalista o un moderno psicologo progressista, s'illude: questo dice la Scrittura. Se qualcuno non è convinto e vuole scommettere contro, lo faccia. Ma a suo rischio e pericolo.
    "Non v'ingannate: non ci si può beffare di Dio; perché quello che l'uomo avrà seminato, quello pure mieterà. Perché chi semina per la sua carne, mieterà corruzione dalla carne; ma chi semina per lo Spirito, mieterà dallo Spirito vita eterna" (Galati 6: 7-8).
Questo solenne avvertimento è tanto più necessario oggi, in una società in cui si pensa di avere il diritto alla felicità e si sente come un intollerabile sopruso, commesso dagli uomini o da Dio, tutto ciò che si frappone al suo raggiungimento. E' giusto contribuire ad alleviare le sofferenze umane, ma bisogna anche saper spiegare perché non potremo mai riuscirci del tutto. Non ci riusciremo perché Dio stesso non l'ha voluto. Non ha voluto che l'uomo potesse trovare pace senza di Lui, e ha lasciato su questa terra dei segnali premonitori del suo giudizio: la sofferenza e la morte.
   Ma ha preparato anche una via d'uscita: Gesù Cristo.
   Sarà Lui, dunque, il centro del messaggio di perdono, di salvezza e di liberazione che porteremo agli uomini. Ma questo messaggio di grazia ha ancora oggi bisogno di quel severo pedagogo che è la legge. Perché in questo senso, non dimentichiamolo, anche la legge che uccide fa parte del vangelo.

(Credere e Comprendere, giugno 1985)

 

Gli ebrei furiosi con l'Anpi: "Diffonde fake news". E dov'è la novità?

di Mauro Costa

L'Anpi Roma diffonde fake news. Lo sapevamo, anche l'Anpi nazionale lo fa. Ma stavolta l'accusa viene da una fonte insospettabile. Da Shalom.it, il magazine della comunità ebraica di Roma. Scrive la rivista: "L'Anpi ha convocato per il 27 giugno una manifestazione a sostegno della nascita di uno Stato palestinese. Lo ha fatto corredando su Fb la convocazione con un'ignobile cartina geografica, in circolazione peraltro da tempo immemorabile, che costituisce un clamoroso e deliberato falso storico. La cartina in questione indica le aree palestinesi e quelle israeliane a partire dal 1946. Ossia quando Israele ancora non esisteva, sino ad oggi, giocando sull'equivoco tra la Regione Palestina e uno Stato palestinese che non è mai esistito".

 Fake news giustificate da propaganda antisemita
  La comunità ebraica romana ha risposto con comprensibile indignazione. "E' difficile invocare l'antifascismo come valore universale - ha dichiarato la Presidente della Comunità Ruth Dureghello - quando l'Anpi Roma diffonde fake news certificate della propaganda antisemita come questa cartina. Chi usa l'antifascismo in maniera provocatoria e strumentale fa un danno alla memoria e alla democrazia". Dure e a ragione provocatorie anche le parole di Ruben Della Rocca, vicepresidente della Comunità: "Se poi ci spiegano questo fantomatico Stato di Palestina quale sia, visto che non è mai esistito nella storia della umanità ci fanno un piacere. Come fantomatica è una cartina che non identifica Gerusalemme come capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele".

 Shalom: Anpi disonesta nell'approccio alla vicenda
  Insomma, a quanto pare l'Anpi ha deciso di cancellare la cartina, aggiungendo però un commento oltre modo offensivo, in cui i sedicenti eredi della lotta partigiana assicurano di non aver mai avuto "parole irrispettose nei confronti del mondo ebraico". Del quale però evidentemente ritengono che lo Stato di Israele non faccia parte. Secondo Shalom però "onestà vorrebbe però che, anche difendendo una causa, si rispettassero criteri di onestà e riferimenti alla realtà storica. Il problema di quelle cartine ignobili non si può superare semplicemente cancellandole da un post. Perché il punto davvero critico è proprio che quelle immagini bugiarde rispecchiano un approccio disonesto alla vicenda israelo-palestinese".

 Furono i palestinesi a rifiutare la pace nel 2000…
  La rivista ricorda che nel 2000 gli accordi di Camp David, che avrebbero permesso la nascita di uno Stato palestinese con capitale la "Gerusalemme cosmopolita" furono respinti dall'Anp di Yasser Arafat. E non dallo Stato di Israele. Se L'Anpi non fosse vittima di frequenti amnesie sarebbe meglio per tutti e in particolare per l'Anpi stessa. A tutt'oggi le posizioni delle forze palestinesi tradotte a beneficio degli occidentali e quelle in lingua originale sono sideralmente distanti. Ognuno manifesta con chi vuole, e se un'associazione che si dichiara partigiana e di "avere per nemico solo il nazifascismo" vuole manifestare con chi dei nazifascisti è stato un tempo amico e alleato e ancora oggi ne condivide i codici antisemiti è un problema dell'Anpi. Un problema grosso però…

(7Colli, 20 giugno 2020)


"L'altro volto di Israele" che trasporta bambini palestinesi malati in Israele per curarsi

di Daniele Rocchi

Yval cammina avanti e indietro dentro il terminal di Erez, punto di passaggio pedonale tra Israele e la Striscia di Gaza, guardando continuamente il suo smartphone per controllare chiamate e messaggi in arrivo. Il suo andirivieni non insospettisce i militari israeliani che sorvegliano a vista l'area. Qui Yval è oramai un volto conosciuto. Sono in molti a salutarlo, tra militari e addetti alla sicurezza. Improvvisamente si ferma e rivolge lo sguardo verso il posto di controllo della Polizia di frontiera israeliana. Una nonna e la nipotina stanno terminando le procedure di uscita dalla Striscia. Un veloce cenno di saluto per avvisarle della sua presenza.
  Su una poltroncina poco distante ci sono delle bottiglie di acqua e a terra delle buste con del cibo e dei piccoli giocattoli. Yuval raccoglie tutto e va verso le donne intanto uscite con in mano il prezioso timbro israeliano. Offre loro dell'acqua, dona un giocattolo alla piccola e dritti verso l'auto parcheggiata all'esterno del valico, direzione Tel Aviv dove la piccola è attesa per cure oncologiche.

 Un taxi solidale.
 
  Yval Roth è il fondatore di "The Road to recovery", organizzazione umanitaria nata nel 2006 e composta da migliaia di volontari israeliani impegnati a trasportare in ospedale, gratuitamente con le loro auto, i palestinesi - per lo più bambini - di Gaza e della Cisgiordania che hanno bisogno di cure mediche. Gli ospedali palestinesi non sono, infatti, all'altezza di quelli israeliani così quando si tratta malati gravi per curarsi è necessario entrare in Israele. Cosa per niente facile. L'iter è piuttosto complicato: il malato palestinese deve prima consultare il medico locale che lo invia ad uno specialista che potrebbe decidere il trattamento in Israele. A questo punto l'ufficio sanitario dell'Autorità palestinese dovrà autorizzare le cure - non prima di aver ottenuto il permesso da Israele e trovato l'ospedale cui indirizzare il malato e pagare poi le spese per le cure effettuate. Un processo che potrebbe richiedere settimane o mesi e spesso capita che le autorizzazioni finali da parte dell'esercito israeliano vengano rilasciate solo un giorno prima dell'appuntamento mettendo a rischio la visita. Inoltre, il paziente deve essere accompagnato solo da una persona anch'essa autorizzata dalle Autorità israeliane. E il permesso non viene dato alle persone giovani, così a farsi carico dell'accompagnamento, se non può essere uno dei genitori, sono spesso i nonni.
  Ma i problemi non finiscono qui: i pazienti palestinesi non possono muoversi in Israele con le proprie auto per questo, in moltissimi casi, sono costretti a prendere dei taxi che hanno prezzi proibitivi per le loro tasche. Tariffe che vanno, a seconda della distanza, dai 40 agli oltre 100 euro a tratta. Costoso ma anche vantaggioso poiché muoversi su di un'auto con targa 'Il' (Israele) e con un 'driver' israeliano significa evitare check point e lunghi controlli.

 Ed è qui che entrano in gioco i volontari di "Road to Recovery".
Yuval Roth
Abbiamo coordinatori a Gaza e in Cisgiordania che - spiega Yuval - ci segnalano i casi più urgenti. Ogni settimana si programmano i trasferimenti 'per e dall'ospedale' prelevando i malati con relativi accompagnatori nei diversi check point. Tra Gaza e Cisgiordania riusciamo a portare e riportare anche 140 persone al giorno". Sono i numeri a dare la consistenza del servizio operato dai 2000 volontari dell'associazione. "La distanza totale percorsa dai nostri volontari, nel 2019, è stata di circa 1.260.000 km, frutto di oltre 10 mila viaggi con più di 20 mila pazienti, in maggioranza bambini". Sono passati oramai 14 anni dal primo viaggio di Yuval "con un paziente palestinese di Gaza fino ad Haifa".
"All'epoca, era il 2005, ricorda - partecipavo agli incontri del 'Parents Circle Families", un forum composto da israeliani e palestinesi che hanno perso dei familiari nel conflitto. Mio fratello, infatti, era stato ucciso dai terroristi di Hamas nel 1993. In uno di questi incontri ho avuto modo di conoscere una donna palestinese che aveva il fratello malato. Mi chiese se potevo accompagnarlo in ospedale in Israele per le cure. Così feci".
"Fu quello il primo mattone di questa organizzazione no profit che oggi è 'The Road to recovery'. Da allora questa avventura si è allargata anno dopo anno grazie anche alla generosità di tante persone. Ricordo che uno dei nostri primi benefattori è stato il famoso cantante canadese Leonard Cohen, morto nel 2016".

 Ma cosa vi dite quando siete in auto?
 
  "Sono viaggi in auto - risponde Yuval - poveri di parole ma ricchi di sorrisi e di sguardi. Normalmente non conosciamo le persone che trasportiamo. Quasi nessuno tra noi conosce l'arabo, se non poche parole. Lo stesso vale per i palestinesi con l'ebraico. Così lo sguardo tenero rivolto soprattutto ai bambini. Nel viso del loro accompagnatore, genitore o nonno che sia, appare allora un sorriso di gratitudine e soprattutto un desiderio comune, quello di vivere una vita normale, sicura, pacifica e dignitosa. Fianco a fianco". Come a dire che "non ci sono piani di pace e soluzioni che tengano se prima non viene rispettata la dignità degli uni e degli altri". Ma intanto gli anni passano e la pace resta solo un miraggio. "Se credo nella pace? Certamente - afferma Yuval -, credo nella pace 24 ore su 24, ogni giorno. Aiutare le persone è un modo efficace di costruire la pace. Vado spesso nelle scuole a raccontare ai giovani la nostra esperienza e a ribadire che i nostri vicini palestinesi sono esseri umani. Sono fortemente convinto, infatti, che la nostra missione può generare amicizia e conoscenza tra i due popoli. Per noi di The Road to recovery, inoltre, è un modo per abbattere barriere religiose, sociali, politiche, culturali e soprattutto per mostrare un altro volto di Israele che non è solo quello dei militari armati o dei coloni".

(Agensir, 20 giugno 2020)


Ventimila contagiati in Israele

Si teme un'altra ondata

Israele è alle prese con una seconda ondata di infezioni e, dopo un forte allentamento del lockdown, è costretta ora a correre ai ripari imponendo di nuove zone rosse e altri provvedimenti per fronteggiare una diffusione in crescita preoccupante. Gli ultimi dati parlano chiaro: nelle ultime 24 ore si è arrivati a circa 350 casi, la prima volta in cui si è superata la soglia dei 300, cosa che non succedeva dallo scorso aprile. Ma a dare un quadro ancora più esatto della velocità con la quale si trasmette la malattia è il fatto che in due settimane i malati sono raddoppiati passando da 2.191 a 4.449 portando il totale complessivo nelle ultime ore a 20.339. Le vittime ad oggi sono 304. A conferma della situazione - creatasi dopo il forte allentamento delle misure restrittive - basti pensare che su circa 16.000 test effettuati ieri i positivi sono stati pari a quasi iI 2%.
A differenza della prima ondata, questa volta, a quanto sembra, i neo positivi sono più giovani e le scuole sono state un forte incubatore. La nuova situazione ha avuto le prime ripercussioni: non solo la vicina Cipro ha rivisto la sua apertura di turisti israeliani, ma lo stesso presidente Nicos Anastasiades ha rinviato il suo viaggio nello stato ebraico. «Non c'è dubbio ha detto allarmato il premier Benyamin Netanyahu che occorra limitare la malattia». E per questo ha annunciato che «non si riaprirà oltre».

(Gazzetta di Parma, 20 giugno 2020)


Quattordici anni di divisione palestinese, un disastro di cui non si vede la fine

Riportiamo questo inusuale e interessante articolo di fonte propalestinese. Manca la conclusione. NsI

GERUSALEMME/GAZA - Quattordici anni fa, dopo settimane di feroci combattimenti tra le famiglie di Gaza sostenitrici dei rivali Fatah e Hamas, il movimento islamista prese il controllo della Striscia, dividendo la società palestinese in due e avviando un disastro politico e umano che ancora non sembra avere fine.
  Il sequestro del potere da parte di Hamas e l'espulsione delle forze fedeli a Mahmud Abbas - che da allora ha governato solo su una parte della Cisgiordania - determinò anche l'inizio del blocco armato israeliano sull'enclave che, in quasi tre decenni e unitamente alla divisione, ha distrutto economicamente la casa di due milioni di abitanti e una delle aree più densamente popolate del mondo.
  Quel giugno 2007, la tensione a Gaza tra i miliziani di Hamas e le forze di sicurezza ufficiali, nelle mani di Fatah, raggiunse il picco: le strade delle città e dei campi profughi rimasero deserte per giorni, ad eccezione del passaggio delle pattuglie armate di entrambe le parti che controllavano gli edifici e tutti i movimenti, mentre gli unici suoni che si udivano erano il passaggio dei veicoli e i colpi di armi da fuoco.
  Secondo i dati del Comitato Internazionale della Croce Rossa, gli scontri fecero 116 morti e 550 feriti. Le relazioni tra le due parti e tra le famiglie che ebbero delle vittime non sono state ancora ripristinate.
  "Furono giorni terribili", ricorda a Efe, rattristato e arrabbiato, Abdelkarim Ellouh, 67 anni, padre di Nooh, un giovane ucciso in quei giorni dalle forze di Hamas.
  "Se mio figlio fosse stato ucciso dagli ebrei, non sarei triste, perché sarebbe considerato un martire e un eroe. Ma il fatto che sia stato ucciso da un palestinese armato, mi fa arrabbiare e mi fa impazzire. Non so cosa avesse fatto mio figlio ad Hamas, né perché sia stato ucciso", spiega.
  Ellouh fa ancora fatica ad accettare la perdita del figlio, perdita che ha cambiato per sempre la sua vita. "Da quando lui è morto, mi siedo all'ingresso della casa e ogni volta che vedo arrivare qualcuno penso sia Nooh, che sta tornando", dice.
  Hamas vinse le elezioni del gennaio 2006, una vittoria che Fatah non voleva accettare. Nel 2007 entrambi concordarono un governo di unità, che non ebbe il riconoscimento internazionale e che durò solo alcune settimane.
  La famiglia di Ali Shakshak, del quartiere di Sheikh Radwan, nella capitale Gaza, ricorda la morte di uno dei loro figli, Ali, nel giugno 2006, per mano delle forze di Hamas, ma dichiara di essere pronta alla riconciliazione.
  "È stato molto doloroso per tutti, sia in famiglia che nel quartiere, e ci manca ancora", dice il fratello maggiore Hasan Shakshak, prima di esprimere la sua speranza che Hamas e Fatah si possano sedere al tavolo dei negoziati e accettino di tornare all'unità.
  Dimitry Diliani, leader del movimento di riforma di Fatah, guidato dall'espulso Mohammad Dahlan, rivale di Abbas, ha detto a Efe che "la riconciliazione con Hamas è la prima pietra per la ricostruzione dell '" unità nazionale palestinese".
  Per lui, "rafforzare il fronte interno" è essenziale per "affrontare tutti i rischi imminenti che riguardano la questione palestinese. È molto importante, soprattutto nelle attuali circostanze, con Israele che si prepara ad annettere parte del territorio palestinese occupato della Cisgiordania.
  I rischi per i palestinesi, dice, "sono aumentati dopo la divisione risultante dal colpo di stato di Hamas contro l'autorità palestinese a Gaza".
  Nell'ultimo decennio sono stati condotti vari tentativi di dialogo, mediati da paesi arabi come l'Egitto e il Qatar, oltre che dalle Nazioni Unite, ed è stato firmato un accordo, che tuttavia non è stato tradotto in atti concreti, per cui il movimento islamista continua a mantenere il controllo della sicurezza e delle istituzioni a Gaza, e Fatah in Cisgiordania.
  I rappresentanti di Hamas si sono rifiutati di parlare con Efe della divisione e dei risultati ottenuti negli ultimi quattordici anni e si sono limitati a garantire come il movimento fosse pronto per iniziare i colloqui di riconciliazione con Abbas.
  "La divisione interna tra Fatah e Hamas ha creato due territori, due governi e due entità isolate", ha detto a Efe l'analista indipendente Asad Kamal, il quale crede che ogni anno il divario diventi più profondo, in quanto tutti i tentativi per superarlo falliscono.
  Al momento, non è nemmeno in corso un tentativo di dialogo: ogni partito governa il proprio territorio. In Cisgiordania l'Autorità nazionale palestinese (PNA) è alle prese con una forte crisi finanziaria e ha recentemente dichiarato la fine di tutti gli accordi firmati con Israele prima del piano di annessione. Hamas, nel frattempo, continua a governare a Gaza, dove impone rigidi controlli di sicurezza e mantiene un programma islamista.
  Mustafa al Sawaf, analista politico vicino ad Hamas, riconosce che la divisione "è un disastro che danneggia tutti i palestinesi, a tutti i livelli: sociale, politico ed economico". E si rammarica che "oltre a soffrire per l'occupazione (israeliana), la gente ora soffre per la divisione interna".
  La scissione, aggiunge, "ha incoraggiato l'occupazione israeliana a violare i legittimi diritti dei palestinesi, a perseguire un piano per annettere parti della Cisgiordania e svuotare Gerusalemme dai suoi cittadini palestinesi".
  Entrambe le parti riconoscono che la divisione è un disastro, la cui fine ancora non sembra essere vicina. EFE

(Invicta Palestina, 20 giugno 2020 - trad. Grazia Parolari)


Le due parti vorrebbero unirsi. Per fare che? per mettersi insieme e riuscire, d’amore e d’accordo, a far sloggiare Israele da dove sta. Questa sembra essere la risposta. Sarà per questo che non riescono ad mettersi d’accordo? C’è qualcuno tra le due fazioni che si è posto questa domanda? E alla comunità internazionale si può chiedere: quale sarebbe lo Stato di Palestina con cui Israele dovrebbe trattare e il resto del mondo dovrebbe riconoscere? Non c’è. Non esiste, in carne ed ossa. Esiste soltanto il suo spettro, proprio com’era Israele fino a cent’anni fa. E se prima, secondo le parole di Leon Pinsker, lo spettro israeliano spaventava tutto il mondo, adesso lo spettro palestinese vibra nell’aria al solo scopo di spaventare Israele. E non solo di spaventarlo, secondo il desiderio più o meno nascosto di molti. M.C.


Il caso Alami e la gestione dei profughi palestinesi

di David Elber

Musa Alami
La storia dell'imprenditore palestinese Musa Alami è molto istruttiva al fine di comprendere come i profughi palestinesi fin da subito sono stati trasformati in uno strumento politico da opporre a ogni tentativo di risolvere il conflitto che contrappone gli arabi ad Israele. Questo strumento, nel corso dei decenni, è stato ingigantito smisuratamente da un'agenzia ONU, che è stata completamente svuotata dal suo iniziale scopo per diventare, a sua volta, nel tempo, un vero e proprio strumento per continuare la guerra con altri mezzi: l'UNRWA.
  Musa Alami, nato in una importante famiglia araba (il padre Faidi fu sindaco di Gerusalemme) e membro dell'Alto Comitato arabo formatosi dopo la guerra del 1948, è sempre stato molto attivo tra quanti, in nessun modo, volevano trovare un compromesso con il nascente Stato di Israele. Il suo attivismo politico lo aveva reso molto noto tra gli arabi. Egli fu anche uno dei "consulenti" utilizzati dalle autorità britanniche per redigere il "Libro bianco" del 1939 con il quale di fatto si voleva impedire l'attuazione del Mandato Britannico per la Palestina. Di famiglia facoltosa fu tra coloro che non accettarono l'indipendenza di Israele e così decise di andare a vivere nei pressi di Gerico dove aveva degli appezzamenti di terra. A quel tempo Gerico e tutta la Samaria erano occupate dalle forze armate giordane.
  Dopo la firma dell'armistizio tra Giordania e Israele nella primavera del 1949, capì immediatamente che la questione dei profughi non si sarebbe risolta velocemente, così decise di dare un'opportunità di lavoro e di benessere a molti profughi creando una moderna e efficiente azienda agricola lungo le sponde del fiume Giordano.
  Contro ogni logica e consiglio si mise a cercare dei pozzi d'acqua - indispensabili per l'attività agricola - in pieno deserto nei pressi del Mar Morto, trovando, inaspettatamente, l'acqua dolce. Neanche le autorità giordane si dimostrarono molto collaborative rifiutandosi di fornire la necessaria attrezzatura. Nonostante ciò, con caparbietà riuscì a costruire ben 15 pozzi (poi crebbero fino a diventare 50).
  Fin da subito la qualità dei raccolti si dimostrò davvero eccezionale grazie all'alta concentrazione di potassio presente nel terreno. Iniziò così la costruzione di un intero villaggio per fornire una sistemazione a centinaia di famiglie di arabi sfollati a causa della guerra. In poco tempo divenne tanto famoso da attirare l'attenzione anche del New York Times che lo definì, per il lavoro intrapreso, "il Mosè arabo".
  Pur non riconoscendo la legittimità di Israele, egli era convinto, che bisognava trovare una sistemazione e un lavoro alle persone che vivevano nei campi profughi per garantirgli un futuro che altrimenti sarebbe stato solo di miseria e di odio.
  In pochissimo tempo questa moderna azienda agricola divenne tanto importante da esportare frutta e verdura in molti paesi arabi circostanti e nel Golfo Persico. Grazie a lui migliaia di persone riuscirono a trovare lavoro e a uscire dai campi profughi circostanti. In forza alle abilità commerciali di Alami, la sua azienda agricola riuscì a siglare un contratto pluriannuale con l'Aramco per la fornitura di frutta e verdura per le migliaia di dipendenti della società petrolifera saudita. Con i proventi realizzati, Alami, costruì delle cliniche e una scuola per i figli dei dipendenti e iniziò contemporaneamente la costruzione di numerose case in muratura, cosa non ancora diffusa tra i giordani.
  In pratica il suo fu l'unico progetto concreto realizzato per offrire una sistemazione adeguata ai profughi. All'apice del successo però, l'opinione pubblica araba iniziò a considerare il reinserimento e il recupero dei profughi come un vero e proprio tradimento. Così, uno alla volta, tutti i progetti organizzati anche dall'ONU tramite l'UNRWA (l'agenzia ONU diventata nel frattempo l'agenzia esclusiva dei profughi palestinesi) iniziarono ad essere boicottati, milioni di dollari venivano spesi senza che ci fosse un minimo costrutto. Gli arabi accettavano solo aiuti di sussistenza che non arrecassero un beneficio duraturo ai profughi: non si voleva la loro integrazione e la loro sistemazione. Perciò ogni progetto volto a garantire una autonomia economica veniva rifiutato a favore della mera sussistenza alimentare. In questo clima generale, l'impresa agricola di Alami fu presa di mira. Per il suo lavoro incessante volto a migliorare le condizioni economiche e di vita dei profughi, Alami fu accusato dai palestinesi stessi, di tradimento e di collaborazionismo con Israele. Il suo curriculum anti israeliano non fu sufficiente a salvarlo dalle accuse. Il solo fatto di provvedere al benessere di migliaia di persone era sufficiente per dimostrare le accuse di "normalizzazione" con il nemico.
  Nel dicembre del 1955 - durante una sua assenza per lavoro - una folla inferocita assaltò la sua azienda agricola e i relativi campi distruggendo tutto. Tutte le strutture furono rase al suolo e i campi distrutti. Gli organizzatori che fomentarono la folla erano gli stessi capi clan dei campi profughi attorno a Gerico. Alami stesso si salvò solo perché in quei giorni era a Beirut. L'azienda fu saccheggiata e distrutta così come le cliniche, l'orfanotrofio e la maggior parte delle case costruite. L'attività agricola non ripartì più dopo la distruzione. Ormai era evidente che nessuna iniziativa, atta a sistemare il problema dei rifugiati, organizzata sia da palestinesi che da organizzazioni internazionali non poteva avere successo. Questo per una semplice ragione: la sistemazione dei rifugiati nei paesi arabi avrebbe significato la fine della guerra, ma questo non è mai stato ciò che gli arabi volevano, compresi, chiaramente, i palestinesi.
  In modo chiaro e inequivocabile i profughi, già a partire dagli anni '50, erano visti come un potente strumento di guerra. Non volendo sistemare la questione dei profughi, gli arabi sapevano che il conflitto non si sarebbe mai risolto. E a questo scopo trovarono un potentissimo alleato: la comunità internazionale, tramite l'Unrwa.

 L'uso strumentale dell'Unrwa
 
  Che l'Unrwa avesse fallito completamente il suo compito era chiaro fin dal 1958. E la causa fu il comportamento stesso dei profughi che non accettarono nessun piano di sviluppo proposto dall'organizzazione. La scelta fu chiara: preferivano vivere in condizioni estremamente precarie pur di mantenere viva la lotta contro Israele.
  Nell'autunno del 1958 la delegazione USA all'ONU era ormai decisa a sospendere il rifinanziamento dell'agenzia, la quale nei 10 anni di attività, aveva già speso svariate centinai di milioni di dollari senza che un solo profugo fosse stato sistemato. Anzi, il numero di profughi era aumentato enormemente mentre tutti i progetti avviati si erano arenati senza il minimo costrutto.
  Il discorso tenuto dal rappresentante americano all'Assemblea Generale, Harrison era stato categorico: era ormai evidente che l'Unrwa era fallita e bisognava chiuderla. La reazione araba fu furiosa e in blocco minacciarono di abbandonare le proprie posizioni filo occidentali. Preso dal panico il Dipartimento di Stato fece una clamorosa marcia in dietro. L'anno successivo gli americani e tutti paesi occidentali votarono per il rifinanziamento dell'agenzia senza che fosse approvata la ben che minima riforma, anzi tutta la gestione passò sotto il controllo arabo. In pratica si consumò un "matrimonio politico" di convenienza tra gli Stati Uniti e i paesi arabi: gli americani (e gli altri paesi occidentali) pagavano l'UNRWA e gli arabi la dirigevano come meglio ritenevano. Da questo momento le cose cambiarono drasticamente. Tutti i progetti atti allo sviluppo e alla realizzazione di posti di lavoro furono completamente abbandonati. L'UNRWA iniziò ad occuparsi solo di "educazione" e distribuzione di cibo.
  Per quanto concerne l'educazione, l'agenzia ONU assunse insegnati arabi e dirigenti occidentali che iniziarono a istruire i bambini all'odio e agli ideali di vendetta verso Israele e gli ebrei in generale. Prassi che dura tutt'oggi. Per essere accettato dai profughi, il personale doveva avere posizioni contrarie a ogni compromesso con Israele e quindi avallare la loro posizione di "vittime", le quali, come riparazione al torto subito dovevano necessariamente "tornare" in Palestina.
  Nel corso degli anni i dipendenti stessi dell'UNRWA - in piena simbiosi con i profughi - sono diventati a loro volta i portavoce dei presunti torti subiti dai palestinesi. In pratica tutte le generazioni di palestinesi che crescevano nei campi profughi venivano radicalizzate con l'educazione scolastica a cui erano sottoposte in una spirale di demagogia, odio e risentimento che si è autoalimentata per decenni nel solo ideale di rivincita. Nessun funzionario ONU che non fosse allineato su queste posizioni veniva accettato. Inoltre, l'altro compito a cui era destinato la restante parte dei fondi occidentali era la fornitura di alimenti necessari per il sostentamento ma che non portarono mai ad uno miglioramento generale della condizione dei profughi. Si arrivò al punto che ebbe inizio una compravendita di voucher alimentari la quale finì per arricchire i capi clan ai danni della maggioranza della popolazione. Siccome nessuno era tenuto al controllo dell'effettivo numero di persone esistenti, nel corso dei decenni, venivano dati i voucher alimentari anche alle persone morte o emigrate da molti anni (e che venivano ritirati dai parenti). I vaucher venivano poi rivenduti al mercato nero per guadagnare dei soldi extra. In questo modo il numero dei profughi aumentò enormemente nel corso degli anni anche se i profughi effettivi erano molto meno numerosi.
  A questa situazione già unica di per sé, si aggiunsero altre "unicità". Nel 1965, unico caso al mondo, lo status di rifugiato venne esteso ai figli e ai nipoti dei rifugiati del 1948. In poco tempo il numero dei rifugiati raddoppiò passando da 1.1 milioni a 1.8 milioni (oggi sono oltre 5.2 milioni).
  Nel 1982 l'Assemblea Generale dell'ONU approvò una risoluzione nella quale si estendeva lo status di rifugiano a tutti i discendenti, cosa che poi fu estesa alle adozioni e ai matrimoni. Ormai si poteva diventare "rifugiato palestinese" senza neanche essere palestinese e senza mai aver vissuto un solo giorno in tutto il Medio Oriente (cosa diffusa tra le migliaia di "profughi" che vivono in USA e in Canada). Se a questo aggiungiamo che nessun paese arabo - ad eccezione della Giordania - abbia mai concesso la cittadinanza ad un solo profugo si capisce come la situazione sia oggi tale che la soluzione del loro problema sia ardua da risolvere. Si può tranquillamente affermare che con le "riforme" approvate dall'Agenzia governativa i profughi sono diventati un "problema perpetuo" con il solo scopo politico di creare pressioni su Israele, mentre l'UNRWA è diventata una "fabbrica di rifugiati" con lo scopo di autoalimentare i funzionari ONU per creare posti di lavoro garantiti per le migliaia di addetti, quadri e dirigenti che ne compongono la compagine.
  In conclusione gli arabi imputarono agli USA e alla Gran Bretagna la loro sconfitta del 1948 e vedono nel mantenimento dei profughi un "obbligo" e una riparazione del "torto" subito. A ciò si è aggiunto l'atteggiamento occidentale completamente passivo sulla questione al fine di mantenere buoni i rapporti - soprattutto con l'Arabia Saudita - sia politici che economici.
  Nel corso degli anni, con il passaggio dell'UNRWA completamente in mano araba, l'ente è stato gestito e trasformato in qualcosa di completamente diverso rispetto al suo scopo originario mentre l'Occidente lo finanziava senza chiedere conto di come venivano spesi i soldi. Oggi, a distanza di decenni e dopo incalcolabili danni fatti, l'Occidente chiede ad Israele di pagare il conto con l'assorbimento dei profughi e il suo inevitabile venire meno come Stato a maggioranza ebraica.

(L'informale, 13 giugno 2020)


Netanyahu a caccia di sostegno su annessione Cisgiordania

 
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, sta cercando di ottenere sostegno interno per il suo piano di annessione di alcune parti della Cisgiordania, secondo una nota interna del suo partito.
"Applicare la legge israeliana alle comunità ebraiche già esistenti nella patria ancestrale di Israele porterà a una pace regionale realistica basata su fatti concreti", si legge nella nota, pubblicata dal Wall Street Journal.
Nonostante Netanyahu abbia già discusso questo argomento, la nota per la prima volta raccoglie le principali motivazioni che lo hanno spinto a voler annettere parti della Cisgiordania al territorio israeliano e segna il tentativo di iniziare a ottenere il sostegno al suo piano anche da parte dei partner politici non ancora favorevoli e dalla popolazione divisa sul tema.
Il suo ufficio prevede di distribuire la nota al suo partito, il Likud questo pomeriggio, mentre il primo ministro esorterà i membri a costituire un fronte unitario per sostenere il piano pubblicamente.
Lo sforzo mostra la pressione che sta sentendo il primo ministro israeliano mentre si impegna a iniziare il processo di annessione già a luglio. Netanyahu si trova di fronte all'opposizione del partito Blu e Bianco di Benny Gantz, che fa parte della sua coalizione di Governo, ma è contrario all'annessione unilaterale. Anche il movimento degli insediamenti è diviso sulla questione, con alcuni leader che affermano che le azioni di Netanyahu in conformità con il piano dell'amministrazione statunitense consentiranno la creazione di uno Stato palestinese, a cui si oppongono fermamente.
Mentre circa la metà della popolazione israeliana è favorevole all'annessione di parti della Cisgiordania, secondo un recente sondaggio dell'Israel Democracy Institute, un think tank con base a Gerusalemme, il sostegno è maggiore tra i partiti collegati ai movimenti ultraortodossi e dei coloni.
L'incertezza sul piano sta scatenando la discussione su un'eventuale quarta elezione, anche se gli esperti hanno detto che la possibilità sembra remota, dato il modo in cui è strutturato l'accordo di coalizione. Netanyahu ha formato un Governo di unità con Gantz a maggio per porre fine a più di un anno di stallo politico.
Il piano di pace dell'amministrazione Trump consente a Israele di annettere fino al 30% della Cisgiordania, purché il Paese appoggi le discussioni con i palestinesi e gli Stati Uniti e Israele concordino su una mappa.

(Finanza 24h, 19 giugno 2020)


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Gantz si opporrà all'annessione delle aree della Cisgiordania ad alta presenza palestinese

GERUSALEMME - Il primo ministro supplente e ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato che non sosterrà le aree annesse della Cisgiordania dove è presente "una numerosa popolazione palestinese", lo riferisce l'emittente israeliana "N12". Durante una riunione con i funzionari del ministero della Difesa, l'ex capo di Stato maggiore ha sottolineato: "Non sosterremo l'applicazione della sovranità alle aree con una popolazione palestinese al fine di prevenire eventuali attriti". Gantz ha inoltre aggiunto: "Sono certo che il primo ministro non metterà a rischio il trattato di pace con la Giordania e le relazioni strategiche dello Stato di Israele con gli Stati Uniti con una mossa irresponsabile". Lo scorso 15 giugno, Netanyahu ha dichiarato di non conoscere le posizioni della coalizione Blu e bianco, guidata da Gantz, in merito ai piani di annessione a luglio. "Non abbiamo un'opinione perché non ci ha mai mostrato una mappa", ha risposto Gantz. Da parte sua il partito di Netanyahu, il Likud, ha riferito che lo stesso Gantz si sarebbe rifiutato di visionare le mappe per "sue ragioni personali". L'ex esponente della coalizione Blu e bianco e attuale ministro della comunicazione Yoaz Hendel ha annunciato oggi di appoggiare un'annessione di aree in Cisgiordania "a prescindere dal parere di Gantz", concedendo a tale iniziativa una certa maggioranza parlamentare ristretta.
   In un'intervista di fine maggio con "Israel Hayom", Netanyahu ha affermato che i 58 mila palestinesi che vivono nella Valle del Giordano non riceveranno la cittadinanza israeliana ma rimarranno nelle enclave dell'Anp sotto il controllo militare israeliano. "Rimarranno come enclave palestinesi", ha detto il primo ministro, aggiungendo che oltre a Gerico, che ospita circa 20.000 palestinesi, vi saranno altre due enclave. Israele dovrebbe annettere fino al 30 per cento della Cisgiordania il primo luglio, applicando la sua sovranità e il suo diritto civile all'area attualmente controllata dalle Forze di difesa israeliane (Idf), come previsto dall'accordo per la formazione del governo tra Netanyahu e Gantz e che fa riferimento al piano di pace proposto dagli Stati Uniti. L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha annunciato il mese scorso la cessazione del coordinamento della sicurezza con Israele. Il presidente dell'Anp, Mahmoud Abbas ha annunciato alla fine di maggio che l'Anp, a seguito dei piani di annessione, non è più vincolata dagli accordi che aveva firmato con Israele e gli Stati Uniti, compresi gli Accordi di Oslo.

(Agenzia Nova, 19 giugno 2020)


"Arrestata perché ho parlato del tempio sul Monte del Tempio"

"Come possiamo parlare di un futuro condiviso con dei partner che negano l'evidenza archeologica e non riconoscono nemmeno che abbiamo una storia?"

di Shaina Be Hirsch

Sono estremamente frustrata. Oggi [11 giugno] sono stata fermata, trattenuta in custodia, hanno cercato di prendere il mio telefono e mi hanno minacciato di arresto. Tutto questo non è avvenuto durante le proteste in corso in America. Stavo semplicemente passeggiando a Gerusalemme, nel mio sito storico preferito - il Monte del Tempio - in compagnia di una vecchia amica.
   Ho iniziato a raccontare in diretta su Facebook la storia dei vari templi che si sono succeduti in quel luogo, quando sono stata seccamente informata (mentre ero ancora in diretta) che è illegale affermare che c'era un tempio sul Monte del Tempio.
   Fateci mente locale. Mi è stato detto dalle forze di sicurezza del Waqf [l'ente a guida giordana che gestisce il patrimonio islamico a Gerusalemme] che è illegale affermare che sul Monte del Tempio sorgeva un tempio. Qualsiasi tempio. Cioè: in quel sito non c'è mai stato nulla prima che vi fosse una moschea. Sin dai tempi di Adamo [testuale], in quel sito c'è stata solo una moschea e affermare che ci sia mai stato qualcos'altro è una offensiva menzogna sionista [testuale]. Vi esorto a guardare il video.
   Sono particolarmente appassionata di quel periodo della storia, quello che inizia con il Secondo T***** (qui mettete la parola che, a quanto pare, è illegale pronunciare sul Monte del Tempio). Ma come possiamo parlare di un futuro condiviso con dei partner che non riconoscono nemmeno che abbiamo una storia? E queste riscritture della storia vengono accettate sempre più. Nell'ottobre 2016 Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan hanno presentato alle Nazioni Unite una risoluzione che condannava Israele per non aver tutelato il diritto unico ed esclusivo dell'islam sul Monte del Tempio. Nessun tempio ebraico, nessun santuario da cui Gesù cacciò i corrotti cambiavalute: l'islam ha il diritto esclusivo al sito più santo dell'ebraismo, il luogo verso cui da sempre gli ebrei di tutto il mondo si volgono in preghiera, anche se per gli ebrei ora è illegale pregare lassù.
   Proprio così. Per chi non lo sapesse, gli ebrei e solo gli ebrei possono essere arrestati per il reato di pregare nel loro luogo più santo. L'attuale obbligo di mascherina anti-coronavirus ha evitato che il movimento delle mie labbra venisse interpretato come una preghiera portando al mio arresto. Ma un'altra volta sono stata espulsa dalla spianata del Monte del Tempio per aver mosso le labbra in un modo che avrebbe potuto essere una preghiera.
   Oggi sono stato separata dalla mia amica e prelevata dalla sicurezza del Waqf per essere interrogata. Mi hanno detto che mi avrebbero rilasciato se la smettevo di dire bugie. Ma non stavo dicendo bugie. Mi hanno detto che mi avrebbero rilasciato se avessi potuto dimostrare che lassù c'era qualcosa prima di una moschea. Ho risposto che dovevo solo tirar fuori il mio kit di datazione al carbonio che tengo sempre nello zainetto e l'avrei dimostrarlo in un batter d'occhio. Il sarcasmo li ha disorientati.
   Ma ciò che li ha davvero mandati in confusione è che ho continuato a insistere sul fatto che in quel sito sono esistiti diversi templi. Almeno quattro, o forse tre e mezzo. Il Primo Tempio (Beit Hamikdash HaRishon), il tempio asmoneo (che forse era solo a metà, perché costruito su parti già esistenti), il Tempio di Erode (cioè il secondo Beit Hamikdash) e un tempio dedicato a Giove. Il Secondo Tempio è chiamato a buon diritto di Erode poiché egli rimosse ogni pietra degli asmonei prima di costruire il suo edificio.
   Mentre continuavo a ripetere i fatti riguardanti l'epoca del Seconda Tempio, tenevo stretto il telefono che loro cercavano di afferrare. Sembrava che non capissero bene come funziona un video live, e soprattutto che non capissero che cancellando la storia delle altre due religioni su cui si basa la loro fede, non fanno che minare la loro rivendicazione su questa terra.
   Dopo un po' di domande sono stata consegnata agli agenti della polizia israeliana, che ha cercato di rimanere seri mentre mi dicevano che in effetti non avevo fatto nulla di illegale, ma che dovevo rispettare il sito e dunque non potevo dire che in quel posto è sorto un Beit Hamikdash (Tempio ebraico). Devo dire che anche loro sono sembrati molto sorpresi di apprendere che in quel sito ci sono stati più di due templi. E ancora più sorpresi di apprendere che, un tempo, c'è stata anche una chiesa. Ma nessuno conosce più la storia? C'è di bello che annoiare le persone con i particolari della storia ti permette d'essere rilasciato abbastanza velocemente dalla custodia delle forze di sicurezza.
   Ho pensato a tutti i turisti che sono venuti a vedere la mia storia ebraica, la loro storia cristiana, e a tutti i visitatori che verranno, si spera, quando si potrà di nuovo viaggiare. Come si può capire perché questa terra è santa per tre religioni se non è nemmeno permesso parlarne?
   Quando le Nazioni Unite contribuirono a negare la mia storia, l'allora Segretario Generale Ban Ki-Moon ebbe parole di condanna per quella risoluzione. L'allora Direttrice generale dell'Unesco Irina Bokova affermò che "negare, nascondere o cancellare qualsiasi tradizione ebraica, cristiana o musulmana mina l'integrità del sito: la moschea al-Aqsa è anche il Monte del Tempio, il cui muro occidentale ["del pianto"] è il luogo più sacro dell'ebraismo".
   Ecco perché mi sento così frustrata: per come narrare la storia convalidata sul piano archeologico possa diventare un fatto carico di implicazioni politiche, e per quanto sia facile riscrivere la storia. Quindi: studiamo la storia, apprendiamo i fatti, impariamo la verità.

Da "Times of Israel", 11.6.20

(israele.net, 19 giugno 2020)


La sfida decisiva di rinnovarsi

Dossier sulla città di Tel Aviv

 
Tel, antico. Aviv, primavera e rinnovo. Il nome della città israeliana sulle sponde del Mediterraneo richiama l'idea di un luogo che affonda le radici nel passato ma che allo stesso tempo rappresenta un nuovo inizio, una nuova possibilità per tracciare strade, edifici e proporre spazi di socialità differenti. Una città costruita sulle dune del deserto, come racconta l'iconica foto scattata l'11 aprile 1909 da Avraham Soskin: in quella data si tenne sulle spiagge poco fuori Yaf o (Giaffa) una lotteria per assegnare appezzamenti di terreno per il nuovo quartiere di Ahuzat Bayit, primo insediamento di Tel Aviv. La lotteria fu il frutto di un compromesso: le famiglie coinvolte nella distribuzione dei terreni, non trovando un accordo, fecero decidere al caso. Akiva Arieh Weiss, presidente del comitato della lotteria, raccolse 66 conchiglie grigie e 66 conchiglie bianche. Sulle prime scrisse un numero corrispondente a un lotto, sulle seconde i nomi dei partecipanti. Questa equa e casuale distribuzione fu all'origine di Tel Aviv come prima città moderna e allo stesso tempo ebraica. Uno spazio che ben presto fu casa e rifugio per gli ebrei d'Europa: qui scelse di abitare il grande poeta Chaim Nahman Bialik. Qui arrivarono architetti e urbanisti della scuola Bauhaus, perseguitati dal nazismo, per edificare e disegnare una città all'avanguardia.
    "Tel Aviv, mare. Luce.
    Celeste, sabbia, impalcature ...
    chioschi lungo i viali,
    una città ebraica bianca, lineare
    che cresce fra agrumeti e dune",
la dedica in versi da parte dello scrittore Amos Oz.
Tel Aviv nacque dunque dalla partecipazione, dalla cooperazione dei suoi abitanti, convinti di potervi creare, nonostante le avversità, un luogo fisico di rinnovamento e modernità. Oggi metropoli simbolo di socialità e capacità di scommettere sul futuro, Tel Aviv, come tutte le città del mondo, è chiamata nuovamente a rinnovarsi per rispondere ai problemi generati dalla pandemia. Il virus ha fatto emergere con chiarezza i problemi delle metropoli: la disuguaglianza sociale; il diritto alla casa non garantito a tutti; la disparità nell'accesso ai servizi; la necessità di più verde e, più in generale, un maggior rispetto per l'ambiente. Oggi i cittadini del mondo, almeno i più consapevoli, chiedono ai propri amministratori il cambiamento, nuove idee, nuove proposte per migliorare la loro vita e provvedimenti per tutelare la loro salute. In questo dossier, dedicato alla città da ripensare, parliamo di queste esigenze e del dibattito che si è aperto per darvi risposta. Una sfida chiave per il futuro ma rischia di non essere colta: l'opportunità di ricostruirci e rinnovarci sulle instabili dune del presente.
Dossier

(Pagine Ebraiche, giugno 2020)


Israele, record di parlamentari gay dichiarati nella nuova Knesset

Per la prima volta sono 6 (tre della maggioranza e tre dell'opposizione) su un totale di 120. Lo scorso anno Amir Ohana fu il primo omosessuale a diventare ministro.

di Sharon Nizza

TEL AVIV - La ventitreesima Knesset - il Parlamento israeliano - presenta il numero record di parlamentari dichiaratamente omosessuali: 6 su 120. Tre fanno parte della coalizione di governo e tre dell'opposizione e rappresentano quattro partiti diversi. L'anno scorso si era registrato un altro primato quando Amir Ohana era diventato il primo ministro gay della storia del Paese. Allora ministro della Giustizia, oggi nel nuovo governo di unità nazionale occupa il dicastero della Pubblica sicurezza per il Likud, il partito di destra del premier Benjamin Netanyahu. Altra posizione ministeriale di rilievo è ricoperta nell'attuale governo da Itzik Shmuli, ministro per il Welfare e il Lavoro, in quota partito laburista. Il terzo parlamentare della maggioranza è Eitan Ginzburg, già primo sindaco gay di una città israeliana (Raanana), e ora presidente della commissione legislativa e capogruppo di Blu Bianco, il partito centrista del vice-premier Benny Gantz.
   All'opposizione siedono Nitzan Horowitz, capo del partito di sinistra Meretz e storico leader della comunità Lgbtq e le new entry per il partito Yesh Atid Idan Roll e Yorai Lahav-Hertzano. Quest'ultimo entrerà in carica la settimana prossima, sottraendo un voto alla maggioranza, in virtù della legge appena approvata che permette ai ministri di dimettersi da parlamentari e lasciare il posto ai colleghi che li succedono in lista.
   La comunità Lgbtq israeliana è da sempre molto combattiva e presente nel dibattito pubblico. Le battaglie che ha condotto nel corso degli anni hanno portato a risultati importanti, quasi sempre attraverso precedenti giuridici che hanno riconosciuto parità di diritti in numerosi ambiti, dalla registrazione all'anagrafe di matrimoni gay contratti all'estero, alla reversibilità della pensione, alle politiche di integrazione dei transessuali nell'esercito. Tel Aviv è nota per essere una delle destinazioni più gay friendly e il suo gay pride ospita ogni anno 250 mila persone da tutto il mondo. Per via del coronavirus, quest'anno si terrà in formula ridotta: il 28 giugno sono programmate in decine di città - e per la prima volta anche molte città periferiche - marce che i dirigenti della comunità vedono come un'occasione per concentrare il focus sulle battaglie interne, in primis l'equiparazione del diritto alla maternità surrogata in Israele anche per le coppie omosessuali (attualmente consentita soltanto all'estero, con costi ingenti).
   Nel 2018 infatti è passata una legge che ha esteso l'accesso alla maternità surrogata in Israele alle donne single, escludendo però uomini single e gay. Migliaia di persone avevano riempito le piazze del Paese per protesta e lo scorso febbraio la Corte suprema, rispondendo a un ricorso di attivisti, ha decretato che la legge è discriminatoria e che la Knesset ha un anno di tempo per trovare una soluzione che tuteli le coppie gay. È questa una delle tematiche calde su cui la comunità Lgbtq locale si sta concentrando, per cui spera anche che i ministri Ohana e Shmuli - entrambi genitori di figli nati grazie alla maternità surrogata all'estero - si facciano reali portavoci delle sue istanze di fronte alle resistenze dei partiti religiosi, anch'essi parte del governo.
   In aggiunta, il mese scorso 16 organizzazioni Lgbtq hanno presentato al governo una "Road map" per il sostegno alla comunità in tutti i settori, in particolare contrasto all'omofobia, supporto delle persone transgender, agevolazione delle adozioni da parte di gay. Le posizioni governative di rilievo fanno sperare nella comunità Lgbtq che vi possa essere accesso ai fondi necessari per portare avanti queste battaglie, anche a fronte dei tagli in vista a causa della crisi economica innescata dal coronavirus.
   "È molto significativo che oggi la Knesset abbia un'alta rappresentanza per la comunità Lgbtq (e saremo ancora più felici quando ci saranno anche parlamentari lesbiche e transessuali)", ci dice Or Kashti, responsabile per i rapporti istituzionali dell'Agudà, l'organizzazione ombrello delle associazioni Lgbtq israeliane. "Abbiamo già tenuto un incontro proficuo con il ministro del Welfare Itzik Shmuli, che si è impegnato ad aiutare la comunità rispetto all'agevolazione delle procedure di adozione, mentre stiamo ancora aspettando di incontrare il ministro Ohana. Tuttavia per noi ogni parlamentare, indipendentemente dall'identità di genere, rappresenta un potenziale interlocutore nella lotta per il riconoscimento dei nostri diritti".

(la Repubblica, 19 giugno 2020)


Ecco in che cosa il mondo occidentale loda Israele: quando si presenta come capofila della ribellione a Dio. E Israele non si accorge della diabolica trappola. Diabolica nel senso letterale della parola, perché non è opera di complotti umani. La persecuzione antisemita è odio umano, la seduzione omofiliaca è tagliola diabolica. Dove non riesce l’odio antisemita di Balak sui monti di Moab, riesce il sessuale adescamento idolatrico di Balaam a Peor. Le donne moabite “invitarono il popolo ai sacrifizi offerti ai loro dei, e il popolo mangiò e si prostrò dinanzi agli dei di quelle. Israele si unì a Baal-Peor. E l’ira dell’Eterno si accese contro Israele” (Numeri 25:2-3). Israele non vede la trappola. “... e voi ciechi, guardate e vedete! Chi è cieco, se non il mio servo... Chi è cieco come colui che è mio amico, cieco come il servo dell’Eterno?” (Isaia 42:18-19). M.C.
Probabilmente perderemo la simpatia di alcuni (o molti) amici di Israele. L’abbiamo messo in conto.



Coronavirus, contagiati identificabili dalla voce. Studio italo-israeliano

La corsa alla scoperta di nuove forme di diagnosi veloci e tempestive ha sviluppato una collaborazione italo-israeliana sullo studio sulla voce dei contagiati

Una collaborazione tra Italia ed Israele che sa di fantascienza. Eppure i ricercatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore e l'Accademia di Ingegneria Afeka di Tel Aviv stanno mettendo a punto uno studio incredibile che nasce da un'intuizione geniale e visionaria.
  Il Coronavirus ha messo ormai in allarme tutti quanti da mesi. Esperti nei più vari settori della medicina e della tecnologia si sono attivati in una corsa sfrenata alla ricerca di una cura, indubbiamente, ma anche di sistemi di diagnosi precoci e rapidi.
  Italia ed Israele a tal proposito stanno mettendo a punto una tecnologia capace di pre-diagnosticare il Covid19 in persone che siano sospettate di contagio. Quello che ha dell'incredibile è il modo in cui vogliono farlo: attraverso una combinazione tra elaborazione vocale ed intelligenza artificiale.

 Coronavirus, diagnosi attraverso un'app
  Il progetto si prefigge lo sviluppo di un'applicazione scaricabile dai propri device che, tramite l'analisi di voce, tosse e respiro, possa individuare pazienti potenzialmente infetti. Si ottimizzano i tempi di diagnosi, specie tra gli asintomatici, limitando e spezzando la catena del contagio.
  Il quotidiano Repubblica ha raggiunto telefonicamente Ami Moyal, presidente dell'Accademia israeliana. Lui e Gianluigi Benedetti, ambasciatore italiano in Israele, si dicono soddisfatti della collaborazione fra i due paesi. L'Università Cattolica del Sacro Cuore e l'Accademia di Ingegneria Afeka di Tel Aviv lavoreranno in partecipazione con il Policlinico Gemelli e il Rabin Medical Center.
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  Lo studio è ancora in fase sperimentale, si sta formando un database composto da campioni di voce, tosse e respiro su pazienti positivi sia al Coronavirus, sia alla normale influenza. E' stato inoltre richiesto un finanziamento congiunto all'Unione Europea.

(Yeslife, 18 giugno 2020)


Israele e l'attesa di riprendere il volo

 
I voli commerciali in Israele non riprenderanno fino almeno a metà luglio, se non agosto. È quanto ha dichiarato il direttore generale dell'aeroporto Ben Gurion Shmuel Zakaim al sito d'informazione Ynet. E anche quando ci sarà il via libera, ha spiegato Zakaim, il numero di aerei in partenza rimarrà basso. "Le norme sociali di distanziamento negli aeroporti non cl permetteranno di aumentare la capacità di passeggeri - ha dichiarato Zakaim - se terremo il passo a questo ritmo vedremo qualche dozzina di voli in partenza dal Ben Gurion a partire da metà luglio e non prima. Finché non ci sarà un vaccino per il coronavirus e la malattia continuerà a spostarsi da un paese all'altro, non ci saranno cambiamenti significativi".
   A fine maggio l'autorità aeroportuale ha stilato una lista di paesi considerati come destinazioni non a rischio, tra cui Grecia, Cipro, Seychelles, Austria, Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Islanda, che sono caratterizzati da una bassa percentuale di contagi da covid-19. L'idea sarebbe non solo di permettere di andare nelle destinazioni in elenco ma anche di escludere - per chi torna da quei paesi - la quarantena obbligatoria di 14 giorni. Al momento le restrizioni di volo sono ancora in vigore, quindi l'atterraggio in Israele richiede due settimane di isolamento mentre l'ingresso ai passaporti non israeliani è proibito.
   In preparazione della riapertura al turismo nazionale e internazionale, inoltre, ministero del Turismo e della sanità hanno delineato un nuovo decalogo per la gestione degli alberghi nel Paese. "È estremamente importante che gli hotel del nostro Paese mantengano un alto livello di standard igienico-sanitari per garantire la sicurezza dei viaggiatori quando visitano Israele", le parole di Asaf Zamir, ministro del Turismo israeliano. "Quando saremo in grado di aprire nuovamente le nostre frontiere ai viaggiatori internazionali, vogliamo che i turisti si sentano tranquilli sul fatto che Israele stia prendendo ogni precauzione per garantire loro una vacanza sicura e piacevole nel nostro bellissimo e vibrante Paese". "L'intera industria del turismo - ha sottolineato Zamir - è in grave crisi a causa della pandemia di coronavirus ed è nostro compito agire rapidamente per riportarla in carreggiata e contribuire alla sua ripresa". Per questo il governo di Gerusalemme ha stanziato 86 milioni di dollari che andranno in particolare nelle casse degli alberghi, per dare loro un po' di respiro in attesa che il turismo riprenda.

(Pagine Ebraiche, giugno 2020)


Conflitto israelo-palestinese ed estensione della sovranità

Riceviamo da Emanuel Segre Amar il testo della videoconferenza tenuta martedì 16 giugno dall'ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, alla Commissione Affari esteri del Senato

  Onorevoli Senatrici e Senatori della Repubblica Italiana, grazie per avermi invitato a dialogare con voi.
  Il Medio Oriente si trova al centro dell'attenzione mondiale, il più delle volte non per le giuste ragioni.
  In passato, quest'area è stata il cuore della civiltà mondiale, mentre oggi è principalmente fonte di preoccupazione e instabilità.
  Cercherò di far luce su alcuni punti meno considerati nel dibattito corrente, anche se penso che siano la base e la premessa per qualsiasi discussione seria su quella regione e sul suo futuro. Suppongo che vorrete pormi domande su Israele e su quello che sta accadendo oggi; Sarò lieto di rispondere, dopo questa mia introduzione.
  Direi di iniziare dalla fine: il Medio Oriente è stato profondamente scosso nell'ultimo decennio: le rivolte iniziate in Tunisia ed Egitto, alla firme del 2010 e all'inizio del 2011, si sono estese a tutta la regione, causando quelle che sembravano "guerre civili".
  Da circa dieci anni, tutti si aspettano che nella regione torni la calma, e si ritorni all'equilibrio precedente. Ma a quanto pare, ciò che è stato in Medio Oriente, non tornerà ad essere com'era, nel prossimo futuro.
  Circa 100 anni fa, le potenze mondiali decidevano di dare ai popoli del Medio Oriente, una nuova veste, nella forma dello stato nazionale di tipo occidentale. Decidevano quindi di mettere insieme sunniti, sciiti, cristiani, drusi, alawiti, curdi e altre minoranze, in un unico paese chiamato Siria. Lo stesso è stato per Libano, Iraq, Yemen e altri luoghi. A proposito, è stato così anche in Libia.
  I gruppi che furono messi insieme, erano rivali, e spesso persino nemici. Anche all'interno stesso di questi gruppi etnici, c'erano tribù e clan, che erano spesso in conflitto tra loro, con frequenti spargimenti di sangue.
  Che cosa ha tenuto insieme tutti questi gruppi? Una visione condivisa? Dei valori condivisi? Una storia comune? Una religione comune? Una democrazia civile?
  Ciò che teneva insieme la Siria era Assad padre; ciò che teneva insieme l'Iraq era Saddam Hussein, e ciò che teneva insieme la Libia era Muammar Gheddafi; e così via. Singoli leader controllavano le forze armate e gestivano un regime di terrore e senza diritti civili. In termini occidentali, erano dittature.
  Quello che abbiamo visto nell'ultimo decennio è il crollo dello "stato-nazione" di tipo occidentale in Medio Oriente, assieme alla scomparsa di questi leader spietati, mentre da sotto, riemergono le antiche strutture (primordiali), che hanno caratterizzato da sempre questa regione. Sopra di esse, vi era molte volte una sovrastruttura sotto forma di impero, che governava tutto questo conglomerato multicolore.
  Ecco una prima domanda che sorge già dalle mie parole: chi ha deciso che ciò che si addice all'Europa e alla civiltà occidentale, si addice anche al Medio Oriente?
  In questo resoconto generale, ci sono paesi che fanno eccezione, rispetto al suddetto processo, e sono: Egitto, Iran e Turchia. Queste sono unità geografiche e nazionali, che esistevano già prima; sebbene anche lì, assistiamo a scossoni non semplici.
  Per un momento, l'Egitto è sembrato guidare la rivoluzione della "Primavera araba". I giornalisti occidentali stavano in Piazza Tahrìr l'11 febbraio 2011, e raccontando al mondo come questa rivoluzione appartenesse alla generazione di Facebook, e non avesse nulla a che fare con i Fratelli Musulmani. Una settimana dopo, nella stessa piazza si tenne una manifestazione di due milioni di persone, e il principale oratore era lo sceicco Y-iisuf al-Qaradàwì, la guida religiosa più influente oggi nel mondo musulmano, e l'autorità religiosa suprema dei Fratelli musulmani. Ma ritorneremo dopo su questo.
  Fortunatamente per l'Egitto, e forse anche per il mondo, vi fu una controrivoluzione, che tolse il potere ai Fratelli Musulmani.
  In Turchia è in atto, da un paio di decenni, una rivoluzione religiosa contro la rivoluzione secolare Kemalista, che aveva cambiato la Turchia negli anni '20 del secolo precedente. Non è una questione semplice, perché c'è una forte opposizione anche all'interno di parti importanti della società turca. Tuttavia, Erdogan nutre aspirazioni messianiche di riportare la Turchia agli splendori dell'Impero ottomano, e trasformarla in un califfato islamico. Si considera il patrono dei Fratelli musulmani.
  Per questo, la Turchia promuove i legami con Hamas a Gaza, con i Fratelli Musulmani in Egitto e in altri luoghi, e si intromette anche a Gerusalemme e altrove in Israele. Con il pretesto di attività religiose e sociali, crea dei centri di agitazione e incitamento all'attività islamica radicale. Per inciso, nella sua lotta per ottenere influenza sul Monte del Tempio a Gerusalemme, la Turchia si scontra con Giordania, Arabia Saudita e altri ancora. Una ulteriore ricetta per una guerra religiosa, per gentile concessione di Erdogan.
  Vi dico questo, perché il cambio di direzione della Turchia riguarda l'intera regione, incluso il "cortile di casa vostra", la Libia. Anche lì, la Turchia si intromette, e aumenta l'instabilità del paese. Non è passato molto tempo, da quando ha "spartito" il Mediterraneo tra lei e il debole leader di Tripoli.

 E veniamo all'Iran.
  L'Iran, ancor più di Egitto e Turchia, si trova su un antico continuum storico. È un'antica civiltà che era un impero già nel primo millennio a.C. Per questo, il regime iraniano guarda a priori all'Occidente con disprezzo: per loro, la civiltà occidentale è un corpo malato, con il tempo segnato. È bene ricordare, anche se vi incontrate con il sorridente ministro degli Esteri, Mohammed Zarif, si tratta di un paese guidato da un regime religioso degli Ayatollah. Le decisioni non sono sempre determinate da considerazioni razionali.
  Guardando oggi al Medio Oriente, la domanda che dovrebbe preoccupare l'Europa è: perché tutti gli Stati della Mezzaluna fertile, sono diventati paesi dominati dagli sciiti?
  Il Libano, inizialmente un paese con predominio cristiano, è ora sotto l'influenza sciita; La Siria era un paese con predominio sunnita, e oggi è una dittatura sciita; L'Iraq è stato sotto il dominio sunnita per secoli, ed è ora uno stato sciita.
  È avvenuto un cambiamento storico nei rapporti di forza tra sunniti e sciiti, come mai prima dalla fondazione dell'Islam nel settimo secolo.
  L'intera Mezzaluna fertile è ora aperta all'Iran, attraverso l'Iraq, la Siria, il Libano (Hezbollah), al bacino orientale del Mediterraneo. Non v'è mai stato nulla di simile, in tempi moderni.
  Le minacce dell'Iran a Israele non sono nuove. Israele non confina con l'Iran, e non c'è motivo di conflitto tra noi e loro. Tuttavia, data l'ossessività, la follia e gli enormi sforzi che il regime degli Ayatollah ha investito nell'odio di Israele, e nel suo desiderio di colpirci, e persino di distruggerci, - questa sembrerebbe essere la ragion d'essere di questo regime.
  Di recente, il 22 maggio, abbiamo sentito nuovamente il leader supremo Khàmeneì, definire Israele un "tumore canceroso nel Medio Oriente". Ha anche detto: "Il virus sionista che è sopravvissuto finora, non sopravviverà ancora a lungo. L'entità sionista non sopravviverà; sarà eliminata". Oggi, i più grandi antisemiti del mondo, hanno imparato a mascherare le loro parole, e a sostituire "ebrei" con "sionisti". Secondo la definizione di antisemitismo, adottata lo scorso gennaio anche dal governo italiano, entrambi i tipi sono il medesimo antisemitismo. Come se non fossero passati 80 anni, di nuovo sentiamo Hitler parlare alle masse, solo che il tedesco è cambiato in lingua farsi.
  Ma non si tratta solo di parole. Sono parole che invitano all'azione. In quel discorso, Khàmeneì ha dichiarato: "Chiediamo al mondo, in particolare al mondo musulmano, di sostenere e armare i palestinesi". Di chi stava parlando? Di Hamas, una dichiarata organizzazione terroristica, che nel suo statuto, cita il fondatore dei Fratelli Musulmani, Hasan al-Bannà: "Israele esisterà e continuerà ad esistere finché l'Islam non lo cancellerà, proprio come ha cancellato altri prima di esso".
  Da qui, anche l'idea insensata - di cui l'Europa faceva parte - che fosse possibile raggiungere con questo sanguinoso regime, un accordo sulla bomba nucleare. Onorevoli Senatrici e Senatori, nel momento in cui avranno una bomba, la useranno. Chiunque pensi che io stia esagerando, è invitato a imparare dall'esperienza europea. È così che i paesi del mondo parlavano di Hitler e della Germania nazista, sottovalutando i loro discorsi. Dalla storia abbiamo imparato, che quando un dittatore dice qualcosa, è bene prendere sul serio le sue parole.
  Israele è in grado di affrontare questo regime. Il problema è che il resto dei paesi del Medio Oriente, non è in grado di affrontare l'Iran. Guardate tutti i paesi arabi in cui l'Iran è coinvolto, e vedrete con occhi obiettivi, che esso è un fattore rilevante della instabilità di quei luoghi.
  Esiste un profondo divario, tra la visione del mondo occidentale e l'Iran. Non è sufficiente parlare inglese "koinè";La domanda è: quale mondo rappresenta la lingua? Ecco un esempio attuale:
  Lo scorso maggio, è emerso che un padre ha decapitato la propria figlia con una falce, a causa della cosiddetta "offesa all'onore della famiglia". È stato catturato e ha confessato. Ma questo non significa che resterà in prigione. La legge iraniana riconosce l'antica istituzione del "riscatto del sangue", una sorta di "delitto d'onore", e la possibilità di convertirne la pena in pena pecuniaria. Più di due anni fa, l'ex sindaco di Teheran uccise sua moglie. Fu catturato, confessò e fu condannato a morte. Oggi è libero. La sua condanna è stata convertita in pena pecuniaria. Ora, trovatemi un parallelo simile, in un codice penale di qualsiasi paese occidentale. Ciò che per noi è omicidio, per loro è solo una delle opzioni.
  Ignorare questo divario tra le visioni del mondo, non mette in pericolo solo Israele. Siamo tutti in pericolo, anche l'Italia e l'Europa. Ricordate lo sceicco Qaradàwì in Piazza Tahrir? Bene, quest'uomo, che ora è l'autorità religiosa suprema nel mondo musulmano, ha emesso una Fatwà (una sentenza giuridica islamica) in cui dice ai suoi fedeli quanto segue:
  "Costantinopoli è stata conquistata dal giovane ottomano Muhammad bin Muràd, nel 1453 ... Resta l'altra città, Roma, e noi speriamo e crediamo che anch'essa sarà conquistata. Questo significa, che l'Islam tornerà in Europa da conquistatore e vincitore, dopo esserne stato espulso due volte ... Forse, se Allah vuole, la prossima conquista avverrà grazie alla predicazione e all'ideologia. Non è obbligatorio che la conquista avvenga grazie alla spada ...".
  Il simbolismo di Roma come capitale della civiltà cristiana è evidente. Per questo, l'enorme sforzo islamista di intromettersi a Gerusalemme. E queste non sono cose dette in segreto, ma apertamente agli occhi di tutto il mondo.
  L'idea che l'Occidente possa firmare accordi con gli islamisti, allo stesso modo in cui l'Italia firma accordi con la Francia, non è semplicemente ingenua, ma pericolosa. Il fondamento degli accordi importanti nell'Islam, si basa sul modello che Maometto stabilì con l'accordo di Al-Hudaybiyya nel 628 (Seicento Ventotto). A quel tempo, il potere di Maometto era debole, quindi egli firmò un accordo decennale di non belligeranza con la tribù dei Quraysh, che governava la Mecca. Non dovendo più occuparsi della potente tribù dei Quraysh, Maometto ebbe il tempo di occuparsi delle tribù ebraiche della penisola arabica, eliminandole o islamizzandone alcune. Le sue vittorie, portarono un numero maggiore di credenti a unirsi al suo esercito, che divenne più forte. Due anni dopo aver firmato l'accordo, Maometto lo violò, e conquistò la Mecca. Il resto è storia.
  Per inciso, sei mesi dopo la firma degli Accordi di Oslo, Yasser Arafat dichiarò in un discorso registrato: "Questo accordo (Oslo), ai miei occhi non è nulla di più dell'accordo firmato tra il profeta Maometto e la tribù dei Quraysh ... così come Maometto ha accettato quell'accordo, noi accettiamo questo accordo".
  Ci piace pensare di avere tutti gli stessi bisogni e interessi umani di base. Questa è una tendenza ben nota, come lo è la negazione della realtà, e il dire "andrà tutto bene". Sull'Iran, sono anni che noi lo gridiamo a voce alta. È tutto palese di fronte a voi. Alcuni ci ascoltano, altri meno. Ad ogni modo, i giorni in cui il popolo ebraico chiedeva protezione ad altri, sono finiti. Siamo tornati nella storia per restarci. E per rimanere nella storia, impariamo bene le sue lezioni. Se sarà necessario difenderci, sapremo farlo.
  Il concetto che vi chiedo di recepire dalle mie parole, è che l'Iran è un pericolo per tutto l'Occidente, Italia inclusa. Onorevoli Senatrici e Senatori, a questo riguardo, siamo tutti sulla stessa barca, chiamata civiltà giudaico-cristiana.
  L'altro assunto, riguarda l'apprendimento dagli ultimi cento anni di storia: l'Europa ha cercato di "fare ordine" in Medio Oriente, e ci sta ancora provando. Non solo non ci è riuscita, ma il caos mediorientale di oggi, è in gran parte il risultato di questi tentativi. In parte, per i motivi che ho elencato.
  Onorevoli Senatrici e Senatori, lasciateci fare da soli.

  Audizione e risposte

(Notizie su Israele, 18 giugno 2020)


Grillini zitti su Maduro. Ma attaccano Israele

Pessima uscita del pentastellato Petrocelli con l'ambasciatore Dror Eydar: «Lo Stato ebraico è una minaccia nucleare?»

di Giovanni Sallusti

Il Movimento Cinque Stelle è un partito-burla, e proprio per questo ogni volta che tracima dal recinto della commedia all'italiana e si esercita sul piano globale finisce in tragedia. La geopolitica vista dai server della Casaleggio&Associati ha una sola, indiscutibile, granitica costante: vale tutto, basta stare coi nemici dell'Occidente. Neocomunismi tecnocratici come la Cina, satrapie islamiste come l'Iran, ultime lande del socialismo reale come Cuba e Venezuela. Già, il Venezuela. In questi giorni la nomenclatura grillina sta tentando una missione impossibile: scavalcare con un disinvolto silenzio gli interrogativi sul presunto finanziamento illegale ricevuto dal regime allora retto da Hugo Chavez, quando un anno fa pavoneggiava la propria diversità rispetto al presunto finanziamento russo alla Lega. Peraltro, questo caso sarebbe assai più scivoloso, visto che Chavez e il suo successore Maduro sono due macellai incalliti avvezzi ad affamare il proprio popolo e ad imbastire proficue collaborazioni col narcotraffico e col terrorismo internazionali, anzitutto in chiave anti-Usa, il Grande Satana, l'incubo del terzomondismo 2.0 dei leaderini pentastellati, altrettanti habitué dell'ambasciata cinese a Roma. Però, a pensarci, c'è uno Stato, un'eccezione vivente, che al Movimento sta fin più sul gozzo dello Zio Sam. Israele, l'unica democrazia del Medio Oriente. Qualcosa da sempre inaccettabile per la sinistra filocoranica, e a maggior ragione oggi per la sua filiazione trash, la congrega a Cinque Stelle. C'è una lunga storia di spettacolarizzazioni anti-israeliane, dal presidente della Camera Fico che riceve con tutti gli onori Mai Al Kaila, ambasciatrice della Palestina che sui suoi social glorifica come "martiri" e 'fratelli" i terroristi, all'invito a Montecitorio recapitato a Omar Barghouti, il fondatore del movimento per il boicottaggio dello Stato ebraico. Il vicepresidente della Commissione Esteri del Senato Vito Rosario Petrocelli ha deciso però di scalare questa speciale classifica, e di uscire dalla propria dimensione di Carneade utilizzando un classico del bagaglio politico grillino, la gaffe. L'omonimo di Crimi ha pensato bene di fare lo spiritoso al termine di una videoconferenza con l'ambasciatore israeliano Dror Eydar. «Lasciamo questo incontro senza sapere se Israele è una minaccia nucleare», ha scandito bullesco, immaginiamo dando di gomito al vicino di banco e sentendosi una versione lucana di Arafat.
  Piccolo particolare: la linea era ancora aperta, e dall'apparecchio è subito partita la replica del diplomatico. «Questo è il problema dell'Italia, che deve capire qual è la realtà del Medio Oriente. Non è questa la domanda giusta, noi dobbiamo difenderci, questo è il punto, 80 anni dopo l'Olocausto». Una lezione di storia in due frasi che potrebbe comprendere perfino Petroncelli (di cui la Lega ha chiesto immediate dimissioni): Israele è l'unico Stato al mondo circondato da vicini che lo considerano abusivo, una blasfemia della storia, un cancro da rimuovere dalle mappe.

 Minaccia islamica
  È quindi persino confortante che Israele detenga la bomba, per i suoi abitanti ma anche per noi, affezionati a questa nostra fetta di mondo démodé e consapevoli che come ricordava Ugo La Malfa «la libertà dell'Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme», perché lì premono i suoi nemici principali, i sicari della sharia. Che evidentemente per proprietà transitiva piacciono invece agli strateghi della politica internazionale pentastellata (il pasdaran Di Battista del resto invitò ad "elevare ad interlocutorì" gli sgozzatori dell'Isis).
  Il capogruppo in Commissione Esteri del Movimento Gianluca Ferrara ha poi provato a mettere una toppa allo sfondone del collega, perfino peggiore del buco: «Siamo rimasti sinceramente delusi dall'audizione dell'ambasciatore di Israele. Ha trattato con sufficienza una commissione parlamentare, accusando a più riprese l'Italia e l'Europa di non capire le ragioni di Israele nel rifiutare il dialogo con i palestinesi». Qualcuno dovrebbe leggergli il preambolo dello Statuto di Hamas: «Israele sarà stabilito e rimarrà in esistenza finché l'islam non lo ponga nel nulla».
  Poi ne riparliamo, di chi davvero rifiuta il dialogo. Ma sarebbe politica estera, e non (pessimo) cabaret.

(Libero, 18 giugno 2020)


La Bibbia è razzista?

di Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri

In un momento in cui tutto il mondo è giustamente indignato per il razzismo, padre Alberto Maggi, teologo e biblista cattolico, scopre l'origine di questo flagello: la Bibbia! «Si trovano nella Bibbia le radici profonde del razzismo, pianta venefica che intossica gli uomini, generando persone che, chiuse nel proprio angusto confine mentale, si sentono minacciate da tutto ciò che è più ampio, diverso» (A. Maggi, La Bibbia e il razzismo, www. ilLibraio.it).
   In primo luogo si potrebbe osservare che è antistorico parlare di razzismo per l'Antichità. Certamente in tutti i popoli antichi gli esempi di xenofobia non mancano, basti pensare al mondo egiziano, che spesso rappresentava i faraoni in atto di calpestare i popoli nemici, o al mondo greco, che definiva barbari tutti coloro che non parlavano la sua lingua e non condividevano la sua civiltà. Ma il razzismo come si è venuto configurare in età moderna, soprattutto a partire dal secolo XIX, è tutt'altra cosa.
   Che i testi biblici siano stati utilizzati dai razzisti è senz'altro vero, ma altra cosa è affermare che è la Bibbia stessa ad essere razzista. Certo, in testi così antichi sono presenti passi molto problematici, ma è proprio compito del biblista interpretare e contestualizzare tali testi in modo che non ne derivino interpretazioni fuorvianti.
   La pericope di Gn 9,18-27 contenente la benedizione di Shem e Yafet e la maledizione di Kenaan costituisce uno di questi passi. Kenaan viene maledetto in quanto suo padre Ham ha visto la nudità di Noah, ossia ha intaccato quel rispetto per la generazione precedente che è condizione indispensabile per la prosperità e la continuità di un popolo, principio questo che nell'Israele storico verrà affermato con il comandamento: «Onora il padre e la madre».
   Questa pericope, posta alla fine del racconto epico del diluvio, ha anche un valore eziologico oltre che morale: nasce dal tentativo di spiegare come mai nell'armonia di un'umanità di fratelli si sia insinuata la schiavitù. La narrazione inoltre può essere stata condizionata dall'esecrazione, riscontrabile in tanti passi della Scrittura, per l'idolatria, accompagnata da culti orgiastici e dalla prostituzione sacra praticati dalle popolazioni cananee.
   Maggi afferma che gli abitanti della terra di Kenaan erano legittimi e che gli israeliti erano occupanti del loro territorio. In realtà, tra la tarda età del bronzo e la prima età del ferro (1550-1150 a.e.c.) le popolazioni della terra di Kenaan erano costituite da diverse etnie e provenivano da vari territori: esse, organizzate in piccole città-stato, erano in continue guerre tra loro. Sembra che qui Maggi proietti sulla storia antica categorie interpretative legate alla storia più recente.
   Egli inoltre sostiene che la sacra Scrittura va interpretata, e questo è sicuramente vero, anche e soprattutto per la tradizione ebraica, che è in continua reinterpretazione dei suoi testi, tanto che si è addirittura parlato di una «interpretazione infinita». Maggi invece afferma: «Il Cristo è pertanto la chiave di interpretazione della Scrittura», contraddicendo così il documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture (2001), con prefazione dell'allora card. J. Ratzinger. Nel documento si riconosce che la lettura ebraica della Bibbia «è una lettura possibile, che è in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell'epoca del Secondo Tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente a questa» e si aggiunge che i cristiani possono imparare molto dall'esegesi giudaica praticata per 2000 anni, come a loro volta i cristiani sperano che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell'esegesi cristiana.
   Continuando la lettura dell'articolo, non è facilmente identificabile la pericope del NT in cui viene detto: «Prima noi!», a cui Yeshua risponderebbe: «Tutti insieme!».
   Molto grave è che il teologo-biblista interpreti come razzismo il tema dell'elezione d'Israele, che non è da intendersi come «un vantare più diritti degli altri», «arroccarsi sulla separazione razziale», ma vuol dire essere chiamati a diffondere la Torah per il bene dell'umanità intera.
   L'articolo si conclude con un'ulteriore grave affermazione: Maggi scrive che «l'unica razza presente nei Vangeli è quella delle vipere, serpenti velenosi, immagine delle pie persone, degli "scribi e farisei ipocriti" tanto devoti con Dio quanto disinteressati al bene degli uomini». La Pontificia Università Gregoriana ha organizzato nel 2019 un convegno internazionale sui farisei, i cui Atti sono in corso di pubblicazione, spinta dall'esigenza, da più parti sentita, di rendere giustizia a un gruppo religioso da sempre vilipeso dai commentatori e dai lettori degli scritti neotestamentari. Colpisce quanta differenza di informazione e di sensibilità esista tra la cerchia degli studiosi e il comune sentire, tuttora sotto l'influenza di stereotipi e pregiudizi.

(Settimana News, 18 giugno 2020)


La Bibbia è razzista”, si è arrivati a dire anche questo. Non sorprende, si è detto e si dirà anche di peggio. E’ necessario che gli elementi a carico degli stolti per l’espletamento del giusto giudizio di Dio giungano a completezza. M.C.


L'eterno ritorno dell'antisemitismo, dagli "Ebrei di Colonia" alle pandemie di oggi

di Massimo Novelli

"Solo che a farmi indignare oggi non è il passato, ma il presente. Allora quasi nessuno pensava che la natura ferina del XIV secolo, nutrita da preti e frati, potesse risvegliarsi di nuovo nel seno del popolo tedesco". Era il 1897 quando il narratore e giornalista tedesco Wilhelm Jensen (1837-1911) scrisse la prefazione alla ristampa del suo romanzo storico Gli ebrei, di Colonia (Die Juden von Cölln), un'opera giovanile, pubblicata nel 1869, che era nobilmente votata a narrare e a denunciare gli orrori dell'antisemitismo germanico nel Medioevo. Tanto che il libro fu apprezzato da Theodor Herzl, il fondatore del sionismo.
   Sembravano vicende dei secoli più bui, storie della peste nera, la stessa di Giovanni Boccaccio. Invece, a distanza di tanto tempo, avvertì Jensen nel 1897, quel "feroce ruggito" dell'antisemitismo, l'odio dell'antigiudaismo cattolico, divamparono e risuonarono nuovamente. In Francia era scoppiato il caso di Alfred Dreyfus. In Germania si era svolto a Dresda, nel 1882, il primo congresso mondiale antiebraico, e nel 1885 erano stati espulsi 10mila ebrei russi che si erano rifugiati in terra tedesca dopo i pogrom zaristi degli anni precedenti. Così la storia che aveva scritto, quasi trent'anni prima, si inverò ancora una volta, diventando bestialmente il presente. Alla vigilia del 1900, insomma, quanto era stato descritto da Jensen per il Medioevo si ripeteva; e la menzogna, le stupidità e le follie di massa facevano a pezzi come allora la ragione e la verità.
   Amico di Sigmund Freud, che si ispirò a una sua novella, Gradiva, per l'indagine psicoanalitica sull'arte, Jensen aveva raccontato l'assalto al ghetto della città di Colonia, a metà del 1300, mentre infuriava la peste nera, e la distruzione di quella che era la più grande comunità israelitica della Germania. La pestilenza aveva alimentato in molti cattolici l'ossessione della "Fine dei Tempi", scatenando l'individuazione di un untore, ossia di un colpevole, identificato nell'ebreo, "uccisore di Nostro Signore Gesù Cristo" e "avvelenatore dei pozzi".
   Gli ebrei di Colonia non era mai stato tradotto in italiano. Esce dunque ora, per la prima volta, grazie alla Biblioteca del Vascello-Robin, in una elegante edizione curata da Claudio Salone. È un romanzo, quello di Jensen, che anticipa, con una notevole preveggenza e una straordinaria lucidità di visione storica, ciò che sarebbe avvenuto in Germania negli anni Trenta-Quaranta con Hitler e il nazismo. Nello stesso tempo è una narrazione che ci è vicina proprio adesso, in questi mesi di novelle pandemie, di fronte al mai tramontato razzismo, al cospetto dell' eterno ritorno dell'antisemitismo. La lezione di Jensen, tuttavia, il suo messaggio imperituro, come avverte Salone nell'introduzione al romanzo, richiamano l'amore e la solidarietà dei perseguitati, "che talvolta riescono a valicare gli steccati che la Storia ha innalzato tra di loro, nel riconoscimento di un destino comune, illuminato dalla Luce della Ragione".

(il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2020)


Coronavirus, arriva da Israele la mascherina autopulente

ROMA - E' stata inventata da un gruppo di ricercatori israeliani una mascherina riutilizzabile che si autodisinfetta grazie al calore. La mascherina ha una porta USB che se collegata a una fonte di energia riscalda il suo strato interno di fibre di carbonio fino a 70 gradi centigradi, temperatura sufficiente a distruggere il coronavirus. Si consiglia alle persone di non indossare la mascherina durante il processo di disinfezione, che dura 30 minuti, ha detto all'agenzia Reuters Yair Ein-Eli, capo del team di ricerca dell'università Technion che ha inventato il dispositivo. I ricercatori hanno chiesto il brevetto Usa per la mascherina autopulente e intendono commercializzarla.

(askanews, 17 giugno 2020)


"Così trascrivo la sacra Torah"

Parla Amedeo Spagnoletto, rabbino, 52 anni, nuovo direttore del Museo nazionale dell'Ebraismo e della Shoah di Ferrara

"Bisogna seguire il principio tratto dall'Esodo: questo è il mio Dio e lo voglio rendere bello". È l'unico sofer italiano da 150 anni. La sua arte di copiare i testi è antichissima. "Sono uno scriba".

di Susanna Nirenstein

 
Amedeo Spagnoletto
Un rabbino, una guida spirituale, un insegnante della legge mosaica alla direzione di un istituzione culturale del Paese. Un fatto inedito. Il museo è quello nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, il Meis, aperto quattro anni fa a Ferrara con lo scopo di raccontare l'esperienza millenaria degli ebrei nella Penisola. E' qui che Amedeo Spagnoletto, 52 anni, romano, si è appena insediato.
Spagnoletto è un rabbino molto speciale, il più informale che si sia mai visto: rosso di capelli, si fa chiamare per nome, non è difficile incontrarlo con il berretto da baseball e sneakers in bicicletta. Rilassato ma dotto, eccome. Diplomato in Biblioteconomia alla Biblioteca Vaticana, è professore di Talmud ed esegesi biblica, di Paleografia ebraica, di Diritto ebraico, e soprattutto è un sofer, un copiatore dei sacri rotoli della Torah, possiede un'arte millenaria, un mestiere sacro, è uno scriba certificato della Bibbia che deve sapere più di 4000 regole contenute nel Talmud e nella Mishnà per affrontare il suo lavoro. Durante il quale, se compi un errore nel redigere il nome del Signore, tutto va a monte. Vogliamo saperne di più. Lo contattiamo via Skype.

- Un rabbino a dirigere un museo nazionale. Come pensa di coniugare queste due identità, quella religiosa e quella laica?
  «Per me è stata una sorpresa, temevo che essere un rabbino potesse essere un ostacolo alla mia candidatura. E invece non ci sono stati pregiudizi, il Paese ha capito che in una figura possono convivere l'adesione a una tradizione plurisecolare e una prospettiva più ampia. In realtà credo che il Meis sia il luogo più adatto per raccontare a una nazione a volte lacerata tra accoglienza e diffidenza, come un'integrazione senza la rinuncia alle specifiche identità sia possibile. Con una priorità rivolta alle scuole».

- Da dove nasce il suo ebraismo così profondo, da che famiglia viene?
  «Da una famiglia tradizionale romana, non così osservante. È stata soprattutto mia nonna Elena, mentre seguiva il lutto per suo marito negli anni 70, ad avvicinarmi alla religiosità, a farmi sentire il privilegio di appartenere a una cultura tanto forte e il desiderio di trasmetterla alla generazione successiva. Anche se io mi sento un ebreo all'italiana, attento a contemperare precetti e un modo di vita tollerante».

- Lei è anche un sofer, credo l'unico in Italia negli ultimi 150 anni. Cosa significa questo mestiere?
  «Ho scritto un Sefer Torah nel 2007 ed erano circa 150 anni che in Italia non venivano redatti. Mentre la tradizione della copiatura dei testi sacri aveva sempre contraddistinto il nostro Paese. Furono l'emancipazione e il diffondersi della secolarizzazione a investire e far scemare questa pratica che sta a metà tra artigianato e devozione».

- Come si diventa sofer?
  «Richiede l'apprendimento di una tecnica che deve assolvere a numerose regole prescritte dai più antichi rabbini, dalla Mishnà e dal Talmud, oltre a una buona dose di sfaccettatura artistica secondo il principio parafrasato dall'Esodo "questo è il mio Dio e lo voglio rendere bello". Le norme vanno dal supporto scrittorio, la pergamena, alla produzione del calamo, alle lettere che vanno scritte in modo completo, armonioso e con un inchiostro durevole. Essere scriba è la caratteristica di me stesso a cui tengo di più; se mi chiedono che fai nella vita, io vorrei rispondere "scriba in Roma", il resto, essere insegnante, rabbino, è corollario».

- Cosa prova mentre trascrive le lettere sacre della Bibbia?
  «Si dice che il Sefer Torah possieda tante lettere quante sono le anime del popolo ebraico. E infatti quando scrivi devi stare attento che non manchi nemmeno un carattere, altrimenti quella Torah sarà inadatta alla lettura pubblica: insomma quando copio mi sento legato a tutte le parti dell'ebraismo, passato, presente, futuro. Come in quel midrash che racconta come sul Monte Sinai a ricevere le tavole della legge ci fossero tutti gli ebrei, sia quelli che erano usciti dall'Egitto, sia quelli che sarebbero venuti dopo. E mi sento cosi anche quando correggo o restauro un Sefer Torah antico, perché avverto tutta la tradizione precedente, mi connetto a tutti quelli che l'hanno letto e conservato prima di me».

- Bisogna essere puri prima dl impugnare la penna d'oca?
  «Ci vuole un'attenzione particolare quando si copia il tetagramma, il nome di Dio. Devi prima pronunciare delle parole che attestino la consapevolezza della santità di quel che stai per fare. Alcuni consigliano il mikveh, il bagno rituale, ma non è obbligatorio».

- Torniamo al suo museo. Cosa consiglia di vedere?
  «Innanzitutto il luogo, perché il museo è iscritto nel carcere dove sono stati reclusi i prigionieri durante il fascismo, anche Bassani: è di per sé evocativo di una storia ebraica incancellabile. Poi contiene un eccezionale progetto didattico rivolto alle scuole. In terzo luogo ci sono le straordinarie mostre permanenti e quella sulla Shoah 1938: l'umanità negata che era stata chiusa per il Covid e ora viene riaperta. E quella che verrà, sul periodo del ghetti. Imprescindibile una visita alla Ferrara ebraica, le sue sinagoghe, il cimitero. Un'offerta armoniosa, sintonica».

- Cosa vuol fare di questo museo?
  «Per ora devo studiare quel che è stato fatto, il lavoro meraviglioso e appassionato che ha realizzato chi mi ha preceduto, Simonetta Della Seta».

- Un sogno nel cassetto?
  «Penso a un lavoro che si concentri sul rabbino Yochanan Ben Zakkai, vissuto duemila anni fa. Fu lui che durante l'assedio a Gerusalemme riuscì a uscire dalle mura della città e a incontrare il comandante Vespasiano: cosi ottenne di salvare i saggi e la scuola rabbinica che poi fondò a Yavne. Fece un passo che permise agli ebrei di riformulare le modalità di trasmissione della propria tradizione e di continuare ad esistere. Mi piacerebbe metterlo al centro di un'iniziativa».

(la Repubblica, 17 giugno 2020)


Prossimo il rientro in Israele del F-35 Adir "sperimentale"

di Aurelio Giansiracusa

F-35 Adir del 140 Squadron Israeli Air Force
Per il prossimo 4 luglio è prevista la consegna di 4 F-35 all'Aeronautica israeliana. Di questi quattro velivoli, uno è lo "special test aircraft", un aereo impiegato per testare, sviluppare ed implementare sistemi avionici esclusivi dell'Aeronautica di Tel Aviv.
Questi tre apparecchi (più l'aereo "sperimentale") porteranno il totale degli aerei fin qui consegnati a 27, superando la metà dei 50 F-35 Adir ad oggi ordinati.
L'aereo sperimentale è servito a sviluppare un primo "lotto" di avioniche dedicate che sono state provate in combattimento dalla IAF sui cieli mediorientali.

 Suite EW e sistema di comando e controllo israeliano
  Una volta rientrato in Israele, il velivolo riceverà la suite potenziata EW (Electronic Warfare), sistema già estremamente performante rilasciato dalla versione "legacy" del Lightning II.
Ovviamente, su questo delicato programma convergono le maggiori imprese israeliane del settore, tra l'altro, tra le migliori in assoluto al mondo e gli organi tecnici nonché i reparti operativi della IAF che gestiscono il velivolo. Al momento sono stati dichiarati operativi due squadroni di Adir ed un terzo è in via di formazione.
Non sono rilasciate grosse informazioni in merito, data la natura riservata del programma. Ufficialmente si parla di rendere gli F-35 Adir in grado di assegnare i bersagli a tutti gli operatori aerei, terrestri e navali, nell'ambito di sistema di comando e controllo sviluppato in Israele inteso a migliorare le capacità di combattimento delle IDF.
Tutto questo è reso possibile dalla potenza dei sensori e dei sistemi di elaborazione dei dati ricevuti nonché dai sistemi di trasmissione in tempo reale installati sul velivolo. Sotto questo profilo, l'aspetto EW è fondamentale per aggiornare costantemente il "quadro elettronico" del campo di battaglia, fornendo informazioni precise sul livello di minacce esistenti, permettendo di affrontarle senza esporre a rischi le proprie forze operative.

(Ares Osservatorio Difesa, 17 giugno 2020)


Mussolini in trappola

Impressionato dalla potenza del Reich concluse l’alleanza suicida con Hitler

Berlino, 1937
Al Duce durante la sua visita ufficiale, fu concesso l'onore di rivolgersi dal palco a una folla immensa di tedeschi osannanti.
Tra i capolavori
A Firenze, a far da guida a Hitler agli Uffizi fu «comandato» Ranuccio Bianchi Bandinelli, grande antichista.

di Paolo Mieli

Poteva andare a finire in modo diverso la storia di Benito Mussolini? A conclusione di Hitler in Italia. Dal Walhalla al Ponte Vecchio, maggio 1938, pubblicato dal Mulino, Franco Cardini e Roberto Mancini si consentono due pagine di quello che definiscono un esercizio di «spregiudicata ucronia». Fingono che il capo del fascismo sia morto dieci anni prima di quando effettivamente venne ucciso dai partigiani (aprile 1945) e, nel contempo, oltre dieci anni dopo di quando andò al potere (ottobre 1922). Vale a dire provano a immaginare come oggi Mussolini verrebbe ricordato in Italia se fosse uscito di scena il 28 aprile 1935, all'indomani dei patti di Stresa. Patti con i quali «aveva dimostrato di aver compreso prima e meglio di altri la natura del pericolo rappresentato dalla Germania nazionalsocialista». Insomma, se fosse scomparso prima di scatenare la guerra d'Etiopia e di lasciarsi avvolgere dall'«abbraccio stritolante di Hitler», forse oggi di lui si parlerebbe in modo diverso.
  In quel caso, tengono a precisare, sarebbe ovviamente rimasto, agli occhi dei contemporanei e dei posteri, il responsabile delle violenze squadristiche, della sospensione delle libertà politiche e dell'uccisione di Giacomo Matteotti. Misfatti incancellabili. Ma, sostengono, verrebbe ricordato anche come l'uomo del «risanamento delle istituzioni statali», della «lotta alla piaga dell'emigrazione», della Carta del Lavoro, dell'«autentica fondazione dello Stato sociale», dello «sbancamento della mafia», della «modernizzazione del Paese - bonifiche, ferrovie, incentivi all'industrializzazione, nascita dell'industria turistica e di quella cinematografica, impulso alle comunicazioni navali, avvio di quelle aeree - della nazionalizzazione culturale delle masse, della conciliazione tra Stato e Chiesa», di una politica estera balcanica e orientale caratterizzata tra l'altro da un «deciso filosionismo» e da una «chiara comprensione delle aspettative dei popoli arabi» che avrebbe fatto di lui un «mediatore ideale» in quell'area geografica. Talché forse oggi Mussolini sarebbe considerato in modo differente. Molto differente. «Invece l'accidente non gli è venuto», scherzano Cardini e Mancini. E il Duce si è infilato in una storia che lo ha portato tra le braccia di Hitler. Con le conseguenze che ben conosciamo.
  Prima tra queste conseguenze la visita del Führer in Italia fra il3 e il9 maggio 1938, che fu la rappresentazione plastica di quel che si era messo in moto dalla metà del 1935. E di ciò che stava per accadere. Fu, quella visita, sotto molti profili «emblematica» in quanto «mise in movimento una poderosa macchina di autorappresentazione dello Stato monarchico e del popolo fascista». Autorappresentazione «senza precedenti per complessità logistica e per elaborazione iconografica». li dispositivo cerimoniale studiato e originalmente proposto «fece proprie molte delle antiche formule rituali sabaude», ma si aprì anche alle «retoriche localistiche». Tale rituale, mentre «teneva conto dei rispettivi poteri nonché delle distinte prerogative del re e del Duce», si mostrò «sensibile alle esigenze della moderna comunicazione politica». Fu, secondo Cardini e Mancini, «un capolavoro che riuscì a dare della realtà italiana un'immagine sorprendentemente vivace e poliedrica, assumendo in pieno tutte le questioni estetiche e teologico-politiche al momento in auge». Riproponendo tra le righe persino quel dibattito tra «vecchio» e «nuovo» che con icastica formula fu definito «ritorno all'ordine».
  Quel viaggio fu la «restituzione» di una visita che il capo del fascismo - accompagnato da Ciano, Starace, Alfieri e da un centinaio fra esponenti del governo e gerarchi - aveva fatto l'anno precedente in Germania. La delegazione mussoliniana aveva viaggiato su un convoglio speciale che «faceva sfoggio della più moderna tecnologia italiana». Varcata la frontiera, a Kiefersfelden, era andato ad accoglierlo un gruppo di importanti personalità tra cui Ulrich von Hassel, Rudolf Hess, Hans Frank e l'ambasciatore italiano in Germania Bernardo Attolico. Alla stazione di Monaco fu eretta in onore del Duce una gigantesca «M»: la città da cui era iniziata l'avventura hitleriana era addobbata a festa e fu lì che i due leader fecero la prima comparsa in pubblico. Già a Monaco camminavano l'uno a fianco dell'altro: Mussolini, salito al potere nel 1922, e Hitler che guidava la Germania solo dal 1933. Ma fu poi a Berlino che venne messa in scena una rappresentazione trionfale. Mussolini - che pure nel 1934, al momento dell'assassinio di Dolfuss, aveva impedito alla Germania di annettere l'Austria - riuscì quattro anni dopo a far cadere ogni residua diffidenza hitleriana nei suoi confronti (ammesso che ancora ce ne fosse). «Mai», scrisse l'ambasciatore francese a Berlino, «alcun monarca fu ricevuto con tanto fasto».
  Hitler concesse a Mussolini l'onore di rivolgersi pubblicamente a una folla di tedeschi osannanti, come fino ad allora solo lui aveva potuto fare. L'occasione, scrivono Cardini e Mancini, fu tuttavia guastata da uno scroscio di pioggia che dovette far disperare il Duce perché, fra l'altro, bagnò le cartelle dattiloscritte del suo discorso. E lui, per quanto ostentasse una certa padronanza del tedesco e potesse leggerlo «discretamente», in realtà «possedeva l'idioma parlato solo in modo malsicuro, con discreta proprietà ma con una disastrosa pronuncia». L'esito di quell'evento, «da lui atteso con ansia e accuratamente preparato», fu «obbiettivamente frustrante per il suo orgoglio». Ciò che, però, non modificò la diffusa impressione che si fosse trattato di un successo. Il capo del fascismo fu molto colpito dall'immagine di potenza offerta dalla Germania. Ne fu «affascinato e sconvolto». La stampa italiana scrisse che Hitler si era avvicinato a Mussolini. Attolico, nei suoi rapporti riservati, sostenne l'esatto contrario. Era stato Mussolini, secondo l'ambasciatore, ad avvicinarsi a Hitler.
  Appena rientrato in Italia, il Duce mandò un telegramma a Vittorio Emanuele III in cui scrisse: «Mia impressione è che il Reich non ha rinunciato all'Anschluss; attende solo che gli eventi maturino». Un modo per dire che il Führer gli aveva annunciato l'intenzione di annettere l'Austria e che lui gli aveva risposto che stavolta non si sarebbe opposto. L'interprete ufficiale di Hitler per la lingua italiana, Paul Schmidt, nel dopoguerra ha scritto un libro, Da Versaglia a Norimberga (L'Arnia), in cui è stato assai circostanziato sulla concatenazione
  tra quell'incontro e l'annessione dell'Austria alla Germania nazista. Mussolini, scrisse Schmidt, «aveva formulato l'invito a Hitler, in mia presenza, durante la visita in Germania e sotto l'impressione delle accoglienze ricevute». Non so, proseguiva, «se questo invito sarebbe stato fatto con tanta cordialità, qualora a quell'epoca l'Anschluss dell' Austria fosse già stata un fatto compiuto». Se pensiamo «a come il Duce aveva scosso il capo durante i colloqui con Göring nell'aprile del 1937, sono indotto», prosegue Schmidt, «a dubitarne». Malgrado Göring glielo avesse preannunziato, Mussolini «fu alquanto sorpreso» dal proposito di annessione. Tuttavia «fece buon viso a cattivo gioco e rispose che comprendeva perfettamente il modo di agire di Hitler».
  Nel 1938, quando Hitler restituì la visita, molte cose erano cambiate dal 1934. Ma anche rispetto al 1937. La Germania nazionalsocialista, ricordano Cardini e Mancini, non aveva aderito alle sanzioni economiche contro l'Italia decretate dalla Società delle Nazioni in seguito all'aggressione italiana all'Etiopia. Successivamente Italia e Germania si erano trovate fianco a fianco nel sostegno politico e militare all'alzamiento nazionalista contro la Repubblica spagnola nell'estate del 1936. L'11 marzo del 1938 Hitler era entrato «da padrone» a Vienna, segnando «un passo definitivo sulla via dell'unificazione di tutti i popoli germanici». Eppure all'epoca Mussolini ambiva ancora a presentarsi come il candidato ideale per la ricerca di un equilibrio continentale, a proporsi, si potrebbe dire parafrasando Francesco Guicciardini, come «ago della bilancia europea».
  Il viaggio di Hitler ebbe luogo in quello che viene considerato «l'anno migliore del regime sotto il profilo dello sviluppo socioeconomico e del benessere degli italiani del tempo». Quando si progettava come e dove accogliere Hitler, Mussolini aveva scartato l'Italia del Nord: temeva, scrivono Cardini e Mancini, che nessuna delle grandi città industriali italiane avrebbe potuto reggere al confronto con quel che gli era stato mostrato in Germania. Intendeva poi evitare che il suo interlocutore «si rendesse troppo conto dell'inferiorità e dell'arretratezza del nostro Paese rispetto al Reich». Meglio Napoli e Firenze (oltre beninteso alla capitale). Messo piede sul suolo italiano, in quei primi giorni di maggio, Hitler fu costretto a prender nota della «fredda accoglienza» di Vittorio Emanuele III e della quasi ostilità di Papa Pio XI che si ritirò «ostentatamente» a Castel Gandolfo.
  A Roma venne «offerta» a Hitler un'imponente parata nonché, per ben due volte, visite alla Mostra augustea della romanità e al Pantheon (la ripetizione fu resa obbligatoria dalle cattive condizioni del tempo che imposero una modifica del programma). A Napoli Hitler fu imbarcato sulla nave «Cavour», dove dovette restare per sette ore ad assistere a esercitazioni militari della Marina per poi essere portato la sera al San Carlo ad assistere a due atti, della Madama Butterfly e dell'Aida. A Firenze, a far da guida a Hitler agli Uffizi fu «comandato» Ranuccio Bianchi Bandinelli, grande antichista, docente all'Università di Pisa. Nelle memorie pubblicate nel dopoguerra, «certo preziose», chiosano Cardini e Mancini, «ma tuttavia rese ambigue dal loro chiaro intento autoapologetico teso costantemente a prendere le distanze dal suo passato in orbace» - Dal diario di un borghese e altri scritti (il Saggiatore) - Bianchi Bandinelli ironizzò su quell'incontro.
  Quand'è che l'alleanza tra l'Italia fascista e la Germania nazista divenne definitiva? In che momento della visita? Secondo quel che ha lasciato scritto Ciano nei diari, il «dado fu tratto» il 9 maggio alla stazione di Santa Maria Novella, allorché il Duce avrebbe detto all'ospite: «Ormai nessuna forza potrà più separarci». A sentir pronunciare quelle parole, Hitler si sarebbe commosso fino alle «lacrime». Cardini e Mancini mettono in dubbio che «i fatti si siano svolti davvero in una cornice emotiva» di quel genere. Ma qualcosa accadde davvero. Nel corso di quella visita, riprese a «flettersi e forse a incrinarsi» il filogermanesimo di Ciano. li quale Ciano, però, già durante il viaggio di un anno prima in Germania, si era posto per la prima volta (nel diario privato) un interrogativo: «Basterà la solidarietà di regime a tenere veramente uniti i due popoli che razza, civiltà, religione, gusti respingono ai poli opposti?». Per poi così proseguire: «Nessuno può accusarmi di ostilità alla politica filotedesca; l'ho inaugurata io; ma mi domando, deve la Germania considerarsi una mèta o non piuttosto un terreno di manovra?».
  E fu nel 1938, forse, in quel 9 maggio a Santa Maria Novella che l'alleanza tra Italia fascista e Germania nazista divenne irreversibilmente, per dirla con il termine usato da Ciano, una «mèta».
  Proprio in quello stesso 1938, anno XVI dell'era fascista, probabilmente come diretta conseguenza dell'incontro tra Hitler e Mussolini, si ebbe quello che per gli autori del libro fu «l'evento annunziatore della catabasi». La «discesa agli inferi» avvenne il 25 luglio (cinque anni prima di un altro fatidico 25 luglio, quello del 1943 che avrebbe visto la caduta del regime fascista). In quel giorno d'estate del 1938 la segreteria politica del Pnf diede alle stampe il «Manifesto della razza» (che già circolava anonimo). Un documento in dieci brevi punti «mediocre, frettoloso, compilatorio, ispido di ambiguità e di contraddizioni», scrivono Cardini e Mancini. Ma tale da legare definitivamente Mussolini a Hitler, nonostante il capo del fascismo italiano ancora ritenesse di poter svolgere in Europa quel ruolo equilibratore di cui si è detto. illusioni. Fu forse la scintilla provocata dalle parole pronunciate alla stazione di Firenze che portò l'Italia alle leggi razziali. E trascinò Mussolini nel baratro della storia.

(Corriere della Sera, 17 giugno 2020)


A Parigi si urla 'Sporchi ebrei' alla manifestazione antirazzista

Durante la manifestazione del comitato Adama Traoré, che sabato 13 giugno ha riunito più di 15.000 persone per denunciare la violenza della polizia e il razzismo in Place de la République a Parigi, si sono anche sentite delle grida 'Sporchi ebrei'. Lo riporta Le Parisien.
  Il quartier generale della polizia ha reagito rapidamente. Un'ora dopo la pubblicazione di un video pubblicato dal settimanale Valeurs Actualités, ha annunciato che sarebbe andata in tribunale.
  La sequenza di poco più di un minuto, ampiamente condivisa sui social network, mostra i manifestanti che urlano contro gli attivisti di destra di Generation Identity, che sono venuti per mostrare uno striscione che denunciava "razzismo anti-bianco" sul tetto di un edificio vicino a Place de la République. È allora che si sente ripetutamente l'insulto antisemita, senza però che si veda chi lo pronuncia o sapere se si tratta di una o più persone.
  "'Sporchi Ebrei' è ciò che possiamo ascoltare nelle false dimostrazioni antirazziste dei veri raduni di odio dell'estrema sinistra - ha dichiarato su Twitter Eric Ciotti, il deputato LR delle Alpi Marittime -. Il governo fa parlare la violenza e la società si radicalizza".
Durante la manifestazione, come riporta i24news.tv, molti anche gli slogan anti israeliani e gli striscioni che chiamano al boicottaggio di Israele.

 La condanna del Crif
  In una nota, il Crif (Conseil Represantatif des Juifs de France) condanna fermamente questi atti intollerabili, che inoltre provengono da manifestanti che dichiarano di denunciare il razzismo. Il Crif ricorda fortemente che questo antisemitismo non può essere tollerato e ricorda agli organizzatori la loro responsabilità di fronte a questi inaccettabili abusi. "Non può esserci lotta contro il razzismo che tollera direttamente o indirettamente l'antisemitismo nei suoi ranghi".
  Il Crif è anche particolarmente scioccato dalla reazione di Jean-Luc Mélenchon, che ha messo in discussione la realtà di queste osservazioni antisemite, ma registrate e accessibili a tutti.
  Per il presidente del Crif Francis Kalifat "gli eccessi di questa manifestazione stanno insultando sia la Repubblica che la causa che ha sostenuto di difendere i manifestanti". "Invita tutti i partiti politici democratici a denunciare questi abusi pericolosi e invita le autorità pubbliche a intraprendere azioni e condanne esemplari".
  Il Crif condanna con la stessa fermezza gli slogan violentemente anti-israeliani, senza alcun legame con l'oggetto della manifestazione e che testimoniano la volontà di infiltrarsi in una causa giusta e universale - l'antirazzismo - dell'odio di Ebrei e Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 16 giugno 2020)


Israele vuole un aeroporto internazionale a Gerico

Nell'area della Cisgiordania assegnata ad Israele nel contesto del Piano Trump c'è una zona desertica in cui potrebbe essere edificato un aeroporto internazionale, sulla base di progetti esaminati dal ministero israeliano dei trasporti già dieci anni fa. Lo rivela il quotidiano Makor Rishon,p. Quell'aeroporto, aggiunge il giornale, affiancherebbe il 'Ben Gurion' di Tel Aviv e consentirebbe di smaltire così il crescente afflusso di turisti in Israele, secondo piani elaborati tuttavia prima della crisi del coronavirus. Makor Rishon precisa che l'aeroporto sarebbe situato nella 'vallata di Horkanya', nel deserto della Giudea, fra Betlemme e Gerico. Si tratta di una zona pianeggiante dove sarebbe possibile realizzare due piste di atterraggio separate, distanti un chilometro fra di loro. Il vantaggio di questa località è rappresentato dalla sua vicinanza a Gerusalemme. Makor Rishon rileva tuttavia che anche la Autorità nazionale palestinese vorrebbe dotarsi di un proprio aeroporto nella medesima zona.

(ANSAmed, 16 giugno 2020)


Nashville: vandalizzato memoriale della Shoah

di Nathan Greppi

 
Nell'ultimo fine settimana, un memoriale della Shoah situato nella città americana di Nashville, nello stato del Tennessee, è stato ricoperto di graffiti che raffigurano insulti antisemiti e simboli neonazisti.
Secondo Algemeiner, il memoriale è gestito dal Gordon Jewish Community Center, che in un comunicato ha dichiarato: "Condanniamo una simile intolleranza e violenza, per i quali non c'è spazio né a Nashville né da nessun'altra parte in America."
Il comunicato aggiunge che "siamo fortunati ad avere un ottimo servizio di sicurezza sul posto per proteggerci. Lavorano fianco a fianco con le autorità locali e nazionali per mantenere noi e il nostro campus al sicuro. In un periodo in cui la nostra nazione sta affrontando il razzismo e gli attacchi antisemiti sono in aumento, il nostro centro continua a stare con chi condanna la discriminazione in ogni sua forma."
Come si legge sul sito del memoriale, esso serve a mantenere e tramandare il ricordo della Shoah attraverso le storie dei superstiti residenti a Nashville. Lungo la strada che porta al memoriale, sono scritti i nomi di tutte le città europee da cui provengono i superstiti.
Stando alle statistiche più recenti, sono circa 10.000 gli ebrei che vivono a Nashville.

(Bet Magazine Mosaico, 16 giugno 2020)


L’ambasciatore d'Israele a Roma: "Teheran è un pericolo anche per l'Italia "

ROMA - L'Iran è un pericolo per tutto l'Occidente, Italia inclusa: lo ha detto oggi l'ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, in un'audizione informale, in videoconferenza, alla commissione Affari esteri, emigrazione del Senato nel quadro dei nuovi equilibri geopolitici nel Medio Oriente allargato. Il diplomatico ha citato le recenti parole della guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, che ha definito Israele un "tumore canceroso nel Medio Oriente" affermando che "l'entità sionista non sopravviverà; sarà eliminata". Secondo l'ambasciatore israeliano, le parole di Khamenei ricordano quelle di Adolf Hitler: "Di nuovo sentiamo Hitler parlare alle masse, solo che il tedesco è cambiato in lingua farsi". Eydar ha definito "insensata" l'idea che sia possibile raggiungere un accordo con l'Iran sul suo programma nucleare. "Nel momento in cui avranno una bomba, la useranno. Chiunque pensi che io stia esagerando, è invitato a imparare dall'esperienza europea", ha concluso Eydar.
  La Valle del Giordano costituisce un "confine naturale" per Israele, ha detto inoltre l'ambasciatore. "Per qualsiasi accordo futuro, c'è un grande consenso in Israele, riguardo alla Valle del Giordano come nostro confine orientale. Si tratta di una barriera geografica naturale, dalle alture del Golan e della Galilea orientale, lungo la valle del Giordano, il deserto di Giudea e la valle della Aravà, fino a Eilat", ha detto l'ambasciatore, commentando i piani di annessione delle colonie israeliane in Cisgiordania. Il confine orientale dello Stato ebraico, a detta del diplomatico, è fondamentale per contenere una possibile "inondazione nel Paese di rifugiati", ma anche per impedire l'ingresso di "masse di gruppi terroristici e radicali che desiderano penetrare dentro Israele, agitare il territorio, e compiere eccidi non solo tra la popolazione israeliana, ma anche quella palestinese".

(Agenzia Nova, 16 giugno 2020)


Un secolo di pensiero del progetto: Bruno Zevi, l'architettura e l'ebraismo

di Debora Vella

La nuova edizione di saggi "Ebraismo e architettura" - curata da Manuel Orazi per Giuntina - è un distillato dell'universo interiore di Bruno Zevi, architetto, storico ma soprattutto critico, divulgatore dell'architettura e molto altro. La voce della complessa e sfaccettata personalità dell'autore, capace di essere dissacrante, spigoloso, rigoroso, a tratti simpatico, sempre appassionato, vibra in ogni sua pagina. Un libro petit, ma pesante come una pietra miliare, pubblicato la prima volta nel 1993, capace di mettere in circolazione il "sangue", e accendere lo sguardo su un mondo più intimo, tenuto lungamente in ombra. Il suo ritorno scandisce, come un rintocco di campana, il centenario dalla nascita dell'autore. Un documento importante per capire un grande intellettuale del '900, che qui mostra compiutamente i suoi valori come mai prima di allora; lo scrigno segreto che raccoglie gran parte delle battaglie civili combattute da Zevi in prima persona, fino alla fine dei suoi giorni.
Manuel Orazi, raffinato scrittore, storico dell'architettura e giornalista, apre con la sua folgorante introduzione I love Bruno! (citazione mutuata da Frank Gehry che Manuel incontrò nel suo studio a Los Angeles nel 2010), a cui Zevi era legato da un forte sentimento di stima e ammirazione, tanto da dedicargli il suo ultimo editoriale in cui si chiedeva "è ancora impossibile immaginare un'architettura dopo Frank Gehry?" Scrive Orazi "Ebraismo e architettura può essere considerato un risarcimento verso questo lato identitario costitutivo e fondamentale, rimasto a lungo in secondo piano rispetto alle maschere pubbliche che Zevi di volta in volta ha indossato nelle sue infiammate battaglie civili, politiche, culturali, urbanistiche". Ne emerge una coerenza di fondo: i suoi ideali, l'ebraismo e la sua concezione di cosa sia l'architettura, infatti, sembrano convergere in un'unica direzione.
   Zevi partì per studiare prima a Londra e poi negli Stati uniti, dove si unì ai circoli degli esuli antifascisti. Dichiarava di odiare l'accademia, il classicismo, la simmetria, i rapporti proporzionali, le cadenze armoniche, gli effetti scenografici e monumentali, la retorica e lo spreco degli 'ordini', i vincoli prospettici… e di apprezzare o subire richiami contraddittori. Dichiarò inoltre di amare i rituali e di non sopportare il conformismo" ci svela Manuel Orazi che, fin da studente, trovava la figura di Zevi molto divertente con le sue idiosincrasie verso le simmetrie e verso autori molto potenti come Sangallo e la setta Sangallesca, Valadier e il neo-classicismo, contro il "detestato" Marcello Piacentini. Tutte queste critiche e le sue profonde idiosincrasie si catalizzano in forti passioni sia in positivo - nei confronti di autori molto amati come Borromini e F.L. Wright - che in negativo, in una flusso di corrente alternata che rende la lettura dell'opera molto gustosa. Zevi si muove in un periodo storico in cui la critica aveva cambiato il proprio modo di esprimersi, mentre nel Novecento gli architetti si affrontavano a viso aperto, criticandosi apertamente, oggi si mostrano tendenzialmente amici tra loro solo in pubblico; in questo contesto leggere le sue pagine cariche di passioni, vive e contrastanti, risulta estremamente amusant.
   Zevi apprezzava architetture connotate da irrazionalità, disordine, estraneità al contesto, che esprimevano disagio, irrequietezza, ribellione e dolore. Seguì il "cammino interrotto" dell'architettura organica, senza giungere al suo pieno compimento. In quest'opera l'autore prende il largo verso la riflessione su valori universali - come dice Manuel Orazi - ontologici fondanti della vita dell'uomo di cui ci consegna una sua lettura personale in relazione all'ebraismo. Nell visione zeviana l'azione di progettare, che va ben al di là del significato racchiuso nel termine architettura, si innesta come carne viva in un ragionamento all'interno del quale - spazio e tempo - diventano metronomo dell'espressione artistica a tutto campo.

(Kolòt, 16 giugno 2020)


Lockheed Martin, Israele ripara da sé gli F-16

Degli 8 F-16 israeliani danneggiati in un'alluvione a gennaio, 5 sono stati riportati in servizio dalla Iaf (Israel Air Force) senza aver ricevuto le istruzioni sulla riparazione dal produttore Lockheed Martin.

di Chiara Rossi

 
F-16 Fighting Falcon
Israele ha fatto da sé per i suoi F-16 danneggiati. La scorsa settimana, quattro caccia F-16, prodotti dalla statunitense Lockheed Martin, sono tornati alla base della Iaf (Israel Air Force) di Hatzor, nel sud di Israele, volando di nuovo cinque mesi dopo che un alluvione gennaio li aveva costretti a terra.
  Il 12 giugno, l'aeronautica israeliana ha dichiarato che gli ultimi tre gli aerei sono ora rientrati in servizio. Degli otto F-16 israeliani che sono stati danneggiati, le riparazioni sui restanti 3 aeromobili hanno richiesto più tempo.
  "Il produttore [Lockheed Martin] non ha definito come trattare gli aeromobili danneggiati dalle inondazioni. Insieme al quartier generale della Iaf, abbiamo dovuto capire quale fosse il processo giusto per ogni aeromobile", ha dichiarato il comandante dell'Amu (unità di manutenzione aerea) dell'aeronautica israeliana.

 F-16 Fighiting Falcon
  L'F-16 Fighting Falcon è un aereo da combattimento compatto e multi-ruolo. Fornisce un sistema d'arma relativamente economico e ad alte prestazioni per gli Stati Uniti e le nazioni alleate. Come si legge sul sito di Lockheed Martin, "l'F-16 rimane il caccia multiruolo di maggior successo al mondo, collaudato in combattimento. Circa 3.000 F-16 operativi sono attualmente in servizio in 25 paesi".
Gli F-16 sono utilizzati per varie missioni in Israele e nella regione.

 I danni di gennaio
  A gennaio un'alluvione ha allagato la base di Hatzor dell'Air Force di Israele, casa del 101° squadrone, noto anche come il primo squadrone di caccia, la divisione di aerei da combattimento originale di Israele.
  Otto aerei da combattimento F-16 sono rimasti danneggiati, con riparazioni stimate in oltre 30 milioni di shekel (8,5 milioni di dollari). Dopo mesi di riparazioni, i caccia sono di nuovo operativi.

 Riparati da sé
  L'Amu (Unità di manutenzione aerea) dell'Iaf ha ripristinato diversi velivoli che hanno richiesto un significativo processo di manutenzione sia nella base Hatzor che nella base Tel Nof AFB. Per l'AMU si è trattato della prima volta che ha tentato di ripristinare gli F-16 danneggiati da un'alluvione. "I danni da alluvione hanno un impatto significativo sui sistemi elettrici e meccanici dell'aeromobile", ha affermato il Col. M, comandante dell'Amu.

 Lockheed Martin non ha fornito istruzioni
  L'Amu è riuscita nella riparazione contando soltanto sulle proprie capacità. "Il produttore [Lockheed Martin] non ha definito come trattare gli aeromobili danneggiati dalle inondazioni. Insieme al quartier generale della IAF, abbiamo dovuto capire quale fosse il processo giusto per ogni aeromobile. Abbiamo creato una serie di processi di manutenzione per ciascun aeromobile, in base all'unità conoscenza ed esperienza complete ", ha spiegato il Col. M.
  "Con l'iniziativa e il coraggio del nostro personale, siamo riusciti a creare un piano che tratta ogni aereo su più livelli. Innanzitutto, abbiamo dovuto capire quali pezzi di ricambio avevamo e quali pezzi che dovevamo ripristinare. Abbiamo quindi controllato ogni singolo filo e si è assicurato che fosse completamente asciutto, integro e funzionante correttamente, per prevenire una grande esplosione o un corto circuito durante l'alimentazione del velivolo e l'esame dei suoi sistemi".

 Forza aerea prodotta da Boeing e LM
  Attualmente la forza aerea dell'Iaf è composta di circa 270 velivoli, suddivisi in 50 F-15C/D (Boeing), 200 F-16 (LM), e 22 F-35 Adir (la versione personalizzata del caccia LM per Israele).
  Negli ultimi anni l'Iaf ha acquistato una ventina di F-35 Adir e entro la fine dell'anno ne otterrà altri 13. La flotta dovrebbe crescere fino a 50 caccia negli anni a venire, previa decisione del governo.
  Dopo un lungo dibattito interno, a febbraio l'esercito israeliano ha deciso di acquistare sia un altro squadrone F-35 Lockheed Martin che un altro squadrone F-15 Boeing, in un accordo stimato in 3 miliardi di dollari. Fonti vicine al dossier hanno spiegato a Breaking Defense che, mentre "i sensori dell'F-35 sono essenziali in alcune situazioni, nelle fasi successive del combattimento Israele avrà bisogno di altri velivoli, quelli con avionica avanzata che possono operare in combinazione con l'F-35 e trasportare carichi pesanti di armi. Come l'F-15".

(Start Magazine, 16 giugno 2020)


Dialogo tra Israele e Usa sulle annessioni dei Territori

Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, il ministro della difesa Benny Gantz e quello degli Esteri Gaby Ashkenazi hanno incontrato ieri l'ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, per discutere del progetto di annessione unilaterale di parti dei Territori palestinesi in linea con il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
   Netanyahu prevede di presentare il suo progetto di annessione in parlamento a partire dal primo luglio, come previsto dall'accordo di governo fra il suo partito, il Likud, e quello Blu e Bianco di Gantz. Il ministro della Difesa, che fra un anno e mezzo prenderà la guida del governo, ha definito il piano Trump «una opportunità storica» per Israele ma non ha chiarito se intende appoggiare un passo unilaterale.
   Secondo quanto scrive il «Times of Israel», Washington sarebbe pronta ad appoggiare Netanyahu ma solo nel caso vi sia il pieno sostegno da parte di Gantz. Il piano Trump è stato duramente criticato dai palestinesi e la comunità internazionale. Alcuni paesi arabi hanno chiesto al governo Netanyahu di ripensare il piano delle annessioni. Anche il movimento dei coloni israeliani nei Territori ha contestato il piano poiché esso prevede in teoria l'istituzione di uno stato palestinese.
   Si segnala la notizia, intanto, secondo cui il governo israeliano sarebbe intenzionato a costruire un nuovo insediamento sulle alture del Golan, territorio conteso con la Siria. Questo nuovo insediamento - stando a fonti di stampa - sarebbe intitolato al presidente Trump. «Avvieremo oggi i passi pratici per costruire Ramat Trump (in ebraico: le alture di Trump)» ha detto ieri Netanyahu.

(L'Osservatore Romano, 15 giugno 2020)


Fase 3: Israele, via libera a matrimoni fino a 250 invitati

Malgrado una ripresa dei contagi da coronavirus, il governo israeliano ha dato il via libera a feste per cerimonie religiose con un massimo di 250 invitati. Il provvedimento riguarda matrimoni, circoncisioni, oltre a bar e bat mitzvha, feste che celebrano la maggiore età religiosa. In base alle nuove linee guida, che entreranno in vigore da oggi, gli organizzatori dovranno scegliere locali abbastanza grandi per garantire distanze sociali di due metri fra gli invitati. La lista dei presenti, con i recapiti, dovrà essere conservata per 20 giorni in modo da rintracciare tutti in caso di contagio. Il tetto di 250 persone non comprende il personale. Per tutti gli altri eventi rimane il limite massimo di 50 persone e l'obbligo di svolgimento all'aperto.
Il via libera alle feste per eventi religiosi arriva mentre Israele sta assistendo ad una ripresa dei contagi.
Il numero complessivo dei casi positivi di coronavirus ha superato oggi in Israele la quota di 19.000, dei quali 15.360 sono comunque guariti o in fase di guarigione. Lo ha reso noto il ministero della sanità. Con la progressiva ripresa dei contagi negli ultimi dieci giorni, 15.963 persone sono state poste in isolamento cautelativo nelle loro abitazioni. I malati accertati sono 3.268, 26 dei quali sono in rianimazione. I decessi sono stati finora 300.
Alcuni giorni fa il primo ministro Benyamin Netanyahu ha esortato tutti al rispetto delle regole di igiene e distanziamento sociale, avvertendo che il governo potrebbe essere costretto a ripristinare alcune restrizioni. Nel frattempo il governo ha congelato i piani per riaprire cinema e teatri e la piena ripresa del servizio ferroviario.

(Shalom, 15 giugno 2020)


Covid-19, in Israele la risposta rapida all'emergenza è passata dal Made in Italy

L'esperienza con MP3 Piaggio. La motoambulanza? Consente di dimezzare i tempi di arrivo di un soccorritore sul luogo dell'emergenza.

 
 Covid-19 in Israele, l'esperienza dei soccorritori MDA
  No, non è un'opinione o un auspicio. E' il risultato dell'esperienza di chi sulle motoambulanze opera dal vent'anni esatti e risponde, dati ufficiali dell'anno 2019, a 535.800 richieste di interventi in emergenza all'anno.
  Ci stiamo riferendo alla Magen David Adom, che con i suoi 650 motociclisti soccorritori e una reattività 24h in ciascun giorno della settimana, risulta essere un pilastro essenziale del sistema di emergenza e soccorso dello stato di Israele.
  La funzione dei motociclisti soccorritori non è troppo lontana da quella svolta in Italia da tanti colleghi su automedica, a parte il fatto che la moto a tre ruote si rivela più performante in termini di tempi, per l'appunto, e di accessibilità in luoghi dal fondo impervio, come possono essere i centri storici delle città, le spiagge delle zone rivierasche e molti siti montani.
  Ed è superfluo sottolinearlo: nel salvare vite umane, ogni minuto è cruciale.

 Covid-19 in israele, quando una priorita' e' la risposta immediata
  Le emergenze mediche richiedono un tempo di risposta estremamente rapido, pochi minuti.
  Ed è innegabile, lo sa qualsiasi autista soccorritore, che tempi di risposta delle organizzazioni di emergenza pre-ospedaliera risultano influenzati dalla presenza dei team sul territorio e dal fattore "traffico".
  Abbiamo avuto la possibilità di porre alcune domande a questi valenti soccorritori di un'altra sponda dello stesso mar Mediterraneo, i quali hanno gentilmente acconsentito a risponderci.
  In modo non troppo differente da quella svolta dai nostri soccorritori 118, l'attività della Magen David Adom ha ben presto incluso la risposta all'emergenza determinata dalla pandemia da coronavirus.
  Ma l'approccio della MDA ha presentato anche alcune peculiarità che è interessante approfondire.

 L'intervista ai responsabili di Mda sulla gestione dell' epidemia da Covid-19
  - Un'emergenza Covid-19 che ha investito all'improvviso Israele come l'Italia e come il resto del mondo: come avete affrontato un percorso tanto impegnativo?
  E' da febbraio che la MDA, l'organizzazione di emergenza pre-ospedaliera nazionale israeliana sta combattendo il coronavirus.
  Ad oggi, il timore di un ritorno di un picco COVID-19 è alto, ma l'efficienza della risposta israeliana fa ben sperare.
  Molto di ciò che è stato fatto dalla MDA può essere preso come spunto in ogni parte del mondo. Come la Croce Rossa, la MDA non è sostenuta dallo Stato, ma dalle donazioni, in particolar modo da quelle della comunità ebraica.

- Come ha fatto la MDA a rispondere in modo così efficace ad una situazione mai affrontata come la pandemia?
  Una situazione davvero mai affrontata. In quel momento diversi turisti che stavano visitando Israele sono stati trovati positivi a COVID-19. Era il 22 febbraio.
  In tutta risposta, il Ministro della Salute israeliano ha condotto un'investigazione epidemiologica e ha comunicato pubblicamente i luoghi che questi turisti avevano visitato, chiedendo a tutti i cittadini che erano stati in quelle specifiche aree, di autoisolarsi per 14 giorni.
  Chiunque avesse riscontrato in quei giorni febbre alta, tosse o difficoltà respiratorie avrebbe dovuto chiamare la MDA e sottoporsi ad un tampone.
  Gli israeliani che sono stati esposti al virus dovevano esser isolati per evitare che la comunità si infettasse a sua volta.

- E quale è stata la risposta a questa "chiamata alla responsabilità" rivolta al popolo israeliano?
  Immediatamente, migliaia di israeliani chiamarono il 101, e un operatore li ha messi in contatto con i professionisti della MDA.
  Molti di loro non sapevano con certezza se si fossero esposti al contagio.
  Alcuni erano stati infettati ma non presentavano sintomi, mentre altri manifestarono febbre e difficoltà respiratorie.
  Nonostante ciò, non hanno ricevuto trattamenti specifici poiché non compresero la ramificazione dei sintomi.
  Da quel momento è iniziata la guerra di Israele contro il virus.

- Che cosa ha determinato, in termini organizzativi, l'impegno dei volontari MDA?
  Immediatamente MDA ha rimpolpato le proprie centrali operative aggiungendo più volontari e creando postazioni operative di dispatch aggiuntive (call-answering desks).
  Soccorritori con responsabilità amministrative e apprendisti paramedici sono stati formati per coprire il ruolo di operatori telefonici di una linea dedicata e di organizzatori di dispatch.
  Negli stessi giorni, MDA ha formato migliaia di volontari che allestirono tende per ospitare eventuali postazioni operative aggiuntive e ha trasferito del personale nelle aziende e nelle scuole, chiuse per colpa della pandemia, per utilizzare le loro linee telefoniche.
  Le telefonate ricevute da MDA sono salite esponenzialmente.
  In tempi di "normalità", MDA coinvolge 80 operatori telefonici che rispondono a circa 6 mila telefonate ogni giorno.
  A metà marzo, MDA aveva già 500 operatori telefonici che in un solo giorno hanno risposto a 82 mila telefonate.
  Da quando la pandemia ha colpito Israele, MDA ha risposto a ben 2 milioni di telefonate, facendo guadagnare al call center il primato nella lotta al coronavirus.
  A tutti coloro che sono stati esposti al virus è stato richiesto di stare nelle proprie case in quarantena e in una stanza separata dai propri familiari.
  Persone che hanno presentato anche sintomi leggeri, sono state registrate su un sistema di tracciamento dedicato.
  Gli scopi di questa prima fase sono stati raggiunti, assicurando che tutti coloro che sono risultati infetti sono stati in quarantena evitando di infettare altre persone.
  Il passo successivo è stato quello di effettuare tamponi a chi è stato esposto e ha mostrato qualche sintomo.
  In molti paesi, casi come questi sarebbero stati trasportati in ospedale, ma questo avrebbe significato lo spostamento di questi pazienti fuori dalle loro case e potenzialmente, permettere loro di infettare altri.
  Per prevenire ciò, i professionisti della MDA si sono equipaggiati di DPI adeguati, come le tute, e si sono recati a casa dei pazienti ad effettuare loro i tamponi, impedendo così che tali pazienti interrompessero la quarantena.
  I test a domicilio sono stati integrati dai centri Drive-Through che MDA ha organizzato nel Paese.
  Fino ad ora, più di 260 mila israeliani si sono sottoposti al test. Il modo in cui la MDA ha trattato questa crisi è servita da modello che potrebbe essere implementato in altre aree, non solo in risposta al COVID.
  Come organizzazione a servizio della comunità, la MDA può rapidamente espandere i propri servizi, attivare volontari aggiuntivi e assumere altri ruoli.

 MP3 Piaggio come strumento di risposta in emergenza, qualche riflessione
  L'intervista si conclude, congediamo il nostro gentile interlocutore.
  Effettivamente raggiungere i luoghi da controllare con il metodo adottato da MDA potrebbe essere una valida soluzione.
  Del resto il drive-through è un approccio che ha ottenuto una certa approvazione anche nel nostro paese.
  Che il futuro per una fase 3 che coniughi salute pubblica nazionale e ritorno alla vita "normale" sia in questo?
  Con soccorritori che si spostano rapidamente e in modo snello nei vari luoghi nei quali si sospetta necessario un tampone o un altro tipo di assistenza sanitaria, e che altrettanto rapidamente l'eventuale test raggiunga i centri laboratoriali per gli esiti del caso?
  Non pare essere tanto peregrina, come ipotesi: da un lato velocizzerebbe alquanto le procedure covid, dall'altro consentirebbe di riservare le ambulanze a trasporti di natura più consueta e tradizionale.

(Emergency Live TOTAL, 15 giugno 2020)


Iniziati i lavori per 'Trump City', la cittadina dedicata al presidente americano

 
Ad un anno di distanza, hanno preso avvio ieri i "passi pratici" per la fondazione di 'Ramat Trump' la località sulle Alture del Golan dedicata dal premier Benyamin Netanyahu al presidente americano per il suo riconoscimento della sovranità israeliana sulla zona conquistata alla Siria durante la Guerra dei 6 Giorni del 1967. L'annuncio è stato dato dallo stesso premier nella riunione di governo a Gerusalemme. Ramat Trump (in ebraico le 'Alture di Trump') fino allo scorso giugno si chiamava Bruchim, un agglomerato di piccole rustiche case di campagna arroccate su una collinetta in cui vivevano 15 persone, in prevalenza immigrati russi. Secondo i progetti di sviluppo dopo la decisione di Netanyahu, il posto è destinato a crescere grazie all'arrivo di ebrei americani e canadesi, intenzionati a trasferirsi nel luogo. Altamente bucolico ma piuttosto isolato, Bruchim - ora Trump city - faceva parte di Kela Alon, un insediamento molto più benestante e organizzato. Alla cerimonia per il nuovo nome, partecipò l'intero governo israeliano e l'ambasciatore Usa David Friedman.

(Shalom, 15 giugno 2020)


Napoli - Addio a piazzale Ascarelli, il cambio di nome affossato da veti di storici e residenti

Lo stop in commissione Toponomastica a Fuorigrotta, "resiste" piazzale Tecchio. De Magistris aveva promesso la svolta.

di Giuseppe Crimaldi

NAPOLI - Nessuna piazza per Giorgio Ascarelli. Triste e amara, la verità emerge dopo quasi due anni di attese e di speranze. Lo chiedevano in tanti, a cominciare dall'amministrazione comunale guidata dal sindaco dc Magistris. Se lo aspettavano i tifosi del Napoli, società sportiva che proprio Ascarelli fondò nel 1926; e ci credevano soprattutto tutti quelli che conoscevano la storia di un uomo che a Napoli aveva dato tanto. E non soltanto nello sport. Sembrava tutto ormai in dirittura d'arrivo nella decisione di sostituire l'intestazione di "piazzale Tecchio", a Fuorigrotta, in "piazzale Ascarelli". Ma alla fine sono bastati due veti - durante i lavori In Commissione Toponomastica - a dissolvere ogni speranza: quelli dell'Istituto di Storia Patria e le proteste di Un comitato civico del residenti nel quartiere.

 L'annuncio
  Alla fine del gennaio del 2018 fu lo stesso de Magistris a postare la bella notizia sui social: "Piazzale Vincenzo Tecchio, l'ex segretario provinciale del partito nazionale fascista - aveva scritto il primo cittadino - si chiamerà piazza Ascarelli. Il mio annuncio arriva nel giorno in cui ricordiamo Luciana Pacifici, una delle più piccole vittime della ferocia nazista, morta ad Auschwitz. Anche via Vittorio Emanuele III, che promulgò le leggi razziali, cambierà nome in via Salvatore Morelli. Per non dimenticare, mai!»
   Già, perché Giorgio Ascarelli, come la piccola Luciana Pacifici (deportata in un campo di concentramento durante i rastrellamenti dei nazifascisti a Napoli nel periodo della Seconda Guerra Mondiale) era un ebreo napoletano. A plaudire all'iniziativa di Palazzo San Giacomo erano stati in tanti, a cominciare dalla Comunità ebraica di Napoli, insieme con la Federazione Italia-Israele, che si era resa promotrice dell'iniziativa di cancellare dalla toponomastica cittadina la targa che ricordava un uomo che si era sporcato le mani di sangue accettando le leggi razziali. Soddisfazione era stata espressa anche dall'ambasciata dello Stato d'Israele in Italia. Sostegno e incoraggiamento erano arrivati poi anche dai tifosi del Napoli, felici di poter finalmente vedere intestato il piazzale antistante lo stadio San Paolo a chi aveva fondato la società azzurra. Poi, però, è accaduto qualcosa che ha affossato il progetto.

 I veti
  Strano Paese, il nostro. Nel quale il parere di esperti che siedono nelle varie commissioni e sottocommissioni pubbliche contano più del volere comune, e spesso anche del buon senso. Proviamo a ricapitolare. La proposta formulata dall'amministrazione comunale aveva fatto il suo corso, approdando nella Commissione toponomastica di Palazzo San Giacomo. Nessun veto di carattere politico, massimo sostegno alla proposta del sindaco e dell'assessore delegato al settore, Alessandra Clemente. E quando tutto sembrava andare verso la conclusione, ecco la sorpresa. Dal verbali emerge che l'iter è stato stoppato - e definitivamente affossato - per il parere contrario espresso dai rappresentanti che siedono nella consulta in rappresentanza dell'Istituto di Storia Patria. La motivazione resta oscura. Ma ad affossare il progetto ha contribuito anche la miope avversione di un non meglio comitato di residenti nella zona: i quali avrebbero opposto un fermo "no" al cambio della lapide marmorea nel largo di Fuorigrotta che dà accesso alla stazione, con una originale motivazione: modificare, dopo tanti anni, il nome di una via o di una piazza creerebbe confusione e difficoltà persino nel recapitare la posta.

 La delusione
  E così Ascarelli non troverà spazio nella toponomastica napoletana. A meno di ravvedimenti. E dire che Giorgio Ascarelli fu un napoletano esemplare. Imprenditore, filantropo e sportivo, oltre a fondare il Calcio Napoli, commissionò e finanziò a proprie spese la costruzione di un nuovo campo sportivo, di proprietà privata del club, al Rione Luzzatti, nei pressi di piazza Garibaldi, quello noto per l'Amica geniale. Uomo di cultura, ma soprattutto filantropo. A Napoli quasi nessuno lo ricorda più. Eppure fu lui, tra le tante cose buone realizzate in questa città, a finanziare anche un orfanotrofio a Posillipo.

(Il Mattino, 15 giugno 2020)


Casale ebraica, Carmi alla presidenza

 
Salvatore Giorgio Ottolenghi ed Elio Carmi
Storico passaggio di consegne a Casale Monferrato, dove al vertice della Comunità ebraica c'è da qualche ora Elio Carmi. Vicepresidente nello scorso mandato, è Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche e tra i più noti creativi italiani.
   Prima di lui, ininterrottamente dal 1958 ad oggi, presidente degli ebrei casalesi è stato Salvatore Giorgio Ottolenghi. Il leader più longevo di una Comunità locale e il protagonista di una fase indimenticabile di idee e coraggio. Nel nuovo Consiglio anche Adriana Ottolenghi e Marcello Tedeschi.
   All'ex presidente, classe 1923, è stato assegnato il titolo di Presidente emerito. Una piccola cerimonia nella sua abitazione ha visto gli amici stringersi a lui e alla moglie: proprio in queste ore festeggiano i 61 anni di matrimonio. Sarà lei, d'ora in poi, ad assicurare la continuità familiare in Consiglio.
   Ha sottolineato Ottolenghi, suggellando con queste parole il passaggio di consegne: "Gli anni sono tanti e non mi consentono di venire in Comunità quanto vorrei. Eppure nella vita di una organizzazione attiva come la nostra sono tanti i momenti in cui la presenza del presidente è imprescindibile, dal ricevere ospiti istituzionali, al presenziare alle tante celebrazioni e inaugurazioni. Ho sentito il desiderio di ratificare una situazione già in atto: da parecchio tempo Elio Carmi come vicepresidente rappresenta la Comunità e ha contribuito in modo determinante a farla crescere in questi anni".
   Ottolenghi è ricordato da tutti come l'artefice della rinascita della Comunità nel dopoguerra. Grazie alla sua coraggiosa decisione di restaurare la sinagoga e di creare il primo nucleo del museo ebraico, la città è da oltre 50 anni un punto di riferimento internazionale per la cultura ebraica e uno dei siti più visitati della provincia di Alessandria. "È stato una specie di miracolo, quando sono riuscito a tornare a Casale dopo la guerra non ho trovato più nulla: la sinagoga era fatiscente, non c'erano fondi per il restauro e anche se l'avessimo restaurata chi ci sarebbe andato? Ormai erano rimasti pochi ebrei a Casale. Poi una sera, per caso, dopo una conferenza in biblioteca comunale, io e l'architetto Giulio Bourbon abbiamo incontrato l'architetto Luciano Mazzarino, al momento Soprintendente alle Belle Arti, che ci ha convinto a cominciare i lavori. I finanziamenti e le persone sarebbero arrivati. Da allora - la sua testimonianza - non ho fatto altro che tenere le porte sempre aperte". L'iscrizione del piatto commemorativo donatogli recita: "Ogni ebreo è responsabile per ogni altro ebreo".

(moked, 15 giugno 2020)


Le sinagoghe britanniche riapriranno solo quando si potrà riunire un minyan

di Ilaria Ester Ramazzotti

Nel Regno Unito i luoghi di culto potranno riaprire dal 15 giugno per la preghiera individuale, ma le comunità ebraiche rimanderanno l'apertura delle sinagoghe a quando sarà possibile svolgere preghiere collettive. Lo riferisce il Jewish Chronicle.
   The United Synagogue, l'organizzazione che riunisce le congregazioni ortodosse, ha infatti comunicato l'intenzione di non riaprire i templi fino a quando non sarà possibili avere un minyan e leggere la Torah. Il rabbino capo britannico Ephraim Mirvis e il segretario delle comunità Robert Jenrick valutano invece la possibilità di aumentare il numero di partecipanti ammessi in ogni cerimonia di matrimonio ad almeno tredici persone, in modo da poter includere, oltre al minyan, le madri e fratelli o sorelle degli sposi.
   "Gli ebrei danno la priorità alla preghiera comunitaria piuttosto che alla preghiera individuale, e noi diamo priorità alla santità della vita", ha dichiarato al Guardian Laura Janner-Klausner, rabbino del movimento Reform in Inghilterra.

(Bet Magazine Mosaico, 14 giugno 2020)


Fatah chiede di porre fine allo scontro con Hamas e di ricostruire l'unità

RAMALLAH - In occasione del 13mo anniversario dello scontro tra i movimenti palestinesi Fatah e Hamas che ha portato al potere il gruppo islamista nella Striscia di Gaza , diverse fazioni e funzionari dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) hanno chiesto di porre fine alla disputa e ritrovare l'unità. Hamas, da parte sua, ha ignorato l'anniversario e i suoi leader non hanno commentato pubblicamente l'occasione. In una dichiarazione, diffusa ieri in occasione del tredicesimo anniversario della presa di potere di Hamas nella Striscia di Gaza, Fatah ha dichiarato che il gruppo islamista "insiste per continuare la sua politica di colpo di Stato e divisione". Riferendosi ai legami di Hamas con l'Iran e l'organizzazione dei Fratelli Musulmani, Fatah ha accusato Hamas di servire "ordini del giorno esterni a spese della questione palestinese" e di lavorare per stabilire uno Stato palestinese separato con confini temporanei nella Striscia di Gaza. Il colpo di Stato di Hamas, ha affermato Fatah.

(Agenzia Nova, 14 giugno 2020)


Netanyahu: non cala il numero dei casi in Israele

Premier: rispettare le regole. Sanificata la residenza di Rivlin

"Non c'e' miglioramento" nel numero dei casi di coronavirus in Israele e per questo vanno rispettate strettamente le misure di prevenzione imposte dal governo. Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu in apertura della consueta riunione domenicale di governo a Gerusalemme. "Il numero delle infezioni - ha spiegato il premier - continua ad essere di circa 200 al giorno, che è una bandiera rossa. Ripeto, ognuno deve obbedire alle linee guida e rispettare le regole del ministero della sanità". Oggi l'intera residenza del presidente israeliano Reuven Rivlin a Gerusalemme è stata sottoposta a sanificazione dopo che ieri uno degli impiegati del luogo è stato trovato positivo al coronavirus. Tutti quelli che hanno avuto contatti con l'uomo sono stati sottoposti a controlli e oggi la residenza è stata chiusa. Per ora non è stata chiesta la quarantena per Rivlin.

(ANSAmed, 14 giugno 2020)

Netanyahune

Israele: un groviglio politico giudiziario

di Ugo Volli

E' una notizia abbastanza significativa da essere arrivata anche sui media italiani, normalmente disattenti sulla politica interna di Israele. E lo è davvero, perché minaccia di innestare una nuova crisi politico-costituzionale. Si tratta di una sentenza della Corte Suprema, che ha abrogato la legge che condonava le case costruite in Giudea e Samaria su terreni rivendicati come proprietà privata da cittadini dell'Autorità Palestinese, in cambio di un risarcimento del 125%. E' una legge fatta per risolvere una serie di vertenze giudiziarie particolarmente complicate (perché in Giudea e Samaria valgono ancora delle leggi ottomane, che consentono l'usucapione di chi abbia coltivato anche per poco tempo un terreno, perché i catasti sono carenti e non è sempre chiara la proprietà), ma anche importante per consolidare i diritti delle comunità ebraiche di Giudea e Samaria.
   E' comunque una scelta politica della Knesset, che non si può certo accusare di violare diritti umani fondamentali. La corte ha dichiarato la legge incostituzionale, anche se nella legislazione israeliana non c'è una costituzione scritta e non vi è nessuna base legale per la sua pretesa di cassare le leggi, cosa che ha iniziato a fare solo nel 1995. Il problema è che la sentenza non abroga solo una legge che ha già fatto i suoi effetti, ma si mette di traverso alla scelta, maggioritaria nella Knesset e nel paese, a estendere la sovranità israeliana su parti della Giudea e Samaria. E' dunque un atto politico.
   E' probabile che passi una nuova legge per convalidare quella abrogata, ed è possibile che se ne proponga una per permettere alla Knesset di annullare con un nuovo voto le sentenze di abrogazione. C'è una maggioranza parlamentare per questo, che però non coincide con quella che sostiene il governo. Se la crisi si intensificherà, sarà dunque possibile un ridimensionamento legislativo della Corte Suprema, che oggi assomma in sé i poteri che in Italia sono divisi fra Corte di Cassazione, Corte Costituzionale e Tar, oltre a poter ricevere petizioni da chiunque, senza il filtro di tribunali inferiori. Ma non è escluso che quest'ennesima interferenza politica della corte porti a nuove elezioni.

(Shalom, 14 giugno 2020)


Israele apre al mondo la sua collezione di 2.500 rari manoscritti e libri islamici

 
La Biblioteca Nazionale d'Israele, in coordinamento con il Fondo Arcadia, ha annunciato un'importante iniziativa volta a permettere l'accesso digitale a oltre 2.500 preziosi manoscritti e libri islamici. L'imponente progetto dovrebbe concludersi entro il 2023. Grazie a una sovvenzione di Arcadia, un fondo di beneficenza di Lisbet Rausing e Peter Baldwin, il progetto prevede la digitalizzazione e il caricamento on line di immagini ad alta risoluzione della vasta collezione di libri e manoscritti, il miglioramento della loro descrizioni in arabo e in inglese e lo sviluppo di una piattaforma digitale in inglese, ebraico e arabo. Gli esperti della Biblioteca Nazionale di Gerusalemme, spiega il sito Israele.net che riprende il "Jerusalem Post", esamineranno meticolosamente tutti i documenti da sottoporre a scansione allo scopo di garantirne la migliore conservazione, adottando le adeguate misure di salvaguardia su tutti i libri e manoscritti ritenuti in cattive condizioni.
   L'iniziativa permetterà agli utenti di tutto il mondo di accedere ai manoscritti e ai libri attraverso immagini ad alta risoluzione, opzioni di ricerca facilmente intuitive e altri strumenti appositamente predisposti. Tra alcuni dei documenti unici che verranno inclusi nel processo di digitalizzazione figura una copia iraniana della grande raccolta Tuhfat al-Ahrar del poeta mistico persiano Nur al-Din Jami, originariamente prodotta nel 1484 quando l'autore era in vita. Fra gli altri elementi della collezione figurano copie del Corano riccamente decorate e opere letterarie ricamate con foglie d'oro e lapislazzuli, provenienti da tutto il mondo musulmano. Oltre a quelli in arabo tradizionale, molti dei documenti islamici conservati nella Biblioteca Nazionale d'Israele sono scritti in persiano e turco, spaziando dal IX al XX secolo.
   La maggior parte dei manoscritti venne acquisita tramite una donazione di Abraham Shalom Yahuda (1877-1951), uno studioso nato a Gerusalemme che fu linguista, scrittore e traduttore di molti manoscritti islamici e di testi giudeo-arabi medievali. La collezione è anche caratterizzata dal fatto di abbracciare tutte le principali discipline islamiche e le varie tradizioni letterarie, con eccezionali documenti provenienti dalle biblioteche reali Mamelucche, Moghul e Ottomane. La Biblioteca Nazionale d'Israele si configura così come un importante centro per i ricercatori che studiano opere relative alla cultura islamica e mediorientale. "Abbiamo il privilegio di poter aprire l'accesso digitale a questi tesori - ha dichiarato Raquel Ukeles, curatrice della collezione Islam e Medio Oriente della Biblioteca Nazionale d'Israele - e ci auguriamo che questo progetto contribuisca a una maggiore conoscenza e a promuovere studi condivisi relativi alla civiltà islamica. È una delle tante iniziative volte a connettere la Biblioteca Nazionale d'Israele, con sede a Gerusalemme, e la comunità globale". Anche Peter Baldwin, co-fondatore e presidente di Arcadia, ha sottolineato l'importanza dell'apertura di un accesso digitale: "Siamo lieti di sostenere la Biblioteca Nazionale d'Israele nello sforzo di garantire il libero accesso delle persone di tutto il mondo questa sua eccezionale collezione".

(Shalom, 14 giugno 2020)


Hanno estratto energia elettrica dalle piante

di Eduardo Lubrano

Un prato per illuminare la propria casa. La corsa alla ricerca di energia rinnovabile, sostenibile e pulita non si ferma mai. Alcuni scienziati israeliani dell'Università di Tel Aviv hanno scoperto che si può ottenere elettricità dalle piante. E che sia l'energia ottenuta che la fonte sono pulite. Dopo sei anni di ricerche e di collaborazioni con l'Università dell'Arizona i team dei professori Iftach Yacoby e Kevin Ridding hanno potuto dare l'annuncio e pubblicare sulla rivista inglese Energy and Enviromental Science i risultati del loro lavoro:

 La scoperta
  La base nasce dal ragionamento che le piante possono produrre elettricità particolarmente efficiente, partendo dal processo della fotosintesi: quel processo attuato dagli organismi autotrofi - quelli vegetali che possono svolgere la propria funzione di nutrizione, elaborando alimenti inorganici mediante assunzione d'energia dal mondo inorganico - per produrre glucosio a partire da acqua e diossido di carbonio (anidride carbonica), utilizzando come fonte di energia la luce solare assorbita da un particolare pigmento fotosensibile, la clorofilla.

Dice il professor Yacoby:
"Tutte le piante verdi, che siano foglie, erba o alghe, contengono veri e propri "pannelli solari" e sanno come prendere un raggio di luce e trasformarlo in un flusso di elettroni. La nostra sfida era quella di estrarre questa corrente dalla pianta. Per collegare un dispositivo all'elettricità, basta collegarlo a una presa elettrica. Nel caso di una pianta, non sapevamo dove inserire la spina. Abbiamo cercato un nano spinotto lavorando su una micro alga, in cui abbiamo iniettato un enzima, che produce idrogeno utilizzando un bioreattore".
Un ulteriore passaggio è stato quello delle micro alghe che hanno creato delle cellule contenenti il nuovo enzima e i ricercatori hanno scoperto che produceva effettivamente elettricità.
"Questa potrebbe quindi essere una nuova era nell'agricoltura che, dopo aver nutrito le persone per millenni, potrebbe essere utilizzata anche per produrre energia.
"Pensavamo che ci fosse un potenziale, ma non sapevamo se avrebbe funzionato e ha funzionato. Ci sono molte cose che possiamo pensare di fare con i risultati della nostra ricerca, come a lungo termine, ridurre l'inquinamento nel campo dei trasporti dell'industria pesante".
(Impakter Italia, 14 giugno 2020)


Shalom News - Edizione del 14 giugno 2020

di Giacomo Kahn

Conduce Luca Clementi
In questo numero:
- La libreria Kiryat Sefer Libreria Ebraica nel cuore del quartiere ebraico
  (servizio di Sara Milano);
- Il libro della settimana consigliato da Marta Spitz;
- La serie tv Shtisel (servizio di Luca Spizzichino).

(Shalom, 14 giugno 2020)


Copiamo Israele per modernizzare l'agricoltura

Lettera a "La Verità"

Pur non essendo un esperto del settore (sono un laureato in ingegneria elettrotecnica che insegna materie tecniche di indirizzo elettrico presso un Itis a Milano), vorrei suggerire uno spunto di indagine o, meglio, di ricerca, che è un po' un mio pallino. Mi riferisco all'utilizzo su larga scala delle tecniche intelligenti e automatizzate di irrigazione dei campi le quali, secondo me, potrebbero rappresentare un ottimo volano per l'agricoltura e per la nostra industria in genere. A questo proposito ricordo che l'unica cosa degna di nota che vidi durante una mia visita con una scolaresca a quella boiata di Expo fu il nuovo modo con cui, rispetto ai consueti mezzi di irrigazione, operano oggigiorno in Israele, con appositi impianti, prodotti in parte, se non vado errato, anche da ditte italiane, gestiti da remoto tramite pc i quali, oltre a irrigare solamente quando lo richiede la scarsa umidità del terreno appositamente monitorata, lo fanno goccia a goccia in modo da utilizzare il minimo quantitativo di acqua, evitando inutili sprechi dovuti all'evaporazione e ovviando alla cronica penuria d'acqua. Vi immaginate quale vantaggio potremmo ottenere anche noi con una soluzione del genere? E non solo nel Sud Italia ma anche nella Pianura padana. Tra l'altro, oltre a risolvere la penuria d'acqua del nostro Meridione ma, ora, sempre più relativa anche al Nord dove d'estate per via dell'agricoltura quasi si «prosciuga» il lago di Garda, questa tecnica potrebbe servire da impulso per le ditte meccaniche che potrebbero cosi trovare un nuovo mercato. E che dire, poi, del fatto che potrebbero nascere nuovi tecnici specializzati e dunque nuovi seri corsi scolastici o universitari? Inoltre, non si potrebbe implementare una ricerca circa lo sviluppo di macchine atte all'automatizzazione dei processi di raccolta? A questo proposito mi sembra emblematico l'esempio di come, da svariati decenni, nel Nord America effettuano la raccolta dei costosi (per lo meno qui) mirtilli rossi.
Roberto Mazzoni

(La Verità, 14 giugno 2020)



«Chi crede in me, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno»

Nell'ultimo giorno, il gran giorno della festa, Gesù stando in piedi esclamò: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Disse questo dello Spirito, che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui; lo Spirito, infatti, non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora glorificato.
Una parte dunque della gente, udite quelle parole, diceva: «Questi è davvero il profeta». Altri dicevano: «Questi è il Cristo». Altri, invece, dicevano: «Ma è forse dalla Galilea che viene il Cristo? La Scrittura non dice forse che il Cristo viene dalla progenie di Davide e da Betlemme, il villaggio dove stava Davide?» Vi fu dunque dissenso tra la gente, a causa sua; e alcuni di loro lo volevano arrestare, ma nessuno gli mise le mani addosso.
Le guardie dunque tornarono dai capi dei sacerdoti e dai farisei, i quali dissero loro: «Perché non l'avete portato?» Le guardie risposero: «Nessun uomo parlò mai come costui!»

Dal Vangelo di Giovanni, cap. 7

 


Coronavirus in Israele, il governo reintroduce alcune "zone rosse"

"Ieri abbiamo superato la soglia dei 200 nuovi casi, che è esattamente il punto dove ci trovavamo a marzo quando abbiamo preso le prime misure di lockdown", è stato il monito del primo ministro Benjamin Netanyahu in una conferenza stampa giovedì sera. In Israele le restrizioni per contrastare il coronavirus sono state allentate gradualmente alla fine della Pasqua ebraica, a partire dal 19 aprile, a fronte di numeri incoraggianti. La misura più significativa è stata adottata il 3 maggio, con l'apertura del sistema scolastico.
Ma negli ultimi 15 giorni, il paese è andato incontro a un costante aumento di nuovi contagi: dai circa 20 quotidiani di metà maggio ai 214 di giovedì (i deceduti da Covid-19 sono diventati ieri 300). Motivo per cui ieri il governo ha reintrodotto alcune "zone rosse", in una città beduina del Negev e in un quartiere a Sud di Tel Aviv, entrambe zone ad alta densità popolare, in cui grandi nuclei familiari vivono in una stessa unità abitativa.
  L'altro grande epicentro di contagi è stato il sistema scolastico: a oggi in tutto Israele, 165 scuole hanno chiuso, 460 studenti e staff scolastico sono risultati positivi al test e circa 25.000 si trovano in isolamento. Nonostante questi dati, il governo ha deciso per ora di non chiudere le scuole e in generale di non tornare indietro sulle aperture adottate finora, rimandando la valutazione alla prossima settimana e annunciando un inasprimento delle sanzioni per gli esercizi che non rispettano le misure di distanziamento (multe fino a 1000 euro) o per chi non indossa la mascherina (50 euro), obbligatoria anche negli spazi pubblici all'aperto.
  I dati vanno anche analizzati alla luce del significativo aumento in test effettuati nell'ultimo mese (più di 17.000 solo nella giornata di giovedì). "Oltre all'aumento dei test che rivela più contagi, va anche notato che non c'è stato nessun aumento dei casi gravi o degli intubati (23 a oggi)" dice a Repubblica il professor Nadav Davidovitch, direttore della Scuola di Salute Pubblica dell'Università Ben Gurion, tra i consulenti del governo per l'emergenza Covid. "Nel momento in cui si è deciso di riaprire l'economia, l'aumento dei contagi era un fattore preso in conto, per questo non ci sorprende. Non bisogna diffondere il panico, ma d'altro canto nemmeno compiacersi dei risultati, disincentivando il pubblico al rispetto delle istruzioni base, mascherina, distanziamento fisico e igiene, che sono fondamentali". Alla domanda se in Israele sarà possibile adottare un altro lockdown, risponde: "Ci stiamo preparando all'arrivo congiunto di influenza stagionale e Covid-19 in inverno. E' una situazione che non va sottovalutata, ma Israele è molto più preparato oggi ad affrontare l'emergenza: nell'eventualità in cui a novembre ci si dovesse ripresentare una situazione come quella di marzo, credo che il paese saprà adottare misure diverse che sapranno venire incontro all'economia. Ci sono molti modelli che stiamo elaborando in merito, come il lockdown alternato per scuole e posti di lavoro, con apertura per 4 giorni e chiusura per 10. I test sierologici finora ci hanno dimostrato che siamo lontani da un'immunità di gregge, con solo il 2% della popolazione che è stata esposta al virus, per la maggior parte asintomatici. La prevenzione e il tracciamento sono gli strumenti su cui è necessario investire in questa fase. Con il mio team ora ci stiamo concentrando sull'analisi delle acque reflue nel sistema fognario, con cui è possibile individuare la presenza di focolai prima che esplodano".

(I Love Campi Flegrei, 13 giugno 2020)


Vicepremier del governo libico non riconosciuto chiede sostegno a Israele

 
Abdul Salam al Badri
GERUSALEMME - Il vicepremier del governo non riconosciuto con sede nella Cirenaica che appoggia l'Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar, Abdul Salam al Badri, ha chiesto a Israele il sostegno nella guerra contro il Governo di accordo nazionale (Gna). In un'intervista rilasciata al quotidiano israeliano "Makor Rishon", Al Badri ha dichiarato: "Non siamo mai stati e non saremo mai nemici, e speriamo che ci sosterrete". Parlando della situazione in Libia, Al Badri ha invitato Israele a unirsi all'iniziativa di Egitto, Emirati, Grecia, Francia e Cipro sul bacino del Mediterraneo per contrastare l'accordo sottoscritto nel novembre dello scorso anno a Istanbul dal premier del Governo di accordo nazionale libico (Gna), Fayez al Sarraj, e dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, per la delimitazione dei confini marittimi. "Erdogan non è solo pazzo. È al servizio del Qatar e ha reclutato migliaia di jihadisti siriani con lo scopo di prendere il controllo dei ricchi giacimenti petroliferi della Libia", ha dichiarato Al Badri al quotidiano israeliano. Nelle scorse settimane le forze del Gna, sostenute dalla Turchia, sono riuscite a respingere l'Esercito nazionale libico (Lna) del generale Haftar dalla capitale Tripoli, riconquistando città strategiche come Tarhouna e avviando le operazioni per prendere il controllo di Sirte.

(Agenzia Nova, 13 giugno 2020)


L'Ats Bergamo offre test sierologici per le popolazioni più colpite da Covid-19

Confronto tra rappresentanti della sanità lombarda e equipe israeliane del Sheba Medical Center (SMC) di Tel Aviv e del Maccabee Healthcare Service (HMO) e il Central National Technology Hub israeliano.

La zona forse più colpita da Covid-19 sottoposta a screening da parte della Regione Lombardia. L'Ats di Bergamo metterà a disposizione il test sierologico per la popolazione dei Comuni di Albino, Nembro, Alzano e tutta la bassa Val Seriana. Lo ha annunciato il presidente Attilio Fontana, spiegando che lo screening è partito già dalla fine di aprile. "Ora abbiamo deciso - ha sottolineato il presidente - di approfondire l'indagine in queste aree a maggiore impatto epidemico per ottenere una fotografia ancora più dettagliata di come si è diffusa l'epidemia e quali soggetti ha colpito". Un percorso utile per aggiornare le raccomandazioni per la sorveglianza e ipotizzare modelli operativi per intercettare eventuali nuovi focolai.
   Ma l'impegno della Regione non si ferma qui. Nei giorni scorsi c'è stato un momento di confronto tra alcuni rappresentanti della sanità lombarda e le equipe di Israele del Sheba Medical Center (SMC) di Tel Aviv e del Maccabee Healthcare Service (HMO) e il Central National Technology Hub israeliano, in collaborazione con l'Ambasciata d'Israele. E' stata l'occasione per mettere a confronto le rispettive esperienze di cura sul virus e per avviare una collaborazione stabile con l'istituto israeliano. I medici di Israele sono stati fra i primi a monitorare pazienti Covid-19 attraverso sperimentali sistemi di telemedicina avanzata.
   L'obiettivo è quello di instaurare una collaborazione proficua, che si svilupperà anche su temi quali gli strumenti di assistenza a distanza, la rimodulazione di modelli di intervento e le nuove tecnologie per diagnosi rapide.

(Sanità Domani, 13 giugno 2020)


Kibbutz, una mistica socialista e il sogno della terra promessa

di Lorenzo Fazzini

L'esperienza del kibbutz ha segnato in maniera decisiva i prodromi della vicenda sionista in Eretz Israel (terra di Israele) e dello stato israeliano dal 1948 in poi. Il sogno di una società socialista reale, basata sulla libera appartenenza (e non forzata, come nel blocco sovietico) e sulla compartecipazione economica dei propri membri, ha reso il kibbutz un esperimento sociale peculiare e oggetto di molto interesse, sia culturale che mediatico. Ma come e perché si è formata, in che modo si è sviluppata e (anche) come è decaduta quell'esperienza? A tutti queste domande risponde un romanzo che possiede il passo del reportage storico e l'andamento del racconto corale, Verso casa (Giuntina, pagine 342, euro 18).Autore è Assaf lnbari, che fino ai vent'anni ha abitato a Beth Afikim, il kibbutz protagonista del libro. Perché questa è la caratteristica di Verso casa:. non sono i personaggi fisici a essere raccontati, ma è proprio la storia di questo insediamento umano, con le sue alterne vicende (la nascita difficoltosa, lo sviluppo impetuoso, la fine decadente sotto il peso del liberalismo economico) a rappresentare il focus narrativo del testo. E come di un personaggio di cui narra (e trasfigura) la biografia, Inbari - in un romanzo che Amos Oz ha definito «il miglior libro sul kibbutz» -va alla ricerca della nascita e dei primi passi. Che sono quelli sotto il comunismo sovietico: i fondatori di Beth Afikim sono giovani ucraini che percorrono l'intera Urss e non solo alla ricerca delle possibilità di realizzare un sogno, trasferirsi in terra d'Israele per realizzare - là sì, non in Urss, dove comunismo spesso fa rima con Siberia - il socialismo.
  E così questo manipolo di pionieri sbarca in Palestina: «Ogni giorno lavorativo era un giorno di addestramento all'aratura, alla semina, alla concimazione, all'irrigazione, alla cernita e al raccolto. I compagni apprendevano il ciclo stagionale di ogni tipo di verdura, di frutta, di cereali e di legumi. Impararono che ci sono diversi tipi di terreno, più o meno permeabile, e anche a distinguere tra insetti utili e dannosi. Col tempo impararono anche a parlare meno mentre lavoravano». L'industriosità tipicamente ebraica si applica al terreno paludoso nei dintorni del lago di Tiberiade. E la vita del kibbutz (tutto in comune, no alla proprietà privata, forte importanza alla cultura e alle arti, priorità del lavoro manuale, i figli in comune quasi lontano dai genitori) diventa una mistica che un abitante sintetizza così: «Io sono legato cuore e anima a questo scenario meraviglioso che si distende sui nostri campi. Non posso abbandonarlo. Lo amo come amo la vita. Tutto il giorno ho falciato le erbacce con una falce nel nostro frutteto piantato su uno dei declivi del Giordano. Che visione sublime, spettacolare. È fantastico lavorare duramente, meraviglioso lasciare che rivoli di sudore t'inondino il volto, meraviglioso essere avvolti dalla polvere densa».
  Ma anche la grande storia entra nelle pieghe di Beth Afikim - del resto ci aveva fatto il suo ingresso dall'inizio, quando i suoi rappresentanti andavano qui e là, Londra o Washington, a perorare la causa della "comune" di Galilea. E così da un'iniziale convivenza pacifica con gli arabi, gli abitanti locali (la narrazione unilaterale di stampo ebraico è parecchio deficitaria nel descrivere l'altra parte), si passa alle scaramucce e quindi al conflitto armato. Sopraggiunge la Shoah e con essa un'immissione di nuovi abitanti, sopravvissuti alla tragedia, i tatuaggi dei campi ben visibili sulle braccia dei lavoratori in campagna. E quindi la guerra con i Paesi arabi per la costituzione dello Stato d'Israele, poi la guerra dei Sei giorni e quella del Kippur. Anche dal kibbutz partono e non ritornano uomini per la guerra. Fino all'epilogo, che Inbari descrive con un senso di smarrimento: il possedere fa il suo ingresso nel recinto del kibbutz, il "mio" fa traslocare il "nostro" (singolare che l'oggetto che segni questo trascolorare dal socialismo al capitalismo sia il televisore ... ). la globalizzazione fa il resto: «Decine di migliaia di israeliani divennero datori di lavoro o si servirono dei servizi degli agricoltori thailandesi e nigeriani, dei lavoratori edili romeni, delle colf filippine». Aleggia, nelle pagine di Inbar, il sentimento epico di un esperimento che ha fatto storia e ha fatto la Storia. Il kibbutz come un'esperienza sociale singolare e universale insieme (le assonanze con il monachesimo cristiano non sono poche ... ), in cui a guidare tutto c'era un sogno di giustizia («anche per sognare ci vuole talento») e la disponibilità a sacrificare molto di sé per quel sogno: «Siamo emigrati da soli. Senza niente. E non c'era niente qui Non c'era nessuno qui a cui chiedere, nessuno con cui lamentarsi Non ci hanno dato niente. Abbiamo fatto da soli. Non sapevamo niente di agricoltura, o di una fabbrica, o di giardini, niente di niente». Quel niente ha fatto epoca.

(Avvenire, 13 giugno 2020)


L'uomo che rivelò Israele alla Chiesa

Nel giugno 1960 Jules Isaac, uno storico ebreo, consegna un dossier a Giovanni XXIII che dimostra come l'antisemitismo cristiano stia nella tradizione e non nei Vangeli. Un punto di non ritorno.

di Massimo Giuliani

 
Jules Isaac
E' piuttosto difficile oggi immaginare quel che avvenne nel giugno del 1960, sessant'anni fa, in via della Conciliazione a Roma. Un ottantatrenne ebreo francese, lo storico Jules Isaac, sta aspettando di avere un'udienza fissata da tempo con il papa, Giovanni XXIII, a sua volta ottuagenario, per dirgli .. Per dirgli cosa? Quanta sofferenza ha causato agli ebrei nella storia l'accusa di deicidio? Che nei vangeli l'odio antiebraico non c'è e che Gesù sembra piuttosto un ebreo fedele alla Torà? Per raccontargli della moglie e della figlia, che pochi anni prima i nazisti avevano deportato e assassinato ad Auschwitz solo perché ebrei? Ma poi arriva una telefonata e l'udienza salta. Un incontro atteso da una vita sfumato all'ultimo momento, l'impossibilità di dire, di farsi ascoltare, di chiedere al capo della Chiesa Cattolica di fermare "l'insegnamento del disprezzo" verso il popolo ebraico. Subito, l'amica Maria Vingiani corre in via della Conciliazione, lo prega di non ripartire per Parigi e di aspettare, andrà lei stessa in Vaticano per capire cosa è successo. Qualche giorno dopo, il 13 giugno, le porte di bronzo si aprono e quell'incontro avviene. Il papa ascolta e il dossier che Jules Isaac aveva portato con sé finisce nelle mani giuste (quelle di Agostino Bea, biblista e cardinale di fiducia del papa). L'evento costituisce uno dei semi dai quale nascerà la dichiarazione conciliare Nostra Aetate, che al punto IV cancella l'accusa di deicidio contro il popolo ebraico aprendo la strada a una profonda revisione del catechismo cattolico in materia di ebraismo. Già dal 1942 Isaac, che di professione era un docente di storia (radiato dalle scuole pubbliche con le leggi antisemite del governo di Vichy nel 1940), aveva iniziato a leggere le Scritture cristiane scoprendo che esiste una discrepanza tra la verità storica e il lascito della tradizione, tra fatti narrati nei testi e miti popolari. Nel Carnet du lépreux scriveva: «Ho letto i vangeli, li ho scrutati onestamente e meticolosamente, per quel che riguarda Israele e la posizione di Gesù in rapporto a Israele, e sono arrivato alla conclusione che la tradizione ricevuta non quadra con il testo evangelico, che essa deborda da ogni parte. È questa tradizione, non i testi, l'origine primaria e permanente dell'antigiudaismo, la matrice potente e secolare sulla quale tutte le altre varietà di antisemitismo, anche le più divergenti, sono venute innestandosi». Come arrivò a questo studio lo racconta Teresa Salzano: «Jules Isaac, da laico qual era, si era fatto esegeta, teologo, studioso appassionato della Bibbia, degli apocrifi e dell'apocalittica. Germaine Bouquet, insegnante di matematica, a quel tempo partigiana, negli anni della persecuzione lo nascose a casa sua e cercò di procurargli, tra le mille difficoltà della vita clandestina, i libri che il suo studio richiedeva. Egli viveva confinato in una casa di campagna nella regione del Clermont-Ferrand, da cui spesso doveva scappare per trovare nascondigli più sicuri. I volumi di cui aveva bisogno erano reperiti nei conventi delle vicinanze. E da quel momento lo scopo della sua vita divenne questo: far conoscere Gesù agli ebrei e Israele ai cristiani».
  Questo studio diventerà nel dopoguerra uno dei testi fondamentali, per quanto pionieristico, del nuovo rapporto tra ebrei e cristiani, con il titolo Gesù e Israele (tradotto in italiano nel 1976). In chiusura del libro Isaac scrive: «A questo sforzo di rinnovamento e di purificazione [dell'interpretazione antiebraica delle Scritture cristiane], a questo severo esame di coscienza io invito i veri cristiani e anche i veri israeliti. È questa la lezione più importante che si sprigiona dalla meditazione di Auschwitz, dalla quale io non so distaccarmi, dalla quale nessun uomo di cuore dovrebbe astenersi». Nell'agosto del '47, nella cittadina svizzera di Seelisberg, un gruppo di pastori evangelici, di teologi cattolici e di ebrei impegnati raccoglieranno il messaggio del testo di Isaac, e sotto la sua regia trasformeranno i ventidue capitoli di Gesù e Israele nei dieci Punti di Seelisberg, che forniranno la road map del dialogo ebraico-cristiano per tutta la seconda parte del XX secolo.
  Invero già nell'ottobre del 1949 Isaac venne a Roma e si recò a Castel Gandolfo, dove un amico lo spinge a incontrare Pio XII durante un'udienza pubblica. Ma fu un incontro in piedi, brevissimo, che non lasciò traccia. Le speranze si riaccesero con l'elezione del nuovo papa, al quale Isaac voleva consegnare personalmente il documento di Seelisberg. Si era all'alba dei lavori di un concilio che avrebbe dovuto rivoluzionare il tradizionale insegnamento e la secolare politica della Chiesa cattolica verso ebrei ed ebraismo. Papa Roncalli nel 1959 aveva fatto togliere dalla preghiera liturgica del Venerdì Santo l'aggettivo perfidis al sostantivo Iudaeis, ormai totalmente spregiativo nell'italiano corrente. Grazie dunque a Maria Vingiani, Isaac riuscì a ottenere in fretta la nuova udienza e consegnare al papa il frutto dei suoi studi. Loris Capovilla, segretario di Giovanni XXIII, ha scritto: Un papa non si era mai immaginato che il Concilio dovesse occuparsi anche della questione ebraica e dell'antisemitismo. Tuttavia, a partire da quell'incontro, sostenne fermamente quest'idea». Si racconta, di quell'incontro così sofferto e importante, che si sia chiuso con questo scambio. Alla domanda di Isaac: "Posso dunque nutrire un po' di speranza?", il papa avrebbe risposto: "Voi avete diritto a molto più di una speranza!". Il fatto che tale aneddoto sia entrato nella storia dei nuovi rapporti tra ebrei e cristiani è indice del valore simbolico di quell'incontro, che segna una svolta o meglio l'inizio di una fase nuova, che diede frutti impensati e impensabili solo fino a qualche anno prima.
  Nel 1962, all'età di ottantacinque anni, Jules Isaac diede alle stampe un ulteriore saggio sull'insegnamento del disprezzo, dove afferma: «La storia ha diritto di chiedere ragione alla teologia dell'uso che essa fa dei dati storici che le vengono forniti. Essa ha diritto di chiederle di non falsificarli o snaturarli, e di restare onestamente fedele alla verità storica, nella misura in cui questa può essere onestamente colta e fissata. Che la teologia vada oltre la storia, sia; ma a condizione di rispettarla fin dall'inizio cioè di partire dalla verità storica. Questo non è soltanto il suo dovere, ma, se mi è consentito, una sua sacra obbligazione, perché, come ricorda il teologo protestante Karl Barth, la verità è da Dio».
  Sta qui il senso più profondo dell'impegno di Jules Isaac dal giorno in cui, nel 1940, la legge francese lo aveva reso un fuorilegge fino alla sua morte avvenuta nel 1963, lo stesso anno della scomparsa di Roncalli. Egli non fu né mai pretese di essere un teologo o un biblista. Restò sempre uno storico, che però volle applicare con onestà il suo metodo di indagine a un ambito (quello degli scritti neotestamentari) la cui cattiva interpretazione tanto male e tanta sofferenza avevano causato a lui, alla sua famiglia morta ad Auschwitz e al popolo di Israele. Cercò la verità storica, riconobbe la distinzione tra fatti e loro lettura teologica, accettò l'esistenza di un'ermeneutica lontana dalla sua fede ma contribuì a smascherare l'ideologia e il mito che vi si erano incrostati diventando antigiudaismo religioso. In tal modo contribuì a mettere in moto quel processo, necessario e irreversibile, che avrebbe capovolto, quale atto di teshuuà, l'insegnamento del disprezzo trasformandolo nel suo opposto: un insegnamento di rispetto, anzi di stima verso gli ebrei e il popolo di Israele, verso la tradizione rabbinica e verso la fedeltà di quel popolo alla sua elezione, non in chiave propedeutica all'avvento del cristianesimo (come vorrebbe ancor oggi una cripto-teologia sostituzionista) ma in quanto risposta autonoma, e teologicamente valida di per sé, ai doni divini.

CHI ERA
La donna che rese possibile l'incontro, Maria Vingiani (1921-2020), è la studiosa che, già collaboratrice a Venezia del Patriarca Roncalli e amica di lsaac, intervenne perché il papa incontrasse lo storico ebreo francese. Negli anni Cinquanta animò un gruppo biblico. Trasferitasi a Roma per seguire i lavori del Concllio, nel 1966 fondò Il SAE, Segretariato Attività Ecumeniche, che presiedette fino al 1996. In molteplici convegni presso La Mendola e Camaldoli fece incontrare e dialogare esponenti delle diverse confessioni cristiane, tra cui Paolo Ricca e Enzo Bianchi, Giovanni Cerati e mons. Luigi Sartorl (di cui fu grande amica), e non pochi ebrei tra cui Nathan Ben Horin, Miriam Viterbi, Amos Luzzatto e Bruno Segre. Nel 1997 promosse in Israele la piantagione di una foresta In onore di Papa Roncall e di Jules lsaac. Nello stesso anno Giovannl Paolo II la nominò Signora dell'Ordine di San Gregrorio Magno, prima donna in assoluto a ricevere quest'alta onorificenza vaticana per il suo impegno in ambito ecumenico e interreligioso


(Avvenire, 13 giugno 2020)


Coronavirus: Israele, 1700 contagi in due settimane

di Giacomo Kahn

Preoccupa in Israele la ripresa dei contagi da coronavirus dopo che il paese ha avviato la riapertura. Nelle ultime 24 ore sono stati individuati 106 casi positivi, che portano a circa 1700 i contagi delle ultime due settimane. Un dato allarmante dato che nell'intero mese di maggio i nuovi positivi erano stati meno di 1200, scrive il sito Times of Israel. Il numero di casi attivi, in questo paese di meno di nove milioni di abitanti, si attesta ora a 2947, dopo essere sceso sotto 2mila in maggio. Fra questi vi sono 31 casi gravi, 24 dei quali attaccati ai respiratori. Intanto un nuovo decesso ha portato a 300 il numero di morti. Le autorità sanitarie attribuiscono l'impennata di contagi alla riapertura delle scuole, avvenuta gradualmente in maggio dopo due mesi di chiusura. Ben 142 scuole e asili dell'infanzia sono stati nuovamente chiusi dopo che 442 fra studenti, insegnanti e personale sono stati trovati positivi e quasi 24mila persone sono state poste in quarantena.
   C'è anche preoccupazione per una persona positiva al covid-19 che, a fine maggio, ha partecipato ad un grande evento disco a Rishon Lezion, vicino Tel Aviv, dove centinaia di persone hanno ballato senza rispettare le distanze. Le autorità sono poi intervenute contro il proprietario del locale che si è difeso dicendo che c'erano solo 600 persone, rispetto ad una capacità di 1930. Per ora il governo non ha voluto chiudere nuovamente tutte le scuole, scegliendo d'intervenire caso per caso. Intanto il primo ministro Benyamin Netanyahu ha deciso martedì di rinviare a data da destinarsi l'apertura di cinema e teatri, oltre alla piena ripresa dei servizi ferroviari. E' stato anche deciso il rafforzamento della sorveglianza della polizia sul rispetto delle distanze sociali e il porto di mascherina nei luoghi pubblici. Il ginnasio Rehavia di Gerusalemme, uno dei primi dove è ripartito il contagio, con 150 infetti, è stato parzialmente riaperto oggi, ma solo per gli studenti delle classi dove sono previsti esami, suddivisi in piccoli gruppi.

(Shalom, 12 giugno 2020)


Abu Mazen vuole l'annessione

L'editoriale paradossale (ma non poi tanto) firmato dal direttore del più filo-palestinese dei quotidiani israeliani

C'è una persona che potrebbe impedire a Israele di procedere, dopo il primo luglio, con l'annessione di insediamenti e di ampie porzioni della Cisgiordania, e questa persona è Abu Mazen. La cosa non richiederebbe un grande sforzo da parte del presidente dell'Autorità Palestinese. Tutto quello che dovrebbe fare è telefonare o mandare un e-mail o un messaggino alla Casa Bianca per chiedere un incontro con il presidente Donald Trump durante il quale annuncerà la sua disponibilità a riprendere i colloqui di pace con Israele sulla base del cosiddetto "accordo del secolo" dell'amministrazione americana. Dopo un messaggio del genere, Trump chiederebbe quasi sicuramente al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di congelare la progettata annessione e avviare negoziati per un accordo dettagliato sullo status finale, grazie al quale verrà creato uno stato palestinese....

(israele.net, 12 giugno 2020)


La scommessa del colosso tech: "Apriamo la casa delle start-up"

StMicroelectronics ha scelto Torino come luogo dove sviluppare St-Up accelerator, un programma nato in Israele per accelerare start up hardware.

di Leonardo Di Paco

TORINO - StMicroelectronics, uno dei più grandi produttori al mondo di semiconduttori, ha stretto una partnership con Torino City Lab, la piattaforma di regia dell'innovazione del Comune. Sono bastati pochi mesi di trattative per convincerli a sbarcare nella nostra città, a dimostrazione di un territorio che, nonostante la crisi, vanta un appeal sempre maggiore nei confronti dei principali player del mondo dell'innovazione. Il colosso tech con sede in Svizzera - 9,56 miliardi di dollari di ricavi nel 2019 - ha scelto Torino come luogo dove stabilire il suo nuovo hub italiano dove sviluppare St-Up accelerator, un programma nato in Israele per accelerare start up hardware nei principali ambiti in cui opera l'azienda quali mobilità smart, Industria 4.0 e Salute.
Torino City Lab (Tcl) grazie alla collaborazione con Stm potrà dunque contare sul supporto di un colosso internazionale nell'ambito di tecnologie hardware e software che consentono a tutte le start-up e le aziende presenti dentro Torino City Lab di usufruire di queste tecnologie in ambito della sensoristica, della connettività, del calcolo computazionale, dell'intelligenza artificiale e dell'ottimizzazione dell'efficienze energetiche. Dall'altra parte Stm, entrando a far parte di Torino City Lab, metterà le proprie tecnologie a disposizione degli ambiti di ricerca su cui Tcl lavora come cyber security, smart city e smart road.
   Stm opera attraverso due canali. Da una parte ci sono i cosiddetti "proof of concept", ovvero studi di fattibilità per verificare la capacità di andare sul mercato. In sostanza chi ha un'idea, senza per forza essere esperto di elettronica, con questa modalità può sperimentarla per poi accedere ad un ecosistema, quello di Stm, in grado di traghettare verso l'industrializzazione. Dall'altra c'è St-Up, programma nato per accelerare lo sviluppo di start up di tipo hardware. «L'acceleratore fornirà accesso prioritario alle start up selezionate perché compatibili con la nostra "vision" in modo da identificare future aziende di successo concentrate sull'hardware e alimentare così collaborazioni a lungo termine» spiega Alessandro Messi, vice president Sales and Marketing di Stm per le aree Emea e Sein.
   Secondo l'assessore comunale all'Innovazione, Marco Pironti, «Torino sta cercando dei campioni internazionali di innovazione proprio perché oltre a puntare sulle start up esistenti, e quelle attive sono 350, ha l'obiettivo di incrementarle». Il luogo fisico dove ospitare l'acceleratore ancora non è stato identificato. L'idea è realizzare più hub diffusi, che dovrebbero trovare il nucleo centrale ai Poveri Vecchi di corso Unione Sovietica. Qui, infatti, sotto l'egida del Csi Next, potrebbe trovare la sua sede principale la "Casa delle tecnologie emergenti" nel caso il Comune si vedesse approvato il bando ministeriale pubblicato da poche settimane.

(La Stampa, 12 giugno 2020)


Il 35° governo di Israele e la storia di alcuni ministri

di Giancarlo Valori

Come molti sanno, il governo di Gerusalemme doveva formarsi già dopo le elezioni del 9 aprile 2019, ma è stato proprio Netanyahu a non riuscire a comporlo, e la Knesset si è nuovamente sciolta per preparare le ulteriori elezioni, che si sono svolte il 17 settembre 2019.
Anche dopo questa seconda elezione non ci sono state le condizioni politiche e numeriche per creare una stabile e omogenea maggioranza di governo, e sono state organizzate altre nuove elezioni, per il 2 marzo 2020.
Il 20 aprile, sempre del 2020, è stato poi siglato l'accordo tra Benny Gantz e Bibi Netanyahu che ha portato all'attuale governo di unità nazionale, che ha iniziato ufficialmente i suoi lavori il 17 maggio 2020.
Il primo ministro, lo abbiamo già detto è, per gli accordi intercorsi con Benny Gantz, lo stesso Netanyahu, che poi passerà, a metà della durata costituzionale del Governo, il testimone a Gantz, che però è già ministro della Difesa.

Gantz è stato Capo di Stato Maggiore della IDF, le Forze Armate israeliane, dal 2011 al 2015, poi è divenuto presidente della Knesset dal 26 marzo al 17 maggio del 2020.
Il suo partito, "Resilienza di Israele", lo ha fondato nel dicembre 2018, alleandosi poi con i gruppi di Telem, fondato dall'ex-ministro della Difesa Moshe Yaalon, che è un gruppo di centro-destra, e anche con lo Yesh Atid, ("c'è un futuro") un partito fondato nel 2012 da Yair Lapid, fondando quindi una coalizione "Bianco e blu".

Il ministro per l'Agricoltura e lo Sviluppo Rurale è Alon Schuster, sempre dei "Bianchi e Blu".
Figlio di un tedesco e di una argentina, è nato a Sderot, uno dei Kibbutz più noti e antichi di Israele, poi ha fatto parte della Brigata Nahal ed è stato ferito in guerra.
La Brigata Nahal, divenuta autonoma nel 1982, nelle more della guerra in Libano, è una struttura particolare nell'IDF: nasce da un regolare battaglione di paracadutisti, ma è formata anche da volontari del movimento politico sionista Nahal, che rappresenta una tradizione che mescola volontarismo sociale, la vita nel kibbutz e la tradizione militare israeliana, di cui il kibbutz (si pensi alla storia del Palmach, per esempio) è parte identitaria e integrante.
Schuster è stato un membro storico del Labour Party (HaAvoda) che è socialista democratico ma soprattutto sionista, il quale è un gruppo politico che nasce nel 1968 dalla fusione di Mapai ("Partito dei Lavoratori della Terra di Israele") HadutHaAvoda, ("Unità del Lavoro") che è il vecchio partito di Ben Gurion, e il Rafi ("Lista dei Lavoratori Israeliani") fondato, sempre da Ben Gurion, nel 1965.
Con il Fondatore dello Stato di Israele, nel 1965, andarono nel Rafi personaggi come Moshe Dayan, Shimon Peres, Chaim Herzog e Teddy Kollek.
Kollek, che è stato per vari anni sindaco di Gerusalemme, è stato un personaggio importantissimo per la costituzione dello Stato israeliano, sia pubblicamente che con le sue operazioni coperte, in Europa e in Italia soprattutto.
Ma, tornando a Schuster, egli si è unito ai "Bianchi e Blu" nell'aprile 2019 ed è stato quindi eletto alla Knesset.

Il Ministro per l'Aliyah, ("salita") ovvero il diritto al ritorno di tutti gli ebrei in Israele, che più esattamente si definisce come "Ministro della Aliyah e dell'Integrazione" è Prima Tamano-Shata.
Avvocato, giornalista, militante politica, è una ebrea di origine etiope ed è appunto nata in Etiopia.
Solo alla fine di marzo 2020 ha lasciato il gruppo Yesh Atid, per unirsi anche lei ai "Bianchi e Blu".
Prima Tamano-Shata è nata vicino a Gondar, nella regione degli Amhara, la tribù che seguì eroicamente le gesta di Amedeo Guillet, che loro chiamavano Kummandant Shaitan, "comandante diavolo".
La famiglia del futuro ministro arrivò in Israele con la "Operazione Mosè", quando i Falascià e i Beta Israel etiopi e sudanesi vennero segretamente trasportati dall'IDF durante la carestia africana del 1984.

La ministra “del rafforzamento e dell'avanzamento della comunità" ovvero il ministero che si occupa delle amministrazioni comunali e locali, è Orly Levy-Abekasis, che fa parte del movimento Gesher, ("ponte") un'area liberale di centro.
Il partito, peraltro, è stato fondato proprio dal padre di Orly Levy-Abekasis.
La neo-ministra è entrata alla Knesset nel 2009 con il movimento Israel Beitenu, per poi fondare, nel 2019, insieme al padre, il suddetto partito Gesher, che ha all'inizio corso insieme al Partito Laburista.
Il padre, è bene ricordarlo, era il ministro degli Esteri marocchino, nonché amico personale del Re, David Levy.
E' stata, Orly, membro delle Forze Aeree di Israele, poi ha studiato legge a Herzliya, e oggi vive nel Kibbutz "Mesilot".

Ministro delle Telecomunicazioni, essenziali in un Paese come Israele, è oggi Yoaz Hendel.
Appartiene al piccolo movimento Derekh Eretz. Un movimento di centro-destra, secondo le coordinate politiche europee, che è stato fondato nel marzo 2020 da Zvi Hauser e dallo stesso Yoaz Hendel, dopo che avevano lasciato Telem, uno dei componenti, lo ricordiamo, dei "Bianchi e Blu".
Storico militare, è anche giornalista e presidente dell'Istituto per la Strategia Sionista, fondato nel 2005, ma il suo vero obiettivo è la scrittura di una vera e propria Costituzione per Israele.
Si occupa molto di demografia, come dovrebbero fare anche gli altri governi moderni.
Di origine rumena e polacca, è cresciuto nell'insediamento di Elkana.
E' stato anche un elemento importante dello Shayetet 13, una delle più importanti forze di élite.
Dopo sei anni di servizio, è stato dimesso ed è stato, successivamente, membro dell'ufficio del Primo Ministro.
Tenente colonnello della Riserva.

Yaachov Litzman è l’attuale ministro della Edilizia e delle Costruzioni, ma è stato anche ministro della Sanità.
E' nato da sopravvissuti alla Shoah in un campo profughi tedesco. Poi, lui e la sua famiglia sono emigrati a Brooklyn, e successivamente, a 17 anni, è emigrato in Israele con i genitori.
E' un Haredim e appartiene al "giudaismo unito nella Torah", che è una alleanza di Agudat Israel, che si lega storicamente e sapienzialmente all'omonimo movimento in Alta Slesia, che è ormai più chassidico che non haredi, anche se ha una lunga storia come movimento non-sionista degli Ebrei osservanti.

Per il ministero della Cultura e dello Sport, c'è Hili Tropper, un "Blu e Bianco".
Figlio di un Rabbi, ha iniziato la sua carriera politica nel Labour, ma ha anche una lunga esperienza nelle questioni educative e scolastiche e un rapporto personale efficace con Benny Gantz.

Per il Ministero del Cyber e delle questioni digitali nazionali è stato nominato Dudi Amsalem, del Likud.
David "Dudi" Amsalem è stato già ministro delle telecomunicazioni, discende da una famiglia di ebrei marocchini, è stato comandante di un tank nell'IDF e poi si è dedicato alla Economia e alla Business Administration, per la quale si è laureato alla Bar-Ilan.
Presidente della sezione di Gerusalemme del Likud.

Per il Ministero della Difesa, un posto chiave, è stato nominato ora Michael Biton, ancora un "Blu e Bianco".
Anche lui un ebreo marocchino, si è laureato in Studi Ebraici e in scienze del comportamento alla Università Ben Gurion del Negev, ed ha inoltre un MA in "leadership organizzativa" alla Università Ebraica di Gerusalemme.
Già eletto nelle liste di Kadima, il vecchio partito centrista e liberale nato nel 2005 dai membri del Likud e anche del Labour che sostenevano il piano unilaterale di disimpegno, per la questione con gli arabi, elaborato da Ariel Sharon, ha poi fondato, lo stesso Michael Biton, un nuovo partito politico, denominato Ahi Israel, ma poi si è ricollocato rapidamente con i "Bianchi e Blu".

Il Ministro per gli Affari della Diaspora è oggi Omer Yankelevitch, nata Galitsky.
Avvocatessa e militante per i diritti civili, è membro del partito fondato da Benny Gantz e ha creato da tempo la Fondazione Just Begun, che si occupa di integrare le popolazioni marginali e periferiche di Israele.
E' di formazione Haredi e di origini lituane. Ha insegnato ebraico e tradizioni ebraiche, da giovanissima, a Mosca e in Ucraina.

Il ministero dell'Economia, che si è fuso con il ministero del Welfare nel 1970, è oggi Amir Peretz.
Un laburista "storico" e attuale leader del Labour Party, che è stato anche già ministro della Difesa e ministro della Protezione Ambientale, oltre che capo dell'Histadrut, dal 1995 al 2006, il sindacato nazionale dei lavoratori israeliani.
Un sindacato che nasce ai tempi del Mandato britannico in Palestina, è bene ricordarlo, mentre Peretz è stato anche sindaco di Sderot, lasciando poi i laburisti per fondare il suo partito, One Nation, nel 1999, ovvero Am Ehad, più esattamente "un solo popolo".
Ma, dopo il 2006, Peretz e il suo parzialmente nuovo Labour entrano nella coalizione dominata da Kadima, fondato nel 2005 per sostenere il piano di disimpegno unilaterale di Ariel Sharon dalla Striscia di Gaza. Dove Peretz, in quel governo, fu ministro della Difesa.
E' stato il grande sostenitore della Guerra in Libano, sempre del 2006 e, soprattutto, del progetto di protezione elettronica e missilistica Iron Dome, ma fu poi battuto all'interno del Labour da Ehud Barak e rassegnò le dimissioni.
Nel 2012 si ritira dalla Knesset e anche dal Labour, per entrare nella nuova formazione politica detta Hatnua, "il Movimento", di area centrista e liberaldemocratica.
Nel 2013 corre con i Verdi, che si sono precedentemente federati a Hatnua, mentre nel 2015 si fa eleggere alla Knesset in una lista, unita al Labour, chiamata "l'Unione Sionista", che diviene il secondo gruppo parlamentare più grande in quel momento.
Hatnua era un gruppo le cui richieste si incentravano, soprattutto nel 2013, sulla pace tra Israele e gli Arabi, sulla giustizia sociale, sulla piena occupazione e anche sulla piena fusione tra esercito e cittadinanza, inoltre anche sul pluralismo religioso e sul laicismo.

Ministro dell'Educazione è oggi Yoav Galant.
Già comandante delle Forze del Sud dell'IDF, già ministro delle Costruzioni nel 2015, è poi passato al Likud.
La madre, polacca, è sopravvissuta alla Shoah, il padre è stato partigiano delle brigate ebraiche che combatté i nazisti nelle foreste ucraine e bielorusse.
È stato membro della Brigata Givati, l'84°; e ha combattuto nella guerra del 1948 e nelle altre successive.
La Givati era di stanza nella Striscia di Gaza e compiva soprattutto, fino al Piano di Sharon, operazioni di controguerriglia. Ha studiato economia e finanza all'Università di Haifa.
Galant è stato anche comandante di una nave della 13° Flottiglia, nel 1977, poi è andato a fare il boscaiolo in Alaska.
Al ritorno, va a comandare una nave lanciamissili, per poi andare a comandare tutta la 13° Flottiglia, nel 1994.
Poi diviene comandante della Divisione di Gaza, e nel 2001 va a fare il Capo di Stato Maggiore, poi diviene il Segretario militare del Primo Ministro, nel 2002.
Nel 2005, diviene comandante delle Forze del Sud dell'IDF, e in questo ruolo dirige l'Operazione Piombo Fuso.
Politicamente, Galant ha accettato inizialmente la candidatura nel Movimento Kulanu, nato nel 2014; e nel 2018 entra nel Lukud per poi essere nominato Ministro della Aliyah e dell'Integrazione, ma nel 2019 si è dimesso dalla Knesset.

Al dicastero per la Protezione Ambientale va Gila Gamilel, una signora nata nel 1974, sempre Likud, di famiglia ebraica-yemenita.
Sua madre proveniva dalla Libia. Ha studiato Storia del Medio Oriente e Filosofia all'Università del Negev, e in seguito si è diplomata anche in Legge.

Alle Finanze va Israel Katz, sempre del Likud. Katz è già stato ministro dell'Agricoltura, dei Trasporti, dell'Intelligence e poi degli Esteri, oltre ad essere membro del Gabinetto per la Sicurezza di Israele.
I genitori, sopravvissuti alla Shoah, erano tedeschi della regione germanofona della Romania, al confine con la Germania e l'Ungheria.
Nel 1973 entra nella Brigata Paracadutisti, nel 1977 si iscrive all'Università Ebraica di Gerusalemme. Entra alla Knesset per sostituire Ehud Olmert.
Nel 2003 diviene ministro dell'Agricoltura nel governo di Ariel Sharon, e nel gennaio 2004 annuncia un piano per aumentare gli insediamenti nelle Alture del Golan, Katz fu inoltre contrario al piano di disimpegno nella Striscia di Gaza, insieme a Netanyahu, poi fa addirittura lobbying con l'Associazione Sionista Mondiale, per favorire il sostegno agli investimenti ebraici nella West Bank.
Nel 2009 è ministro dei Trasporti nel governo Netanyahu. Ministro, poi, degli Esteri in questo gabinetto tra Likud, "Blu e Bianchi" e altri, è Gabi Ashkenazi.
E' stato Capo di Stato Maggiore Interforze, per utilizzare la terminologia italiana, dal 2007 al 2011, è comunque un ebreo Mizrahi, ovvero un ebreo orientale e di origine, spesso, maghrebina, e nasce nell'area di Sharon, nell'Israele centrale, e il padre, sopravvissuto alla Shoah, emigra dalla Bulgaria in Israele mentre la madre era una ebrea siriana.
Studia in una grande scuola, il Ginnasio Herzliya, poi va alla US University of Marine Corps.
Membro della Brigata Golani, dal 1972 al 1988, il suo battesimo del fuoco è nella Guerra dello Yom Kippur, poi partecipa anche all'operazione Thunderbolt, ovvero alla Operazione Entebbe, poi ancora fa parte della Operazione Litani, del 1978.
Nella Guerra del Libano del 1982, Ashkenazi è il vice-comandante del Battaglione Golani, che poi comanderà dal 1987.
L'anno successivo, viene nominato Capo dell'Intelligence nel Comando Nord dell'IDF.
Capo, successivamente, dell'amministrazione civile nel Libano occupato, per poi divenire, nel 1994, Comandante delle Operazioni nel Comando Nord dell'IDF, e non fu peraltro d'accordo con l'abbandono, da parte di Israele, delle posizioni in Libano che, secondo lui, dovevano essere contrattate con la Siria.
Diviene vice-comandante di Stato Maggiore dell'IDF nel 2002, ma è stato anche a capo della costruzione e del mantenimento della fence che separa arabi e ebrei nella West Bank.
La sua idea era quella di costruire la fence in parallelo ma vicinissima alla green line, la "linea dell'Armistizio" del 1949.
Poi, Ashkenazi diviene Direttore Generale del Ministero della Difesa, nel 2006, per poi accedere al ruolo di Capo di Stato Maggiore, nel 2007 fino al 2011.
E' entrato nel gabinetto attuale come "Blu e Bianco".

Alla Salute va Yudi Edelstein. Likud.
Di origini ucraine, è figlio di padre ebreo e di madre cristiana, entrambi poi divenuti cristiani. Oggi il Ministro si dichiara Cristiano Ortodosso ed è anche un "pope".
Arriva in Israele nel 1977, ma ritorna e viene successivamente "spedito", poi, dal KGB, in Siberia, dopo che il Servizio russo gli ha "trovato", ma guarda caso, della droga in casa.
Emigra definitivamente in Israele nel maggio 1987, va a abitare nell'insediamento della West Bank di Alon Shvut, fa subito dopo il servizio militare nell'IDF come caporale.
Nel 1996 fonda il Partito IsraelBaAliyah, insieme al famoso dissidente sovietico Nathaniel Sharansky.
Nel 1996 viene eletto alla Knesset e diviene Ministro per l'Assorbimento dei Migranti in un governo in gran parte Likud, già allora diretto da Netanyahu.
Nel 2009 è poi Ministro della Informazione e della Diaspora.
Dopo le elezioni del 2013, diviene Presidente della Knesset.

Per l'Alta Educazione, e come Ministro dell'Acqua, due dicasteri stranamente uniti insieme, ministro oggi è Ze'ev Elkin. Sempre Likud.
Anche lui ebreo ucraino, si iscrive da giovane alla Bnei Atikva, il più grande movimento sionista religioso del mondo.
Studia matematica e fisica all'Università di Karkhov, dal 1987 al 1990, poi diviene segretario, per l'URSS, della suddetta associazione Bnei Atikva, che è stata fondata, si ricordi bene, nella Palestina del Mandato Britannico.
Studia poi, dopo la Aliyah, all'Università Ebraica di Gerusalemme, ma viene anche eletto alla Knesset nel 2006, tra le file di Kadima.
E' stato vice-ministro degli Esteri dal 2013 al 2014, per poi divenire presidente del Comitato Parlamentare sugli Affari Esteri e la Difesa.
Elkin è stato poi ministro per l'Assorbimento dei Migranti e per gli Affari Strategici, che perde quasi subito, per poi chiedere a Netanyahu il Ministero per gli Affari di Gerusalemme.

Al Ministero per l'Intelligence, va ora Eli Cohen, sempre del Likud. Già ministro per l'Industria e l'Economia, è membro del Gabinetto per la Sicurezza di Israele.
Ha un MBA in contabilità e finanza, oltre a titoli nell'ambito del management.
Il ministro della Sviluppo della Periferia, del Negev e della Galilea è oggi Aryeh Deri, dello Shas, il partito religioso degli Haredim.
Già ministro dell'Economia nel 1999, ha sulle spalle una condanna a tre anni.
Ebreo marocchino, è fratello del Rabbi di Beer Sheva, e ha abolito, da ministro dell'interno, nel 1988, la censura nei teatri.

Al ministero per gli Affari di Gerusalemme, che non è un ministero fisso nella politica israeliana, va Rafi Peretz, che è stato nell'ufficio del Capo Rabbinico Militare ed è attualmente leader del Partito della "Patria Israeliana".
Nel 2019 ministro dell'Educazione, discendente di ebrei marocchini.

Avi Nissenkorn è oggi Ministro della Giustizia. Avvocato, già segretario generale dell'Histadrut, il sindacato unitario israeliano.
Membro della alleanza "Bianca e Blu".
I genitori erano immigrati dalla Polonia, nel febbraio 2016 è un membro del labour, poi si lega al partito di Benny Gantz.

Per il ministero del Lavoro, Affari Sociali e Servizi Sociali è responsabile Itzik Shmuli, laburista e già capo dell'Unione Israeliana degli Studenti.
Genitori di origine iraqena, comandante di tank dal 1998, poi apre un ristorante a Tel Aviv, da cui parte, nel 2003, per andare in Argentina, ma poi torna a Tel Aviv e si iscrive alla Oranim School per insegnanti, appartiene ufficialmente alla comunità LGBT, e lo ha dichiarato in vari articoli.
Viene dalla Unione Sionista.

Per le Infrastrutture Energia e Acqua, il ministro attuale è Yuval Steinitz. Likud.
Già ministro delle Finanze (2009-2013) poi dell'Intelligence e degli Affari Strategici, 2013-2015, è laureato in filosofia e insegna all'Università di Haifa.
E' stato membro di Peace Now da studente.

Per la Sicurezza Interna, che si occupa di Polizia, Sistema carcerario, vigili del fuoco, l'attuale ministro è Amir Ohana, altro membro della comunità LGBT nei ranghi di ministro.
Già ministro della Giustizia, sefardita originario del Marocco, è stato membro, dopo un lungo servizio nell'IDF e nella Polizia Stradale, dello Shin Bet.
E' anche presidente del Likud Pride.

Poi, Gilad Erdan, altro Likud, è oggi ministro per la Cooperazione Regionale di Israele.
E' stato anche ministro della Pubblica Sicurezza, degli Affari Strategici, e anche ministro della Informazione, della Protezione Ambientale, della Difesa del Fronte Interno e degli Affari Interni.
Figlio di ebrei rumeni di origine ungherese, ha studiato legge alla Bar-Ilan University e fa l'avvocato. Consulente legale, anche, di Benyamin Netanyahu.
E' molto legato alla rete degli Evangelici USA sionisti, è stato anche ambasciatore di Israele, in Usa, dal gennaio 2020 fino a oggi.

Yaakov Avitan è oggi ministro per gli Affari Religiosi. E' il figlio del Rabbi di Be'er Tuvla. Rabbi già dai suoi 19 anni, è membro del partito Shas.

Per il Ministero della Scienza e la Tecnologia, il nuovo capo è Yizar Shai. Bianco e Blu.
Genitori ebrei argentini, paracadutista dell'IDF, ha fatto servizio nella guerra in Libano del 1982.
Ha studiato al Technion, la migliore università scientifica in Israele e in tutto il Medio Oriente, nata nel 1912 e oggi 85° nel ranking universitario scientifico mondiale.
Ha fondato la società business layers.

Poi, per il dicastero degli Stanziamenti Territoriali, il nuovo ministro è Tzipi Hotovely. Likud.
Ha già svolto il ruolo di ministro della Diaspora e ha una solida formazione giuridica.
E' molto ortodossa per quel che riguarda i riferimenti alla tradizione ebraica, ha una famiglia di origini georgiane. Giornalista televisiva famosa, è nota per le sue posizioni radicalmente anti-assimilazioniste riguardo agli arabi israeliani.

Meirav Cohen è ministro per l'Eguaglianza Sociale e nasce in una famiglia di ebrei marocchini.
Ha lavorato alla Radio dell'IDF e ha studiato economia all'Università Ebraica di Gerusalemme ed è "Bianca e Blu".

Per il ministero degli Affari Strategici e Informazione è stata nominata Orit Farkash-Hacohen. Bianca e Blu. Prima di questo incarico, è stata la direttrice dell'Autorità Elettrica.
Carriera da avvocato, passa all'autorità Anti-Trust poi, dal 2006 al 2007, va a studiare ad Harvard.
Asaf Zamir è invece il nuovo ministro del Turismo, Bianco e Blu. Già vice-sindaco di Tel Aviv, viene dagli USA, dove è cresciuto nei suoi primi anni. Ha fatto il militare nell'Unità Centrale di Controllo dell'Aviazione Israeliana. Ha fatto carriera di avvocato.

Ed ora arriviamo ad una vecchia amica dell'Italia, Miri Regev, ministra dei Trasporti, il terzo budget del governo israeliano. Likud, che è stata anche ministro per la cultura e lo Sport. Ebrea marocchina per parte di padre, ma la madre proveniva dalla Spagna.
E' stata la referente per la comunicazione del Comando IDF Sud, poi, l'anno dopo, il 2003, è stata la responsabile delle Relazioni Pubbliche del gabinetto del Primo Ministro nelle more della Guerra in Iraq.
Ha continuato con il lavoro della comunicazione militare con la questione di Gaza (2005) e la guerra in Libano dell'anno successivo.

Infine, ministro senza portafoglio è Tzachi Hanegbi, esperto di questioni di Sicurezza nazionale.
E' stato anche ministro dell'Agricoltura e della Cooperazione Regionale. Poi è stato anche a capo del dicastero della Giustizia, della Sicurezza Interna, dell'Intelligence e responsabile, per il Primo Ministro, della supervisione delle Agenzie di Sicurezza. Nasce da una famiglia di fondatori delle organizzazioni coperte che poi faranno capo, in seguito, al Likud.

(il denaro.it, 12 giugno 2020)


Berlino e Amman ribadiscono l'opposizione al piano di Israele

La Germania e la Giordania hanno nuovamente ribadito il proprio rifiuto al piano di annessione dei territori palestinesi della Cisgiordania, delineato dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu.
   In particolare, tale posizione è stata rivelata durante una visita del ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, sia in Israele sia in Giordania, la prima dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19. In particolare, Maas, nel corso dell'incontro con il suo omologo israeliano, Gabi Ashkenazi, ha, da un lato, espresso l'amicizia che lega la Germania e Israele e, dall'altro lato, ha evidenziato come il piano di annessione non sia in linea con il Diritto internazionale. Pertanto, Berlino si è detta a favore di una soluzione a due Stati, nonché aperta al dialogo, al pari dell'Unione Europea, per comprendere meglio le dinamiche del progetto. "È giunto il momento della diplomazia e del dialogo" è stato affermato.
   Da parte sua, Ashkenazi ha affermato che Israele è determinato a proseguire con il proprio piano "responsabilmente" e che la sua attuazione avverrà in collaborazione con gli Stati Uniti e nel rispetto degli accordi di pace esistenti e futuri, raggiunti con i Paesi vicini, in modo da preservare gli "interessi strategici" israeliani. Pertanto, anche Israele si è detto disponibile al dialogo.
   La Giordania, attraverso il ministro degli Esteri, Ayman Safadi, ha espresso il proprio sostegno alla soluzione a due Stati per porre fine al conflitto israelo-palestinese. Il ministro giordano ha, al contempo, evidenziato il legame che lega Berlino e Amman, nonché il ruolo chiave tedesco nel Regno hashemita, in quanto secondo maggiore donatore. Circa il piano di annessione israeliano, Safaadi ha dichiarato che questo rappresenta una chiara violazione del Diritto internazionale e che non può passare inosservato, in quanto rischia altresì di creare un regime di apartheid in Palestina. Inoltre, nel corso del vertice trilaterale con il premier dell'Autorità Palestinese, Mohammad Shtayyeh, ed il ministro degli Esteri Riyad Maliki, sono state prese in esame le strade da perseguire per frenare l'annessione e ritornare al tavolo dei negoziati.
   Il ministro giordano ha nuovamente ribadito che, in caso di effettiva annessione, Amman non resterà a guardare e che sarà costretto a rivalutare le proprie relazioni con Israele. Una tale posizione era stata precisata anche dal premier del Regno hashemita, Omar Razzaz, il 21 maggio, secondo cui è probabile che si vada a formare un fronte comune tra gli Stati arabi che si oppongono al piano di annessione, con la speranza che l'intera comunità internazionale si impegni a preservare la pace nella regione mediorientale e nel mondo intero. Come riferito anche dal re Abdullah II, la Giordania teme che il crollo dell'Autorità palestinese possa causare una maggiore ondata di caos ed estremismo in Medio Oriente.
   Israele prevede di annettere territori della Cisgiordania e, in particolare, la Valle del Giordano e del Mar Morto settentrionale entro il primo luglio prossimo. Si tratta di un progetto presentato dal premier Netanyahu ed appoggiato, seppur con riserve, dal suo ex-rivale, Benny Gantz, suo vice in un governo di unità nazionale. La Giordania, dal canto suo è connessa alla questione palestinese, sebbene sia l'unico Paese arabo in Medio Oriente ad avere firmato un trattato di pace con Israele, quello del 1994, che ha normalizzato le relazioni tra i due Paesi dopo due conflitti.
   Il primo risale al 1948 e portò allo stanziamento di Israele nelle aree occidentali della Palestina, mentre la Giordania prese il controllo delle zone orientali palestinesi. Il secondo conflitto è del 1967 e risultò nella sconfitta della Giordania, con il conseguente ritiro da Gerusalemme Est e dalla Cisgiordania, pur continuando a mantenere la sovranità in questi territori. Nonostante il trattato di pace di Wadi Araba del 1994, che aveva posto le basi per la pace dopo decenni di guerra tra Giordania e Israele, il popolo giordano continua a considerare Israele un nemico e, a tal proposito, si è altresì opposto al cosiddetto piano di pace presentato dal capo della Casa Bianca, Donald Trump, il 28 gennaio 2020.

(Sicurezza Internazionale, 11 giugno 2020)


Gantz a Maas, il piano Usa per il Medio Oriente è un’opportunità storica

GERUSALEMME - Il piano di pace dell'amministrazione statunitense per il Medio Oriente "Peace to prosperity" rappresenta un'opportunità storica che è importante portare avanti insieme alla Casa bianca. E' quanto dichiarato dal ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, durante l'incontro con il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, secondo una dichiarazione del dicastero. Il piano di annessione di parti della Cisgiordania sarà avanzato "con una visione responsabile e il massimo dialogo con vari attori nella regione e nell'ambito di un ampio dialogo internazionale", ha aggiunto Gantz.
   I due ministri hanno discusso anche di altri temi, tra cui l'Iran. Durante il colloquio con l'omologo Gabi Ashkenazi, Maas ha messo in guardia Israele dall'annessione, ma ha smesso di minacciare eventuali sanzioni europee, evidenzia il quotidiano "The Times of Israel". Al pari di Ashkenazi, Gantz ha ringraziato Maas per aver messo al bando il movimento sciita libanese Hezbollah, per la lotta di Berlino contro l'antisemitismo e l'antisionismo e per la difesa di Israele "con particolare attenzione nei consessi internazionali".

(Agenzia Nova, 11 giugno 2020)


Coronavirus: confronto Lombardia-Israele per progetti e cooperazione

MILANO - Regione Lombardia ha avviato un confronto con Israele per progetti di cooperazione in ambito medico-scientifico legati al covid19. Secondo quanto riporta la Regione, si è svolto "un momento di confronto proficuo e importante tra alcuni rappresentanti della sanità lombarda e le equipe del Sheba Medical Center di Tel Aviv, del Maccabee Healthcare Service e il Central National Technology Hub israeliano, in collaborazione con l'Ambasciata d'Israele, per mettere a fattor comune le rispettive esperienze di cura sul virus e avviare una collaborazione stabile con l'istituto israeliano che per primo ha iniziato a monitorare pazienti Covid-19 attraverso sperimentali sistemi di telemedicina avanzata".
   All'incontro ha partecipato il sottosegretario alla presidenza per i Rapporti con le Delegazioni internazionali, Alan Rizzi. Si e' parlato anche di sistemi di sorveglianza basati sull'intelligenza artificiale, di strumenti di assistenza innovativi sui pazienti a distanza, di rimodulazione di modelli di intervento e di organizzazione attraverso l'integrazione di nuove tecnologie per diagnosi rapide. "Uno scambio importante reso possibile grazie all'impegno dell'Ambasciata d'Israele.
   I rapporti istituzionali, diplomatici e economici tra Israele e Lombardia sono sempre stati di grande collaborazione particolarmente circa il tema dell'innovazione tecnologica. Al percorso avviato seguiranno presto altri momenti di approfondimento", dice Rizzi. Il popolo israeliano "si è fortemente identificato con l'Italia e la Lombardia ed e' stato solidale con le loro sofferenze", spiega l'ambasciatore israeliano Dror Eydar. "Allo stesso tempo abbiamo lavorato per creare cooperazioni scientifiche proficue. Ho pensato a cosa avrei potuto fare per i lombardi e ho ritenuto che mettere a disposizione il know how dell'ospedale Sheba, un'eccellenza a livello internazionale, potesse essere utile. Il nostro pensiero in questi mesi e' andato costantemente alla sanita' lombarda cosi' colpita dal virus a testimonianza del rapporto profondo e stabile tra Lombardia e Israele - ha aggiunto Arnon Afek, direttore generale di Sheba Medical Center - Siamo solo all'inizio di una fattiva collaborazione".

(Adnkronos, 11 giugno 2020)


Da Israele un "tunnel disinfettante" per eventi pubblici più sicuri

di Michael Soncin

 
 
"La tecnologia sviluppata dai ricercatori dell'Università Bar-Ilan è stata utilizzata dalla startup RD Pack per vaporizzare l'igienizzante agli spettatori all'ingresso delle attrazioni sportive", riporta il Times of Israel.
"L'idea è di installare il tunnel all'ingresso di spazi pubblici e privati: stadi, aeroporti, scuole, uffici, centri commerciali, cinema, treni e autobus".
Si tratterebbe di un tunnel di risanamento e disinfezione, composto di un telaio in alluminio e policarbonato che spruzza i liquidi in occasione di eventi che ospitano un gran numero di persone. Uno di questi, in via di sperimentazione è stato installato presso il Bloomfield Stadium di Tel Aviv, dove le squadre di calcio stanno per riprendere a giocare, anche se senza tifosi sugli spalti.
"Quando le persone camminano attraverso il tunnel, tutto il loro corpo viene vaporizzato con il disinfettante, che funziona in modo rapido ed efficiente fornendo la completa sterilizzazione di una persona", ha affermato Eran Druker, responsabile dello sviluppo aziendale di RD Pack.
A causa del covid-19 i concerti sono stati cancellati e molti artisti hanno portato i loro spettacoli online, come il concerto di Andrea Bocelli dal Duomo di Milano, completamente vuoto.
"Tutto ciò solleva un interrogativo. Torneremo mai agli affollati concerti ed eventi sportivi? La risposta potrebbe essere affermativa se il progetto dei ricercatori dell'Università Bar Ilan darà l'esito sperato". A causa della pandemia le Olimpiadi estive di Tokio e le partite di calcio Euro 2020 sono state posticipiate di un anno.

 Un efficace disinfettante ecosostenibile e innocuo
  Ad aprile, i ricercatori hanno affermato di aver sviluppato un modo per produrre disinfettanti forti e rispettosi dell'ambiente per uccidere batteri e virus usando l'acqua del rubinetto, che è elettrificata per produrre acido ipocloroso a determinati livelli di acidità.
"Il vantaggio del disinfettante rispetto ad altre tipologie, ha affermato Eran Avraham, è che l'acido ipocloroso, a differenza degli altri disinfettanti in commercio come la candeggina, non è dannoso per la pelle o per gli alimenti".
"Il metodo è stato sviluppato e brevettato dai dottori Eran Avraham e Izaak Cohen e dal professor Doron Aurbach, capo del gruppo di elettrochimica del Dipartimento di Chimica e Istituto di Nanotecnologia e Materiali avanzati dell'Università di Bar-Ilan".

 Una difesa in più contro gli asintomatici
  Dalle parole di Avraham si apprende che attraversando il tunnel, i germi presenti sul corpo vengono eliminati. Ciò riduce la diffusione del virus e molti altri agenti patogeni, poiché va ricordato che il nuovo coronavirus è altamente infettivo e si diffonde principalmente attraverso le goccioline espulse da naso e bocca. Il patogeno ha anche la capacità di sopravvivere su mani, vestiti e altre superfici per un determinato periodo di tempo. Inoltre lo studioso sottolinea che se qualcuno fosse in contatto con un'altra persona che era malata, e ha ancora delle goccioline della persona malata sui propri vestiti, il tunnel distruggerebbe quelle goccioline, fermandone la diffusione.
"Se una persona malata ma asintomatica attraversa il tunnel, ha spiegato Druker di RD Pack, il disinfettante distruggerebbe le goccioline virali sul loro corpo e sui loro vestiti prima di entrare nel locale. Quindi, se una volta dentro la persona aderisce alle regole igieniche di base, tra cui indossare una maschera e lavarsi le mani, le possibilità di infettare gli altri diminuiscono significativamente".
Druker ha affermato che l'azienda sta anche cercando di sviluppare depuratori d'aria, utilizzando la stessa tecnologia, che può essere collocata in grandi spazi pubblici. "Lo sviluppo di questa idea è in una fase molto avanzata."
"Il tunnel aiuterà a ridurre le possibilità d'infezione", ha dichiarato Avraham.

(Bet Magazine Mosaico, 11 giugno 2020)


La Corte Europea di Strasburgo dà ragione ai filo-palestinesi

Sostengono il boicottaggio di prodotti israeliani

La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato la Francia per aver violato la liberta' di espressione degli attivisti filo-palestinesi, che erano stati condannati per il loro invito al boicottaggio dei prodotti importati da Israele. "La Corte ritiene che le azioni e le osservazioni asserite contro i ricorrenti sia state espresse in termini politici e di militanza e riguardavano un argomento di interesse generale" e ritiene che la loro condanna nel 2013 da parte della Corte d'Appello di Colmar "non sia basata su motivi pertinenti e sufficienti", sostiene il braccio giuridico del Consiglio d'Europa.
   La Corte Europea di Strasburgo era stata interpellata nel 2016 da undici membri del "Collectif Palestine 68". Diffondendo nell'Alto Reno la campagna internazionale delle Ong palestinesi "Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni", i ricorrenti avevano partecipato nel 2009 e nel 2010 a iniziative in un ipermercato a Illzach, vicino a Mulhouse, per invitare i clienti al boicottaggio Prodotti israeliani. "Per natura, il discorso politico e' spesso virulento e fonte di controversie. Tuttavia rimane nell'interesse pubblico, a meno che non degeneri in una esortazione alla violenza, all'odio o all'intolleranza", ha sottolineato la Corte in una nota sulla sua decisione. "L'appello al boicottaggio e' riconosciuta come un diritto cittadino!", ha esultato l'associazione Francia-Palestina. La Corte ha condannato la Francia a pagare ciascuno dei ricorrenti "380 euro per danni materiali, 7 mila euro per danni morali e collettivamente 20 mila euro per costi e spese".

(AGI, 11 giugno 2020)


L'azione della International Criminal Court (ICC) e la bancarotta dell'Autorità Palestinese

di Ugo Volli

 
Apparentemente, è solo un episodio minore della lunga guerra giudiziaria ("lawfare") e diplomatica che l'Autorità Palestinese conduce in tutte le sedi internazionali per cercare di danneggiare Israele e di erodere il suo status legale, in genere benissimo accolta dagli organismi sovranazionali come Unesco, Commissione Onu per i diritti umani, Unione Europea che sono dominati da una maggioranza terzomondista e dal "pensiero unico" che si definisce antimperialista. Ma come vedremo, c'è qualcosa di più.
  Il fatto è questo. La procuratrice generale della Corte Criminale Internazionale (ICC - International Criminal Court) Fatou Bensouda da qualche mese sta cercando di portare a processo Israele per violazione della legge internazionale, principalmente su due punti: pretesi crimini di guerra commessi nelle operazioni difensive condotte a Gaza contro il terrorismo di Hamas e altrettanto pretesi crimini commessi nell' "occupazione" di Giudea e Samaria. Bisogna sapere che la ICC ha dei limiti d'azione molto stringenti. Fra essi da un lato la corte non ha giurisdizione se non sugli stati che hanno aderito al trattato di Roma che l'ha istituita, e Israele come gli Usa non l'ha fatto; dall'altro può essere messa in gioco solo dalla denuncia di uno stato e non da privati, organizzazioni, istituzioni non statali. Infine la corte non può agire se lo stato interessato ha già messo sotto inchiesta i fatti denunciati, con un procedimento legale sufficientemente articolato e condotto secondo i principi della legalità. Dato che il sistema giudiziario in Israele è molto attivo e chiaramente indipendente, quest'ultima clausola impedisce preventivamente l'intervento della ICC su casi come quelli della presa della nave Mavi Marmara della flottiglia di qualche anno fa, o quelli degli scontri a Gaza, che sono stati indagati dai tribunali israeliani.
  L'Autorità Palestinese ha sollecitato l'intervento della corte, ottenendo il pieno appoggio di Fatou Bensouda sul problema dell' "occupazione" di Giudea e Samaria. Ma la corte non è competente sul territorio israeliano, dato che Israele non vi aderisce. Allora Bensouda ha cercato di dimostrare che l'Autorità Palestinese è uno stato e dunque ha diritto a chiederne l'intervento per quanto riguarda il suo territorio; per confermare questa tesi molto discutibile, la procuratrice ha investito una pre-trial Chamber (una specie di giudice delle indagini preliminari), con la fondata convinzione che nonostante gli interventi di molti stati che hanno espresso parere contrario a questa estensione della competenza della International Criminal Court (fra essi USA, Australia, Ungheria, Gran Bretagna) la corte le avrebbe accordato il permesso di iniziare le sue indagini.
  A questo punto però è venuta fuori la dichiarazione del dittatore dell'Autorità Palestinese Mohamed Abbas, che in seguito all'intenzione israeliana di aderire al progetto Trump e di estendere la propria sovranità alle zone di Giudea e Samaria interessate al progetto, ha dichiarato di rifiutare gli accordi di Oslo. Ma a parte i problemi politici e di sicurezza che questa mossa pone, vi è una delicata questione legale: Se Ramallah insiste sul fatto che gli accordi del 1993 sono ormai in disuso, potrebbe minare le sue pretese di sovranità come lo "stato della Palestina", poiché fu Oslo a concedergli una prima misura di autonomia nella regione. Rinunciare a Oslo potrebbe essere visto come una resa di quella sovranità, e con essa qualsiasi diritto di presentare un caso nella ICC. Se, d'altra parte, i palestinesi rispondono che la loro dichiarazione che taglia i legami con Israele in qualche modo non ha influenzato la struttura di Oslo, avranno difficoltà a spiegare la loro posizione, perché nel trattato vi è una proibizione esplicita a ricorrere a giurisdizione esterne. La pre-trial chamber ha dunque ordinato a Bensouda di chiedere all'AP se considera l'accordo ancora valido o meno.
  La risposta è uscita pochi giorni fa. Sia pure con qualche contorsione e con la distinzione fra piano politico e piano giuridico, l'AP ha risposta di considerarsi "esente" dagli accordi di Oslo. Esente sì, ma senza tornare a Tunisi, da dove Oslo disgraziatamente li trasse fuori e li trasferì in Giudea, Samaria e Gaza. Che cosa farà Israele a questo punto non è ben chiaro, a parte non rispondere alla International Criminal Court, che non considera competente. Perché se l'accordo di Oslo non c'è più, con esso decadono tutti gli obblighi dello stato ebraico nei confronti dell'AP (salvo quelli di assistenza alla popolazione, che derivano da principi internazionali). Dunque nessuna impunità, nessun finanziamento, nessuna garanzia diplomatica, nessun riconoscimento dell'autonomia.
  Naturalmente a Israele non conviene subentrare nell'amministrazione della popolazione araba, e per questa ragione non spianterà il sistema di potere di Abbas e compari. Ma è chiaro che sul piano giuridico e diplomatico, l'Autorità Palestinese senza Oslo è un'organizzazione illegale, che controlla in parte un territorio, un po' come certe mafie o gruppi terroristi in vari stati sudamericani e arabi. Probabilmente questi sviluppi verranno alla luce pianio piano, ma essi sono importanti e potrebbero permettere a Israele, se ne avesse la determinazione, di rimediare all'errore principale di Oslo, quello di trattare con l'organizzazione terrorista OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) invece che con i capotribù locali (perché la popolazione araba anche in Giudea e Samaria è divisa in tribù semiautonome, con cui è possibile fare accordi).
  Infine, un'ultima conseguenza che mostrerà anch'essa la sua importanza in futuro. Nel diritto commerciale, quando una persona o un'organizzazione dichiara di non riconoscere più i suoi obblighi, si dice che ha fatto bancarotta, il che a certe condizioni è un reato penale, ma soprattutto annulla il suo credito: chi presterebbe denaro o accorderebbe una vendita a rate a qualcuno che ha mostrato di non onorare i suoi debiti? Quel che ha fatto Abbas è una bancarotta politica: ha dichiarato di non voler più far fronte ai suoi obblighi solennemente assunti nel contesto internazionale. E' vero che i palestinisti non hanno mai rispettato davvero Oslo, che imponeva loro fra l'altro di accettare l'esistenza di Israele e di abolire il terrorismo. Ma un conto è non pagare i debiti, un altro è dichiarare ufficialmente che se ne è esenti, cioè si disconoscono gli accordi. In futuro dunque tutti quelli che parlano di "accordi di pace", "trattative", "riconoscimenti" eccetera, dovranno spiegare che senso ha firmare con i palestinisti dei trattati che essi si ritengono liberi di annullare quando farà loro comodo. Anche questa non è una novità, perché subito dopo Oslo, Arafat dichiarò in un discorso in arabo a Johannesburg che si sentiva tanto legato al trattato quanto Maometto lo era stato con l'accordo di al-Ḥudaybiyya (628) con i suoi nemici della Mecca, che aveva stracciato alla prima buona occasione. Ma qui abbiamo non solo una spiegazione ai suoi sostenitori, bensì una dichiarazione ufficiale a una corte internazionale. E dunque ai sostenitori della "pace" resterà sempre da rispondere alla classica domanda dei gialli americani: comprereste una macchina usata da un tipo come lui?

(Progetto Dreyfus, 10 giugno 2020)


Israele, applicheremo il piano Trump in modo responsabile

In una prima fase mini annessione, non Valle Giordano

Il piano Trump sarà "applicato in maniera responsabile, in pieno coordinamento con gli Usa, mantenendo al tempo stesso gli accordi di pace e gli interessi strategici di Israele". Lo ha detto il ministro degli esteri israeliano, Gabi Ashkenazi, incontrando oggi a Gerusalemme il suo omologo tedesco Heiko Maas. "Intendiamo farlo - ha spiegato - in dialogo con i nostri vicini. Israele vuole pace e sicurezza". Ashkenazi ha anche ringraziato il governo tedesco per aver messo fuorilegge di recente gli Hezbollah libanesi.
   Secondo fonti ufficiali citate in forma anonima da Times of Israel, il premier israeliano Benyamin Netanyahu starebbe pensando a una mini annessione e senza la Valle del Giordano, almeno in una prima fase nell'estensione - sulla scia del piano di pace di Trump - della sovranità di Israele a parti della Cisgiordania prevista per i primi di luglio. In pratica - secondo le fonti - la mini annessione riguarderebbe i tre grandi 'blocchi' degli insediamenti ebraici più grandi, più antichi nel tempo e stabili: Maalè Adumim, Gush Etzion e Ariel. Aree ben definite anche dal punto di vista geografico e di mappatura dei confini, che si trovano le prime due a sud e a est di Gerusalemme, mentre la terza è nel nord est della Cisgiordania ma collegata ai sobborghi di Tel Aviv. Se così fosse - ha fatto notare le fonti - l'esclusione della Valle del Giordano, almeno nella fase iniziale, permetterebbe di non approfondire le tensioni con la confinante Giordania, che ha già manifestato netta opposizione alle intenzioni israeliane.

(ANSAmed, 10 giugno 2020)


L'ex spia del Mossad: così fu rapito Eichmann il burocrate di Hitler

Per lui venne lasciato libero Mengele

di Gianluca Perino

Sessanta anni fa, in Argentina, un gruppo di spie israeliane del Mossad mise a segno quella che ancora oggi è considerata una delle operazioni segrete più incredibili della storia: la cattura di Adolf Eichmann, il burocrate dell'olocausto. Il gerarca nazista, ritenuto uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei, dopo la fine della guerra era riuscito ad evitare l'arresto riparando prima in Italia (dove ottenne un passaporto falso intestato all'altoatesino Riccardo Klement) e poi in Sud America.
  Una volta in Argentina, dove trovò lavoro come operaio in uno stabilimento della Mercedes, Eichmann non fece granché per nascondersi. E questo alla lunga gli risultò fatale. Suo figlio si presentava con il suo vero nome, Klaus Eichmann, e spesso si vantava apertamente del passato nazista di suo padre. Così, quando si fidanzò con la figlia di un ebreo tedesco sopravvissuto a Dachau, Lothar Hermann, la debole copertura saltò definitivamente. Hermann fece arrivare l'informazione a un giudice tedesco, che a sua volta avvertì gli israeliani. Nel marzo del 1960 una spia del Mossad riuscì quindi a scattare una fotografia ad Eichmann a Buenos Aires. E dopo un vertice a Tel Aviv i servizi segreti sentenziarono: è lui. La certezza arrivò da un particolare fisico del nazista: le orecchie appuntite.

 L'operazione
  A quel punto, visti i continui rifiuti dell'Argentina all'estradizione dei criminali nazisti, Israele decise di andare a catturare Eichmann. Undici agenti del Mossad entrarono nel Paese nella seconda settimana di maggio del 1960 e dopo aver riconosciuto Eichmann definitivamente lo aspettarono alla fermata del bus vicino casa sua, a una ventina di chilometri da Buenos Aires, e lo rapirono caricandolo su un'auto. Per dieci giorni l'ex nazista venne interrogato e spostato in diversi nascondigli, fino alla fuga del gruppo su un volo della El Al (il gerarca venne caricato a bordo sedato e fatto passare per gravemente malato). Dopo un processo durato quasi due anni, Eichmann venne condannato a morte e impiccato in Israele il 2 giugno del 1962.

 I misteri del blitz argentino
  A distanza di sessant'anni sono ancora molti gli aspetti misteriosi dell'operazione. Il governo argentino era completamente all'oscuro di quello che stava accadendo? Perché gli agenti del Mossad non uccisero Eichmann in Argentina? E ancora: è vero che il gerarca nazista rischiò di morire a causa del potente sonnifero che gli iniettò il medico che partecipò all'operazione? Questa sera su Facebook l'ex ufficiale del Mossad Avner Avraham, esperto di tutte le più grandi operazioni dei servizi segreti israeliani, interverrà ad un evento live per raccontare i retroscena di quel blitz di sessant'anni fa. Aggiungendo dettagli importanti come quello legato a Josef Mengele, l'angelo della morte di Hitler. «Lo avevamo individuato - spiega Avraham - ma in quel momento la priorità era Eichmann».

- Colonnello Avraham, perché ancora oggi è importante parlare della cattura di Adolf Eichmann? Ormai sono passati 60 anni...
  «Dobbiamo ricordare l'Olocausto e parlarne alle generazioni future. I sopravvissuti dell'Olocausto rimasti non possono farlo. La cattura di Eichmann è un evento importante legato al famoso processo a Gerusalemme. È un modo diverso e interessante di raccontare la storia dell'Olocausto, attraverso il mondo dello spionaggio».

- Ha mai parlato con qualcuno che partecipò alla cattura?
  «Ho studiato questo argomento negli ultimi dieci anni e sono diventato un esperto di livello mondiale. Durante la mia ricerca, ho incontrato più di 100 persone coinvolte nell'operazione. E tra questi ci sono il comandante delle operazioni Rafi Eitan, il suo vice Avraham Shalom, l'uomo delle infrastrutture Jacob Meidad e altri. Ma purtroppo sono morti».

- Cosa le hanno raccontato di quei giorni in Argentina? Qual è stato il momento più difficile?
  «Che hanno vissuto dieci giorni in un ambiente ostile, con la paura costante di essere catturati. Ogni momento è difficile quando stai con un criminale nazista».

- Da quante persone era composto il gruppo di agenti del Mossad in Argentina? E chi era la pedina fondamentale?
  «Ogni operazione ha un piccolo cerchio circondato da cerchi più grandi di agenti. Al centro dell'operazione erano in undici. La figura importante, il grande cervello dietro a tutto, era il capo del Mossad, Isser Harel».

- Ci fu qualcuno del governo argentino che li aiutò?
  «No!».

- Deve essere stato difficile per quegli agenti sfuggire alla tentazione di ucciderlo. Del resto, conoscevano bene il ruolo che aveva ricoperto Eichmann nell'Olocausto. Qualcuno dei protagonisti le ha mai detto, anni dopo, «sì, avremmo voluto ucciderlo»?
  «Gli agenti lavorano per lo Stato e per gli obiettivi che vuole perseguire. L'obiettivo del primo ministro di allora, David Ben-Gurion, era di processare uno dei nazisti più importanti. Naturalmente alcuni di loro hanno pensato di ucciderlo. C'era una donna, di nome Judith Nessihu, che cucinava per lui e che spesso pensava di avvelenarlo».

- Come descrissero gli agenti l'uomo Eichmann?
  «Un uomo piccolo, grigio, miserabile».

- E' vero che lo stesso team entrato in azione in Argentina avrebbe potuto catturare anche Josef Mengele? Come riuscì l'angelo della morte di Hitler a salvarsi?
  «Si è vero. Il Mossad trovò l'indirizzo di Mengele in Argentina, ma la decisione fu di portare prima Eichmann in Israele: del resto, quello era l'obiettivo. Rimasero tre agenti per cercare di prendere Mengele e portarlo di nascosto in Israele via nave. Ma l'annuncio, forse prematuro, al parlamento israeliano del 23 maggio 1960 (quello sulla riuscita del rapimento di Eichmann) provocò la sua fuga. E il Mossad a quel punto annullò l'operazione Mengele».

- C'è oggi un Adolf Eichmann che Israele dovrebbe catturare?
  «Israele non ha a che fare con i nazisti oggi. Ma se c'è qualcuno che lavora per danneggiare Israele e i suoi cittadini, non dovrebbe comunque essere portato clandestinamente nel nostro Paese per risolvere il problema».

- Un'ultima domanda: quando conosceremo la verità sulle operazioni alle quali ha partecipato lei? Dovremo aspettare 60 anni?
  «Mi ha fatto sorridere. Ho terminato il mio lavoro al Mossad con il rango di tenente colonnello. Non ero James Bond, forse qualcuno come "Q" che ha affrontato il mondo con le sue invenzioni. Nel film "Operation Finale" (la pellicola pluripremiata che ha raccontato appunto l'operazione israeliana, ndr), ho fatto da consulente senior e compaio in alcune scene. Fra 60 anni io non ci sarò, ma probabilmente lascerò dei libri...».

(Il Messaggero, 10 giugno 2020)


Israele, la Corte suprema annulla la legge sugli insediamenti ebraici

Per i giudici il provvedimento è incostituzionale

La Corte Suprema israeliana ha annullato perché incostituzionale la legge che aveva legalizzato retroattivamente circa 4mila case di coloni costruite su terreni palestinesi in Cisgiordania. I nove giudici hanno votato per abrogare la norma del 2017, in base alla quale i coloni potevano rimanere nella terra se avessero costruito lì senza una conoscenza preliminare della proprietà palestinese. Otto giudici hanno votato a favore e uno contro.
   I gruppi per i diritti umani affermano che la legge, congelata subito dopo la sua approvazione mentre la corte ha ammesso gli appelli contro di essa, aveva legalizzato più di 50 avamposti di coloni costruiti senza l'approvazione del governo. La decisione - che arriva mentre il governo Netanyahu intende annettere parti della Cisgiordania - si basa sul fatto, scrive la Corte, che la legge "viola i diritti di proprietà e di eguaglianza dei palestinesi mentre privilegia gli interessi dei coloni israeliani sui residenti palestinesi". La norma riguarda circa 4.000 case costruite dai coloni.
   La discussa legge era stata congelata nei suoi effetti dai molti ricorsi presentati da ong palestinesi e israeliane alla Corte e anche l'avvocato generale dello Stato Avichai Mandelblit si era rifiutato di difenderla, in quanto rappresentante dello Stato, davanti alla Corte. Il provvedimento di legge era destinato a rendere legali le case costruite in insediamenti ebraici su terra privata palestinese erette "in buona fede" o che avevano il sostegno del governo israeliano o i cui proprietari avevano ricevuto il 125% di compensazione finanziaria per la terra.
   In questi anni la Corte ha più volte ordinato la demolizione di case costruite in avamposti ebraici su terra privata palestinese. La decisione della Corte ha scatenato le reazioni della destra israeliana mentre è stata accolta con favore dalla sinistra. Il partito centrista Blu Bianco di Benny Gantz - che è al governo con Benyamin Netanyhu - ha detto che "la decisione della Corte sarà rispettata" e che il partito "si assicurerà che sia rispettata".

(la Repubblica, 10 giugno 2020)


Covid-19, Israele investito da una seconda ondata epidemica

Israele è alle prese con una seconda ondata dell'epidemia del nuovo coronavirus. Il Paese sta facendo i conti con un inatteso aumento di contagi dopo la riapertura di scuole, negozi, bar, ristoranti e siti turistici. Al punto che quasi 200 scuole sono state nuovamente chiuse dopo che i casi fra studenti e insegnanti continuavano ad aumentare. Secondo l'ultimo bilancio ufficiale, riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, dall'inizio dell'epidemia 18.032 persone in totale in Israele sono risultate positive al nuovo coronavirus e 298 sono decedute. Una situazione che ha messo in allarme le autorità. Oggi il ministro della Sanità, Yuli Eldestein, ha detto che l'aumento di nuovi casi, quasi 200 al giorno, è "grave". Le linee guida del governo, relative al distanziamento sociale e all'uso delle mascherine, "non devono essere prese come consigli ma devono essere messe in pratica altrimenti il virus non ci lascerà", ha sottolineato il ministro. A correre ai ripari ci ha pensato il Comitato ministeriale israeliano per gli affari legislativi che si appresta a votare un disegno di legge per conferire al governo poteri più estesi in modo da imporre restrizioni per combattere il coronavirus. Questo pacchetto di leggi che dovrebbe rimanere in vigore 10 mesi autorizzerebbe l'esecutivo a dichiarare lo stato di emergenza, a imporre il coprifuoco o un lockdown su singole abitazioni o interi quartieri e di infliggere multe a chi violi le misure di contenimento.

(Shalom, 10 giugno 2020)


Quando Fausto Coen per Israele disse no al Pci

Nel giugno l967 lasciò "Paese Sera "per la Guerra dei 6 giorni. La sconfitta araba, la rabbia comunista e una prima pagina di piombo distrutta.

di Emanuele Fiano

Fausto Coen è stato un uomo e un giornalista libero; lo ricordiamo in questi giorni, perché esattamente 53 anni fa, egli dimostrò che quella sua libertà valeva più di ogni cosa. Anche se il quotidiano Paese Sera, che lui condusse a lungo, rimase sempre legato al Pci, anche se l'appartenenza culturale di Coen fu sempre di sinistra e antifascista, il suo costante rifiuto di prendere la tessera del Pci, la sua scelta di rompere con quel Partito e di abbandonare la direzione di quel giornale, in occasione della Guerra dei 6 giorni e del posizionamento dei comunisti contro Israele, ne hanno fatto per sempre l'emblema di una coerenza rara e preziosa. «Non ero comunista, e sapevo che il giornale nasceva con l'appoggio preminente del Partito Comunista, ma mi sentivo in pace con me stesso. Avevo conosciuto l'indigenza e quindi forte era la mia sensibilità verso i diseredati, i poveri, gli sfruttati, gli emarginati. Avevo vissuto gli anni bui della sopraffazione fascista, e avevo subito sulla mia pelle l'ignominia delle leggi razziali. Detestavo a ragion veduta il fascismo». Così si descriveva Fausto Coen.
   Per molti ebrei italiani, militanti nel Pd o in quell'area, la vicenda di Fausto Coen e l'esplosione di quel conflitto tra appartenenza ad un popolo e alla sua causa nazionale, e la militanza in un campo che, storicamente vicino a Israele dalla sua nascita, se ne distaccò proprio durante il rischio del suo annientamento nella Guerra dei 6 giorni, segnò i confini di una ferita che ancora, a volte, sanguina.
   Nato nel 1914 da una famiglia ebraica della media borghesia di Mantova, costretto dalla crisi del 1929, quindicenne, a lavorare per aiutare la famiglia andata in rovina, conseguì comunque la laurea appena prima delle Leggi razziali fasciste. Di quegli anni Coen racconta che fu la Guerra civile di Spagna, ad aprirgli definitivamente gli occhi sulla natura terribile dei fascismi di tutta Europa. Dopo molte peripezie nel corso della guerra, e dopo le prime esperienze da cronista, Coen entra a Paese Sera alla sua fondazione, nel 1948, prima come facente funzione e molto dopo come direttore; contribuisce a farne un giornale davvero nuovo: investe come nessun quotidiano allora, sulla cultura che viene messa in prima pagina, impone Paese Sera, con alcuni celebri scoop, con grandi racconti di cronaca, e di grandi processi, come primario quotidiano del pomeriggio; al suo progetto aderiscono firme importanti, come Natalino Sapegno, Norberto Bobbio, Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini, Tullio De Mauro. Il giornale cresce, arriva a 100 mila copie vendute solo a Roma.
   La prima crisi di rapporti con il Pci scoppia nel 1956, quando Coen decide di pubblicare per intero il famoso "rapporto segreto" di Krusciov al XX Congresso del Pcus che denunciava il culto della personalità di Stalin. E al Partito non gradiscono. Esattamente 11 anni dopo, il 5 Giugno del 1967, Israele decide di reagire alla minaccia esercitata dagli eserciti di quattro stati arabi confinanti, attaccandoli. Inizia la Guerra dei 6 Giorni. L'Urss è già da tempo schierata a fianco dell'Egitto di Nasser e del mondo arabo, dopo essere stata nel novembre del 1947 il primo paese dell'Onu a votare a favore della spartizione della Palestina e della creazione dello Stato di Israele. Il Pci segue quella linea. Il quotidiano mantiene invece un tentativo di resoconto razionale e oggettivo della situazione in campo. Divergente dalla linea del Partito.
   Una notte, Alberto Jacoviello, redattore dell'Unità, infuriato per la sconfitta dei paesi arabi, e della linea politica sovietica, scende in tipografia e scaraventa a terra la prima pagina già composta in piombo di Paese Sera. «Un gesto teppistico di chiara marca fascista» commenterà Coen, che presenterà il giorno dopo le dimissioni dalla direzione del giornale, accettando poi, temporaneamente, l'incarico di direzione editoriale. La vicenda di Fausto Coen direttore di un giornale della sinistra comunista finisce qui. Continuerà il suo contributo di saggista e analista della storia di Israele e dell'antisemitismo.
   Quella prima pagina di piombo distrutta per rabbia, resterà simbolicamente a terra per molti anni: serviranno poi gli sforzi di Giorgio Napolitano, di Piero Fassino e di molti altri per ricostruire parole di verità nel rapporto tra la sinistra e Israele. Uno sforzo ancora necessario.

(la Repubblica, 10 giugno 2020)


Quando Mussolini volle la guerra. Un Paese gettato allo sbaraglio

Ottant'anni fa l'azzardo irresponsabile di combattere al fianco di Hitler

di Dino Meulna

Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria ... ». Alcuni nostri genitori conoscevano a memoria il discorso con cui il Duce del fascismo nel pomeriggio del 10 giugno 1940, ottant'anni fa, annunciò l'entrata in guerra dell'Italia dal balcone su piazza Venezia davanti a una folla plaudente. Un discorso che trasudava retorica, ma era privo di vera sostanza politica, con il datato riferimento alle sanzioni per la guerra d'Africa conclusa da quattro anni. Più che la guerra degli italiani era La guerra di Mussolini, come si intitola il libro firmato da Antonio Carioti e Paolo Rastelli, due giornalisti del «Corriere della Sera» che già hanno dato valide prove nella divulgazione storica.
   Con questo ricco volume i due autori, come osserva Marcello Flores nella prefazione, fanno fare un passo in avanti alla narrazione di vicende che, se non finite nel dimenticatoio o affidate alla memorialistica, vengono ormai relegate all'ambito specialistico, separando il racconto politico dall'analisi militare. Il discorso pubblico sulla Seconda guerra mondiale è concentrato in Italia soprattutto sul biennio della guerra civile, sulle vicende che vanno dall'armistizio (e dal cambiamento di fronte) dell'8 settembre 1943 alla Liberazione del 25 aprile 1945. C'è invece meno interesse complessivo, se non nella rievocazione di episodi singoli, per il triennio precedente, quello che va dal 10 giugno 1940 al 25 luglio 1943, giorno della destituzione di Mussolini. Eppure la notte drammatica del Gran Consiglio, così come le drammatiche e sanguinose vicende successive, non si capiscono senza conoscere le vicende che portarono alla «disfatta dell'Italia fascista», come recita il sottotitolo del volume.
   Il libro di Carioti e Rastelli, arricchendo lo schema seguito nel fortunato Alba nera, dedicato al 1919 e all'avvento del fascismo, offre quattro livelli di lettura. Carioti si è dedicato alla narrazione degli eventi e agli intrecci politici che quasi sempre prevalevano sulla soluzione dei problemi militari, mentre Rastelli ha fotografato in pagine di grande interesse la situazione delle tre armi, l'Aeronautica, la Marina e l'Esercito, al momento dell'entrata in guerra, rispondendo a una serie di domande cruciali. Quattro interviste a grandi specialisti come Emilio Gentile, Nicola Labanca, Andrea Santangelo e Maria Teresa Giusti offrono un articolato quadro interpretativo sui vari aspetti del conflitto. Infine una sezione dedicata ai documenti fa sì che questo sia un volume non solo da leggere, ma da custodire e consultare.
   Perché, si chiede Rastelli, l'Italia, che era il Paese di Giulio Douhet, il teorico del Dominio dell'aria (libro del 1921), e di Italo Balbo, il trasvolatore dell'Atlantico, alla prova dei fatti si era trovata impreparata e con gravi carenze tecnologiche e di addestramento? Perché la nostra Marina, che pure vantava un naviglio agli inizi nel Mediterraneo più potente della rivale britannica, non è stata vincente nel confronto bellico? Quanto ha pesato inoltre nella fallimentare conduzione della guerra una catena di comando in cui sembra che la maggiore aspirazione dei vertici fosse quella di nascondere le proprie responsabilità (e incapacità)?
   Tuttavia le ragioni della disfatta, al di là dei singoli eroismi italiani (sul fronte russo la carica a cavallo di Izbusenskij contro i sovietici, sul fronte nordafricano il valore dimostrato dai nostri soldati nelle tre battaglie di El Alamein), vanno trovate in pochi scarni numeri così riassunti da Rastelli: «Allo scoppio della guerra avevamo il 2, 7 per cento della capacità produttiva mondiale, il Giappone il 3,5, la Germania il 10, 7, per un totale del 16,4 per cento. La coalizione avversaria, dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti, ne deteneva circa il 70 per cento».
   Mussolini non poteva ignorare questi dati di fatto quando dichiarò guerra alla Francia e all'Inghilterra, quando poi volle contribuire alla lotta contro l'Unione Sovietica senza che l'alleato nazista agli inizi lo avesse sollecitato, o quando in maniera sciagurata dichiarò guerra agli Stati Uniti. La causa di tanta temerarietà è che l'ambizione politica del dittatore italiano, come emerge dal racconto di Carioti, prevalse sempre sulla considerazione realistica delle forze in campo.
   Quando il 1° settembre 1939 Hitler invase la Polonia sfidando Gran Bretagna e Francia senza avvertire l'alleato italiano, Mussolini non era sicuro di voler entrare in guerra. Il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano aveva chiesto al suo omologo tedesco Joachim von Ribbentrop tre anni di non belligeranza, ma poi, anche sollecitato dal Duce, aveva firmato una cambiale in bianco, cioè il «Patto d'Acciaio». Con le rapide affermazioni tedesche sul teatro europeo, Mussolini si convinse che doveva sacrificare alcune migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace.
   Sperava in una guerra breve e in una rapida vittoria. Non fu così. Per bilanciare lo strapotere nazista ancora una volta ragionò da politico, quando il 28 ottobre 1940, con la (fallita) invasione della Grecia, tentò la strada di una guerra parallela e si trovò invece sempre più dipendente dal forte alleato. Il dittatore credette di giocare di astuzia quando dichiarò guerra al colosso statunitense, pur sapendo che la sconfitta era sicura. Si illudeva di poter mediare tra Berlino e gli angloamericani. Una delle tanti illusioni che portarono alla disfatta e alla rovina del Paese.

(Corriere della Sera, 10 giugno 2020)


I sionismi tra perfezione e realtà

Cosa succede a un sogno quando deve confrontarsi con il reale?

di Giorgio Berruto

Sionismo o sionismi? Già ai tempi del primo congresso sionista, che si svolse a Basilea nel 1897, era a tutti evidente l'inesistenza di un unico, monolitico sionismo. Negli anni successivi molto è cambiato, non però la pluralità dei sionismi, che anzi è semmai aumentata mentre cresceva la presenza ebraica nella Palestina prima ottomana e poi mandataria: dal sionismo tolstojano di Gordon, che invitava al ritorno alla terra delineando una figura di intellettuale agricoltore sulla scorta del Levin di Anna Karenina a quello culturale e antinazionalista di Buber, a quello antiassimilazionista fondato sullo studio delle fonti di Gershom Scholem eccetera. C'è chi dice che il sionismo, o meglio i sionismi, si siano esauriti con la fondazione dello stato nel 1948 e chi pensa che oggi, in condizioni diverse, descrivano lo stato stesso oppure l'anelito alla convivenza o alla pace o ancora la spinta all'annessione delle regioni bibliche di Giudea e Samària. Vorrei prendere in considerazione solo quelli che hanno avuto più successo e riflettere sulla relazione tra questi e una realtà che spesso li ha contraddetti, a volte anche in modo clamoroso, fino a cambiarli dall'interno.

 Herzl: uno stato tra gli stati
  La visione che Theodor Herzl sviluppa nello Stato ebraico affonda le radici da una parte nell'idea ottimista del progresso con cui gli uomini sanno migliorare la propria condizione, dall'altra in quello che ai suoi giorni veniva chiamato "concerto delle nazioni", cioè l'insieme complesso delle relazioni diplomatiche tra stati che nell'Ottocento svolgeva un ruolo nuovo e centrale. Secondo Herzl, come per quasi tutti i suoi contemporanei, esiste un problema ebraico, ma - ed è qui l'originalità della riflessione del giornalista ungherese - questo problema è di asimmetria. Mentre il popolo italiano ha uno stato, l'Italia, quello francese la Francia eccetera, il popolo ebraico non ne ha alcuno, ed è questa mancanza a generare l'odio verso il popolo senza terra, cioè l'antisemitismo. In un mondo di stati nazione, il giorno in cui gli ebrei avranno uno stato l'antisemitismo si esaurirà naturalmente perché è questa mancanza a generarlo. Per questo non fa differenza se lo stato ebraico nasce in Medio Oriente, in Uganda o altrove.

 Rav Kook: riunire l'anima al corpo
  Rav Avraham Yitzchak HaCohen Kook deve parte della popolarità di cui ancora oggi gode in Israele e altrove al fatto di essere stato tra i pochi rabbini sionisti della prima ora. Kook condivide con Herzl l'idea che esista un "problema ebraico", ma la descrizione che di questo traccia non ha a che fare con l'umanesimo ma con la mistica. C'è secondo Kook un rapporto essenziale ed esistenziale tra il popolo ebraico e la Terra di Israele, cioè le regioni bibliche. La terra, in altre parole, non è un oggetto esterno che si può desiderare o respingere, ma una parte del popolo, cioè della sua identità. Qui è interessante l'intreccio tra temi della cultura romantica europea e il misticismo. La diaspora è scissione dell'anima (il popolo) dal corpo (la terra d'Israele), e questa separazione violenta comporta la mortificazione dello spirito, l'oscurità dell'esilio. Obiettivo degli ebrei per riguadagnare la propria identità divisa, cioè se stessi, è allora riunirsi alla terra di Israele come l'anima si unisce al corpo.

 l kibbutz: la vita totale
  Quelli di Herzl e rav Kook non sono gli unici sionismi che si pongono l'obiettivo della soluzione di un affermato "problema ebraico", e non sono gli unici a pensare questa soluzione nei termini di una redenzione in grado di terminare l'esilio (esilio dall'umanità, secondo Herzl; da se stessi, secondo Kook). Un terzo sionismo di grande successo che ha posto la questione in termini analoghi è quello del kibbutz, per decenni modello guida per gli ebrei sotto il mandato britannico e poi sotto lo stato di Israele. Secondo la cultura del kibbutz, largamente influenzata dal socialismo europeo, è indispensabile per gli ebrei muoversi dal non luogo della diaspora verso la terra e qui cominciare una vita nuova attraverso il lavoro manuale. Molti kibbutzim prevedono un modello di vita totale, cioè autosufficiente. Un modello, anche in questo caso come in quelli di Herzl e Kook, che aspira alla perfezione.

 Tre storie di fallimenti
  La nascita dello stato nel 1948 ha segnato il fallimento dei sionismi di Herzl e di rav Kook. L'idea umanistica di Herzl, secondo cui la fondazione dello stato avrebbe decretato la fine dell'antisemitismo, è stata contraddetta non appena, a poche ore dalla dichiarazione di indipendenza, gli eserciti dei paesi arabi circostanti hanno mosso guerra a Israele; e continua a essere contraddetta oggi, in un rovesciamento paradossale della dottrina del "padre del sionismo politico moderno", quando uno dei volti dell'antisemitismo è proprio la delegittimazione dello stato ebraico (è sufficiente una scorsa alle risoluzioni Onu contro Israele per rendersene conto). Ma nel 1948 anche l'idea mistica di rav Kook ha subito uno scacco, quando lo stato è nato non sulle terre di cui narra la Torà, ma in gran parte su quelle che la Torà e i profeti descrivono come abitate da popoli idolatri: non sulle alture di Giudea e Samària, ma sulla striscia litoranea. Dopo il 1967, quando in seguito a una fulminea guerra difensiva Israele ha occupato le regioni bibliche, i seguaci di rav Kook hanno sì visto la possibilità di realizzare quel sionismo, ma nei decenni successivi non hanno potuto fare a meno di constatare una realtà che non poteva essere ignorata: quelle terre non erano e non sono vuote bensì abitate da altri. E il sionismo del kibbutz? Oggi sono poche le tracce che lo ricordano, la maggior parte dei kibbutzim si è trasformata o si sta trasformando insieme alle trasformazioni economiche e sociali dello Stato.

 Ben Gurion: il rifugio
  Complice l'impatto devastante della Shoah sugli orizzonti di pensiero degli ebrei sopravvissuti, ma anche il protrarsi del rifiuto da parte araba, con la fondazione dello stato nel 1948 il sionismo cambia. La pluralità di idee, cioè di sionismi, che aveva segnato i decenni precedenti viene rarefatta dall'imperativo di cui si fa portavoce David Ben Gurion: tempo di edificare. Negli anni cinquanta e sessanta non c'è tempo per discutere, occorre costruire un paese quasi dal nulla. In questo contesto il sionismo assume il significato di assicurazione sulla vita per gli ebrei, e il nuovo stato di Israele viene pensato e si propone attivamente come rifugio dalle persecuzioni e dall'antisemitismo diffusi in Europa orientale, nei paesi arabi e altrove. Un po' per volta i sogni di rigenerazione e redenzione sbiadiscono e vengono sostituiti dall'idea che lo stato stesso, in quanto esiste, sia il sionismo e che nel sionismo, così pensato, risieda la realizzazione dell'ebraismo.

 Il principio di Amos Oz ovvero di sogno e realtà
  Amos Oz diceva che i sogni sono indispensabili perché è da questi che la realtà origina. Con i sogni è possibile dare una forma alla materia informe, organizzare le indistinte possibilità attraverso un'idea, plasmare il caos originario del tohu vavohu con un'azione creatrice, demiurgica. Oz però continuava dicendo che il sogno da solo non basta perché nel momento stesso in cui da questo nasce la realtà, il primo è già tradito. Il paradosso del sogno è che proprio quando si realizza svanisce e il suo posto viene preso dalla realtà, che a differenza del sogno è sempre imperfetta. Forse anche i sionismi, che a lungo sono stati sogni per molti ebrei, andrebbero considerati come tutti i sogni: modelli di perfezione solo fino a quando sono sogni, inevitabilmente imperfetti quando scelgono di confrontarsi con la realtà.

(JoiMag, 8 giugno 2020)


«L'identità ebraica non è un mistero. E' un mistero soltanto per chi rifiuta di prendere in considerazione le chiare spiegazioni della Scrittura. Il "segreto" del popolo ebraico non va cercato né dentro l'anima dell'ebreo, né dentro lo spirito del popolo ebraico, né dentro la politica della comunità internazionale. Chi cerca lì la spiegazione s'imbatte inevitabilmente in un mistero per il semplice fatto che la spiegazione non sta lì. Il motivo d'essere del popolo d'Israele non sta dentro l'ambito di ciò che è stato creato ed esiste, ma fuori, nella decisione e nella volontà del Creatore. E non è un fatto misterioso, perché è chiaramente rivelato nella Sacra Scrittura. E' un fatto pubblico, non un segreto per iniziati. E' la famosa elezione, che significa scelta, il che presuppone un atto di volontà di qualcuno. E' vano allora sperare di capire gli aspetti insoliti dell'oggetto di una scelta senza interrogarsi sul Soggetto che ha fatto la scelta.» "L'identità del popolo ebraico: mistero della fede laica". M.C.


'Lili Marlene', un documentario a 80 anni dall’entrata dell’Italia in guerra

Due serate su Focus con documentario di Pietro Suber

ROMA - Per ricordare cosa è stata davvero la guerra, alla quale negli ultimi mesi la pandemia è stata accostata, un'occasione sarà data dal film documentario 'Lili Marlene - La guerra degli italiani', firmato e diretto da Pietro Suber. Il secondo conflitto mondiale raccontato dagli italiani: il 10 giugno 1940 saranno 80 anni dall'entrata dell'Italia fascista in guerra, un evento fatale nella storia del Paese.
   Dalla viva voce dei bambini di 80 anni fa, vittime e carnefici, fascisti, ebrei e partigiani, il racconto della più terribile carneficina dell'era moderna, nelle parole dei sempre meno testimoni ancora vivi.
   Il documentario, prodotto da Videonews, scritto da Suber con la collaborazione di Amedeo Osti Guerrazzi, storico del fascismo, collaboratore della Fondazione Museo della Shoah di Roma e Donatella Scuderi, autrice di soggetti e sceneggiature prende il titolo da Lili Marlene, la canzone più popolare durante la Seconda guerra mondiale, resa celebre dalla versione di Marlene Dietrich. Andrà in onda in due serate, il 10 e 11 giugno, alle ore 21.15 su Focus (canale 35 del digitale terrestre - 414 della piattaforma Sky) e successivamente in replica sulle reti Mediaset.
   Si tratta di storie inedite o meno come quella di Silvana Ajò, giovane ebrea romana che, all'arrivo di Adolf Hitler a Roma, scese in strada a salutare il Fuhrer con la bandierina con la svastica (solo tre mesi prima dell'introduzione delle leggi razziali). Oppure della tragedia del transatlantico britannico Arandora Star, dove Winston Churchill imbarcò gran parte degli italiani residenti in Inghilterra, accusati di essere spie fasciste, per internarli in Canada. La nave fu silurata da un sommergibile tedesco e i passeggeri - molti di questi ebrei o antifascisti - morirono al largo delle coste irlandesi.
   Le storie di soldati e cittadini comuni vengono collegate tra loro da alcuni camei, brevi interviste a personaggi celebri come Giorgio Napolitano ed Eugenio Scalfari, che raccontano del loro periodo fascista. E ancora aneddoti di protagonisti della vita culturale e artistica come Dacia Maraini, Pupi Avati, Pippo Baudo, Renzo Arbore e le gemelle Alice ed Ellen Kessler (che vivevano vicino ad un campo di concentramento in Germania).

(ANSA, 9 giugno 2020)


Repubblica Ceca-Israele: colloquio telefonico tra Babis e Netanyahu

Focus su effetti pandemia

PRAGA - Il primo ministro ceco, Andrej Babis, ha avuto un colloquio telefonico con l'omologo israeliano Benjamin Netanyahu. Ne dà notizia lo stesso Babis via Twitter, precisando che i due hanno discusso di coronavirus, degli effetti della pandemia sulle rispettive economie e sulla possibilità di una seconda ondata di contagi. I due capi del governo hanno anche ribadito che le relazioni ceco-israeliane sono buone come da tradizione. A fine maggio tali relazioni rischiavano di subire un colpo a causa di un articolo del ministro degli Esteri, Tomas Petricek, e di due suoi predecessori alla guida del dicastero in cui si condannava la scelta israeliana di un'annessione parziale della Cisgiordania. Babis e il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, avevano criticato l'uscita del ministro degli Esteri. Lo scorso fine settimana Petricek ha telefonato all'omologo israeliano, Gabi Ashkenazi, che ha accettato un suo invito a Praga.

(Agenzia Nova, 9 giugno 2020)


I comunisti usarono lapidi ebraiche per pavimentare piazza San Venceslao a Praga

di Maria Savigni

 
Pietre tombali con scritte ebraiche trovate nei lavori di ripavimentazione di Piazza San Venceslao a Praga
Qualche settimana fa ha fatto scalpore la notizia del ritrovamento a Praga, nel corso di alcuni lavori di ristrutturazione nella piazza San Venceslao, di pietre tombali con scritte in ebraico.

 La scoperta
  Il 5 maggio scorso ha avuto inizio un complesso lavoro di ristrutturazione della piazza principale del centro storico di Praga, per il quale l'amministrazione della capitale ha stanziato un budget di 10 milioni di euro.
  Il rabbino Chaim KoÄi si trovava ad assistere allo svolgimento dei lavori quando ha notato che alcune delle pietre rimosse presentavano scritte in ebraico e incisioni con la stella di Davide. Altre pietre avevano superfici bianche ma levigate, caratteristica tipica delle pietre tombali. Il direttore del Museo ebraico di Praga, Leo Pavlat, aveva già ipotizzato che sul sito si trovassero pietre provenienti da vari cimiteri ebraici e per questo aveva chiesto al Consiglio comunale che alcuni rappresentanti della comunità ebraica potessero assistere ai lavori sulla piazza.
  La scoperta non è che una conferma di un sospetto che aleggiava da tempo: negli anni Ottanta il regime comunista avrebbe utilizzato pietre tombali, provenienti da cimiteri e sinagoghe depredati, per ricostruire la pavimentazione di piazza San Venceslao. La datazione delle pietre finora analizzate, che varia dal XIX secolo per le più antiche fino agli anni Settanta per le più recenti, pare confermare questa ipotesi. "Per noi è una vittoria perché finora è stato solo un sospetto. Forse vi erano pietre di provenienza ebraica qui, ma nessuno sapeva. È importante per accertare la verità storica", ha affermato il rabbino KoÄi.

 Le origini storiche
  In est Europa, parte consistente del patrimonio culturale ebraico è stato distrutto durante l'occupazione nazista. Il termine del conflitto mondiale, tuttavia, non ha posto fine all'antisemitismo e alla devastazione dei beni culturali ebraici.
  Durante il regime comunista la comunità ebraica, al pari delle altre confessioni religiose, era sorvegliata dalla polizia di stato. In questo periodo nell'attuale Repubblica Ceca sono state distrutte 150 sinagoghe, il doppio delle 70 devastate dai nazisti. Nel 1968 echi della campagna antisemita polacca hanno raggiunto la Cecoslovacchia, spingendo un numero consistente di ebrei all'emigrazione.
  Il vecchio cimitero ebraico di Praga, situato nel quartiere Žižkov, è stato in larga parte distrutto dal regime comunista nel 1985 per costruire un parco pubblico e una torre della televisione, la quale avrebbe dovuto impedire l'accesso ai canali televisivi dell'Europa occidentale. Mentre alcune tombe sono state spostate in altri cimiteri, una parte dei resti è stata gettata in una discarica fuori Praga. Difficile non pensare a un vero e proprio genocidio culturale, dato che il luogo è diventato una meta turistica che ospita hotel, mini-golf e ristoranti, senza conservare traccia di ciò che fu. Del cimitero resta solo la parte più antica, in un angolo della piazza antistante la torre.

 I conti con il passato
  Piazza San Venceslao non è solo una delle maggiori attrazioni turistiche della città, ma è stata il teatro degli eventi storici più importanti del Novecento per la Repubblica Ceca. Qui, nel 1969, lo studente Jan Palach si diede fuoco per protesta contro la fine della Primavera di Praga; e sempre qui nel 1989 vi si tennero le manifestazioni contro il regime comunista che portarono alla rivoluzione di velluto e alla transizione democratica cecoslovacca.
  Il lavoro di ristrutturazione attualmente in corso ha lo scopo di rendere la struttura della piazza più agevole per i turisti. Ma, mentre la città sembra guardare sempre di più verso il futuro, dalla sua piazza-simbolo riemergono tombe, resti di un passato scomodo con cui ancora si fatica a fare i conti. Come conservare la memoria?
  La comunità ebraica vorrebbe raccogliere tutte le pietre tombali riesumate con i lavori di ristrutturazione per costruire un memoriale presso l'antico cimitero ebraico di Žižkov. Le condizioni delle pietre rendono impossibile risalire all'esatta collocazione originaria, ma forse le lapidi potranno trovare uno spazio in cui riposare e ricordare al pubblico gli orrori di un passato che troppo spesso si cerca di rimuovere.

(Eást Journal, 9 giugno 2020)


Grande Muraglia cinese: non è stata costruita tutta per tenere fuori gli invasori

La conclusione di Gideon Shelach-Lavi, dell'Università ebraica di Gerusalemme.

di Silvia De Stefano

Vista aerea di una parte della linea settentrionale della Grande Muraglia cinese (Università Ebraica)
Non tutta la Grande Muraglia cinese è stata costruita per tenere lontani gli invasori: il segmento settentrionale serviva per monitorare i movimenti civili.
Quando i ricercatori hanno mappato completamente per la prima volta la Northern Line di 740 chilometri della Grande Muraglia cinese, i loro risultati hanno messo in discussione le precedenti ipotesi dal momento che questa parte non sembrava fosse stata costruita per tenere lontani gli invasori, ma piuttosto per monitorare i movimenti civili.
Prima della nostra ricerca, la maggior parte delle persone pensava che lo scopo della Grande Muraglia fosse quello di fermare l'esercito di Genghis Khan, ha detto Gideon Shelach-Lavi dell'Università ebraica di Gerusalemme, che ha guidato lo studio durato due anni.
Ma la Northern Line, che si trova principalmente in Mongolia, si snoda attraverso valli, è relativamente bassa in altezza e vicina ai sentieri, indicando funzioni non militari.
La nostra conclusione è che si trattava più di monitorare o bloccare i movimenti di persone e bestiame, forse di tassarli ha detto Shelach-Lavi.
Le persone forse si spostavano verso pascoli meridionali più caldi durante un periodo di freddo medievale.
La costruzione della Grande Muraglia, che è divisa in sezioni che si estendono per migliaia di chilometri, iniziò nel III secolo a.C. e proseguì per secoli.
La Northern Line, conosciuta anche come "Genghis Khan's Wall" in riferimento al leggendario conquistatore mongolo, fu costruita tra l'XI e il XIII secolo con terra battuta e punteggiata da 72 strutture in piccoli ammassi.
Shelach-Lavi e il suo team di ricercatori israeliani, mongoli e americani hanno usato droni, immagini satellitari ad alta risoluzione e strumenti archeologici tradizionali per mappare il muro e trovare artefatti che hanno contribuito a fissare le date.
Secondo Shelach-Lavi, i cui risultati dello studio in corso sono stati pubblicati sulla rivista Antiquity, la Northern Line è stata ampiamente trascurata dagli scienziati contemporanei.

(Lega Nerd, 9 giugno 2020)


Israele annuncia l'atterraggio del primo aereo della Emirates a Tel Aviv

ROMA - Israele ha annunciato oggi che "un aereo della Emirates", compagna di bandiera degli Emirati Arabi Uniti, "atterrerà tra poco sulla pista dell'aeroporto di Ben Gurion" di Tel Aviv. A dare la notizia del primo velivolo ufficiale da un Paese che non intrattiene rapporti diplomatici con lo Stato ebraico, è stata la tv pubblica israeliana secondo la quale "l'aereo trasporta attrezzature mediche per i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza" nell'ambito degli aiuti per combattere la pandemia di coronavirus.
Il quotidiano panarabo al Quds al Arabi che mette in risalto la notizie sul suo sito online, afferma che "anche tre settimana fa un altro aereo, questa volta senza insegne, era atterrato a Ben Gurion sempre con il pretesto di aiuti ai palestinesi". Il giornale però rimarca che le due operazioni "sono state decise e effettuate senza alcun coordinamento con le autorità Nazionali palestinesi".

(askanews, 9 giugno 2020)


Cooperazione scientifica e industriale Italia-Israele

Intervista all'Ambasciatore Gianluigi Benedetti

 
Gianluigi Benedetti, ambasciatore italiano in Israele
l trend dell'interscambio italiano con Israele, caratterizzato da una crescita costante negli ultimi 10 anni (+3,9% medio annuo), si è mantenuto pressoché costante attestandosi nel 2019 a3,3 miliardi di euro. Nel 2019"le nostre esportazioni hanno raggiunto i 2,55 miliardi di Euro, mentre l'Italia ha acquistato merci israeliane per 799 milioni di euro. Siamo il 6to fornitore di Israele e il suo 14mo cliente". Le esportazioni italiane sono sospinte dai macchinari di impiego generale e speciale, dal settore arredamento e mobili, dai prodotti chimici e dalla gioielleria e metalli preziosi. Inoltre "il settore agroalimentare è tradizionalmente uno dei settori trainanti del nostro export in Israele con una quota di mercato pari al 6,7%, che beneficia anche della crescita dei flussi turistici verso il nostro Paese e la popolarità,tra l'attento pubblico israeliano,del turismo enogastronomico".

- Ambasciatore Benedetti, quali sono i punti di forza dell'ecosistema israeliano e qual è stato l'impatto del coronavirus?
  Gli indicatori economici pre-coronavirus descrivevano un Paese in crescita. Tasso di crescita al 3,5%, più di 6000 start-up,4,3% del Pil investito in ricerca e sviluppo (il tasso più alto nell'area Ocse), primo Paese al mondo per investimenti venture capital pro-capite (674$), 8,3 miliardi di dollari investiti in start-up innovative nel 2018, disoccupazione al 3,4%. Questi erano (e sono) i punti di forza dell'ecosistema dell'innovazione israeliano, affiancati da un basso debito pubblico (sotto il 60%) che ha consentito di allargare i cordoni della borsa una volta sopraggiunta la crisi. La pandemia da Covid-19, è stata contenuta dal punto di vista sanitario, ma ha scatenato una profonda recessione, la prima nell'ultimo ventennio, che ha spinto il Governo a intervenire con un pacchetto di aiuti di 100miliardi di Nis (circa 25 miliardi di euro). Banco di prova del nuovo Esecutivo insediatosi il 17maggio sarà proprio la ripresa economica, il recupero dell'occupazione e la tenuta dei conti pubblici con il varo entro l'estate della legge di bilancio.

- Quali le opportunità per l'Italia?
  L'etichetta "Start-up Nation"comincia ad andare stretta al Paese. In un momento storico in cui gli indirizzi governativi spingono a industrializzare i brevetti e le idee per coinvolgere un maggior numero di persone nel benessere generato dall'economia hi-tech, che al momento occupa solo l'8,3% della forza lavoro,Israele sta rapidamente trasformandosi in una "Scale-up Nation". In questo quadro, la collaborazione con l'industria internazionale è cruciale e l'Italia può diventare un partner privilegiato,rafforzando l'esistente collaborazione in una logica win-win. La complementarietà tra il nostro eccellente ecosistema manifatturiero e il dinamico ecosistema di innovazione israeliano offre oggi opportunità straordinarie. Da un lato, le nostre grandi aziende (e a cascata le medie e piccole) possono trovare qui un ambiente favorevole e dinamico per sviluppare in una logica di open innovation collaborazioni tecnologiche anche con incentivi del governo israeliano. Dall'altro lato il nostro sistema, soprattutto nei settori in cui siamo tradizionalmente più forti, può diventare il naturale punto di attracco delle start-up israeliane mature che hanno bisogno di industrializzare i loro prodotti, crescere ed entrare nel mercato globale.

- Ci sono esempi di aziende italiane che hanno seguito questa strada?
  Fra le 350 multinazionali straniere che hanno deciso di aprire centri di ricerca e sviluppo, ci sono anche aziende italiane, ma la nostra presenza continua a essere al di sotto di quella dei nostri grandi partner e non all'altezza delle nostre potenzialità. Grazie agli accordi con l'Autorità per l'Innovazione israeliana, Snam e Adler stanno selezionando startup con cui sviluppare collaborazioni mentre STMicroelectronics ha un proprio centro di ricerca e sviluppo a Tel Aviv. Ma l'esperienza di maggior successo è indubbiamente quella di Enel che nel giro di tre anni ha aperto un hub tecnologico a Tel Aviv, un "Innovation Lab" a Haifa e a maggio si è aggiudicata, tramite Enel X, la gara per un nuovo "Innovation Lab" su fintech a Beer Sheva, il polo mondiale della cybersecurity. Ciò costituisce un modello di successo che può certamente ispirare le strategie di innovazione di altre nostre aziende di punta e dimostra che una presenza strutturata in Israele rappresenta un fattore determinante, oserei dire quasi essenziale, per intercettare le opportunità di sviluppo e collaborazione tecnologica più promettenti.

- Due anni fa ci aveva preannunciato l'idea di lanciare un programma per la mobilità delle start-up italiane in Israele. Come è andata?
  La prima edizione del programma "Accelerate in Israel" si è appena conclusa con pieno successo. Sette giovani start-up italiane, selezionate attraverso un bando dell'Ambasciata e un comitato scientifico internazionale hanno svolto un periodo di accelerazione da gennaio ad aprile(superando anche le difficoltà e limitazioni imposte dal Covid-19) presso l'Eilat Tech Center, con un intenso programma formativo, approfondimenti tecnici specifici per i loro settori e momenti di confronto con investitori e imprenditori. Per i partecipanti si sono aperte significative opportunità di business e precise offerte di partnership e due startup hanno anche chiuso un round di finanziamento. La seconda edizione del programma parte con un nuovo bando fra pochissimi giorni con la collaborazione di Agenzia Ice,Ministero dell'Innovazione, Intesa Sanpaolo Innovation Center e Camera di Commercio Israele-Italia. Con una compagine rafforzata e un budget raddoppiato ci attendiamo un successo ancora maggiore.

- La scoperta di giacimenti off-shore di gas nel Mediterraneo orientale ha rivoluzionato il mercato energetico nell'area. Quale ruolo per l'Italia?
  La scoperta a partire dal 2009 di importanti giacimenti di gas naturale ha ridisegnato l'economia di Israele e, oltre all'impatto politico regionale in termini di una rinnovata cooperazione tra i paesi dell'area, ha reso il Paese autosufficiente e ha attratto nuovi investimenti in progetti infrastrutturali. L'Italia, collegamento naturale tra il gas del Levante ed Europa, gioca un ruolo di primo piano sia dal punto di vista politico per favorire il dialogo e lo sviluppo di tutti Paesi della regione, sia dal punto di vista economico, offrendo l'expertise di primissimo livello delle proprie aziende del settore. Per quanto riguarda le infrastrutture, permettetemi di aggiungere che il Governo israeliano ha definito una serie di progetti, nel settore delle costruzioni, dei trasporti e delle comunicazioni, per un valore di quasi 50 miliardi di euro nel prossimo quadriennio. In collaborazione con l'Ice, promuoviamo e sosteniamo la partecipazione di aziende italiane alle prossime gare, facendo leva anche sulle collaborazioni nate in occasione dell'ultima missione Ance-Oice svoltasi a Tel Aviv nel 2019. Un'attenzione particolare è inoltre dedicata ai progetti di sviluppo della nostra grande azienda di comunicazioni Telecom-Sparkle.

- Come è cambiata l'attività dell'Ambasciata e la collaborazione bilaterale a seguito della diffusione della pandemia?
  La nostra politica di cooperazione scientifica e tecnologica ultra decennale ha consentito di creare un tessuto di rapporti accademici e tra centri di ricerca di grandissimo livello che è stato utilissimo sin dai primi giorni della crisi per promuovere collaborazioni sui alcuni temi legati alla battaglia contro la pandemia come lo sviluppo di anticorpi o di piattaforme digitali per la pre diagnostica da remoto. Sfruttando anche le misure straordinarie previste dai decreti"Liquidità" e "Cura Italia" l'Ambasciata ha inoltre definito un articolato programma di appuntamenti in stretto coordinamento con tutti gli attori del Sistema Italia presenti in Israele, Ice, Enit, Camera di Commercio per rilanciare l'immagine del nostro Paese e sostenere i programmi di export e sviluppo in Israele delle aziende italiane. Abbiamo rimodulato alcune attività, organizzando webinar e iniziative virtuali nel settore economico e scientifico, oltre che in quello culturale. Tra queste la presentazione di start-up italiane a investitori internazionali presenti in Israele, la partecipazione a fiere virtuali in Italia e in Israele e seminari scientifici. Per la seconda parte dell'anno, sono in programma iniziative reali di grande impatto: un evento sul design, la tradizionale settimana della cucina, un "Innovation day" e un'iniziativa in via di definizione tra il Tel Aviv Museum of Art e la Galleria Nazionale di Arte moderna e contemporanea di Roma. Forte attenzione intendiamo dedicare al turismo, fiore all'occhiello delle relazioni tra Italia e Israele con numeri costantemente in crescita negli ultimi anni: insieme a Enit stiamo definendo una campagna per rilanciare l'offerta di Italia che fra il pubblico israeliano è sempre molto apprezzata.

(Tribuna Economica, 9 giugno 2020)


Il ministro degli Esteri tedesco in Israele il 10 giugno

Previsto un incontro con Netanyahu

 
Heiko Maas, ministro degli Esteri tedesco
BERLINO - Il ministro degli Esteri Heiko Maas si recherà in Israele il prossimo 10 giugno dove incontrerà il premier Benjamin Netanyahu, il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi e quello della Difesa Benny Gantz. Lo riferisce un comunicato stampa del ministero degli Esteri tedesco. Secondo quanto riferisce la nota, Maas parlerà con gli esponenti del governo israeliano anche del piano di pace per il Medio Oriente proposto dagli Stati Uniti e dei piani di annessione di parti della Cisgiordania da parte dello Stato di Israele. Durante la visita Maas non si recherà in Cisgiordania, ma avrà un colloquio in videoconferenza con il premier palestinese Mohammed Shtaje dalla Giordania, seconda tappa del viaggio del ministro tedesco. Il nuovo governo israeliano ha prestato giuramento il 17 maggio dopo una situazione di stallo politico senza precedenti con tre elezioni in meno di un anno. Maas è il primo funzionario di un governo straniero a recarsi in Israele dopo l'insediamento del nuovo esecutivo.

(Agenzia Nova, 9 giugno 2020)


Italia-Israele, l'innovazione per guardare al futuro

Mentre in Israele si discute su quando far ripartire alcuni settori - dai treni alla cultura - c'è un'iniziativa che si è già rimessa in moto: "accelerate in Israel", il programma promosso dall'ambasciata d'Italia in Israele per facilitare alle start-up italiane un periodo di accelerazione in Israele. Il nuovo bando è infatti stato pubblicato nelle scorse ore (disponibile sul sito dell'ambasciata d'Italia in Israele) e le domande di partecipazione dovranno essere presentate entro il 31 luglio 2020, secondo quanto riferisce il sito internet della rappresentanza diplomatica. "Accelerate in Israel" è uno strumento di sostegno finanziato nel quadro dell'Accordo di cooperazione scientifica tecnologica industriale Italia-Israele e l'edizione di quest'anno può contare su un budget raddoppiato grazie al sostegno di Agenzia Ice, che ha deciso di allargare a Israele la sua iniziativa "Global Start up Program". Il Programma è organizzato in collaborazione con il ministro per l'Innovazione tecnologica e la digitalizzazione, con la Camera di commercio e industria Israele-Italia e con Intesa Sanpaolo Innovation Center.
   Un'iniziativa che rappresenta un'occasione per il mondo dell'innovazione italiana, ha sottolineato il ministro per l'Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, Paola Pisano. "Le conseguenze economiche dell'emergenza Covid-19 hanno evidenziato l'importanza di continuare a rendere l'Italia sempre più attraente in campo internazionale. Questo vale anche per l'innovazione e per la trasformazione digitale. - ha dichiarato il ministro - Con il bando Accelerate in Israel alcune nostre start-up hanno la possibilità di confrontarsi con un Paese ad alta densità tecnologica e innovativa e accrescere la propria formazione. Non a caso Israele viene definito anche Start-up Nation. Il Governo italiano assegna alle giovani aziende un ruolo di rilievo per l'economia nazionale. È bene che le start-up italiane allarghino i propri orizzonti e che trovino nel nostro Paese un ecosistema in grado di accoglierle e valorizzarne le qualità".
   L'ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti, ha sottolineato le novità di questa seconda edizione del programma che "con una compagine rafforzata, un budget raddoppiato e nuovi verticali tecnologici, offre alle più dinamiche e intraprendenti start-up italiane un'opportunità unica per sviluppare e affinare la propria idea d'impresa attraverso un'esperienza diretta nell'ecosistema dell'innovazione israeliano e un serrato e costante confronto con investitori e imprenditori internazionali. Il programma si riconferma come uno strumento fondamentale per sfruttare la complementarietà dei sistemi economici italiano e israeliano e per rafforzare i rapporti tra aziende nel settore dell'alta tecnologia e innovazione."

(moked, 8 giugno 2020)


Amira Oron nominata ambasciatrice israeliana in Egitto

Amira Oron
Il governo israeliano ha approvato la nomina di Amira Oron come nuova ambasciatrice di Israele in Egitto. Lo ha reso noto il ministero degli affari esteri. Oron era stata scelta già nell'ottobre del 2018 ma l'approvazione definitiva era stata rimandata in quanto il premier Benyamin Netanyahu - hanno ricordato i media - intendeva nominare un componente del Likud ed ex ministro, Ayoub Kara, che nel frattempo ha ritirato la propria candidatura. Alla fine, su indicazione del nuovo ministro Gabi Ashkenazi (Blu-Bianco) ha prevalso la scelta di Oron che ha già servito al Cairo e che è stata a lungo capo del dipartimento Egitto del ministero. Oron - che prenderà il posto di David Govrin che nel 2017 rientrò in patria per otto mesi a causa di minacce di sicurezza - è la prima donna ambasciatrice di Israele in Egitto.

(Shalom, 8 giugno 2020)


Netanyahu: sono minacciato di morte

Il premier presenta la terza denuncia alla polizia

Benyamin Netanyahu ha di nuovo denunciato alla polizia minacce di omicidio contro di lui e la sua famiglia ricevute sui social. Questa è la terza denuncia in poche settimane. "Ultimamente l'istigazione contro il primo ministro e la sua famiglia ha varcato una linea rossa", ha spiegato l'ufficio del premier denunciando "i molti espliciti appelli all'omicidio", alcune dei quali "chiaramente legati ai gruppi di estrema sinistra". "Il premier - ha aggiunto - si aspetta un deciso intervento della polizia e della giustizia contro i responsabili".La settimana scorsa la polizia annunciò, dopo una simile denuncia da parte del premier, l'arresto di un uomo di 21 anni residente nel nord del paese.

(ANSAmed, 8 giugno 2020)


Basta antisemitismo. Starmer cambia volto al partito laburista

Chiesta un'indagine. Sospesi quattro dirigenti. Il leader è sposato con un'ebrea e ha cresciuto i due figli secondo la religione della moglie.

di Enrico Franceschini

LONDRA - Nella storia della Gran Bretagna c'è stato un solo primo ministro di origine ebraica, Benjamin Disraeli, tuttavia già convertito alla religione anglicana quando entrò a Downing Street; fino a metà dell'Ottocento in questo Paese era vietato agli ebrei di fare politica. Ma in un futuro non lontano potrebbe esserci un premier britannico "quasi" ebreo, se l'attuale leader laburista, Keir Starmer, vincesse le prossime elezioni. Non tutti sanno.che, pur non essendo lui stesso di famiglia ebraica, Starmer è sposato con un'ebrea inglese, ha cresciuto i due figli secondo la religione ebraica della moglie e celebra con la famiglia ogni venerdì sera lo Shabbat nella tradizionale cena del giorno di festa ebraico. Con un capo così, contro il Labour non si sentono più accuse di antisemitismo.
   Di professione avvocato specializzato in diritti umani (è co-fondatore del più importante studio legale di questo tipo di Londra, in cui lavora pure Amal Clooney, moglie del celebre attore) ed ex procuratore capo della capitale (incarico pubblico per il quale ricevette il titolo di "sir"), il nuovo leader lo mise in chiaro dal giorno d'aprile in cui è stato eletto alla guida laburista: «è molto importante per me affrontare la vergogna dell'antisemitismo nel nostro partito il più presto possibile. Riaffermo le mie scuse per quanto avvenuto». I responsabili della comunità ebraica londinese non hanno perso tempo a lodarlo: «Ha fatto più lui in quattro giorni per combattere l'antisemitismo nel Labour del suo predecessore Jeremy Corbyn in quattro anni». Starmer ha quindi ordinato un'indagine su come è stata redatta l'inchiesta interna sull'antisemitismo, sulla quale sono circolate soffiate e supposizioni di ogni genere. Ora arrivano i primi provvedimenti.
   Questa settimana il partito ha sospeso quattro dirigenti della sezione di Liverpool, dopo che il Jewish Chronide, il maggiore giornale della comunità ebraica nel Regno Unito, ha rivelato le loro critiche al parlamentare della città, Pauia Barker, per avere espresso rammarico per le dimissioni dal partito di Luciana Berger, la deputata di origine ebraica la cui denuncia dell'antisemitismo nel Labour aveva dato il via alle polemiche. Commenta un portavoce di Starmer: «Prendiamo con estrema serietà qualsiasi denuncia di antisemitismo». L'ufficio del leader ha inoltre aperto un'indagine su casi analoghi nelle sezioni di Hampstead, Readlng e Hastings.
   Coincidenza vuole che, in questi stessi giorni, anche Corbyn sia tornato a esprimersi sull'argomento, ma con tono opposto. L'ex leader avanza dubbi sull'imparzialità della Equallty and Human Rights Commission, la commissione indipendente che a sua volta indaga sull'antisemitismo nel Labour durante la leadership corbyniana, definendola in un'intervista con il sito Middle East Eye come «al servizio dell'apparato governativo», ovvero un complotto contro di lui, e ribadendo che le accuse di antisemitismo nei suoi confronti sono «sbagliate e ingiuste». Una cosa è certa: da questo come altri punti di vista, vecchio e nuovo leader laburista non potrebbero essere più diversi. I sondaggi sembrano premiare Starmer, che ha rimontato fino a due punti dal partito conservatore, dopo la peggiore sconfitta degli ultimi 85 anni subita da Corbyn alle elezioni del dicembre scorso.

(la Repubblica, 8 giugno 2020)


Lezioni di convivenza: i bimbi musulmani nella scuola ebraica

di Paolo Salom

La scuola elementare King David a Birmingham
Qualche volta, abbattere il muro del pregiudizio appare così semplice che è quasi normale chiedersi se sia mai esistito o se non sia piuttosto la proiezione di un costrutto artificiale. A Birmingham, seconda città della Gran Bretagna, la scuola elementare King David - gestita dalla locale comunità ebraica - è in tutto e per tutto simile agli istituti presenti in altre realtà e Paesi: rispetto delle festività della tradizione biblica, mensa strettamente kosher (ovvero il cibo risponde alle nonne talmudiche quanto a origine e preparazione), programma improntato al curriculum nazionale ma ispirato dalla tradizione di Israele.
   Piccolo esempio: nel giorno dell'Indipendenza dello Stato ebraico, gli alunni cantano l'haTiqwa (la Speranza), l'inno nazionale israeliano. Che cosa c'è di straordinario? Vale la pena a questo punto raccontare che i tre quarti degli iscritti - bambini e bambine dai 3 agli 11 anni - sono di religione musulmana, solo un quarto sono ebrei. Binningham, sin dal 18esimo secolo, ha avuto un'importante presenza di ebrei. Ma la comunità, negli anni, si è assottigliata fino a sole duemila anime.
   L'istituto King David ha una storia antica e soprattutto è da sempre considerato di ottima qualità. Così, quando per ragioni di bilancio ha aperto le iscrizioni ai figli delle tante comunità presenti in città (oggi un residente su cinque è di fede islamica e di provenienza soprattutto dal Pakistan ma anche da Yemen e altri Paesi del Medio Oriente, Iran compreso) non ha avuto difficoltà a riempire i banchi vuoti. Ora, è vero che rispetto al numero, non tutti i bambini musulmani di Birmingham trovano posto in una scuola di carattere islamico. Tuttavia è anche vero che la scelta è vasta e molti avrebbero più facilità a iscriversi in un istituto più vicino a casa piuttosto che scegliere la scuola ebraica. Invece molti papà e mamme vanno di proposito a parlare con il preside della King David. Convivere si può.

(Corriere della Sera, 8 giugno 2020)


Israele classificato terzo miglior ecosistema per le start-up al mondo

L'area di Tel Aviv à la settima città leader al mondo per le start-up, ma si affermano anche Haifa, Gerusalemme, Yokneam, Eilat e Ashdod

Israele è stato nominato il terzo miglior ecosistema per le start-up a livello mondiale, nell'ultima edizione del rapporto annuale del centro di ricerca StartupBlink. Valutando gli ecosistemi dell'innovazione in 100 paesi e 1.000 città in tutto il mondo, StartupBlink classifica la loro posizione in base alla quantità e qualità di start-up e relative organizzazioni di supporto, e in basse a una serie di fattori relativi all'ambiente per business come la predisposizione a condurre affare e ad operare investimenti.
Nella classifica 2020 Israele è salito dal quarto al terzo posto, superando il Canada e posizionandosi dietro solo a Stati Uniti e Regno Unito. L'area di Tel Aviv, nota per essere il fulcro dell'innovazione israeliana, viene classificata come la settima città leader per le start-up in tutto il mondo, perdendo un posto rispetto alla classifica 2019 a causa della recente ascesa di Pechino....

(israele.net, 8 giugno 2020)


Israele - Malinconia lungo i binari, l'attesa dei treni si prolunga

 
Niente di più malinconico, di questi tempi, che non la vista delle stazioni ferroviarie vuote e dei binari deserti. A quasi un mese dalla progressiva riattivazione delle attività economiche - bloccatesi a marzo per il coronavirus - mancano ancora all'appello i treni. Di conseguenza le vie di accesso alle grandi città in Israele sono sempre più ingorgate con le automobili di chi non può raggiungere altrimenti il proprio posto di lavoro.
    La settimana scorsa era balenato il miraggio della ripresa del traffico ferroviario, sia pure a ritmo ridotto. La data menzionata era lunedì 8 giugno. Ma oggi [7 giu] la ministra dei trasporti Miri Regev ha invece raggelato gli entusiasmi. I dati giunti dal ministero della sanità - ha osservato - fanno temere la ripresa dei contagi. In queste condizioni sarebbe dunque irresponsabile, a suo parere, creare situazioni di affollamento nelle carrozze.
    Come spesso avviene in Israele, la soluzione è stata affidata ad una 'app', una sorta di 'bacchetta magica' nazionale. Nel caso particolare, ha spiegato Regev, questa 'app' saprà distribuire appositi tagliandi a chi abbia prenotato un posto.
    All'ingresso della stazione il viaggiatore sarà identificato e la sua salute sarà verificata. Dopo di che potrà salire su treni che non avranno comunque oltre 650 passeggeri. Tutto questo, forse, da mercoledì.
    Ma nell'era della globalizzazione, non è stato difficile per gli israeliani controllare cosa avvenga altrove al mondo. A quanto risulta in Giappone i treni funzionano egregiamente, malgrado il timore di contagi. Come mai a Tokyo è possibile quello che a Tel Aviv pare irraggiungibile ? La risposta suggerita su twitter da passeggeri frustrati è che la soluzione non risiede tanto nelle 'app', bensì nel carattere degli abitanti del Paese. I giapponesi, a quanto pare, osservano scrupolosamente la igiene personale e tengono le mascherine sul volto mentre l'israeliano medio, in merito, ha standard di comportamento molto più elastici.

(ANSA, 7 giugno 2020)


Solidarietà all'On. Emanuele Fiano dalla Comunità ebraica di Milano

Dopo l'ennesimo attacco antisemita

La Comunità Ebraica di Milano, il suo presidente, il consiglio, il rabbino capo, sono vicini con affetto a Emanuele Fiano, fatto oggetto dell'ennesimo attacco antisemita. Lele, in risposta a uno squallido post che gli intima la strada dei forni crematori, scrive che è stanco di sentirsi da solo di fronte a questi episodi. Ma non sei solo Lele, alla solidarietà della tua Comunità si stanno aggiungendo a migliaia le reazioni delle istituzioni e dei cittadini. C'è chi si nasconde nell'anonimato dei social, in puro stile fascista, senza neanche il coraggio di firmarsi con nome e cognome. E c'è la parte migliore del nostro Paese che non sta a guardare. Nel monumento ad Auschwitz è scritto 'mai più'. Per noi 'mai più' significa reagire, sempre e comunque, perché quel passato non ritorni, finanche testimoniato da uno squallido anonimo da tastiera.
La Comunità Ebraica di Milano

(Bet Magazine Mosaico, 7 giugno 2020)


Così Berlino ha bandito gli Hezbollah: terroristi

Svolta nella politica estera. Finite le ambiguità, ora molti si attendono che altri Paesi europei seguano l'esempio tedesco.

di Daniel Mosseri

BERLINO - A Moabit, quartiere nordoccidentale di Berlino, ci sono pasticcerie libanesi da leccarsi i baffi. In una di queste, forse la più grande del quartiere, l'occhio si perde fra dolci al miele di mille fogge: con i datteri, le noci, le nocciole, le mandorle o il formaggio. Arrivato alla cassa, il cliente alza lo sguardo e vede appesa al muro la foto di un signore: il turbante nero in testa, il volto tondo con gli occhiali incorniciato da una barba corta ma ben curata. La bandiera libanese affissa ovunque è ben visibile e il cliente, ingenuo, chiede: «Chi è quel signore, il presidente della Repubblica?». Risposta: «No, quel signore è un benefattore, si chiama Nasrallah», Grazie, auf wiedershen. Hassan Nasrallah è il capo di Hezbollah, movimento politico sciita libanese e milizia armata fino ai denti, protagonista indiscusso della scena politica libanese e, allo stesso tempo, fuoriclasse del terrorismo islamico internazionale.
   Dall'inizio di maggio, Hezbollah è fuorilegge in Germania. Lo ha annunciato il ministro degli Interni, Horst Seehofer, dopo alcune perquisizioni della polizia condotte fra appartamenti, sedi di associazioni private e moschee di Berlino, Dortrnund, Münster e Brema. La decisione mette fine a molti anni di ambiguità politica nella Repubblica federale. Perché sulle responsabilità terroristiche del «partito di Dio» nessuno ha dubbi. Tant'è che l'ala militare di Hezbollah è stata inserita dall'Ue nelle lista delle organizzazioni del terrore già dal 2013 a seguito dell'attacco terroristico compiuto l'anno prima dalla milizia libanese all'aeroporto di Burgas, città bulgara sul Mar Nero frequentata da molti israeliani. Nell'esplosione suicida su un autobus persero la vita sei persone (cinque cittadini dello Stato ebraico). Quello di Burgas è solo uno degli atti di terrore attribuiti a Hezhollah, che non a caso è sulla lista nera anche di Usa, Canada, Lega araba, Consiglio di Cooperazione del Golfo, Israele e Argentina - nel paese sudamericano il 18 luglio 1994 un furgone carico di tritolo esplose nel parcheggio di un palazzo di associazioni ebraiche (Arnia). Bilancio: 85 morti e 200 feriti. Numeri che non interessano all'Ue, che si è anzi inventata la distinzione fra braccio politico e ala militare di Hezbollah per non indispettire né il governo del Libano, di cui Hezbollah fa parte, né gli ayatollah iraniani, i sostenitori di Hezbollah da sempre riveriti a Bruxelles, Roma, Parigi e dintorni. Negli anni, Hezbollah si è trasformata nel più prezioso alleato di Teheran, che l'ha armata facendola combattere per interposta persona contro Israele nel 2006 e in anni più recenti contro l'Isis in Siria.
   Per Remko Leemhuis, direttore dell'America Jewish Cornmittee di Berlino, la decisione tedesca era attesa da tempo non solo perché Hezbollah «è un'organizzazione apertamente antisemita» ma anche perché il migliaio di sostenitori del gruppo presenti in Germania «è in larga parte dedito a attività illegali come il riciclaggio di denaro e traffico di droga». Traffici in grado di finanziare abbondantemente l'organizzazione: basti ricordare i quattro cittadini libanesi arrestati in Germania nel 2008 con addosso 8,5 milioni di euro pronti per passare nelle casse di Nasrallah o il fermo nel 2016 di altri due libanesi con mezzo milione di euro ciascuno raccolti per Hezbollah.
   Al Giornale è Hans-Jakob Schindler a spiegare i possibili effetti del nuovo divieto imposto da Berlino. Già consulente dell'Onu e dell'Interpol e responsabile di progetti di monitoraggio dello Stato islamico e dei talebani, Schindler ricorda che, formalmente, Hezbollah non è un'organizzazione costituita in Germania e che il divieto di finanziarla e di esporre i suoi simboli riguarda dunque solo individui. Se fino a ieri gli esponenti della milizia erano ricercati solo per le attività criminali quali l'estorsione o il riciclaggio, «da oggi sono anche considerati dei terroristi». Il che significa «che le autorità hanno un maggiore margine di indagine e monitoraggio per reprimere i loro crimini». Hezbollah era nel mirino degli investigatori ormai da anni. Sia per i suoi legami con la strage del ristorante Mykonos di Berlino nel 1992, quando quattro curdi oppositori del regime degli ayatollah vennero uccisi in un agguato per il quale furono poi condannati degli emissari di Teheran e alcuni cittadini libanesi. «Secondo il governo tedesco, Hezbollah ha sempre mantenuto una rete di cellule attive in Germania» capaci di compiere attacchi sia dentro sia fuori dalla Repubblica federale», continua Schindler.
   La mossa del governo tedesco, che pure vanta ottimi rapporti sia con Libano sia con Israele e che spesso ha agito da mediatore fra i due governi, viene da lontano: nel 2008 era stato spento il canale satellitare Al Manar TV del gruppo sciita, nel 2014 era stato il turno di Waisenkinderprojekt Libanon, che con la scusa di aiutare i bambini orfani nel paese dei Cedri «contribuisce alla violenza tra Libano e Israele», si legge in un rapporto dei servizi tedeschi. L'anno dopo la Corte costituzionale tedesca definisce Hezbollah un'organizzazione che nuoce alla convivenza pacifica dei popoli. Nel 2019 il Bundestag ha chiesto al governo di procedere contro Hezhollah: favorevoli i partiti della grande coalizione e i Liberali, e gran parte, «ma non tutti», dei deputati Verdi e socialcomunisti, mentre AfD procede per principio contro tutto le proposte del governo. Alla domanda su quali possano essere le conseguenze in Europa della decisione tedesca risponde Leemhuis. «Sulla messa al bando di Hezbollah Parigi si è sempre nascosta dietro Berlino: oggi l'alibi francese è caduto. Spero che altri paesi europei seguano presto l'esempio tedesco».

(il Giornale, 7 giugno 2020)


Requiem per lacerazioni

di Ran Baratz*

Ran Baratz
La società in Israele non sarebbe solo lacerata, ma soffrirebbe anche di una crisi sociale e di fallimento morale. Come lo sappiamo? Perché ce lo raccontano i giudici israeliani nelle motivazioni della sentenza che respinge il ricorso presentato contro l'incarico dato a Netanyahu per la formazione del governo, dove questi si sono impegnati a darci la loro descrizione della società israeliana. Già nei primi paragrafi il giudice-sociologo Yitzchak Amit scrive che il risultato delle elezioni "riflette le fratture in lungo e in largo della società israeliana".
  E in effetti la teoria delle lacerazioni va molto di moda nel nostro paese. Già studiando educazione civica gli studenti possono ben comprendere che "la società israeliana sarebbe piena di lacerazioni": nazionali, religiose, classiste, ideologico-politiche ed etniche. "Lacerazioni", continuano a studiare i ragazzi, sono "linee sociali di demarcazione che attraversano la società e la dividono in fazioni". Tra le lacerazioni "persiste una tensione", che a volte sfocia nella violenza. Queste pericolose lacerazioni "mettono in pericolo la società israeliana".
  Questo argomento delle "lacerazioni sociali" ha promosso negli ultimi anni una teoria simile: quella delle "tribù". Nel suo discorso del 2015, nel quale il presidente Rivlin presentava l'idea delle "tribù", parlava di "ignoranza reciproca e assenza di un linguaggio comune" tra le "tribù" in Israele, che "non fanno che aumentare la tensione, la paura, l'ostilità e la competizione tra loro". "Io riconosco una minaccia reale", concludeva.
  Se le cose stanno così, l'idea delle "lacerazioni sociali" non è ingenua. Verrebbe per metterci in guardia dalla malvagità che è in agguato contro la radice stessa del nostro essere israeliani, che è "lacerata" e "tribale". Israele sarebbe un barile di esplosivo. Non riusciamo a metterci d'accordo, siamo in conflitto e "lacerati", a un passo dalla violenza. Attenzione, pericolo!
  Chi sente l'odore strano di "individuazione di processi storici", non è lontano dalla verità. Quando Yair Golan , verso la fine del suo incarico come vice capo di stato maggiore, tenne una conferenza negli Usa sulle "quattro tribù" che esistono in Israele. "Vedere Israele come un crogiolo" - annunciò al pubblico americano - "non è più attuale. Il presidente Rivlin ha riconosciuto che esistono tra noi quattro tribù principali… si tratta di una sfida enorme". L'anno prima, come ricorderete, Golan tenne una conferenza nel Giorno della Shoah sul "individuazione di terribili processi che ci hanno colpito in Europa in generale e in Germania in particolare, 70-80-90 anni fa".
  Esiste quindi un comune denominatore tra chi riconosce delle cupe lacerazioni e chi individua processi minacciosi. Anche i nostri giudici fanno riferimento al decadimento morale della società israeliana. Dopo il paragrafo iniziale delle "lacerazioni", il giudice Amit sostiene che "una volta, l'argomento che noi siamo costretti a giudicare oggi, non sarebbe nemmeno arrivataoalla nostra porta… ma le norme pubbliche e la cultura politica di una volta non assomigliano a quelle dei nostri giorni. Ne deduciamo la misura del peggioramento che la società israeliana sopporta".
  Dello stesso cambiamento profondo parla anche il giudice Mazuz, che si distingue per i colpi che assesta alla società israeliana: "La situazione nella quale un indagato per gravi reati penali nel campo dell'integrità morale forma un governo e ne è a capo… riflette una crisi sociale e un fallimento morale". I giudici Barak-Erez e Baron aggiungono che "la formazione del governo da parte di chi ha in sospeso una grave incriminazione, non può trovare posto nei principi fondamentali della democrazia israeliana". Stiamo vivendo pericolosi processi anti-democratici.
  C'è solo un problema: tutti questi argomenti sono pura propaganda.
  "Lacerazione sociale" è un termine assolutamente ambiguo con finalità politiche. In ogni società, compresa quella israeliana, esistono dissensi. Questo banale dato di fatto non è indice di "lacerazioni sociali". La domanda cruciale in questo caso è come noi sappiamo gestire le divergenze al nostro interno: la società israeliana è violenta oppure riusciamo a gestire le divergenze in maniera concordata?
  E in effetti sotto questo profilo la società israeliana ha un successo trionfante. In Israele esiste poca violenza politica: possiamo confrontare la situazione in Israele ai disordini scoppiati negli ultimi anni in tutto il mondo occidentale, compresi gli Usa odierni. In Israele non esistono fenomeni corrispondenti e nemmeno simili. Noi riusciamo a incanalare le divergenze verso le urne elettorali, ci rispettiamo e proteggiamo con successo la sicurezza della sfera pubblica più di altri paesi occidentali.
  Anche l'idea delle "tribù" fa acqua da tutte le parti. Non esistono in Israele delle "tribù", che in ogni caso è un concetto inadeguato alla realtà odierna. Tra gli ebrei esistono solo due "settori", cioè gruppi di minoranza, che vogliono distinguersi da quelle di maggioranza: sono i charedìm e i sionisti-religiosi. Ma anche in questo caso, i fatti contraddicono la teoria delle lacerazioni. I charedìm, che crescono in maniera significativa, accettano oggi lo stato d'Israele e i sionisti come mai prima. E il settore sionista-religioso è in ogni caso diviso al suo interno in proporzione alla sua distinzione, dal momento che è sia sionista che religioso. Forse è per questo che ha difficoltà in pratica a distinguersi in grandi numeri.
  Nella realtà israeliana non esiste in effetti "paura" o "minaccia reale" tra persone con idee e comportamenti diversi tra loro. Chi "individua dei processi" non fa che riecheggiare con ignoranza della vuota propaganda. E ancora, anche le altre "lacerazioni" che vengono presentate come solida verità: quelle "etniche", quelle "di classe", quelle "politiche" stanno scomparendo. Gli studi demografici mostrano che la etnicità si sta dissolvendo nelle generazioni più giovani. Israele è diventata una società opulenta con un'alta mobilità economica. E così la "lacerazione" di classe scompare. Anche la nostra politica si sta indirizzando sempre più verso il centro, è diversificata e con una maggiore rappresentatività di quella di periodi storici dei quali parte dei giudici hanno forte nostalgia, periodi nei quali venivano emarginati e oppressi tutti quelli che non si riconoscevano con il partito al governo.
  Lo stesso è vero anche riguardo il "degrado" morale. Israele è oggi più aperta e libera. I cittadini hanno molti più diritti e libertà civili che in passato. In generale identificare la discussione e la diversità di opinioni come un problema riflette un atteggiamento molto fastidioso. Una società dove tutti sono simili è il prodotto di dittatura, di un regime opprimente che nega la libertà di scelta e di pensiero.
  Ma allora perché le élite ci rimproverano dall'alto delle loro torri d'avorio? Difficile fuggire dalla sensazione che, dal loro punto di vista, il degrado morale sia legato al successo della destra. "Le persone votano chi non la pensa come noi, che tragedia!" Per salvarsi da questo baratro morale, tribale e pericoloso, bisognerebbe votare in maniera "illuminata".
  In pratica, queste tesi negative su Israele sono avulse dalla realtà. La società israeliana, anche di fronte a sfide difficili, ha dato prova invece di solidità e unità. È vero, queste teorie, nate a sinistra, servono anche alla politica di destra, ma contrariamente alla propaganda, in Israele abbiamo una società variegata ma unita, sionista e morale e, non è meno importante, anche felice.
  Per questo l'indice che più caratterizza Israele in ambito internazionale è che gli israeliani sono tra i più felici al mondo. È forse questa una caratteristica di una realtà in "degrado", di "crisi sociale", di "lacerazioni", di "tribù"che si minacciano l'un l'altra? Certo che no. Ma non provate a disturbare le teorie con la realtà.
  Israele ha di fronte molte sfide, ma queste sono principalmente a livello politico-istituzionale, dove affrontiamo problemi difficili. A livello sociale, se osserviamo Israele dall'alto, da un punto di vista comparativo e attento, si tratta di una storia di unità e corresponsabilità, che supera e vince ogni tentativo politico di seminare tra noi la divisione.
Makòr Rishòn 5.6.2020 - Titolo originale: "Requiem lashesa'ìm"


* Ran Baràtz (1973) è un giornalista pubblicista e docente di filosofia. In passato si è occupato attivamente di hasbarà nel team di Binyamin Netanyahu. Ha fondato il sito conservatore liberale Mida https://mida.org.il.

(Kolòt, 7 giugno 2020 - trad. D. Piazza)


Hatikwa. "Ebrei che hanno fatto la storia”

Gli eroi di ieri e di oggi, gli esempi di domani

Nei secoli si è spesso alluso al fatto che gli ebrei comandino il mondo. I più maliziosi contano ancora oggi i premi Nobel uno ad uno, scoprendo una sproporzione tra i vincitori ebrei e tutti gli altri. Anche la consegna dei premi Oscar, che da sempre vengono identificati con la lobby ebraica hollywoodiana, più di una volta ha fatto storcere il naso a chi crede nella razza e non nel talento. L'influenza ebraica ed israeliana nel campo dell'Hi-Tech e della medicina è ormai nota a tutti, a tal punto da rappresentare per molti una minaccia. E non un'opportunità.
   Sfatiamo dunque un mito: gli ebrei non comandano il mondo. Mai l'hanno fatto. Non rientra proprio nella loro to do list quotidiana. Gli ebrei tuttavia hanno saputo nel tempo aggiungere colore e sapore al mondo e all'umanità, regalando ad essa alcuni personaggi che hanno segnato irreversibilmente il corso della storia. Personaggi brillanti e coraggiosi che con la loro creatività hanno saputo rendere questo mondo un posto migliore in cui vivere.
   Di loro parleremo nel nostro nuovo podcast edito HaTikwa, inaugurato il primo di giugno e pubblicato settimanalmente. Ogni puntata illustrerà un personaggio diverso sotto una luce singolare, intima e personale rispetto a chi racconta. Tra le figure da noi scelte vi saranno Liliana Segre, Albert Einstein, Sigmund Freud, Theodor Herzl, Steven Spielberg, Rita Levi Montalcini, Barbra Streisand, Woody Allen, Mark Zuckerberg, Elie Wiesel e molti altri ancora.
   L'obiettivo è quello di dare alla nuova generazione ebraica italiana dei modelli positivi a cui ispirarsi. Raccontar loro di quegli eroi che senza mantello e senza armi, hanno saputo vincere tutte le loro battaglie. Eroi semplici, privi di poteri sovrumani, ma dotati di un'umanità straordinaria.

(Shalom, 7 giugno 2020)


La sinistra e gli ebrei, un rapporto difficile

Alessandra Tarquini esplora, attraverso una ricerca condotta anche negli archivi del Psi e del Pci, le incomprensioni e la diffidenza della parte politica nei confronti di questa realtà.

di Raffaele Liucci

Essere il convitato di pietra della sinistra italiana. Questa, secondo Alessandra Tarquini, la sorte toccata agli ebrei nel corso del Novecento. Di volta in volta reputati una minoranza oppressa, un popolo di piccoli commercianti, una élite finanziaria, una nazione dispersa, costoro erano difficilmente inquadrabili nel più vasto progetto socialista di liberazione del genere umano. Onde le incomprensioni, gli attriti, le ostilità, ben documentati in questo libro: il primo ad affrontare il tema con uno sguardo di lungo periodo. Quella raccontata dall'autrice - docente alla Sapienza di Roma - è una storia di uomini e donne, ma anche di intellettuali ( da Cesare Lombroso a Pier Paolo Pasolini), di dottrine e movimenti politici (il sionismo), di fenomeni dalle radici antiche (l'antisemitismo), di nuovi Stati (Israele) e di partiti oggi estinti (fruttuosi gli scavi presso gli archivi di Psi e Pci).
  Il volume si apre nell'Italia del 1892, anno di fondazione del partito socialista. Da trent'anni gli ebrei ( circa 4omila) erano ormai liberi cittadini, integrati nel nuovo Stato unitario. L'antisemitismo - scriveva nel 1894 il noto scienziato Cesare Lombroso, aderente al nuovo partito - sembrava il retaggio di un'epoca premoderna, destinato a scomparire con l'avvento del socialismo. Quando però a fine agosto 1897 si svolse a Basilea il primo congresso sionista, organizzato da Theodor Herzl, buona parte dei socialisti si trovò spiazzata di fronte a quello strano movimento che predicava il ritorno a Gerusalemme e il risorgimento nazionale degli ebrei, indebolendo l'unità della classe operaia. Nascendo assimilazionista e antisionista, sostiene Tarquinl, la sinistra italiana non colse la specificità della condizione ebraica e la vera natura dell'antisemitismo, un fenomeno tutt'altro che residuale nel Novecento.
  Questo spiega la difficoltà di socialisti e comunisti a comprendere i motivi della persecuzione razziale e della Shoah. Incapaci di afferrare la dimensione moderna e totalitaria di fascismo e nazismo, la sinistra di matrice marxista «trattò il genocidio degli ebrei con indifferenza, come si guarda qualcuno senza vederlo». Se, come sosteneva Emilio Sereni, le ragioni dell'ebraismo coincidevano con quelle dell'intera umanità offesa da Hitler, gli ebrei non erano da considerarsi vittime speciali. Forse anche per questo nel 1946 la casa editrice Einaudi bocciò il memoir di Primo Levi, Se questo è un uomo.
  La nascita, il 14 maggio 1948, dello Stato di Israele sembrò rimescolare le carte. Subito riconosciuto dall'Unione Sovietica, governato dai laburisti e imperniato sui kibbutzim, il nuovo Paese fu ben accolto dalla sinistra nostrana. Ma l'entusiasmo durò poco, spento dalla guerra fredda. «I rapporti fra sinistra italiana e Israele», scrive Tarquini introducendo una delle maggiori novità della sua ricerca, «incontrarono una serie di difficoltà già alla fine degli anni Quaranta e non, come spesso si afferma, dopo la guerra dei Sei giorni del 1967 che certamente determinò un cambiamento, ma aveva alle sue spalle una guerra lunga vent'anni».
  Dai primi anni Cinquanta, infatti, soltanto i socialdemocratici di Saragat rimarranno apertamente filoisraeliani, mentre socialisti e comunisti riscopriranno l'antisionismo. «Gli aiuti militari ed economici, ottenuti. In questi anni di "indipendenza" dal governo americano, hanno ridotto Israele ad una colonia dell'imperialismo», scrisse nel 1953 un giovane storico di simpatie trotskiste iscritto al Pci, Renzo De Felice (maestro dell'autrice).' Tre anni più tardi, dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria, De Felice lascerà il Pci avvicinandosi all'area socialista. Fu proprio il partito di Nenni, nel frattempo cooptato nella stanza dei bottoni, a rivalutare gradualmente Israele negli anni Sessanta, mentre i comunisti mantenevano la propria diffidenza (fra le poche eccezioni, Umberto Terracini e, fra gli intellettuali, Pier Paolo Pasolini). Paradossalmente, sarà Bettino Craxi a superare a sinistra il Pci nei dorati Ottanta, diventando «uno dei principali protettori dell'Olp» di Arafat. Il 6 novembre 1985, nell'infuocato clima post-Sigonella, il leader del Psi paragonò la lotta armata dei palestinesi alle imprese di Mazzini, provocando una pubblica protesta dei giovani ebrei romani, nonché le aspre critiche di alcuni compagni di partito, da Giorgio Gangi a Giorgio Sacerdoti.
  La diligente ricostruzione di Alessandra Tarquini si conclude nel 1992, con la dissoluzione della prima Repubblica e l'uscita di scena di Psi e Pci, mentre in Israele una destra agguerrita scalzava l'egemonia laburista.
  Resta lo spazio per due glosse. Innanzitutto, all'origine del rapporto complicato fra «la sinistra e gli ebrei» non vi è solo Israele e, ancor prima, il sionismo, ma forse anche l'innata propensione della cultura progressista hegelianeggiante a ragionar per grandi schemi e narrazioni, confondendo le categorie assolute (un fantomatico ebreo universale) con quelle storicamente determinate (gli ebrei in carne e ossa), come denunciò nel volumetto Sinistra e questione ebraica il militante comunista Luciano Ascoli. Lo stesso Marx, nel suo celebre scritto del 1844 (Sulla questione ebraica), aveva preso a modello un ebreo astratto, epitome di un capitalismo da superare.
  Vi è poi il problema più spinoso. Che l'antisemitismo sia un fenomeno trasversale che ha lambito anche la sinistra è ormai un fatto riconosciuto (si veda il saggio einaudiano di Gadi Luzzatto Voghera, Antisemitismo a sinistra, 2007). Del resto, come premette l'autrice, l'antisemitismo moderno nacque proprio nell'alveo dei socialisti utopisti francesi (Charles Fourier, Alphonse Toussenel, Pierre-Joseph Proudhon). Per giungere a tempi più recenti, pregiudizi antiebraici sono rintracciabili in film pur realizzati con le migliori intenzioni, come L'ebreo errante di Goffredo Alessandrini (1948) eKapò (1960) di Giulio Pontecorvo, applauditi dalla stampa progressista; oppure in una silloge di racconti per bambini di Antoni o Baldini, La strada delle meraviglie, riproposta da Einaudi nel 1974. Anche la nuova sinistra extraparlamentare (e antimperialista) ci mise del suo nei turbolenti anni Settanta, intensificando la sovrapposizione fra «ebreo», «israeliano» e «sionista».
  Resta tuttavia difficile stabilire dove finisca l'inconscio stereotipo antiebraico (in cui incorsero pure giornalisti filoisraeliani come Augusto Guerriero e Indro Montanelli) e inizi il vero e proprio odio antisemita. In ogni caso, come riconosce la stessa autrice, «le espressioni di radicale antisionismo e di antisemitismo incontrate in questo libro non sono paragonabili a quelle espresse dalla destra, da una parte del mondo cattolico, o dai regimi totalitari».

(Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2020)


Israele in poltrona, pillole di storia da guardare e ascoltare

Il progetto Facebook di dodici guide italiane (e tre sorprese in forma di video)

Viaggiare in poltrona è un'attività interessante, un'abitudine che consente di immergersi in realtà diverse da quella che viviamo abitualmente. E se poi una pandemia costringe il mondo intero a starsene effettivamente a casa, il gioco si fa serio. Così un gruppo di dodici guide italiane in Israele ha dato vita alla pagina Facebook Israele in poltrona, nata in pieno lockdown per raccontare pillole di storia, inclusi consigli di lettura per prepararsi a un futuro viaggio o per andarci standosene a casa propria. Sono piccolissime storie, quelle che spesso vengono tralasciate nelle visite guidate per mancanza di tempo, oppure solo accennate. Sono avventure da seguire, appunto, in poltrona, pensate per suscitare curiosità: "Il nostro obiettivo", spiega la guida Angela Polacco, " è dare quelle informazioni che stimolano la ricerca, che spingono a non accontentarsi di quello che si sa già"....

(JoiMag, 7 giugno 2020)



Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.
I testi biblici sotto riportati compaiono nell’ordine in cui sono stati usati nella predicazione. M.C.


novembre 2018

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stendere la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.2 E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta dei piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima dei feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
     6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
     36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
     37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
   33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figlio di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
   14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione.
 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui,
 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie dei campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini sono talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa loro conoscere la loro condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più dei primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.


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Cinquantamila sortite per gli M346 Lavi israeliani

di Aurelio Giansiracusa

 
L'Aeronautica Israeliana (IAF) ha raggiunto l'importante traguardo delle 50.000 sortite di volo con l'M346 Lavi. Il velivolo bimotore d'addestramento avanzato fabbricato da Leonardo è in servizio in 30 esemplari, rendendo l'Aeronautica Israeliana la principale operatrice del M346. Gli aerei sono stati tutti consegnati tra il 2012 ed il 2016.
   Nel programma israeliano sono coinvolte, oltre Leonardo, CAE, Honeywell Aerospace, Elbit Systems ed Israel Aerospace Industries (IAI).
   Nel programma addestrativo dell'Aeronautica Israeliana ha importanza cruciale il Centro di Addestramento al volo per il Lavi presso la base aerea di Hatzerim. Qui, dal 2014 è installato il Ground Based Traininig Systems, un sistema di simulazione molto avanzato sviluppato da Elbit Systems in collaborazione con Leonardo e CAE. Il sistema è oggetto di costante aggiornamento e sviluppo per mantenerlo sempre allo stato dell'arte.
   Con l'introduzione del trainer M346, è stata data maggiore enfasi all'addestramento a terra nella scuola di volo IAF, sia per i piloti di caccia che per gli operatori di sistemi di armi (WSO). Il GBTS è composto da due simulatori di missione completi (FMS) e due simulatori di volo operativi (OFS), collegati tra loro in rete, offrendo agli utenti un'esperienza molto vicina al volo reale. Tale avanzata soluzione di addestramento virtuale-costruttivo introduce una tecnologia all'avanguardia che consente ai piloti IAF di condurre un addestramento di volo efficace e sicuro, garantendo allo stesso tempo la loro prontezza operativa nelle piattaforme di prossima generazione. Offre condizioni altamente realistiche e coinvolgenti in un ambiente a terra, migliorando ulteriormente la capacità di addestramento della IAF, consentendo al personale di bordo di pianificare al meglio ed eseguire missioni addestrative complete in minor tempo e al minor costo.
   Il GBTS consente ai cadetti dell'accademia di volo, nonché a piloti laureati e WSO, di praticare procedure di emergenza insolite e in volo e, a un livello più avanzato, di simulare scenari di combattimento complessi, sia come pilota solista sia in formazione. Il sistema di addestramento tattico incorporato (ETTS), il sistema di addestramento dal vivo con tecnologia all'avanguardia di Elbit, fornisce addestramento dal vivo all'interno del GBTS e sul velivolo reale. I simulatori del Centro impiegano un sistema di visualizzazione a 360° di immagini reali, dotato di modelli di simulazione di sistemi di armi reali ed un Computer Generated Forces (CGF) ad alta fedeltà, che, lavorando insieme, generano una vasta gamma di ambienti di combattimento virtuali molto simili alla realtà
   Tale soluzione di addestramento completa è stata scelta dall'IAF per permettere ai piloti e gli operatori dei sistemi d'arma di essere già pronti e qualificati per operare direttamente sulle linee F-16, F-15 e F-35.
   Sul M-346 Lavi i giovani piloti ed i WSO trovano l'avanzatissimo sistema Embedded Virtual Avionics (EVA), integrato da Leonardo che trasforma l'aereo d'addestramento in un cacciabombardiere avanzato virtuale e consente ai tirocinanti di acquisire un'esperienza essenziale nel funzionamento di sistemi avanzati, come radar virtuali, sensori ottici e sistemi di guerra elettronica, nonché armi virtuali aria-aria e aria-terra.

(Ares Osservatorio Difesa, 6 giugno 2020)


Scuole in Israele, 14mila in isolamento

Il coronavirus continua a diffondersi nelle scuole di Israele - dove le lezioni erano riprese a pieno ritmo tre settimane fa - e per questa ragione negli ultimi giorni sono stati chiusi 92 istituti scolastici ed asili nido. Il numero dei casi positivi fra gli allievi ed il personale educativo è oggi di 304. Intanto quasi 14 mila fra allievi ed insegnanti si trovano oggi in isolamento a casa. Lo ha reso noto il ministero dell'istruzione.
In Israele - ha riferito ieri il ministero della sanità - i casi positivi sono stati finora 17.495, 121 in più rispetto al giorno precedente. Le guarigioni sono state 15.013 ed i decessi 291. I malati risultano essere 2.191, 104 dei quali ricoverati in ospedali mentre gli altri sono in isolamento nelle loro case o in alberghi messi a disposizione dalle autorità. In rianimazione si trovano oggi 23 malati.

(ANSAmed, 5 giugno 2020)


Gattinara, visite a distanza con i nuovi apparecchi arrivati da Israele

È il primo caso in Italia di struttura sanitaria pubblica ad avere in dotazione uno strumento del genere. Si tratta del Tytocare, già in funzione all'interno del centro Covid di Gattinara. «Si tratta di una piccola strumentazione - spiegano dall'Asl Vercelli - che consente di monitorare a distanza i parametri dei pazienti. Un dispositivo a cui possono essere agganciati di volta in volta accessori specifici come lo stetoscopio o l'otoscopio».

 Arrivati da Israele
  I dati clinici vengono acquisiti su una piattaforma tramite un'app molto semplice e intuitiva in cui sono registrati dati anagrafici del paziente, sintomi, esami clinici e altre informazioni. Si tratta in tutto di 30 dispositivi acquistati dall'Asl di Vercelli in service e arrivati direttamente da Israele, patria della telemedicina.

 Tytocare
  «L'utilizzo di Tytocare - commenta il direttore generale dell'Asl, Chiara Serpieri - era stato programmato prima dell'emergenza per la gestione dei nostri piccoli pazienti pediatrici con l'intento di assistere, insieme ai bambini, l'intera famiglia al domicilio. Adesso li utilizzeremo anche nelle strutture sanitarie e residenziali dell'azienda».

 La telemedicina è il futuro
  «In questo modo abbiamo l'opportunità di seguire molti pazienti a distanza con il supporto di personale infermieristico dedicato. Stiamo anche avviando sinergie con alcuni medici di medicina generale che hanno già dato la loro disponibilità a collaborare al progetto».

(Notizia Oggi, 6 giugno 2020)


Tv: Cohn-Bendit, tracce della sua identità ebraica

Nuovo documentario in Israele dopo quello sul calcio del 2014

PARIGI, 5 GIU - "Sono ebreo ma non so cosa voglia dire": dopo il documentario road movie realizzato durante il Mondiale di Calcio di Brasile 2014, Daniel Cohn-Bendit torna ad afferrare la cinepresa per interrogarsi questa volta sulla ''identità ebraica'', una ricerca molto personale che, a 75 anni, lo ha indotto a partire in Israele. "Quando ho cominciato ad occuparmi seriamente" di questa questione? "Tardi, molto tardi, a 60 anni", ha spiegato l'icona del Maggio '68 nonché ex-europarlamentare di Europe-Ecologie Les Verts dalla doppia anima franco-tedesca, presentando il documentario che verrà diffuso domenica, alle 23:00, su France 5. Nel Maggio '68, 'Dany' - come viene affettuosamente ribattezzato tra Parigi, Strasburgo e Bruxelles - veniva chiamato l'''ebreo tedesco''.
   Di qui, il titolo del documentario: "La case du siècle - Nous sommes tous Juifs allemands". "Prima di allora - ha spiegato - la mia identità ebraica era 'una evidenza a cui non avevo riflettuto, un po' nell'idea di ciò che diceva Sartre: è l'antisemitismo a plasmare gli ebrei". Quindi l'idea di partire in Israele per rispondere a quesiti del tipo 'Quanto la mia identità ebraica è superficiale? Israele mi rappresenta?". Nel documentario, Cohn-Bendit è sia narratore (voce off) sia intervistatore di diverse componenti della società israeliana e palestinese. Lui che dice di non andare mai in Sinagoga torna in un kibbutz, dialoga con i coloni israeliani, incontra giovani ortodossi di una Yeshiva o una donna rabbino del movimento liberale. Ma si concentra anche sulla difficile integrazione dei figli di rifugiati non ebrei in una scuola per loro. Come tela di fondo il conflitto israelo-palestinese e la questione dei territori occupati, anche attraverso un dialogo con una cantante militante del movimento della Pace, o le commoventi testimonianze di due donne membri di una stessa associazione, una israeliana, l'altra palestinese, che hanno perso entrambe i figli.

(ANSA, 5 giugno 2020)


Nuovo microscopio sviluppato in Israele

Un nuovo microscopio quantistico sviluppato presso l'Istituto Technion di Haifa potrebbe contribuire a migliorare la nitidezza dei colori su telefoni cellulari e altri tipi di schermi. E' quanto emerge da una ricerca pubblicata su Nature. Il professor Ido Kaminer e il suo team hanno creato il microscopio quantistico che registra il flusso di luce, consentendo l'osservazione diretta della luce intrappolata all'interno dei cristalli fotonici. "Usando il nostro microscopio - spiga Kaminer - possiamo cambiare il colore e l'angolo della luce che illumina qualsiasi campione di nano materiali e mappare le loro interazioni con gli elettroni". E' la prima volta che si riesce a vedere la dinamica della luce intrappolata in nano materiali anziché affidarsi a simulazioni su computer. Il risultato sarà la possibilità di progettare nuovi materiali quantistici atti a memorizzare bit quantici con maggiore stabilità e miglioramento degli schermi.

(israele.net, 5 giugno 2020)


Dalli all'untore, ovviamente ebreo… Il virus e le fake news

Non si fermano le campagne di odio, le "bufale" e il complottismo che, sin dalla comparsa del coronavirus Sars-coV2 sulla faccia della Terra, mirano ad accusare gli ebrei della sua diffusione. Come con la peste del Medioevo…

di Nathan Greppi

La "via per dominare il mondo passa dal coronavirus, lo sanno bene Soros e soci". "Infettare tutti per vendere a caro prezzo il vaccino", oppure per "prestare a usura il denaro alle popolazioni impoverite dalla crisi economica, epocale e globale", che ne deriva. Insomma, gli ebrei, sempre gli ebrei sono gli "abili sfruttatori di tutte le situazioni di emergenza".Ma no, non solo: "le innescano deliberatamente, con la produzione in segretissimi laboratori di virus per la guerra batteriologica…".
  Le fake news, le menzogne e le accuse più strampalate, dopo due mesi di pandemia, corrono veloci sul web e non si contano più.
  La crisi che stiamo tutti vivendo ha un impatto notevole, da ogni punto di vista: sociale, economico, affettivo, psicologico. Ciò sta alimentando la rabbia e la frustrazione delle persone, provate da mesi di isolamento forzato e da una recessione economica di vaste proporzioni, portandole, nei casi estremi, a cercare un capro espiatorio da incolpare. In questo contesto si stanno diffondendo su internet numerose "teorie del complotto", spesso veicolate da "meme" e vignette, molte delle quali hanno come bersaglio gli ebrei e, ovviamente, Israele.

 Il rapporto dell'ADL
  Il sito dell'Anti-Defamation League (ADL) ha pubblicato, a metà marzo, un approfondimento che elenca i vari sottogeneri in cui sono suddivise le teorie cospirazioniste legate al coronavirus che girano in particolare negli Stati Uniti, sia quelle antisemite e/o antisioniste sia quelle che più in generale prendono di mira interi popoli o singoli personaggi pubblici. Il primo genere è quello secondo cui le "lobby ebraiche" usano il coronavirus per espandere il loro dominio globale, nel quale vengono spesso citati personaggi come George Soros e la famiglia Rothschild. Spesso si tratta di rielaborazioni moderne dei pregiudizi in voga nell'Europa del 1300, quando gli ebrei venivano accusati di diffondere la peste.
  Negli USA queste teorie vengono fatte proprie dagli estremisti di entrambi gli schieramenti politici: a metà aprile, ad esempio, la CNN ha scoperto numerosi tweet del nuovo portavoce del Dipartimento della Sanità americano, Michael Caputo, che accusava Soros e i Rothschild di sfruttare la pandemia per controllare la società. Mentre, a metà marzo, David Clarke, uno sceriffo del Wisconsin legato agli attivisti afroamericani di Black Lives Matter, ha accusato Soros di essere coinvolto "in questo panico da influenza."
  Un altro genere di complottismo accusa gli ebrei di voler lucrare sulla pandemia, tramite l'usura o la vendita di un ipotetico vaccino, mentre circolano vignette in cui gli ebrei vengono persino ritratti come incarnazione del virus stesso.
  La maggior parte delle immagini antisemite individuate dall'ADL si trovano su Twitter, Telegram e 4chan. Inoltre, ne circolano altre che esultano per gli ebrei che muoiono da coronavirus.
  Un'altra categoria di fake news è costituita da accuse rivolte allo Stato d'Israele: il vignettista brasiliano Carlos Latuff, molto conosciuto negli ambienti antisionisti sin dai tempi della Seconda Intifada, ha pubblicato a marzo un disegno che raffigura una donna palestinese usata come scudo da un soldato israeliano contro il virus; il 12 dello stesso mese, l'ex-capo del Ku Klux Klan, David Duke, ha twittato l'ipotesi che Donald Trump fosse rimasto contagiato, incolpando di ciò Israele e "l'elite sionista globale". Mentre il 16 marzo un profilo Twitter legato alla Nation Of Islam, il gruppo islamico afroamericano di cui fece parte Malcolm X, ha insinuato che il virus sia stato creato da Israele come arma biologica.

 Paesi diversi, stessi deliri
  Non è solo in America che circolano queste idee: il Community Security Trust di Londra ha condotto uno studio sull'antisemitismo nel Regno Unito, nel quale emergono casi e situazioni molto simili a quelle descritte dall'ADL. Viene inoltre menzionato il fenomeno dello "zoombombing", in cui persone razziste, violente e antisemite si insinuano sulla piattaforma Zoom, disturbando le preghiere e gli incontri virtuali attaccando e insultando gli ebrei.
  In Francia, ci sono stati casi di personaggi pubblici, già noti per le loro posizioni estremiste, che hanno fatto dichiarazioni antiebraiche in relazione alla pandemia: come ha raccontato il giornalista Paolo Berizzi su La Repubblica, il politico francese Henry de Lesquen ha dichiarato che "il giudeovirus è peggio del coronavirus", durante un incontro organizzato a marzo in Svizzera dal partito neonazista Resistenza Elvetica. De Lesquen è noto per le sue esternazioni antisemite e razziste, tanto da aver interrotto i rapporti con la figlia dopo che questa ha sposato un ebreo.
  Alain Mondino, capogruppo del partito RN (successore del Front National) nel comune di Villepinte, vicino alla periferia nord di Parigi, ha postato sul social network russo VK un video secondo cui il virus è stato creato dagli ebrei "per imporre la loro supremazia".
  In Spagna ha fatto scandalo un articolo, pubblicato il 14 marzo, sul sito di estrema sinistra Kaosenlared, vicino agli indipendentisti baschi, secondo il quale "il coronavirus è uno strumento per la Terza Guerra Mondiale rilasciato dall'imperialismo yankee sionista. L'elite anglosassone capitalista e sionista, nemica di tutta l'umanità, ha compiuto un ulteriore passo nella sua offensiva criminale e genocida".
  Un caso analogo si è verificato anche in Venezuela, dove il sito socialista Aporrea ha scritto che gli USA e Israele usano il coronavirus come arma biologica per distogliere l'attenzione dai loro problemi interni.
  Se in Occidente i promotori del complottismo restano per la maggior parte legati ad ambienti di nicchia, oltre ad essere osteggiati dai vari governi, lo stesso non si può dire per il Medioriente: su ATV, il più importante canale televisivo turco, un presunto esperto ha insinuato che Israele avrebbe diffuso il virus, oltre ad avere già un vaccino. In Iran invece vi è una diffusione sistematica di queste teorie attuata dai media governativi: Press TV, canale di Stato iraniano in lingua inglese, ha dichiarato che dietro il coronavirus vi siano i "sionisti", mentre sulla loro emittente in lingua spagnola Hispan TV è uscito un rapporto che dice: "Questo virus aiuta i sionisti a raggiungere i loro obiettivi, ossia diminuire il numero di persone nel mondo e impedire che aumentino".

 La situazione italiana
  Anche in Italia la propaganda iraniana ha cercato di attecchire: sull'edizione italiana di Pars Today, sito di notizie di proprietà dello Stato iraniano, un articolo del 12 marzo accusa Israele di usare il virus per uccidere i prigionieri palestinesi. Mentre altri articoli di siti stranieri che accusano Israele di sfruttare la pandemia contro i palestinesi vengono regolarmente tradotti in italiano da testate di estrema sinistra quali Infopal, un'agenzia di stampa talmente estrema che in passato ne ha preso le distanze persino Mariano Mingarelli, presidente di una onlus filopalestinese di Firenze, che in un'intervista al Corriere Fiorentino del 2010 ammetteva che ci fossero dei veri antisemiti nella redazione di Infopal.
  Alcuni giornalisti hanno potuto constatare da vicino la diffusione di determinate teorie: in un editoriale apparso sul quotidiano Libero il 14 marzo, il caporedattore Francesco Specchia ha raccontato di aver ricevuto da un lettore un messaggio in cui questi sostiene che il virus è stato diffuso dal Mossad in modo che gli israeliani possano poi vendere "un vaccino che, essendo ebrei, venderanno al miglior offerente".
  «Il tema dell'antisemitismo legato al Covid 19 è sorto su internet soprattutto intorno alla metà di marzo, quando abbiamo avuto 6 o 7 segnalazioni di post antisemiti, - spiega a Bet Magazine Stefano Gatti, ricercatore dell'Osservatorio Antisemitismo della Fondazione CDEC - Da noi i complottisti del web fanno più un cospirativismo puro, contro le elite e l'alta finanza, senza però citare gli ebrei. Rispetto ad altri paesi, soprattutto quelli islamici e dell'America Latina, da noi l'antisemitismo non emerge in modo significativo. E non è un caso che uno dei principali canali d'odio contro ebrei e Israele in Italia sia Pars Today, di proprietà del governo iraniano».

(Bet Magazine Mosaico, 5 giugno 2020)


L'asso di Israele. O del mistero semisegreto di Ness Ziona

di Sharon Nizza

L'Istituto israeliano per la Ricerca Biologica di Ness Ziona è avvolto da quell'aura di segretezza che accompagna le spy stories, quelle in cui ci si esprime sempre con un no comment. Fondato nel 1952, l'Istituto si occupa di ricerca multidisciplinare nei settori della biologia, chimica, malattie infettive, scienze ambientali, come recita il suo sito internet. Ma l'affiliazione all'Ufficio del primo ministro e al ministero della Difesa, insieme a pubblicazioni straniere nel corso della sua lunga attività, indicano che la sua missione riguardi anche altri obiettivi. Da febbraio, questo centro, generalmente poco votato all'esposizione mediatica, è balzato agli onori della cronaca. Il 30 gennaio il ministero della Salute bloccava i voli dalla Cina; il 2 febbraio Netanyahu twittava di aver incaricato l'Istituto di investire tutti i suoi sforzi nella ricerca di un vaccino. Erano giorni in cui il mondo ancora non realizzava a cosa sarebbe andato incontro e c'era chi definiva queste mosse allarmismo ingiustificato.
  Nel frattempo, l'8 marzo, Migal, un istituto di ricerca nel nord d'Israele, si guadagnava i titoli dei giornali mondiali dopo aver annunciato di aver raggiunto "importanti risultati scientifici che potrebbero portare alla rapida creazione di un vaccino". I ricercatori raccontarono di avere avuto un "colpo di fortuna", in quanto stavano sviluppando già da quattro anni un vaccino contro il virus della bronchite infettiva dei polli, appartenente alla stessa famiglia del Covid-19. Si parlò di un "vaccino entro pochi mesi". Tanto clamore fece quella notizia che poco fa si è scoperta una truffa in Ecuador, dove per settimane è stato commercializzato un finto vaccino che riproduce sulla confezione il logo di Migal.
  Oggi i ricercatori sono più cauti: a giugno entreranno nella prima fase di sperimentazione sugli animali, ci conferma la portavoce dell'istituto. Nel frattempo hanno costituito un nuovo brand, dedicato unicamente alla ricerca del vaccino, MigVax Corp, che si è aggiudicato un investimento di 12 milioni di dollari da parte di OurCrowd, una delle maggiori piattaforme di investimento crowdfunding. La sera del 4 maggio, lo stesso giorno in cui Israele donava 60 milioni di dollari alla raccolta fondi della Commissione Europea per la ricerca sul vaccino, l'allora ministro della Difesa Naftali Bennet - oggi all'opposizione - rilasciava una dichiarazione drammatica: "l'Istituto di ricerca biologica ha fatto un decisivo passo avanti nella ricerca di un anticorpo per il Corona". Il giorno successivo, il telefono dell'Istituto di Ness Ziona non smetteva di squillare, con i reporter speranzosi di ottenere qualche informazione in più che venivano puntualmente rimandati al portavoce del ministero della Difesa. Che rispondeva, appunto, no comment. I commenti sono arrivati due settimane dopo, quando è stato confermato che l'IIBR ha brevettato 8 anticorpi monoclonali efficaci nello sviluppo di una cura per il Covid-19 e, al contempo, ha annunciato di aver concluso con successo la fase di sperimentazione su roditori di un possibile vaccino. Nel primo caso si parla di "vaccino passivo" e l'unicità della scoperta israeliana sta nel fatto che gli 8 anticorpi possono essere somministrati insieme, come in un cocktail, potenziando la capacità di neutralizzazione del virus in un paziente già infettato.
  I ricercatori hanno anche già realizzato la clonazione in laboratorio dell'anticorpo. In Israele ci sono molti cervelli, ma non esiste ancora nessun ente in grado di procedere con la produzione di massa né di anticorpi né di vaccini. E' questione di giorni e si procederà alla firma di un protocollo di cooperazione sulla ricerca sull'anticorpo tra l'Istituto di Ness Ziona e alcuni centri medici e di ricerca scientifica italiani, con l'intermediazione dell'Ambasciata d'Israele in Italia. Tornando ai primi di febbraio, dopo il mandato conferito da Netanyahu al Prof. Shmuel Shapira, il direttore dell'IIBR, al centro arrivavano, in un'operazione segreta gestita dal ministero della Difesa, svariati campioni del virus, da diversi paesi, tra cui Giappone e Italia. I campioni fornivano ai ricercatori tre versioni del virus, prelevate da un animale, da un corpo malato e da un corpo guarito. Nir Dvory, il corrispondente per gli affari militari del Channel N12, è uno di quelli che sa come arrivare a fonti informate dall'interno.
  "I ricercatori di Ness Ziona non amano stare sotto i riflettori" dice a "Repubblica", alludendo al fatto che il ministro Bennett, esponendoli con l'annuncio del 4 maggio, li aveva messi in difficoltà, in una mossa orientata a ottenere un ultimo guizzo di gloria prima di liberare la sedia a Benny Gantz e passare all'opposizione. "Dalle informazioni che ho io, posso dire che al ritmo con cui stanno lavorando competono solo con altre 4 o 5 compagnie al mondo nella ricerca del vaccino". E ci rivela anche un dettaglio che, sempre per la politica del no comment, è più probabile che esca su un giornale straniero che israeliano: "Hanno già firmato un contratto con due aziende farmaceutiche per la produzione di massa". Non ci rivela di quali paesi, ma ci conferma che nessuna delle due è cinese.

(la Repubblica, 5 giugno 2020)


Guerra dei sei giorni, 5-10 giugno 1967

di David Spagnoletto

Giugno 1967. Israele è nato da 19 anni, tempo che non ha scalfito le granitiche pozioni dei paesi arabi circostanti che non vogliono avere alcun rapporto con lo Stato ebraico. Anzi. Annunciano la sua distruzione grazie a un'imminente guerra che dovrebbe mettere fine all'esistenza del popolo ebraico nell'area.
Un ammonimento pieno di odio nonostante le parole del primo ministro israeliano Eshkol che si rivolge agli stati arabi, dicendo di non voler far la guerra né "colpire la sicurezza, né il territorio, né i diritti dei vostri paesi".
Parole pronunciate il 24 maggio. Parole che rimangono inascoltate. Solo tre giorni dopo il presidente dell'Egitto Nasser non usa mezzi termini per esprimere il suo rancore verso Israele:
"Il nostro obiettivo di fondo sarà la distruzione di Israele. Il popolo arabo vuole combattere. Il significato del blocco di Sharm el-Sheikh è quello di uno scontro con Israele: avendo adottato quella misura siamo obbligati a prepararci ad una guerra generale con Israele".
Passano quattro giorni e arriviamo al 31 maggio, quando il presidente iracheno Abdel Rahman Aref afferma:
"L'esistenza di Israele è un errore che deve essere rettificato. Questa è l'occasione che abbiamo per cancellare questa ignominia che ci accompagna sin dal 1948. Il nostro obiettivo è chiaro: cancellare Israele dalla carta geografica".
Poche ore dopo e il presidente dell'Olp Ahmed Shukairy dichiara:
"O noi o gli israeliani, non ci sono vie di mezzo. Gli ebrei di Palestina dovranno andarsene. Agevoleremo la loro partenza dalle loro case. Chi sopravvivrà dell'antica popolazione ebraica di Palestina potrà restare, ma ho l'impressione che nessuno di essi sopravvivrà".
Il mondo arabo vuole distruggere Israele.
Il 22 maggio 1967 l'Egitto aveva chiuso gli stretti di Tiran (Sharm el-Sheikh) alla navigazione israeliana. Sul piano del diritto internazionale, il blocco degli stretti è l'atto di aggressione che segna l'inizio della guerra.
Con il passare dei giorni la tensione aumenta. I leader arabi minacciano la distruzione di Israele. Israele che non può rimanere inerme. Non può consentire che i paesi vicini minaccino la sua cancellazione.
E allora, il 5 giugno lancia un attacco a sorpresa distruggendo a terra l'85% della forza aerea egiziana. Alle 7:45 compie uno degli attacchi preventivi più famosi e meglio riuscito della secolo.
È tutto studiato nei dettagli: l'orario scelto coincide con il momento in cui avveniva il primo cambio della guardia della giornata e solo pochi giorni prima il governo israeliano aveva deciso di concedere un weekend di riposo a diversi suoi riservisti, per lasciare credere agli avversari di non pensare a un possibile attacco avversario.
È una guerra lampo. Israele riunifica Gerusalemme, conquista le alture del Golan e parte della West Bank, il Sinai e la Striscia di Gaza.
Pochi giorni in cui i paesi arabi accettano il cessate il fuoco. Pochi giorni in cui i paesi arabi passano dalla volontà di distruggere Israele all'accettazione di una sconfitta che hanno ricevuto perché hanno minacciato l'esistenza di uno Stato che voleva la pace e voleva far vivere serenamente i suoi cittadini.

(Progetto Dreyfus, 5 giugno 2020)


Amedeo Spagnoletto nuovo direttore del Meis

Cambio della guardia alla guida del Meis di Ferrara. Il comitato scientifico del Museo dell'ebraismo italiano e della Shoah ha scelto Amedeo Spagnoletto come nuovo direttore al posto di Simonetta Della Seta che lascia Ferrara per Gerusalemme, chiamata nel nuovo ruolo di direttore del Dipartimento Europa dello Yad Vashem (il memoriale delle vittime della Sboah).
Spagnoletto, romano di 52 anni, ha un curriculum multiforme: laureato in Scienze politiche alla Sapienza di Roma, ha conseguito la laurea rabbinica sempre nella capitale, e un diploma di sofèr - scriba e restauratore di testi sacri - all'Istituto zemach zedeq di Gerusalemme. Infine, ha un diploma di biblioteconomia presso la Scuola Vaticana. Dal 2017 al 2019 è stato rabbino capo della Comunità ebraica di Firenze.
   Spagnoletto è stato scelto da un lotto di 17 candidati. «Il nuovo direttore - sottolinea il presidente del Meis Dario Disegni - è uno studioso di riconosciuta autorevolezza a livello internazionale nel campo della storia, della cultura e dei beni culturali ebraici, che ha già dato un importante contributo alla programmazione culturale e scientifica del Meis nello scorso mandato».
   Dal canto suo, Spagnoletto sottolinea che la prima sfida che lo vedrà impegnato - oltre che quella più generale di portare a termine del realizzazione del museo - è quella di riprogettare l'offerta didattica per le scuole in modo che, fin dall'inizio del prossimo anno scolastico, i percorsi formativi per studenti e insegnanti siano calibrati rispetto alla delicata situazione socio sanitaria.

(la Repubblica, 5 giugno 2020)


I Satmar sono antisionisti. Ma a noi importa veramente?

«La vera natura del sionismo da un punto di vista teologico è, ovviamente, sconosciuta» conclude l'autore di questo impegnativo ma interessantissimo articolo che riprendiamo da Kolòt. E' in gioco la natura teologica del sionismo in confronto con la visione ultraortodossa di Rav Yoel Teitelbaum (1887-1979), fondatore della setta chassidica Satmar. La discussione sul valore teologico del sionismo avviene anche in campo cristiano e non è affatto conclusa. E non mancano anche da questa parte quelli che considerano il sionismo un'eresia. L'impostazione di Teitelbaum si presterebbe comunque molto bene ad un confronto con quella evangelico-millenarista, perché in entrambi i casi entrano in gioco e sono presi in seria considerazione elementi biblici comuni. Cosa che non avviene invece nel confronto col sionismo laico. NsI

di Shaul Magid*

 
Yoel Teitelbaum
Recentemente, ho tenuto un seminario al Kraft Center for Jewish Life alla Columbia University, ed ho incluso una serie di passaggi del manifesto antisionista Vayoel Moshe, di Yoel Teitelbaum, noto come Satmar Rebbe o il Rav Satmar. Teitelbaum (1887-1979) fu il fondatore della setta chassidica Satmar a Satu Mare (anche conosciuta come Szatmernemeti), in Ungheria, ed è conosciuta come il modello dell'antisionismo ultraortodosso. Successivamente, un amico e collega che ha partecipato al seminario mi ha detto che mentre stava studiando in una yeshiva religiosa sionista in Israele, alcuni studenti leggevano il trattato antisionista di Teitelbaum, Vayoel Moshe, e ne ridevano, un'interessante forma di intrattenimento da parte dei vincitori del dibattito sul sionismo. Perché mai studiare le opere del perdente, anche se solo per divertimento? Ancor più curioso è il fatto che nel 2011 Shlomo Aviner, uno dei principali rabbini tra i coloni, abbia pubblicato un libro intitolato Alei Na'aleh, una risposta sionista capitolo per capitolo a Vayoel Moshe. E nel 2012 i Chabad-Lubavitch hanno pubblicato Iggeret Ma'aneh Hakham, di Yoel Kahn, rispondendo ai divieti di Teitelbaum a non essere coinvolti con lo stato secolare israeliano. Dato che il sionismo ha vinto, perché tali rabbini dovrebbero spendere tempo ed energia a scrivere tali libri? Perché dovrebbero preoccuparsene?
  Mentre molte persone conoscono la posizione generale di Teitelbaum e della sua comunità Satmar nei confronti del sionismo, pochi hanno effettivamente letto le sue opere e compreso gli argomenti dall'interno del denso e complesso contesto nel quale sono stati scritti. E questo è un peccato, perché le sue due opere anti-sioniste, Vayoel Moshe, pubblicata nel 1959, e 'Al Ha-Geulah ve' al ha-Temura (Sul riscatto e la permuta, tratto da Ruth 4:7), una risposta alla guerra dei sei giorni, pubblicata nel 1967, offre argomenti dettagliati e intricati circa il fatto che, contrariamente a quanto molti credono, il sionismo rappresenta un pericolo imminente per il popolo ebraico ed una deviazione, invece che una acquisizione, per l'imminente era messianica. Nel seguito, offro una rappresentazione schematica e contestualizzata della sua argomentazione, per poi domandarmi perché dovremmo confrontarci con essa seriamente, anche se ovviamente la maggior parte di noi è in disaccordo.
  Vayoel Moshe e 'Al ha-Geulah sono due libri molto diversi. Il primo è principalmente un trattato halachico, che offre intricate discussioni legali su tre argomenti separati ma correlati. In primo luogo, lo stato giuridico della discussione talmudica dei "tre giuramenti" tra Dio e Israele. Il Talmud verso la fine del trattato Ketubot delinea tre giuramenti tra Dio, Israele, ed il mondo come la condizione dell'esilio degli ebrei. Primo, che gli ebrei non dovrebbero andare in massa nella terra di Israele. Secondo, che Israele non dovrebbe ribellarsi alle nazioni del mondo. E terzo, che Dio comanderà alle nazioni di non opprimere troppo Israele. Il primo saggio di Vayoel Moshe offre un resoconto dettagliato di questi giuramenti nella letteratura midrashica ed in quella relativa al codice giuridico medievale, sostenendo che poiché il sionismo
Data la natura secolare del sionismo, se non c'è più l'obbligo di vivere nella terra, come possono gli ebrei religiosi giustificare la loro combutta con i sionisti secolari al fine di stabilirsi lì?
trasgredisce il primo giuramento, Dio non è più vincolato al terzo. Il secondo saggio è una lunga discussione halachica sulla questione se vi sia, ai nostri giorni, un comandamento positivo di stabilirsi nella terra di Israele. La domanda è rilevante per i suoi lettori perché, data la natura secolare del sionismo, se non c'è più l'obbligo di vivere nella terra, come possono gli ebrei religiosi giustificare la loro combutta con i sionisti secolari al fine di stabilirsi lì? Il terzo saggio riguarda lo stato secolare della lingua ebraica e la sua relazione con il lashon ha-kodesh (la lingua santa), un affascinante studio sulla natura halachica dell'ebraico come lingua franca. Invece, 'Al Ha-Geulah è un'opera teologica. Teitelbaum scrisse l'introduzione, ma poi si ammalò ed il resto comprende trascrizioni di discorsi orali che tenne nel corso degli anni. 'Al Ha-Geulah sviluppa una serie di argomenti teologici incentrati sulla natura del miracolo, dell'idolatria, e della falsa profezia, idee che Teitelbaum riteneva particolarmente rilevanti all'indomani della guerra del 1967.
  Significativamente, nelle centinaia di pagine fitte delle opere di Teitelbaum, egli menziona raramente in modo aperto il sionismo od i sionisti, anche se allude spesso a loro, di solito con termini come "minim" o "apikorsim" (eretici) o "horsei dat" (distruttori di religione). Questi termini non sono suoi specifici ma erano comunemente usati dai pensatori ultra-ortodossi in riferimento ai sionisti. Teitelbaum non discute quasi mai dei pensatori sionisti, anche se nel suo saggio sulla lingua ebraica, "Saggio sul Lashon ha-Kodesh", si riferisce spesso a iniziative educative sioniste e dibattiti sulla secolarizzazione e profanazione della lingua ebraica. Ho trovato solo un riferimento in una risposta halachica nel quale menziona Abraham Isaac Kuk, il primo rabbino capo del mandato della Palestina ed architetto del sionismo religioso contemporaneo, e solo di sfuggita. Teitelbaum non è interessato alle polemiche dirette, ma piuttosto alla creazione di una fonte primaria di Torah che avverte contro l'eresia del sionismo. Le sue due opere principali sono quindi piene di lunghe divagazioni su dichiarazioni talmudiche e sui loro commenti. Chiaramente non sono pensate per ebrei secolari, certamente non per sionisti secolari. In effetti, chi non conosce il linguaggio del beit midrash ("casa dello studio") ha difficoltà a smontare le sue argomentazioni midrashiche ed halakhiche.
  Queste opere sono dirette alla sua comunità ultraortodossa, che credeva fosse, o potesse essere, sedotta dalla narrativa sionista. Ciò è particolarmente vero con 'Al Ha-Geulah, scritto quando Teitelbaum vide la guerra dei sei giorni interpretata come una vittoria miracolosa per il sionismo. Spesso notò, scherzando a metà, che tutti questi ebrei laici che non credevano ai miracoli improvvisamente iniziarono a parlare di miracoli quando si trattava della guerra dei sei giorni. Ma più significativamente, queste opere rappresentano anche una teologia politica ebraica, attingendo a migliaia di fonti tradizionali, impiegate per mettere in guardia contro i pericoli del soccombere all'eresia sionista contemporanea.
  Yoel Teitelbaum fu salvato dalla morte quasi certa a Bergen-Belsen dal treno (sionista) di Kastner1. Trascorse circa un anno nel mandato della Palestina prima di emigrare a New York, dove trascorse il resto della sua vita, spostandosi tra una casa a Williamsburg, Brooklyn, e l'enclave Satmar Kiryas Yoel nella Contea di Rockland, New York. Nel 1952, visitando Gerusalemme e donando cospicui fondi alla comunità ultraortodossa locale, fu nominato capo titolare (av beit din) dell'Edah Haredit, la più grande corte rabbinica ultraortodossa di Gerusalemme. Rimase il presidente onorario di Edah fino alla sua morte. La sua prodigiosa istruzione e la sua vasta conoscenza lo resero uno dei grandi saggi della Torah del 20° secolo, riconosciuto come tale anche da coloro che erano fortemente in disaccordo con lui.
  Teitelbaum fu in gran parte responsabile della ricostruzione delle comunità di ebrei ultraortodossi dall'Ungheria e dalla Romania decimate nell'Olocausto. Mentre la sua corte chassidica a Satu Mare (comunemente conosciuta oggi come Satmar), vicino al confine ungherese/rumeno era relativamente piccola
Il sionismo era per lui come un mix precario di secolarismo abbigliato in un linguaggio ebraico redentore particolarmente pericoloso perché conteneva la seduzione della capacità di risolvere il problema ebraico diasporico dell'antisemitismo.
, dopo la guerra divenne un magnete per i sopravvissuti di quelle regioni. La sua ideologia estrema fu trapiantata dalla regione ungherese di Marmaros, dove l'ultraortodossia sposò, come atto di pietà redentrice, la rigida separazione da tutte le forme di secolarismo. Il sionismo servì per lui e per la maggior parte degli altri leader religiosi di quella regione, come un mix precario di secolarismo abbigliato in un linguaggio ebraico redentore che era particolarmente pericoloso perché conteneva la seduzione della capacità di risolvere il problema ebraico diasporico dell'antisemitismo.
  In molti modi, l'Olocausto era al centro del pensiero di Teitelbaum sul sionismo. Infatti, egli inizia Vayoel Moshe facendo cenno alla catastrofe che era appena capitata agli ebrei:
    «A causa dei nostri molti peccati, negli ultimi anni abbiamo sofferto amaramente in modi nei quali Israele non ha sofferto da quando è diventata una nazione [goy]. "Se il Signore non ci avesse conservato un piccolo avanzo [saremmo come Sodoma, uguali a Gomorra]." (Isaia 1:9). Ma con la misericordia di Dio, benedetto sia il Suo nome, alcuni di noi sono sopravvissuti, sebbene in piccolo numero. Non pochi da una moltitudine ma pochi da pochi, tutto ciò a causa di un giuramento che il Santo benedetto Egli sia fece con i nostri antenati per non annientarci completamente, Dio non voglia. Siamo sopravvissuti anche con i nostri numerosi peccati, incarnando il versetto, "Il Signore renderà eccezionali le tue piaghe [e quelle della tua progenie]". [Deuteronomio 28:59] "[perciò io continuo a far meraviglie per questo popolo, in modo miracoloso,] e si perderà la saggezza dei suoi sapienti, e l'intelligenza dei suoi esperti sarà offuscata". [Isaia 29:14] aspettavamo "l'ora della guarigione, ed ecco il terrore! " [Geremia 8:15] Ed ancora oggi riposo e conforto non sono arrivati. I nostri cuori sono totalmente spezzati e non c'è nulla che ci possa confortare e rafforzare. Piuttosto, i nostri occhi deboli e le nostre anime languenti si volgono verso il cielo fino a che Dio vedrà tutto ciò dal cielo. Dio vedrà la nostra sofferenza e guarirà i nostri cuori feriti con la grande misericordia di Dio.»
Teitelbaum credeva, come molti sionisti religiosi, specialmente dopo l'Olocausto, che stiamo sulla cuspide della redenzione messianica. Spesso fraintendiamo l'antisionismo di Teitelbaum come diametralmente opposto al sionismo di Abraham Isaac Kuk. In verità, Kuk e Teitelbaum sono in disaccordo meno di quanto pensiamo. Dal profondo della tradizione canonica, entrambi avevano un compito simile: dare un senso alla natura secolare del sionismo e come essa potesse quadrare con la comprensione tradizionale sia della catastrofe che della redenzione. Kuk argomentò dialetticamente, usando una mentalità romantica e mistica, che la natura secolare ed in gran parte antireligiosa del primo sionismo fosse una deviazione necessaria, sebbene temporanea, dalla tradizione che sarebbe stata valutata diversamente nel futuro redentore immanente. Teitelbaum, che visse più profondamente nella cornice binaria della letteratura talmudica, credeva anch'egli che il sionismo avesse avuto un ruolo centrale nella prossima redenzione, tranne che per lui il suo ruolo non era un'inversione kukiana della tradizione per amore della redenzione, ma l'eresia pre-messianica alla quale agli ebrei è richiesto di resistere affinché possa venire la redenzione.
  Il sionismo era quindi il falso messia che doveva essere respinto perché arrivasse il vero messia. Se gli ebrei soccombono alla tentazione della "prova finale", e Teitelbaum sapeva che la tentazione era forte dato il suo contesto post-Olocausto, la redenzione arriverà, ma arriverà attraverso la catastrofe. Come ha affermato lo storico ebreo Amos Funkenstein, secondo Teitelbaum "[una] catastrofe è imminente, dopo di che solo pochi, 'i resti di Israele', sopravviveranno per assistere alla vera redenzione. In effetti, l'intero argomento di
Kuk credeva che il sionismo secolare dovesse essere abbracciato per essere superato; Teitelbaum credeva che il sionismo dovesse essere respinto per evitare una catastrofica redenzione.
Teitelbaum è incorporato nella premessa apocalittica secondo la quale la vera redenzione, attraverso un miracolo divino, è molto vicina, a portata di mano". Kuk credeva che il sionismo secolare dovesse essere abbracciato per essere superato; Teitelbaum credeva che il sionismo dovesse essere respinto per evitare una catastrofica redenzione. Un'altra somiglianza tra Kuk e Teitelbaum è che entrambi hanno visto il messia, falso e vero, nei termini della più astratta idea del sionismo. Per Kuk, il sionismo era l'incarnazione del messianismo, per Teitelbaum era il suo preludio satanico.
  Se pensiamo che la posizione di Teitelbaum sia unica nel suo estremo rifiuto del sionismo ci sbagliamo. In termini generali, gli impegni ideologici di Teitelbaum contro il sionismo non sono nuovi, ma parte di una traiettoria molto più lunga dell'antisionismo tradizionale che risale all'inizio del XX secolo nell'opera di Hayyim Elazar Shapira di Munkacz (1868-1937), l'ebreo di "antico insediamento" in Palestina e, successivamente, ai Neturei Karta in Israele. Questo antisionismo era anche condiviso da gran parte del mondo ultraortodosso prebellico, dal gigante rav lituano Elhanan Wasserman (1874-1941) a Yitzhok Zev Soloveitchik (1886-1959); e gran parte della dinastia Soloveitchik; e il Lubavitcher Rebbes Shalom Dov Schneershon (1860-1920) e Yosef Yizhak Schneershon (1880-1950), tra molti altri.
  La differenza tra Teitelbaum e molti dei suoi colleghi è che solo Teitelbaum ha speso un significativo capitale intellettuale sviluppando una teologia politica che non solo ha reagito all'istanza circonstanziale del sionismo come ad una eresia, ma lo ha collocato in un contesto teologico che ha le sue radici nella narrazione biblica, per esempio, la ribellione del vitello d'oro, la risposta blasfema di Giobbe alla sua sofferenza, la ribellione del popolo contro Mosè nel deserto, e la storia del miracolo nella antica tradizione biblica e nell'ebraismo. Inoltre, Teitelbaum ha respinto l'acquiescenza in larga parte pragmatica verso il sionismo in gruppi come Agudat Yisrael, vedendoli come i giusti che furono ingannati nel servire il vitello d'oro nel deserto del Sinai.
  Nella sua tesi su Teitelbaum, Menachem Keren-Krantz dell'Università di Tel Aviv scrive:
    "La maggior parte degli ebrei e dei rabbini ortodossi [dopo l'Olocausto] erano solidali con lo stato ebraico, anche se erano sospettosi del suo secolarismo e del successo della religione [in Israele] negli anni a venire. Per i primi cinque anni, R. Yoel [Teitelbaum] fu l'unico che continuò a mantenere la ferma posizione anti-sionista che era emersa [precedentemente] dalle scuole dell'ortodossia radicale in Transilvania e nei suoi dintorni."
Fino alla fine degli anni '50, tuttavia, Teitelbaum non pubblicò nulla di sostanziale sull'argomento, ma rese note le sue opinioni nei sermoni orali e in vari media come il quotidiano yiddish Der Yid, che fondò a New York e fu ampiamente letto nella comunità di lingua Yiddish ultra-ortodossa. Verso la fine degli anni '50, vedendo la comunità ultraortodossa addolcirsi verso ciò che considerava l'eresia sionista, decise di pubblicare le sue opinioni in forma di libro, su Vayoel Moshe.
  Suggerisco che un modo di concepire l'antisionismo di Teitelbaum è che esso costituisce una vera e propria teologia ebraica dell'Anticristo. Qui penso che antecedenti all'opera di Teitelbaum si possano trovare nel monaco cristiano medievale Gioacchino da Fiore (1135-1202) ed in particolare in Martin Lutero nel XVI secolo. A partire da Fiore e poi ancora di più negli scritti riformisti di Lutero, l'Anticristo si sposta da riferimenti biblici apocalittici, mitici ed obliqui per applicarsi agli eventi storici ed all'immanente fine dei tempi. Una volta che approfondiamo la teologia riformata, le istituzioni, in particolare il papato, diventano il bersaglio delle accuse anticristiche. L'opera di Lutero del 1545 Contro il Papato Romano: un'istituzione del Diavolo sposta la discussione dell'Anticristo su di un modello presentista, dove rimane per i successivi due secoli. Su ciò, lo studioso del cristianesimo Bernard McGinn osserva:
    "Qual è stata la vera originalità di Lutero nella storia delle tradizioni dell'Anticristo? Il rifiuto dei riformati dei leggendari accrescimenti al quadro scritturale dell'Anticristo e la sua adesione a un'interpretazione totalmente collettiva del Nemico Finale lo distinguono da qualsiasi visione medievale, anche quelle che identificano le istituzioni del papato con l'Ultimo Nemico."
Teitelbaum utilizza immagini sataniche simili che attingono a fonti ebraiche classiche e collega questi episodi alla realtà contemporanea del sionismo e dello stato israeliano. Per lui, il sionismo funziona in modo simile al papato per Lutero.
  L'idea dell'Anticristo è radicata nella figura di Satana nel Libro di Giobbe e nel Libro di Daniele 9-11, dove leggiamo:
    "Ed il re agirà a suo piacimento, s'inorgoglirà, si considererà superiore a qualunque dio e pronunzierà cose inaudite contro Iddio degli dèi e avrà successo finché non sarà terminata l'ira, poiché quello che è decretato si compirà" (Daniele 11:36).
Questo è uno dei motivi per cui Teitelbaum include un lungo excursus su Giobbe in 'Al ha-Geulah ve 'al ha-Temurah. Comprendere il rapporto tra Satana e Giobbe ed esaminare il dispiegamento midrashico di Satana nell'episodio del vitello d'oro (un altro motivo centrale di 'Al Ha-Geulah) è cruciale per la valutazione di Teitelbaum sul mondo che lo circonda, specialmente data la sua convinzione nell'opportunità prossima di redenzione dopo l'Olocausto.
  L'idea di un Anticristo, o falso messia che precede quello vero, è ripresa nella letteratura ebraica e apocrifa e medievale come in Pirkei D'Rebbe Eliezer e nei libri dei pietisti della Renania del 13° secolo,
L'idea di un Anticristo, o falso messia che precede quello vero, è ripresa nella letteratura ebraica e apocrifa e medievale, assumendo una potenza speciale quando si fonde con il messianismo.
assumendo una potenza speciale quando si fonde con il messianismo , sostenendo che la redenzione finale è progettualmente preceduta dall'emergere di una figura satanica o di figure (individui, comunità o persino ideologie) che mettono alla prova la fedeltà della comunità dei credenti alla parola ed alla volontà di Dio. Un esempio ebraico di spicco è la figura di Armilos, un figlio di Satana che uccide il Messia figlio di Giuseppe nel Sefer Zerubbavel, una breve opera messianica scritta in ebraico nel VII secolo EC. Questa figura satanica appare nella letteratura successiva come un arbitro della volontà divina, spesso intenta a compiere prodigi miracolosi, avendo un grande successo quasi senza precedenti tale che, sotto ogni aspetto, egli è un emissario di Dio. Mentre Teitelbaum, per quanto ne sappia, non menziona mai Armilos, era certamente a conoscenza delle tradizioni di tali figure pre-messianiche nella letteratura medievale.
  Questo successo del sionismo è indice di una differenza significativa tra Teitelbaum e il suo predecessore antisionista, nonché un tempo mentore, R. Hayyim Elazar Shapiro di Munkacz. Il filosofo ebreo Aviezer Ravitzky descrive questa differenza in modo succinto.
    "Il Munkaczer Rebbe deve solo chiedere, 'Dov'è la fonte di questa malvagità?' Il Satmerer Rebbe, tuttavia, doveva andare avanti e chiedere, 'Qual è la fonte del loro successo mondano?"
In poche parole, questo significa che da quando morì Shapiro nel 1936, non dovette mai affrontare il successo mondano del sionismo, ma solo la sua esistenza. Ma dice anche del modo in cui questo successo mondano funge da pietra angolare della teologia politica dell'Anticristo di Teitelbaum. Il successo del sionismo, ancor più dopo il 1967, è la questione cruciale alla quale Teitelbaum deve rispondere, e quindi, per lui, il successo del sionismo non dimostra la sua provenienza divina (la pretesa di molti sionisti religiosi) ma piuttosto rafforza il suo status di Anticristo. Per far ciò, deve ricorrere a fonti ed idee ebraiche che hanno informato le varie ideologie dell'Anticristo del passato.
  Nella maggior parte delle teologie dell'Anticristo, Satana è un emissario di Dio ma funziona come uno strumento di seduzione, uno che sorge immediatamente prima dell'imminente redenzione come una prova finale per la comunità dei credenti. Anche la teologia dell'Anticristo è quasi sempre connessa a un'affermazione messianica. Ciò che è richiesto alla comunità dei credenti è la resistenza, piuttosto che l'acquiescenza, a tale seduzione satanica. Ciò equivale a una specie di idea ebraica post-tribolazionista secondo cui l'Anticristo viene a testare la fedeltà della comunità dei credenti. Da ogni punto di vista, Teitelbaum sapeva che il sionismo appariva come una forza liberatrice per gli ebrei, salvando molti, incluso lui, specialmente sulla scia della distruzione degli ebrei europei nell'Olocausto. Eppure è proprio il successo del sionismo, soprattutto dopo il 1967, a convincerlo del reale uso da parte di Dio del sionismo come prova finale che richiede resistenza.
  Uno dei cliché ripetuti nelle opere di Teitelbaum è che "il bene non viene dal male", o "il peccato non può provocare il santo", un'idea a mio avviso intesa a minare la nozione kukiana, attingendo da fonti mistiche, di migrazione dialettica del secolare nel santo. Se il bene non viene dal male, che lavoro fa allora il male nell'imminente fine dei tempi? In 'Al ha-Geula ve al ha-Temurah leggiamo:
    "È noto nella nostra letteratura che non appena ci sia un segno della nostra redenzione e della salvezza delle nostre anime, Satana escogita modi per scambiarla con una falsa redenzione che porta dolore, angoscia, ed oscurità per il mondo. Rabbenu Gershom (960-1040 EC) nota nella sua glossa al Talmud Trattato Tamid 32a a proposito della frase, "Satana avrà successo", "Non sorprendetevi che Satana sia riuscito a farli smarrire offrendo loro la redenzione e poi conducendoli a inferno." (AG 31, 32 nella mia traduzione).
In seguito, Teitelbaum cita ulteriormente una fonte rabbinica che non sono stato in grado di individuare: "Satana ha ottenuto il permesso di compiere miracoli e prodigi nella sua istituzione dell'idolatria". (AG 11, la mia traduzione) Questo sentimento appare in vari testi cabalistici medievali ma, per quanto ne sappia, non questa esatta citazione.
  L'ironia di soccombere all'Anticristo è che si tratta di un peccato che è in gran parte involontario. Qui Teitelbaum si appoggia fortemente su Moses Nahmanide (1194-1270), il grande leader degli ebrei spagnoli del XIII secolo e autore di un commento ampiamente letto alla Torah. Nella sua spiegazione della narrativa del vitello d'oro, Nahmanide suggerisce che la maggior parte di coloro che adorano il vitello lo ha fatto con l'intenzione di servire Dio e non l'idolatria. Coloro che erano colpevoli di idolatria furono immediatamente uccisi (Es. 32:27), mentre gli altri furono puniti ma non uccisi (Es. 32:30) proprio perché le loro intenzioni erano nobili. Teitelbaum vede questa intera narrativa come un'illustrazione del vitello come l'Anticristo. Questo si basa su una tarda antica traduzione aramaica della Torah, la resa di Es. 32:19 nel Targum Yonatan. "Non appena Mosè si avvicinò al campo e vide il vitello e le danze, si irò." Spostando abilmente il verbo "danzare" dal popolo a Satana, il Targum recita: "Satana era nel vitello e balzò fuori di fronte al popolo" (vedi AG 6). La natura miracolosa di quell'evento è stata interpretata dal popolo come un intervento divino, e quindi risposero di conseguenza. Il miracolo era proprio la trappola. Ecco come Teitelbaum comprende la guerra dei sei giorni. Fu davvero un miracolo, come Satana che saltava dal fuoco e danzava celebrando la sua apparente vittoria nel sedurre il popolo ad adorare il vitello.
  Che cosa significa tutto questo per la maggior parte di noi che non sono disposti ad aderire nella convinzione di Teitelbaum che il sionismo sia un'ideologia anticristica? In altre parole, perché interessarsi a questo? Quale ruolo può svolgere nella nostra comprensione della storia ebraica e della storia della modernità ebraica? Uno dei prodotti curiosi del nostro tempo è che il successo dell'interpretazione religiosa sionista della storia ebraica ha portato alla visione che il sionismo sia modo di comprendere ovvio ed adeguato della tradizione ebraica. In realtà, la comprensione offerta da Abraham Kuk e da altri che il ritorno degli ebrei nella terra di Israele sia un segno dell'imminente redenzione a supporto della
Le interpretazioni sioniste religiose delle fonti sono spesso forzate e spesso richiedono di estendere l'elasticità delle fonti tradizionali oltre il credibile.
giustificazione teologica del progetto sionista, è altamente problematica dal punto di vista della tradizione stessa. Le interpretazioni sioniste religiose delle fonti sono spesso forzate e spesso richiedono di estendere l'elasticità delle fonti tradizionali oltre il credibile. Questo non significa necessariamente il fatto di scartarla, ma solo il fatto di suggerire che sicuramente non è affatto cosa ovvia o in alcuni casi, persino plausibile. Teitelbaum sostiene che lavorando rigorosamente da fonti canoniche midrashiche e legali, il suo punto di vista è quello più forte. Questo non vuol dire che abbia ragione nella sua valutazione, ma significa solo che giustificare il sionismo attraverso la tradizione è una cosa molto più difficile di quando pensiamo, soprattutto senza aver letto il lavoro di Teitelbaum.
  C'erano buone ragioni per le quali le comunità tradizionali nell'Europa prebellica erano in gran parte contrarie al sionismo. Teitelbaum affermava spesso che i suoi punti di vista erano quelli dominanti nel mondo in cui viveva prima della guerra. In ciò ha certamente ragione. La forza delle argomentazioni di Teitelbaum provenienti da fonti canoniche può anche spiegare perché i rabbi Aviner e Kahn si sarebbero preoccupati di scrivere le risposte a Vayoel Moshe negli anni 2000, molto tempo dopo che sembrava che la battaglia fosse stata vinta. Entrambe sono figure rabbiniche profondamente coinvolte nella tradizione e quindi vedono, senza essere necessariamente d'accordo, che l'opera di Teitelbaum rappresenta una seria sfida per il sionismo, degna di una risposta sotto forma di libro.
  La vera natura del sionismo da un punto di vista teologico è, ovviamente, sconosciuta. Viviamo tutti nel bel mezzo di un dramma che si sta ancora svolgendo. Sia nella teologia dialettica di Kuk che migra il profano nel santo, che nella teoria del sionismo di Teitelbaum come falso messia, è pari la difficoltà a comprendere una svolta radicale nella storia ebraica. Gli studenti religiosi sionisti di yeshiva che ridono mentre leggono Vayoel Moshe oggi hanno certamente motivo di festeggiare. Ma il capitolo su chi avrà diritto all'ultima risata deve ancora essere scritto.
  
(1) NdT: Il treno di Kastner è il nome dato ad un trasporto speciale di 1684 ebrei ungheresi, ai quali nel 1944, durante l'Olocausto, le autorità naziste consentirono di lasciare Budapest e di rifugiarsi in Svizzera, passando per il campo di concentramento di Bergen-Belsen. L'operazione fu il risultato di un accordo tra Adolf Eichmann e Rudolf Kastner, rappresentante del Comitato per l'Aiuto ed il Soccorso degli ebrei ungheresi, in cambio del pagamento di una cospicua somma di denaro.


* Shaul Magid, redattore collaboratore di Tablet, è Distinguished Fellow of Jewish Studies presso il Dartmouth College e Kogod Senior Research Fellow presso lo Shalom Hartman Institute of North America. I suoi ultimi libri sono Pietà e ribellione: Saggi in chassidismo e La Bibbia, il Talmud e il Nuovo Testamento: il commento ai Vangeli di Elijah Zvi Soloveitchik.

(Kolòt, 5 giugno 2020 - trad. Roberto Maggioncalda Sacerdote)


Libano: prevista il 6 giugno una manifestazione per il disarmo di Hezbollah

BEIRUT - Una manifestazione popolare organizzata per il 6 giugno a Beirut, la capitale del Libano, avanzerà anche la richiesta del disarmo del partito sciita e gruppo armato Hezbollah. Lo riferisce l'emittente televisiva libanese "Mtv". Interpellata da quest'ultima, una figura di spicco di Hezbollah mantenutasi anonima ha dichiarato che la manifestazione sarebbe frutto dell'orchestrazione tra forze interne e attori stranieri, specialmente statunitensi. A partecipare alla manifestazione sarebbero anche sostenitori dei partiti cristiani della Forze libanesi e delle Kataeb, mentre il partito sunnita Al Mustaqbal dell'ex premier Saad Hariri ha preso le distanze dall'iniziativa.

(Agenzia Nova, 4 giugno 2020)


Il Dna aiuta a ricomporre la storia dei rotoli del Mar Morto

Non tutti proverrebbero dal luogo in cui sono stati trovati

ROMA - Il Dna estratto dalle pergamene ha permesso di ricomporre la storia dei rotoli del Mar Morto. Non tutti proverrebbero infatti dal deserto in cui sono stati trovati tra il 1947 e il 1956, nelle caverne di Qumran in Cisgiordania, come spiegano sulla rivista Cell alcuni ricercatori dell'università di Tel Aviv e dell'Autorità israeliana delle antichità.
Abbiamo verificato, attraverso l'analisi di frammenti della pergamena, che alcuni testi sono stati scritti su pelle di mucca e pecora, mentre prima pensavamo fossero stati tutti scritti su pelle di capra. Ciò dimostra che i manoscritti non provengono dal deserto in cui li abbiamo trovati», precisa Pnina Shor, coordinatrice dello studio. Durante i 7 anni dello studio, focalizzato su 13 testi, i ricercatori non sono riusciti a localizzare il luogo esatto di provenienza dei frammenti. I rotoli risalgono, secondo le datazioni fatte, ad un periodo compreso tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C.. Molti studiosi ritengono che li abbiano scritti gli Esseni, una setta ebraica dissidente che si era ritirata nel deserto della Giudea vicino a Qumran e le sue caverne, mentre altri sostengono che alcuni di questi testi furono nascosti dagli Ebrei che fuggivano dai Romani. «Questi risultati iniziali avranno ripercussioni sullo studio della vita degli Ebrei nel periodo del Secondo Tempio», distrutto dai Romani nel 70 d.C..
   A indicare la provenienza diversa, secondo Beatriz Riestra, una dei ricercatori, sarebbero le «differenze nel contenuto e nello stile della calligrafia in rotoli della stessa epoca, ma anche nella pelle animale usata per la pergamena. Ciò dimostra che hanno un'origine diversa». È come mettere insieme «le tessere di un puzzle - aggiunge Oded Rechavi, uno dei ricercatori - Ci sono molti frammenti che non sappiamo come collegare e se mettiamo insieme i pezzi sbagliati, si cambia completamente l'interpretazione di ogni rotolo».

(La Provincia, 4 giugno 2020)


La seconda ondata di Covid-19 arriva in Iran e Israele (con il caldo)

di Beatrice Guarrera

GERUSALEMME - Era una paura diffusa che con la fine del lockdown sarebbero tornati ad aumentare i casi di Covid-19. A poco tempo dall'allentamento delle restrizioni, i dati di due paesi sembrano confermare questi timori: Iran e Israele. Il 3 giugno è stato infatti il terzo giorno consecutivo in cui l'Iran ha registrato un'impennata di tremila nuovi contagi da Covid-19 (3.134 nuovi pazienti con un aumento di diciassette unità rispetto al giorno precedente e settanta nuovi morti), portando a 160.696 il numero totale di contagiati in tutto il paese. Lo ha comunicato ieri in conferenza stampa il portavoce del ministero della Sanità ìraniano Kianouche Jahanpour. Una nuova accelerazione nei casi accertati era iniziata già dal 2 maggio e la tendenza al rialzo non sembra arrestarsi. Secondo i dati ufficiali, che gli esperti sostengono possano essere sottostimati, sono 8.012 i decessi per Covid-19 in Iran dall'inizio della pandemia, i cui primi casi sono stati registrati a febbraio. Ad oggi 2.557 pazienti sono ancora in gravi condizioni, mentre coloro che risultano completamente ripresi dalla malattia sono 125.206.
  L'impennata di contagi di Covid-19 registrati negli ultimi giorni in Iran sarebbe da attribuire al mancato rispetto della norme di distanziamento sociale, come ha affermato in un'intervista televisiva il ministro della Salute iraniano Saeed Namaki. "La gente sembra pensare che il Coronavirus sia finito e anche alcuni funzionari credono che tutto sia tornato alla normalità - ha dichiarato Saeed Namaki - il Coronavirus non soltanto è ben lontano dall'essere finito, ma potremmo vedere un nuovo picco pericoloso". Il ministro della Salute iraniano ha spiegato anche di aver supplicato le persone di non partecipare a matrimoni o funerali, ma di non essere stato ascoltato, soprattutto nella provincia del Khuzestan. Proprio quella provincia, dove sono state allentate da poco le restrizioni, è oggi "zona rossa", mentre risultano "in stato di allerta" le province di Hormozgan, Azerbaijan orientale e occidentale, Kurdistan, Kermanshah, Bushehr, Sistan e Baluchistan, Qazvin e Razavi Khorasan.
  In Israele l'impennata di contagi è arrivata invece con la riaperture delle scuole. Martedì sono state rilevate nuove infezioni da Covid-19 nelle scuole di Beersheba, Rahat, Ashdod, Ma'aleh Adumim e Holon. La maggior parte dei casi proviene però da una scuola: la Gymnasia Rehavia a Gerusalemme. L'istituto scolastico, a due passi dalla casa del primo ministro Benjamin Netanyau, è il centro del focolaio che ha fatto registrare oltre 100 nuovi casi di Covid-19, l'accelerata più intensa delle ultime settimane nel paese. Tutti gli studenti e gli insegnanti della Gymnasia di Gerusalemme sono entrati in quarantena, assieme a quelli di altri istituti scolastici. Secondo quanto annunciato dal ministero dell'Educazione israeliano, soltanto ieri sono entrate in quarantena altre duemila persone, portando a 6.831 il numero totale. Sono quarantatré le scuole già chiuse in tutta Israele, a causa dei 255 contagi accertati, e da oggi qualsiasi istituto nel quale saranno trovati nuovi infetti sarà immediatamente chiuso. Lo annunciato ieri il primo ministro Benjamin Netanyahu, a seguito di un incontro con i funzionari dei ministeri dell'Educazione e della Sanità e con il capo del Consiglio di sicurezza nazionale.
  Nelle prossime ore ci si aspetta la chiusura di altre 18 scuole nella città beduina di Hura (nel sud, vicino a Beer Sheva), dove sono stati trovati nuovi contagi di Covid-19. I casi registrati in Israele, soprattutto in zone come quella di Hura, situata nel deserto del Negev, sembrano scoraggiare le speranze di coloro che credevano in una minore resistenza del virus alle alte temperature. Al 3 giugno Israele ha raggiunto 17. 342 contagi, con un aumento di cinquantasette casi dal giorno precedente.
  Il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas ha emesso ieri un decreto che proroga lo stato di emergenza per altri trenta giorni a partire dal 4 giugno. Soltanto la scorsa settimana i Territori palestinesi avevano riaperto, ma il crescente pericolo di trovarsi di fronte a un'altra ondata di infezioni sembra frenare il ritorno alla normalità. Sebbene Mai al Kaila, ministra della Salute palestinese, abbia annunciato che non sono stati rilevati nuovi casi di coronavirus in Cisgiordania nelle ultime 24 ore, la situazione continua a preoccupare. In Cisgiordania e Gerusalemme Est sono 554 coloro che sono risultati positivi, mentre due sarebbero i deceduti, secondo i dati ufficiali. Nella Striscia di Gaza i casi registrati sono stati sessantuno e c'è stato un solo decesso.

(Il Foglio, 4 giugno 2020)


Israele - Fase 2 troppo rilassata. Risalgono i contagi nelle scuole

Focolai e Gerusalemme e Beersheva. Più di 7.500 studenti e insegnanti in quarantena. Ma il governo non chiude gli istituti. Cinque nuovi positivi al tampone
si registrano anche a Gaza.


di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Risale la curva dei contagi in Israele che appena una decina di giorni fa era scesa al punto più basso dall'inizio della pandemia che nello Stato ebraico ha fatto ammalare 17mila persone (in buona parte in modo lieve) e provocato 290 decessi.
   Focolai dell'infezione sono divampati in particolare in alcune scuole di Gerusalemme, Beersheva e di vari centri abitati del sud del paese. Più di 7.500 studenti e insegnanti sono stati messi in quarantena, di cui 2.500 solo tra martedì e mercoledì quando sono stati accertati 255 contagi e altre sette scuole sono state chiuse portando il totale a 43.
   La situazione più preoccupante è quella dell'istituto Gymnasia Rehavia di Gerusalemme con 173 persone, tra ragazzi, insegnanti e personale amministrativo, risultate positive al tampone. A circa 700 studenti della Ulpana Tzvia è stato ordinato di andare in isolamento per almeno una settimana. A Tel Aviv l'istituto Galil è tornato all'insegnamento da remoto dopo che uno studente è risultato positivo. Colpite dal contagio anche diverse scuole nelle comunità beduine, sempre nel sud di Israele. Non pochi sostengono che la riapertura del paese dopo il lockdown parziale o totale osservato a marzo e aprile (con alcuni giorni di vero e proprio coprifuoco) sarebbe stata troppo rapida sotto la pressione del tonfo dell'economia che nei primi quattro mesi del 2020 ha fatto segnare una contrazione del 7,1% e livelli di disoccupazione superiori al 20% mai registrati negli ultimi decenni.
   Così le fasi 2 e 3 nel mese di maggio di fatto si sono accavallate, con una porzione della popolazione che ha percepito la fine della fase più acuta della crisi sanitaria come un via libera al ritorno alla piena normalità.
   Tanti hanno cominciato a non indossare più la mascherina in strada o a portarla inutilmente sotto il mento. Il distanziamento sociale si è fatto più blando e ristoranti, pub e locali pubblici sono tornati ad affollarsi con scarso rispetto da parte dei clienti delle misure di precauzione ribadite dal governo e dal ministero della sanità. Un clima che lo stesso premier Netanyahu, lo scorso fine settimana, ha condannato avvertendo che il paese rischia un secondo lockdown.
   Resta di difficile comprensione la decisione del nuovo governo, in carica dalla metà di maggio, di riaprire completamente le scuole e di continuare a tenerle aperte di fronte ai contagi in rapido aumento che si registrano in questi ultimi giorni tra studenti e insegnanti.
   Gruppi di genitori contestano il nuovo ministro dell'istruzione, Yoav Galant, che esclude - con l'appoggio di Netanyahu - di poter richiudere le scuole sebbene manchino pochi giorni alla fine dell'anno scolastico. La paura del contagio ha spinto non pochi genitori a non mandare i figli a scuola nella speranza che il governo faccia marcia indietro e adotti misure vicine a quelle decise nei mesi scorsi nelle cittadine e nei quartieri popolati da ebrei ultraortodossi, risultati i più colpiti dall'ondata di coronavirus. Intanto cinque nuovi positivi al tampone si registrano anche a Gaza, ancora tra palestinesi rientrati dall'estero attraverso il valico di Rafah con l'Egitto. Ma nel piccolo territorio palestinese la situazione resta sotto controllo contro tutte le previsioni della vigilia. In totale i contagi accertati sono stati sino ad oggi 66 (1 decesso) e le autorità sanitarie locali ieri hanno autorizzato la riapertura di tutte le moschee che erano state chiuse oltre due mesi fa. Le scuole invece restano chiuse, come in Cisgiordania dove si sono registrati in totale 554 positivi (il dato include anche quelli a Gerusalemme Est) e quattro morti.

(il manifesto, 4 giugno 2020)


Israele, accordo con Riyadh per la Spianata delle moschee

Israele tenta di scavalcare gli impegni e le influenze della Turchia con le autorità palestinesi sulla gestione della Spianata delle moschee a Gerusalemme concludendo un patto con l'Arabia Saudita.
A rivelarlo è Israel HaYom, quotidiano di destra molto popolare. Secondo quanto riportato dal Manifesto, il quotidiano israeliano annuncia che "negoziatori dello Stato ebraico e dell'Arabia saudita dallo scorso dicembre sono impegnati in colloqui segreti, con la mediazione americana, allo scopo di includere «osservatori» sauditi nel Consiglio del Waqf, la fondazione che cura e amministra i beni e le proprietà islamiche a Gerusalemme, a cominciare dalla Spianata delle moschee".
L'obiettivo, come detto, è quello di paralizzare le attività e i progetti avviati a Gerusalemme Est dal presidente turco Erdogan, avversario di Riyadh e degli altri paesi che compongono la "Nato araba" (Emirati, Egitto e Bahrain). E la Giordania, custode della Spianata delle moschee, avrebbe accettato il coinvolgimento dei sauditi pur di tenere la Turchia lontano da Gerusalemme.

(DailyMuslim, 4 giugno 2020)


Persino l'uccisione di George Floyd a Minneapolis viene sfruttata contro ebrei e Israele

Il riflesso pavloviano degli antisemiti è talmente prevedibile che sarebbe persino noioso, se non fosse tragico

Qualunque e qualsiasi disastro o crisi affligga la Terra, è solo una questione di tempo prima che gli ebrei o Israele ne vengano ritenuti responsabili.
Il coronavirus si è guadagnato qua e là il soprannome di "peste ebraica" giacché nel 2020, proprio come nella pandemia di peste del XIV secolo, ne sono stati accusati gli ebrei. Il Ministero israeliano degli affari strategici ha già pubblicato un rapporto sull'argomento intitolato "Il virus dell'odio". Anche l'Anti-Defamation League e il Kantor Center for the Study of Contemporary European Jewry hanno pubblicato rapporti sull'argomento.
Avevamo appena iniziato a occuparci dell'odio innescato dall'epidemia di coronavirus ed ecco che gli antisemiti in servizio permanente effettivo sono strisciati fuori dall'oscurità per mettere in circolazione un'altra storia. Sostengono che l'ignobile uccisione di George Floyd a Minneapolis è frutto dell'addestramento impartito dalla polizia israeliana agli agenti di polizia americani. Naturalmente sono molti i dipartimenti di polizia di tutto il mondo che collaborano fra loro nella formazione e nella raccolta di informazioni. Fra i tanti, anche la polizia israeliana che mette a disposizione la sua vasta esperienza in tattiche e operazioni antiterrorismo....

(israele.net, 4 giugno 2020)


"Accelerate in Israel": bando per il finanziamento della mobilità in Israele di start-up italiane

Sulla base dell'accordo italo-israeliano di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica.

Nell'ambito delle attività previste dall'Accordo italo-israeliano di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica, l'Ambasciata d'Italia in Israele, in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, intende pubblicizzare con il presente bando un programma di agevolazione della mobilità in Israele delle start-up italiane dal titolo "Accelerate in Israel".
Il programma sarà realizzato insieme all'Agenzia ICE, in collaborazione con il Ministro per l'Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, con Intesa Sanpaolo Innovation Center, con la Camera di Commercio e Industria Israel-Italia e con acceleratori israeliani.
Scadenza: 31 luglio 2020

Il bando

(Assocameresto, 4 giugno 2020)


Siamo vulnerabili e non lo sappiamo

di Alessandro Curioni

 
"L'inverno cyber sta arrivando e molto più velocemente di quanto mi aspettassi. Questo è soltanto l'inizio". Il commento è stato di Yigal Unna, direttore generale del National Cyber Directorate di Israele, ed è giunto in un momento decisamente convulso per Tel Aviv. Purtroppo si tratta di avvenimenti che raramente trovano spazio su grandi media (curiosamente anche su quelli on line).
  In effetti a ben pochi è giunta la notizia che tra il 24 e il 25 aprile scorsi il sistema di distribuzione idrica di Israele è stato vittima di un attacco cibernetico teso ad alterare il funzionamento dei sistemi di depurazione e disinfezione dell'acqua. L'aggressione avrebbe potuto compromettere la potabilità dell'acqua nell'intero paese con conseguenza drammatiche. Praticamente nessuno ha riferito la notizia che le indagini effettuate avevano portato a individuare nell'Iran il responsabile e pochi specialisti hanno rilevato che due settimane dopo i sistemi di supporto del porto iraniano di Shahid Rajaee sono andati in tilt gettando nel caos l'intero scalo. Questo per un cyber attacco portato a compimento dallo stesso Israele.
  In questo quadro l'affermazione del direttore generale del National Cyber Directorate assume contorni decisamente inquietanti perché lascia intendere che questo "scambio di favori" tra i due paesi sia appunto "soltanto l'inizio", perché evidentemente Israele non intende lasciare "impunita" alcuna aggressione al punto che lo stesso Yigal Unna ha aggiunto di essere convinto che "ci ricorderemo di questo ultimo mese e del maggio 2020 come il momento in cui la storia della moderna cyberwar è cambiata".
  Se le affermazioni sembrano piuttosto melodrammatiche vale la pena ricordare che se l'attacco agli impianti idrici avesse avuto successo avrebbe probabilmente fatto più vittime nel solo Israele di quelle causate dal Coronavirus nel mondo, ma questo dovrebbe suscitare spontaneamente alcune domande. Per quale ragione questa notizie non sono state trattate come gli atti di guerra "cinetici", per esempio un bombardamento? Sono ragionevolmente certo che un lancio missilistico di Teheran contro Israele avrebbe riempito le pagine (web e non) di qualsiasi media, anche in assenza di vittime. Così come un successivo raid aereo di Tel Aviv su a una infrastruttura iraniana, anche senza danni, avrebbe fatto parlare il mondo intero di "gravissima escalation" e avremmo assistito a prese di posizioni e commenti ufficiali di tutti gli Stati del mondo.
  Questa, personalmente, la ritengo l'ennesima dimostrazione che siamo ancora incapaci di comprendere le implicazioni di quella società dell'informazione in cui viviamo completamente immersi. Da anni sostengo che in quanto esseri umani soffriamo di una fondamentale "inadeguatezza biologica" rispetto a un modo intangibile e fatto di bit del quale riusciamo a percepire i rischi in modo solo superficiale. Non riusciamo a comprendere quanto grande è la pervasività delle tecnologie, tanto che sempre più raramente quanto accade al di là di un schermo non produce conseguenze nel mondo reale. L'impossibilità dei nostri cinque sensi di cogliere il pericolo e la mancanza di una memoria storica del disastro a cui potremmo andare incontro ci rende completamente ciechi. Il Covid 19 era a noi invisibile, ma quando si è palesato il ricordo che la nostra specie ha delle epidemie ha fatto il suo dovere. Purtroppo se mai ci dovremo confrontare con un virus informatico abbastanza potente e sconosciuto quello che il Coronavirus ha fatto al mondo in sei mesi, un malware lo realizzerebbe in sei minuti e il lock down successivo potrebbe essere ben peggiore e più lungo di quello che abbiamo affrontato.

(Panorama, 3 giugno 2020)


"Cara amica Cina". La mossa di Abu Mazen in cerca di nuovi alleati

Dallo scoppio della pandemia i rapporti tra Ramallah e Pechino si sono intensificati Per colmare l'assenza degli Stati arabi e sfidare gli Usa.

di Sharon Nizza

Sharon Nizza
GERUSALEMME - «La presidenza riafferma il supporto dello Stato di Palestina al . diritto dell'amica Repubblica Popolare Cinese di preservare la propria 'sovranità, rifiutando i tentativi di destabilizzare la propria integrità territoriale, compresa Hong Kong». Così una dichiarazione dell'ufficio del presidente Mahmoud Abbas, rilanciata sabato dall'agenzia Wafa, in cui plaude alla Cina anche per «la ferma posizione a sostegno del popolo palestinese per ottenere la libertà e l'indipendenza nel suo Stato sovrano». A fare eco ad Abu Mazen, il ministro degli Esteri Riyad Al-Maliki che, illustrando ieri gli sforzi diplomatici per far desistere Israele dall'estendere la sovranità su parte dei Territori, ha menzionato quella cinese come «una delle prese di posizione più forti da parte della comunità internazionale nel rigettare il piano». Il riferimento è a una lettera inviatagli dall'omologo cinese che esprime «la profonda preoccupazione per un piano di annessione unilaterale contrario al diritto internazionale».
Dallo scoppio della pandemia, i rapporti sino-palestinesi si sono intensificati, con assistenza sanitaria cinese giunta in piena emergenza e auspici sulla necessità di rafforzare le cooperazione bilaterale, evidenziati anche dal presidente Xi Jinping in un messaggio ad Abbas in aprile. E' un tentativo di riempire il vacuum che si è creato con il progressivo allontanamento degli Stati arabi dalla causa palestinese e soprattutto con la rottura dei rapporti con gli Usa. Quanto lontano quel maggio 2017, quando Trump in visita ufficiale veniva accolto a Betlemme sotto un enorme striscione "La città della pace dà il benvenuto all'uomo della pace". Pochi mesi dopo Abu Mazen annunciava l'interruzione dei rapporti a seguito dello spostamento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme. La Cina ha anche aumentato le donazioni all'Unrwa, l'agenzia Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi, dopo che gli Usa hanno annunciato nel 2018 lo stop ai finanziamenti.
E se con i palestinesi ci sono prove di avvicinamento, sul fronte israeliano le relazioni con la Cina rischiano di farsi più tese. La visita lampo del segretario di Stato Mike Pompeo il 13 maggio - nel corso della quale il disappunto americano per i crescenti investimenti economici cinesi in Israele era all'ordine del giorno - ha dato i suoi primi frutti: la settimana scorsa Israele ha annunciato che sarà una compagnia israeliana. e non la concorrente cinese, a costruire l'impianto di desalinizzazione Sorek 2, nei pressi di una base militare che vede non di rado la presenza di soldati americani. Il ministero della Difesa ha espresso parere negativo sulla possibilità che aziende cinesi - anche se di stanza a Hong Kong - siano coinvolte nella rete 5G. In vista ci sono altri appalti e progetti: è opinione diffusa che Israele dovrà fare delle rinunce per non irritare il suo indiscusso partner strategico, gli Stati Uniti.

(la Repubblica, 3 giugno 2020)


Le paure di ieri e la cultura della vendetta

di Fiamma Nirenstein

Se George Floyd fosse stato bianco mi avrebbe fatto lo stesso identico effetto: orrore, pena per una morte violenta e causata dalla polizia Non solo: penso, con presunzione, che Martin Luther Kìng avrebbe avuto i miei medesimi sentimenti e vorrebbe fermare quella folla infuriata che afferma che «black lives matter». Penserebbe che con i saccheggi e la violenza decade il suo ruolo nella democrazia, esattamente come accadrebbe a un bianco. Mlk il 28 agosto 1963 al Llncoln Memorial è chiaro: dopo aver descritto come gli americani neri sono stati prima schiavi e poi cittadini di seconda classe e aver denunciato come le leggi di segregazione fossero ancora parte della vita americana, spiegò che il suo sogno era che i suoi figli «potessero vivere in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per il loro carattere».
  Questo è in parte accaduto, le leggi oggi sono paritarie e realizzano l'idea della dichiarazione di Indipendenza ( «Tutti gli uomini sono creati uguali). Ma la società americana è, come tutte, ingiusta. Ma non di questo è accusata, bensì del suo passato, ritenuto geneticamente spregevole, da cancellare per sempre. Anche con la violenza. Quello che come un'ondata di schiuma disegna uno tsunami di saccheggi e violenze non c'entra nulla con la parità degli esseri umani. Centra con lo sbarramento ideologico che negli Stati Uniti, e per riflesso anche da noi, riflette la cultura della colpevolizzazione e della vendetta, che nasce nel fascismo e nel comunismo, che proietta sull'oggi la paura di ieri. Vede nella storia dell'arte l'esaltazione della cultura bianca per cui istituisce black studies che cancellano pittura, letteratura, musica, come gli women studies o i gay studies fanno a loro volta ritenendoli espressione della persecuzione che li accompagna. E' la pretesa che al di fuori di te, tutto il resto ti odi e ti dia il diritto alla reazione violenta
  Un presidente che di fronte a un Paese in fiamme dice che ci vorrà l'esercito non dice niente di strano: ma se è bianco, è un suprematista. Una lunga scia letteraria e filosofica ha cambiato in America le università, ha costruito una cultura a parte, di gender, di colore: Stokely Carmìdiael, Eldridge Cleaver, George Jackson. .. la nuova cultura deve creare l'ispirazione in cui risulta basilare l'esperienza di gioventù violente, emarginate. I giovani che distruggono i negozi e portano via le merci, sparano e picchiano convinti di incarnare il supremo diritto della sofferenza, nell'aspirazione suprema di una società a loro immagine e somiglianza. Nel 2014 dagli Usa scrissi la storia di grandi proteste sotto lo slogan «black lives matter» dopo violenze della polizia su ragazzi neri. Il presidente era Barack Obama, che come tanti altri con la sua vita dimostrava che anche se negli Usa era esistita la schiavitù e il disagio sociale, era un problema Così è oggi.

(il Giornale, 3 giugno 2020)


Il virus mutato quattro volte

E' l'antisemitismo, al centro di un bel documentario della Pbs

Un virus mutato ben quattro volte, le cui manifestazioni più violente sono spesso definite "focolai", come una malattia. E c'è anche la frase "antisemitismo virulento" che è spesso usata per descrivere le molteplici espressioni di questa 'ideologia maligna. Questo è il cuore di ''Virai: Antisemitism in Four Mutations", un nuovo documentario della Pbs.
   Si parte dall'assalto alla sinagoga di Pittsburgh da parte di un suprematista bianco. C'è l'ascesa dell'antisemitismo in Inghilterra all'interno del Partito laburista sotto il precedente leader Jeremy Corbyn; ci sono gli attacchi agli ebrei da parte di islamisti in Francia. Vittime, testimoni, antisemiti ed esperti, tutto si intreccia. Numerosi commentatori sono chiamati a parlare, come Bill Clinton, Tony Blair, la storica dell'Olocausto Deborah Lipstadt e i giornalisti Fareed Zakaria, George Will e Yair Rosenberg. Il regista, Andrew Goldberg, visita Paul Marmot, un cugino inglese che non aveva mai incontrato prima. Marmot gli racconta come, dopo una vita da ebreo inglese di sinistra, abbia strappato la tessera del Partito laburista quando Corbyn è stato eletto leader nel 2015.
   Le critiche alla politica israeliana sono accettabili per la maggior parte degli ebrei britannici, dice Marmot, ma Corbyn ha varcato una linea rossa di aperta delegittimazione e denigrazione del popolo ebraico. Goldberg intervista un fratello del terrorista che ha ucciso i bambini ebrei di Tolosa. Abdel Ghani Merah, che descrive l'ambiente nordafricano dei genitori, che ha portato in Francia l'idea che le nazioni occidentali, Israele e gli ebrei nel mondo si siano alleati contro il mondo islamico. "L'odio per gli ebrei era legittimo agli occhi dei miei genitori", dice, prendendo le distanze da quella visione (in effetti, Merah si è impegnato a contrastare l'antisemitismo).
   Un'ultima parola è data alla vedova di Philippe Braham, uno dei quattro ebrei francesi uccisi nell'attacco a Hyper Cacher, un supermercato ebraico a Parigi. "Non camminiamo per le strade facilmente come una volta, non lascio che i miei figli indossino la kippah, non dico ad alta voce i loro nomi". Un virus spaventoso, di cui non si conoscono vaccini.

(Il Foglio, 3 giugno 2020)


Lo scandalo del Consolato italiano a Gerusalemme

di Jonathan Pacifici

Giuseppe Fedele, Console Generale d'Italia a Gerusalemme
L'Italia, cosí come il resto dei paesi dell'Unione Europea, non riconosce Gerusalemme come capitale d'Israele e notoriamente mantiene la sua Ambasciata in Israele a Tel Aviv. Ciò genera ovviamente delle situazioni paradossali. In primis, dal momento che il Presidente riceve gli accrediti dei diplomatici stranieri e risiede a Gerusalemme, per presentare le proprie credenziali, all'atto dell'assunzione del loro incarico, gli ambasciatori devono recarsi da Tel Aviv a Gerusalemme. Non solo. Le massime cariche della Repubblica sono sistematicamente venute a Gerusalemme, qui hanno avuto incontri con Presidenti e Premier ed hanno parlato alla Knesset. Tutto a Gerusalemme. Tutto ufficiale. Peccato che a pochi metri in linea d'aria dalla Residenza del Presidente d'Israele dove Inno di Mameli ed Hatikvà hanno più volte risuonato, il Consolato Generale d'Italia continui ad essere uno schiaffo in faccia ad ogni israeliano ed ogni ebreo.
  Il Consolato - simbolo del non riconoscimento della sovranità israeliana - non dipende dall'Ambasciata e non è accreditato in Israele. Dipende direttamente dalla Farnesina. In effetti il Consolato Generale d'Italia a Gerusalemme funziona come una vera e propria Ambasciata presso l'Autorità Palestinese. Spieghiamoci meglio: l'Italia non riconosce Israele a Gerusalemme (salvo doverci venire per incontrarne le cariche), tiene la sua Ambasciata in Israele a Tel Aviv, ma vi mantiene la sua Ambasciata presso i palestinesi. Non è una supposizione, è scritto nero su bianco sul sito ufficiale del Consolato.
"Il Consolato Generale cura le relazioni che il Governo italiano intrattiene con le autorità palestinesi e che si sostanziano in rapporti politici, economici, culturali, di cooperazione allo sviluppo e di dialogo tra realtà locali e tra società civili.
È questo il primo scopo del Consolato. Solo dopo:
Il Consolato Generale assicura inoltre assistenza agli italiani a Gerusalemme, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza: dalla comunita' israelitica italiana di Gerusalemme, ai connazionali impegnati in attivita' di cooperazione internazionale; dai numerosi religiosi di nazionalità italiana qui presenti, al personale italiano che opera presso missioni internazionali, oltre che a tutti i connazionali che si trovino a risiedere o anche solo di passaggio.
Da notare la dicitura comunita' israelitica. Non israeliani.
Gli uffici sono dislocati in due sedi, situate rispettivamente a Gerusalemme ovest e a Gerusalemme est, dove si trova anche l'Ufficio dell'AICS (Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo)."
Da qui le continue vessazioni contro la popolazione ebraica che ha bisogno di servizi consolari. Dal celeberrimo codice Gerusalemme (ZZZ) che sui Passaporti Italiani cancella Israele, alle cartoline elettorali con dicitura Gerusalemme (Palestina), salvo poi nascondersi dietro "sviste dei Comuni di origine".
  Da pochi giorni è arrivato a Gerusalemme un nuovo Console Generale, Giuseppe Fedele che ieri ha diramato un messaggio in occasione della Festa della Repubblica. La rinascita del 2 Giugno - che ricordiamolo mette fine alla persecuzione degli ebrei italiani da parte del Governo Italiano - viene trasformata nel preambolo per il sostegno ai palestinesi.
Questa rinascita non sarebbe potuta avvenire senza una collaborazione tra le diverse anime politiche e sociali del Paese, che scelsero di sedersi allo stesso tavolo per dar vita alla Costituzione. Questa e` da allora faro del nostro lavoro ed e` basata su principi più che mai attuali oggi, mentre ci risolleviamo insieme ai nostri partner del mondo dall'emergenza sanitaria: libertà, uguaglianza, giustizia e democrazia.
  Si tratta degli stessi principi che guidano la presenza dell'Italia e dell'Unione Europea in quest'area. Continuiamo a sostenere le istituzioni dell'Autorità palestinese in vista della creazione di uno Stato palestinese indipendente e democratico, che viva in pace e sicurezza al fianco dello Stato di Israele, nell'ambito di una soluzione negoziata del conflitto che preservi lo status di Gerusalemme quale capitale condivisa dei due Stati. L'intera collaborazione dell'Italia con la Palestina - a tutti i livelli: politico, economico, culturale - resta ispirata a questo obiettivo di fondo."
Cioè l'Italia sta a Gerusalemme, per aiutare i palestinesi a minare la sovranità israeliana sulla città. Il tono del resto del messaggio va di conseguenza:
Tengo inoltre a ricordare il nostro impegno per diffondere la lingua e la cultura italiana nella circoscrizione, anche grazie alla preziosa azione della Societa' Dante Alighieri con i suoi Comitati di Gerusalemme e di Ramallah-Betlemme, e per fornire quanto più efficacemente possibile i consueti servizi alla Comunità italiana di Gerusalemme, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, rappresentata dal Comites che ringrazio per la sempre fruttuosa collaborazione. Mi piace ricordare quanto questa Comunita` sia ricca, articolata e radicata: da quella israelitica a quella palestinese, dai connazionali attivi nella cooperazione allo sviluppo al personale impegnato nelle Organizzazioni e missioni internazionali, fino ai religiosi, che da secoli svolgono un ruolo cruciale in Terra Santa."
Il Consolato Generale ha una lunga storia di connivenza con le corrotte autorità palestinesi ed il loro sostegno al terrorismo contro gli ebrei ed Israele. Ad onor del vero non gli è (ancora) successo di essere
 
Il Console Giuseppe Fedele incontra la Ministra per gli Affari Femminili palestinese, Amal Hamad.
colti in flagrante dalle forze di sicurezza israeliane, come è avvenuto per i dipendenti del Consolato Francese beccati a trafugare armi (nel 2018), ma come mi disse il precedente Console Fabio Sokolowicz "Se non incontrassi chi ha avuto a che fare con terroristi non lavorerei".
  Nei pochi giorni di attività il nuovo Console ha già iniziato i suoi rapporti da Ambasciatore con le controparti palestinesi. Gli è bastato poco per mettersi a regime. Qui nella foto incontra la Ministra per gli Affari Femminili, Amal Hamad.
  Hamad, nominata nell'Aprile 2019 nel nuovo esecutivo (non eletto) di Mohammad Shtayyeh era stata fino ad allora direttrice del distretto di Gaza della General Union of Palestinian Women. In questa veste, ha denunciato il Jerusalem Post in un articolo del 8 Marzo 2019, ha usato la Festa della Donna per celebrare il terrorismo femminile.
  "Abbiamo avuto donne martiri, ferite e prigioniere" ha detto spiegando che le donne sono state le prime a prendere parte "alla battaglia". Per poi nominare ed elogiare alcune note terroriste tra le quali Shadia Abu Ghazaleh, condannata per aver preparato esplosivi per attacchi terroristici, Dalal Mughrabi, (terrorista responsabile della morte di 38 persone nel 1978, 12 dei quali bambini), Wafa Idris la prima terrorista suicida, Ayyat Al-Akhras la più giovane terrorista suicida (facendo due morti) e Darin Abu Aisheh, altra terrorista suicida.
  Questi i modelli di virtù femminile di cui il Console Fedele ha parlato con la Hammad?
  La realtà è che il Consolato Generale resta un entità ostile ad Israele e al popolo ebraico ed è il simbolo di una politica discriminatoria verso Israele e gli ebrei a Gerusalemme.
  Poggiare poi questa politica sull'eredità della Resistenza e del 2 Giugno è ignobile.
  Ed è uno scandalo che deve finire.

(Il Corriere Israelitico, 2 giugno 2020)


COVID-19: Israele chiude nuovamente le scuole

Diecimila studenti in quarantena

Il Ministero della Salute israeliano con un aggiornamento emesso circa due ore fa ha reso noto che circa 10.000 tra studenti e professori sono stati messi in quarantena dopo che COVID-19 ha colpito diverse scuole medie e superiori.
Almeno 31 scuole e scuole materne sono state chiuse finora e oltre 9.900 studenti e personale sono entrati in quarantena, secondo i dati ufficiali pubblicati oggi.
Tra quelli maggiormente colpiti ci sono i quasi 2.000 alunni in una scuola superiore di Beersheba dove a una ragazza è stato diagnosticato il coronavirus e tutti i 1.930 studenti della scuola Makif Vav.

(Rights Reporters, 2 giugno 2020)


Israele: accelera preparativi per l'annessione di parti della Cisgiordania

Il Governo israeliano sta preparando a iniziare l'annessione di parti della Cisgiordania già dal mese prossimo e ha ordinato ai suoi militari di rafforzare la sicurezza nell'area, nonostante la mossa possa generare ripercussioni sui rapporti con l'Europa e gli Stati arabi.
Il nuovo Governo di unità del primo ministro Benjamin Netanyahu e dell'ex rivale, diventato poi partner, Benny Gantz, ha concordato durante i negoziati per la formazione della coalizione di iniziare il processo di annessione il primo luglio.
  Il piano di pace del presidente Usa, Donald Trump, che è stato respinto dai palestinesi, consente a Israele di annettere fino al 30% della Cisgiordania, soltanto però se gli Usa e Israele definiranno prima una mappa per l'intervento.
Ieri Gantz, che è a capo del ministero della Difesa nel nuovo Governo, ha chiesto alle forze armate del Paese di prendere provvedimenti per aumentare la sicurezza nei territori occupati prima dell'intervento israeliano. "Ho incaricato il Capo di Stato Maggiore Kochavi di accelerare i preparativi dell'Idf per le misure politiche all'ordine del giorno nell'arena palestinese e l'ho aggiornato sui progressi nell'area", ha scritto Gantz su Twitter.
Sempre ieri Netanyahu ha parlato al telefono con i membri del team per la pace in Medio Oriente dell'amministrazione Trump, tra cui Jared Kushner, l'ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, David Friedman, e l'inviato Avi Berkowitz. Friedman aveva incontrato Gantz all'inizio della giornata.
  Un alto funzionario della Casa Bianca ha dichiarato che la chiamata è stata cordiale e produttiva ma ha rifiutato di fornire ulteriori dettagli.
L'ordine di accelerare i preparativi militari è arrivato anche dopo che i funzionari europei e arabi hanno esortato Israele a non procedere con l'annessione, che secondo loro porrà fine definitivamente a ogni possibilità di dar vita a uno Stato palestinese indipendente.
Anwar Gargash, ministro per gli Affari Esteri degli Emirati Arabi Uniti, ha dichiarato su Twitter che il Paese si oppone a qualsiasi annessione unilaterale da parte di Israele, che "minerebbe l'autodeterminazione palestinese e costituirebbe un rifiuto del consenso internazionale e arabo verso la stabilità e la pace".
Funzionari europei e arabi hanno affermato di essere alla ricerca di modi per incoraggiare Israele a non portare avanti il piano, al fine di preservare la soluzione a due Stati che ritengono l'unica soluzione al conflitto israelo-palestinese. I funzionari europei hanno affermato che stanno valutando sanzioni contro Israele se il Paese porterà avanti il piano.
  L'annessione della Cisgiordania è sostenuta dalla destra di Netanyahu, ma deve affrontare l'opposizione di alcuni esponenti della sinistra. Gantz, a capo del partito Blu e Bianco, ha concordato nei negoziati di coalizione con Netanyahu che non avrebbe usato alcun potere di veto e il suo ordine ai militari israeliani indica la sua approvazione al piano di annessione o almeno la sua incapacità di bloccarlo.
Gantz aveva affermato in precedenza che avrebbe accettato l'annessione di parti della Cisgiordania solo con l'accordo della comunità internazionale.
La mossa rischia di alimentare disordini nei territori palestinesi. Il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, il mese scorso ha annunciato che i palestinesi avrebbero cessato ogni cooperazione con Israele. Le ultime settimane hanno già visto un aumento degli attacchi dei palestinesi contro gli israeliani e le forze di sicurezza israeliane in Cisgiordania.
Il portavoce della polizia israeliana, Micky Rosenfeld, ha detto ieri che alle guardie di frontiera israeliane è stato detto dagli ufficiali di sicurezza palestinesi di non entrare nelle aree controllate dai palestinesi che avevano pattugliato in passato. La polizia israeliana continua a coordinarsi con le controparti palestinesi quando si tratta di regolare attività criminale, ha aggiunto Rosenfeld.

(Finanza24H, 2 giugno 2020)



2 giugno. A proposito di inno nazionale

E’ accaduto ieri. In un grande magazzino di una città del nord, mentre gli acquirenti si aggiravano tra gli scaffali del supermercato nella rispettosa osservanza delle norme anticovid, si è udita improvvisamente una voce che dall’altoparlante annunciava: “Adesso ascoltiamo l’inno di Mameli”. E’ così è stato. Tutti hanno sentito echeggiare la musica e le ben note parole di “Fratelli d’Italia”. Non fermi sull’attenti, no, questo no, mica siamo in Israele. Probabilmente sorpresi, ma rispettosamente silenziosi.
Questo ci ha fatto venire in mente che qualche tempo fa, nei cruciali giorni di “il morbo infuria, il governo manca”, quando con italica fierezza si cantava dai balconi l’inno di Mameli, come a lasciar detto ai posteri: “così muoiono gli italiani”, avevamo in sede un video di provenienza anonima che proponeva una versione aggiornata del patriottico inno, in modo da renderlo più conforme alla situazione che si stava vivendo. Abbiamo esitato nella decisione, e alla fine non l’abbiamo pubblicato, perché l’ironia non ci sembrava adatta alla drammaticità del momento. Ma adesso, adesso che il peggio è passato, adesso che siamo passati “di peggio in male”, ascoltare in questo giorno di festa nazionale le sacre note mentre il pensiero si rivolge a dissacranti parole può servire a farci sopportare sia la sovrabbondante retorica di questo giorno, sia l’eventualità di sentirci obbligati un giorno ad ascoltare il sacro inno tra gli scaffali del supermercato, mentre siamo impegnati alla ricerca dei fagioli cannellini.
Fratelli d’Italia. Versione riveduta

(Notizie su Israele, 2 giugno 2020)


 


Bologna - Il Museo Ebraico riparte da Freud

Oggi la riapertura. Prorogata la mostra sulla Brigata Ebraica mentre ìn video si racconta il padre della psicoanalisi.

Oggi il Museo Ebraico riapre le sue porte per accogliere il pubblico alla visita dei percorsi storici nella sezione permanente e alla mostra Sotto il segno di una nuova stella. La Brigata Ebraica e l'Aliyah Bet 1944-1948, che è stata prorogata fino al 30 settembre prossimo.
   Le visite del pubblico saranno gestite attraverso nuove misure organizzative di sicurezza. Una novità è la biglietteria online, che consente di scegliere la fascia oraria di visita per evitare assembramenti. Da domani sarà possibile prenotare la visita dal sito di Bologna Welcome e all'info point in Piazza Maggiore, nei giorni successivi anche dal sito del MEB.
   Ed ecco che, proprio in occasione della riapertura di oggi (con appuntamenti ogni martedì di giugno) sui canali YouTube, Facebook e lnstagram del museo avrà inizio con la prima puntata su Freud il progetto video Freud e i suoi scrittori: Zweig, Schnitzler, Svevo, Kafka. Il profondo delle emozioni, la razionalità della scrittura, il sentire ebraico un progetto in cinque video-appuntamenti. Un percorso che parte dalla figura e dagli scritti di Sigmund Freud per indagare, anche attraverso l'influenza più o meno diretta che ebbe sugli scrittori contemporanei dell'impero asburgico, sulle inquietudini di un'epoca prossima al declino e alla doppia catastrofe delle due guerre mondiali.

 La mostra
  Sotto il segno di una nuova stella era stata inaugurata il 19 gennaio scorso ed è dedicata all'azione della Brigata Ebraica Combattente (Jewish Brigate). formata da volontari ebrei arruolatisi nell'esercito britannico e formalmente costituita nel 1944. Ventiseimila furono gli ebrei che si arruolarono nell'esercito britannico; di questi cinquemila formarono la Brigata Ebraica. Uno del capitoli più singolari della Seconda guerra mondiale, che ebbe come sfondo l'Italia tra il 1944 e il 1946, raccontato attraverso una rigorosa ricostruzione storica, rare immagini fotografiche, militaria e filmati storici.

(il Resto del Carlino, 2 giugno 2020)


Arabe e israeliane in marcia "Unite contro il femminicidio"

A Tel Aviv migliaia di donne hanno sfilato Insieme contro la violenza domestica che le accomuna. "Siamo le vittime ignote del Covid, è una guerra nella guerra, il governo non difende nessuna".

di Francesca Paci

ROMA - Hanno raccontato la loro storia una dopo l'altra sul palco allestito a ridosso di Charles Clore Garden, tra la spiaggia e lo skyline di Tel Aviv. ShiraVishnyak, la sorella della ventunenne ammazzata dal marito due settimane fa a Ramat Gan. Yara abu Abla, sopravvissuta al suo congiunto assassino e allo stigma sociale nel villaggio arabo di Yakka. Eli Fink, lo pseudonimo di una giovane ortodossa protetta dietro mascherina e occhiali scuri dal conformismo religioso. L'esule etiope Askadel Simansh, marchiata a lutto dal cognato. Donne. Tutte quelle che durante il lockdown hanno respirato il fetore della violenza domestica crescente nel Paese: e sono sature. Nei due mesi sigillati dal coronavirus Israele ha contato 7 femminicidi, 11 dall'inizio dell'anno, poco meno dei 13 totali del 2019.
   «È un'epidemia silenziosa, siamo le vittime ignote del coronavirus pur rappresentando il 51 % della popolazione", ci spiega Dror Sadot, una delle organizzatrici della marcia organizzata ieri a TelAviv, oltre diecimila persone distanziate ma compatte nel dire no all'indifferenza. Gila, 25 anni, ha partecipato con tre amiche dì Gerusalemme. - Vogliamo sapere dove sono i 250 milioni di shekel, quasi 7 milioni di dollari, stanziati due anni fa dal governo per contrastare i crimini di genere e bloccati chissà dove, come se le nostre vite non fossero una priorità». Mentre Israele naviga nel mare ignoto del Medioriente 2.0, tra le polemiche per il piano di annessione dei Territori e lo spettro del palestinese autistico ucciso sabato dalla polizia, l'altra metà del cielo lancia la sfida della «nuova emergenza sociale» alla sola vera ancorché complicata democrazia della regione.
   «È una guerra nella guerra e si consuma in silenzio, il fernminicidio è percepito come un problema di genere sebbene sia una questione di civiltà», sottolinea Anat Lev Adler, attivista e giornalista del quotidiano Yedioth Ahronot. Il problema è politico, insiste la Lev Adler, una delle organizzatrici dello sciopero delle donne del 2018, quando piazza Habima si riempì di scarpe rosse come il sangue versato all'ombra della famiglia, la trincea più oscura di una terra avvilita dalle armi.
   «Il premier Netanyahu tace, non si è mai esposto su questo: conosciamo la minaccia dell'Iran, quella del terrorismo, ma nulla sulla violenza dei nostri mariti. il risultato è che, per quanto se ne parli, gli uomini non partecipano abbastanza. A due anni dallo sciopero del 2018 non è cambiato pressoché nulla». Da almeno un mese a Tel Aviv come ad Haifa, a Gerusalemme e fin giù nelle città del Negev si accendono proteste spontanee dove donne israeliane alzano la voce accanto alle cosiddette «Sister in mìsery», l'altra faccia della medaglia, le sorelle come Soheir Asaad, leader del movimento Tal'at, a cui si deve l'agit prop di pentole percosse alla finestra con cui ad aprile centinaia di arabe-israeliane hanno messo il megafono alla violenza consumata in casa rifiutando la definizione di «delitto d'onore» perché non c'è onore nell'ammazzare tua figlia. la stessa violenza che a Gaza colpisce il 51 % delle donne, che secondo la polizia israeliana è aumentata in pochi mesi del 16% e che in Italia ha fatto 11 vittime nei mesi in cui, secondo «Forbes», la reazione più efficace alla pandemia è arrivata da Paesi guidati da donne.

(La Stampa, 2 giugno 2020)


Con le rose di Shavuot la Comunità Ebraica di Casale apre una porta verso il futuro

di Marco Bertoncini

CASALE - È stato un messaggio rivolto al futuro e al domani il tema principale dell'odierna riapertura al pubblico del Complesso Ebraico di Casale. L'occasione, all'indomani della fase più acuta dell'emergenza Covid, è stata per Shavuot, festività ebraica che celebra il dono delle Tavole della Legge sul Monte Sinai. Durante la festa le sinagoghe vengono tradizionalmente allestite con fiori e così è stato per quella di Casale. L'idea originaria era di un gemellaggio durante Coniolo Fiori e Riso e Rose 2020 e perciò, nonostante il rinvio al 2021 della kermesse florovivaistica, si è presentata "Shaar Leatid" dell'artista Angelo Castucci. L'opera riprende l'iscrizione sul soffitto della sinagoga "Porta per il cielo" e la declina, con una rosa e chicchi di riso, in "Porta per il futuro". L'opera è stata replicata in 50 poster in edizione limitata firmati dall'artista (la vendita contribuisce al sostegno delle attività della Comunità Ebraica.
A fare gli onori di casa Elio Carmi e Daria Carmi, curatrice del percorso artistico. Interventi di Roberto Gabei, presidente della Fondazione Arte Storia e Cultura Ebraica a Casale, di Claudia De Benedetti, direttore dei musei della comunità, di Arles Garelli, sindaco di Coniolo, di Federico Riboldi, sindaco di Casale, di Agostino Giusto, direttore artistico di Coniolo Fiori.

(CasaleNotizie, 2 giugno 2020)


Patto tra Israele e «Nato araba» per allontanare Erdogan da al Aqsa

Il giornale da cui riprendiamo quest’articolo è manifestamente anti-israeliano, ma anche se dal suo punto, qualche volta mette in evidenza l’esistenza di problemi e situazioni in Israele di cui nei giornali italiani non si parla. NsI

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Lo scontro tra la Turchia e la "Nato araba" guidata dall'Arabia saudita, in corso in Libia e nel Corno d'Africa, coinvolge ora anche Gerusalemme e la sua Spianata delle moschee.
Vede in primo piano il governo israeliano interessato a contrastare Ankara, a oscurare qualsiasi ruolo istituzionale palestinese nella città santa e a stringere i rapporti strategici con Riyadh. Ieri, poche ore dopo la riapertura delle moschee di Al Aqsa e della Roccia, chiuse da settimane per il Covid-19, il quotidiano di destra Israel HaYom, il più diffuso in Israele, vicino al premier Netanyahu, ha rivelato che negoziatori sauditi e dello Stato ebraico dallo scorso dicembre sono impegnati in colloqui segreti, con la mediazione americana, per includere osservatori sauditi nel Consiglio del Waqf, la fondazione che cura e amministra i beni e le proprietà islamiche a Gerusalemme, a cominciare dalla Spianata.
   L'obiettivo, spiega il giornale, è paralizzare attività e progetti avviati a Gerusalemme Est dal presidente turco Erdogan, avversario di Riyadh e degli altri paesi della "Nato araba" (Emirati, Egitto e Bahrain). E la Giordania, custode della Spianata delle moschee, avrebbe accettato il coinvolgimento dei sauditi pur di tenere la Turchia lontano da Gerusalemme.
   Sono colloqui delicati e clandestini, condotti da piccoli team di diplomatici e funzionari di Israele, Stati uniti e Arabia saudita», ha spiegato a Israel HaYom un anonimo funzionario saudita, sottolineando la nuova posizione adottata dalla Giordania. A persuadere il regno hashemita a rimuovere il suo veto alla presenza saudita sarebbe stato il «comportamento» dei rappresentanti palestinesi entrati, con l'approvazione di Amman, nel Consiglio del Waqf in risposta alla decisione di Israele di installare, tre anni fa, metal detector sulla Spianata e agli incidenti tra polizia israeliana e fedeli musulmani lo scorso anno alla Porta della Misericordia.
   Secondo il giornale israeliano, sarebbero stati i palestinesi ad aprire la strada di Erdogan al sito religioso - terzo luogo santo dell'Islam (il Monte del Tempio per gli ebrei) - con progetti per decine di milioni di dollari affidati a ong turche. Amman per fermare i turchi ha rinunciato alla gestione esclusiva in cambio di generose donazioni saudite per il Waqf di Gerusalemme.
   Dal Waqf non abbiamo ottenuto un commento ufficiale ma fonti palestinesi ci fanno sapere che lo sceicco Azzam al Khatib, direttore generale della fondazione, definisce l'articolo privo di fondamento e nega il via libera giordano ai sauditi. Occorre considerare che Israel HaYom è una sorta di megafono di Benyamin Netanyahu e potrebbe aver amplificato la notizia a sostegno delle affermazioni del primo ministro riguardo i rapporti che Israele starebbe stringendo con una parte del mondo arabo islamico. Il giornale ha aggiunto che Israele e Usa cercano il sostegno saudita al piano Trump e al progetto di annessione allo Stato ebraico di larghe porzioni di Cisgiordania palestinese, perché Riyadh «porta con sé il sostegno degli Emirati e del Bahrein. Proprio ieri il ministro della difesa israeliano Benny Gantz ha dato ordine al capo di stato maggiore Aviv Kochavi di prepararsi alla attuazione del piano di annessione.
   L'Arabia saudita a febbraio aveva ribadito che «il miglioramento delle relazioni con Israele avverrà solo quando verrà firmato un accordo di pace conforme alle condizioni palestinesi. In realtà Riyadh e i paesi alleati dietro le quinte hanno stabilito con Tel Aviv un'alleanza strategica, contro l'Iran e la Turchia di Erdogan. Non è un mistero che in Nordafrica il generale e uomo forte di Bengasi, Haftar, riceva dagli Emirati sostegno finanziario e militare contro il governo del premier Sarraj a Tripoli sostenuto e armato da Erdogan.
   Nelle scorse settimane sono circolate voci sull'impiego da parte di Haftar di armi di fabbricazione israeliana per abbattere i droni turchi usati dai miliziani agli ordini di Sarraj per riconquistare il territorio perduto. Il portale d'informazione al Monitor, riferisce che l'Egitto ha messo in piedi nel Mediterraneo una sorta di «Santa Alleanza, con Grecia, Cipro, Emirati e Francia per contrastare le mosse turche nel Mediterraneo, in particolare le ricerche di giacimenti di gas.

(il manifesto, 2 giugno 2020)


Canada: scoperta alla vigilia di Shavuot sinagoga vandalizzata

Dei vandali hanno saccheggiato una piccola sinagoga di Montreal, in Canada, qualche tempo dopo la sua chiusura settimane fa a causa della pandemia di COVID-19 in quella che è stata descritta come una delle peggiori profanazioni della sinagoga locale, ospitata in una residenza privata nel sobborgo in gran parte ebraico di Côte St. Luc.
Il danno alla congregazione sefardita di Kol Yehouda includeva tallitot e tefillin gettati per terra nei bagni, Rotoli di Torah tagliati e lanciati sul pavimento, altri oggetti religiosi gravemente danneggiati e graffiti antisemiti.
La polizia sta indagando sull'attacco e, soprattutto, scoprire quando l'incidente è realmente accaduto.
"Chiaramente, non si può rimanere insensibili a quello che è successo", ha detto il congregante Ralph Amar, che mercoledì ha scoperto il vandalismo quando è passato a prendere alcuni oggetti per la festa di Shavuot. Ha definito l'incidente "atroce" e un "massacro".
Allo stesso modo, David Birnbaum, parlamentare provinciale del distretto elettorale in cui si trova la sinagoga, ha definito l'incidente un atto "disgustoso, codardo".
Michael Mostyn, CEO di B'nai Brith Canada, ha affermato di essere stato "sconvolto" da "questo disgustoso atto di antisemitismo alla vigilia di … Shavuot", la festa che segna la donazione della Torah al popolo ebraico.

(Bet Magazine Mosaico, 1 giugno 2020)


Focolai di Coronavirus nelle scuole di Gerusalemme: migliaia di studenti in quarantena

di Susanna Picone

 
Ingresso del liceo Gymnasia Rehavia a Gerusalemme, 29 maggio 2020. La scuola è stata chiusa dopo che a numerosi studenti e membri del personale è stato diagnosticato il Covid-19
Molte scuole superiori di Gerusalemme sono state chiuse oggi dopo che è arrivata la conferma, negli ultimi giorni, di decine di casi di positività al nuovo coronavirus tra personale e studenti. Secondo quanto riporta il quotidiano Haaretz, la maggior parte di questi nuovi contagi al Covid-19 è stata registrata in un solo istituto, la Gymnasia Rehavia. Solo in questo liceo sono stati confermai oltre 130 casi di coronavirus. Almeno un caso di positività al Covid-19 è stato accertato invece in altre quattro scuole superiori della città: la Scuola d'Arte, la Zalman Aranne, la Masorti e la Paula Ben-Gurion. E attualmente circa 1.500 persone, tra dipendenti delle scuole e studenti che le frequentano, sono state messe in quarantena. Sono stati messi in quarantena anche 278 studenti e 35 membri del personale della scuola Ofek di Givat Ze'ev, a nord di Gerusalemme, che è stata chiusa dopo che un insegnante è risultato positivo. Il Covid-19 è stato poi diagnosticato a uno studente della città settentrionale di Hadera: la scuola che frequenta, un istituto interdisciplinare, ha annunciato che i suoi 2.200 studenti torneranno alla didattica a distanza per evitare pericoli. Molti studenti di diverse scuole di Be'er Sheva, nel Sud di Israele, sono finiti in quarantena fino al 9 giugno e appena a Nord di questa località, nella città beduina di Rahat, 750 studenti e il personale del Liceo Artistico sono stati mandati a casa dopo che un insegnante è risultato positivo al Covid-19.

 A Gerusalemme riapre dopo 2 mesi la Spianata delle moschee
  Dopo una chiusura di 70 giorni dovuta alla pandemia, a Gerusalemme domenica è stata riaperta al pubblico la Spianata delle moschee. Secondo la agenzia di stampa palestinese Wafa, migliaia di persone si sono subito riversate al suo interno. In vista della riapertura la moschea al-Aqsa era stata completamente sterilizzata nei giorni scorsi e ieri i fedeli hanno avuto istruzione di rispettare le distanze di sicurezza fra di loro e di astenersi dal raggiungere i luoghi di preghiera nel caso non fossero in condizioni sanitarie idonee.

 Coronavirus in Israele: riapertura graduale per le scuole
  Israele non è stato particolarmente colpito dalla pandemia: finora ha registrato poco più di 17.000 casi e meno di 300 decessi. Il governo ha introdotto nei mesi scorsi misure severe per limitare il contagio, poi nella prima settimana di maggio ci sono state delle riaperture. La riapertura delle scuole è avvenuta in maniera graduale a partire dal 10 maggio scorso.

(fanpage.it, 1 giugno 2020)


Gerusalemme riapre il Santo Sepolcro

Lo scorso 26 maggio è stata riaperta a Gerusalemme la Basilica del Santo Sepolcro, luogo simbolo della cristianità, da sempre meta di pellegrini provenienti da tutto il mondo.
   "La chiusura del Santo Sepolcro si era resa necessaria per ottemperare alle norme previste dal Ministero della Salute, per evitare gli assembramenti e gli eventuali rischi di contagio, a seguito della crisi apertasi con la diffusione del Covid 19. La riapertura del Santo Sepolcro è un segnale importante della normalizzazione della gestione dei luoghi di interesse storico e, naturalmente, di tutti quei siti di fondamentale importanza per un ritorno, anche se lentamente, ad una situazione di movimento e di aggregazione, in sicurezza, nel rispetto del normative previste" ha dichiarato Avital Kozter Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo.
   Per motivi di sicurezza e al fine di evitare il rischio di una nuova diffusione dell'infezione COVID-19, il Santo Sepolcro avrà dei limiti agli ingressi: all'inizio il numero sarà limitato a 50 persone e la Basilica sarà accessibile solo a coloro che non hanno febbre o sintomi di infezione e indossano adeguati dispositivi di protezione per il viso.
   Sarà inoltre necessario mantenere una distanza minima di 2 metri tra ogni persona ed evitare qualsiasi atto di devozione che possa includere un contatto fisico come toccare e baciare le pietre, le icone, i paramenti e il personale della Basilica; oltre a rispettare sempre le istruzioni fornite.

(Quality Travel, 1 giugno 2020)


Il cyber-attacco contro Israele per manomettere il sistema idrico

L'Iran ha tentato di aumentare il cloro nell'acqua. L'obiettivo era bloccare i computer che regolano l'afflusso, che sarebbero dovuti andare in tilt "ingannati" dalla troppa quantità di cloro presente. Fermato sul nascere, l'attacco è solo uno degli ultimi episodi della guerra sotterranea tra i due Paesi.

di Alberto Flores D'Arca

All'inizio di aprile l'Iran ha lanciato un cyber-attacco contro il sistema idrico di Israele. L'obiettivo era quello di lasciare decine di migliaia di civili (e centinaia di fattorie) senza una goccia d'acqua nel pieno della crisi coronavirus e durante una eccezionale ondata di caldo che ha colpito un mese fa lo Stato ebraico.
   Un attacco preparato con cura. Con un codice informatico (scritto in lingua farsi) che ha fatto un vero e proprio giro del mondo - con passaggi in server negli Stati Uniti ed in Europa per nascondere le proprie origini - che doveva bloccare i computer che regolano l'afflusso idrico in Israele, "ingannati" dalla troppa quantità di cloro aggiunto nell'acqua.
   Cyber-attacco bloccato sul nascere - grazie ai sospetti di un gruppo di addetti alle pompe in una zona centrale di Israele che hanno notato come queste si accendessero e spegnessero senza alcun motivo - appena in tempo per evitare una situazione drammatica in un Paese da sempre alle prese con il "problema acqua" e dove l'avanzato ma delicato sistema idrico deve funzionare alla perfezione.
   "Il cyber-inverno sta arrivando". In una dichiarazione a metà maggio - dopo che un giornale israeliano (Yedot Ahronoth) aveva dato senza troppa enfasi e particolari la notizia dell'attacco - Yigal Unna, direttore generale dell'Israel National Cyber Directorate aveva parlato di "recenti sviluppi" che hanno inaugurato una nuova era di guerra segreta: "Non c'è cosa che descriva abbastanza quanto velocemente e quanto follemente si stiano muovendo gli attacchi nel cyberspazio. Penso che ricorderemo l'aprile e il maggio 2020 come un punto di svolta nella storia della cyberguerra moderna. Se i cattivi fossero riusciti nel loro complotto, ora ci troveremmo ad affrontare, nel bel mezzo della crisi da coronavirus, danni molto ingenti alla popolazione civile, una grande mancanza d'acqua e anche qualcosa di peggio".
   Dopo una riunione d'emergenza del governo con i responsabili della sicurezza nazionale e gli addetti alla cyber-guerra, Israele decide (9 maggio) di rispondere all'attacco "organizzato e sincronizzato" dell'Iran con un attacco informatico a un porto vicino a Bandar Abbas, nel sud del Paese governato dagli ayatollah. Su ordine di Naftali Bennett, allora ministro della Difesa in carica, Israele ha effettuato un attacco di "piccole proporzioni ma molto sofisticato" contro il porto di Shahid Rajaee che gestisce quasi la metà del commercio estero dell'Iran (stando alle rivelazioni fatte al Financial Times da due funzionari della sicurezza israeliana).
   Quanto accaduto negli ultimi due mesi è l'ultimo (solo per ora) capitolo della guerra sotterranea che vede Israele opporsi all'Iran. Guerra che negli ultimi due anni si è svolta soprattutto a livello informatico, con 'hacking' ad alta tecnologia, cyber-attacchi a siti governativi e militari e uso "digitale" dei servizi segreti e di spionaggio.
   In passato Israele è stato accusato di aver creato (insieme con gli Stati Uniti) il 'worm' informatico Stuxnet nel tentativo di distruggere il programma nucleare di Teheran, l'Iran ha tentato negli ultimi anni più volte (quasi sempre senza successo) di attaccare lo Stato ebraico, ma ha dimostrato - vedi attacco ai computer e alle istallazioni petrolifere del gigante saudita Aramco - di aver migliorato molto le sue qualità di cyber-guerra.
   Oggi la procedura standard in Israele è che i sistemi informatici delle organizzazioni di sicurezza (il Mossad, le forze di difesa israeliane, lo Shin Bet, il reattore nucleare di Dimona, l'Istituto biologico di Nes Tziona, le industrie militari) e delle infrastrutture civili critiche non sono collegati a Internet, al fine di prevenire un potenziale effetto domino che colpirebbe altri siti e infrastrutture in caso di attacco cibernetico. Secondo Unna il tentativo di hacking nei sistemi idrici di Israele ha segnato però "una prima pericolosa volta" perché "mira a causare danni alla vita reale dei civili".

(la Repubblica, 1 giugno 2020)


Israele, niente pubblico allo stadio? L'Hapoel Tel Aviv segna e i calciatori esultano così

di Carmelo Barillà

L'assenza di pubblico allo stadio sarà un problema in quasi tutto il mondo per i prossimi mesi. Anche in Israele si gioca a porte chiuse ma ci si ingegna. L'Hapoel Tel Aviv segna sul campo del Maccabi Haifa con Moti Barshazky. Ma ad applaudire non c'è nessuno. Ecco spuntare l'idea geniale, una vera chicca che potrebbe essere riproposta da altri. Maor Buzaglo, compagno di squadra dell'autore del gol, si trasforma in tifoso e va sugli spalti. Per la cronaca, il Maccabi ha poi vinto 1-2. Una gioia doppia.

(Calcio Web, 1 giugno 2020)


I pregiudizi anti israeliani dei giallorossi

La lettera della vergogna dei 70 giallorossi contro lo Stato di Israele

di Fiamma Nirenstein

E' sconfortante che settanta parlamentari Pd e 5 Stelle abbiano firmato una letterina così misera per il presidente Conte ( che sembra dopo abbia telefonato a Netanyahu per perorarne l'ascolto) dopo aver discusso una mozione identica in commissione esteri. Stesse note, stesso tono, stessi errori, stesso cinismo, stesso pregiudizio che stavolta dallo Stato d'Israele, la vittima preferita, si estendono al presidente Trump, anche lui un pasto prelibato per i benpensanti.
   Cosa dice la letterina? Condanna la prossima eventuale «annessione» di «alcuni territori» della Cisgiordania ispirata dal piano Trump, la chiama «aperta violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite», e assicura che «essa metterebbe una pietra tombale su ogni rilancio del processo di pace in Medio Oriente e sulla prospettiva di due popoli e due Stati».
   Ma il rilancio c'è, ed è qui, e propone proprio due Stati per due popoli. I palestinesi hanno detto di no a ogni proposta di pace, anche a quelle che gli conferivano tutti i territori compresa Gerusalemme. Il punto non è mai stata la terra, ma il rifiuto della legittimazione di Israele.
   E poi, il diritto ai «territori» è inventato: la risoluzione dell'Onu che si occupa della sistemazione post '67 parla di «territori» e non «dei territori», considerando la sicurezza di Israele. Non sono mai esistiti «territori palestinesi», né sono mai stati «illegalmente occupati».
   Quello che i 70 chiamano Transgiordania è la Giudea e la Samaria storica: gli Alleati riuniti a Sanremo 1920, il Mandato Britannico che doveva realizzare la dichiarazione Balfour del 1917, tutti si impegnarono per lo Stato Ebraico nei suoi confini storici. Gli ebrei vengono dalla Giudea, il buon Samaritano viene dalla Samaria, esse erano parte di Israele. Ma parce sepultis. La Giordania li occupò illegalmente nel 1948.
   Nel '67 Israele sotto attacco da parte di Egitto, Iraq, Siria e Giordania si salva e conquista la zona occupata dalla Giordania, il West Bank. Nel '93 gli accordi Oslo, firmati da Arafat, danno ai palestinesi le aree A e B sotto controllo amministrativo, e a Israele l'area C sotto controllo militare, quella di cui si discute adesso. Gli ebrei già vivono là, non vogliono strappare terra, semplicemente intendono trasformare il potere dei centri abitati israeliani nell'Area C da militare a civile, solo per il 50 per cento dell'area. Nell'insieme il 30 per cento di tutta la Giudea e la Samaria compresa la Valle del Giordano.
   Nessun centro palestinese viene toccato. Quindi finalmente si istituirebbe uno Stato Palestinese sul 70 per cento di tutta l'area, con swap territoriali. Il criterio seguito è che i 400mila ebrei che vivono nel West Bank possano riferirsi ai poteri civili e soprattutto che non vengano scardinati così come i palestinesi. I 10mila cittadini ebrei che lo sgombero di Sharon cacciò dalla Striscia di Gaza abbandonarono case e strutture che sarebbero state distrutte per piazzare al loro posto missili di Hamas. Il piano invita a colloqui e a compromessi e intanto istituisce «due Stati per due popoli» finanziando i palestinesi. Anche l'Ue è spaccata sul tema.
   I Paesi Sunniti moderati non sono contro, reagiscono furiosamente la Turchia, l'Iran, gli estremisti. Il piano richiede misure minime di sicurezza, e uno Stato palestinese che rispetti i diritti umani, consideri che i terroristi fecero più di 2.000 morti e hanno segnato per sempre la vita di Israele. La lettera ignora che il disegno del piano è ricalcato sulle idee di Ytzchak Rabin che considerava indispensabile i confini difendibili. E tiene conto finalmente del fatto che gli ebrei sono qui la popolazione aborigena. Lo sanno i 70?

(il Giornale, 1 giugno 2020)


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