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Notizie su Israele 436 - 15 settembre 2008
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1. Intervista a Tzipi Livni
2. Un'esperienza di lavoro in Israele
3. Polemica per la Bibbia in ebraico moderno
4. «Israele salvò le nostre vite»
5. Delazioni e suppliche all'alba dell'età moderna
6. La povertà in Israele
7. Provare per credere
8. Musica e
immagini
9. Indirizzi
internet
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Sofonia 3:16-17. Quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, o Sion, le tue mani non si indeboliscano! Il Signore, il tuo Dio, è in mezzo a te, come un potente che salva; egli si rallegrerà con gran gioia per causa tua; si acqueterà nel suo amore, esulterà, per causa tua, con grida di gioia».
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1. INTERVISTA A TZIPI LIVNI
Le preoccupazioni per le primarie
di Gil Hoffman
A pochi giorni dalle primarie che dovranno stabilire il nuovo leader del partito Kadima, e di conseguenza il prossimo primo ministro che si incaricherà di costituire un nuovo governo in Israele, Tzipi Livni - principale candidato alla successione di Olmert, insieme all'attuale ministro dei trasporti Shaul Mofaz - parla delle sue posizioni rispetto alle questioni internazionali che stanno a cuore ad Israele, soffermandosi in particolare sul futuro del conflitto israelo-palestinese
Il ministro degli esteri Tzipi Livni chiaramente non vede l'ora che la corsa per la leadership di Kadima giunga al termine, mercoledì prossimo. La Livni ha fatto la sua campagna elettorale in tutto il paese, ma in privato ammette che non le piace.
Per lei le primarie sono soltanto un mezzo per ottenere la candidatura a primo ministro, coronando la sua rapida ascesa che aveva avuto inizio quando fu eletta per la prima volta nella Knesset nel 1999.
La Livni è riuscita a conservare la sua immagine irreprensibile in una campagna in cui il suo principale avversario, il ministro dei trasporti Shaul Mofaz, ha cercato di mettere in luce tutti i suoi apparenti passi falsi e le sue debolezze.
Mentre i sondaggi le concedono un significativo margine di vantaggio su Mofaz, la Livni sa che deve riuscire a portare i suoi sostenitori alle urne, perché è là che i risultati contano veramente.
La Livni ha rilasciato un'intervista al Jerusalem Post nel suo ufficio di Tel Aviv, cercando di chiarire perché un primo ministro con le mani pulite non danneggerebbe Israele in una regione in cui i nemici dello stato ebraico spesso non combattono lealmente.
- D: Il suo principale vantaggio è quello di avere le mani pulite, ma questo non può essere in realtà uno svantaggio per un primo ministro, con un cattivo vicinato in cui i nostri nemici non rispettano le regole?
- R: La corruzione è debolezza interna. Mantenere una condotta onesta nell'attuale situazione politica in Israele richiede forza. Questo significa mantenere una posizione ferma di fronte ai membri del comitato centrale ed ai grandi milionari. I valori di Israele sono ciò che fa andare avanti il paese. Ma ciò di per sé non dice nulla su come io gestirei le minacce esterne. Nessuno dei nostri nemici pensa che io non sia pronta. Combatterò i cattivi, ma alla mia maniera. E la mia maniera si è dimostrata efficace. Sono in politica da meno di un decennio, e sono già un candidato realistico per il posto di primo ministro.
- D: Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, disse - quando ebbe inizio la seconda guerra in Libano - che egli l'aveva cominciata perché voleva mettere alla prova la debole leadership di Israele. Lei teme che Nasrallah cercherà di metterla alla prova, se lei dovesse diventare primo ministro, sulla base del malinteso secondo cui lei, essendo una donna, sarebbe un leader debole?
- R: Il fatto che io sia una donna non fa di me un leader debole. Dopo la guerra, Nasrallah ha detto che se avesse saputo che Israele avrebbe risposto nel modo in cui abbiamo fatto, non avrebbe dato inizio alla guerra. Mi piacerebbe pensare che anche i generali ci pensino due volte quando prendono le decisioni, proprio come faccio io. Non è che i generali premono il grilletto e le donne no. Non ho problemi a premere il grilletto quando è necessario. Io ero dell'opinione che dovessimo dare inizio ad un'operazione il 12 luglio (il 12 luglio 2006 ebbe inizio il conflitto tra Israele e Hezbollah che si sarebbe poi protratto fino al 14 agosto dello stesso anno (N.d.T.) ). Nel mondo arabo sanno molto bene quando posso essere dura e quando posso essere più incline al compromesso. Non c'è spazio per il compromesso con Hezbollah, e certamente non ve n'è con l'Iran che gestisce Hezbollah in Libano.
- D: Si sente pronta a prendere una decisione gravosa riguardo ad un attacco militare all'Iran?
- R: Concordo sul fatto che il primo ministro debba prendere decisioni difficili. Negli ultimi tre anni e mezzo ho preso molte decisioni difficili. Si, sono pronta. L'unica cosa che non farò è dire in anticipo cosa farò. I titoli dei giornali su questo argomento portano più danni che benefici.
- D: I problemi politici di Ehud Olmert stanno intralciando i negoziati con i palestinesi?
- R: No
- D: Olmert sta esercitando pressioni per raggiungere un accordo o per rendere pubblico ciò su cui è già stata raggiunta un'intesa?
- R: Non c'è modo di raggiungere un accordo adesso. Io non credo che Olmert lo possa fare, perché le parti coinvolte sono due. Le pressioni politiche possono portare a due risultati, entrambi inaccettabili: concessioni laddove dovrebbe essere vietato fare concessioni, oppure la rottura dei colloqui.
- D: Come possiamo sapere qual è il suo punto di vista sui negoziati con i palestinesi se le linee guida che lei fissa con la controparte palestinese escludono che possa trapelare qualcosa e dicono che non vi è accordo su nulla fino a quando non vi sarà un accordo su tutto? Come possono votare per lei con fiducia quei membri di Kadima che sono contrari ad eventuali concessioni su Gerusalemme?
- R: Posso dire quali sono le mie 'linee rosse' ed i miei principi. Non posso dire quanto in là sono andati i negoziati. Io penso che abbiamo bisogno di un processo diplomatico basato su due stati per due popoli; escludo il ritorno dei profughi palestinesi entro i nostri confini; e pongo delle condizioni sulla sicurezza, che includono la smilitarizzazione ed altre cose. Abbiamo bisogno di confini basati sulla sicurezza, sulla conservazione dei luoghi santi e di quei luoghi dove gli ebrei vivono in importanti concentrazioni di popolazione. L'opinione pubblica capisce questo quando parlo di due stati per due popoli senza dire quali sono gli esatti confini. La maggior parte dell'opinione pubblica vuole evacuare la minor quantità di persone possibile, conservando le nostre risorse ed i luoghi santi.
- D: Non capisco perché lei non acconsentirebbe a rimanere all'interno di Kadima se dovesse perdere la competizione. Non sarebbe l'atteggiamento di chi non accetta la sconfitta?
- R: Mi è stato chiesto se sarei rimasta a qualunque prezzo, ed ho risposto di no. Sono in politica per ragioni ideologiche, e non il contrario. Pensi che cosa mi si direbbe dopo, se lasciassi senza aver detto in anticipo che potrei farlo. Ho rifiutato di prendere un simile impegno anche quando ero nel Likud e la gente lo chiedeva. Io sono per il processo di Annapolis. Mofaz ha votato contro, ed è anche contrario ai negoziati sul Golan.
- D: Come risponde ai nostri lettori all'estero che pensano che una delle ragioni per cui non abbiamo avuto maggiore successo nella seconda guerra in Libano è che il ministro degli esteri (cioè la Livni stessa, che mantiene questa carica dal marzo del 2006 (N.d.T.) ) non rilasciò interviste alla stampa estera, nel corso di una guerra ampiamente combattuta anche sul piano delle pubbliche relazioni a livello internazionale?
- R: Promuovere le politiche israeliane per me è qualcosa di più che fare il mezzobusto in televisione. Durante la guerra, ho dovuto far progredire la soluzione diplomatica. Ho dovuto parlare a tutti i leader e ministri degli esteri del mondo affinché prendessero le decisioni giuste. Questo non è meno importante che parlare in televisione. Il fatto che ho mandato altri ministri ed altre persone a parlare in televisione dimostra che non mi preoccupo del mio ego, e che non ho problemi a lasciare che altri appaiano sullo schermo. Non mi attribuisco poteri soprannaturali che mi avrebbero permesso di persuadere la gente in misura maggiore di quanto hanno fatto altri. Ci sono brutte immagini in una guerra. Pur avendo Shimon Peres che parlava a nome nostro, quando metà dello schermo è occupata da un israeliano e l'altra metà da bambini uccisi, la parte che è più debole, o che così viene vista, vincerà sempre.
- D: Ma vi fu la sensazione che la guerra fosse cambiata radicalmente nel giorno di Cana, quando Israele non tirò fuori in tempo le immagini che dimostravano dove fosse realmente la colpa (il riferimento è al massacro originato da un attacco aereo israeliano il 30 luglio 2006 a Qana, un villaggio nel sud del Libano; le prime stime parlarono di quasi 60 vittime di cui circa la metà bambini; le cifre furono poi ridimensionate, pur rimanendo consistenti (N.d.T.) ).
- R: Le IDF (le forze armate israeliane (N.d.T.) ) hanno fornito i dati che potevano in una fase successiva. Prima di allora, stavamo combattendo in televisione senz'armi. La guerra non è finita in quel modo perché ad un certo punto il mondo ha smesso di provare simpatia per noi. La guerra è finita perché noi abbiamo deciso che era giusto per noi porvi fine. Il compito del ministro degli esteri non è quello di scaricarci di dosso il mondo in modo da guadagnare tempo per le IDF. Abbiamo cambiato questo modo di pensare. Il problema in quella guerra non è stato il tempo. Più tempo non sarebbe stato di maggiore aiuto.
- D: Come può essere soddisfatta del risultato della risoluzione 1701 dell'ONU, visto che essa non ha dato all'UNIFIL potere sufficiente per impedire che la Siria riarmasse Hezbollah?
- R: La risoluzione ha cambiato la situazione, visto che l'esercito libanese è ora nel sud del Libano. Il confine tra la Siria e il Libano non è mai stato sotto il nostro controllo, e non era questo l'obiettivo della guerra. L'embargo ha reso illegale il traffico di armi attraverso il confine. Non sono contenta del fatto che le armi passino. Ma siccome ciò non avviene sul nostro confine e nessuno pensa che dovremmo inviare truppe, il massimo che possiamo fare è mantenere l'embargo, ed io posso lavorare per far sì che esso sia rafforzato.
- D: Lei crede al presidente siriano Bashar Assad?
- R: Se la domanda è se egli vuole la pace o la legittimazione internazionale, non ho ancora ricevuto una risposta soddisfacente.
Titolo originale: Politics: Primary Concerns
(Chiosco, 15 settembre 2008)
2. UN'ESPERIENZA DI LAVORO IN ISRAELE
«Ho visto medici israeliani curare palestinesi»
L'esperienza di Letizia Ronchi a Tel Aviv.
Letizia è lughese ed è figlia del sostituto commissario della Ps di Imola. E' rientrata da Israele il 29 agosto, dopo essere stata a lavorare un mese e mezzo accanto al dottor Jacoov Or, direttore del dipartimento di urgenza del Sheba Medical Center, la più grande struttura ospedaliera del Paese, sede dell'università, nata come ospedale militare e come centro di riabilitazione e cure intensive per i soldati feriti in battaglia. Fu il dottor Ov a far da tramite, nel '94, fra il sistema sanitario israeliano e il nostro e da questo contatto nacque, anche con la collaborazione della regione Emilia Romagna, un programma teso a formare nuovi medici di Medicina d'urgenza, alla luce dell'esperienza degli israeliani in questo campo.
«Sono Letizia Ronchi, studentessa alla facoltà di medicina dell'università di Bologna, dove sto per iniziare il sesto anno. Sono nata a Lugo ed ho 24 anni. Sono appena rientrata da un mese e mezzo trascorso in Israele, a Tel Aviv dove, con un programma inserito nel contesto di un progetto dell'università di Bologna, ho frequentato e ho lavorato nel reparto di Medicina d'urgenza del Sheba, l'ospedale più grande del Medio Oriente, dove vengono trattati pazienti vittime degli attentati terroristici, oltreché pazienti di ogni sorta.
Due i motivi che mi hanno spinta a fare questa esperienza: capire se realmente la Medicina d'urgenza poteva essere la mia professione futura e rivisitare e conoscere i luoghi in cui la nostra tradizione cristiana ha avuto origine 2000 anni fa.
Prima di partire, così come nei giorni in cui ero in Israele, le mie domande, il mio desiderio di conoscere nell'ambito medico come nell'ambito umano tutte quelle diverse culture aumentava
tanto che mi riscoprivo sempre più attenta a qualsiasi piccolo particolare. Pensavo che dall'incontro con un bimbo di cinque anni che per strada a Gerusalemme vendeva granite o con un cameriere arabo che si sedeva a pranzo accanto a me raccontandomi la sua storia, la mia vita potesse arricchirsi
e così infatti è accaduto.
E' difficile dire cosa sia stato per me questo periodo in Israele: quando mi è stato chiesto di scrivere la mia testimonianza la prima parola che mi è venuta in mente è stata "incontro"
Infatti è stato proprio così, un incontro continuo, un incontro dopo l'altro
Ma due sono stati gli incontri che mi hanno insegnato qualcosa e lasciato un segno, oltre ad avermi permesso di vivere ogni cosa come nuova e come possibilità per me di scoperta: quello con il dottore Antonio Pezzi, che mi ha permesso di allacciare rapporti con un suo amico, il dottor Jacoov Or - secondo incontro importante - il quale da subito mi ha ospitata, accolta e introdotta in quest'avventura, trattandomi come una figlia.
E penso sia grazie anche ai vari altri incontri con arabi, cristiani, ebrei, religiosi e non, che posso dire che questa è stata un'esperienza estremamente interessante, perché mi ha permesso di entrare nel vivo di quella terra, di vivere cioè non da studente, né da turista, ma da "israeliana". Per questo, penso, e per la mia educazione cattolica e laica, mi sono accorta di quanto quella terra, apparentemente arida, caotica e per molti aspetti incomprensibile, sia misteriosamente affascinante! Sono stata partecipe del dramma di un Paese con etnie divise da varie identità che schiacciano l'uomo e della freschezza di uno Stato che oggi compie sessanta anni.
Ciò che in particolare mi ha colpito è stata l'esperienza nell'ospedale dove ho lavorato, quell'ospedale dove ho visto come concretamente la medicina sia uno strumento, un linguaggio che permette una comunicazione ed una condivisione, laddove i linguaggi e le ideologie degli uomini la rendono impossibile. Ho visto medici israeliani curare palestinesi con la stessa passione e amore (e sono certa delle parole che sto usando) che avrebbero dimostrato per i propri figli
Una cosa che ha dell'incredibile se si considera che il Paese è in guerra, o meglio non incredibile, piuttosto ... semplicemente 'umano'!
Là mi sono sentita subito 'a casa', perché accolta continuamente, in ospedale come a casa, dall'affetto degli israeliani, che sono un popolo che ha molto da dare e da offrire. Sono persone essenziali, con poco fanno molto, non si perdono nelle formalità che a volte cristallizzano i rapporti
. Sì, sono essenziali: ho riscoperto con loro la bellezza della natura, la semplicità di un tè bevuto in spiaggia al tramonto, preparato con fornellini a gas portabili, ho riscoperto il suono del silenzio e la bellezza del cielo.
L'Italia non mi è mancata, o meglio, non ho avuto il tempo di accorgermene! Mi piacerebbe tornare a Tel Aviv, e nei miei sogni c'è quello di recarmi di nuovo in quel posto per preparare la mia tesi di laurea. Chissà.... spero di potervi aggiornare su un mio prossimo ritorno in Israele!
Letizia».
(Il Nuovo Diario Messaggero, 5 settembre 2008)
3. POLEMICA PER LA BIBBIA IN EBRAICO MODERNO
La Bibbia tradotta in ebraico accessibile
di Aldo Baquis
Ambienti rabbinici gridano all'«eresia» e il ministero dell'Istruzione denuncia uno «scandalo» dopo che nei giorni scorsi in alcune scuole elementari di Israele sono state distribuite dispense della Bibbia dove, per una migliore comprensione, il testo originale in ebraico arcaico è accompagnato nella pagina a fianco da un testo in ebraico del XXI secolo.
L'operazione era nata con le migliori intenzioni nella mente di Avraham Ahuvya, 87 anni, un sopravvissuto del lager nazista di Buchenwald. Immigrato in Palestina negli Anni 40, uno dei fondatori del kibbutz di Netzer Sereni, Ahuvya ha dedicato la sua vita all'educazione. E nel contatto con i giovani ha spesso constatato che erano refrattari al Libro dei libri perché il linguaggio dei patriarchi di Israele era per loro ostico. «Per loro è come una lingua straniera - spiega Ahuvya -. Capiscono le parole, ma sfugge loro il significato delle frasi, il filo del discorso».
Per anni, settimana dopo settimana, Ahuvya - il nome significa: Amato da Dio - ha cercato di aiutare allievi virtuali scrivendo nel suo sito Internet in ebraico semplice la porzione settimanale della Bibbia. Gli amici gli dicevano che la sua iniziativa avrebbe scatenato reazioni ostili. Ma a chi è sopravvissuto agli orrori nazisti niente fa più paura: certamente non le circolari del ministero dell'Istruzione. A maggio, con l'aiuto di un editore privato, sono uscite le prime dispense della «Bibbia Ram» (il nome è un omaggio a una casa editrice ebraica di Varsavia, distrutta dai nazisti) e questa settimana sono entrate nelle classi elementari. «Il mio scopo - spiega Ahuvya - è avvicinare i bambini alla Bibbia, renderla loro familiare». Senza il suo testo ausiliario, teme, c'è il rischio che preferiranno restarne estranei.
E la temuta burrasca è arrivata. Ieri Ahuvya si è visto sulla prima pagina di «Haaretz», dove ha appreso che il ministero dell'Istruzione vieterà l'ingresso della sua opera nelle scuole. Nella Bibbia, gli è stato mandato a dire, «forma e contenuto sono tutt'uno». Se le generazioni passate di israeliani si sono cimentate con l'ebraico dei Patriarchi, lo facciano anche gli israeliani del Duemila. Espressioni di biasimo sono giunte anche dal mondo rabbinico, secondo cui il testo biblico fu scritto in «Lingua Sacra» e non potrà mai essere alterato da mano umana.
Ahuvya non si è perso d'animo per così poco. Già ieri ha aggiunto sul suo sito un nuovo testo, su re Salomone. Se è passato da una libreria forse ha anche visto il nuovo libro del romanziere Meir Shalev: «Genesi, le "prime volte" nella Bibbia». Un testo che rivisita il Libro dei libri con occhi laici e moderni. Ahuvya, insomma, non è solo.
(La Stampa, 6 settembre 2008)
4. «ISRAELE SALVO' LE NOSTRE VITE»
Brigitte Gabriel: Io, cristiana grata a Israele
di Giulio Meotti
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Brigitte Gabriel |
Nel 1975, allo scoppio della guerra in Libano, la sua casa venne distrutta dalle formazioni islamiche libanese che si scontrarono con le milizie cristiane. "Vivevo in una cittadina a sud di nome Marjayoun al confine con Israele. Nell'esplosione io sono rimasta ferita, la mia casa è stata distrutta e mio padre è diventato cieco". Brigitte Gabriel, giornalista e scrittrice di fama internazionale nonché fondatrice di Act for America, spiega in un'intervista al VELINO cosa l'ha spinta a scrivere "They must be stopped", un best seller fra i più discussi contro l'islamismo. "Fui ricoverata in ospedale per due mesi, durante i quali mi domandavo. 'Perché ci fanno questo?'. I miei genitori rispondevano: perché siamo cristiani e i musulmani ci considerano 'infedeli'. A dieci anni capì che mi volevano morta per il semplice fatto di essere di fede cristiana e di vivere in una città cristiana".
Quella bomba ha cambiato per sempre la sua vita. "Vissi i sette anni successivi in un rifugio senza elettricità, acqua e cibo. Siamo sopravvissuti senza sapere se avremmo visto il giorno seguente". Da cristiana e da araba, Brigitte parla al suo popolo dell'amore verso lo stato ebraico. "Israele fu l'unico paese che comprese ciò che stava accadendo in Libano e venne in aiuto dei cristiani cercando di ridare loro la democrazia ed espellere i gruppi islamici radicali che avevano conquistato il paese. Israele fu l'unico luogo dove recarci per le cure, dal momento che il Libano ci aveva escluso in quanto associati a Israele. Yasser Arafat aiutava i gruppi terroristici usando il Libano come base da cui attaccare Israele, uccidere gli ebrei e ricacciarli in mare. Israele salvò le nostre vite". Un amore così forte da spingerla a seppellire i genitori in terra ebraica. "Li portai a Gerusalemme perché volevo onorarli. È quella la Terra Santa dove molti vorrebbero essere sepolti. Volevo inoltre che il mio gesto parlasse da sé e che spiegasse
a coloro che
non vi sono nati cosa significhi Israele: l'unico paese in Medio Oriente che rappresenta la democrazia, i diritti umani, l'illuminismo, il progresso e la civiltà".
Quanto alle minacce che le sono arrivate da gruppi radicali, Brigitte taglia corto: "Se non parliamo adesso, quando?". Ha un debito anche per l'America. "Sono stata così fortunata a crescere i a coloro che
non vi sono nati cosa significhi Israele: l'unico paese in Medio Oriente che rappresenta la democrazia, i diritti umani, l'illuminismo, il progresso e
la civiltà".
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Quanto alle minacce che le sono arrivate da gruppi radicali, Brigitte
taglia corto: "Se non parliamo adesso, quando?". Ha un debito anche per l'America. "Sono stata così fortunata a crescere i miei figli negli Stati Uniti. L'America è il
sogno diventato il mio
indirizzo. Mi sveglio al mattino e ringrazio Dio. Non c'è posto simile all'America dove poter vivere, esprimere le proprie opinioni. È il paese dell'opportunità, il cielo è il suo unico limite. Il momento più bello è stato quando in tribunale ho giurato come cittadina americana".
(il Velino, 15 settembre 2008)
5. DELAZIONI E SUPPLICHE ALL'ALBA DELL'ETA' MODERNA
L'espulsione degli ebrei da Manfredonia
di Antonio Universi
In seguito al patto di Granada, concluso nel 1500, il ducato di Puglia viene assegnato alla Spagna. Ciò non lascia presagire niente di buono per gli ebrei, già espulsi dalla Spagna nel 1492 e 1497.
I loro timori si avverano nel 1501, quando Ferdinando il Cattolico ordina al gran capitano Consalvo da Cordova di espellere gli ebrei dal ducato di Puglia; ma questi, per evitare tumulti, non esegue l'ordine.
Nel novembre 1506 viene emanato un bando, con cui si stabilisce che i giudei "Dovessero portare in pecto lo signo del tundo rosso
". È del 1510 l'editto di espulsione dal Regno per tutti gli ebrei e i convertiti, i cosiddetti 'cristiani novelli'.
A seguito di varie proroghe e ripensamenti si arriva al 31 ottobre 1541, con il loro definitivo allontanamento dalla Puglia e da tutto il regno di Napoli perché ritenuti "elementi estranei e nocivi al corpo della Cattolicità".
A Manfredonia, dove la comunità giudaica vive tra alterne fortune sin dai tempi dell'antica Siponto, la situazione non è molto diversa dalle altre parti del Regno, e in più si intreccia con le lotte di potere per il governo della Città.
E così iniziano le prime delazioni e denunce ai danni dei cristiani novelli, accusati di essere dei convertiti fittizi al cristianesimo. Alcuni devono addirittura provare di non discendere "da linea giudaica", come Iannino De Pace che scrive e riesce a provare nel 1512 di essere 'de sangre limpio', e quindi può rimanere a vivere a Manfredonia con sua moglie e suo figlio.
Nel 1515 è la volta di Gerolamo Vespasiano che, rischiando di essere separato dalla moglie Camilla Comite prossima all'espulsione, scrive al "Magnifico Governatore" pregandolo e argomentando di non cacciarla, "benché dicta soa mogliere non venga de lignagio naturale et antiquo cristiano". Questo è solo uno dei molti casi di famiglie con figli nati da matrimoni 'misti', "supplicandone che potessero restare al dicto regno".
Così alla città di Manfredonia viene chiesto "de mandare una lista de tucti quelli che seranno accasati veramente et senza fraude con cristiane de natura vera et non discendenti de linea iudayca".
Nel 1516 vengono richieste informazioni alla città di Manfredonia su circa sessanta cristiani novelli, che in un primo tempo erano andati via da Manfredonia, ma poi erano tornati a vivere in città.
Nel 1534 viene presentata una denuncia contro parecchi cristiani novelli di Manfredonia, accusati di rifornirsi presso due ebrei di Troia del pane azzimo necessario per la celebrazione della Pasqua ebraica.
La denuncia è molto dettagliata e contiene nomi e cognomi di uomini accusati di mangiare azimelle nel periodo pasquale, di adorare il sole quando si leva al mattino, di non lavorare il sabato, di aver fatto circoncidere il proprio figlio, di leggere libri in lingua ebraica e di macellare secondo l'uso ebraico.
E ce n'è anche per le donne di "genere marrano", accusate di essere state viste nella chiesa di Santa Maria a mangiare e deridere la Madonna. Gran parte dei cittadini ebrei di Manfredonia si trasferisce in Grecia, a Salonicco, allora sotto il dominio dei turchi.
Nonostante la cacciata definitiva dal Regno, ancora oggi i documenti attestano la presenza di cognomi di chiara origine ebraica. Se ne deduce che alcuni riescono a rimanere o a tornare a Manfredonia, probabilmente abiurando e dimenticando definitivamente la fede ebraica.
Ad ogni modo, dal momento dall'espulsione in poi nessuna traccia di elementi di religione ebraica si riscontra più nelle fonti cittadine. Ciò dimostra quanto fu tragicamente efficace la politica dei cattolicissimi regnanti di Spagna.
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Fonti:
Coniglio G., Ebrei e cristiani novelli a Manfredonia nel 1534, in Archivio Storico Pugliese, anno XXI, fasc. I-IV, genn.-dic. 1968
C. Colafemmina, Cristiani novelli a Manfredonia nel secolo XV. In: Atti dell'XI Convegno di Preistoria-Protostoria e Storia della Daunia (San Severo, 2-3 dicembre 1989), San Severo, Gerni, 1990, 269-278.
C. Colafemmina, Ebrei e cristiani novelli in Puglia. Le comunità minori, Bari, Assessorato alla Cultura della Regione Puglia-Istituto Ecumenico "S. Nicola", 1991, pp.215
(Manfredonia.net, 5 settembre 2008)
6. LA POVERTA' IN ISRAELE
In Israele il gap sociale si sta allargando
Un rapporto sulla povertà del "National Insurance Institute" relativo al 2007 fa risaltare la grande differenza esistente tra i secolari e le comunità religiose ebree e arabe.
di David Regev
La povertà in Israele non è soltanto questione di salario, ma anche di origine etnica e di stato sociale. Nel suo annuale resoconto, il National Insurance Institute ha rivelato che nelle comunità di ebrei ultra-ortodossi la povertà è quattro volte più alta che nelle comunità laiche. Il settore di popolazione più indigente, secondo l'Istituto, è costituito dai beduini: la povertà tra di loro è otto volte più alta che tra gli ebrei laici. L'80 % dei beduini che abitano in insediamenti non registrati vivono sotto il livello di povertà.
Il rapporto 2007 del National Insurance Institute ha rivelato che l'anno scorso più di 1.6 milioni di israeliani vivono sotto il livello di povertà - e che 805.000 di questi sono bambini. L'assistenza sociale ha dispensato aiuti ai cittadini per un ammontare di 47 miliardi di shekel (circa 13 miliardi di euro), cioè 2 miliardi in più del 2006.
Il rapporto ha anche differenziato i vari segmenti di povertà. Per ogni gruppo sociale, la percentuale di poveri è la seguente:
laici: 14%
laici immigrati dopo il 1990: 19%
arabi israeliani cristiani: 32%
musulmani: 50%
ebrei ultra-ortodossi: 57%
beduini abitanti in insediamenti registrati: 61%
beduini abitanti in insediamenti non registrati: 80%
Il dr. Daniel Gotlib, uno dei responsabili dell'inchiesta, sostiene che la ragione di questi grandi scarti tra livelli di povertà sta nella mancanza d'infrastrutture come l'istruzione, l'elettricità, l'acqua, le strade: in altre parole, l'emarginazioni di alcune di queste popolazioni. Secondo lui, se nei prossimi queste infrastrutture non saranno migliorate, la povertà non potrà che aumentare.
Da queste inchieste risulta che dal 2002 la metà delle famiglie bisognose e un terzo dei bambini poveri sono potuti uscire da questa situazione di povertà grazie alle indennità ricevute. L'anno scorso invece soltanto un terzo delle famiglie povere e un sesto dei bambini poveri hanno potuto essere aiutati efficacemente. Le indennità sono sempre meno sufficienti a risolvere il problema. Attualmente si constata anche il degrado di numerose famiglie dove i genitori lavorano entrambi e che tuttavia vivono sotto il livello di povertà. Nel 1990 il numero delle famiglie che lavoravano ed erano povere era del 28%, l'anno scorso questa cifra ha raggiunto il 46%. In altri termini, il lavoro non ha fatto uscire queste famiglie dalla povertà ma, al contrario, sempre più famiglie che lavorano diventano povere. L'assistenza sociale spiega questo fatto dicendo che anche se sempre più famiglie povere entrano nel mondo del lavoro, lo stipendio che ricevono è sempre più basso.
(Yediot Aharonot, 1 settembre 2008 - ripreso da Un écho d'Israël - trad. www.ilvangelo-israele.it)
7. PROVARE PER CREDERE
Israele non è tutto "guerra e paura"
Una ragazza italiana racconta in modo fresco e accattivante il suo primo viaggio di nove giorni in Israele
di S.D.
Come meta turistica il nord di Israele è quantomeno poco convenzionale e non è difficile capire perché. Ovviamente gli attacchi terroristici rimangono impressi nella memoria molto più di un documentario sulle bellezze della galleria di arte moderna a Tel Aviv, l'attacco al porto di Haifa fa dimenticare la bellezza dei giardini della città e Gerusalemme rimane, per molti unicamente, "la città contesa". Non posso certo sostenere che un viaggio in Israele non sia un'esperienza diversa e per molti aspetti pericolosa (due giorni prima e il giorno dopo il mio arrivo dieci persone hanno effettivamente perso la vita negli attentati sugli autobus della capitale), ma vorrei sfatare il mito che in Israele tutto è guerra e paura.
Quando erano i miei compagni di scuola a dirmelo faticavo quasi a crederci, soprattutto conoscendo la storia travagliata della regione, ma mi sono bastati nove giorni, insieme a guide d'eccezione e ad una certa dose di pazienza, per ricredermi. Il mio viaggio incomincia con un interrogatorio di 40 minuti: un ragazzo tra l'imprecisato numero di addetti alla sicurezza della compagnia di bandiera Israeliana El Al mi bracca appena metto piede nell'area check in, dimostrandosi estremamente scrupoloso nel raccogliere informazioni sulle ragione del viaggio, vita, professione, relazioni, competenze linguistiche, nome, cognome, indirizzo e numero di telefono di chiunque io conosca in Israele.
Quando questa tappa giunge al termine, non importa più se si tratta del vostro primo viaggio fuori dall'Europa, avete 19 anni e siete effettivamente soli: vi sembrerà che con voi ci sia qualcuno che vi conosce da sempre. Avrete anche passato quel difficile stadio in ogni relazione in cui si fa conoscenza con gli amici l'uno dell'altro: tu, passeggero, vieni interrogato da altri due colleghi, mentre lui effettua la telefonata di rito ai tuoi contatti in Israele, per controllare che le informazioni fornite siano adeguate è di rito.
"Ma quantomeno la sicurezza è assicurata", spiegherà qualsiasi israeliano a cui vi sentirete autorizzati a far presente l'invadente scrupolosità della compagnia di bandiera. La snervante burocrazia di un paese che è conscio di essere in costante pericolo può essere sveltita credo in un solo modo, ovvero avendo un soldato dell'intelligence israeliana di fianco: quando i vecchi compagni di scuola diventano fondamentali... Solo nella prima mezz'ora il berretto verde assicura che i vostri euro siano convertiti accuratamente in shekalim (5shk=1euro), che le vostre borse non vengano perquisite sul treno, che un ragazzino si alzi e vi ceda il posto quando entrate nel vagone e che nessuno tenti di vendervi qualche cosa. Certo, la presenza della divisa non vi farà sentire unici. Quasi un terzo delle persone che affollano la stazione dei treni in prossimità dell'aereoporto Ben Gurion di Tel Aviv indossa gli stessi abiti, quelli militari. Pochi sono in servizio, ma se hai 20 anni in Israele finisci per vestire l'uniforme praticamente sempre: i mezzi pubblici sono gratis, come musei, teatri, cinema, e molti altri servizi. Il viaggio non segue un piano preciso, fondalementalmente ci spostiamo in autobus facendo base in un appartamento di Kfar Yona, un villaggio a Nord Est, due ore di autobus da Tel Aviv e 15 minuti dal West Bank. La prima serata in Israele l'ho passata a Natania, a provare il falafel (palline rotonde di ceci tritati e spezie) più buono di sempre, cucinato e comprato nel chiosco più scalcinato (e immagino sporco, ma non ho voluto approfondire), a cinque minuti dalla stazione dell'autobus.
In Israele vanno a tutte le ore del giorno e della notte, non sono mai in ritardo ma spesso passano in anticipo, sono dotati di un'aria condizionata temibile e praticamente sempre pieni. La mattina seguente sfidiamo il sole già alto alle 9 di mattina e la tipica colazione israeliana che ha ritmi da pranzo della domenica italiano e ci avventuriamo a Tel Aviv, solo 40 minuti di treno. La città è enorme e per chi è interessato alla storia e alla politica di Israele (come lo sono io!) offre tantissimi stimoli. Dal palazzo dei bottoni del Mossad (Israeli Institute for Intelligence and Special Operations) e degli altri corpi dell'Intelligence, alla piazza dove è stato assassinato Rabin passando per le vie percorse giornalmente dai ministri che affollano i nostri telegiornali. Vale decisamente la pena di affrontare i controlli di sicurezza e visitare l'esposizione permanente di Chagall al museo di Arte contemporanea di Tel Aviv, per poi sedersi semplicemente su un autobus che percorre il centro cittadino fino ad uno dei mercati principali, Carmel. Essendo il posto più economico in cui fare la spesa di tutta la città, è da evitare se non siete amanti della folla, ma ciò significherebbe precludervi un mare di odori e colori che raramente capita di vedere in Europa. Un caos che vale però la pena di lasciarsi alle spalle per camminare nei quartieri antichi, con le sue gallerie d'arte, i negozi, i colori delle case che sembrano appartenere ad un mondo diverso rispetto ai grattacieli dei quartieri poco distanti. Ma soprattutto, bisogna cercare uno dei piccoli chioschi di libri: queste biblioteche sono incustodite, mentre la scaffalatura si riempie di libri usati lasciati da chiunque e che chiunque può acquistare a dei prezzi irrisori, lasciando l'importo in una cassetta. Con tre shekalim (60 centesimi di euro) mi sono aggiudicata una copia degli anni cinquanta di "Farwell to Arms", Hemingway. Presto sentiamo la necessità di una giornata all'insegna del riposo: abbiamo passato due ore bellissime in un bar (Coffèe Boutique) a Kfar Saba, dove bisogna provare i biscotti della proprietaria, che tiene segreta la ricetta, ma offre volentieri dei consistenti assaggi. Alla sera ci avventuriamo nuovamente fuori dal paese, un po' più a Sud, ma sempre più vicini al West Bank: Khokav Yair, dove vive un altro mio compagno di scuola. Il villaggio è stato fondato da personaggi dell'elite militare Israeliana. Nello stesso quartiere dove ora abita Bar, il mio amico, vive anche Barak, il famigerato ministro degli esteri. "A poche centinaia di metri", mi racconta il padre di Bar (ex comandante in un corpo militare legato al Mossad e che - ufficialmente - non esiste più) "c'è la sinagoga dove si riunivano a prendere decisioni strategiche nei momenti di crisi Rabin, il suo governo, ma anche i suoi oppositori". Lo dice con visibile orgoglio e per chi si interessa ad Israele e vuole capirne le meccaniche, parlare con il Signor Philosoph è una vera lezione di politica, storia, cultura e sociologia: "Anche se viviamo in uno stato fortemente secolare, la religione continua ad essere un collante forte per un paese i cui abitanti hanno in comune poco d'altro".
Israele è composto solo da immigrati, tra cui si evidenziano certi gruppi, come le minoranze russe o eritree, per cui è difficilissimo integrarsi. I politici eletti, rappresentano tutti, e l'unico modo che hanno per accrescere il proprio ascendente su una popolazione così variegata è, appunto, appoggiarsi a due elementi: la religione e la necessità di difendersi. I due fattori che legittimano e rafforzano la presenza di Israele nel contesto arabo del Medio Oriente. Questo, in cosa si esplica? "Ad unirci è, poi, solamente l'esperienza del servizio militare", spiega Bar.
La visita a Gerusalemme era uno dei momenti che più ho atteso del mio viaggio e certo non mi ha deluso. In mattinata siamo entrati nello Knesset, il Parlamento Israeliano, e poi ho incontrato Amira Hass, una giornalista israeliana che collabora anche con alcuni giornali italiani, che mi racconta dell'occupazione, della testa degli Israeliani, di quella dei Palestinesi: mi spiega la politica, la storia e la sociologia di quello stesso paese, plasmandola e rimodellandola . Si tratta di uno dei miei miti viventi e per molti aspetti vorrei che la mia carriera un giorno potesse ricalcare quello che è stata la sua. Non è difficile capire perché la mia giornata parte così bene. Ma arrivando a Gerusalemme sono rimasta colpita soprattutto dalla sua diversità. Se Tel Aviv sembra una capitale europea con annessi dei quartieri da provincia rurale, Natania ricorda le città del sud del nostro paese e Khokav Yair un quartiere residenziale che si estende per chilometri, Gerusalemme non è paragonabile a niente. Per me rappresenta l'emblema di un paese frazionato e diviso, profondamente legato ad una storia sì lunghissima, ma sempre diversa. Così i quartieri più nuovi sono caratterizzati da un'architettura che , ci spiega il tassista, "esiste solo qui, quindi è inutile che cerchiate di farvi venire in mente dove avete visto qualcosa di simile", le colline sono dei veri reperti storici, ma lasciano intravedere i territori occupati, e la città vecchia è un dedalo di vie intricatissime, dove c'è sempre vento, odore di spezie e moltissima confusione. E' divisa in tre parti, musulmana, ebrea, cristiana, e non servono cartelli per accorgersene. La fisionomia delle persone che percorrono le strade cambia più dei negozi. Si sentono parlare almeno tre lingue, i venditori hanno un modo diverso di rivolgersi a chi passa, gli odori, le merci, l'architettura, il selciato: tutto cambia in funzione del simbolo religioso che giace al centro di ognuna delle aree. E' difficile crederlo, ma la grande moschea dorata si apre quasi a tradimento, dopo aver percorso un viottolo scuro e affollato da bambini arabi che gestiscono, apparentemente da soli, botteghe di frutta e verdura. Ugualmente la distesa che precede il muro del pianto si apre agli occhi di chi visita la città quasi all'improvviso, mentre trovare la chiesa... è un'impresa. Davanti si aprono una piazza e una via piuttosto ampie, che sembrano trovarsi al centro di quei cunicoli per caso. E gli stessi cunicoli ti catapultano nel santo sepolcro, e poi fuori, davanti alle mura della città. E' difficile però scegliere quali sono gli scorci più belli di questo angolo di paese che ho visitato. A contendersi il titolo ci sono i giardini di Haifa (la punta nord del paese) e Yafa, la cittadella di Tel Aviv. Chi soffre il caldo sentirà la necessità di visitare il primo di questi due posti dopo pochi giorni in Israele, e godersi il vento e il fresco di questo città, molto europea, piena di parchi e di passeggiate, e con un festival estivo di tutto rispetto (a luglio). E' anche conosciuta per avere tra i più bei bar di Israele: uno per tutti, quello gestito da Israeliani e Palestinesi insieme, è uno dei posti dove mangiare il miglior humus. Nella mia personale esperienza, ho trovato di meglio solo nelle cittadine arabe del Nord. Se il primo luogo comunque vede Israele in costante stato di allarme bellico, il secondo lo vuole un posto semi desertico.
Arrivare ad Haifa percorrendo la strada antica (un paio d'ore da Kfar Sava, e meno di tre da Tel Aviv) è un'immersione nella storia del conflitto, ma anche un viaggio in quel verde di cui gli israeliani vanno così fieri. Un'altra ragione d'orgoglio è Yafa: gallerie d'arte, una piazza a picco sulla costa di Tel Aviv, e il più grande mercato dell'usato dello Stato. Da visitare anche la mostra fotografica che ritrae tutti i maggiori personaggi politici Israeliani intenti nelle attività più disparate. Dopo aver osservato Golda Meir lavare i piatti in tutti i cartelloni pubblicitari di Tel Aviv non potevo mancarla! Yafa è la visita ideale dopo una serata per locali nella "quasi-capitale" israeliana. E' impossibile raccontare tutto quello che ho fatto in 9 giorni passati dormendo sugli autobus, nei parchi o sul divano di amici è impossibile. Israele è un paese troppo ricco di stimoli, con una popolazione estremamente varia, stimolante, piena di vita. Non è nemmeno così diversa dall'Italia, per molti aspetti.
Ma l'unica cosa da fare è
provare per credere.
(Giornal.it, 3 settembre 2008)
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