1. UNA DIFFICILE MISSIONE
Dall'Afghanistan al Giappone caccia alle tribù perdute d'Israele
Sono gli eredi del popolo esiliato dagli assiro-babilonesi
GERUSALEMME - Eliahu Avihail è un rabbino ortodosso che da 46 anni si è dedicato a una missione difficilmente definibile «ortodossa»: la scoperta e localizzazione dei discenti delle tribù di Israele che formavano gli antichi stati di Israele (10 tribù) e di Giuda (due tribù). Esse furono esiliate nell'impero assiro babilonese prima e dopo la distruzione del primo Tempio di Gerusalemme nel 586 a.C.. Nonostante i suoi 77 anni Rav Eliahu sprizza energia anche nelle torride giornate estive di Gerusalemme. Mi riceve nel suo studio, tappezzato di libri. Quanti sono in realtà gli ebrei «figli di Menashe», discendenti di queste mitiche tribù disperse?
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«Figli di Menashe» che tornano a casa |
Il rabbino sorride e si accarezza la larga barba bianca. Dice che potenzialmente potrebbero anche essere 35 milioni. Di fatto sono molto meno perché per essere riconosciuti come tali debbono possedere dei chiari segni di osservanza dell'ebraismo che non tutte le popolazioni che si autodefiniscono ebraiche o ebraicizzanti posseggono. Per esempio la circoncisione che solo gli ebrei impongono ai loro maschi nell'ottavo giorno dalla nascita. Rav Eliahu e la società Amishav (Il mio popolo ritorna) da lui fondata non sembrano simpatizzare molto con altre associazioni ebraiche che si interessano alla conversione di questi «ebrei ritrovati». A decidere del loro avvenire sarà la realizzazione della promessa divina di ricondurre gli ebrei dispersi alla terra di Israele tanto dall'Oriente che dall'occidente secondo le profezie di Isaia, Ezechiele e altri testi sacri.
La missione che Rav Eliahu si è scelta è di identificare queste tribù disperse, di raccogliere documentazione antica e moderna, per trasformare il mito delle «dieci tribù» disperse in realtà. La particolarità che distingue queste diaspore ritrovate in Oriente da quelle d'Occidente non è solo nella conservazione di riti, costumi e nomi di famiglie ebraici biblici, anche quando hanno adottato altre religioni, ma il fatto di essere state esiliate in gruppi che mantennero nei secoli una spiccata identità nazional-religiosa, e alle volte anche istituzioni politiche e militari. Muovendosi poi in gruppo su vasti territori di ormai scomparsi imperi orientali hanno spesso «esportato» le loro tradizioni coinvolgendo in forme di ebraicità milioni di persone.
Rav Avihail ha viaggiato per anni per individuarle fra i Pathans dell'Afghanistan e del Pakistan; del Kashmir indiano; nel popolo Karen del nord est di Myanmar; fra i Shinlung del nord est dell'India che si autodefiniscono «Bnei Menashe» (Figli di Menasse), nelle tribù Chiang-Min in Cina (al centro della zona recentemente provata dal terremoto); nel Giappone, nel Caucaso e nel Kurdistan. Ha identificato gruppi che dal punto di vista strettamente ebraico, non rappresentano che qualche decina di migliaia di individui. Potenzialmente potrebbero diventare gli avamposti di gruppi molto più consistenti, di cui qualche centinaio si è gia installato in Israele.
Con Rav Avihail evito di trattare delle possibili conseguenze politiche e demografiche qualora questa forza migratoria potenziale verso Israele si trasformasse in forza cinetica. Per lui, del resto, a compiere questo messianico evento non saranno ne la politica ne l'economia. Sarà solo la volontà divina a realizzare le promesse fatte al popolo d'Israele ribadite dai profeti Ezechiele, Isaia e tanti altri testi che prevedono la riunione nella terra d'Israele delle comunità sparse in Occidente e in Oriente.
Mi dice che all'inizio della sua missione ci fu la benedizione di un grande rabbino di Gerusalemme. Poi nel 1975 un primo contatto fu stabilito con un gruppo che si dichiarava ebreo in Afghanistan attraverso un giovane persiano venuto a studiare a Gerusalemme. A esso seguì nel 1980 una spedizione che identificò discendenti delle antiche tribù nel Kashmir e nello stato di Mysoran nel nord est dell'India. Qui per la prima volta venne stabilito un contatto con il gruppo dei Shin Lung, discendenti diretti della tribù di Menashé. Seguì la scoperta a Trivandrum, in India della setta dei Kananaim, cristiani provenienti dalla Siria. Era formata da 70 famiglie che conservavano antiche preghiere in aramaico, la lingua degli ebrei al tempo di Gesù, di cui nessuno di loro, però, comprendeva il significato. Glielo spiegò Rav Avihail esperto di aramaico che si rese conto di trovarsi in mezzo a una comunità creata all'origine da ebrei cristiani, cioè fra discendenti di quegli ebrei cristiani di Palestina che per anni si considerarono ebrei ortodossi, pur accettando il messaggio di Gesù prima della rottura fra la chiesa e la sinagoga. Da questa sua esperienza è anche nato l'allargamento dei suoi interessi per altre comunità cristiane con conoscenze ebraiche ancora vive ed espresse in riti e costumi famigliari: discendenti di marrani a Mayorca, in Sicilia e di origini e di tipo del tutto diversi in Giappone.
Qui si concentrano i suoi studi attuali mentre la massa di informazioni (e di fotografie) da lui raccolte alimenta i suoi cicli di conferenze in Israele, in Francia e in Inghilterra. Parte di esse ha formato la base di un suo libro: «Le tribù d'Israele, perdute o lontane». Sono documenti e storie su un mondo ebraico o ebraicizzante poco conosciuto e che ora, molto grazie a lui rinasce. È una scoperta gravida di imprevedibili ricadute per il mondo ebraico e per lo stato di Israele. Ma forse non solo per loro.
(Il Giornale, 5 luglio 2008)
2. UN NEMICO NON FACILMENTE CONTROLLABILE
Il nemico «interno»: una nuova minaccia per Israele
di Stefano Magni
C'è un terrorismo che non ha capi, né slogan, né bandiere, né «martiri» reclutati e addestrati, ma si arma di sola violenza e fanatismo. Questa forma di guerra la sta sperimentando Gerusalemme. La capitale di Israele è molto più sicura dal 2005, da quando è stata completata la barriera difensiva. Prima del 2005 era relativamente facile, per i guerriglieri palestinesi, prendere per i campi ed entrare in città, o sparare contro le case dei quartieri periferici. Adesso un mix di rappresaglia militare e di fortificazione delle aree più esposte ha indotto anche le organizzazioni più fanatiche a prendersi un periodo di pausa. Non si sa quanto duri, ma almeno per ora i cittadini possono tornare ad affollare le strade giorno e notte, ad entrare nei bar e nei ristoranti senza passare attraverso i metal detector.
Ed è proprio qui che subentra il terrorismo «interno», sinora molto meno frequente, ma anche meno controllabile rispetto al precedente. Perché è condotto da persone fino a quel momento insospettabili che vivono dentro il perimetro del «muro», a contatto con le case, le strade e i negozi dei pacifici cittadini. La notte del 6 marzo, Alaa Abu Dheim, un palestinese con passaporto israeliano e residenza a Gerusalemme, è entrato nella scuola rabbinica per cui aveva lavorato come autista fino a pochi anni prima, e ha aperto il fuoco sugli studenti. Ne ha uccisi otto e feriti altri quindici, prima di essere a sua volta ucciso da Yitzhak Dadon, uno studente armato. Dopo il fatto di sangue, la polizia israeliana ha diffuso le notizie sul suo conto e si è visto che proprio insospettabile non era: prima della strage era stato indagato per complicità con Hezbollah, ma non erano state trovate prove sufficienti per incriminarlo. D'altra parte uno Stato di diritto non può perseguire un suo cittadino sulla base di semplici sospetti.
Mercoledì scorso è stata la volta di Husam Taysir Dwayyat, un altro palestinese con passaporto israeliano e residente a Gerusalemme. Fino a quel momento era un trentenne, con alcuni precedenti penali che non preoccupavano troppo la polizia: era uno spacciatore e aveva ripetutamente picchiato la sua fidanzata ebrea. Che però l'ha perdonato e tuttora lo difende dalle accuse di terrorismo. Quest'uomo, nel bel mezzo del suo lavoro, ha ingranato la marcia della ruspa su cui lavorava e ha iniziato a risalire la trafficata Via Jaffa, vero centro vitale di Gerusalemme. Per dieci minuti ha travolto tutto quello che incontrava: un autobus, automobili e pedoni. Lo ha fatto per uccidere più gente possibile. Un sopravvissuto, Rick Eissenstat, era nella sua auto assieme alle figlie. Ha raccontato al Jerusalem Post che: «L'uomo guidava ad almeno 50 km all'ora, probabilmente il massimo della velocità del suo mezzo. Ho cercato di uscire, ma era pieno di auto attorno a me e non ci sono riuscito. La ruota di destra della ruspa ha schiacciato un taxi, mentre la sinistra ha danneggiato la nostra Mazda. Mi ha visto, ha visto che eravamo vivi. Io l'ho guardato in faccia e lui ha guardato in faccia me. Tutto quello che pensavo in quel secondo era: come faccio a far sopravvivere la mia famiglia? E in quel momento ha ingranato la retromarcia. Voleva finire il lavoro. Ci è passato sopra ancora una volta, ma non ci siamo fatti niente. Poi ha abbassato la pala su di noi e ha iniziato a picchiare sul tetto. Mia figlia Nechama si è messa le mani sopra la testa per proteggersi. Per una ragione sconosciuta, non siamo stati uccisi». Un poliziotto accorso immediatamente sulla scena ha riferito che il terrorista si muoveva rapidamente in mezzo al traffico, urlando «Allah Akbar», come tutti i «martiri» suicidi. In questo caso, non uno studente armato, ma un poliziotto e un militare in licenza hanno sparato e ucciso il palestinese. Ma nel frattempo tre persone erano morte sotto il suo pesante mezzo.
Sia nel caso di Merkaz Harav che in quello di Via Jaffa, ci troviamo di fronte a episodi di violenza simili a quelli dei giorni di ordinaria follia di cui ci arrivano notizie dagli Stati Uniti. Ma in America, quando un pazzo si mette a sparare sugli studenti in una scuola o guida contromano in autostrada con un mezzo pesante, viene descritto per quello che è: uno psicopatico, con svariati problemi personali e/o un'ideologia estrema che, da un giorno all'altro, sceglie di dare sfogo a tutta la sua violenza. Il gesto criminale lo tramuta in mostro, genera vergogna nella società, induce i media a interrogarsi sulla condizione dei giovani, sulla libertà di portare armi, sulla sicurezza della società americana.
In Israele questi episodi di pazzia omicida, al contrario, provocano un'ondata di orgoglio tra i parenti e le comunità degli assassini. I palestinesi hanno salutato come gesto eroico la strage nella scuola compiuta da Dheim, reso omaggio ai suoi familiari, allestito una tenda funebre per celebrare la morte di un «martire». Ora acclamano con altrettanta enfasi il massacro provocato dal muratore folle Dwayyat. Nel primo caso, fu Hamas a rivendicare direttamente l'attentato e ad esporre le bandiere verdi dell'Islam sulla sua casa. In quest'ultimo episodio, invece, Hamas non può dir nulla, se non rilasciare un'ipocrita dichiarazione di «comprensione» dell'atto criminale, «causato dalla repressione e dall'occupazione israeliana». Il movimento islamista deve tenere la bocca chiusa perché vuole che non venga interrotta la «tregua» (già violata 13 volte con lanci di razzi) con Israele a Gaza. In compenso tre altre organizzazioni palestinesi hanno rivendicato come loro gesto la corsa suicida dell'autista di ruspa.
Di fronte a una simile follia istituzionalizzata, uno Stato di diritto è letteralmente impotente. Israele, sinora, ha saputo difendersi da eserciti nemici, da organizzazioni terroristiche, da villaggi ostili incastonati sin dentro i suoi confini. Per ciascuno di questi problemi ha saputo trovare una soluzione per sopravvivere: una mobilitazione rapidissima dell'esercito, le uccisioni mirate dei leader terroristi e la costruzione della barriera difensiva. Ma di fronte ad un nemico interno, ad un cittadino che agisce inaspettatamente e con azioni di pura follia, non esiste ancora una soluzione. Lo dimostra il senso di impotenza con cui la polizia ha dichiarato «la prevenzione era impossibile», sia dopo la strage di Merkaz Harav che dopo quella di Via Jaffa. Gli assassini erano cittadini protetti dalla legge, così come le loro vittime. Nessuno sapeva che fossero soldati nemici, impegnati in una «guerra santa» contro Israele. Solo ieri, 4 luglio, due giorni dopo la strage di Via Jaffa e quasi quattro mesi dopo quella di Merkaz Harav, il ministro della Difesa Barak ha ordinato di radere al suolo le case dei due terroristi, proprio come avviene fuori dai confini provvisori di Israele, con le case dei terroristi palestinesi privi di passaporto israeliano, nei Territori contesi. Solo ieri il governo di Gerusalemme ha riconosciuto come nemici due dei suoi cittadini. Ma, fino a ventiquattro ore fa, gli avvocati scelti dalle loro famiglie li hanno sempre difesi, cercando di dimostrare (contro l'evidenza del giubilo delle piazze islamiche) che il loro fosse un gesto isolato, un atto di follia o di disperazione. Anche la decisione di Barak ha subito sollevato polemiche nella società civile israeliana. Eppure le autorità devono trovare una risposta alla minaccia del nemico interno, per evitare uno scenario ancora peggiore.
A Gerusalemme, così come a Haifa, ad Acco, a Cesarea, a Tiberiade e in quasi tutte le città israeliane, arabi e israeliani vivono fianco a fianco, senza confini. A Gerusalemme la tensione è più alta che altrove: quando un ebreo e un arabo si incontrano nelle stesse vie, molte volte scelgono di ignorarsi, oppure uno dei due provoca sputando per terra. E' difficile assistere a risse, ma la tensione è palpabile. Tra i quartieri arabi e quelli ebraici c'è un abisso, come se, attraversando una strada, si passasse di colpo dalla Svizzera al Marocco. Sono due mondi opposti, pur essendo a contatto fisico. Sinora questi due pianeti hanno convissuto in pace. Ma se la guerra dichiarata dal «nemico interno» dovesse continuare, se Israele non riuscisse a trovare una risposta disciplinata a questa nuova minaccia, gli ebrei potrebbero non tollerare più questo angolo di terzo mondo che hanno dietro casa. Ed è ciò che vogliono i terroristi: fomentare una guerra civile in piena regola, come quella del 1947 che precedette la dichiarazione di indipendenza di Israele.
Al contrario, casomai il governo di Gerusalemme riuscisse a evitare una guerra civile e a trovare una soluzione (se non proprio incruenta, almeno controllata), noi europei dovremmo prenderne nota: perché il problema del nemico interno è quello che potremmo trovarci ad affrontare in un futuro non troppo lontano, vista la massiccia presenza di immigrati islamici, della loro progressiva auto-ghettizzazione territoriale e dell'infiltrazione fra loro di fanatici e ideologi del terrore. Quel che avviene a Gerusalemme oggi, un domani può capitare a Parigi, Anversa, Amburgo, Londra, Roma...
(Ragionpolitica.it, 5 luglio 2008)
3. RAZZISMO DI STATO
Quella Grande Vergogna firmata dallo Stato
di Fabio Isman
ROMA - Il 14 luglio 1938, giusto 70 anni fa, la Francia celebrava per la 149ª volta la presa della Bastiglia; l'Italia invece cominciava a vergognarsi della sua "menzogna della razza". Quel giorno, viene infatti pubblicato il Manifesto degli scienziati razzisti, in realtà scritto però da un solo assistente universitario, e anzi nemmeno: a Guido Landra l'aveva dettato Mussolini, che lo aveva convocato a febbraio, a dimostrazione di un programma non del tutto improvvisato. I 58.412 ebrei italiani, un sesto con tessera fascista, diventano così minacciosi stranieri: «Sovvertitori della comunità», «cospiratori plutogiudeomassoni».
Espulsi da impieghi, scuole, accademie, forze armate. Interdetti dalle professioni liberali, dal lavoro in banche e assicurazioni. Una serie di odiose discriminazioni: patrimoni limitati e il di più confiscato; idem per le case; ai piloti, vietato volare; a tutti, di avere colf ariane; presto perfino l'obbligo di consegnare le radio (per non divertirsi troppo con i Concerti Martini & Rossi?). Negli atenei, nascono cattedre di razzismo; alle amministrazioni pubbliche è proibito ogni affare con ebrei; cancellati tutti i libri di non ariani; presto non potranno avere più impieghi nello spettacolo; essere pescatori dilettanti, o autisti di piazza; allevare colombi viaggiatori; iscriversi tra i poveri per un sussidio; appartenere alla Protezione animali; recarsi nelle località turistiche. E' proibito macellare kasher. Eliminati pure dagli elenchi del telefono, e dalla memoria: un avvocato si becca un anno di confino, a Bologna, per avere onorato un collega scomparso, però non ariano. E' solo un caso che due mesi prima Hitler fosse venuto in visita solenne a Roma?
Settant'anni or sono, nasce il sistema antiebraico più articolato dopo quello tedesco; con alcune norme ancora più persecutorie di quelle del Reich: l'espulsione dagli studi, o degli stranieri. Pochi lo ricordano, ma in quelle leggi è scritto anche che un italiano può sposare una straniera soltanto con il placet dello Stato; e non può se è dipendente pubblico. Tante famiglie sul lastrico. Espulsi 3.057 ufficiali, 400 professori e maestri, 240 docenti e assistenti dagli atenei (6 su cento); revocate 200 libere docenze; al bando 114 autori. Esclusi il figlio del sindaco Ernesto Nathan da Banca d'Italia, e l'allenatore del grande Torino di calcio Egri Erbstein. Invece nasce Didimo, il primo giornalista scientifico su Corriere della Sera e Stampa negli Anni 50 e 60: Rinaldo De Benedetti Sagredo, agnostico, si scopre ebreo nel '38; campa inventando (senza nome) le Garzantine. Dalla Ghirlandina, a Modena, si suicida l'editore Angelo Fortunato Formiggini (funerali notturni: 5 parenti e 30 agenti). La Scala obbliga i non ariani a restituire l'abbonamento: potranno acquistare i biglietti; Erich Kleiber, «come cristiano e musicista», si infuria, rifiuta di dirigere un'opera che (ironia del caso) è un inno di libertà: il Fidelio. Il fratello del rabbino Toaff, chirurgo, è interrotto a metà intervento: non può più curare ariani; va in Palestina.
Nasce il razzismo di Stato, «di inescusabile nefandezza e gravità» per citare Renzo De Felice. La persecuzione dei diritti è prodromo della persecuzione delle vite; s'innesta sul consolidato antisemitismo cattolico: fino all'ultimo Concilio, cioé quasi l'altro ieri, i "giudei" erano «perfidi» e «deicidi».Padre Agostino Gemelli, fondatore della Cattolica, scriveva 20 anni prima: «Se tutti morissero, sarebbe una liberazione»; e il primo atto di un Papa, la Presa di possesso, processione dal Laterano a San Silvestro, passava sotto l'arco di un "Cristo miracoloso": percosso da un ebreo, aveva sanguinato. Eppure, Papa e Re sono gli unici eventuali oppositori del duce. Pio XI a settembre afferma: «Siamo spiritualmente tutti semiti»; i 29 articoli del 17 novembre 1938 e gli altri decreti, re Vittorio li sottoscrive senza fiatare. Anni fa, Maria Pia di Savoia, rileggendoli a Ginevra, chiedeva stupita alla sorella Maria Gabriella: «Dis donc, ma il nonno ha davvero firmato un'infamia simile?». I deputati, assenti
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quelli ebrei, approvano unanimi; al Senato, 10 contrari. In tanti hanno studiato questa infamia: fino a Marie-Anne Matard-Bonucci (L'Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, del Mulino, è recentissimo). Perché capirla non è facile.
Nel Dna degli italiani il razzismo non c'era. Mussolini, in pochi mesi, compie un'incredibile escalation. Nel 1937, con tanto di fanfara, giovani fascisti e fez, a Firenze, nel giardino della sinagoga, s'era celebrata la presa di Addis Abeba: un «artistico ceppo», una frase del duce incisa. E dal 1934 al '38, quella della Marina a Civitavecchia ospita la Scuola dei futuri esperti navali di Israele: un accordo con Jabotinsky, sionista e revisionista. A Roma, fino al '35, ministro delle Finanze è l'ebreo Guido Junk; sei senatori sono "giudei" nel '38 (cesseranno di inviare loro gli atti; i commessi invitati a dissuaderli dall'entrare). Gli ebrei "padroni" d'azienda sono 5.782 (82 su 100 commercianti; appena lo 0,5 in banche e assicurazioni), e 466 i dirigenti. Ma già dal '35 abbondano le vignette sull'ebreo avaro, naso adunco e labbra grosse; magari (Marc'Aurelio '36), un banchiere con le ghette. La stampa fa da "pesce-pilota": il senatore Ettore Conti parla di «un crescendo di canea»; De
Felice di «sconcio». In un anno di Travaso, 114 vignette; perfino Leonardo è un «pittore razzista»; sul Corriere della Sera, il tema è in prima pagina ogni due giorni. Arturo Carlo Jemolo si indigna: «Esempi di viltà e bassezze a non finire».
Però il razzismo di Stato parte da lontano. Nel '34 il duce fa pubblicare il Mein Kampf (come, dal '21 al '37, farà con I protocolli di Sion); esce da Bompiani, senza il nome del traduttore: perché, spiega Giorgio Fabre, è ebreo. Nel '38, Mussolini pensa di sistemarli tutti in Africa; e nel '40, spiega al loro presidente Dante Almansi che dovranno «lasciare, gradualmente ma definitivamente, la Penisola». Già prima delle leggi, alcuni previdenti le applicano: i Ministeri "arianizzati", alcuni licenziati; da aprile, basta permessi a chi commercia.
La follia dell'Europa sferza anche l'Austria annessa, l'Ungheria, la Romania. Un terzo degl'italiani ebrei cerca di salvarsi con la discriminazione, cioé il riconoscimento di meriti speciali: alla fine, saranno seimila in tutto. Bottai e Starace non sapevano; De Bono, Federzoni e Balbo erano contrari. La Società delle Scienze radia uno straniero: Albert Einstein. Dopo la guerra, ma questa è anche un'altra storia, dei 58.412 che erano nel 1938 (al momento del primo atto di persecuzione: un censimento volto «più a sottomettere che a conoscere»), ne rimangono circa 30 mila. Oggi, 70 anni dopo, un pensiero a chi non c'è più. Ma, per favore, anche a chi ha sofferto la persecuzione.
(Il Messaggero, 5 luglio 2008)
4. EBREI IN ITALIA
La comunità ebraica messinese fra intolleranza e integrazione
di Massimiliano Mazza
Come vive la cattolicissima Messina la presenza della comunità ebraica all'interno delle proprie mura? Solo recentemente è stato concesso loro di potersi trasferire all'interno della città. Si tratta di 180 famiglie israelite raccolte nel quartiere compreso tra il Duomo e il torrente Portalegni, vicino alla via Giudecca (via Cardines), integrata all'interno della cinta muraria.
Molti interrogativi ruotano intorno alla natura della loro religione, per certi versi molto simile al cristianesimo, ma nel contempo così distante.
Basti pensare al perenne stato di attesa nel quale si trova il popolo giudeo, non avendo accettato e riconosciuta la figura di Cristo, quale messaggero e figlio di Dio. Diverse sono le usanze per noi incomprensibili e fonte di pregiudizio, come il divieto di pronunciare il nome di Dio o i numerosi e per noi inspiegabili divieti alimentari. Non ultimo l'impossibilità di contrarre matrimonio con individui che non siano di origine ebrea.
Cosa pensa la città di questa comunità in perenne vagabondaggio dal giorno in cui Abramo [sic!] ricevette i comandamenti? Cosa pensa di un popolo sottoposto alle più dure persecuzioni, costretto a fare del mondo la propria casa e del commercio l'attività principale, in quanto più compatibile con il tipo di vita? Parte di questa comunità, ritroviamo oggi a Messina, città che per molti aspetti sembra ancora non riconoscere i suoi figli, e che appare sorda a questi interrogativi.
Fin da quando i primi ebrei hanno messo piede a Messina, nel lontano 530 d. C., hanno incontrato innumerevoli difficoltà, nell'instancabile tentativo di riuscire a trovare spazio in una città chiusa dalle elitè patrizie e governata da una spietata concorrenza. Le occasioni certamente non mancano e molti giudei sono riusciti a farsi strada. Purtroppo il numero di coloro che sono riusciti ad elevarsi socialmente ed economicamente, rimane bassissimo, come del resto testimoniano le ultime statistiche.
Come comunità emarginata, non è stato facile riuscire ad avvicinarne i componenti, restii e diffidenti a rispondere alle nostre domande. L'incontro, del tutto casuale, con Giovannuccio de Bartholomeo, armatore e proprietario di una nave, ci ha permesso di soddisfare alcune curiosità.
Uno degli interrogativi al quale ci premeva dare una risposta, quale fosse il livello di partecipazione alle attività economiche della città e lo status della comunità giudea, è stato soddisfatto. Il commerciante messinese, alla ricerca di nuovi clienti, ha rivelato, infatti, di aver trovato nuovi finanziatori, tutti appartenenti alla comunità giudea.
La nuova cordata di imprenditori, Giacomo de Ragusia, Vita de Malta, Nixi Bracha, Gallufo Rabi, Nisi Brascha, Giuseppe Actono e Vita Brascha, ha versato nelle tasche dell'armatore messinese discrete somme di denaro. Non mancano però altri esempi a livello imprenditoriale, come la nascita nel 1417 di una società mista tra mercanti ebrei e cristiani, sul modello pocanzi citato, o di società rette esclusivamente da ebrei.
L'incredibile capacità di adattamento e la poliedricità dei suoi componenti, ha fatto sì che molti giudei siano riusciti ad eccellere in altri campi. La fama raggiunta da Vitali Aurifici e da Mosè Bonaviglia nelle arti mediche, ha ormai varcato lo stretto, arrivando perfino a corte. Le condizioni della comunità ebraica, malgrado le condizioni avverse, sono, quindi, notevolmente migliorate tanto da far loro ottenere la benevolenza dei ceti dirigenti cittadini.
In quest'ottica si legge, infatti, il privilegio concesso, qualche anno fa, nel 1410, con il quale i trafficanti ebrei sono stati finalmente equiparati ai commercianti cristiani.
Quella che possiamo ammirare, oggi è una comunità, un popolo, che nonostante l'enorme e irragionevole discriminazione della quale è stata oggetto, contribuisce alla ricchezza e al buon nome di una città, che tutti noi ci auguriamo riesca con il tempo a mostrare riconoscenza, tolleranza e uguaglianza per tutti i suoi figli!
(Tempo Stretto, 5 luglio 2008)
5. UNA REALTA' POCO NOTA
Convegno di ebrei messianici degli Stati Uniiti in Israele
di Antoinette Brémond
La riunione annuale dell'Unione delle Congregazioni ebraiche messianiche (Union of Messianic Jewish Congregation, U.M.J.C. ) quest'anno si è tenuta in Israele. Erano presenti 80 congregazioni con 300 rappresentanti, di cui un discreto numero erano giovani. Il moshav Yad Hashmona aveva montato un enorme tendone per accoglierli dal 26 al 28 giugno, e ne è stata alloggiata una parte. U.M.J.C. è un'associazione messianica internazionale che si considera vicina all'ebraismo, ritenendo che gli ebrei messianici devono affermare la loro ebraicità praticando certi costumi e tradizioni ebraiche. I responsabili delle comunità si fanno chiamare rabbini. Molti portano la kippà, e i servizi religiosi riprendono in parte le preghiere della liturgia della sinagoga. Alla riunione era presente il ramo USA di questa associazione.
Fin dalla prima sera viene dato il tono. Il direttore esecutivo dell'U.M.J.C. degli USA, il rabbino Russ Resnik, insiste sull'importanza per i messianici di essere veramente ebrei. «Il nostro atteggiamento si deve basare sui precetti biblici e sulla tradizione ebraica: amare e aiutare il prossimo e portare il nostro aiuto ai più deboli del popolo ebraico, in particolare l'orfano, la vedova, lo straniero. Come messianici, la nostra identità ebraica ci spingerà ad amare e ad aiutare anzitutto i nostri fratelli ebrei.» Parlando dei "colpi" che i messianici hanno subito in questi ultimi tempi in Israele, insiste: «Questo non deve intaccare il nostro amore, ma al contrario renderci più umili.»
Sotto questa tenda, e per confermare le parole del rabbino, sono montati una dozzina di stand che presentano ciascuno un servizio umanitario intrapreso per l'una o per l'altra delle congregazioni messianiche d'Israele. "Be-ad haìm" (pro-life) che lotta contro l'aborto in Israele, "Hands of merci", per le vittime del terrorismo, "La casa della salvezza", che offre un focolare per la riabilitazione dei drogati e degli alcolizzati. Ma anche "Il grido di Simeone" per le ragazze madri, e altre associazioni per i poveri, gli sfavoriti privi di aiuti, gli orfani e le vedove. Alcuni aprono dei ristoranti del cuore, che accolgono profughi sudanesi, aprono dei centri di generi alimentari a buon mercato, accolgono nuovi immigrati, visitano le persone sole, i malati. Il mondo messianico israeliano rivela così a questi congressisti americani il suo aspetto umanitario poco conosciuto. Venerdì, dopo l'usuale preghiera del mattino, i partecipanti possono scegliere tra diverse conferenze, dedicate tutte al tema centrale: le nostre radici, la nostra identità.
Un giovane militare, figlio di un pastore messianico israeliano, racconta come essere ebreo messianico nell'esercito. Per lui è semplice: la sua fede in Gesù come Messia, la sua fiducia radicale nel Dio d'Israele lo fa rimanere in piedi contro i venti contrari e le mareggiate. Invita l'assemblea a pregare per i soldati, per i messianici in particolare.
L'identità degli ebrei messianici in Israele
E' la dr Keri Zelson Warshawsky che presenta questo tema. In realtà era il tema della sua tesi di dottorato, presentata qualche settimana fa nel dipartimento di antropologia dell'Università di Gerusalemme. Lei stessa e suo marito Haìm sono molto impegnati in una delle assemblee messianiche di Gerusalemme a tendenza giudaizzante. Secondo lei, con Gesù un ebreo si mette in marcia verso tre direzioni: verso il Dio d'Israele, verso il paese d'Israele, anche se vi abita già, e verso il popolo. Tre ritorni. Dopo aver invitato i messianici americani a tornare nel paese, a fare la loro alià (immigrazione in Israele), spiega che cosa significa, per lei, questo ritorno verso il popolo, la sua tradizione, la sua cultura, la sua eredità. «I tuoi figli ritorneranno entro le loro frontiere» (Geremia 31:17). I sionisti laici e i cristiani sionisti hanno puntato tutto sul ritorno nel paese, senza tener conto dell'ebraismo. Gli ebrei messianici, avendo la fede, non possono evadere dall'ebraismo, parte integrante del popolo ebraico religioso. Secondo Keri, un messianico può dirsi ebreo soltanto osservando i costumi, i comandamenti biblici indirizzati al popolo ebraico, la tradizione: il cibo, le feste, la disciplina ebraica in tutti i campi, digiunare al Kippur, pregare secondo la tradizione... Si pone allora la domanda: un ebreo messianico prende dunque le distanze da un cristiano?
Com'è avvertito Gesù nella società israeliana di oggi? Soggetto delicato. Tsvi Sadan, ebreo messianico israeliano, è molto chiaro fin dall'inizio della sua esposizione. «Tratterò questo soggetto alla luce del mio amore per Israele. Non vi dirò dunque tutto. Ci sono cose che non è necessario dire quando si ama.» Ci parla allora della reazione israeliana ai Nuovi Testamenti bruciati a Or Akiva lo scorso maggio. Questa distruzione di libri sacri è stata vivamente condannata dalla maggior parte dei rabbini e dai giornali religiosi. Tsvi legge un estratto di un articolo di Yediot Aharonot, quotidiano popolare, scritto da Meir Shalev. L'autore, dopo aver fatto l'elogio di questi scritti ebraici del Nuovo Testamento, della profondità di questo testo che è la continuazione del Tanach, incoraggia a leggerlo. «Ogni ebreo dovrebbe conoscere gli Evangeli!» Una reazione simile non sarebbe stata immaginabile 20 anni fa, dice il conferenziere, e conclude: «Non è di una religione che noi dobbiamo essere testimoni, nemmeno del movimento messianico, ma di Gesù... talmente sconosciuto.»
Ebrei e arabi, riconciliazione in cammino
Rittie Katz, ebreo messianico israeliano, e Salim Munayer, arabo cristiano israeliano, raccontano la loro vita e come sono arrivati a capire che per loro si è aperta una via: riconciliarsi. Salim ha creato l'associazione Mushala, che si è aperta molto praticamente e sul posto al fine di permettere a ebrei e arabi credenti in Gesù di incontrarsi, parlarsi, riconciliarsi. Donne si incontrano, giovani si parlano in campi organizzati per loro nel deserto. Per Salim la vera riconciliazione si vede ai piedi della croce:
Preghiera del venerdì sera. Il pasto festivo per entrare nello Shabbat permette ai delegati americani d'invitare qualche famiglia israeliana. Sabato mattina, preghiera con i rotoli della Torah. Il pomeriggio è dedicato ancora allo studio della Torah letta in Sinagoga questo Shabbat, illustrata da diversi conferenzieri.
Senza dimenticare l'essenziale - come diceva uno degli oratorii - che nel movimento degli ebrei messianici accettiamo le nostre diverse tendenze, le nostre diversità, mantenendo l'unità.
(Un écho d'Israël,1 luglio 2008, trad. www.ilvangelo-israele.it)
6. LIBRI
Husseini, il Muftì che voleva esportare Auschwitz in Palestina
di Giulio Meotti
ROMA - Il libro "Icona del male. Il muftì di Hitler e la nascita dell'islam radicale" (Random House), a firma degli storici David Dalin e John Rothmann, ricostruisce una delle figure più cupe e controverse della storia musulmana del Novecento: Haj Amin al-Husseini, la massima autorità religiosa e politica della Palestina tra le guerre mondiali. Amin al Husseini era figlio di una delle due grandi famiglie di Gerusalemme e aveva studiato nel Vaticano dell'islam ad Al Azhar. Era dal 1921 il gran Muftì di Gerusalemme e quindi una delle grandi voci con il potere di parlare per conto dell'islam. La fama di Husseini era costruita non con la dottrina o gli atti di pietà, ma con i pogrom. Perché il gran Muftì aveva due nemici: gli ebrei e la Gran Bretagna. Contro i primi Husseini scatenò, il 23 agosto del 1929, un orribile massacro nella città di Hebron mentre a Gerusalemme e a Safed fu data loro la caccia con stermini e incendi a case e negozi. Al fianco del gran Muftì combattevano i padri di molti terroristi di oggi, come Hassan Salameh il fondatore di "Settembre Nero" autore della strage di Monaco nel 1972. I rapporti tra il Muftì e il nazismo non furono tattici. Hitler era invocato, da Rabat alla Mezzaluna fertile, come Abu Ali, "il redentore" che avrebbe spazzato via inglesi e ebrei. Giovani ufficiali egiziani, come Sadat e Nasser, parteciparono ai raduni di Norimberga mescolati alla gioventù hitleriana e il gran Muftì, esule a Berlino, finì la sua carriera di alleato come padrino religioso dei reggimenti musulmani delle SS, arruolati in quella fetta di mondo islamico occupata dell'Asse che era la Bosnia. In cambio chiese, ma non ottenne, il bombardamento di Gerusalemme e la formazione di un corpo speciale per la "liberazione" della Palestina. Caduto il Terzo Reich, Husseini riuscì a sottrarsi ai processi per crimini di guerra e a riparare in Medio Oriente, dove morì nel 1974.
Il libro di Dalin e Rothmann quindi ripropone ed eleva a grande livello accademico la tesi secondo cui il nuovo estremismo musulmano affonda le radici nei totalitarismi europei dell'inizio del XX secolo, in particolare nel nazismo. Le parole pronunciate dal gran Muftì a Sarajevo, il 21 dicembre 1944, davanti alle Ss islamiche bosniache, sciolgono ogni dubbio: "La Germania è la sola grande potenza che non ha mai attaccato un paese islamico. Inoltre la Germania nazionalsocialista sta combattendo contro il mondo ebraico. Il Corano dice: 'Voi vi accorgerete che gli ebrei sono i peggiori nemici dei musulmani'. Vi sono inoltre considerevoli punti in comune tra i principi islamici e quelli del nazionalsocialismo, vale a dire nei concetti di lotta, di cameratismo, nell'idea di comando e in quella di ordine. Tutto ciò porta le nostre ideologie a incontrarsi e facilita la cooperazione, io sono lieto di vedere in questa Divisione una chiara e concreta espressione di entrambe le ideologie". In nome di questa ideologia antisemita e pestifera, nel 1948 il gran Muftì fu di nuovo alla guida del movimento palestinese nel tentativo di distruggere lo stato ebraico nascente. Al processo di Norimberga il vice di Adolf Eichmann, Dieter Wisliceny, disse che al-Husseini aveva pure visitato in incognito le camere a gas di Auschwitz.
(Il Velino, 10 luglio 2008)
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