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Notizie su Israele 292 - 20 aprile 2005

1. Estratti da un colloquio con un terrorista
2. L'affidabilità dell'Anp
3. «Nessun credito a chi non rispetta i diritti umani»
4. Conflitto di interessi nella striscia di Gaza?
5. Pellegrinaggi antisionisti
6. Una situazione che può diventare esplosiva
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Geremia 17:7-8. «Benedetto l’uomo che confida nel Signore, per cui il Signore è la sua fiducia. Egli è come un albero piantato vicino all’acqua, che distende le sue radici lungo il fiume; non si accorge quando viene la calura e il suo fogliame rimane verde; nell’anno della siccità non è in affanno e non cessa di portar frutto.»
1. ESTRATTI DA UN COLLOQUIO CON UN TERRORISTA




Un palestinese di Gaza, militante di Hamas, confessa di essere stato addestrato in Siria, nel campo di Ahmed Jibril.

Intervista di Ehud Ya'ari

Il colloquio, nella sua integralità, è stato diffuso il 29 marzo 2005 sul secondo canale della televisione israeliana.


Osama Matar: Il mio comandante è venuto da me e mi ha detto che anzitutto dovevo imparare. Poi mi hanno detto che ci sarebbe stato un corso di addestramento che sarebbe durato un mese o due, e che se volevo potevo partire e ritornare. Ho detto OK e sono partito in dicembre. Sono andato in Siria e ho seguito un corso di addestramento fino a febbraio. A marzo sono rientrato.

Ehud Ya'ari: Dove è avvenuto l'addestramento?
Osama Matar: In Siria.

D. Dove, in Siria?
R. A Damasco.

D. Proprio in città?
R. No, nella periferia, non in città.

D. In che cosa consisteva l'addestramento?
R. Armi leggere e un po' di elettricità.

D. Dei circuiti elettrici?
R. Sì, dei circuiti elettrici.

D. E che cos'altro?
R. Dei sistemi elettronici.

D. Questo significa che Hamas ha dei campi di addestramento in Siria. E i servizi segreti siriani non ne erano al corrente?
R. Esattamente.

D. Come è possibile?
R. E' un campo di Hamas, un campo del comandante Jibril (FPLP).

D. Jibril?
R. Sì, Ahmed Jibril. I militanti di Hamas vi risiedono come se fossero suoi uomini. Si addestrano laggiù e nessuno sa quello che fanno.

D. Ma non sembra logico che abbiano delle attività in Siria, che vi addestrino della gente e che il governo non lo sappia, perché la Siria è un paese che dipende dai servizi segreti.
R. Lo so.

D. E' un paese pieno zeppo di ufficiali dei servizi segreti.
R. Lo so. Può darsi che lo sappiano, ma che facciano finta di non vedere.

D. (Proche-Orient.info, 18 aprile 2005)

Per vedere il video con sottoscritte in inglese cliccare qui





2. L'AFFIDABILITÀ DELL'ANP




Israele: per la pace la tregua non basta

di Guido Bedarida

In queste ore il primo ministro israeliano Ariel Sharon incontra il presidente degli Stati Uniti George W. Bush per esprimere le proprie preoccupazioni sulla tregua assicurata dall'Anp, tregua che pur avendo ridotto di molto la consistenza della seconda Intifada, non ha evitato sia il lancio di oltre cento colpi di mortaio in territorio israeliano sia la necessità che le forze di sicurezza israeliane effettuassero alcuni interventi tesi a prevenire attentati. Sharon sa che i gruppi terroristi palestinesi stanno approfittando di questi momenti per rafforzarsi e il presidente dell’Anp Abu Mazen non sembra sufficientemente deciso a fermarli.
    Il problema però è più profondo di quanto non possa sembrare ed ancora una volta riguarda l'affidabilità e la democraticità dell'Anp, unica garanzia per il mantenimento degli accordi presi con Israele. Infatti, mentre il mondo salutava le elezioni palestinesi come un grande traguardo e la base per la nascita di un nuovo stato, in pochi si ricordavano e facevano presente che tali elezioni, ammesso che fossero libere e democratiche, non bastano a costituire uno stato democratico che invece richiede, tra i suoi elementi fondanti, anche la corretta e certa amministrazione della Giustizia (il rispetto dei diritti umani, il rispetto delle regole, la loro certezza); l’attuale gestione palestinese, figlia dei metodi dittatoriali di Yasser Arafat, è purtroppo quanto di meno democratico e civile vi possa essere.
    Se è vero infatti che il governo dell'Anp prevede tra gli altri anche il ministero della Giustizia bisogna ricordare che esso adotta ancora il Codice Penale Rivoluzionario del 1979 (ereditato direttamente dall'Olp), che include la pena di morte e la ritiene applicabile da corti militari e corti di sicurezza.
    I reati per cui è prevista la pena capitale sono ben 42 e tra di essi è compreso naturalmente anche il "tradimento" il cui concetto è molto elastico: un certo scalpore ha suscitato il caso in cui tale pena è stata comminata ad un anziano commerciante arabo reo di aver venduto ad ebrei alcuni suoi terreni siti in Gerusalemme Est.
    Se il codice penale palestinese non brilla per modernità purtroppo non da meno sono i metodi con cui viene applicato: i processi, che di solito non durano più di un giorno, non necessariamente prevedono la difesa e di fatto non la permettono, così come non è prevista possibilità di appello.
    A coronamento dello stravolgimento di questo sistema di “giustizia” c’e’ infine quello che in altri codici è un atto di liberalità: la facoltà di intercessione da parte del capo dello stato a favore del condannato, che nel Codice Rivoluzionario si ribalta e diviene addirittura un plauso ufficiale alla eliminazione del colpevole: tutte le condanne a morte sono infatti confermate direttamente dal presidente dell'Anp.
    Arafat, per motivi di opportunità politica, sospese ufficialmente le esecuzioni nel 2002, ma dal 1994 ad oggi circa 300 persone (tra “collaborazionisti" veri o presunti) sono state uccise a seguito di processi farsa o con esecuzioni sommarie ad opera di milizie armate, attualmente il numero dei condannati alla pena capitale da parte della “giustizia” palestinese continua a salire.
    Abu Mazen, anche per rafforzare una leadership tutt’altro che affidabile, proprio in questi giorni ha annunciato che le esecuzioni riprenderanno presto e la loro legittimità sarà rafforzata da una nuova conferma non prevista dal Codice: l’avallo religioso del Mufti' Ikima al Sabri che naturalmente non ha fatto venire meno il suo supporto politico e propagandistico.
    Il governo israeliano sta adoperandosi per fare fronte a questa situazione ed ha incaricato i servizi di sicurezza israeliani di proteggere e nascondere oltre mille famiglie palestinesi mentre le denunce di associazioni per i diritti umani israeliane, palestinesi ma anche internazionali quali Nessuno Tocchi Caino e Amnesty International sono state numerose ma senza alcun esito, tanto che il ministro della giustizia palestinese ha dichiarato che non accetterà alcun tipo di pressione esterna.
    Se queste sono le premesse e le garanzie del nascente stato palestinese, Sharon dovrà chiedere a Bush molto di più che supporto per il mantenimento di una tregua che rimanda ed amplifica i rischi futuri: e’ infatti molto difficile che qualsiasi garanzia possa essere risolutiva, c’è ormai bisogno che pressioni e soluzioni si muovano su piani e progetti di più ampio respiro e che si levino alte le denunce da parte di organismi internazionali troppo spesso strabici e complici dei massacri. Il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan e la sua famigerata riforma dell’Onu, propagandata da 10 anni e mai neppure cominciata, restano l’alibi di molti governi anche occidentali, ma per Israele ed Usa il tempo stringe, ancora una volta la soluzione e le speranze per la pace andranno cercate altrove, ancora una volta si conferma l’urgenza di dare vita ad una Comunità delle Democrazie che sia davvero il luogo di sviluppo della democrazia e non la pubblica tribuna dei dittatori che è divenuta l’Onu.
    
(Notizie Radicali, 12 aprile 2005)





3. «NESSUN CREDITO A CHI NON RISPETTA I DIRITTI UMANI»




Frattini: no alla riabilitazione di Hamas

di Giuseppe Sarcina

BRUXELLES - Per Franco Frattini«non ci sono nuove ragioni per togliere Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche». L’attuale vice presidente della Commissione europea (portafoglio alla Giustizia, libertà e sicurezza), guidava, in qualità di presidente di turno, il Consiglio dei ministri degli Esteri che, il 6 settembre 2003, decise di mettere al bando la «rete palestinese». Per Frattini non è cambiato nulla:«L’Europa non può concedere un assegno in bianco ad Hamas».
    Non crede alla possibilità di una trattativa tra Hamas e le diplomazie europee? «Sinceramente più che un negoziato, vedo un’azione politica da parte di Hamas. Un sasso buttato nello stagno, per vedere quali sono le reazioni in Europa. A me sembra chiaro che questa organizzazione stia cercando una legittimazione della Ue. Sta tentando il colpo, insomma, per rendere presentabile la propria candidatura nelle elezioni politiche in Palestina».
    Invece resta, semplicemente, un’organizzazione terroristica?
    «Hamas è un partito-movimento che guarda da una parte ai gruppi più radicali, quegli stessi che ancora in questi giorni spingono, nei campi profughi, per una ripresa delle azioni violente contro Israele. Dall’altra parte si propone come forza politica: alle municipali ha preso più voti del Fatah, cioè il partito del presidente Mahmoud Abbas. E ora punta alle politiche».
    E chiede un lasciapassare diplomatico alla Ue...
    «Appunto. Penso che proprio non ci siano le condizioni per rilasciarlo. Nell’atto costitutivo di Hamas è scritto che si vuole "l’estinzione di Israele". Basterebbe solo questo per capire che la Ue, impegnata com’è nel ruolo di arbitro nel processo di pace nel Medio Oriente, non possa assolutamente fare aperture di credito a chi si propone di distruggere un Paese vicino». Hamas potrebbe cambiare la sua «ragione sociale»?
«Il problema è enorme. All’interno di questa realtà anche le fondazioni che operano per scopi socio-educativi incitano alla violenza verso Israele, basta guardare certi programmi scolastici. Oppure continuano a promettere sostegno economico ai parenti dei ragazzi-kamikaze. Per non parlare degli ultimi episodi di intolleranza quotidiana nei confronti delle donne. Tutte cose su cui non possiamo tacere e, men che mai, sorvolare: c’è, insomma, una questione generale che riguarda il rispetto dei diritti umani».
    Ma il coinvolgimento nelle elezioni, in un processo democratico per quanto rudimentale, non può favorire un’evoluzione del gruppo? In altri Paesi, per esempio in Algeria, l’emarginazione politico-istituzionale dei partiti radicali ha fatto crescere fanatismo ed estremismi.
    «Accetto il rilievo. Io non sono contrario al fatto che Hamas partecipi alle elezioni politiche. Lo faccia, prenda il potere se l’elettorato glielo affida. Però sarebbe sbagliato chiedere all’Europa di favorire questo processo. Noi non possiamo dare oggi in mano una carta a una formazione che non dà garanzie. Al fondo c’è un ragionamento politico. Negli ultimi mesi l’Unione Europea ha seguito con attenzione i passi del Presidente Mahmoud Abbas, i suoi sforzi verso la pace e lo sviluppo della democrazia in Palestina». Quindi «sdoganare» Hamas significherebbe danneggiare Mahmoud Abbas e bloccare il processo di pace?
    «E’ così. Dobbiamo guardare con attenzione a chi è il vero interlocutore, a chi sta cercando di accreditarsi nel campo internazionale. E questo è Mahmoud Abbas. Faccio osservare che nel testo originale del "patto" firmato al Cairo tra Autorità palestinese e formazioni radicali non si parla di "tregua" in Medio Oriente, ma di "situazione di calma", che è ben altra cosa. Anzi, è un’espressione che non si capisce bene che cosa significhi e quali certezze dia per il futuro. Voglio dire: la stabilità in quell’area è ancora tutta da costruire. Per questo l’Europa non può indebolire chi, come Mahmoud Abbas e i dirigenti del partito Fatah, si stanno impegnando sulla strada della pacificazione».
    
(Corriere della Sera, 19 aprile 2005)





4. CONFLITTO DI INTERESSI NELLA STRISCIA DI GAZA?




L'Alta Corte di Giustizia di Gerusalemme ha espresso perplessità sul lavoro del funzionario italo-israeliano a capo dell'organismo preposto all'evacuazione della striscia di Gaza, anche manager della Mehadrin Ltd. In sua difesa è sceso in campo il Ministro della Giustizia

GERUSALEMME – Sembrano cadere le accuse di conflitto di interessi che l'Alta Corte di Giustizia di Gerusalemme aveva rivolto nei giorni scorsi nei confronti di Yonathan Bassi, da circa un anno e mezzo a capo dell'organismo nominato dal Governo del Primo Ministro Ariel Sharon per l'evacuazione degli oltre settemila coloni israeliani che vivono nella striscia di Gaza.
    Le rimostranze dell'organo di giustizia nei confronti di Bassi, nato nel kibbutz di Sde Eliahu da padre veneziano e madre ferrarese trasferitisi in Terra Santa all'indomani della fondazione dello Stato di Israele, erano nate dal fatto che, in base a quanto risulterebbe dalle prime indagini, anche dopo aver assunto l'incarico statale il funzionario di origini italiane avrebbe continuato a lavorare per la Mehadrin Ltd, azienda che opera nel settore agricolo. Le perplessità dei giudici israeliani erano nate in considerazione del fatto che la Mehadrin Ltd è titolare di numerosi terreni nella località di Nitzanim, la stessa area designata da Bassi come nuova destinazione di parte dei coloni che varranno evacuati da Gaza .
    Ieri sulla questione è intervenuto il Ministro dell Giustizia israeliano, il quale ha rivelato alla Corte di Alta Giustizia di Gerusalemme come Bassi abbia promesso, già dallo scorso mese di novembre, di abbandonare qualsiasi attività che avrebbe potuto far nascere un conflitto di interessi. In particolare. il dirigente italo-israeliano avrebbe assicurato ai vertici di Governo di non partecipare ad alcun progetto che avrebbe potuto produrre benefici alla compagnia di cui egli rimane ancora uno dei direttori.
    Nei giorni scorsi, Bassi era intervenuto in prima persona per spiegare come le accuse nei suoi confronti fossero infondate. "Attualmente – aveva infatti dichiarato Bassi in un'intervista rilasciata al Jerusalem Post - dedico tre quarti del mio tempo al mio impegno governativo, ed un quarto ad altre cose. Ho 56 anni e svolgo incarichi per il Governo da poco meno di un anno e mezzo; non posso dire con certezza fino a quanto durerà. Per questo mi sembra naturale che io abbia ancora dei legami con le attività che svolgevo in precedenza". Nel corso della stessa intervista Bassi aveva inoltre descritto

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la Mehadrin Ltd come una public company che si occupa esclusivamente della produzione, del confezionamento e della commercializzazione di agrumi.
    Nel frattempo, nel corso di una conferenza stampa indetta ieri, per la prima volta da quando ha assunto l'incarico di capo dell'organismo preposto all'evacuazione della striscia di Gaza, Bassi ha criticato pubblicamente la legge che prevede compensazioni in denaro per i coloni che decidano di lasciare volontariamente i territori di Gaza. "La questione più controversa della legge di compensazione ai coloni - ha dichiarato infatti Bassi - è che i veterani militari che sono nati nelle colonie non sono elegibili per ottenere la compensazione stessa; in questo senso è auspicabile una modifica della legge" .

(News Italia Press, 14 aprile 2005)





5. PELLEGRINAGGI ANTISIONISTI




Viaggio in Israele (e nell'antisemitismo)

Sono rientrato in Italia dopo una breve permanenza in Israele. Ho infatti accettato di accompagnare i miei genitori in un viaggio in "Terra Santa" (per usare un termine che alcuni preferiscono) organizzato da alcune importanti organizzazioni cattoliche.
    Era da tempo che desideravo toccare con mano la realtà israeliana e questa si è rivelata una preziosa occasione.
    Il viaggio mi ha portato ad Haifa, Nazareth, Betlemme, Gerusalemme, Gerico ed Abu Ghosh - quindi tanto in territori sotto il diretto governo di Israele, sia in territori attualmente amministrati dall'ANP. Abbiamo anche avuto incontri con autorità israeliane e palestinesi, tra cui il ministro del turismo di Israele, il ministro del turismo dell'ANP, il sindaco di Gerusalemme ed il sindaco di Betlemme.
    Il viaggio è stato molto significativo, per le bellezze naturali (dal lago di Tiberiade, al deserto di Giuda, al Mar Morto), per il valore storico ed artistico di molte zone oltre che naturalmente per l'interesse geopolitico delle aree attraversate. Gerusalemme è davvero bella - più di quanto mi aspettassi - e la vista dal Monte degli Ulivi da sola giustifica gran parte della spesa.
    E' stato molto significativo toccare con mano cosa significhi per Israele vivere sotto assedio - costretto a difendersi con la consapevolezza che perdere anche una sola guerra significherebbe esporre la propria popolazione al genocidio.
    Ma questo viaggio mi è stato prezioso anche per un altro aspetto. Mi ha permesso di verificare quanto sia possente il sentimento antisionista ed antisemita all'interno della Chiesa Cattolica.
    Il taglio del viaggio è stato pesantemente antiisraeliano e le nostre guide non hanno perso una sola occasione per diffondere la propaganda più faziosa nei confronti di Israele.
    Un buon 70% di quello che è stato detto erano falsità belle e buone. Un 30% si riferiva ad elementi reali, forniti tuttavia in modo del tutto decontestualizzato, senza aiutare a conoscerne ed a comprenderne le cause.
    Io ho una sufficiente cultura sull'argomento per potermi porre in maniera critica nei confronti di queste falsificazioni. Ma chi abbia partecipato a questo pellegrinaggio senza sapere niente o quasi sulla questione arabo-israliana avrà sicuramente avuto modo di "imparare" un certo numero di cose - e chi abbia partecipato già armato di pregiudizio antiisraeliano avrà trovato sicuramente in questo viaggio le "conferme" che cercava.
    I nostri fraticelli hanno "reso chiaro" come l'intera responsabilità della crisi è da addebitarsi ad Israele, come siano Netanyahu e Sharon i responsabili dell'Intifada e delle migliaia di morti. Come i palestinesi sono sottoposti ad uno sfruttamento continuo dal colonialismo militarista e razzista degli ebrei. Come nelle scuole israeliane si istighi all'odio e come avvengano in Israele continue violazioni dei diritti umani. Come le eventuali azioni palestinesi siano il comprensibile frutto delle provocazioni degli ebrei. Come Arafat sia stato un grande leader (anche se un pelino scaduto in punto di morte perché aveva accatastato un po' di soldi in Svizzera, anziché investirli tutti nella gloriosa battaglia antisionista).
    Ma il confine tra antisionismo ed antisemitismo è apparso davvero molto sfumato. Ogni riferimento agli ebrei fatto dalle nostre guide era volto a dimostrare quanto siano arroganti, prevaricatori, meschini, avidi, adepti del Dio denaro, a dimostrare la loro forza di lobby ed il loro controllo della finanza internazionale. In pochi giorni i nostri fraticelli hanno tirato fuori in maniera ripetuta praticamente tutti gli stereotipi della propaganda hitleriana, tra i plausi generali di schiere di cattolico-sociali e di margheritini dalla faccia pulita. Si è arrivati al punto di dichiarare che la visita a Yad Vashem (il memoriale dell'Olocausto) era inopportuna perché era solo una "leccata di piedi all'ebraismo".
    Si è naturalmente invitato a boicottare i negozi degli ebrei (vi ricorda niente?) ed a comprare solamente in quelli palestinesi.
    Questi fraticelli si definiscono "costruttori di pace". Io li considero invece per quello che sono: incitatori all'odio. Anche se il primo loro target sono stati gli ebrei, nel corso del "viaggio di pace" non sono mancati nemmeno strali contro i cristiani ortodossi e contro i drusi. Più morbida solamente la posizione sull'Islam, con il quale probabilmente i cattolici intravedono la possibilità di un'alleanza strategica.
    Naturalmente io ho "comprato israeliano" il più possibile, incluso qualche bel libro tra cui "The Case for Israel" di Alan Dershowitz - mi sono commosso ad Yad Vashem ed ho manifestato il mio sostegno agli israeliani con cui ho parlato ogni volta che è stato possibile.
    Certo che considerando che i "pellegrinaggi" rappresentano uno dei principali tramiti (oltre ai tg RAI ed a Repubblica) con cui gli italiani vengono in contatto con la realtà medio-orientale, l'antisionismo che li anima è davvero preoccupante. Di conseguenza è importante che noi teniamo alta la guardia e ci mobilitiamo con costanza in un'opera di controinformazione, cioè di informazione corretta.
    Per me la difesa di Israele è importante. Ogni palmo di quella terra è sacro. E non solo per ragioni religiose. E' sacro perché il popolo israeliano (al contrario del cosiddetto "popolo palestinese") ha mescolato alla terra il proprio sudore, il proprio impegno, la propria creatività, le proprie migliori energie. E' sacro perché sacro è il lavoro produttivo degli uomini e sacrosanto il loro diritto a raccogliere i frutti del loro know how e del loro impegno. Difendere Israele, dal mio punto di vista, significa quindi anche difendere i valori a me cari dell'operosità e dell'achievement.

Marco

(Newsletter Scarabello, 19 aprile 2005)





6. UNA SITUAZIONE CHE PUÒ DIVENTARE ESPLOSIVA




Nella Fort Alamo dei coloni

di  Pino Buongiorno

Bambini degli insediamenti di Gush Katif, nella Striscia di Gaza, giocano sotto lo sguardo vigile di uomini armati. Figli contro padri, ortodossi contro rabbini, radicali contro poliziotti... Alla vigilia del ritiro da Gaza, lo stato ebraico affronta il momento più drammatico della sua storia.
 
GERUSALEMME - Eccolo il deputato Effi Eitam, leader della fazione religiosa sionista nel parlamento israeliano. Eccolo con il barbone incolto, assieme alla moglie con il capo coperto e la gonna alle caviglie, mentre apre la porta della sua nuova abitazione nell'insediamento dei coloni israeliani di Gush Katif, a Gaza. Il parlamentare ultraortodosso, che guida la fronda anti Sharon, ha deciso di abbandonare la fattoria agricola di Nov, sulle alture del Golan, e di trasferirsi lungo la costa del Mediterraneo. Sfidando il diktat del generale Dan Harel, che comanda il fronte sud delle forze armate israeliane: non sarà permesso alcun nuovo residente nei 20 insediamenti di Gaza (e dei quattro della Cisgiordania), che saranno sgombrati dal prossimo 20 luglio.
    Lo show avviene a uso e consumo dei giornalisti presenti. Ma fa tanto più impressione perché alla scena assiste uno degli ufficiali che dovranno espellere gli 8.500 coloni. È il figlio del parlamentare ultrà: Itamar, vicecomandante di compagnia. «Farò il mio dovere di soldato dello stato d'Israele e obbedirò senza esitazione ai miei superiori» scatta sull'attenti Itamar, senza precisare se andrà lui stesso a portar via con la forza i genitori.
    È solo uno dei tanti paradossi di una situazione che rischia di diventare esplosiva nei prossimi tre mesi. Questa volta il nemico non è tanto (o meglio, non solo) il kamikaze palestinese o il terrorista di Hezbollah. D'ora in poi, in vista del ritiro unilaterale da Gaza, deciso dal premier Ariel Sharon con il sostegno della maggioranza del parlamento e del 67 per cento della popolazione, il nemico si anniderà soprattutto dentro la composita società israeliana. C'è il rischio, per nulla teorico, di una guerra civile.
    Ygal Kirshenzaft, un anziano colono la cui moglie è stata ferita recentemente da un cecchino palestinese, promette di farla pagare cara ai poliziotti che gli intimeranno di far le valigie assieme ai 12 figli. «L'altra volta, nell'82, quando Sharon, all'epoca ministro della Difesa, mi fece lasciare la mia casa nel Sinai, dopo il trattato di pace con l'Egitto, ci vollero otto soldati per portarmi via» si vanta. «Oggi l'evacuazione da Gaza, ordinata sempre da Sharon, nel frattempo diventato primo ministro, non è praticabile. Ci batteremo con ogni mezzo perché siamo molto più radicati con la nostra fede nel sacro diritto a restare qui nella terra di Heretz Israel (Grande Israele, ndr)».
    Non sarà un'estate tranquilla per il governo di coalizione nazionale che Sharon presiede con consumata abilità e una buona dose di machiavellismo. «Camminiamo su una lastra di ghiaccio sottilissima, che, da un momento all'altro, potrebbe spezzarsi» spiega a Panorama il vicepremier laburista Shimon Peres.
    Ben più inquietanti le valutazioni dello Shin Bet e dell'intelligence dell'esercito. Nel momento in cui la diplomazia di Gerusalemme avvia la normalizzazione delle relazioni con i paesi arabi moderati del Nord Africa e del Golfo e le 13 principali organizzazioni palestinesi s'impegnano al Cairo a sperimentare una sorta di tregua armata, l'attuazione del «piano di disimpegno da Gaza» provoca tanti e tali contraccolpi da creare seri ostacoli alla road map di Sharon.
    Avi Dichter, il direttore del servizio segreto interno, è l'uomo più vigile, ma anche il più preoccupato d'Israele. I suoi uomini raccolgono minacce e provocazioni di ogni genere. Lui puntualmente le riassume alla Knesset, le fa trapelare sulla stampa, ne fa oggetto di conferenze pubbliche. «Per lo stato d'Israele e per gli ebrei della diaspora» ha dichiarato Dichter «il terrorismo ebraico è suscettibile di creare una minaccia strategica sostanziale e di trasformare il conflitto fra Israele e i palestinesi in un confronto fra 13 milioni di ebrei e un miliardo di musulmani in tutto il mondo».
    Il riferimento, nemmeno tanto velato, è ai progetti di attentati contro la moschea di al-Aqsa, sulla spianata della città vecchia di Gerusalemme, il terzo luogo più santo dell'Islam. Se dovesse succedere un solo incidente, ne seguirebbero una rivolta palestinese nei Territori e una jihad planetaria, con il risultato ineluttabile di bloccare qualsiasi trattativa di pace con la nuova leadership di Abu Mazen. Finora lo Shin Bet è riuscito a sventare, talvolta addirittura all'ultimo minuto, i piani degli ultrareligiosi e ad arrestare i cospiratori, quasi sempre finanziati da ricchi coloni della Cisgiordania. Ma è una corsa contro il tempo e contro la sorte. «Le minacce sono reali e non sono propaganda del governo per trovare nuovi sostenitori in patria e all'estero. La difficoltà vera per i nostri servizi di sicurezza è che le cellule dei fondamentalisti religiosi sono piccole e difficili da penetrare» dice Eli Karmon, fra i massimi esperti israeliani di terrorismo, docente al centro di Herzliya.
    Secondo Karmon, ci sono tre tipi di pericoli. Il primo è appunto il gesto dimostrativo o l'attentato contro i luoghi sacri dell'Islam a Gerusalemme. I tafferugli causati a Gerusalemme Est dagli estremisti religiosi, domenica 10 aprile, sono solo i primi di una serie, fomentati da nuovi movimenti ortodossi che predicano la ricostruzione del tempio di Salomone sulle macerie della moschea di al-Aqsa. Tutto ciò va contro i precetti dei rabbini ufficiali, i quali non accettano che il tempio possa essere riedificato.
    La seconda minaccia coinvolge più direttamente il «traditore» Sharon, i suoi collaboratori più vicini e alcuni ministri laburisti, come lo stesso Peres. Si tratterebbe di una riedizione, 10 anni dopo, dell'attentato che costò la vita all'indimenticabile Yitzhak Rabin. Sharon è stato costretto a rafforzare la scorta dello Shin Bet assumendo per la prima volta un gruppo di amazzoni.
    La terza incognita riguarda il disimpegno da Gaza. Più di cento rabbini radicali hanno firmato un appello per incitare i soldati e i poliziotti a ribellarsi agli ordini dei generali e per spronare i coloni alla resistenza, se necessario armata. Spiega Karmon: «Soprattutto per i rabbini della Cisgiordania, l'evacuazione da Gaza rappresenta il primo test di una politica che potrebbe coinvolgere alla fine anche gli insediamenti nella West Bank. Sarebbe l'inizio della fine del loro sogno del Grande Israele».
    Pur promettendo 200 mila dollari a famiglia come ricompensa, pur facendo balenare la possibilità di ridislocare anche le ricche coltivazioni di frutta fra le dune incontaminate di Nitzanim, il primo ministro ha ottenuto finora il sì all'evacuazione di appena il 20 per cento dei coloni di Gush Katif. Tutti gli altri sono pronti a ripetere l'epopea di Masada, la fortezza dove nel 76 dopo Cristo gli zeloti si suicidarono pur di non soccombere alle armate imperiali di Roma. Il piano di resistenza, prima ancora dell'estremo sacrificio di mandare al rogo le 2 mila villette e serre di Gush Katif, prevede quello che non fa mistero di rivelare Aver Shimoni del consiglio regionale della costa di Gaza: «Approfittando delle prossime feste del Passover (la Pasqua ebraica a fine aprile, ndr), cercheremo di far arrivare qui 40 mila sostenitori, che si fermeranno a far muro contro soldati e poliziotti. Vedere donne e bambini battersi per difendere le loro case risveglierà la coscienza dell'opinione pubblica e Sharon sarà costretto a fermarsi».
    Secondo il comando militare del fronte meridionale, per ogni colono da portar via ci vogliono almeno quattro soldati o poliziotti. Anche senza la prevista invasione, occorrerebbero almeno 60 mila uomini per attuare la smobilitazione da Gaza e dal nord della Cisgiordania. Uno sforzo senza precedenti: in tutto, i poliziotti israeliani sono 18 mila.
    Ma non è nemmeno questo a tormentare il ministro della Difesa Shaul Mofaz. Secondo l'intelligence militare, i residenti di Gush Katif possiedono ben 3.300 pistole, fucili e razzi. In pratica, un'arma per ogni adulto. Finora autorizzate per l'autodifesa, d'ora in poi le armi potrebbero essere rivolte contro esercito e polizia. «Basta poco per creare un incidente con conseguenze imprevedibili» dice un colonnello dello stato maggiore.
    Scenari da brivido, che non prevedono un'altra possibilità paventata dalla sicurezza israeliana. E cioè che siano gli stessi gruppi palestinesi più intransigenti, su istigazione di Hezbollah o Iran o della Siria, a provocare il casus belli che farebbe precipitare il Medio Oriente nelle violenze dei giorni più bui di Yasser Arafat. I diplomatici europei e americani accreditati a Tel Aviv spediscono rapporti allarmanti ai propri governi. Sia che il piano di disimpegno abbia successo sia che fallisca, Israele dovrà affrontare nuove elezioni, nel tardo autunno o all'inizio del 2006. Lo stesso Sharon sarà sottoposto alla prova del fuoco delle primarie all'interno del Likud, tutt'altro che compatto oggi e ancor meno, si prevede, dopo il forzato ritiro dei coloni da Gaza.

(Panorama, 18 aprile 2005)





MUSICA E IMMAGINI




Odessa Bulgarish




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