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Notizie su Israele 293 - 29 aprile 2005

1. Quello che Hamas pensa del piano di ritiro
2. Considerazioni politiche di un ebreo non osservante
3. Hamas corteggia gli europei
4. Le buone intenzioni della Lega Araba
5. Un altro tentativo di definire l'ebraismo
6. Anche i militari hanno un cuore
7 Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Geremia 50:20. «In quei giorni, in quel tempo», dice il Signore, «si cercherà l’iniquità d’Israele, ma essa non sarà più, si cercheranno i peccati di Giuda, ma non si troveranno; poiché io perdonerò a quelli che avrò lasciati come residuo.»
1. QUELLO CHE HAMAS PENSA DEL PIANO DI RITIRO




I leader di Hamas: «Il piano di ritiro è una vittoria per noi»

GAZA - Il piano di ritiro del governo israeliano è una vittoria del movimento radical-islamico Hamas. Questa è l'opinione espressa dal leader dei gruppi terroristici in Gaza, Mahmud Sahar, in un colloquio con il giornale britannico "Times".
    «Molto semplice: nessuno può negare che se Israele lascerà la striscia di Gaza e una parte della Cisgiordania, questo avverrà a causa dell'intifada, della lotta armata, dei grandi sacrifici fatti dai combattenti di Hamas per questo scopo», ha detto Sahar. «Non dipende da trattative o dalla buona volontà di Israele, degli americani o degli europei».
    Se Hamas smetterà la sua violenza dopo il ritiro, è cosa che Sahar lascia aperta: «Dipende da quello che fa Israele. Adesso parla di riorganizzazione. Noi non accettiamo nessuna riorganizzazione. Noi vogliamo la loro partenza, una vera partenza, e non che la nostra sovranità venga intaccata. Se continueranno a stare ai confini tra Gaza e l'Egitto, o controlleranno le nostre frontiere al mare, e se attaccheranno le nostre case con i loro elicotteri o gli F16, questo accontenterebbe le persone che abbiamo sacrificato?
    
Programma elettorale: non collaborare con Israele

Il leader di Hamas si è espresso sulle prossime elezioni del Consiglio legislativo palestinese: «Abbiamo tre alternative: o otteniamo la maggioranza e chiediamo ad altri di attenersi coerentemente al nostro programma; o siamo una minoranza e partecipiamo al governo; o costituiremo un forte avversario politico in Parlamento». Fino ad ora Hamas ha boicottato le elezioni del Parlamento palestinese.
    Sahar presenta in questo modo il programma nel caso di una vittoria elettorale: «E' nostra intenzione riassestare edifici e ricostruirli, ripiantare alberi, far prosperare economicamente il nostro popolo. Vogliamo inoltre fare in modo che l'umore del popolo palestinese resti rivolto contro l'occupazione. Abbiamo intenzione di muoverci secondo una nuova strategia: collaborazione con gli arabi, nessuna collaborazione con gli israeliani.»
    Sahar ha fatto osservare che lui non ha fiducia di diversi rappresentanti della "vecchia guardia", cioè collaboratori del defunto leader palestinese Yasser Arafat. Alla domanda di quali membri del movimento di Al-Fatah si tratti, ha risposto: «La domanda dovrebbe essere: di chi laggiù ci si può fidare? Ci sono molti nomi, ma adesso non è nostra intenzione, e neanche nostro stile, parlare di persone in loro assenza. A suo tempo discuteremo in privato con quelli che rappresentano Fatah.»
    
(Israelnetz Nachrichten, 14 aprile 2005)





2. CONSIDERAZIONI POLITICHE DI UN EBREO NON OSSERVANTE




Né religioso, né stupido

di Daniel Hulkower

Non sono un ebreo religioso. In America, i miei venerdì sera li passavo con gli amici e i miei sabati li passavo sulla moto (se vivi a Brooklyn, New York, e hai visto una moto rossa guidata da uno con un elmetto rosso con su scritto in ebraico "È proibito dargli uno stato" - quello ero io). In Israele per me non è molto diverso; sono laico e molto fiero di essere ebreo. Sono un acceso sionista, e un fiero sostenitore della Giudea, Samaria e Gaza (infatti, sono stato a Gush Qatif due volte, e mi sto organizzando per andarci di nuovo durante il tour organizzato da Arutz 7).
    Il fatto che sono laico in un certo senso mi distingue dai miei partner della destra Sionista. Il ragionamento che sta alla base del mio appoggio agli insediamenti non è tanto religioso quanto politico. Riconosco la stupidità quando la vedo, e dare terra ai terroristi in cambio di un piano di humm "pace" è una buona definizione di stupido. So benissimo che dare territorio in cambio di pace non può funzionare e non funzionerà. Mi sono documentato abbastanza e fatto un sacco di ricerca, e ho scoperto che il concetto di territori in cambio di pace è un imbroglio della sinistra, che non garantisce nulla tranne sempre più terrorismo e una maggiore distruzione del nostro stato.
    Di recente ho visto a Haifa un cartellone che proclamava: "22 Morti. Lasciamo Gaza Adesso!" 22 soldati che muoiono per la loro patria e questo di colpo vuol dire che ritirarsi dalla Striscia di Gaza di sicuro preverrà la morte di altri? La contraddizione qui, naturalmente, è che se i soldati combattono il terrorismo distruggendo tunnel per il contrabbando d'armi, impedire la caduta di piú missili sulle cittadine Israeliane e frenare il libero movimento di terroristi, dovremmo ritirarli? Se lo facciamo, la sola conclusione logica è che queste cose continueranno ad accadere, ma non ci sarà piú nessuno per fermarle. Se l'Esercito Israeliano sarà quindi costretto a rientrare a Gaza, significherà che ancor piú soldati saranno uccisi e tutto il "disimpegno" sarà stato vano.
    La gente oggi si lamenta che si spendono soldi per proteggere quei territori, ma costerà lo stesso [se non di piú] quando dovremo ritornarci. Allora, perché ritirarsi tanto per cominciare? Per di più, con il recente aumento del terrorismo di oltre il 330% - con missili che cadono su Gush Qatif, rompendo quindi gli accordi ci Sharem el Sheikh - perché prendersi la briga di andarsene? Il punto è che ritirarsi da Gaza viene fatto perché i palestinesi siano in grado di rimettersi in linea, ma non possono.
    In nessun modo riuscirò a capire perché la gente (specialmente non osservanti come me) credano che i palestinesi meritino la nostra fiducia come partner della pace. Dimentichiamoci per un attimo che Gaza è terra ebraica sin dall'antichità, e guardiamo al fatto che non c'è alcuna prova che i palestinesi abbiano mai dimostrato di meritare uno stato. Non riesco a capire perché questo fatto non salta agli occhi di più gente. Con l'aumento del terrorismo, sia dentro sia fuori la Linea Verde, con odio anti-israeliano che cuoce quotidianamente in tutta Gaza e la Cisgiordania, perché non c'è abbastanza gente che capisce che i palestinesi non sono nostri amici e partner nella pace"??? Anche quando i sostenitori del piano di "disimpegno" ci portano il loro trito argomento che "ci sono soldati che muoiono", perché non gli passa per la testa di esaminare la ragione per cui ciò succede? Non è perché ci sono 8000 ebrei che vivono in case col tetto a tegole e fanno fiorire il deserto, ma perché i palestinesi vogliono eliminarci. C'è chi chiama quelli di sinistra "confusi" o "malaccorti", ma, mi spiace gente, non c'è bisogno di essere un bambino prodigio per capire chi sono i tuoi nemici.
    Ebbene, per coloro in Giudea, Samaria e Gaza che credono che la maggior parte dei gruppi di sinistra sono fatti di non osservanti, e che tutti i non osservanti siano di sinistra, sappiate che ci sono molti proprio come me e i miei amici. Noi sosteniamo voi e la vostra battaglia. Se ce ne fosse bisogno, non ci penserei due volte a venire a Gaza e battermi al vostro fianco.

(Arutz-Sheva, 20 aprile 2005, trad. Sergio HaDaR tezza - da Morasha)





3. HAMAS CORTEGGLIA GLI EUROPEI




L'Europa riabilita i terroristi di Hamas?

Riaffiora il doppio standard dell'Unione Europea, che rischia di gettare un pesante macigno sul processo di pace in Medio Oriente.

di Carmine Monaco

Lo scorso anno, in occasione del Vertice di Riva del Garda dei Ministri degli Esteri dell'Unione Europea, fu solo grazie all'intervento del Governo Italiano, ai risultati del vertice EuropaˆUsa del 25 giugno 2003 e ai tanti coraggiosi appelli promossi da cittadini e organizzazioni democratiche, che l'UE finalmente incluse Hamas nell'elenco delle organizzazioni terroristiche. Una decisione che causò l'interruzione dei cospicui finanziamenti fino ad allora generosamente concessi al gruppo terroristico palestinese, senza neppure la garanzia di adeguati controlli sul loro effettivo utilizzo, come più volte denunciato da EU-funding <http://eufunding.org/accountability/OLAFReport2.html> .
    Un atteggiamento che strideva violentemente con il comportamento di una Unione Europea che, da un lato, ribadisce da sempre l'importanza e l'impegno per lo smantellamento delle reti terroristiche presenti in qualunque parte del mondo, dall'altro, nei confronti di Hamas e di altre organizzazioni terroristiche come Hizbollah, adottava una linea sempre molto ambigua.
    Il vicepresidente della UE, Franco Frattini, in un'intervista rilasciata al Corriere della Sera ha dichiarato che «non ci sono nuove ragioni per togliere Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche» e quindi oppone un netto «no» alla riabilitazione di Hamas. Le dichiarazioni di Frattini seguono la clamorosa notizia, trapelata nei giorni scorsi, delle iniziative informali per escludere Hamas dalla lista nera (così da consentire la ripresa del flusso di finaziamenti interrotto nel 2003), avviate da Spagna e Francia a distanza di appena un anno e mezzo dalla sua inclusione. Pare anche che, durante la Presidenza di Romano Prodi alla Commissione Europea, vi siano stati incontri segreti tra esponenti della Commissione e Hamas. L'episodio é stato più volte smentito dallo stesso Solana ma continua ad essere oggetto di discussioni e di ricostruzioni che trovano «nuovo credito, non solo sulla stampa», come sostiene anche l'interrogazione "a risposta scritta" indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli Affari Esteri presentata dai Senatori Compagna e Tonini. Se ciò fosse vero, la posizione dell'UE nei confronti della crisi mediorentale sarebbe ancora più grave.
    In realtà, non vi è alcun dubbio sul ruolo di Hamas nel terrorismo mediorientale. La stessa organizzazione ha rivendicato con orgoglio molti attentati compiuti in Israele, che hanno causato oltre quattrocento vittime. Una forma di terrorismo che, nel suo ultimo dossier sulla crisi mediorientale, Amnesty International ha definito "un crimine contro l'Umanità".
    Le trattative per la riabilitazione europea di Hamas sarebbero in corso senza neppure pretendere che questa cambi il suo atto costitutivo del 1988, dove afferma l'obiettivo della distruzione della "entità sionista" e l'impegno per una lotta fino alla morte di Israele, mentre l'art. 11 sostiene che «nessuna organizzazione ha il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo della Palestina, perché la Palestina é terra islamica».
    Tutto ciò rende politicamente e giuridicamente ingiustificabili le posizioni di Spagna e Francia. E' evidente che, se davvero procederà alla riabilitazione di Hamas, l'Unione Europea si assumerà la responsabilità storica di gettare un pesante macigno sul processo di pace. La legittimazione di Hamas da parte europea, come dice lo stesso Frattini, aiuterebbe infatti alle prossime elezioni l'organizzazione terroristica, che gode di un certo consenso popolare tra i palestinesi, causando un forte indebolimento di Abu Mazen e del suo tentativo di comporre finalmente la secolare questione araboˆisraeliana. Questo é sicuramente l'obiettivo di Hamas, ma può essere questo l'obiettivo dell'Unione Europea?

<http://www.euroatlantic.blogspot.com>

(pervenuto dall'autore, 27 aprile 2005)





4. LE BUONE INTENZIONI DELLA LEGA ARABA




Come migliorare i rapporti fra mondo arabo ed occidente: eliminare Israele

di Federico Steinhaus

L’ ambasciatore della Lega Araba in Gran Bretagna, Ali Muhsen Hamid, ha tenuto una conferenza nella sede del parlamento inglese; il tema era “Gli arabi e l’occidente: le relazioni indispensabili”, ed il testo di questa conferenza è stato pubblicato in lingua inglese lo scorso 1 aprile dal settimanale saudita Ain Al-Yaqeen. Ne trascriviamo alcuni passaggi particolarmente significativi.

“… Nel periodo in cui il mondo arabo fu sottoposto alla dominazione ottomana ed europea il ruolo politico, scientifico e culturale arabo diminuì in modo significativo… L’ arretratezza politica, economica ed educativa che si manifesta nel mondo arabo ne è un effetto”.

“Queste condizioni indebolirono la capacità araba di far fronte alle sfide, una delle più importanti tra le quali è stata la creazione dello stato ebraico in Palestina nel 1948. Da quel tempo la regione araba… è stata coinvolta in una guerra approssimativamente ogni dieci anni… L’occidente ha bisogno di campi di battaglia per sperimentare la nuova tecnologia militare e la collocazione strategica araba sembra il miglior terreno sperimentale. Lo stesso pare sia vero anche per Israele…”.

“Mi rendo conto che la democrazia e la libertà sono in disaccordo con il colonialismo e l’occupazione militare, e che la prima vittima di questi metodi militari sono proprio la democrazia e la libertà. La politica occidentale ha creato democrazie fantoccio che hanno preparato la strada per i colpi militari e le società militarizzate… “.

“Quando Israele afferma che gli arabi sono terroristi l’ occidente lo segue rapidamente. Quando Israele afferma che bisognerebbe imporre la democrazia agli arabi con la forza l’eco di questa opinione si manifesta in alcuni media occidentali… quando Israele comincia a demonizzare l’ Iraq e l’ Iran l’occidente entra in guerra contro il primo e minaccia il secondo… ”.

". . . Ma Washington è divenuta parte attiva nella zuffa a seguito degli eventi terroristici perpetrati sul suo stesso suolo l'11 settembre 2001. Ma questa non è stata una buona giustificazione per la sua inimicizia nei confronti degli arabi e dei musulmani. E' (infatti) evidente che Israele ha avuto una mano nella faccenda".

". . Israele è salita sul carro delle pubbliche relazioni e con gli Stati Uniti ha presentato sé stesso come vittima del terrorismo. I palestinesi, che sono le vittime del terrorismo quotidiano di Israele, sono diventati ancora una volta terroristi. Si chiedeva loro di sopportare tutto ciò senza batter ciglio. Libertà ed indipendenza per loro erano dei tabù. Nessuno augurava loro di avere l'onore di resistere ad una occupazione che durava da 4 decenni. Non era loro consentito seguire le orme dei Maquis francesi durante la seconda guerra mondiale".

"La storia della civiltà araba ci consente di essere sinceramente orgogliosi del fatto che nel nostro passato non vi è nulla di cui vergognarci o che ci esoneri dalle responsabilità. Non siamo stati terroristi, non siamo neppure stati in alcun modo antisemiti dato che noi stessi siamo semiti. Il popolo ebraico ha vissuto i suoi tempi migliori con noi. Maimonide, o Moussa ben Maimoun come lo chiamiamo in arabo, è vissuto in Andalusia ed ha scritto le sue opere in arabo ed ha goduto di pieni diritti come cittadino. Non abbiamo avuto una Inquisizione, e la nostra civiltà non ha prodotto ideologie naziste o fasciste che sostengono lo sradicamento di un popolo e la continua diasporizzazione (sic) di milioni di cittadini incapaci di esercitare il loro diritto al ritorno".

"Gli arabi sono il popolo che in tutto il mondo è il più vicino all'occidente ed all'Europa in prima istanza. Siamo vicini di casa. Il nostro presente ed il nostro futuro sono correlati e non vi sono particolari problemi che ci dividano salvo quello connesso al vostro ingiustificabile pregiudizio a favore di Israele e la sua politica di espansionismo e colonialismo".

"Non è mia intenzione intimidire alcuno, ma non intendo neppure dipingere un quadro tutto in rosa ed immaginario delle relazioni arabo-occidentali. . . . La nostra sofferenza ed il nostro dolore sono senza limiti. Ora voi, dopo aver reso vostre vittime gli arabi e l' Islam, trasferite il vostro campo di battaglia contro la comunità araba e musulmana in occidente. . . ".

Crediamo che la lettura di questo importante discorso abbia lasciato stupefatti anche i nostri lettori, come siamo rimasti noi dinanzi ad una esposizione talmente confusa dei più abusati luoghi comuni del vittimismo arabo. Israele alla radice di ogni male; Israele che con le sue malefiche e subdole manovre impone all'occidente di odiare gli arabi; gli arabi che "non possono" essere antisemiti in quanto sono essi stessi semiti; la colpa di ogni sciagura araba è dell' occidente; è Israele lo stato terrorista, gli arabi non sono terroristi bensì vittime. . . Non sappiamo se questo discorso abbia avuto una qualche eco nelle sale del Parlamento britannico o sulla stampa, ma ne dubitiamo. Il nuovo pontefice ha scritto il suo recente libro, redatto con il presidente del Senato Pera, che l' occidente odia sé stesso: ha ragione, ma purtroppo per odiare sempre meglio sé stesso l 'occidente odia anche alcuni dei valori di cui nei secoli è stato artefice e paladino. E concede anche ad altri - in questo caso agli arabi - di odiare impunemente l'occidente e con l' occidente gli ebrei.

(Informazione Corretta, 21 aprile 2005)





5. UN ALTRO TENTATIVO DI DEFINIRE L'EBRAISMO




Verso la terra promessa

di David Bidussa

Non è facile definire che cosa sia l´ebraismo. Certo se si ritiene che

prosegue ->
l´ebraismo sia una religione che ha regole precise e che si riconosce in base all´osservanza di quelle regole, definirlo e riconoscerlo è allora alquanto semplice. E´ sufficiente aprire dei testi, mettere insieme e comparare ciò che nei testi è contenuto, scegliere i commenti più autorevoli.

Da questa immagine si ricava che l´ebraismo è un costrutto culturale che stabilisce regole comportamentali e che nel tempo consente di conformare comportamenti a principi.
Gli ebrei sono coloro che si comportano in un certo modo e che si conformano a un modo di agire. Pensano perché fanno. Ovvero: sono qualcuno (soprattutto sono riconoscibili) perché preliminarmente agiscono secondo regole pratiche e pragmatiche che costruiscono la personalità culturale di un individuo o di un insieme di individui.
E´ una risposta plausibile, sostenibile, ma non credo che sia l´unica da considerare.

Come si compone l´ideale scaffale del sapere teologico ebraico? Si potrebbe dire che si compone dei 46 testi di ciò che tradizionalmente chiamiamo "Antico testamento" (dizione che non mi convince, ma che diamo per buona) e poi di un corpo testuale esegetico fatto di trattati, commenti, testi normativi. E´ questo corpo complessivamente considerato uno sviluppo lineare di un impianto culturale tale che lo si possa leggere come un testo unico dalla prima pagina all´ultima? No, per due motivi. Primo: perché la composizione stessa delle singole parti del testo non è consequenziale. Isaia non è un testo unico, ma è stato composto in momenti diversi e noi leggiamo oggi come un unico testo numerato in capitoli successivi una cosa che non è stata composta in un´unica scrittura. Oppure una parte dei testi che stanno in "Agiografi", per esempio è stata composta prima di Deuteronomio, composto nel corso dell´esilio babilonese, intorno alla metà del V sec. a.C.. Secondo: perché i testi vanno letti rispetto a contesti. Consideriamo ancora Deuteronomio. Quel libro, sintetizzando il già detto in altri testi, lo fissa in una condizione, quella dell´esodo e del lento approdo verso la Terra promessa, che in realtà è solo anelito e non atto compiuto, permettendo così che quella dimensione mantenga ancora un valore pur nell´infinità temporale. Interpretare testi dunque non è solo limitarsi o concentrarsi sul versetto, significa anche riflettere sulle funzioni di acculturazione, di riscrittura che quei testi hanno per un attore culturale in un tempo storico dato.
Rimaniamo ancora per un attimo sul piano della produzione testuale.

Non so cosa l´immaginario collettivo ritenga essere il Talmud. Secondo una immagine consolidata e un uso corrente, credo che il Talmud sia immaginato come un testo esoterico, dove si esplica il potere occulto (un´immagine in cui si sommano le proiezioni fantasmatiche di un antigiudaismo classico e l´ossessione del complotto che popola le pagine de I Protocolli dei savi anziani di Sion).

Allora proviamo ad aprirla, una pagina di Talmud. Vi vedremo un costrutto molto geometrico costituito da tre strati di testi: un testo in corpo maggiore che occupa il centro della pagina e la cui datazione è tra il I secolo a.c. e il VI secolo d.C.; un secondo blocco di testi che circonda in senso orario il testo centrale e in cui si riuniscono alcuni commenti tradizionali e classici databili tra l´XI e il l´inizio del XIV secolo; infine un terzo gruppo di testi posti agli angoli del testo scritto dopo il secondo testo successivi e che al massimo arrivano al XVII secolo. In breve noi abbiamo un testo nel tempo.

Ma accanto a questi testi e intorno a questi testi rimane un margine di bianco considerevole. La cultura ebraica e l´ebraismo è esattamente quel margine bianco, ovvero è la possibilità e la plausibilità di aggiungere altri testi. Ovvero di continuare il testo. E soprattutto è la possibilità che chiunque, dotato di una conoscenza testuale precedente e dunque in grado di inserirsi in una catena del commento, possa mandare avanti la staffetta della storia.

Per riepilogare. Si può studiare l´ebraismo, e dunque rispondere alla domanda che cosa esso sia, leggendo e rileggendo i testi di commento e vi troveremo che tutto questo è coevo ai sistemi di pensiero e alle organizzazioni di retoriche assertive e persuasive coeve presenti e operanti in tutti i sistemi culturali con cui le diverse realtà ebraiche si sono trovate a convivere e a coabitare nel tempo. Oppure, anche, se si considera il corpo di ciò che per comodità indicherò come "vetero-testamentari", testi che si compongono e si assemblano nel tempo e che nella loro esposizione e successione testuale non sono stati composti successivamente uno all´altro. In questo caso la domanda sarà come si è composto un testo che è una collazione e una successione non temporale di testi.
Ma è solo questo l´ebraismo? Direi di no.
E allora vediamo di spiegare l´ebraismo considerando altri percorsi.

Gli ebrei nella storia non si sono mai definiti in relazione a un credo religioso. Si sono definiti come un popolo che ha delle regole e che ha un sistema-mondo e soprattutto una produzione che riguarda la propria identità culturale che si costruisce attraverso pratiche, culture testuali, materiali, immateriali, e rituali e intellettuali.

L´ebraismo è dunque un apparato religioso, ma non è solo un apparato religioso. E´ un insieme di pratiche rituali, normative, pragmatiche, ma non è solo un galateo comportamentale. E´ la costruzione, nel tempo, di un´identità culturale. Perché questa costruzione sia possibile occorre che si abbia una dimensione storica della propria esperienza culturale e una visione geostorica della propria vicenda umana. In breve occorre che si acquisisca un modo di spiegare la storia della propria identità con i libri, ma non solo come produzione autoriferita di testi.

Gli ebrei sono il risultato di un costante corpo a corpo con la storia e con altri gruppi umani con cui hanno combattuto, convissuto, rispetto ai quali si sono aperti, dai quali si sono nascosti o sottratti, in mezzo ai quali si sono confusi e in mezzo ai quali sono stati rinchiusi e ghettizzati, e alla fine, sono anche il risultato della loro libertà nell´esperienza dello stato d´Israele. Sono in breve la storia di un costante processo di ibridazione, rimescolamento, riscrittura delle proprie convinzioni. In questo percorso hanno nel tempo assunto forme del pensare, vocabolario, lingue, gastronomia, modi di alimentazione, procedure logiche, immaginarii, spiegazioni del proprio sapere.

Nella storia si resiste se si viene a patti con le vicende della storia. E se si rifiuta il confronto, se non si adeguano linguaggi, modi, pensieri, il destino è la scomparsa dallo scenario della storia. Una delle operazioni preliminari da condurre quando si affronta la storia dell´ebraismo è liberarsi dall´ossessione e dal mito di trovarsi di fronte allo stesso soggetto che intorno al XIII secolo a. C. attraversò in forme avventurose il Sinai.

Gli ebrei non sono lo stesso soggetto storico nel tempo. Anche perché la stessa produzione normativa è il risultato di esperienze e di riflessioni culturali che ogni volta hanno una loro specifica cifra culturale.
Comunemente si parla di cultura ebraica, di ebraismo e se ne parla come di un insieme organico e soprattutto continuo, ovvero come un unico testo aperto e progressivo di cui si può fornire una ricostruzione storicistica. Doppio errore. Perché per produrre una linearità di questo tipo occorre un centro che esprima una autorevolezza costante e occorre che si definisca un canone. Ora l´esperienza diasporica ebraica non ha espresso il primo aspetto (ovvero non ha dato luogo a un centro riconosciuto con una gerarchia che stabilisse costantemente il canone per tutti), e allo stesso tempo è stata il risultato di conflitti fra più centri produttivi con la prevalenza ogni volta di un luogo e di un grappolo di testi che nel tempo hanno finito per definire l´ebraismo.

Per descrivere la storia dell´ebraismo si deve ricorrere, nel corso della storia diasporica, a una catena di luoghi e a una costellazione di testi e di conflitti fra modelli interpretativi e prodotti testuali che hanno i loro snodi principali ogni volta in realtà culturali diverse: Alessandria d´Egitto, la Spagna della conquista araba, la Renania, la Boemia, e poi alcuni degli stati italiani, l´Europa Centro-orientale, Safed , nel tempo attuale, Israele, gli Stati Uniti, la Francia.

E´ questo corpo di testi che vanno a comporre nel tempo ciò che si è soliti denominare con termine intemporale "cultura ebraica" o ebraismo.
Qual è allora la sintesi? Nel corso di questo rapido excursus storico ho sottolineato insistentemente una sola espressione: "nel tempo". Non è stata una scelta casuale. Non credo che esista l´ebraismo come corpo organico che si costruisce coerentemente e che origina da un solo nucleo. Credo che esistano gli ebrei nel tempo, appunto, che producono un complesso culturale che leggiamo come un corpo coerente.

Ma gli ebrei, appunto, non sono un ordine coeso, una monade senza porte né finestre. Sono uomini e donne che la storia ha spesso costretto a mettersi in strada. Lungo le strade in cui si sono trovati a vivere - e molto spesso a percorrere correndo - hanno dovuto lasciare sul campo molte cose; mettere nel proprio bagaglio fatto in fretta, oggetti e testi accumulandoli alla rinfusa, scegliendo ogni volta cosa salvare, cosa gettare e cosa portarsi dietro. Spesso non potendo portarsi dietro tutto, il problema era come ricordarsi ciò che si lasciavano alle spalle.

La cultura ebraica è allora proprio questo: un costante principio di costruzione e di ricostruzione, nel tempo appunto, che ha un rapporto con sistemi culturali con cui si entra in contatto, con concetti che si recuperano e si inglobano lungo la strada. Non è detto che abbia un principio di coerenza, si sforza di trovarlo. E´ per questo che al centro non sta il testo, al centro sta il commento: ovvero la capacità di costruire e individuare il senso del testo. Una dimensione che mette al centro un rapporto con la storia.

(Repubblica, 9 marzo 2005, newsletter di Morasha.it)





6. ANCHE I MILITARI HANNO UN CUORE




Come mi sei mancata, mamma

di Yehudit Yechezkeli

La vita del diciannovenne Nahari ha conosciuto alti e bassi: all'età di sette anni i Chassidim Satmar lo hanno prelevato dallo Yemen per portarlo a New York. Questa è stata l'ultima volta che ha visto sua mamma. Con un'operazione segreta, sua madre è stata portata in Israele e così ha avuto il privilegio di vedere il figlio diventare un soldato della Polizia di Frontiera.

La cerimonia di fine corso addestramento delle guardie di frontiera, che si è svolta ieri nel moshav Hadid, vicino a Lod, era cominciata come tante altre cerimonie del genere. I genitori, seduti sulle gradinate di cemento armato, muniti di videocamere e ceste di vettovaglie, attendevano pazienti che i soldati facessero il loro ingresso, a passo di marcia, nello spiazzo preposto. La cerimonia è cominciata esattamente alle tredici. I comandanti hanno salutato i loro soldati e li hanno insigniti dei nuovi gradi. Nel suo discorso ai subalterni, il comandante della Polizia di Frontiera, gen. Hassin Faris, ha dichiarato: " I militari della Polizia di frontiera sono la punta avanzata nella lotta contro la criminalità e nella vigilanza dei confini dello Stato." E ha concluso la sua allocuzione, con queste parole "E ora vorrei rivolgere un messaggio personale ai genitori. Voi avete affidato nelle nostre mani la cosa più cara che avete al mondo. Siate sicuri che faremo tutto il nostro possibile per preservarla da ogni danno. E, adesso, permettetemi di fare uno strappo al protocollo. Dicono di noi che siamo non solo un corpo militare unito, ma anche una famiglia che sa dare affetto – e noi non veniamo meno a questa reputazione che ci siamo fatti". E quando Yechiel Nahari, della Compagnia  Dror, è stato chiamato a fare un passo in avanti, il comandante ha detto "Siamo riusciti a portare qui tua mamma dallo Yemen". Sbalordito, Yechiel ha sgranato gli occhi fissando la madre, che è scesa dalla gradinata e gli si è fatta incontro vestita nel tradizionale abbigliamento yemenita. Era da dodici anni che i due non si vedevano.

Yechiel, incapace di nascondere la forte emozione, è scoppiato in pianto e molte persone tra il pubblico non sono riuscite a trattenere le lacrime. Anche i combattenti più duri della Polizia di frontiera  non hanno potuto fare a meno di asciugare gli occhi lucidi. "L'ho vista venirmi incontro e non credevo ai miei occhi. Era mia madre. Non la vedevo da quando ho lasciato lo Yemen da bambino. L'ho guardata, esterrefatto, e non ho potuto trattenermi dal piangere" Yechiel ha raccontato più tardi. Yechiel e sua mamma sono rimasti abbracciati per più minuti. "Non piangere, figlio mio. Non si dovrebbe vedere un soldato piangere" si è raccomandata "Aspetta quando siamo soli, poi potremo piangere insieme."

Tra i promotori dell'operazione segreta, che ha portato dallo Yemen la madre del soldato vanno segnalati i suoi superiori e i compagni d'arme, guidati da Zohar Bushari, sergente maggiore della Scuola di addestramento delle reclute della Polizia di frontiera. "Ho conosciuto Yechiel attraverso un suo amico, anch'egli immigrato dallo Yemen dieci anni fa, che è stato un mio subalterno sei mesi prima di Yechiel," racconta Bushari. "Yechiel viveva da solo in un appartamento in affitto a Rechovot. Ronit, mia moglie, ed io ci siamo innamorati di lui a prima vista. Lo abbiamo portato nel nostro corpo di guardie di confine. Lo abbiamo ospitato a casa nostra nelle giornate di libera uscita, durante il CAR. E in questo modo abbiamo conosciuto anche sua sorella, Tzan'a, che vive col marito e i figli nel moshav Avnei Hefetz. Verso la fine del CAR, abbiamo cominciato a concepire l'idea di portare sua madre alla cerimonia di fine corso. Itzik Peretz, il padre di un altro coscritto, si è dato da fare e ha raccolto 2.000 dollari per realizzare il progetto.

Sono stati anche aiutati da Shlomo Grafi, colui che ha fatto venire in Israele, in questi ultimi anni, gli ultimi ebrei rimasti nello Yemen. Grafi, ovviamente molto commosso, ieri ha raccontato, "Seguo Yechiel (che da bambino si chiamava Yichye) fin da quando venne abbandonato in un istituto per l'infanzia negli Stati Uniti. Suo padre era morto nello Yemen quando lui aveva sette anni, e la mamma, Laouda, era rimasta con sei figli a carico. I Chassidim Satmar, dopo aver promesso alla donna che i figli avrebbero ricevuto una buona educazione, li portarono negli Stati Uniti. Ma le cose andarono molto diversamente.  Yechiel venne separato dai suoi due fratelli e dalla sorella, che erano stati trasferiti con lui nel nuovo continente. Yechiel fu costretto a parlare yiddish e ad abbandonare la sua tradizione yemenita. Quando si ribelleva, subiva percosse ed umiliazioni. Yechiel riuscì a scappare dai Satmar e io lo trovai abbandonato per le strade di New York. L'ho portato in Israele quando aveva 14 anni. Da allora, ha vissuto con sua sorella, che nel frattempo aveva fatto l'alià in Israele. Da ragazzino abbandonato e sventurato, oggi è diventato un ragazzo israeliano di prim'ordine, un soldato esemplare, amato e stimato dai compagni e dai  superiori."

Già da lunedì scorso, Grafi aveva portato Laouda in Israele, attraverso la Giordania. Adesso si fermerà in Israele per un mese e farà quindi ritorno nello Yemen. La donna ha dichiarato che emigrerà in Israele solo dopo che si sarà congiunta alle due sue più giovani figlie, che sono state costrette a maritarsi con degli uomini del posto e a convertirsi all'Islam. "Adesso intendiamo aiutarla ad incontrare gli altri suoi due figli che vivono negli Stati Uniti, e magari che riuscisse a portare qui le sue due figlie dallo Yemen e riunire così tutta la famiglia in Israele" ha aggiunto Bushari.

Ieri, a cerimonia conclusa, la famiglia congiunta si è seduta sull'erba, come tutte le altre famiglie – Laouda e Yechiel, Tzan'a col marito Zachi. Hanno mangiato dei tipici cibi yemeniti, come kubana, giachnun e salsa piccante (zshug). Gli occhi di Yechiel brillavano per la gioia – finalmente non è più solo. "In tutti questi anni, ho sempre pensato a mia madre, ogni giorno.Quando l'ho vista scendere le scale e dirigersi verso di me, sono rimasto impietrito. Non pensavo fosse una cosa vera, ma piuttosto una dolce visione. Ma, invece, era proprio mia mamma, così come la ricordavo nei miei sogni. Infatti, non è cambiata. E quando mi è venuta incontro e mi ha stretto forte forte al suo petto baciandomi, in quel momento non ho potuto più trattenermi e sono scoppiato in lacrime. Lo so che un soldato non dovrebbe piangere, ma io avevo troppa nostalgia ed ero così contento di vederla che non ho potuto fare altrimenti."

(Yediot Ahronot, 21 marzo 2005)





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