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Notizie 16-30 aprile 2023


Limes, megafono anti-israeliano

di Davide Cavaliere

L’ultimo numero di Limes, uscito a marzo, programmaticamente intitolato «Israele contro Israele», data la quantità di cliché e di abusate banalità in esso contenute, si rivela una perfetta guida per continuare a non capire nulla della realtà israeliana.
  La tesi generale del volume, espressa coralmente da tutte le firme, è la seguente: in Israele la democrazia è in pericolo o, meglio ancora, Israele starebbe completando la sua definitiva trasformazione in Stato razzista e teocratico. «Perché è questo che Israele fa da più di mezzo secolo. Tratta i Territori palestinesi occupati quasi fossero di sua proprietà. Aree da colonizzare, da annettere, come di fatto sta avvenendo. Spazi su cui instaurare un regime di apartheid», così afferma, intervistata da Umberto De Giovannangeli, Hanan Ashrawi, ministro dell’ANP.
  I responsabili della presunta involuzione etno-nazionalista di Israele sarebbero i cosiddetti «coloni», i sionisti religiosi e gli ultraortodossi, intorno ai quali, Limes, tesse una vera e propria demonologia. Włodek Goldkorn ci informa che Netanyahu, alleandosi con «il partito che rappresenta l’ala più oltranzista dei coloni, nonché con i rappresentanti dell’ebraismo ultraortodosso», avrebbe spostato il baricentro politico israeliano verso la destra razzista e populista. Della Pergola parla di «grossa sezione venata di razzismo e ultranazionalismo». Mentre, secondo Arturo Marzano, il Likud «appoggia totalmente la colonizzazione crescente di Giudea e Samaria». Ancora De Giovannangeli, invece, avvisa il lettore che le violenze dei «coloni» a danno dei palestinesi «possono contare sulla copertura dei partiti di estrema destra al governo in Israele».
  Gli autori di Limes non capiscono, o preferiscono non capire, che l’avanzata elettorale della cosiddetta «estrema destra», definizione quanto mai vaga e meramente polemica, è il frutto dei numerosi fallimenti della sinistra laica israeliana che, a differenza della destra, non è stata capace di comprendere la reale natura dei nemici, interni ed esterni, di Israele. Gli israeliani, diversamente dai redattori della rivista, non hanno dimenticato ciò che è avvenuto a partire dal fallimento del vertice di Camp David nel 2000. Arafat, dopo aver rifiutato il piano offertogli da Bill Clinton e Dennis Ross, che pure concedeva ai palestinesi quasi tutto ciò che essi pretendevano da anni, lanciò la Seconda Intifada, che costituì il più grande massacro di ebrei dalla fine della Seconda guerra mondiale.
  L’elettorato israeliano ha ancora ben presente l’odio apocalittico e fanatico di movimenti come Hamas e la Jihad Islamica, il consenso popolare palestinese agli attentatori suicidi, le madri che incitavano i loro figli a trasformarsi in bombe umane, le macabre esibizioni di cadaveri, il culto della morte a cui partecipò quasi tutta la società palestinese. Il terrorismo non è, come si evince dalla lettura di Limes, una reazione all’«occupazione» israeliana o alla povertà, bensì il portato di un’ideologia omicida. Affermare che gli arabi-palestinesi comprendono solo il linguaggio della violenza non è «razzismo» e men che meno «orientalismo», ma la semplice constatazione di un fatto accertato. Tutti i piani di pace, infatti, anche i più ragionevoli, sono stati fatti fallire dalla controparte palestinese, che alla convivenza con Israele ha preferito il terrorismo suicida e la lotta a oltranza.
  Itamar Ben Gvir e i membri del suo partito, Otzma Yehudit, qualificati come «fanatici», sono a ben vedere dei realisti. La loro proposta di espellere i cittadini arabi dello Stato d’Israele che non sono fedeli a quest’ultimo, può sembrare dittatoriale, ma solo se non si considera che gli arabi israeliani sono una bomba a orologeria pronta a esplodere alla prima occasione utile. Lo si è visto due anni fa, nel maggio 2021, quando nella città di Lod, nel corso dell’ultimo scontro con Hamas, bande di facinorosi arabi israeliani hanno dato alle fiamme sinagoghe, negozi, automobili, costringendo buona parte dei residenti a rimanere chiusi in casa, per non parlare dei regolari tumulti scatenati sul Monte del Tempio, noto anche come Spianata delle Moschee. Lo Shin Bet monitora quotidianamente il traffico d’armi clandestino che avviene in seno alla comunità arabo-israeliana, una cui consistente quota considera Israele un tumore da estirpare con la violenza.
  Quella che vorrebbe essere la «rivista italiana di geopolitica» abusa di termini e definizioni polemiche e fumose e mistificanti come «colonizzazione», «occupazione», «apartheid», «sudafricanizzazione», rendendosi indistinguibile da un ciclostile di qualche organizzazione universitaria di estrema sinistra. Gli autori, però, si guardano bene dallo specificare quali territori di uno Stato sovrano Israele «occuperebbe» e quali pratiche di esclusione metterebbe in atto. Si limitano a dare voce ai deliri di Hanan Ashrawi, definita dalla Zionist Organization of America come «una dei principali apologeti palestinesi del terrorismo». Nel settembre 2001, quando le fu chiesto di commentare gli omicidi di israeliani da parte di arabi palestinesi, Ashrawi affermò, su Voice of Palestine, che «l’unica lingua che Sharon capisce è quella della violenza».
  In questo recente volume si trova anche un’intervista, curata nientemeno che dal direttore responsabile, Lucio Caracciolo, a Peter Beinart, docente alla scuola di giornalismo della City University of New York. Beinart è un attivista anti-israeliano e un sostenitore del Movimento Boycott, Divestment and Sanctions. Di recente, in un articolo sul The Guardian intitolato «The US supports illegal annexations by Israel and Morocco. Why the hypocrisy?», Beinart ha tracciato un parallelo tra l’invasione russa dell’Ucraina e le azioni difensive di Israele durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967. Nel pezzo, il docente americano, suggerisce che gli Stati Uniti dovrebbero smettere di fornire aiuti militari allo Stato ebraico perché, così facendo, «renderebbero più vulnerabili l’Ucraina, Taiwan e ogni altra nazione più debole confinante con un rapace vicino». Insomma, secondo Beinart, Israele sarebbe un «rapacious neighbor», che attaccherebbe arbitrariamente i vicini e, fornendogli aiuti militari, gli Stati Uniti non solo incoraggerebbero le sue aggressioni, ma anche quella della Russia contro l’Ucraina.
  Il numero di Limes in questione dedica ampio spazio alla riforma giudiziaria promossa dal governo guidato da Netanyahu. Il dibattito sulla proposta di riforma è inquadrato nel più ampio conflitto tra «universalismo» ebraico e sionismo, tra «democraticità» ed ebraicità. In questo quadro, la Corte suprema israeliana sarebbe un organo schierato a difesa della democrazia e della laicità. Ignorando consapevolmente autorevoli opinioni sul potere ipertrofico della Corte, a cominciare da quella di Moshe Landau, il prof. Della Pergola scrive «Se la Corte suprema ha un ruolo che può apparire a volte esagerato e invadente, questo dipende dalle lacune e dall’impotenza della Knesset». Netanyahu, dunque, non starebbe tentando di riequilibrare lo Stato di diritto, ma cercando di eliminare un ostacolo al suo programma nazionalista e «segregazionista».
  Dalla lettura del volume emerge un pensiero ben poco recente. Scorrendo le pagine ci si rende conto che in esse si riannoda l’antica condanna dell’ebreo «secondo la carne», del suo particolarismo, del suo esclusivismo, del suo egoismo tribale. Vi è un eco di San Paolo, con l’accusa mossa agli ebrei di chiudersi in sé stessi, di preferire i loro legami di sangue ai valori universali. I palestinesi, come ha scritto Alain Finkielkraut, non sono più i nemici degli israeliani, ma il loro Altro. Israele sarebbe in lotta con l’alterità, dunque con l’umanità, il che ne farebbe il criminale per eccellenza. In questo tempo di penitenziale smantellamento dello Stato-nazione, agli ebrei non si perdona il loro voler far coincidere Eretz Yisrael (la terra d’Israele) con Medinat Yisrael (lo stato d’Israele). Ecco, allora, che piovono le accuse di «razzismo» e «ultranazionalismo».
  Limes vorrebbe aiutare a capire, ha persino l’ambizione di voler spiegare, ma in realtà confonde le acque, riproponendo tesi sconfessate e palesi falsità. Non una parola è stata dedicata all’atteggiamento della sinistra israeliana, che ha esacerbato il clima politico paventando l’avvento della dittatura o della teocrazia. Come ha scritto John Podhoretz sulla rivista Commentary: «è del tutto normale che un governo vincente entri in carica desideroso di attuare le politiche su cui si è basato, anche se quelle politiche sono controverse. Dobbiamo tenere presente questo fatto mentre consideriamo il comportamento del corpo politico di sinistra di Israele e dell’élite intellettuale da quando il governo ha preso il potere. Sono le persone nelle strade che si comportano in modi senza precedenti in una democrazia funzionante, non il governo eletto democraticamente a cui si oppongono».
  Dopo aver ospitato i deliri di Dario Fabbri sulla «stirpe» ebraica, la «rivista italiana di geopolitica» si conferma, ancora una volta, come megafono dei peggiori luoghi comuni anti-israeliani.

(L'informale, 30 aprile 2023)
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A parte il riferimento a San Paolo, con cui l'autore dimostra di avere poca familiarità con l'argomento e che avrebbe fatto meglio ad evitare, le critiche al libro di Limes sono valide. In un suo video Lucio Caracciolo dice in un suo passaggio che Israele è nato come conseguenza della Shoah, riprendendo una narrazione molto diffusa ma semplicemente falsa, che non avrebbe dovuto essere ripetuta da chi si presenta come esperto della materia. M.C.

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L'esuberante gioia di Dio nella fondazione della terra

di Marcello Cicchese

“Con la sapienza il Signore fondò la terra, e con l’intelligenza rese stabili i cieli” (Proverbi 3:19).

PROVERBI 8

  1. Il Signore mi ebbe con sé al principio dei suoi atti, prima di fare alcuna delle sue opere più antiche.
  2. Fui stabilita fin dall'eternità, dal principio, prima che la terra fosse.
  3. Fui generata quando non c'erano ancora abissi, quando ancora non c'erano sorgenti rigurgitanti d'acqua.
  4. Fui generata prima che i monti fossero fondati, prima che esistessero le colline,
  5. quando egli ancora non aveva fatto né la terra né i campi né le prime zolle della terra coltivabile.
  6. Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un circolo sulla superficie dell'abisso, 
  7. quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
  8. quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il loro confine, quando poneva le fondamenta della terra,
  9. io ero presso di lui come un artefice; ero sempre esuberante di gioia giorno dopo giorno, mi rallegravo in ogni tempo in sua presenza;
  10. mi rallegravo nella parte abitata della sua terra, trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.

E’ la sapienza che parla. La sapienza di Dio, naturalmente, non di uomini, perché nessun uomo era presente alla fondazione della terra.
  Nel libro dei Proverbi la sapienza (חכמה) appare nella maggior parte dei casi come virtù morale (Proverbi 11:2) o capacità intellettuale (Proverbi 14:33) raccomandate agli uomini. Con questi significati il termine può essere trasferito senza difficoltà nel nostro linguaggio e se ne possono ricercare attualizzazioni.
  Ma in alcuni casi, come in questo brano, il termine è usato come se si riferisse ad una persona ben definita: la sapienza grida, chiama, alza la voce, invita (Proverbi 1:20-24); a chi non vuol sentire rivolge minacce (Proverbi 1:24-32); a chi ascolta fa promesse (Proverbi 1:33).
  Secondo qualcuno si tratterebbe di una presentazione metaforica di concetti astratti. Rappresentare in forma personificata concetti morali come giustizia, pace, libertà non è certo una cosa strana; spesso anzi è visto come  un modo particolarmente efficace di trasmettere un messaggio di alto valore per l’umanità.
  In questo caso però, come anche in Proverbi 3:19, la sapienza non è presentata in forma di raccomandazione agli uomini, ma come un agire di Dio nella sua opera di fondazione del creato. La sapienza qui è un “qualcuno” che in momenti topici dell’azione creativa di Dio si trova là, proprio là:

    “Quando egli disponeva i cieli io ero là … quando… quando… quando poneva le fondamenta della terra io ero presso di lui come un artefice" (vv. 27-30).

Ma chi è questo “qualcuno” che era là mentre Dio lavorava? In che relazione si trova con Lui?
  La risposta si deve cercare nei primi quattro versetti, da 22 a 25.
  Tre forme verbali esprimono in italiano questa relazione: mi ebbe con sé (v. 22), fui stabilita (v. 23), fui generata (vv. 24, 25), corrispondenti nell’ordine ai tre verbi ebraici קנה (qanah), נסך (nasak),  חול (chul).
  Il verbo qana non è lo stesso usato nel primo versetto della Bibbia (barà), quindi la traduzione della CEI “mi ha creato” è tra le meno convincenti. Traduzioni alternative usate in italiano sono: mi possedette e mi formò. L’imbarazzo della scelta forse sta nel fatto che nella Bibbia in quasi tutti gli altri casi il verbo qanah significa comprare o acquistare, e così viene anche tradotto. In che senso allora Dio potrebbe aver “acquistato” la sapienza per creare il mondo?
  La prima volta che viene usato questo verbo nella Bibbia si trova nel libro della Genesi:

    “Or Adamo conobbe Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino, e disse: «Ho acquistato (qanah) un uomo dal Signore»” (Genesi 4:1).

In un altro caso Mosè rimprovera il popolo con queste parole:

    “È questa la ricompensa che date al Signore, o popolo insensato e privo di sapienza? Non è lui il padre che ti ha acquistato? Non è lui che ti ha fatto e stabilito?” (Deuteronomio 32:6).

E agli anziani di Betlemme Boaz dice:

    “… ho pure acquistato Rut, la Moabita, moglie di Malon, perché sia mia moglie, per far rivivere il nome del defunto nella sua eredità” (Rut 4:10).

Sono esempi in cui non si tratta di comprare qualcosa, quindi potrebbero aiutarci in seguito a capire in quale senso Dio ha “acquistato” la sapienza.
  Il verbo nasak  viene reso nelle traduzioni italiane correnti con le espressioni fui stabilita o fui costituita, di pari valore semantico.
  Il verbo chul  è tradotto con fui generata o fui prodotta, ma si tratta di scelte determinate dal significato che si vuol dare alla frase nel suo insieme, perché la radice di quel termine compare in una varietà di modi nella Bibbia.
  Nella criptica autopresentazione della sapienza ci sono due aspetti che risaltano in modo particolare.

• Aspetto personale
  La sapienza ha una personalità: è “qualcuno”. La sapienza chiama, istruisce, grida, esorta, riprende, governa, promette (Proverbi 8:1-21): dunque ha pensiero, volontà, capacità di decidere e agire. Si dirà che è un antropomorfismo, una personificazione. Ma personificazione di che cosa? Noi costruiamo una persona immaginaria usando un insieme di pensieri e giudizi che appartengono a noi, al nostro umano modo di vivere, ma in quale modo si potranno personificare i pensieri e i giudizi di Dio? Quale nuova immaginaria persona si potrà formare con questi elementi? Un altro dio forse, come pensa qualcuno, ma non può essere certo questa la nostra risposta. C’è un unico Dio che ha formato i cieli e la terra, come è stato rivelato agli uomini attraverso il popolo d’Israele: dunque da qui si deve sempre partire.
  E’ possibile invece che attraverso passi “difficili” come questo, o come per esempio Giobbe 28, Dio voglia rivelare agli uomini, negli “strani” modi che gli appartengono, aspetti profondi della sua persona per il resto imperscrutabile. La sapienza di cui qui si parla non può essere che Dio stesso che si rivela agli uomini in un abito particolare.
  Gli abiti con cui Dio si presenta alle creature sono diversi e devono essere volta a volta riconosciuti. Nel principio Dio si è rivelato come un operatore , cioè uno che lavora al fine di ottenere un risultato. E lo ottiene, con sei giorni di lavoro. E il risultato è pienamente soddisfacente: era tutto “molto buono”.
  Ma prima di lavorare, Dio che cosa faceva? Risposta: Dio pensava. Pensava al lavoro che avrebbe fatto in quei primordiali sei giorni, perché la creazione, prima ancora di apparire nella sua concretezza, è esistita nella mente di Dio come progetto. Ed è nel progetto, prima ancora che nella sua messa in opera, che si manifesta l’infinita sapienza di Dio. Si potrebbe dire allora che la Sapienza di cui qui si parla è Dio che si presenta nel suo abito di progettista

• Aspetto temporale
  Quattro volte nella traduzione italiana di questo testo è ripetuto l’avverbio prima (vv. 22, 23, 25) e due volte è nominato il principio (vv. 22, 23). All’inizio della creazione la sapienza era già là (v. 22), ma il suo esserci proveniva dall’eternità (v. 23). La creazione dunque ha avuto un inizio, la sapienza di Dio no: il Progettista ha necessariamente preceduto l’Operatore. Tra tutti gli esseri creati, l’uomo ha ricevuto la capacità di indagare sulla totalità dell’operato di Dio, e anche di provare a risalire nel tempo fino a tentare di arrivare alle origini dell’opera, ma oltre questo non può andare. Alla mente del Progettista l’uomo non ci arriva. Neppure con le sue più sofisticate tecniche filosofico-scientifiche.  E quando si arrischia a provarci, scivola fatalmente su un piano di stoltezza che conduce alla follia. Il pensiero di Dio non è raggiungibile con opere, ma solo per rivelazione.
  Con le nostre umane capacità possiamo esaminare gli oggetti creati, conoscerli, manipolarli, trasformarli, ma con quali strumenti potremo conoscere il pensiero di Dio? Il “come” delle cose fatte possiamo capirlo, ma il “perché” sono state fatte così chi è in grado di spiegarlo?
  Il personaggio misterioso che conosce la risposta è la biblica Sapienza. Dunque è Dio stesso, che si presenta in una uniforme che ne evidenzia l’autorità della posizione e dunque mette la creatura sull’avviso. Chi si avvicina non è autorizzato a fare domande: ascolta, prende atto e riflette.
  L’aspetto metaforico del nostro testo non sta dunque nella personificazione di concetti astratti, ma nella presentazione di un movimento all’interno dell’essere di Dio che si svolge come se fosse il rapporto tra due persone. Possiamo pensare alle parole del salmista:

    Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me? Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio (Salmo 42:11).

L’anima a cui il salmista si rivolge con domande ed esortazioni non è dunque un’altra persona, anche se questa è la forma in cui quelle parole si presentano, ma lo stesso salmista in un suo particolare “stato d’animo”.
  Poiché l’uomo è fatto a immagine di Dio, è legittimo pensare che anche nell’essere di Dio avvenga qualcosa di simile. Si potrebbe dire che la molteplicità di Dio nella sua unicità si esprime come presenza in Lui di più “anime”, da prendere in considerazione soltanto nella spiegazione di precisi testi biblici, non certo a supporto di fantasiose speculazioni filosofiche.
  Il primo capitolo della Bibbia termina con queste parole:

    Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono. Così fu sera, poi fu mattina: e fu il sesto giorno (Genesi 1:31).

Per sei giorni Dio si è mosso in veste di operatore affaticandosi nella costruzione del complesso edificio del creato, ottenendo alla fine un risultato che Egli stesso, in veste di esaminatore, ha giudicato molto buono. Ma l’opera è risultata molto buona perché evidentemente il progetto era stato pensato molto bene. Prima che come operatore, Dio ha agito come progettista; prima di formare il creato ha elaborato un progetto a cui ha messo mano con una sapienza che possedeva fin da prima dell'inizio dei lavori.
  Se allora pensiamo alla sapienza come a un progettista, si può tradurre quel qanah del v. 22 col verbo “acquistare”, proprio come nel primo parto di Eva: “Il Signore mi acquistò all’inizio dei suoi atti”. E' come se al momento opportuno Dio avesse "acquistato" un valido progettista, associandolo a Sé col compito di dare forma al progetto e seguire i lavori fin dall’inizio, passo dopo passo, cosa che poi il progettista-architetto ha puntualmente fatto confermando una sapienza che non gli proveniva dall’esperienza ma che aveva “fin dall’eternità” (v. 23).
  Il nostro brano sposta dunque l’attenzione dall’opera della creazione al pensiero da cui è scaturita, e più precisamente all’ideatore che l’ha pensata. Non è forse questo il modo in cui si producono tutte le grandi opere umane? Ma se con un’attenta indagine tecnica e storica si può arrivare a conoscere chi è stato il progettista di una grande opera, come per esempio il duomo di Milano, e quale ne sia stata l’idea originaria, chi può risalire dall’osservazione degli oggetti creati al pensiero originario del Creatore? Chi ha consultato l’Eterno prima che desse il via alla creazione, fissandone in anticipo le regole di funzionamento? C’è qualcuno che sa rispondere?

    “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto imperscrutabili sono i suoi giudizi e incomprensibili le sue vie! Poiché: “Chi ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato il suo consigliere? O chi gli ha dato per primo, e gli sarà contraccambiato?” Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen” (Romani 11:33-36).

Queste parole dell’apostolo Paolo fanno riferimento a un passo del profeta Isaia:

    “Chi ha preso le dimensioni dello Spirito del Signore o chi è stato il suo consigliere per insegnargli qualcosa? Chi ha egli consultato perché gli desse istruzione e gli insegnasse il sentiero della giustizia, gli impartisse la sapienza, e gli facesse conoscere la via del discernimento?” (Isaia 40:13-14).

Dov’è fra gli uomini il designer a cui Dio si è rivolto per avere consigli su come creare e gestire il mondo? Nessuno certamente sostiene di essere stato il consigliere di Dio, ma molti forse avrebbero voluto esserlo, perché a parer loro molte cose non vanno bene nella creazione e molto volentieri farebbero domande a Dio, per averne esaurienti risposte. Sono destinati a rimanere delusi, perché sta scritto:

    “In verità tu sei un Dio che ti nascondi, o Dio d’Israele, o Salvatore!” (Isaia 45:15).

L’empio che con viso altero dice di non credere a Dio perché non lo trova da nessuna parte deve sapere che il suo caso non è strano: se non trova Dio è perché Dio si nasconde ai suoi occhi. Un giorno lo incontrerà, e non sarà un incontro gradevole per lui:

    “Poiché l'Eterno degli eserciti ha un giorno contro tutto ciò che è orgoglioso e altero, e contro chiunque si innalza, per abbassarlo (Isaia 2:12).

Dio però non agisce sempre e con tutti così, perché in certi momenti fa sentire alta la sua voce, che arriva agli uomini con una parola contenente ordini e promesse. Chi risponde a questa parola con fiducia ubbidiente e gratitudine arriva a sperimentare una conoscenza di Dio che si esprime in un rapporto d’amore con Lui.
  E’ interessante allora osservare che nelle parole di questo brano, in cui  Dio rivela Se stesso in forma di sapienza, non ci sono appelli agli uomini con inviti, promesse, minacce al fine di influenzare i loro pensieri e spingerli ad avvicinarsi a Lui.

    “… ero presso di lui come un artefice; ero sempre esuberante di gioia giorno dopo giorno, mi rallegravo in ogni tempo in sua presenza;   mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini” (vv. 30-31).

Questa non è la personificazione di astratti concetti umani di giustizia, pace, libertà, ma pura e gratuita rivelazione di Sé che Dio fa agli uomini come destinatari del suo progetto di amore creativo. Un amore che è fonte di gioia. Dio si rallegra nel compimento del progetto che è nella sua mente; si rallegra fin dall’inizio, giorno dopo giorno, mentre lavora alla sua opera; si rallegra pensando al compimento finale del suo progetto, quando troverà la sua piena gioia tra i figli degli uomini:

    E udii una gran voce dal trono, che diceva: “Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini; egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio (Apocalisse 21:3).

Il campo d'azione della sapienza di Dio si estende dall’inizio della creazione (e anche prima, come abbiamo visto) fino al compimento dell’intero progetto di Dio: dal principio alla fine, dall’alfa all’omega, dalla Genesi all’Apocalisse. L’uomo vorrebbe avere una sapienza che gli permetta di spiegare la realtà in tutti i suoi aspetti; vorrebbe avere  la capacità di collocare ogni fatto, di qualunque tipo, naturale, personale, sociale in un quadro esplicativo ben ordinato e chiaro. Ma esiste una tale sapienza fondamentale? Ha senso cercarla? Il capitolo 28 del libro di Giobbe contiene un elenco di opere grandiose (Giobbe 28:1-11) che l’uomo sa fare e ha fatto, a cui seguono alcune domande:

    12 Ma la sapienza, dove trovarla? Dov'è il luogo dell'intelligenza?
    20 Da dove viene dunque la sapienza? Dov'è il luogo dell'intelligenza?

E le risposte sono queste:

    13 L'uomo non ne conosce la via, non la si trova sulla terra dei viventi.
    21 Essa è nascosta agli occhi di ogni vivente, è celata agli uccelli del cielo.

Si confermano così le parole del profeta Isaia: “In verità tu sei un Dio che ti nascondi” (Isaia 45:15).
  Che cos’è allora questo oggetto che l’uomo cerca affannosamente e pur con tutte le sue più potenti tecniche di ricerca non riesce a trovare? Nel libro di Giobbe si chiama “sapienza”; per l’uomo di oggi si potrebbe trovare un nome a lui più immediatamente accessibile: “senso della vita”.
  Si provi a rileggere il capitolo 28 del libro di Giobbe con la sostituzione di termini qui proposta: ne verrebbero fuori frasi interessanti. Qualche esempio leggermente adattato:

    Il senso della vita, dove trovarlo?
    Dove si trova il senso della vita?
    L’uomo non ne conosce la via, non lo si trova sulla terra dei viventi.
    Da dove viene dunque il senso della vita?
    Dov'è il luogo in cui si trova? 
    Esso è nascosto agli occhi di ogni vivente, è celato agli uccelli del cielo.
    L'abisso e la morte dicono: 'Ne abbiamo avuto qualche sentore'.
    Dio solo conosce la via che vi conduce, egli solo sa il luogo dove abita.”

Tornando all’uso biblico del termine, il capitolo 28 del libro di Giobbe si conclude con l’indicazione della via che conduce alla vera sapienza:

    “Dio solo conosce la via che vi conduce, egli solo sa il luogo dove abita, perché il suo sguardo giunge sino alle estremità della terra, perché egli vede tutto quello che è sotto i cieli. Quando regolò il peso del vento e fissò la misura delle acque, quando diede una legge alla pioggia e tracciò la strada al lampo dei tuoni, allora la vide e la rivelò, la stabilì e anche la investigò. E disse all'uomo: 'Ecco: temere il Signore: questa è la sapienza, e fuggire il male è l'intelligenza'” (Giobbe 28:23-28).

Ma se temere il Signore è la sapienza e fuggire il male è l’intelligenza, allora si potrebbe dire che Giobbe era un uomo che aveva ottenuto entrambe: sapienza e intelligenza. Dio stesso infatti aveva dato di lui una testimonianza ineccepibile: “Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male (Giobbe 1:8). Perché allora Dio colpisce in modo così duro proprio un uomo che aveva in sé la misura massima di sapienza che un mortale può avere sulla terra? Conosciamo la malefica richiesta di Satana a Dio (Giobbe 1:6-12); e sappiamo anche che è stata approvata per motivi tutti da indagare (ved. “Il mio servo Giobbe” ).
  Il tormento di Giobbe non rappresenta il mistero della sofferenza umana - come usualmente si dice -, ma lo scandalo, a prima vista, dell’ingiustizia divina. Giobbe però non è un accusatore violento che vorrebbe distruggere il nemico di cui si considera vittima; si sente piuttosto come un amante tradito, abbandonato e spietatamente calpestato, senza che gli sia chiaro il perché di un trattamento così brutale. Eleva allora a Dio i suoi appassionati perché? che spesso diventano denunce:

    “Perché mi hai tratto dal grembo di mia madre?” (10:18);
    “Perché mai vivono gli empi? Perché arrivano alla vecchiaia e anche crescono di forze?” (21:7);
    “Perché non sono fissati dall'Onnipotente dei tempi in cui renda la giustizia?” (24:1).

Come detto, l’elemento in gioco in questa contesa è la giustizia. Giobbe sente su di sé il peso di una condanna di cui non conosce i motivi e che non accetta:

    Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni (27:6).

Non sono io ad essere ingiusto - pensa Giobbe -, è ingiusto il codice legislativo che condanna un fedele servo di Dio come me e assolve i colpevoli. E invoca giustizia:

    “Sia trattato da malvagio il mio nemico e da perverso chi si alza contro di me!“ (27:7).

Alla fine, dopo tanto combattere e tormentarsi, Giobbe decide di lanciare una sfida all’Onnipotente. Sa di essere stato pesato e trovato mancante dalla bilancia della giustizia di Dio; ma per lui quella bilancia non è giusta. Allora chiede formalmente a Dio di rispondergli per iscritto, con un preciso testo d'accusa che gli dia la possibilità di difendersi (Giobbe 31:35-40). Che farà Dio con quella palla in mano? A Giobbe la sua richiesta appare profondamente giusta. Quindi se Dio continuerà a tacere vorrà dire che dalla parte ingiusta ci sta Lui: Giobbe allora smetterà di cercarlo e seguirà il consiglio di sua moglie.
  Come mai una persona che temeva Dio e fuggiva il male, quindi aveva in sé il massimo di sapienza e intelligenza che sulla terra si possa avere, è arrivato al punto di sfidare l’Altissimo imputandogli gravi colpe nel suo modo di agire e giudicare?
  Bisogna tener conto che Satana, dopo aver ottenuto da Dio il permesso di avere Giobbe nelle sue mani, non aveva esaurito le sue possibilità di azione abbattendosi su proprietà, famiglia e salute della sua preda, ma certamente aveva continuato ad agire sul piano dei suoi pensieri, premendo su di lui con le provocazioni che gli venivano dagli amici, tenuti anch’essi dentro il campo del suo mirino.
  La tecnica d’azione era ben collaudata: l’aveva già usata con Adamo ed Eva nel giardino di Eden. Si trattava di indurre la creatura a mettere in discussione le parole del Creatore. In questo caso Giobbe doveva essere spinto non soltanto a discutere, ma anche a giudicare le parole di Dio e ad esigere da Lui soddisfacenti spiegazioni. In altre parole, Giobbe doveva esigere di poter trattare alla pari con Dio, per finire poi sotto il dominio totale di Satana.
  Il rischio di cadere per sempre nelle mani di Satana è stato grande per Giobbe. Dio non gli risponde subito, ma prima lo fa “cucinare” dal suo servo Elihu (Giobbe 32:1-37:24). Quando è ben cotto Dio si rivolge a lui tra tuoni e fulmini (Giobbe 37:2-5, 38:1), come poi farà con Israele sul monte Sinai.
  La risposta di Dio apparirà a molti deludente. In quattro capitoli (da 38 a 41) non c’è alcun accenno ai tormenti di Giobbe, nessuna “empatia” (parola che oggi piace molto) con chi è ora piegato sotto colpi terribili, nessun riferimento al problema universale della sofferenza umana.
  Ma non c’è neanche alcun riferimento alla giustizia, che era invece il campo su cui Giobbe aveva sfidato Dio con la formale domanda di poter venire a conoscere le sue trasgressioni, pretendendo di riceverne una risposta chiara in forma scritta: “L’Onnipotente mi risponda! Scriva l’avversario mio la sua querela” (Giobbe 31:35).
  La questione dunque si sposta di campo, come quando dal vaglio del comportamento di un cittadino in relazione alle leggi esistenti (giustizia) si passa alla valutazione del legislatore in relazione al posto che occupa (legittimità). Nel secondo caso è il legislatore che deve rispondere a chi gli fa domande.
  Proprio questo fa Giobbe: rivolge domande a Dio, chiedendo che gli sia fornita la prova della legittimità della sua posizione di giudice delle azioni degli uomini, perché a quel che vede nel suo caso, Dio non sa ben giudicare in fatto di giustizia (Giobbe 9:22-24, 29-31):
  Dunque Giobbe, esempio di sapienza e intelligenza perché teme Dio e fugge il male, sotto l’impulso di Satana abbandona il timor di Dio e usa la sua sapienza umana per tentare la scalata alla sapienza di Dio. E lancia una sfida a un avversario che non sa ancora se ascolta e si presenterà.
  Ma Dio ascolta e alla fine si fa sentire:

    “Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse: “Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?” (Giobbe 41:1-2).

Dio non entra subito in argomento, ma si rivolge a Giobbe senza nominarlo, con un “costui” interrogativo, come se non sapesse chi è che gli parla. Ai suoi amici Giobbe aveva detto di non riconoscere più il suo Dio che una volta gli era amico e lo proteggeva (Giobbe 29:1-6), mentre ora gli è nemico e lo getta nel fango (Giobbe 30:19-22). Adesso è Dio che non riconosce più Giobbe, tanto sono cambiate le sue parole: una volta parlava di Dio con parole di sapienza e intelligenza, ora invece contrasta la sua volontà con parole prive di senno. Parla parla parla, ma non sa quello che dice.
  Giobbe comunque ha lanciato una sfida e Dio l’accetta. Un’autentica sfida a duello, non a colpi di pistola, come nel Far West, ma a colpi di domande, come in tribunale. E cavallerescamente invita il suo avversario a prepararsi al duello:

    "Orsù, cingiti i lombi come un prode; io ti farò delle domande e tu insegnami!" (38:3).

Giobbe aveva già fatto le sue domande in precedenza, adesso tocca a Dio fare la sua prima. E quella che fa è micidiale:

    "Dov’eri tu quand’io fondavo la terra? Dillo se hai tanta intelligenza” (38:4).

“Io ero presso di te quando ponevi le fondamenta della terra”, avrebbe potuto rispondere Giobbe, se fosse stato lui quella misteriosa figura che  il Signore “ebbe con sé al principio dei suoi atti” (Proverbi 8:22, 29-30); “io ero là quando disponevi i cieli e tracciavi un circolo sulla superficie dell’abisso” (Proverbi 8:27), avrebbe potuto aggiungere a conferma di essere proprio lui quella figura originaria che adesso nel suo parlare mostra di avere “tanta intelligenza”.
  Riusciamo a cogliere la sublime ironia con cui Dio recupera misericordiosamente un suo fedele servitore duramente colpito che corre il rischio di smarrirsi in un’irrecuperabile follia se dovesse perseverare nei suoi stolidi pensieri?
  E’ chiaro che con quella domanda il duello è concluso. Un ipotetico arbitro avrebbe già assegnato la vittoria. Per abbandono. Che risposta infatti avrebbe potuto dare lo sfidante a quella domanda? Ma nel racconto biblico Giobbe resta lì come un pugile in mezzo al ring, colpito da domande sempre più incalzanti:

    Hai tu mai comandato in vita tua al mattino?
    Sei tu penetrato fino alle sorgenti del mare?
    Hai tu visto le porte dell'ombra di morte?
    Hai tu abbracciato con lo sguardo l'ampiezza della terra?
    Sei tu entrato nei depositi della neve?
    Sei tu che stringi i legami delle Pleiadi?
    Sei tu che al suo tempo fai apparire le costellazioni?
  E così avanti per due capitoli.
  Alla fine si ha la resa incondizionata:

    "Allora Giobbe rispose all’Eterno e disse: ‘Ecco, io sono troppo meschino; che ti risponderei? Io mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non riprenderò la parola, due volte... ma non lo farò più" (Giobbe 40:3-4).

La stessa cosa dovrebbe fare chiunque pensi di poter risalire con la sua sapienza umana fino alle origini della sapienza di Dio; o per dirla in modo non religioso, fino a poter scoprire il senso ultimo della vita. Chi prova a farlo s’introduce in un labirinto senza vie d’uscita in cui è condannato ad aggirarsi senza posa in uno stato d'animo che rasenta la follia.
  No, non può essere Giobbe quel “qualcuno” che era con Dio “fin dall'eternità, dal principio, prima che la terra fosse”, che era sempre presso di Lui e seguiva i lavori “come un architetto (artefice)”. E c’è un motivo in più: la gioia. La gioia che proveniva dall’essere sempre “al cospetto” di Dio e traboccava “tra i figli degli uomini”.
  Giobbe invece, prima di essere strapazzato da Elihu era caduto in uno stato di cupo odio verso gli uomini e di collera contro Dio (Giobbe 30). Soltanto dopo essersi umiliato e aver riconosciuto la stoltezza del suo parlare, Dio gli fa sperimentare la gioia di una sovrabbondante benedizione (Giobbe 42:10-17).
  Riprendiamo allora gli ultimi due versetti 30 e 31 del nostro testo:

    Io ero presso di lui come un artefice; ero sempre esuberante di gioia giorno dopo giorno, mi rallegravo in ogni tempo in sua presenza; mi rallegravo nella parte abitata della sua terra, trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.

E paragoniamoli con un passo molto noto del Vangelo di Luca, capitolo 2:

  1. In quella stessa regione c'erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. 
  2. E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendé intorno a loro e furono presi da gran timore.
  3. E l'angelo disse loro: “Non temete, perché ecco, vi reco la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
  4. 'Oggi, nella città di Davide, è nato a voi un Salvatore, che è Cristo, il Signore.
  5. E questo vi servirà di segno: troverete un bambino fasciato e coricato in una mangiatoia'”.
  6. E a un tratto vi fu con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “
  7. Gloria a Dio nei luoghi altissimi, pace in terra tra gli uomini che egli gradisce!”

L’esuberante gioia che nella sua eterna sapienza Dio ha provato nel fondare la terra avendo in mente il progetto di vivere un giorno quella gioia in mezzo agli uomini che l’avrebbero abitata, comincia a compiersi in quel bambino coricato in una mangiatoia e trovato dai pastori.
  Ha quindi senso sostenere che in quel “qualcuno” di Proverbi 8 è delineata la figura del Messia che si è presentato a Israele nella persona di Gesù di Nazaret. Il punto cruciale del progetto che Dio nella sua sapienza ha elaborato fin dall’eternità e ha iniziato con l’opera della creazione sta nella discesa sulla terra della Sapienza di Dio nella persona di Gesù Cristo, “nel quale tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti” (Colossesi 2:3).
  La tesi proposta è discutibile, nel senso letterale che è lì per essere discussa, cosa che certamente non si può fare in questa sede. Qui diciamo soltanto, sulla base della Bibbia, che la sapienza come “senso della vita” è pienamente rivelata da Dio agli uomini nella persona di Colui che ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6).
  Certo, dare fiducia a un uomo che dice di essere via, verità e vita e poi finisce il suo percorso terreno inchiodato su una croce non è sapienza per il mondo, ma pazzia; e se quest’uomo si presenta ai giudei come Messia, per loro è uno scandalo. Ma questo conferma che agli uomini è impossibile scoprire con i propri mezzi qual è il senso della vita, cioè trovare la via che conduce alla vera sapienza: “Essa è nascosta agli occhi di ogni vivente… Dio solo conosce la via che vi conduce” (Giobbe 28:21,23).
  Ma anche questo, Dio nella sua sapienza l’aveva previsto.

1 CORINZI 1

  1. «Dov'è il sapiente? Dov'è lo scriba? Dov'è il contestatore di questo secolo? Dio non ha forse resa pazza la sapienza di questo mondo?  
  2. Poiché, visto che nella sapienza di Dio il mondo non ha conosciuto Dio con la propria sapienza, è piaciuto a Dio di salvare i credenti mediante la pazzia della predicazione.
  3. Poiché i giudei chiedono segni e i greci cercano sapienza,
  4. ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i giudei è scandalo e per i gentili pazzia,
  5. ma per quelli che sono chiamati, tanto giudei quanto greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio,
  6. poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini.
  7. Infatti, fratelli, guardate la vostra vocazione: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili,
  8. ma Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i savi, Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti
  9. e Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose sprezzate, anzi le cose che non sono, per ridurre al niente le cose che sono,  
  10. affinché nessuno si glori davanti a Dio.
  11. Ed è grazie a lui che voi siete in Cristo Gesù, che da Dio è stato fatto per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione,
  12. affinché, com'è scritto: “Chi si gloria, si glori nel Signore”

(Notizie su Israele, 30 aprile 2023)



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Siria: bombardamento di Israele vicino a Homs

L'attacco ha provocato anche l'incendio di una stazione di rifornimento civile.

Israele ha compiuto attacchi aerei vicino alla città siriana di Homs nella notte, provocando il ferimento di tre civili. Lo ha riferito l’agenzia di stampa governativa siriana “Sana”, citando funzionari militari. L’attacco ha provocato anche l’incendio di una stazione di rifornimento civile e di un certo numero di autocisterne e camion.
  Secondo i media siriani, la contraerea di Damasco ha risposto agli attacchi. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, un’organizzazione con sede a Londra, ha rivelato che il bombardamento avrebbe colpito un deposito di munizioni del movimento sciita libanese Hezbollah nell’aeroporto Al Dabaa, a Homs.
  Al momento, come di consueto, le Forze di difesa israeliane (Idf) non hanno confermato la paternità dell’attacco a loro attribuito. Sebbene le Idf di norma non commentino attacchi specifici in Siria, hanno riconosciuto di aver condotto centinaia di operazioni contro gruppi sostenuti dall’Iran che tentavano di prendere piede nel Paese, nell’ultimo decennio.
  All’inizio di aprile, il ministro della Difesa di Israele, Yoav Gallant, ha avvertito l’Iran e il movimento sciita libanese Hezbollah che lo Stato ebraico non tollererà alcun tentativo di danneggiare il Paese o i suoi cittadini dopo che un uomo è stato gravemente ferito in un attentato dinamitardo a Megiddo, nel nord, attribuito a Hezbollah.
  Secondo i media, ad aprile Israele avrebbe effettuato una serie di attacchi in Siria, in uno dei quali sarebbero morti due pasdaran iraniani. Dopo questo attacco, un presunto drone iraniano lanciato dalla Siria è stato abbattuto nello spazio aereo israeliano. Diversi giorni dopo, sei razzi sono stati lanciati dal sud della Siria sulle alture del Golan. Il bombardamento avvenuto nella notte avviene in seguito alla visita del ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, presso il confine del Libano con Israele, insieme a esponenti di Hezbollah e parlamentari libanesi.

(Nova News, 29 aprile 2023)

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Le belle famiglie di Israele e le cinque tribù che ancora oggi lo dividono

Lo stato dei refusenik o dei capi politici dei coloni? A chi appartiene veramente? “Qualsiasi risposta amputa il corpo israeliano di una o più sezioni”, scrive Lucio Caracciolo.

di Giampiero Mughini 

Trepidante com’ero di voglia di comprendere, quella prima e unica volta che sono stato in Israele mi sono imbattuto in una scena che da sola sembrava farmi capire la valenza di quel luogo unico al mondo. Io e Michela stavamo girando per un quartiere di Tel Aviv zeppo di gente quand’ecco che ci trovammo innanzi un lui e una lei israeliani, due più o meno trentenni e bellissimi ragazzi –  atteggiati al modo di una coppia similare a Londra a Parigi o a Milano – i quali si tiravano dietro ben tre figli di cui il maggiore avrà avuto non più di sei anni e il minore attorno ai due, e difatti se ne stava in una carrozzella. Impossibile ti sfuggisse la gioia di vivere che emanava da quel quintetto, impossibile non pensare che stesse in questo il valore particolarissimo di Israele, della terra in cui una coppia di giovani ebrei poteva finalmente vivere al riparo di qualsiasi agguato o minaccia come era stato pressoché dappertutto nella precedente storia europea. Credevo che in quella loro immagine fosse riassunta tutta quanta l’identità di Israele. E invece mi sbagliavo. Le cose non sono così semplici, e sono grato a questo numero speciale di Limes (la rivista diretta da Lucio Caracciolo) per avermelo fatto capire. Un numero monografico che già dal titolo, “Israele contro Israele”, allude a quanto sia rovente la materia trattata.
  Sto rubando a quelle pagine la loro terminologia. Ossia che non tutta Israele è alla maniera dei due ragazzi che per le strade di Tel Aviv manifestavano una loro felicità e un loro modo di vita. No. Loro sono i rappresentanti di una soltanto delle cinque “tribù” che compongono questo paese da nove milioni di abitanti. E seppure sia un termine biblico, il termine “tribù” apparirà a qualcuno eccessivo. E difatti uno dei collaboratori della rivista, Riccardo Calimani (presidente del Museo dell’ebraismo italiano), preferisce usare il termine “blocco”; ammetterete che se non è zuppa, è pan bagnato.
  Cinque tribù. La prima quella costituita dagli israeliani laici alla maniera dei due giovani non a caso incontrati per una strada di Tel Aviv, la città in cui a partire dagli anni Venti si installarono gli ebrei che volevano sottrarsi al micidiale agguato antisemita che stava covando nella società tedesca, e dal loro arrivo ne vennero le case impregnate del gusto Bauhaus che fanno da vialone principale di Tel Aviv, quello che l’Unesco ha eletto a patrimonio dell’umanità. Poi ci sono gli ebrei religiosi, quelli che nella loro vita di tutti i giorni non transigono sulle regole imposte dal Libro, a cominciare da quella che per diritto divino attribuisce agli ebrei la terra su cui sorge lo Stato di Israele e su cui vivevano da secoli popolazioni palestinesi. Poi ancora gli ebrei ultraortodossi, di cui sappiamo qualcosa da alcune mirabili serie televisive dei nostri giorni, i quali se ne stanno in un mondo tutto loro al punto da rifiutare quel servizio militare di cui pure Israele ha bisogno come del pane, circondata com’è da stati avversi. Quarta tribù gli arabi che vivono in Israele, i quali sulla carta hanno gli stessi diritti degli ebrei israeliani non fosse che nella loro buona parte si sentono estranei a Israele. Quinta tribù la popolazione drusa. Tutta gente separata gli uni dagli altri da steccati non irrilevanti, a cominciare da un’istruzione scolastica diversa per ciascuna delle tribù di cui ho detto. Da cui la domanda che Caracciolo mette in testa al numero di Limes di cui sto dicendo. Qual è l’identità dello Stato di Israele, a chi appartiene veramente? “Qualsiasi risposta amputa il corpo israeliano di una o più sezioni”, scrive Caracciolo. E tanto più che Israele non è mai riuscita a darsi una costituzione che ne definisse a puntino il perimetro ideale e istituzionale. Ancora Caracciolo: “La costituzione cui si è finora rinunciato causa eccesso di eterogeneità nella società israeliana. […] A settantacinque anni dall’avventurosa nascita, cinque dopo l’autocertificazione quale stato nazionale del popolo ebraico via maggioranza d’un voto in parlamento, la creatura sionista è scossa da una crisi identitaria. I suoi dirigenti evocano lo spettro della guerra civile”. E siamo alle immagini odierne, le centinaia di migliaia di israeliani che giorno dopo giorno stanno testimoniando per le strade e le piazze di Israele contro la riforma istituzionale voluta da un capo del governo sotto scacco giudiziario, e che per questo vuole sottrarre alla Corte suprema una quota delle sue prerogative. Sì, un paese sull’orlo della guerra civile.
  Sconvolgente su tutte è l’intervista che a Limes ha rilasciato Niron Mizrahi, un riservista delle Forze di difesa israeliane, quelle che per numero e qualità hanno assicurato a Israele le sue vittorie militari e dunque la sua sopravvivenza. Mizrahi si vanta di essere un refusenik, uno che oggi si rifiuterebbe di indossare la divisa militare ove Israele glielo chiedesse, un rifiuto che lo accomuna ai tanti piloti di caccia, l’élite dell’esercito israeliano, quelli che per obiezione di coscienza condividono il rifiuto anti Netanyhau. Ma lei non teme il sorgere di una terza Intifada? chiede Anna Maria Cossiga. Ecco la risposta di Mizrahi: “L’Intifada c’è da quando Israele ha dato inizio all’occupazione […] I palestinesi non dovrebbero fare attentati, non è una soluzione. Ma se si controlla la gente con l’esercito, se si entra nelle casa dove vive, è un problema. Noi israeliani stiamo alimentando l’odio reciproco. La recente politica verso – anzi contro – i palestinesi è un disastro. Non risolve niente. Per noi, loro sono i terroristi; per loro, i terroristi siamo noi. Non ci parliamo, non comunichiamo”.
  Di chi è Israele, di un uomo come Mizrahi o dei capi politici dei coloni che spasimano di installarsi nei territori dove vivevano e vivono i palestinesi?

Il Foglio, 29 aprile 2023)

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Amos Oz, Israele non ha un altrove

L’eredità dello scrittore nel libro postumo: serve un compromesso che non riduca gli ebrei a una minoranza. Tutti abbiamo il dovere e la libertà di leggere il mondo, ma l’ultima parola non sarà mai di nessuno.

di Elena Loewenthal

La cosa più straniante ma anche sorprendente della tradizione ebraica è la convivenza di due per così dire principi di fede apparentemente inconciliabili eppure necessari a vicenda. L’ebraismo è prima di tutto custodia e osservanza di una legge dettata da Dio, e pertanto inappellabile. Perfetta in quanto sovrumana, teoricamente indiscutibile. Eppure tutta la storia d’Israele è un inesauribile concatenarsi di parole in cui nessuno, né Dio né l’uomo, ha il diritto di mettere un punto alla fine della frase. Il discorso del mondo resta aperto. In questa apparente dicotomia fra la perfezione e l’inesauribile incompletezza della parola sta la chiave di lettura di tutta la tradizione ma anche di tutta la scrittura ebraica: il presupposto è che tutti abbiamo il dovere e la libertà di leggere il mondo, interpretarlo. Ma tutti sappiamo che la nostra non sarà l’ultima parola.
  Per questa ragione profonda il titolo dell’ultimo, breve libro di Amos Oz, Resta ancora tanto da dire. L’ultima lezione (Feltrinelli), risulta tanto significativo quanto struggente, per chi gli ha voluto bene – da vicino e da lontano. Si tratta di un breve saggio sul presente e sul passato, sul sionismo e il futuro d’Israele, che prende spunto dalla citazione di un testo di Yosef Haiim Brenner, autore fondativo della letteratura ebraica contemporanea, distante due generazioni da Oz. Ma quel “resta ancora tanto da dire” è proprio la cifra di Oz, il suo modo di lasciare il discorso aperto anche se i suoi lettori in tutto il mondo devono scendere a patti con la sua assenza, con il silenzio di chi non è più fra di noi, purtroppo. E che, se ci fosse, avrebbe ancora tanto da dire. Con queste pagine tanto brevi quanto preziose, Amos Oz spazza via quel punto a capo in fondo alla frase che è la negazione stessa della tradizione e dell’identità d’Israele, da sempre.
  Eppure, in questa lezione così colloquiale, così intima, tornano tutti i suoi grandi temi, quelli che ci hanno fatto pensare e sentire attraverso i romanzi e i saggi, dentro quegli occhi azzurri così profondi e trasparenti che incontrati una volta non li dimenticavi più. Comincia così: «Buonasera, che bella serata estiva. Ogni volta che rileggo le ultime righe di Da qui a lì di Brenner sento un tremito. Dunque non posso fare a meno di pormi la domanda: Davvero resta ancora tanto da dire?».
  Resta, eccome. E sono cose dolci ma anche scomode. Cose convincenti e cose spiazzanti, quelle che Amos Oz dice in queste pagine. Come sempre, senza un’ombra di retorica o compiacenza, andando dritto al sodo a costo talora di far sgranare gli occhi e scuotere il capo a chi lo ascolta, a chi legge. Oltre che da Brenner, il discorso qui prende le mosse da un tema a lui molto, molto caro. Quello del fanatismo, della sua anamnesi e dei modi possibili per defenestrarlo o quanto meno arginarlo. Molte delle cose che Oz dice qui, sono «parafrasi di quel piccolo libro, Cari fanatici, che a mie spese ho fatto distribuire in migliaia di copie nei Territori occupati. Che a mie spese ho fatto tradurre in russo e in arabo, e che in queste lingue so è largamente diffuso». Il fanatico, spiega Oz, è talmente generoso che vuole portare il prossimo dalla propria parte, cioè quella giusta, a tutti i costi. A costo di ucciderlo. Il fanatismo è alla radice di tanti mali del presente, sui fronti più diversi. Guarire il fanatismo è l’unica strada praticabile per risolvere il conflitto – quello fra israeliani e palestinesi, certo, che qui diventa il “modello” di ogni confronto fra oltranzismi opposti. «Non è auspicabile essere una minoranza, qui. Non lo è da nessuna parte, men che meno in Medio Oriente», e la soluzione sta per Oz nel prendere atto che c’è una ferita aperta, e che nessuna ferita «si cura con il bastone» anche se lui di principio non ha «nulla contro il bastone, di per sé. Non sono un pacifista», in senso stretto: il male assoluto sta non nella forza ma nella sopraffazione. In sostanza, Oz ha da dire che «se non ci saranno qui, e piuttosto presto, due stati, allora ce ne sarà uno solo»: e non binazionale, e nemmeno ebraico. Per andare incontro al futuro, Israele deve restare se stesso: uno stato ebraico dove gli ebrei non siano una minoranza – perché altrimenti ritorna il tremendo e millenario circolo vizioso.
  Tutto questo e tanto altro può realizzarsi a patto di esercitare un’arte alla quale Oz teneva tantissimo e della quale tanto ci ha insegnato: quella del compromesso, che per lui non era sinonimo di debolezza ma di vita. Non c’è vita senza compromesso, e spesso senza compromesso c’è il contrario della vita. Fra le tante lezioni di Amos Oz, tanto nei suoi romanzi quanto nei suoi saggi, questa è forse la più preziosa, la più illuminante. Ed è sul filo di tali considerazioni intorno a fanatismo, conflitto, compromesso, che l’autore ci conduce dolcemente verso una conclusione che tale non è, riflettendo sul sionismo. Su che cosa è stato e che cosa più diventare, ma soprattutto dando conto al lettore della sua complessità, di quanto il movimento “risorgimentale” ebraico abbia saputo essere al tempo stesso radicale e ancestrale ma anche profondamente moderno. No, il sionismo non è fatto soltanto di quella cosa che lui chiama “ritornismo” – nostalgia delle origini, incapacità di rendersi conto che il mondo cambia -, perché tornare al passato è impossibile e ingiusto (il che vale non solo per l’ebraismo, ovviamente). «Ma allora che cos’è il sionismo? Non riesco a rispondervi se non con la consapevolezza che non abbiamo un altrove».
  Sono pagine di una lucidità e di una poesia indimenticabili, come tutte quelle di Amos Oz. Non possiamo e nemmeno vogliamo chiamarle testamento, perché Amos non era uomo da testamenti lapidari, e non a caso questo suo ultimo libro s’intitola “Resta ancora tanto da dire”. La parola è il luogo della vera libertà, per chi scrive e per chi legge, raccoglie, ricorda. «L’uomo ha un finale aperto. Ignoro da dove arriverà la soluzione», ci dice: perché il futuro è il territorio dell’incertezza ma anche dell’attesa.

(La Stampa, 29 aprile 2023)
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«Tra letterati, artisti e sportivi / ci sono persone di grandi capacità / che sanno dire con grande serietà / le più grandi stupidità». Amos Oz era uno di questi. Non è stato un personaggio positivo per il bene di Israele. Cito due riflessioni a sostegno di un'opinione personale che certamente i "non fanatici" come Oz mi consentiranno: "I faziosi di centro", "Amos, Amos perché mi deridi". M.C.

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Credit Suisse: prosegue la polemica sui legami con il nazismo

di Nathan Greppi

Non si placa lo scandalo sorto quando è emerso che la Credit Suisse ha cercato di ostacolare l’indagine interna sui suoi legami con gerarchi nazisti fuggiti in Sudamerica dopo la guerra: lunedì 24 aprile, il World Jewish Congress (WJC) ha chiesto alla banca svizzera di reintegrare due investigatori indipendenti, Neil Barofsky e Ira Forman, che conducevano tali indagini finché non sono stati licenziati nel novembre scorso.
  Come riporta Algemeiner, il vicepresidente esecutivo del World Jewish Congress (WJC) Maram Stern ha detto che erano “profondamente delusi” dalla decisione della Credit Suisse di rimuovere dall’incarico i due investigatori, nonostante avesse promesso di agire in totale trasparenza nelle indagini. Già nel 1998, la banca pagò 1,24 miliardi di dollari di risarcimenti a superstiti della Shoah per la sua collaborazione con la Germania nazista; tuttavia, nel 2020 le indagini sono state riaperte su richiesta del Centro Simon Wiesenthal. Il motivo era stata la scoperta che anche dopo la guerra, 12.000 nazisti fuggiti in America Latina avevano depositato alla Credit Suisse beni rubati agli ebrei.
  Barofsky e Forman vennero assunti per l’incarico nel giugno 2021; in precedenza, erano stati rispettivamente un procuratore e l’inviato speciale USA per il monitoraggio e il contrasto all’antisemitismo. Secondo il WJC e una commissione del Senato USA, i due sarebbero stati licenziati nel novembre 2022 per ostacolarne le indagini.
  La Credit Suisse si è difesa affermando che i rapporti degli investigatori contenevano errori fattuali e accuse prive di fondamento. Ha ribattuto in un’intervista ad Algemeiner Menachem Rosensaft, vicepresidente associato del WJC, secondo il quale “di solito è un brutto segno quando qualcuno licenzia un investigatore indipendente”, perché ciò “solleva tutta una serie di domande e preoccupazioni”. L’ipotesi ritenuta più probabile è che la banca avesse paura che venissero alla luce delle verità ancora più gravi e incriminanti di quelle già conosciute, e che il licenziamento sia avvenuto per insabbiare qualcosa di scomodo.

(Bet Magazine Mosaico, 28 aprile 2023)

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L’iniziativa dell’Arsenal contro l’antisemitismo

di Jacqueline Sermoneta

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L’Arsenal affronta l’antisemitismo con l'annuncio della nascita di un nuovo gruppo di tifosi: i ‘Jewish Gooners’. L’iniziativa fa seguito ai recenti episodi di antisemitismo, avvenuti sia all’interno dell’Emirates Stadium che online, per i quali il club biancorosso londinese ha deciso di espellere cinque membri per tre anni. A ciò si aggiungono altre 31 espulsioni “per comportamento offensivo e discriminatorio, tra cui minacce di morte, omofobia e altre forme di razzismo dall’inizio della stagione 2021/2022”.
  Come riferisce il JTA, a gennaio l’Arsenal ha, inoltre, avviato un’indagine su presunte azioni antisemite durante la partita contro il Tottenham, squadra nota per i suoi numerosi supporter di religione ebraica.
  La formazione del gruppo dei Jewish Gooners - il termine ‘Gooners’ deriva dal soprannome dello storico club della squadra ‘Gunners’ – ha lo scopo di prevenire futuri episodi antisemiti e di creare un ambiente ‘più inclusivo’ per i tifosi ebrei.
  Coinvolti nell’iniziativa anche il Community Security Trust, l’organizzazione che monitora gli episodi di antisemitismo e coordina le attività per la sicurezza della comunità ebraica britannica, e Lord John Mann, consulente per l’antisemitismo del Governo britannico.
  "Siamo molto lieti di dare il benvenuto al club dei tifosi ‘Jewish Gooners’ nella famiglia dell'Arsenal - ha dichiarato il portavoce della squadra Mark Brindle - Abbiamo già lavorato insieme su una serie di iniziative e siamo impazienti di continuare a svilupparle in futuro".
  I Jewish Gooners saranno presentati ufficialmente con un festeggiamento all'Emirates Stadium il prossimo 14 maggio dopo la partita in casa della squadra contro il Brighton di De Zerbi.

(Shalom, 28 aprile 2023)

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Reazioni avverse ai vaccini : segnalazioni triplicate

ASCOLI PICENO - Le segnalazioni avverse ai vaccini sono quasi triplicate in due anni. E’ quanto emerge dai dati dell’AIFA, l’agenzia italiana del farmaco. Il tasso di segnalazione di eventi avversi gravi, durante il periodo di farmacovigilanza è passato dal 7,3% del gennaio 2021 al 18,7% attuale. L’AIFA lo certifica ma non sembra preoccuparsene.
  Anzi, secondo Byoblu.com scrive sul suo sito che “gli eventi avversi di speciale interesse sono molto rari e il tasso di segnalazione è ormai stabile nel tempo”. Inutile ogni commento.
  Dunque, la priorità sembra quella di minimizzare gli effetti dei vaccini e tenere un profilo basso. Non allarmare la popolazione e non diffondere informazioni che potrebbero turbare l’opinione pubblica. Ma ormai molte persone in Italia e nelle Marche si stanno accorgendo che il quadro non è quello descritto dalle autorità. Non solo le reazioni gravi – in particolare le miocarditi – sono aumentate in maniera importante negli ultime mesi, ma anche le morti improvvise e pure tra i giovani. Così come tra i cittadini vaccinati di età inferiore ai 50 anni che non avevano malattie pregresse rilevanti. E’ un caso ? Come illustri medici affermano, queste morti improvvise ci sono sempre state o invece la verità è un’altra ?

(CRONACHE MARCHE, 27 aprile 2023)

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Le ragioni del conflitto in Israele: le analisi di Glick e Leibovitz

di Ugo Volli

• Riprende il conflitto politico
  Il periodo di sospensione dell’attività politica dovuto alle festività di Pesach e alle giornate del ricordo della Shoah, dei caduti e poi dell’anniversario dell’indipendenza è finito. Il 30 aprile riprendono le sessioni parlamentari, anche se con un calendario prevalentemente dedicato alle leggi di bilancio che devono essere approvate entro il 28 maggio; se non lo fossero, la legge prevede lo scioglimento della Knesset e nuove elezioni. Le manifestazioni di protesta in Israele però proseguono e sono ormai arrivate alla sedicesima settimana: quasi la stessa durata del sesto governo Netanyahu, che, formatosi dopo le elezioni politiche tenute il 1 novembre, ha ottenuto la fiducia della Knesset il 29 dicembre, meno di cinque mesi fa.  

• Una scissione profonda
  Questa coincidenza mostra che le manifestazioni non dipendono dai provvedimenti adottati dal governo né tanto meno dalle leggi approvate dalla Knesset, in particolare quelle riguardanti la riforma giudiziaria cui si attribuisce normalmente la protesta. Lo dimostra ancora più chiaramente il fatto che la decisione di Netanyahu di non forzare l’approvazione di queste leggi alla fine della scorsa sessione parlamentare, come poteva facilmente fare, accettando invece un tavolo di trattative con l’opposizione che ormai procede da diverse settimane con la sospensione dell’iter parlamentare della riforma, non ha affatto bloccato le manifestazioni, che anzi si sono estese fino a contestare qua e là le celebrazioni delle giornate del ricordo, che dovrebbero essere patrimonio comune del Paese. Se ce n’era ancora bisogno si è visto così che la scissione politica in Israele è profonda e va certamente al di là della composizione del governo e della persona stessa di Netanyahu.  

• Rivolta della classe di governo
  Al di là delle manifestazioni di piazza, quel che colpisce è che in un importante articolo la giornalista israeliana Caroline Glick chiama “rivolta della classe di governo”:  “il governatore della Banca d'Israele Amir Yaron, gli ex primi ministri Ehud Olmert e Ehud Barak, l'ex ministro degli esteri Tzipi Livni, l'ex ministro della difesa Moshe Ya'alon, l'attuale leader dell'opposizione Yair Lapid e dozzine di generali in pensione” ex dirigenti della polizia e dei servizi segreti, che fanno infiammate dichiarazioni sui giornali, tengono conferenze all’estero contro il governo e l’economia israeliana. Secondo Glick queste prese di posizione si incontrano con l’atteggiamento ormai tradizionale delle amministrazioni americane che dividono gli israeliani in “buoni e cattivi” cioè “pro-pace” e “contro la pace”.  

• Stato degli ebrei o stato ebraico?
  Per capire meglio questa paradossale contrapposizione, è utile leggere un altro importante articolo i un altro giornalista israeliano, Liel Leibovitz. Per Leibovitz quella in corso “è una lotta che non finirà presto, o con qualcosa che assomigli lontanamente a un compromesso, perché si tratta di una domanda così centrale a cui persino i coraggiosi e preveggenti fondatori del Paese hanno evitato di rispondere. Gli israeliani devono ora decidere se vogliono uno stato per gli ebrei o uno stato ebraico”. Questa è una contrapposizione che nasce nel movimento sionista con Asher Zvi Ginsberg, meglio conosciuto come Ahad Ha'am, (“uno del popolo”) il quale alle origini del movimento sionista sosteneva che non bastava creare uno stato in cui gli ebrei fossero sicuri in quanto maggioranza, ma innanzitutto una cultura ebraica creativa e autonoma. Ora questa dialettica ha cambiato senso, spiega Leibovitz, perché quelli che scelgono la prima posizione vogliono soprattutto che Israele sia “uno stato normale, proprio come gli Stati Uniti o la Francia o la Germania [e che non sia invece] conquistato da quei fanatici con le loro barbe e la loro religione”, come gli ha detto una manifestante.  

• La normalità e le due Israele
  Scrive ancora Leibovitz: “Questa insistenza sulla normalità, sull'essere uno stato come un altro, è al centro della teoria del Secondo Israele, resa popolare dall'accademico e giornalista Avishai Ben Haim [secondo cui] la lotta politica determinante di Israele [...] non è tra sinistra o destra, e nemmeno tra religiosi e secolari, ma tra rappresentanti del Primo e del Secondo Israele. Nell'analisi di Ben Haim, il Primo Israele comprende le élite tradizionali del paese, l'ambiente in gran parte socialista e ashkenazita che ha presieduto la nascita di Israele, mentre il Secondo Israele comprende gli ebrei mizrahi e la sua crescente popolazione ortodossa. Mentre i due Israele possono coesistere a disagio per quanto tempo all'interno dello stesso corpo politico, sono in realtà entità fondamentalmente diverse e opposte. Il primo Israele misura il successo in base a quanto somiglia all'Occidente [...]. Il Secondo Israele si rende conto di essere un prodotto dell'Oriente, il che significa rafforzare la famiglia, la tradizione e la nazione. Per il Primo Israele, i valori ebraici sono tollerabili solo finché non interferiscono con i dettami del cosmopolitismo; per il Secondo Israele, la democrazia è solo un altro nome per il tipo di compromessi che l'ebraismo, nella sua versione più moderata e aperta, genera naturalmente e con facilità. Per il Primo Israele, la lunga eredità del giudaismo è solo un'aggiunta storicamente contingente ai valori e alle pratiche di altri paesi occidentali, come il moderno tecno-capitalismo e le applicazioni dell'elitarismo democratico. Per la Seconda Israele è vero il contrario”.  

• Il vero problema
  La teoria di Ben Haim e Leibovitz è certamente discutibile perché è una radicale semplificazione della realtà di Israele, che è da sempre molto sfaccettata e piena di sfumature. È chiaro per esempio che le posizioni dei charedim e dei sionisti religiosi non coincidono, per non parlare del Likud; e così quelle dei generali del partito di Gantz e degli estremisti di sinistra di Meretz. Ma certamente essa coglie una radice della durezza del conflitto attuale, spiega per esempio perché nella protesta si parli di difesa della democrazia, anche se la maggioranza di governo ha finora rispettato tutte le regole democratiche, non represso il dissenso e ripetutamente assicurato di non aver alcuna intenzione di cambiare. Però questo conflitto non avviene nel vuoto. Le manovre iraniane per coordinare un attacco a Israele da parte di tutti i suoi nemici sono sempre più minacciose e sostenute dalla convinzione che il dibattito interno alla società israeliana sia la vigilia della sua dissoluzione. Certamente è arrivato il momento che le due Israele capiscano di essere reciprocamente necessarie per la sopravvivenza collettiva e trovino il modo di gestire il loro conflitto senza lasciarlo radicalizzare.

(Shalom, 28 aprile 2023)

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Addio al partigiano Ico, il comandante ebreo che liberò Aosta tre giorni dopo il 25 aprile

di Franco Bechis

Se ne è andato a 97 anni di età il partigiano ebreo Ico, il comandante di brigata che liberò Aosta tre giorni dopo il 25 aprile 1945. Si chiamava Enrico Loewenthal, era nato a Torino dove aveva frequentato la scuola tedesca e poi il liceo Massimo D’Azeglio, fino a quando gli fui consentito. Con le leggi razziali del 1938 dovette lasciare la città iniziando la vita da partigiano sulle montagne di Piemonte e Valle d’Aosta. Qui divenne comandante della brigata che controllava la Valle del Gran San Bernardo. La sua fortuna fu quella di conoscere il tedesco, cosa che gli permise di cavarsela in più di un’occasione. La sua dote anche quella di non essere un combattente spietato. In un’azione nel 1945 aveva catturato due ufficiali tedeschi, ma dopo averli tenuti prigionieri per qualche settimana decise di accompagnarli al confine con la Svizzera lasciandoli andare. Chiese un solo favore in cambio: che uno dei due scrivesse in dialetto bavarese quel che era appena accaduto. Fu battuto a macchina e divenne un lasciapassare quando incappò nei tedeschi.
  La settimana prima della Liberazione di Italia il partigiano Ico incontrò una colonna di militari tedeschi, armati e con i cingolati. Temeva potessero prendere alle spalle i partigiani della sua brigata che erano poco avanti. Così tentò il tutto per tutto: sbucò fuori dal bosco urlando in tedesco «fermatevi subito». Si fece avanti e spiegò al capo della colonna che tutto intorno c’erano solo partigiani, e che rischiavano la carneficina. Quelli sulle prime dissero: «Arrenditi, tu e avrai risparmiata la vita». Ico rispose: «No, arrendetevi voi per avere salva la vostra vita», e allungò al comandante della colonna quel suo “salvacondotto” che spiegava pure come chi si arrendeva non sarebbe stato fucilato. Si arresero così i tedeschi, lasciarono lì armi e automezzi, ma poterono incamminarsi vivi verso il confine svizzero a pochi km.
  Con quelle armi e quegli automezzi Ico sabato 28 aprile arrivò alle porte di Aosta con i pochi uomini che gli erano rimasti. Li lasciò alle porte della città e lui solo in piedi con il mitra su un’auto della Wehrmacht raggiunse la piazza del Municipio di Aosta (oggi piazza Émile Chanoux) trovando un’amara sorpresa. C’erano centinaia di fascisti armati ad attenderlo. Come ha raccontato qualche anno fa Ico a Luca Casati nel video di MG produzioni di cui trovate sopra qualche brano, la paura fu tanta. Ma gli venne un’idea: alzare la mano salutando la folla tornando indietro. E non accadde nulla: i fascisti non spararono perché capirono da quell’auto appena arrivata che gli ultimi tedeschi si erano ormai arresi, e scapparono verso Saint Vincent dove avrebbero deposto le armi. Ico e i suoi uomini poterono tornare in piazza accolti da una folla festante: il 28 aprile anche Aosta era tornata libera.
  Il partigiano Ico anni dopo avrebbe scritto tutta la sua storia divenuta un libro – Mani in alto, bitte! – curato dalla figlia Elena Loewenthal, scrittrice e traduttrice, che oggi collabora a La Stampa ed è direttrice del Circolo dei lettori di Torino. Ico dopo la guerra sarebbe diventato anche un industriale di una certa importanza, fondando e presiedendo fino a Giaveno la Elto, azienda che produce saldatori, partita con 2 dipendenti e arrivata ad averne più di cento. Poi si è ritirato fra Rivoli torinese e la sua amata Pantelleria dove produceva olio per hobby.

(La Stampa, 28 aprile 2023)

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L’Arsenal lancia Jewish Gooners, il nuovo gruppo affiliato per contrastare l’antisemitismo tra i tifosi

L’Arsenal Football Club, società calcistica inglese che milita in Premier League dal 1919, ha lanciato un nuovo gruppo affiliato chiamato Jewish Gooners, in risposta all’antisemitismo tra i tifosi. «Siamo molto lieti di dare il benvenuto al club dei tifosi ebrei Gooners nella famiglia dell’Arsenal – ha dichiarato il portavoce dell’Arsenal Mark Brindle -. Abbiamo già lavorato insieme su una serie di iniziative e non vediamo l’ora di continuare a svilupparle in futuro».
  La creazione del nuovo gruppo mira a prevenire futuri incidenti antisemiti e creare un ambiente più inclusivo per i tifosi ebrei. Il Jewish Chronicle di Londra riporta che il gruppo di sicurezza ebraico Community Security Trust e lo zar dell’antisemitismo britannico Lord John Mann sono entrambi coinvolti.
  Il club ha anche annunciato di aver bandito 31 tifosi per tre anni ciascuno per «comportamento offensivo e discriminatorio dall’inizio della stagione 2021/22». Questi 31 incidenti includono cinque episodi di antisemitismo, tre dei quali si sono verificati all’Emirates Stadium di Londra e due online.
  Il nuovo gruppo affiliato consentirà inoltre ai fan più fedeli di regalare i loro biglietti agli amici quando le partite cadono di Shabbat. I fan ebrei dell’Arsenal avevano discusso con il club sulla creazione di un gruppo del genere per più di due anni.
  Mentre l’Arsenal e altri club hanno molti tifosi ebrei, i giocatori ebrei sono rari in Premier League, il campionato di calcio inglese. Tuttavia, una stella nascente, il centrocampista 23enne israeliano Manor Solomon, ha attirato l’attenzione grazie alle sue prestazioni di alto livello sul campo, suscitando voci riguardanti il possibile interesse di squadre più prestigiose, tra cui proprio l’Arsenal.
  Il club ha avviato un’indagine su presunti incidenti antisemiti avvenuti allo stadio e in un pub locale durante la partita della squadra contro il Tottenham, una squadra nota per la sua considerevole base di fan ebrei.
  L’Arsenal, una squadra con sede a Londra con oltre una dozzina di scudetti nei suoi 136 anni di vita, è attualmente al primo posto della Premier League in questa stagione.

(Bet Magazine Mosaico, 28 aprile 2023)

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Roma 1948: quando gli artisti finanziarono Israele

Quell’anno 70 autori, affiancati da antiquari e intellettuali, allestirono una mostra per metterne in vendita le opere, che invece furono donate al neonato Stato. Il Museo Ebraico ne ospita ora una ventina

di Francesca Romana Morelli

È un’assoluta novità, perché ripercorre una vicenda straordinaria di cui si era persa la memoria, la mostra «Roma 1948. Arte italiana verso Israele», curata da Davide Spagnoletto e da Giorgia Calò al Museo Ebraico di Roma dal 27 aprile al 10 ottobre, e promossa dalla Comunità Ebraica e dalla Fondazione per il Museo Ebraico di Roma, rispettivamente presiedute da Ruth Dureghello e da Alessandra Di Castro, in collaborazione con il Tel Aviv Museum of Art (Israele), diretto da Tania Coen-Uzzielli.
  Hanno inoltre contribuito il Ministero della Cultura italiano e l’Ambasciata d’Italia a Tel Aviv. Nel 1948 a Roma 70 artisti, mossi da una volontà di «solidarietà e umana simpatia verso il popolo d’Israele che combatte per la propria libera esistenza» (recita lo spartano pieghevole che funge da catalogo della mostra) e, in fondo, dalla necessità di liberarsi di un fardello etico e psicologico di un «passato» vissuto da una parte come un’ingiustizia subita, dall’altra come senso di colpa personale, si uniscono liberamente per organizzare una mostra nella Galleria d’Arte Antica di Palazzo Torlonia e metterne in vendita le opere, il cui ricavato «andrà a beneficio del fondo internazionale pro Stato d’Israele».
  Per rafforzare l’iniziativa, gli antiquari (molti appartengono ad autorevoli famiglie di origine ebraica) offrono oggetti d’arte da sorteggiare tra gli acquirenti. La «Mostra d’arte pro Nuovo Stato d’Israele» apre il 15 giugno 1948, un mese dopo che l’Onu ha sancito la creazione dello Stato d’Israele (il 14 maggio 1948 David Ben-Gurion ha invece dichiarato la nascita della Nazione israeliana).
  Emersa dal Ventennio e dalla Resistenza, l’Italia è invece un Paese da riscostruire, che versa in condizioni economiche e sociali disastrose e si regge su difficili equilibri politici. Questa spontanea iniziativa artistica si inserisce quindi in un contesto culturale complesso e conflittuale: in seguito a un esplicito «richiamo all’ordine» comunista, nel 1948 l’arte rompe ogni indugio tra Astrattismo e Realismo, tra «ibridismi» e compromessi neocubisti, e si attesta su fronti e posizioni programmatiche radicali, e qualcuno da lì a poco, come Afro, andrà a cercare il successo a New York.
  Sempre nel 1948, la Biennale di Venezia, oltre a dipanare in modo quasi esemplare la matassa dell’arte moderna italiana e straniera incidendo sul dibattito estetico, allestisce, per la prima volta, una mostra di 16 artisti ebrei, dimostrando ancora una volta la volontà della cultura italiana di appoggiare la questione israeliana: «Fin dai primi del ’900 l’ideale sionista e l’effettiva determinazione del Paese si fondano sulla dicotomia tra cultura e politica, dichiara Giorgia Calò. Da un lato c’è la convinzione che per costituire uno Stato si debba prima di tutto creare le istituzioni culturali, si pensi alla Bezalel Academy of Arts (1906), al Teatro Nazionale Habima (1928), al Tel Aviv Museum of Art (1932) e all’Israel Philharmonic Orchestra (1936), dall’altro lato si lotta per la sua realizzazione».
  Nel nutrito comitato promotore dell’esposizione romana del 1948 ci sono, tra gli altri, i giovani artisti Salvatore Scarpitta, Toti Scialoja, Aldo Natili, Renato Guttuso, che ha militato nella Resistenza, Corrado Cagli che, fuggito negli Stati Uniti, ha combattuto con l’esercito americano in Europa, e molti che hanno operato durante il fascismo, come Carlo Levi, che ha subito il confino, Giuseppe Capogrossi, Roberto Melli e Mario Mafai.
  Al loro fianco sono gli intellettuali: da Sibilla Aleramo a Giulio Carlo Argan, da Alberto Moravia a Goffredo Petrassi, da Lionello Venturi a Ignazio Silone. «È interessante come, in un panorama sempre più frammentato, gli artisti accantonarono le crescenti polemiche per riportare tutto su un piano artistico e di solidarietà, spiega Spagnoletto. Esposero nature morte, paesaggi, ritratti e composizioni senza riferimenti alla recente attualità, ma che inquadravano le loro ricerche tra il 1946 e il 1948. Inoltre non esitarono a donare opere di grandi dimensioni per l’epoca».
  Alla fine nessuna opera viene venduta, per cui l’intera mostra viene donata allo Stato israeliano. A imbattersi in questa storia, a seguito di ricerche di studio su un soggetto più vasto, è stato Davide Spagnoletto, che ha ricostruito la vicenda attraverso i documenti reperiti tra l’Italia e Israele e soprattutto ha ritrovato le opere, conservate nel Tel Aviv Museum of Art.
  Il museo ha prestato oltre una ventina di pezzi, tutti inediti, tra cui quelli di Afro (una composizione del 1948 dai toni vivaci, che annuncia la svolta informale), Antonio Sanfilippo, Carla Accardi (un’opera del 1947-48 in pieno clima astratto del gruppo Forma 1), Piero Sadun, Cagli, Capogrossi (un’elegante «Ballerina stanca» del 1946 che segna l’abbandono della stagione tonale), Pietro Consagra (una scultura in legno del 1947), Franco Gentilini, Guttuso, Levi (una natura morta del 1946), Melli e Scialoja. La mostra propone infine un omaggio a Renzo Avigdor Luisada, esponente della borghesia ebraica livornese, che nel 1939 si trasferì nella Palestina mandataria, diventando nel dopoguerra un «collante» tra l’Italia e Israele.

(IL GIORNALE DELL'ARTE, 27 aprile 2023)

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In Israele la destra oggi in piazza per la riforma giudiziaria

'La Marcia del milione' in programma stasera a Gerusalemme

TEL AVIV - La destra israeliana al governo in Israele scende in piazza a difesa della legge di riforma giudiziaria e del disegno di limitare i poteri della Corte Suprema in quella che è stata annunciata come la 'Marcia del milione'.
  Per contrastare le manifestazioni di protesta contro il provvedimento che da 16 settimane si susseguono in Israele, le forze politiche a sostegno dell'attuale maggioranza - dal Likud a Sionismo Religioso - hanno indetto per questa sera una mega dimostrazione di fronte alla Knesset a Gerusalemme.
  All'iniziativa - con lo slogan 'non facciamoci rubare le elezioni' - parteciperanno, tra gli altri, il ministro della Giustizia, Yariv Levin, e il presidente della Commissione Giustizia, Simchà Rothman, gli artefici della riforma che ha spaccato il Paese e che attualmente è in pausa parlamentare per decisione del premier, Benyamin Netanyahu. Un tentativo di mediazione tra le parti è in itinere sotto l'impulso del presidente dello stato Isaac Herzog, ma non sono in molti a ritenere che sia possibile raggiungere un accordo.
  "Andremo a Gerusalemme tra la Knesset e il palazzo della Corte Suprema - ha dichiarato Levin - per dire con una intensità mai vista finora che il popolo vuole la riforma giudiziaria. Il mandato che il governo di destra ha ricevuto deve essere portato a termine. Oltre mille pullman porteranno i manifestanti in città da tutto il Paese.

(ANSA, 27 aprile 2023)


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Stasera la marcia della destra a sostegno della riforma giudiziaria

Questa sera a Gerusalemme si terrà il raduno della destra «One Million-Person March» a sostegno della contestata riforma della giustizia avviata dal governo Netanyahu che, tra i suoi punti, prevede una ampia limitazione dei poteri della Corte suprema. Il raduno avrà per slogan «Avete ricevuto un mandato per correggere l’ingiustizia! Non saremo cittadini di seconda classe!», rivolto a ministri e parlamentari della maggioranza di destra estrema religiosa al potere in Israele. Si terrà nell’area della Knesset (Parlamento) che per più di tre mesi è stata, assieme a Tel Aviv, il luogo principale della contestazione di centinaia di migliaia di israeliani contro la riforma.
  Netanyahu con ogni probabilità non parlerà questa sera, vuole mantenere una posizione di basso profilo perché vede nella manifestazione più di tutto una «legittimazione» del suo governo composto da partiti di estrema destra e ultraortodossi. Collaboratori e alleati del primo ministro garantiscono che stasera «sarà la più grande manifestazione della storia» di Israele. I dimostranti giungeranno da ogni punto di Israele a bordo di mezzi di trasporto pubblico, di auto e di bus messi a disposizione dal Likud di Netanyahu e dai partiti dell’estrema destra Potere ebraico e Sionismo religioso.
  Le centinaia di migliaia di manifestanti attesi a Gerusalemme forniranno al primo ministro un motivo per poter proclamare che Israele vuole la riforma della giustizia e la svolta di orientamento religioso che il governo sta dando all’ordinamento giuridico e, in definitiva, all’intero paese.
  Netanyahu a fine marzo aveva sospeso l’iter della riforma per consentire colloqui di compromesso con l’opposizione, ospitati dal presidente Isaac Herzog. Gli oppositori del piano però hanno continuato le proteste antigovernative perché esponenti chiave della coalizione hanno promesso che la riforma andrà avanti «in un modo o nell’altro».
  La Knesset è convocata il 30 aprile per dibattere di una legge che metterà le nomine giudiziarie sotto il controllo politico, un pilastro centrale del pacchetto legislativo.

(Pagine Esteri, 27 aprile 2023)

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‘’Roma 1948. Arte italiana verso Israele’’

Al Museo ebraico le opere che uniscono Italia e Israele

di Sarah Tagliacozzo

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Inaugurata al Museo ebraico di Roma la mostra “Roma 1948. Arte italiana verso Israele”, a cura di Giorgia Calò e Davide Spagnoletto. Sarà visitabile dal 27 aprile al 10 ottobre. L’esposizione attesta il profondo legame che ha unito l’Italia e lo Stato di Israele sin dalla sua nascita nel 1948 attraverso alcune opere di artisti italiani che furono esposte nel 1948 alla Galleria d’Arte Antica di Palazzo Torlonia per la “Mostra d’Arte pro nuovo Stato di Israele”.
  L’iniziativa era stata promossa da un gruppo di artisti romani per contribuire ai festeggiamenti, coinvolgendo oltre 70 pittori e scultori a donare le proprie opere per una raccolta a favore del fondo internazionale pro Stato di Israele. Le opere rimasero invendute e per volontà degli stessi artisti furono portate in Israele dove costituirono il primo nucleo di arte italiana del Museo di Tel Aviv.
  La mostra, inaugurata in occasione di Yom HaAtzmaut, l’anniversario dei 75 anni dalla proclamazione dello Stato di Israele, ha accolto l’entusiasmo del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, che ha enfatizzato come “la nascita dello Stato di Israele sia un fatto doveroso, necessario, importante, fondamentale per tutto il genere umano”. “Io celebro i 75 anni dello Stato di Israele e non dimentico mai l’unica vera democrazia del Medioriente, che accetta il dissenso e il pluralismo e che dà la parola a tutti” ha sottolineato il ministro, per poi aggiungere che “fino a quando ricoprirò questo ruolo farò in modo che i rapporti anche culturali tra l’Italia e lo Stato d’Israele siano sempre più intensi, proficui, vicini e intrecciati, nell’arte, nella musica e in tutto ciò che vogliamo sviluppare insieme”.
  La mostra è stata organizzata dalla Comunità ebraica di Roma e la Fondazione per il Museo Ebraico di Roma, in collaborazione con il Tel Aviv Museum of Art e con il patrocinio del Ministero della Cultura, dell’Ambasciata Italiana in Israele e dell’Ambasciata d’Israele in Italia e di Roma Capitale. Nel corso della presentazione, la Presidente della Comunità ebraica di Roma ha evidenziato l’importanza simbolica del giorno scelto per l’inaugurazione della mostra, che “rappresenta un momento di passaggio importantissimo per la storia del nostro paese e del legame dell’Italia con il neonato Stato di Israele”. Dureghello ritiene che “l’arte, prima della politica e delle istituzioni rappresenta in maniera determinante un valore comune di condivisione della democrazia, della libertà e della pace che questi due Paesi, Italia e Israele, rappresentano”.
  Da Israele è giunta a Roma in occasione dell’inaugurazione della mostra Tania Cohen , che dirige il Tel Aviv Museum of Art e che ha menzionato la visione che il primo sindaco di Tel Aviv Meier Dizengoff aveva avuto della città, vibrante e ricca di istituzioni culturali alle quali contribuì donando la sua casa come sede di un museo di arte. Nella sua moderna struttura, il Tel Aviv Museum of Art accoglie circa 1 milione e 70mila visitatori l’anno, è tra i 50 musei più visitati al mondo ed è rappresentante dei “valori umanesimo, cosmopolitismo, inclusione e democrazia” ha ricordato la direttrice.
  Ogni visitatore ha la possibilità di ammirare opere d’arte di artisti del calibro di Cagli, Guttuso, Eva Fischer. Opere nate per iniziativa di un gruppo di artisti romani che vollero esprimere la propria vicinanza e partecipare ai festeggiamenti del neonato Stato ebraico. Il gruppo fu affiancato da un comitato d’onore di cui facevano parte importanti personalità della cultura italiana come Carlo Argan, Alberto Moravia e Lionello Venturi.
  L’Ambasciatore d’Israele in Italia Alon Bar ha commentato che “la mostra rappresenta un’occasione per apprezzare il grande intervento artistico dell’Italia nel primo dopoguerra. Attraverso le bellissime immagini e materiali di archivio possiamo vedere con i nostri occhi il grande entusiasmo con cui la Comunità ebraica di Roma ha accolto la nascita dello Stato di Israele”. Sono intervenute anche la Presidente dell’Ucei Noemi Di Segni e Alessandra Di Castro, Presidente della Fondazione per il Museo Ebraico Di Roma, che ha spiegato al pubblico come “la mostra ci consenta un’esperienza fuori dal comune, con la possibilità di visitare un viaggio che è anche una fotografia dello stato dell’arte in Italia nel 1948”.

(Shalom, 27 aprile 2023)


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«1948 Arte italiana verso Israele»: da Tel Aviv al Museo ebraico opere inedite

Tra gli artisti presenti, Capogrossi, Cagli, Afro, Guttuso, Accardi. Il ministro Sangiuliano: «Questa mostra racconta una storia d’amore e di fratellanza»

di Federica Manzitti

Un orizzonte di speranza che ha innescato la partecipazione di artisti e intellettuali italiani. Questo è stata –anche- la nascita dello Stato d’Israele. Lo testimonia la mostra Roma 1948 - Arte italiana verso Israele aperta al Museo Ebraico fino al prossimo 10 ottobre.
  Esposte diciannove opere di artisti di rilievo come Giuseppe Capogrossi (Ballerina in riposo, 1946), Renato Guttuso (Natura morta con fiasco e martello, 1947) o Corrado Cagli (Finale minore, 1947) oltre a documenti storici, compreso l’originale della dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele, di cui ricorrono i 75 anni.
  «Questa mostra racconta una storia d’amore e di fratellanza – ha detto il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano intervenuto all’inaugurazione – e testimonia quanto quell’evento fosse importante non solo per il mondo ebraico, ma per tutta la civiltà». Era il maggio del 1948, l’immediato dopoguerra, quando un gruppo di artisti italiani si fece promotore di una mostra come contributo alla nascita d’Israele. Un comitato, di cui facevano parte oltre al già citato Cagli, Mirko Basaldella, Carlo Levi, Mario Mafai e Roberto Melli, si attivò per coinvolgere pittori e scultori nell’ esposizione intitolata Mostra d’Arte pro nuovo Stato d’Israele che si tenne quel giugno alla Galleria d’Arte Antica di Palazzo Torlonia.
  Nel giro di poche settimane l’iniziativa raccolse oltre sessanta artisti, tra maestri riconosciuti e nuove generazioni, esponenti della Scuola Romana e interpreti delle istanze dell’astrattismo. Alcuni di loro erano stati colpiti direttamente dalla persecuzione nazifascista come Carlo Levi, arrestato e esiliato per il suo antifascismo, di cui è in mostra Natura morta, 1946, altri portavano i segni della dittatura e della guerra appena conclusa nelle loro opere come le composizioni astratte di Carla Accardi o le sculture di Pietro Consagra — anch’essi presenti in mostra —. L’anno successivo diverse opere furono donate al neo Stato d’Israele per formare un nucleo di arte contemporanea italiana.
  Quelle esposte oggi al pubblico nelle sale di via Catalana su iniziativa di Comunità Ebraica e Fondazione per il Museo Ebraico di Roma in collaborazione con il Tel Aviv Museum of Art, sono opere arrivate appositamente da Israele e, in alcuni casi, non sono più state esposte dopo quell’occasione, 75 anni fa. «Il 1948 è un anno cruciale per l’arte italiana, e non solo. La cultura reagisce con spirito antifascista, schierando artisti, critici e letterati nella ricostruzione di un’arte che possa esprimere al meglio questo momento di rinascita» scrive Giorgia Calò, co-curatrice della mostra insieme a Davide Spagnoletto nel catalogo edito da Maretti. L’esposizione rappresenta anche una sintesi delle ricerche di quegli anni, dove non sono mancate diatribe accese tra astrattisti e figurativi in un clima di grandi passioni politiche e prospettive ampie.
  Info: «Roma 1948. Arte italiana verso Israele», Museo Ebraico, via Catalana, fino al 10 ottobre. Da domenica a giovedì dalle ore 10 alle 18; venerdì dalle ore 9 alle 16. Biglietti da 11 a 6 euro, www.museoebraico.roma.it Mostra realizzata sotto gli auspici della Comunità Ebraica di Roma e della Fondazione per il Museo Ebraico di Roma, in collaborazione con il Tel Aviv Museum of Art, con il contributo del Mic e dell’Ambasciata d’Italia – Tel Aviv e con il patrocinio dell’Ambasciata d’Israele in Italia e dell’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale. Catalogo edito Maretti 

(Corriere della Sera, 27 aprile 2023)

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La Norvegia vieta le importazioni dagli insediamenti israeliani

La Norvegia ha annunciato ieri, mercoledì 26 aprile, il divieto alle importazioni di beni e servizi delle compagnie che “contribuiscono direttamente o indirettamente agli insediamenti illegali israeliani nei territori occupati, in quanto costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale”.
  La notizia segue l’annuncio, il giorno precedente (25 aprile), della città belga di Liegi, il cui consiglio ha votato per porre fine a tutti i legami con Israele, a causa del suo “regime di apartheid, colonizzazione e occupazione militare”. A febbraio la città di Barcellona aveva congelato i rapporti con Israele, interrompendo il gemellaggio con Tel Aviv: “Non possiamo più tacere di fronte alla violazione flagrante e sistematica dei diritti umani”, dichiarò in quell’occasione la sindaca Ada Colau.
  La decisione di Oslo era già stata annunciata a giugno del 2022, quando fu stabilito di consentire l’etichetta “made in Israel” solo sui prodotti realizzati in Israele e non a quelli provenienti dai territori illegalmente occupati nel 1967: “I prodotti alimentari provenienti da aree occupate da Israele devono essere etichettati con l’area di provenienza e devono indicare che vengono da un insediamento israeliano”.
  Il governo norvegese ha specificato che il divieto si applicherà ai territori occupati nelle alture del Golan e alla Cisgiordania, compresa Gerusalemme est.
  A dicembre del 2022 Oslo ha annunciato che intendeva rivedere i propri investimenti in Israele, dichiarando che avrebbe potuto decidere di interromperli del tutto, a causa del coinvolgimento delle banche israeliane nelle imprese presenti negli insediamenti illegali della Cisgiordania.

(Pagine Esteri, 27 aprile 2023)

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Così l’Aifa ha manipolato i dati sui vaccini

L’agenzia italiana del farmaco taroccava i grafici sulle reazioni avverse per minimizzarle. Emerge un nuovo dato sconcertante relativo al sistema di farmacovigilanza dell’ente governativo.

Le notizie che stanno emergendo sul comportamento tenuto da Aifa, l’agenzia italiana del farmaco, durante la campagna vaccinale contro il Covid-19 dovrebbero portare alle dimissioni in massa dei suoi vertici. E invece tutto tace. Nell’ultima puntata del programma Fuori dal Coro, in onda su Rete 4, Mario Giordano ha sottolineato come siano stati puntualmente ignorati gli allarmi sui possibili effetti avversi dei vaccini. Anche quando a lanciarli erano altri enti regolatori: «Il 31 marzo – ha spiegato Giordano mostrando un grafico con i dati – l’Ema, Agenzia europea del farmaco, ha segnalato il rischio di trombosi invitando a valutare i rischi dei costi e dei benefici. La reazione dell’Aifa?».
  Eppure, come emerso dalle mail di alcuni funzionari Aifa, l’Agenzia italiana non avrebbe ascoltato quelle raccomandazioni: «Si sta facendo un allarmismo esagerato», è stata la risposta . C’erano già 44 persone con delle trombosi e Nicola Magrini, ex direttore Aifa, si preoccupava piuttosto di non fare allarmismo.Tra le mail di funzionari Aifa si legge ancora: «Così buttiamo via il vaccino Astrazeneca», «si rischia di rallentare il processo di vaccinazioni».
  Fin dall’inizio della vaccinazione di massa e della pubblicazione dei rapporti di farmacovigilanza sono state tante le incongruenze contenute all’interno di quei documenti. Tra questi c’è il tasso di segnalazione degli eventi avversi gravi. Questo dato è stato infatti in costante aumento durante il periodo di farmacovigilanza passando da un iniziale 7,3%, del gennaio 2021, per arrivare all’attuale 18,7%. L’Aifa certifica un aumento delle segnalazioni di eventi avversi gravi di più del doppio nel giro di due anni, eppure nei report così scrive: «Gli eventi avversi di speciale interesse sono molto rari e il tasso di segnalazione è ormai stabile nel tempo». Come può essere stabile un valore che passa dal 7 al 18%? Aifa non ha fatto nessun tipo di analisi sui motivi dietro a questo importante incremento.
  Il programma Fuori dal Coro ha diffuso nuove email interne all’Aifa che dimostrano una certa attenzione da parte dei suoi vertici nell’alterare la percezione sul tasso di segnalazione degli eventi avversi gravi. In particolare, dopo l’uscita del sesto rapporto, nel giugno 2021, all’Aifa viene fatto notare che il grafico a torta che mette in relazione l’incidenza degli eventi avversi gravi sul totale delle segnalazioni è del tutto sballato.
  In quella data le reazioni gravi ammontavano all’11,9% del totale, eppure nel grafico il puntino di riferimento risulta essere troppo piccolo e non rispetta le proporzioni reali. E a chi fa questa osservazione Aifa risponde candidamente: «Lo sappiamo che non è esatto». Il grafico non è però un semplice errore, ma il risultato di un’azione consapevole. Perché in un’altra mail interna dell’agenzia si legge che: «L’area del cerchio delle manifestazioni gravi non sia proporzionale, potrebbe essere più piccola».
  Quindi l’agenzia italiana del farmaco ha scientemente alterato la percezione delle segnalazioni di eventi avversi gravi post vaccino Covid. Una strategia deliberata e continua nel tempo, perché i grafici sbagliati si ripetono per tutti i primi 6 rapporti di farmacovigilanza, da gennaio a giugno 2021. Poi dal settimo rapporto in avanti, proprio dopo l’osservazione ricevuta, Aifa ha cambiato la rappresentazione grafica, passando dalla torta alla griglia.
  A dettare la strategia da tenere per alterare deliberatamente i grafici era Anna Rosa Marra, che dal 25 gennaio 2023 è stata addirittura promossa come direttore generale dell’agenzia, sostituendo Nicola Magrini. Nomina che viene fatta direttamente dal Ministro della Salute, Orazio Schillaci. Il governo Meloni in questo modo ha dato la sua benedizione all’operato dell’Aifa, garantendone la piena continuità rispetto alla gestione precedente.

(Pickline, 27 aprile 2023)

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Yom HaAtzmaut, torna la festa nel quartiere ebraico

di Daniele Toscano

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Dopo 3 anni di stop a causa della pandemia, è tornata la festa in Piazza per Yom HaAtzmaut, il Giorno dell’Indipendenza, l’anniversario della nascita dello Stato d’Israele che quest’anno ha celebrato 75 anni.
  Centinaia di persone hanno riempito le vie del quartiere ebraico sin dal pomeriggio, tra le bandiere d’Israele che addobbavano i palazzi, mentre stand e banchetti proponevano snack e gadget d’ogni genere.
  A organizzare le iniziative, l’assessorato ai giovani della comunità e il dipartimento educativo giovani. Hanno poi partecipato con le proprie delegazioni le varie associazioni e i movimenti giovanili, a partire dall’Hashomer Hatzair e dal Bene Akiva, oltre naturalmente al Keren Kayemet LeIsrael.
  “È una grande emozione tornare a fare la festa di Yom HaAtzmaut in piazza, è veramente fantastico – ha commentato l’assessore ai giovani Raffy Rubin – Il messaggio che vogliamo dare è che gli ebrei di Roma sono con Israele”.
  “Per organizzare questa giornata abbiamo pensato alle diverse fasce d’età, bambini, giovani e famiglie, tra giochi, musica e intrattenimento” ha raccontato Ariel Di Porto del Dipartimento Educativo Giovani.
  Le prime ore sono state dedicate ai più piccoli, che si sono divertiti tra gonfiabili e giochi. Dopo le cerimonie al Tempio e il suono dello Shofar, che hanno sancito la conclusione di Yom HaZikaron, la sera hanno preso il via i festeggiamenti veri e propri: tra canti, balli, spettacoli animati dal gruppo israeliano Caliente Music, famiglie e gruppi di amici si sono ritrovati per celebrare l’anniversario.
  Ad aprire i festeggiamenti un emozionante video realizzato dal Centro di Cultura in collaborazione con l’Archivio Storico della Comunità: sul muro tra via Catalana e via del Portico d’Ottavia sono state proiettate le storie degli ebrei romani che partirono volontari per combattere per lo Stato d’Israele, ricostruendone la storia e le vicende personali.
  A seguire i discorsi delle autorità hanno sancito il legame inscindibile del popolo ebraico con Israele e l’importanza di questa data. Sono intervenuti il Rabbino Capo Riccardo Di Segni, la Presidente della Comunità Ruth Dureghello, l’Ambasciatore d’Israele in Italia Alon Bar.
  Poi con l’animazione di Livio Anticoli è partita la musica: con la partecipazione anche di tanti israeliani, il pubblico si è scaldato festeggiando il compleanno d’Israele come auspicava da tempo.

(Shalom, 26 aprile 2023)

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I 75 anni di Israele, la civiltà rinata nel nome dei valori dell’Occidente

È la festa di un popolo che per due millenni ha dovuto vivere nell’angolo. Ma se prima era inerme, ora può difendersi.

di Fiamma Nirenstein

Oggi è la festa del 75esimo compleanno dello Stato d’Israele. I giorni in Israele si contano da tramonto a tramonto, le feste ebraiche hanno questa scansione: ma mai un intero paese ne aveva fatto una norma. Adesso, proprio come in Europa la domenica è festa e come lo sono il Natale e la Pasqua, feste religiose e nazionali insieme, così al mondo c’è un piccolo Paese, lo Stato Ebraico, che parla la lingua della Bibbia, e chiude scuole e uffici, dalla sera alla sera, lo Shabbat, Yom Kippur, Pesach. Un Paese di un popolo che per due millenni ha dovuto vivere in un angolo, spesso nascosto e discriminato, chiedendo il piacere di essere accolto e mai ricevendolo davvero. Oggi questo popolo può difendersi, mentre fino a 75 anni fa era inerme di fronte a roghi, pogrom, di fronte alla Shoah.
  La schiuma rabbiosa dell’«odio più antico» come l’ha chiamata Robert Wistrich non è finita, ma attacca oggi con l’antisemitismo le solide mura di uno stato. I suoi cittadini sono al quarto posto nella scala della felicità mondiale, le sue leggi li rendono tutti eguali, proprio il contrario di quello che è accaduto con le svariate discriminazioni cui sono stati sottoposti fino alle leggi razziali. Questa è la novità che ha oggi 75 anni. Ma negli eventi che viviamo ci sono significati contingenti: da settimane, i media sottolineano il duro scontro fra il governo e l’opposizione, in piazza contro la riforma giudiziaria, individuandovi, spesso con soddisfazione, una crisi profonda. I nemici di Israele, dall’Iran a Hamas, hanno anche letto nelle manifestazioni che hanno bloccato strade e attività, per altro pacificamente scortate dalla polizia di Stato, un segno di debolezza definitiva, persino la fine imminente dello Stato Ebraico. La loro consueta attività omicida ha cercato di imprimere sulla festa dell’Indipendenza un segno di sangue con l’attacco di Gerusalemme di lunedì e in Cisgiordania ieri. Ma la realtà ha un nocciolo storico duro, una stella splendente per chi la sa guardare: da 75 anni il popolo ebraico ha, dopo aver invano sognato Gerusalemme per due millenni, la sua casa. È una casa bellissima e confortevole dal deserto del Negev al Lago di Tiberiade, orlata di una costa mediterranea, dove un formicolare di milioni di persone lavora e si diverte, un Paese in cui oltre all’ebraico e all’arabo risuonano mille lingue dai cento colori, dove si sviluppano la migliore tecnologia, la medicina più avanzata, la più richiesta tecnica agricola e delle acque, l’esercito è compatto e tecnologico, e ogni famiglia ha abbastanza fiducia da mettere al mondo una media di tre bambini.
  È la prima casa del popolo ebraico: è riuscito a ricostruirla offrendo la pace come deve fare ogni democrazia. Peccato che abbia ricevuto tanti «no». Oggi, è vero, il popolo ebraico litiga furiosamente, e la sostanza è drammatica, mai si è risolto il dilemma fra «popolo» e «religione»: i grandi saggi ne discutono da secoli. Molto semplificato, la parte laica vorrebbe uno stato «democratico»; quello di destra, tenderebbe a uno stato con tratti religiosi e impositivi.
  Ma è un ritratto non fedele. Netanyahu, che è il primo ministro, è laico e liberale, ed è tuttavia lui stesso l’oggetto della maggiore contestazione, da una sinistra esasperata dal successo elettorale della destra. La parte religiosa, tuttavia, non può far sua un’Israele che ha alle spalle decenni ormai di costruzione di un Paese molto liberale, in cui ogni opinione e tendenza politica e sessuale convivono e sono onorate. È vera d’altra parte l’antica disputa fra la visione religiosa e quella laica: Israele può vivere solo nel compromesso. La sinistra dovrà sforzarsi di accettare i valorosi ebrei che nei secoli, morendo di fame e di persecuzioni, fino nei campi di concentramento, conservarono da eroi la tradizione: il popolo ebraico non esisterebbe, le pagine della Torah sarebbero carta straccia senza di loro.
  D’altra parte, senza l’eroica forza d’animo dei combattenti socialisti che con Ben Gurion, dai kibbutz e dalle file della sinistra hanno combattuto, zappato la terra, sofferto la fame e dato la vita nella costruzione del Paese e nelle guerre, senza la loro ispirazione umanitaria, non ci sarebbe uno Stato ancora ragazzo a 75 anni. Di questo popolo dovrebbe andar fiero il mondo. Le grandi civiltà e le grandi culture sono cadute nei secoli, la civiltà ebraica è rinata in nome dei valori dell’Occidente.

(il Giornale, 26 aprile 2023)

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Due Eurofighter dell’Aeronautica italiana partecipano alla Giornata dell’indipendenza di Israele

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Due Eurofighter dell’Aeronautica militare italiana hanno preso parte alla tradizionale parata per la festa dell’indipendenza di Israele. Lo ha dichiarato l’ambasciatore d’Italia in Israele, Sergio Barbanti, su Twitter. “Che emozione vedere i cieli di Tel Aviv attraversati da due Eurofighter della nostra Aeronautica militare in occasione della tradizionale parata”, ha scritto il diplomatico, aggiungendo: “Festeggiamo insieme a tutti gli israeliani 75 anni di indipendenza. YomHatzmaut Sameach!

(Nova News, 26 aprile 2023)

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“Cari amici di Israele”

Editoriale di “Nachrichten aus Israel”

di Fredi Winkler*

Le continue proteste e manifestazioni in Israele dimostrano che il Paese è in una grave crisi politica interna. Qual è lo sfondo di questa crisi?
  In un'analisi è sempre bene guardare indietro. Lo Stato di Israele festeggia quest'anno il suo 75° anniversario. Chi ha fondato lo stato? Sono stati i socialisti e i comunisti ebrei. Hanno governato il paese per quasi trent'anni, fino a quando il Likud è salito al potere nel 77 sotto Menachem Begin.
  David Ben-Gurion e la maggior parte dei fondatori dello stato non erano ebrei religiosi. Ben-Gurion e molti con lui non credevano più nella venuta di un Messia, ma nella venuta di un tempo messianico che Israele avrebbe portato attraverso l'educazione, la scienza e il progresso, non solo per se stesso ma per il mondo intero. Così, in Israele e tra gli ebrei, ci sono due visioni del mondo che si contraddicono a vicenda: da un lato, quella religiosa e, dall'altro, quella più laica, cosa che divide le persone in due campi. Dalla fondazione dello Stato, però, gli ebrei religiosi sono decisamente aumentati di numero mentre quelli più laici sono diminuiti.
  Qualche anno fa è stato deciso in parlamento che il carattere dello stato dovesse essere ebraico. Questo ha fatto arrabbiare i drusi e altri non ebrei che sono fedeli allo stato e prestano servizio nell'esercito. E questa è la domanda: gli arabi e altri non ebrei, per esempio, possono cantare con convinzione l'inno nazionale israeliano, che è distintamente ebraico?
  Quello che sta accadendo in Israele potrebbe effettivamente indebolire in modo serio lo stato dall'interno.
  E la speranza messianica degli ebrei religiosi? Anche qui dobbiamo dire che effettivamente gli israeliani sono disorientati. I successori del rabbino von Lubavitch, morto più di vent'anni fa, credono che sia lui il Messia e che tornerà. I seguaci di Rabbi Nachman di Uman, morto più di duecento anni fa, credono la stessa cosa.
  Va detto che nel giudaismo religioso non esiste una speranza uniforme per il Messia. Tuttavia, tutti concordano sul fatto che il Messia sarà un uomo come tutti gli altri. In tutti i casi deve adempiere tre cose: primo, deve riportare il popolo d'Israele nella sua terra. Secondo, deve portare la pace. E terzo, deve costruire il tempio.
  Possiamo considerare soddisfatta la prima condizione. La seconda è in lavorazione. Su questo sfondo possiamo vedere la cosiddetta "Alleanza abramitica" con gli Stati del Golfo e altri stati arabi. La terza cosa è un po' più difficile.
  Alle manifestazioni filogovernative recentemente iniziate, i manifestanti hanno cantato: “Bibi, re d'Israele e messia d'Israele”. L'opposizione si oppone risolutamente a questo pericoloso messianismo. Teme, giustamente, che questo finisca in un disastro.
  Se confrontiamo la speranza odierna per il Messia con la speranza biblica per il Messia, allora possiamo vedere che gli “scambi" nel giudaismo sono stati messi molto tempo fa in modo errato, perché nel corso della storia c'è stata un'intera serie di falsi Messia, e questo è certamente uno dei motivi per cui molti in Israele rifiutano l'attuale sviluppo. Quando qualcosa sembra impossibile, agli ebrei piace dire: “Bisognerà aspettare fino alla venuta del Messia". Nelle attuali divergenze di opinione, questo sarebbe certamente l'atteggiamento migliore.
  Con la speranza del vero Messia, vi salutiamo con un caloroso Shalom.
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* Responsabile di Beth-Shalom a Haifa e collaboratore dell'opera evangelica internazionale Mitternachtsruf.

(Nachrichten aus Israel, Nr.5 Mai 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Nascita dello Stato di Israele: la Biblioteca nazionale raccoglie i diari personali del periodo

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Ricordare la fondazione dello Stato di Israele attraverso i diari di coloro che hanno partecipato alla sua nascita: è l’iniziativa ‘Operazione diario’ lanciata dalla Biblioteca Nazionale di Israele in collaborazione con Israel Hayom, che in occasione del 75esimo anniversario di Israele sta raccogliendo diari e resoconti scritti personali per mettere in luce le storie personali sia di personaggi famosi, come la poetessa Hannah Szenes, sia di gente comune coinvolta nelle circostanze straordinarie di quei tempi, a beneficio delle generazioni future.
  L’obiettivo, dichiarato sul sito della Biblioteca nazionale, è “essere un deposito per i diari personali degli uomini e delle donne della generazione fondatrice della nazione con l’obiettivo di creare una collezione storica unica”.
  Le persone sono invitate a cercare nelle proprie case diari di quel periodo e a compilare questo form sul sito della Biblioteca. I materiali possono essere in ebraico o in altre lingue, scritti da persone in Israele al momento della fondazione dello stato, o in altri paesi, purché includano esperienze relative a quel periodo di tempo.
  Nel corso di diverse settimane sono arrivati quasi 50 diari, con altri in arrivo. Tra quelli scoperti finora ci sono il diario di Shlomo Doron, un soldato che ha prestato servizio nella brigata Palmach Hayot Hanegev (“Animali del Negev”); Avraham Weiss Livnat, che ha combattuto sul fronte meridionale; il diario di una giovane ragazza, Yehudit Antin, che descrive in dettaglio la sua vita a Gerusalemme dal 1935 al 1948, compreso il suo lavoro come addestratrice di piccioni viaggiatori; e un diario scritto da Abraham Francesco Cerrone della comunità italiana di San Nicandro, emigrata nel nuovo Stato di Israele.
  lI progetto comprende anche i diari raccolti da Toldot Yisrael, un’organizzazione no profit con sede a Gerusalemme dedicata alla registrazione e alla condivisione delle testimonianze di prima mano della generazione fondatrice dello Stato di Israele, e depositati presso la Biblioteca Nazionale.

(Bet Magazine Mosaico, 26 aprile 2023)

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Red Bus City Tours, un nuovo modo per scoprire Gerusalemme

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A Gerusalemme sono disponibili i nuovissimi bus per visitare e scoprire la città, immergendosi completamente nei panorami e nei suoni che la caratterizzano. I Red Bus City Tours, a due piani contraddistinti dal colore rosso, condurranno i visitatori in un viaggio attraverso questa magnifica città, dagli stretti vicoli della Città Vecchia alle splendide vedute del Monte degli Ulivi.
  Adatto a tutti – appassionati di storia, amanti della cultura o semplicemente chi è in cerca di un’avventura emozionante – il tour è il modo perfetto per scoprire tutte le gemme nascoste che Gerusalemme ha da offrire.
  Le esperte guide presenti sui bus accompagneranno i visitatori in ogni momento, raccontando le storie più affascinanti e approfondendo la ricca storia e le tradizioni di questa antica città. Basta salire a bordo, sedersi e godersi la bellezza e la magia di Gerusalemme da una prospettiva completamente nuova.
  Il Red Bus City Tours offre un’esperienza di visita multilingue: attraverso le cuffie, offerte in dotazione e incluse nel costo del biglietto, sarà possibile ascoltare le spiegazioni dei vari luoghi visitati in diverse lingue, così da poter conoscere in maniera approfondita le meraviglie della città con facilità.

(Travelnostop, 26 aprile 2023)

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Israele, tensioni alla festa per i 75 anni dall’Indipendenza

Continuano le tensioni in Israele in occasione della festa dell'Indipendenza arrivato al 75º anniversario

di Davide Cavallo

Salgono le tensioni in Israele in occasione del 75º anniversario della festa dell’Indipendenza con le forze dell’Ordine allertate su tutto il Paese. Uno scenario che dà continuità, purtroppo, a quanto sta accadendo negli ultimi mesi ormai e che anche in occasione di questa importante ricorrenza non ha risparmiato gli scontri.
  Le autorità locali fanno intanto sapere che i valichi tra Cisgiordania e Israele resteranno chiusi fino alla notte di domani, nonostante uno schieramento di oltre 30mila militari pronti a intervenire in caso di sommossa. C’è divisione anche sul fronte dei festeggiamenti dal momento che gli oppositori del governo di Netanyahu hanno dichiarato di voler celebrare l’anniversario nel centro di Tel Aviv, a differenza di quanto previsto dal governo che vedrà le autorità recarsi sul Monte Herzl di Gerusalemme per la cerimonia ufficiale.
  Il 75º anniversario dell’Indipendenza rappresenta per Israele anche un’ulteriore occasione di commemorazione in particolar modo in riferimento ai 24.213 soldati caduti nelle guerre in tutti questi anni oltre ai 4.255 israeliani morti in attentati.

(TAG24,25 aprile 2023)

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Israele, rissa al cimitero tra i famigliari delle vittime e i supporter del ministro Ben-Gvir

È accaduto durante la celebrazione del Memorial Day per ricordare i soldati caduti e le vittime degli attacchi terroristici

Dalla tramonto del 24 aprile fino alla sera del 25, in Israele, si celebra lo Yom HaZikaron – Memorial Day in inglese -, per ricordare i soldati caduti e le vittime degli attacchi terroristici. Diverse le manifestazioni organizzate nel Paese. Non sono mancati i momenti di tensione, come quello avvenuto al cimitero militare di Be’er Sheva, città capoluogo del Distretto Meridionale. 
  Nel luogo sacro, si è tenuto il discorso di Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale del governo Benjamin Netanyahu. La presenza del leader del partito di estrema destra – Otzma Yehudit – non è stata accolta con favore da una parte dei famigliari delle vittime. «Non sei degno», hanno gridato al politico, «non meriti di essere qui», «non sei un combattente, sei un fascista». «Vergognati, guarda cosa hai fatto il Memorial Day». È scoppiato un alterco con una frangia di partecipanti a sostegno di Ben-Gvir che, invece, hanno applaudito e ringraziato il ministro per aver preso parte alla cerimonia. Si sono registrati spintoni e risse tra i famigliari, alcuni dei quali avevano già mostrato del nervosismo per la presenza della stampa, nonostante la celebrazione fosse a porte chiuse. Rina Matzliach, giornalista di Channel 12 News, è stata insultata verbalmente. 
  La sera prima dell’arrivo di Ben-Gvir, sono state predisposte diverse misure di sicurezza. L’evento infatti non è stato aperto per la prima volta al pubblico, proprio per la manifesta opposizione di alcuni famigliari alla visita del ministro. Scontri preannunciati? Certamente erano prevedibili: secondo una fonte della polizia che ha parlato con Haaretz, le preoccupazioni principali riguardavano i tentativi di impedire a Ben-Gvir di raggiungere il cimitero da parte di alcuni attivisti. Anatoly Kayden, un padre in lutto, ha coperto la tomba di suo figlio con un lenzuolo nero prima del discorso del ministro. Su un muro limitrofo al cimitero, è comparsa una scritta offensiva: «Ben-Gvir maiale».

(Open, 25 aprile 2023)

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Al corteo del 25 Aprile la Brigata Ebraica "con tutti i popoli in lotta per la libertà"

Ucraini, dissidenti iraniani e cubani: la Brigata ha invitato quest'anno rappresentanze di altri popoli, "perché la festa della Liberazione è per tutti, per gli italiani di ieri e per quelli di domani”.

di Davide Romano

Anche domani parteciperemo con le insegne della Brigata Ebraica al corteo della Liberazione. Lo faremo non solo in nome dell'antifascismo e della democrazia, ma anche dell'integrazione. Già l'anno scorso, infatti, invitammo a marciare insieme a noi la comunità ucraina milanese che accorse in massa. Purtroppo, fu vittima di qualche contestazione da parte di sparuti putiniani: "assassini" e "nazisti" sono alcuni degli epiteti che dovettero subire i nostri amici ucraini, che già a quel tempo avevano i loro cari sotto le bombe dei cosiddetti "denazificatori" russi. Ma sono certo che - nonostante questo singolo spiacevole episodio - sia stato comunque importante per gli ucraini sentirsi per la prima volta parte del 25 Aprile, dove hanno potuto provare l'abbraccio e l'affetto della stragrande maggioranza dei partecipanti al corteo.
  Anche così si integrano le comunità straniere della nostra città: coinvolgendole nella Festa della Liberazione, e facendo sentire la nostra vicinanza ai loro partigiani di ieri e di oggi. Milano ha una ricchezza multietnica che va valorizzata e di cui non dobbiamo mai dimenticarci, soprattutto il 25 Aprile. Perché un domani siano anche loro a sostenere il ricordo di una democrazia riconquistata, talvolta proprio grazie al sacrificio di loro connazionali. Quest'anno oltre agli ucraini abbiamo invitato al corteo anche dissidenti iraniani. Perché siamo con loro, con la loro coraggiosa lotta al regime degli ayatollah. Chiedono libertà e democrazia e stanno rischiando e perdendo la vita per esse ogni giorno, come nella migliore tradizione partigiana. Insieme a loro, ci raggiungeranno anche dei cubani contrari al regime. Non dobbiamo infatti mai dimenticare che stare dalla parte della democrazia significa anche non concedere legittimazione a regimi illiberali.
  La tradizionale presenza all'interno del corteo del 25 Aprile di sostenitori di regimi dittatoriali (dal regime cubano a quello palestinese, passando per quello russo, cinese o siriano) mi ha sempre lasciato perplesso. Se si crede davvero nella democrazia, infatti, non si può andare a braccetto con i sostenitori di chi uccide gli oppositori. Peraltro, sono meno rari di quanto si pensi i casi in cui i fiancheggiatori di questi regimi rappresentano una minaccia per quei dissidenti loro connazionali che vivono nel nostro Paese.
  Qualcuno teme che con questi inserimenti stranieri a fianco della Brigata Ebraica rischiamo di diventare troppo "esotici". Rispondo subito che la festa della Liberazione deve rispettare la pluralità degli Alleati. Deve quindi essere per tutti, per gli italiani di ieri e di domani. E se per integrare la Brigata Ebraica nel corteo ci sono voluti anni, di certo non possiamo fermarci qui: ma procedere mano nella mano con i nostri fratelli ucraini, iraniani e cubani. Peraltro, tutti insieme rappresentiamo le tre religioni monoteiste. Il migliore modo di fare dialogo interreligioso e integrazione: nel nome della libertà e della democrazia.
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* Davide Romano è il direttore del Museo della Brigata Ebraica

(la Repubblica, 25 aprile 2023)

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Tre medaglie per Israele alle Olimpiadi Europee Femminili della Matematica

di Jacqueline Sermoneta

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Storico risultato per le tre giovani studentesse israeliane che hanno partecipato alle Olimpiadi Europee Femminili della Matematica (EGMO), svolte a Portorož, in Slovenia. Tutte tornano a casa con la medaglia al collo ma una di loro si è particolarmente distinta: è Nogah Friedman, che conquista l’oro con “un punteggio perfetto”. Ya’ara Schulman vince la medaglia d’argento, mentre Netta Ilani quella di bronzo. 
  La competizione internazionale, giunta alla dodicesima edizione, è riservata alle studentesse delle scuole superiori di tutta Europa con lo scopo di promuovere le materie scientifiche anche tra le ragazze e, quest’anno, ha visto la partecipazione di 214 concorrenti provenienti da 54 Paesi. 
  Per due giorni tutte le squadre si sono affrontate in una sfida a colpi di problemi, algebra, teoremi di geometria, combinatoria e teoria dei numeri.
  "Sono molto orgoglioso delle nostre studentesse, che hanno intrapreso il viaggio per rappresentarci con onore alle Olimpiadi e hanno vinto.  - Ha detto Il ministro dell'Istruzione, Yoav Kish, esprimendo entusiasmo e gratitudine - Hanno dimostrato che la perseveranza, la determinazione e l'impegno sono le chiavi del successo. Tutte rappresentano la generazione futura e sono fiducioso che in serbo per loro ci saranno tanti altri successi".
  Assaf Tselal, direttore generale del Ministero dell'Istruzione, ha aggiunto: "Siamo orgogliosi delle nostre studentesse, degli insegnanti, che le sostengono e le accompagnano, e delle scuole che frequentano. I loro straordinari risultati raccolgono ammirazione, orgoglio e immensa ispirazione. Sono certo che le ragazze del team e gli altri studenti, che seguiranno le loro orme, porteranno lo Stato di Israele in prima linea sullo scenario mondiale".
  "I risultati delle studentesse israeliane ispirano rispetto, apprezzamento e ammirazione. -  Ha affermato il presidente del Centro per futuri scienziati, Yarom Ariav – Sono motivo di orgoglio. Questa è un'occasione d'oro per salire a livello nazionale. Le talentuose studentesse israeliane hanno gareggiato con le migliori al mondo, mostrando abilità incredibili, e per questo meritano grande apprezzamento".
  Le Olimpiadi Europee Femminili della Matematica sono state organizzate per la prima volta a Cambridge nel 2012, ma Israele ha iniziato a parteciparvi solo dal 2016. Da allora, le concorrenti israeliane hanno portato a casa ben 19 medaglie.  

(Shalom, 25 aprile 2023)

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Attentato a Gerusalemme: un’auto guidata da un palestinese investe i passanti. Almeno cinque feriti

GERUSALEMME. 24 apr - Oggi pomeriggio a Gerusalemme, nei pressi del mercato Mahane Yehuda sono rimaste ferite 5 persone (alcune fonti parlano di 6 e forse più) in un attacco terroristico per mano di un palestinese. Tra i feriti, secondo quanto riferito dal servizio di ambulanza Magen David Adom, ci sarebbe un uomo anziano in gravi condizioni.
  Il Primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito l’accaduto “un attacco terroristico”, fatto del resto confermato anche dalla Polizia.
  Come riporta il Times of Israel, l’uomo è stato portato subito in sala operatoria dove i medici hanno lottato per salvargli la vita. C’è poi una donna trentenne, che ha subito una lesione agli arti, e si ipotizza debba essere operata. Le altre tre persone, un uomo di 50 anni e due ragazzi di anni 25, sono fortunatamente in buone condizioni. Sono stati comunque visti altri cittadini che sarebbero rimasti coinvolti nell’attacco
  Il terrorista, senza reati precedenti conosciuti, ma noto per problemi di salute mentale, è stato neutralizzato da un uomo che era vicino a loro e che aveva assistito alla scena. L’attentatore, morto sul posto, si chiamava Hatem Najima ed aveva 39 anni. Era originario del quartiere di Beit Safafa, situato nei pressi della Linea Verde che segnava i confini del 1967.
  L’episodio è avvenuto proprio durante Yom HaZikaron, “Il Giorno del Ricordo”, che commemora le vittime cadute in guerra o in attentati terroristici, in una zona popolare, solitamente piena di persone. “Ha accelerato e ha deliberatamente colpito un certo numero di pedoni, alcuni dei quali stavano attraversando la strada, vicino al mercato”, ha detto la Polizia.
  Il Jerusalem Post riporta attraverso una dichiarazione ottenuta dall’agenzia stampa Safa, che diverse fazioni palestinesi avrebbero definito l’attacco come “una risposta naturale ai crimini dell’occupazione nella moschea di al-Aqsa”.

(Bet Magazine Mosaico, 24 aprile 2023)

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Le offerte di lavoro in Israele toccano il minimo da due anni

Il numero di posti di lavoro vacanti in Israele è sceso da 135.300 a febbraio 2023 a 130.898 a marzo 2023, come riferisce l’Ufficio centrale di statistica. Si tratta della cifra più bassa dall’aprile 2021. La tendenza al ribasso arriva dopo che il numero di posti di lavoro vacanti è aumentato durante il 2021 e la prima metà del 2022, raggiungendo un picco di oltre 150.000 a metà dello scorso anno. Tuttavia, l’attuale numero di posti di lavoro vacanti è superiore a quello del 2019, quando la cifra si attestava a 100.000 unità.
  Il sostanziale calo dei posti di lavoro vacanti è dovuto al rallentamento dell’economia globale, che ha comportato anche un drastico aumento dei tassi di interesse negli ultimi 12 mesi, che ha pesato sulla tenuta del mercato del lavoro, una delle principali ragioni dell’aumento dell’inflazione.
  Anche la percentuale di posti di lavoro disponibili rispetto al numero complessivo di occupati è in calo. A marzo c’erano 4,17 posti di lavoro ogni 1.000 dipendenti rispetto ai 4,27 di febbraio. Secondo l’Ufficio centrale di statistica, “questa stima riflette un calo del 18% del tasso di posti di lavoro vacanti rispetto al marzo 2022, quando la cifra era di 5,05”. Questi dati si basano su un sondaggio condotto tra le imprese con cinque o più dipendenti.
  Il numero più alto di posti di lavoro disponibili in Israele è quello del personale di vendita, dove si è registrata una drammatica carenza dopo la pandemia di Covid. In questo settore si è registrata una media di 11.468 posti di lavoro disponibili tra gennaio e marzo. Il 10% della forza lavoro israeliana, per un totale di 370.000 dipendenti, lavora nel settore tecnologico, anche se il numero di offerte di lavoro per sviluppatori di software è sceso del 3% a marzo, passando a 6.138 unità rispetto alla media del periodo dicembre 2022-febbraio 2023. Questo numero ha raggiunto un picco di 13.720 tra gennaio e marzo 2022.

(Israele 360°, 23 aprile 2023)

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Quel cocktail perfetto chiamato Israele

Laici e religiosi, aschenaziti e sefarditi, élite e popolo. Laboratorio della ricerca all’avanguardia e scenario di una vicenda spirituale millenaria. Il racconto di un paese che dal 1948 vive sull’equilibrio delle sue contraddizioni.

di David Parenzo

Sono qui, da ore, a fissare lo schermo del Pc, pigiando quasi a caso le lettere sulla tastiera in cerca di un’immagine, una sola – eloquente, chiara, sintetica – per attaccare il pezzo che il Foglio mi ha chiesto di scrivere sul settantacinquesimo anniversario della fondazione dello Stato d’Israele. La proclamazione ufficiale è del 14 maggio 1948, secondo il calendario laico, ma quest’anno, seguendo il calendario lunare delle feste ebraiche, il giorno dell’Indipendenza cadrebbe esattamente il 25 aprile, la nostra Liberazione.
  E Israele si prepara a compiere 75 anni proprio quando il paese è attraversato da una protesta di massa senza precedenti nella sua storia – aeroporti e università chiuse, imprenditori, sindacati e studenti insieme in piazza – e si mobilita contro la riforma della giustizia proposta (e ora congelata) dal governo presieduto da Benjamin Netanyahu, in carica da appena quattro mesi. Ci vorrebbe, quindi, un’immagine – mi ripeto – in grado di tenere tutto insieme: passato e presente, storia e attualità, utopie e frustrazioni dell’intera vicenda israeliana.
  Ecco che – dopo molti tentativi andati a vuoto, scartando slogan precotti e formule roboanti – un po’ per sfinimento e un po’ per convinzione, mi sembra di trovarla, quell’immagine, di afferrarla. Non so se a suggerirmela è la sete, la voglia di leggerezza o il ricordo di alcune piacevoli notti trascorse sul lungomare di Tel Aviv, la Miami Beach del medio oriente.  Ma, insomma, penso a un cocktail. 
  Sì: un cocktail colorato, composito, vario e, soprattutto, ben equilibrato. 
  La riuscita di un cocktail, come è noto, risiede nell’esatto dosaggio degli ingredienti: se uno prevale sull’altro, l’alchimia del gusto salta e l’equilibrio frana, esplode. E, al netto delle facili, e quanto mai pregnanti, battute che possono scaturire dall’accostamento dei due termini, il cocktail in questione rischia di essere – da sempre, verrebbe da dire – esplosivo. Già, perché Israele accoglie, sin da subito – quali indiscutibili premesse – l’intreccio e la compresenza di elementi in contraddizione, se non in naturale opposizione, tra loro.
  Nella sua ormai classica Storia di Israele del 1988, il politologo Eli Barnavi collega con dei puntini di sospensione due paragrafi distinti del capitolo dedicato al Problema dello stato, così da formare un’unica frase di senso compiuto: “Una democrazia parlamentare moderna… su un substrato biblico”.  Il nucleo del problema non potrebbe essere più chiaro: si tratta della dialettica continua tra laicismo e religiosità, entrambi costitutivi per Israele.
  E – parlando di uno stato che si sviluppa fisicamente e politicamente nella culla del monoteismo, nella location elettiva del Popolo di Mosè e di Abramo – non potrebbe essere altrimenti.
  Il confronto tra una visione laica e una religiosa – che è alla base dello Stato ebraico, lo chiamo più chiaramente così – ha, infatti, radici profonde e sta già tutta nella convivenza, all’interno di un unico territorio, tra aschenaziti e sefarditi. La componente aschenazita si incarna nella grande borghesia europea animata dall’ideale del sionismo, con i suoi studi d’eccellenza nelle università più prestigiose, la sua formazione laica e razionalista, la sua attenzione alle forme mature della rappresentanza politica. La componente sefardita è, invece, rappresentata degli ebrei cacciati dalla Spagna nel Quindicesimo secoli e radicatisi nei paesi arabi.
  Schematizzando un po’ le cose – ma nemmeno troppo – si potrebbe anche affermare che, dal punto di vista socio-culturale, siamo di fronte al famigerato contrasto tra élite e popolo: l’élite aschenazita di ispirazione laica, il popolo sefardita più connesso alla dimensione religiosa. Ma sia chiaro: entrambe le identità – lungi dall’essere rigidamente separate – si sono fatalmente incrociate e toccate nel corso di tutta l’evoluzione dello Stato di Israele.
  Solo che adesso – con la partecipazione al governo del paese, insieme al Likud, di partiti e formazioni di matrice ultra-ortodossa – alcune differenze sembrano risaltare con maggiore evidenza, rivelando, una volta per tutte, un contrasto ancora più ampio e generale (pure questo molto israeliano): quello tra innovazione e tradizione.
  Israele è la Start-up Nation per antonomasia, il laboratorio della ricerca all’avanguardia (dai format televisivi alla medicina sperimentale, dalla cyber security all’intelligenza artificiale), l’incubatrice in perenne trasformazione di una conoscenza iper-duttile, onnicomprensiva e proiettata nel futuro. Questo grazie al fatto che le tecnologie sviluppate in ambito militare hanno avuto sempre un impiego e una ricaduta civili. Tanto per citarne una, il drone super tecnologico che sorvola Gaza per ragioni di sicurezza è stato poi impiegato per delle riprese mozzafiato nelle mitiche serie tv, Fauda tra tutte. E, al tempo stesso, il medesimo stato è lo scenario (per certi versi immutato) di una vicenda spirituale unica e millenaria: la “casa”, concreta e ideale, scelta da un popolo transnazionale per difendere, oltre che sé stesso, le sue tradizioni, non ultime quelle religiose.
  Si prenda il “caso” Tel Aviv: la città pop per eccellenza, la capitale delle mille tendenze, della cucina fusion, dei locali notturni (e, a proposito di cocktail, è là che si trova – pare – il miglior cocktail bar del medio oriente), la sede consolidata di un affollatissimo e rutilante Gay Pride che ospita ogni anno migliaia rappresentanti della comunità Lbgtq+ da tutto il mondo.
  Ebbene, quasi attaccata a Tel Aviv, c’è l’area urbana di Bnei Brak, abitata principalmente da Heredim (letteralmente: “coloro che tremano davanti a Dio”), ebrei religiosi ortodossi.
  C’è anche da aggiungere, poi, che i modi in cui si declinano le due facce, le due metà complementari e separate di Israele, può assumere, nella gestione della vita quotidiana, forme curiose, a tratti persino comiche.
  Valgano pochi esempi: dalla lanciatissima e tecnologicamente up-to date compagnia di bandiera El Al che non effettua voli il venerdì sera per la festa dello Shabbat (il giorno del riposo settimanale previsto dalla Torà), agli alberghi con l’ascensore “intelligente” che permette, durante la festa, di non infrangere le regole di inattività forzata. Funziona così: l’ascensore si ferma a tutti i piani, autonomamente, senza costringere chi lo prende a schiacciare i pulsanti. Con questo espediente la tradizione è rispettata e l’economia non si blocca! Anzi. Chiamatelo pure compromesso, ma è uno dei segreti del cocktail.
  Essenziale, però, per capire la natura del compromesso, è rendersi conto – nel preciso tornante storico in cui si trova oggi lo Stato israeliano – della consistenza dei poli opposti da cui è animato. Per farlo, uno degli interlocutori a cui rivolgersi può essere Jonathan Pacifici, venture capitalist cresciuto a Roma ma stabilitosi in Israele, specializzato nello sviluppo internazionale delle aziende tech e presidente del Jewish Economic Forum, che sta per dare alle stampe un libro dal programmatico titolo: La Superpotenza Israele.
  Tra i molti numeri snocciolati da Pacifici con cognizione di causa nella sua analisi, a impressionare più di tutti è il dato di partenza. Ovvero che uno stato con una superficie territoriale di circa quattordici volte più piccola rispetto a quella dell’Italia (22.145 chilometri quadrati contro 302.073) faccia parte della lista – compilata da Us News & World Report in collaborazione con l’Università della Pennysilvania – dei dieci paesi più potenti al mondo (piccola integrazione: Israele è al quarto posto per forza militare, dopo i colossi Stati Uniti, Cina e Russia). E la prestigiosa rivista Forbes, nel 2022 (quindi, in piena era post coronavirus, nel momento in cui aleggiava in Occidente lo spettro della recessione) ha inserito per la prima volta Israele nella Top 20 mondiale per pil pro-capite (nel 2021, tra l’altro, le società tecnologiche israeliane sono cresciute del 136 per cento rispetto all’anno prima). 
  Chiedo direttamente a Pacifici, al di là dei rating e delle classifiche, i motivi – se ci sono – della vocazione “performativa” di Israele in campo economico, della sua tensione innovativa nella ricerca e nello sviluppo. Mi risponde ricorrendo a un concetto della tradizione ebraica, il Tiqqun ‘olam. Sarebbe a dire? “Si potrebbe tradurre come: riparare il mondo… L’idea è che Dio abbia fatto un ottimo lavoro, creando il mondo, ma che lo abbia volutamente lasciato incompleto, regalando all’uomo la missione di ultimarlo, di provare ad aggiustarlo, a perfezionarlo nelle sue mancanze… Da qui, l’impulso di cercare nuove strade, agganciandosi alla conoscenza. Del resto, se ci pensi, è stato proprio il potere della conoscenza a tenere vivi e, in qualche modo, uniti, simili, gli ebrei quando non avevano uno stato…”. E torna, allora, alla mente anche un saggio scritto qualche anno fa da Jonathan Rosen, Il Talmud e Internet, dove nella costruzione talmudica (in cui testo principale, glosse, note e commenti dei rabbini dialogano tra loro nella stessa pagina, creando un vertiginoso sistema di incastri e di rimandi) l’autore ritrova l’origine delle stesse nozioni di “Rete” e di “Link”, come se la spinta verso la complessità e l’innovazione, sia, per il Popolo del Libro, una sorta di patrimonio secolarmente sedimentato e condiviso.
  Approfitto, così, per domandare a Pacifici, partendo dalla sua esperienza e dal suo osservatorio particolare, una valutazione dell’attuale momento politico israeliano, buttandogli là, tra una curiosità e l’altra, anche la suggestione del cocktail: “… Sì, mi piace come metafora… E credo che il cocktail israeliano fino ad ora sia potuto stare insieme grazie a un sistema di controlli e bilanciamenti incrociati, non istituzionali, ma radicati nella dimensione pubblica, nella cittadinanza, legati ai corpi intermedi, ai pezzi diversi della società… Tutto questo si è riflesso spesso in governi di coalizione molto ampi che esprimevano, appunto, una necessità di controllo reciproco, all’interno di una democrazia che, come saprai, non ha una Costituzione”. 
  E cosa è successo, invece, alle ultime elezioni? “Beh, all’ultimo giro elettorale – prosegue Pacifici – dopo uno stallo che durava un po’, si è formata una coalizione che, anche se composta da formazioni diverse, presenta un segno univoco, cioè, per capirci: è decisamente spostata a destra. E quando il nuovo governo ha messo in cantiere una riforma della Giustizia che andava a colpire la Corte suprema – l’organo del potere giudiziario – svuotandola della sua forza effettiva e delle sue possibilità decisionali, l’anima laica del paese, il motore della rivoluzione economica e tecnologica raccontata nel mio libro, si è risvegliata dopo un periodo in cui era sembrata piuttosto sonnecchiante…. Tanto che ora il centro, rappresentato dall’alleanza Blue and White che ha a capo Binyamin Gantz, sta crescendo progressivamente nei sondaggi, perché è come se ci fosse una nuova richiesta di equilibrio, dei pesi e dei contrappesi necessari al funzionamento del cocktail. Si ridimensionerebbero, così, le ali più connotate, se non estreme, sia a destra che a sinistra, visto che anche il Labour Party non è messo troppo bene…”.
  Un altro interlocutore interessante per entrare nella ricca e difficile – ma spesso ancora feconda – complessità dell’Israele del 2023 è senza dubbio Roy Chen, drammaturgo, letterato (è uscito da poco il suo primo romanzo giunto, in poche settimane, alla seconda edizione: Anime, edito in Italia da Giuntina di Shulim Vogelmann), traduttore dal russo all’ebraico di Puskin, Gogol’ e Dostoevskij, autore in pianta stabile del Teatro Gesher, uno dei presidi artistici più importanti del paese. Nato a Tel Aviv nel 1980 – il ramo paterno della famiglia, espulso dalla Spagna, si stabilisce in Palestina nel 1492, quello materno ci arriva dal Marocco agli inizi del Ventesimo secolo – Chen è cresciuto tra suggestioni e modelli molto diversi tra loro: un nonno gioielliere e uno pescatore, una nonna hostess poliglotta e una analfabeta.
  Lo raggiungo al telefono mentre si trova in vacanza in Toscana, il giorno dopo l’attentato di Tel Aviv, in cui – durante le festività di Pesah – ha perso la vita, a 35 anni, travolto da un’auto lanciata sui passanti che camminavano sul lungomare, il nostro connazionale Alessandro Parini.
  Non posso non partire da questa tragedia e chiedo a Chen un’impressione a caldo. Mi risponde così: “C’è uno strano rispecchiamento che rende una notizia di questo tipo, per me, ancora più triste e assurda del solito… Io, ora, sono un turista nel vostro paese, proprio come Alessandro fino a ieri lo era nel mio: la sua vicenda non può non toccarmi nel profondo, anche se, va detto, sono cresciuto con gli attentati, con la possibilità che si verificassero. Una consapevolezza che, purtroppo, ha segnato la mia infanzia e la mia adolescenza, e anche la mia età adulta… E l’attentato in cui è morto Alessandro si è abbattuto sul paese in una fase di estrema fragilità politica e sociale, di forti divisioni interne, aggiungendo tensione a tensione…”. Inevitabile, quindi, una domanda sulle manifestazioni e le piazze piene da mesi contro il governo: “Sono sceso in piazza anch’io, insieme a migliaia di persone, perché abbiamo percepito – anche con sensibilità differenti, a seconda dei vari orientamenti politici – che la democrazia israeliana fosse in pericolo, sia per la riforma giudiziaria (con cui sarebbe stata messa in discussione l’indipendenza della Corte suprema), sia per l’estremismo e le idee razziste, omofobe e nazionaliste che caratterizzano alcuni elementi presenti nel governo in carica. Ed è stato esaltante assistere alla marcia indietro dell’esecutivo. Un risultato ottenuto con il contributo di tutti: laici e religiosi, conservatori e progressisti, perché la democrazia è un valore non di parte, ma appartiene a chiunque…”.
  Chen è un intellettuale di rilievo, e l’ultima cosa che gli chiedo riguarda il suo ruolo in questo frangente, in Israele: è cambiato? Come lo sta vivendo? “Senza dubbio c’è stato un sussulto di consapevolezza, ma non solo in me, nella maggioranza del popolo israeliano. Insieme abbiamo capito nella pratica, quello che a volte ci si dimentica e cioè che, oltre all’aspetto di pura testimonianza, la partecipazione attiva può anche cambiare davvero le cose. Per il resto, gli intellettuali sono ovviamente cittadini come gli altri e utilizzano gli strumenti che hanno disposizione, i loro ‘ferri del mestiere’: la scrittura, la parola, il teatro, la comunicazione. E’ attraverso questi mezzi che posso far sentire la mia voce. Ma, prima di tutto, continuerò a scendere in piazza, che è altrettanto importante”.
  Le parole di Chen, sfuggendo alle trappole della retorica, riportano nel cuore del discorso una visione non dogmatica della democrazia che, come diceva Churchill è sempre “imperfetta” e “perfettibile”. 
  Il titolo di una raccolta di saggi di Isaiah Berlin, Il legno storto dell’umanità, cita direttamente l’aforisma di Kant che recita: “Del legno storto di cui è fatto l’uomo, non si può fabbricare nulla che sia veramente dritto”.  E se anche la democrazia non può essere né dritta, né perfetta – sostiene Berlin – i suoi valori (uguaglianza, giustizia, libertà) restano comunque irrinunciabili.
  L’eventualità che tali valori possano essere inquinati o attraversati da aspetti migliorabili, quando non addirittura nefasti, non deve metterne in crisi il senso e l’esistenza. 
  C’è una frase emblematica di David Ben Gurion, padre fondatore di Israele, pronunciata proprio alla vigilia della proclamazione dell’Indipendenza, che suona più o meno così: “Dateci uno stato, così finalmente potremmo avere anche noi i nostri ladri, le nostre puttane, i nostri malfattori”. Una boutade geniale e, contemporaneamente, una grande celebrazione dello statuto democratico, nefandezze (spesso inevitabili, trattandosi di materia umana) incluse.
  Imperfetto, controverso, complicato, contraddittorio, Israele, sta lì, con i suoi 75 anni – portati, in linea di massima, piuttosto bene – a dimostrarci, che ogni democrazia, anche la più evoluta, deve sempre continuare a “compiersi”.
  In quest’ottica, il suo percorso costellato da assestamenti progressivi, e relativi smottamenti, è davvero paradigmatico. E il fermento che sta scuotendo lo Stato israeliano negli ultimi mesi, muovendo i corpi e le opinioni dei suoi cittadini, ne può, paradossalmente, rafforzare l’assetto democratico. Che ciò succeda quasi in contemporanea con l’anniversario della sua fondazione è – se non un buon auspicio – una coincidenza da mettere in rilievo con la dovuta importanza. L’avvenimento, insomma, merita un brindisi.
  Spengo il pc e, quasi in automatico, mi ritrovo a far rotolare due cubetti di ghiaccio in un bicchiere. Fuor di metafora, decido finalmente di prepararmi un cocktail. Date le circostanze – chiedendo perdono a James Bond per l’indebita appropriazione – farò in modo che sia agitato e non mescolato.
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David Parenzo è in tour nei teatri italiani in questo periodo con lo spettacolo “Ebreo”, “un monologo che accompagna lo spettatore in un viaggio immersivo nelle tradizioni, festività e nei precetti dell’ebraismo per comprendere cosa significhi essere ebrei”. 

Il Foglio, 24 aprile 2023)

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25 aprile e Yom Haatzmaut: due date da festeggiare assieme

di Ugo Volli

Le combinazioni dei calendari fanno sì che quest’anno quasi si tocchino le date che segnano la libertà dell’Italia (il 25 aprile) e di Israele (Yom HaAtzmaut, il giorno dell’indipendenza che si ricorda alla data ebraica del 5 di Iyar e dunque cade secondo il calendario gregoriano in giorni che variano fra la fine di aprile e l'inizio di maggio, quest’anno il 26 aprile con inizio il 25 sera). In realtà Yom Ha Atzmaut ricorda il momento in cui, il 14 maggio 1948, in una sala del museo di Sderot Rotschild 16, già casa del sindaco Dizengoff, David Ben Gurion lesse la Dichiarazione di Indipendenza di Israele. Dato che si tratta di quanto di più simile a una costituzione vi sia nello Stato di Israele, forse sarebbe giusto paragonarlo alla promulgazione della costituzione italiana, che fu fatta il 27 dicembre 1947 dal Presidente provvisorio della Repubblica Enrico De Nicola. Ma questa è una data che nessuno ricorda, mentre si festeggia ancora (moderatamente) il 2 giugno, data del referendum istituzionale del 1946 in cui fu stabilita la repubblica, e il 25 aprile, quando nel 1945 il CLN proclamò l’insurrezione nazionale contro i nazifascisti. Per Israele la dichiarazione di indipendenza segnò il passaggio dalla guerra “artigianale” dei gruppi arabi locali all’aggressione militare vera e propria degli eserciti di ben sei stati arabi (la Transgiordania, appoggiata dagli inglesi, Egitto, Siria, Libano, Arabia e Iraq). La fine della guerra di liberazione arrivò solo nel 1949 con gli armistizi conclusi con l'Egitto il 24 febbraio, con il Libano il 23 marzo, con la Transgiordania il 3 aprile e con la Siria il 20 luglio. Fu solo in questa data che Israele poté godere della propria libertà senza la minaccia di eserciti invasori, almeno fino alla guerra successiva, che sarebbe arrivata nel 1956.

• Le contestazioni
  Al di là di queste significative differenze storiche, c’è un problema politico che è emerso soprattutto negli ultimi anni alle manifestazioni del 25 aprile organizzate dall’Anpi e spesso egemonizzate dall’estrema sinistra. Gli ebrei, che hanno sempre partecipato anche in maniera organizzata a queste celebrazioni della Resistenza, si sono trovati progressivamente emarginati e contestati proprio in nome dell’odio verso lo stato di Israele e del sostegno alla “lotta del popolo palestinese”. Alla manifestazione nazionale che per tradizione si svolge a Milano, hanno potuto sfilare solo difesi da cordoni di polizia e di volontari (i City Angels, talvolta il Pd); a Roma sono stati obbligati a non partecipare alla manifestazione ufficiale e a celebrare la ricorrenza in altro modo.

• Gli ebrei e la Resistenza
  È una distanza che fa scandalo, non solo perché la partecipazione ebraica alla resistenza è stata altissima, molto superiore a quella della popolazione generale, e neanche perché la sofferenza ebraica dovuta al nazifascismo (la Shoah) non è paragonabile a quella di nessun’altra popolazione e dunque la Liberazione è stata importante soprattutto per chi stava nei Lager o nascosto per fuggire alle persecuzioni. C’è il fatto che, durante la Seconda Guerra Mondiale, il consistente nucleo ebraico, che viveva nel Mandato britannico e che avrebbe costituito lo stato di Israele si mobilitò per partecipare alla guerra contro i nazifascisti e, dopo molte insistenze, riuscì a convincere il governo inglese a consentire la costituzione di una “Brigata ebraica” che combatté in Italia e contribuì alla sua liberazione. Nel frattempo gli arabi in tutto il Medio Oriente erano schierati dalla parte dei nazisti e in particolare il loro leader, il gran muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini stava a Berlino godendo dell’amicizia di Hitler, benedicendo le SS islamiche costituite in Bosnia, visitando con compiacimento i campi di sterminio. Insomma lo schieramento degli ebrei dalla parte della resistenza e dei loro nemici dalla parte del nazismo è un dato storico, che si prolunga oggi nel negazionismo della Shoah praticato non solo dall’Iran ma anche dai leader dell’Autorità Palestinese.

• La vicinanza morale delle due celebrazioni
  Il 25 aprile e Yom HaAtzmaut in realtà hanno moltissime somiglianze. Innanzitutto, sono entrambe date che ricordano una liberazione nazionale e che portano valori di libertà, di indipendenza e di progresso. Esse indicano la sconfitta di un percorso di oppressione, di sterminio, di imperialismo che purtroppo non sono cessati del tutto da allora. Esse richiamano alla memoria anche il prezzo di sangue che è stato necessario per la liberazione, il quale è oggetto in Israele di un toccante ricordo alla vigilia della festa della Liberazione (quest’anno proprio il 25 aprile), quando si celebra Yom HaZikaron, la giornata del ricordo dei caduti nelle guerre di liberazione e per mano del terrorismo. Celebrarle assieme è giusto e naturale; solo l’estremismo fazioso e spesso l’antisemitismo dei nemici di Israele può contrapporle.

(Shalom, 23 aprile 2023)

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Covid, uno studio certifica le discriminazioni subite dai non vaccinati

di Raffaele De Luca

Durante gli anni pandemici, gli individui sottopostisi al vaccino anti-Covid hanno discriminato i non vaccinati: a provarlo è uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature, che fa luce sul trattamento riservato a questi ultimi nel corso dell’emergenza sanitaria. Coinvolgendo oltre 15.000 persone appartenenti a 21 paesi, il lavoro scientifico ha infatti dimostrato che i soggetti vaccinati hanno messo in campo “atteggiamenti discriminatori nei confronti degli individui non vaccinati” praticamente ovunque. Ad eccezione di Ungheria e Romania, infatti, i ricercatori hanno trovato in tutti i paesi analizzati prove a sostegno della discriminazione da parte delle persone vaccinate, che hanno riservato ai non vaccinati un trattamento uguale (o anche peggiore) a quello generalmente dedicato agli immigrati, ai tossicodipendenti ed agli ex detenuti.
  Gli atteggiamenti discriminatori – espressi tramite forme come “l’affettività negativa” ed il sostegno alla “rimozione dei diritti politici” – sono inoltre stati attuati in maniera maggiore nei paesi “con norme cooperative più stringenti”, coerentemente con alcune “precedenti ricerche sulla psicologia della cooperazione” secondo cui anche nel campo delle vaccinazioni gli individui reagiscono negativamente contro i cosiddetti “free-riders”, ovverosia coloro che beneficiano dei frutti della cooperazione senza partecipare alla stessa. In tal caso, ciò di cui avrebbero beneficiato i non vaccinati sarebbe stato il “controllo dell’epidemia”, con gli individui vaccinati che avrebbero “contribuito” al suo perseguimento e di conseguenza reagito tramite “atteggiamenti discriminatori nei confronti dei percepiti free-riders (ovvero gli individui non vaccinati)”.
  Eppure, la decisione di non vaccinarsi può basarsi su diverse motivazioni, non riconducibili alla semplice volontà di non cooperare. In tal senso, nello studio viene menzionata “una recente revisione” relativa ai “paesi ad alto reddito”, dalla quale è emerso che “anche se gli stereotipi negativi sono statisticamente veri, è improbabile che catturino adeguatamente le motivazioni complete di ogni individuo”. Una persona non vaccinata, infatti, può rifiutarsi di sottoporsi alla vaccinazione per svariate ragioni: ad esempio, il non vaccinato potrebbe avere determinate “condizioni mediche”, una “immunità da precedenti infezioni”, “esperienze passate negative con le autorità sanitarie” o “considerazioni etiche sull’equità dei vaccini”.
  L’odio nei confronti dei non vaccinati, dunque, sarebbe in tali casi ingiustificato, anche se in realtà lo sarebbe pur non tenendo conto di quanto appena detto. Infatti, mentre gli individui vaccinati hanno generalmente discriminato i non vaccinati, pare che questi ultimi non si siano comportati allo stesso modo. In tal senso, nello studio si legge che non vi sono prove secondo cui gli individui non vaccinati si sarebbero rifatti ad atteggiamenti discriminatori nei confronti delle persone vaccinate, e solo in Germania e negli Stati Uniti vi sarebbe una sorta di astio. In questi due paesi, infatti, è stata riscontrata “una certa antipatia nei confronti degli individui vaccinati”, anche se comunque non sono emerse “prove statistiche a favore di stereotipi negativi o atteggiamenti di esclusione” da parte dei non vaccinati.
  Un dettaglio importante, soprattutto se si considera che gli atteggiamenti discriminatori da parte dei vaccinati sono risultati “culturalmente diffusi”, essendo i 21 paesi inclusi nello studio situati in tutti i continenti abitati. È proprio per questo, dunque, che non si può non porre la lente di ingrandimento sui politici: “alcuni di essi hanno giustificato politiche severe contro i non vaccinati usando una retorica altamente moralistica”, e la stessa potrebbe aver giocato un ruolo chiave nel fenomeno discriminatorio. “Sebbene la comunicazione moralistica delle responsabilità collettive possa essere una strategia efficace per aumentare le vaccinazioni, essa può avere conseguenze negative non intenzionali suscitando pregiudizi”, si legge infatti nello studio. Un problema, quest’ultimo, non da poco: basterà ricordare che in tal modo le società potrebbero uscire dalla pandemia “più divise” di quanto erano, e dunque non a caso nello studio viene sottolineato che i risultati emersi “offrono anche una lezione per le altre sfide globali”. In tal senso, “poiché la condanna morale viene spesso spontaneamente attivata tra il pubblico durante una crisi”, le autorità ed i politici dovrebbero placare le “animosità sociali” anziché alimentarle: la speranza, dunque, è che la pandemia funga da lezione, essendosi rivelato potenzialmente dannoso l’atteggiamento istituzionale adottato in questi anni.

(L'INDIPENDENTE, 23 aprile 2023)
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Per non dimenticare troppo rapidamente la gravità morale di quello che è accaduto nei tre anni della barbarie pandemica, riportiamo alcuni articoli comparsi su NsI nell'agosto 2021, il mese in cui il governo Draghi fece partire la caccia ai novax con l'arma del green pass. M.C.


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Errore politico inseguire i no vax

di Fiamma Nirenstein

In questi giorni in Israele (e a breve in tutta Europa) gli over 60 sono in coda per la terza dose di vaccino. È questa la libertà: quella di fare ciò che è giusto per sé e per la società intera secondo il buon senso, e ciò che ti viene indicato con il criterio del bene comune dal governo eletto. E chi non distingue la regola definita per il bene comune da una malvagia acquisizione di potere, peggio per lui. È nella Bibbia. Mosè diventa un uomo libero quando scende dal Monte con in mano la regola: quella è la libertà. Perché sono le leggi, e oggi le Costituzioni, che formano l'uomo libero. Anche quello che crede che libertà sia contestare il minimale diritto alla protezione della salute, che è la base stessa di un armonico vivere sociale.
   C'è chi pensa che nelle norme con cui si cerca di limitare il contagio del Covid ci sia qualcosa che viola «il semplice, amabile fatto di vivere l'uno accanto all'altro». Non hanno conosciuto l'isolamento? Dopo un anno e mezzo di pandemia, in cui l'uno accanto all'altro abbiamo temuto che il vicino potesse trascinarci col suo respiro nella valle della malattia e persino della morte, la cosa più logica è cercare i sentieri del ritorno alla salute. No, non deve essere obbligatorio vaccinarsi per questo, ma neppure si deve costringere qualcuno che ha fatto maggiori sacrifici per proteggere se stesso e i suoi cari, che magari, come è capitato a me, ha visto qualcuno soccombere in famiglia, all'insicurezza di condividere lo spazio con chi non vuole dirti se è vaccinato. Perché, alla fine, sai che ci sono molte probabilità che questo significhi che non lo è.
   A ogni latitudine un eccitato movimento «intersezionale» che ammonticchia tutti i diritti umani e tutti gli oppressi contro tutti gli oppressori, ci propone un'idea palingenetica di libertà - quella delle donne, dei neri, dei gay, delle minoranze, e ora dei No Vax e dei No Pass - che sospetta una rete di potere oppressivo che ha fatto la storia, la geografia, gli Stati, le leggi... La verità è che le cause di ciascuno vanno sempre bilanciate con la possibile distruttività che contengono.
   E qui, per quel goccio di libertà in più che può fornire non dovere mostrare un'app verde sul telefonino, si gioca sulla vita umana. È la libertà di passare col semaforo rosso. Inoltre chi ha la responsabilità della guida politica non deve dimenticare che l'opinione pubblica sulla salute, alla fine, è saggia: i leader che scelgono questa strada e non rincorrono i No Vax saranno i più ammirati... La legge e l'obbedienza, specie nella salute, danno la libertà.


Totale disaccordo. Fa impressione sentir dire certe cose da parte ebraica. L’autrice può essere certa che da parte mia non mi azzarderei mai a “costringere” una vaccinata come lei a “condividere lo spazio con chi non vuole dirle se è vaccinato”, tanto più che nel mio caso, per esempio, sarei pronto a dirle chiaro e tondo che non sono vaccinato. M.C.

(Notizie su Israele, 6 agosto 2021)

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Veleno sparso sulla vita sociale

E' questo il "bene comune" che si voleva salvaguardare con la doppia imposizione di vaccino e greenpass?

di Marcello Cicchese

Si ricorderà bene il canto degli inni nazionali rilanciati da balcone a balcone nel desiderio di vincere uniti la nuova tremenda battaglia anticovid che molti, senza distinzione, sentivano di dover combattere uniti. Poteva essere vista come un'ingenuità, e ovviamente era destinata a cambiare aspetto, ma ci si poteva comunque aspettare che fosse una spinta a modificare in meglio le tensioni dei rapporti sociali, ad avvicinare in qualche modo le persone. Non è stato così, e l'abbassamento delle attese era in un certo senso inevitabile. Ma era forse evitabile che i rimedi offerti dalle autorità fossero peggiori del male che si diceva di voler combattere. Si continua a dire che bisogna sacrificare gli egoismi libertari sull'altare del superiore bene sociale. Ma in che consiste la socialità di questo bene? Solo nel fatto che vaccinandosi in massa ci sarebbero meno malati e meno morti? Ma questo resta ancora indimostrato e forse anche indimostrabile, se non si assegna il termine "dimostrazione" alle valanghe di statistiche a lettura variabile che vengono propinate tutti i giorni.
   Ma se pur così fosse, come vivranno coloro che sopravvivono al covid? "C'è chi pensa che nelle norme con cui si cerca di limitare il contagio del Covid ci sia qualcosa che viola «il semplice, amabile fatto di vivere l'uno accanto all'altro»", dice l'autrice dell'articolo precedente. E questo ricorda stranamente il classico slogan riferito al problema israeliani-palestinesi: "due popoli che vivono uno accanto all'altro in pace e sicurezza". Le due proposizioni hanno verosimilmente lo stesso grado di attinenza alla realtà.
   Cerchiamo infatti di immaginare come potrà essere «il semplice, amabile fatto di vivere l'uno accanto all'altro» dei sopravvissuti al covid dopo che ai mali del morbo si saranno aggiunti i mali di quelli che con le loro imposizioni dicono di voler combattere il morbo. Siamo passati dai richiami unitari dai balconi ai perfidi "vade retro" lanciati contro tutti quelli non possono o non vogliono esibire il certificato di purezza anticovid. "Se vado al ristorante - ha scritto un pro-greenpass su un giornale - esigo che tutti siano vaccinati. E' una questione di sicurezza". Comprensibile, no? Dunque, chi ha ottenuto dal governo il lasciapassare per entrare in un ristorante, stia comunque in guardia quando entra, perché oltre ad essere vagliato dal ristoratore, potrebbe essere guardato con diffidenza anche dagli altri avventori. Non si sa mai...
   Ma è solo un esempio. Si preannuncia un "tutti contro tutti". I medici contro i pazienti, i ristoratori contro i clienti, i datori di lavoro contro gli operai, i docenti contro genitori, i genitori contro i figli. E viceversa. E oltre ai contrasti tra categorie, ci saranno i contrasti interni in ogni categoria. "Dobbiamo vaccinare i nostri i figli?" Si chiedono i genitori. Sì, no, forse. E i nonni che dicono?" Ciascuno può proseguire la serie dei prevedibili contrasti che inevitabilmente si aggiungeranno a quelli che già ci sono.
   E' stata già elencata una quantità di problemi tecnici di attuazione, ognuno dei quali genererà una serie interminabile di contrasti. E' questo il comune bene sociale che si vorrebbe "responsabilmente" difendere? Possibile che le autorità non abbiano previsto il sorgere di problemi come questi? No, non è possibile: l'hanno messo in conto. E il governo a guida Draghi e a imitazione di Israele ha deciso di andare avanti. L'importante è dare il via al greenpass obbligatorio; il resto si aggiusterà. E quando si sarà aggiustato, la società non sarà più quella di prima. Irreversibilmente.

(Notizie su Israele, 6 agosto 2021)


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Ragione che dorme e ragione che sconfina

«Il sonno della ragione genera mostri», è la scritta che compare su un dipinto del pittore spagnolo Francisco Goya, trasformata poi in un aforisma che ha indubbiamente il suo valore nel giusto contesto. Ad esso se ne può accostare un altro di nuovo conio: «Lo sconfinamento della ragione ospita demoni». E' quello che oggi sta avvenendo sotto i nostri occhi, con la nostra più o meno consapevole partecipazione. Con l'inizio dell'era pandemica ha ripreso vita il culto della "dea Ragione". Il riferimento al Vaccino nelle varie forme salvifiche in cui si presenta agli uomini, appoggiato dall'autorità considerata indiscutibile della "scienza", ha ormai assunto i caratteri di un culto idolatrico, con i suoi dogmi, i suoi precetti, i suoi premi e i suoi castighi. E dietro agli idoli ci sono sempre i demoni.
Chi scrive nega autorità al tipo di scienza che oggi viene invocata a sostegno della politica dei governi per combattere il Covid. Non si disconosce ogni forma convenzionale di euristica autorità, al fine della prosecuzione delle indagini, ma si nega in modo deciso l'autorità che pretende di avere, o che ad essa viene data, sul bene e sul male, e dunque sulla realtà concreta della vita degli uomini. «La scienza moderna non è osservazione distaccata della realtà e sua rappresentazione concettuale. La scienza moderna è intervento sulla realtà, manipolazione», si trova scritto nell'articolo precedente su fede e scienza. Questo è indiscutibile, e chi lo nega è un ignorante colpevole di ignoranza. Studiare il movimento dei pianeti, come hanno fatto a suo tempo Copernico e Galilei, non è la stessa cosa che studiare il movimento dei virus nel corpo umano, come fanno oggi i virologi. Esaminare scientificamente un oggetto significa oggi manipolarlo secondo dati protocolli, e quindi alterarlo in modo più o meno esteso e in molti casi irreversibile. E l'essere umano, creato a immagine di Dio, non può essere oggetto di manipolazione forzata. Per nessuna ragione. M.C.

(Notizie su Israele, 4 agosto 2021)

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La preghiera sacerdotale (2)

Dalla Sacra Scrittura

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.

    PREDICAZIONE

Marcello Cicchese
ottobre 2017




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“Elogio dell’ebraismo. Le radici di una identità e il dialogo con il futuro”

Quali le radici della “strana” miscela di religione, ritualità, cultura, fede, speranza, arte, letteratura che fanno l’identità del popolo ebraico? Come ha fatto un popolo che sottolinea l’importanza di un’identità “biologica” a generare pensieri di tale universalità, di tale apertura a tutto l’umano? Ribadire la particolarità dell’identità ebraica o lasciarsi contaminare dalle culture dei popoli con cui gli ebrei sono da sempre venuti in contatto? Quanto del pensiero ebraico è comprensibile da un non ebreo? E quanto anche il non capire sia un capire.

di Raffaele Mantegazza

RAFFAELE MANTEGAZZA. Vive e lavora a Milano. Professore di Scienze umane e pedagogiche al Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano Bicocca. Saggista per FrancoAngeli, Castelvecchi, Dehoniane, Fefè. Tra le sue ricerche: la lettura pedagogica della Bibbia; indagini pedagogiche sui confini della vita, nascita, morte, suicidio; la pedagogia e la Shoah.
«Io sono un goy. Un goy è un “gentile”, ovvero una persona che non appartiene al popolo di Israele. Un non ebreo. Il che significa che mia madre non è ebrea, dal momento che l’appartenenza al popolo ebraico è matrilineare [..] Quello che è certo è che il mio immenso amore per l’ebraismo non nasce da riti famigliari né da appartenenze religiose né da pedagogie incontrate da bambino. L’ebraismo mi è venuto incontro prima di tutto con il volto dei libri di Primo Levi e di Elie Wiesel; l’ho incontrato, tenace e resistente, al fondo del progetto che lo voleva cancellare dalla faccia della Terra. Ho allora voluto iniziare un percorso di conoscenza, attraverso gli studi e le letture, due viaggi a Gerusalemme, l’apprendimento dell’ebraico biblico e soprattutto la frequentazione del TaNaK, la Bibbia ebraica […] Non posso dire quali emozioni contrastanti mi regala sempre l’ebraismo. […] Oggi mi è stato chiesto di scrivere un elogio dell’ebraismo.Ovviamente non si tratta di una storia, di una teologia o di una filosofia del pensiero ebraico (“non eran da ciò le proprie penne”), ma solamente di alcune riflessioni attorno a nuclei di pensiero che l’ebraismo ha incistato su di me, in particolare sulla mia sensibilità educativa e sulla mia passione pedagogica.»

(Corriere Nazionale, 22 aprile 2023)

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Israele, 75 anni di rinascita. Il saggio di Fiamma Nirenstein

di Laura Ciarti

In occasione del 75° anniversario della nascita dello Stato di Israele, Formiche.net pubblica un saggio di Fiamma Nirenstein, diviso in due parti.
La prima, scritta per questo sito, racconta e analizza questi ultimi mesi turbolenti, segnati dalle proteste per la riforma giudiziaria e dagli scossoni governativi.
La seconda, apparsa nell’antologia “75 volti dello Stato Ebraico”, ripercorre questi 75 anni, le contrapposizioni politiche che sono anima e linfa del popolo ebraico, il valore del sionismo, la forza di un Paese che – in barba alla minaccia esistenziale con cui vive ogni giorno – guarda avanti e corre verso il futuro.
Il volume è stato pubblicato a cura del Jewish People Policy Institute e contiene 75 saggi, un progetto curato dai proff. Aharon Barak, Jehuda Reinharz, Yedidia Stern e ha tra gli autori Brett Stephens, Michael Waltzer, Howard Kohr, Fania Oz Saltzberg, Donniel Hartman.

(Formiche.net, 22 aprile 2023)

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Il vento di morte che s'abbatté su Parigi in quei due giorni di luglio del 1942

C'è  un romanzo di Romain Slocombe, inedito in Italia, che racconta quella pagina buia: in due giorni, poliziotti e gendarmi francesi rastrellarono oltre tredicimila ebrei rifugiati a Parigi. Non ebbero bisogno dell'aiuto di nessun soldato tedesco.

di Giampiero Mughini 

16 e 17 luglio 1942 a Parigi, i due giorni in cui novemila tra poliziotti e gendarmi francesi – l’equivalente di una piccola divisione di un esercito in guerra – si misero alla caccia dei tantissimi ebrei di origine straniera che si erano rifugiati nella capitale francese, e ne rastrellarono oltre tredicimila ivi compresi quattromila men che sedicenni. Gli arresti dovevano procedere il più rapidamente possibile, senza parole e commenti “inutili”. E quanto ai cani che s’erano trovati benissimo in quelle famiglie, i poliziotti li affidarono al portiere di ciascun isolato, ne facesse quello che voleva. Nel portare a termine questa impresa, la più raccapricciante della moderna storia francese, non ebbero bisogno dell’aiuto di un solo soldato tedesco. Quello che nella storia dell’olocausto passa dopo Adolf Eichmann come il numero due nella scala dei boia, il ventinovenne capitano delle SS Theodor Dannecker (catturato dagli americani, si sarebbe suicidato il 10 dicembre 1945), aveva sì concepito lui il tutto ma al dunque non ebbe bisogno di muovere un dito. Ci pensiamo noi, avevano detto in buona sostanza i francesi agli occupanti nazi che esigevano la cattura di almeno ventiduemila ebrei. A questa operazione i tedeschi diedero la denominazione “Vento di primavera”, laddove era un vento che sapeva esclusivamente di morte.
  Il nome dello scrittore francese Romain Slocombe (nato a Parigi nel 1953) è relativamente poco noto in Italia, dove sono stati tradotti solo tre o quattro dei suoi trenta e passa libri. Ho detto libri e invece sarebbe meglio dire opere, dato che Slocombe è un artista che ha molte frecce al suo arco: romanziere, illustratore, fotografo, persino regista cinematografico. Per merito dei due bricconi che nei primi Novanta avevano messo in piedi a Bologna un allettante covo librario (“Mondo Bizzarro”) particolarmente dedito a tutta la gamma dell’erotica, mi ero imbattuto in Slocombe già ai suoi debutti. A cominciare dal City of the Broken Dolls del 1997, il libro in cui Slocombe fotografa delle giapponesine bendate e malconce a renderle eroticamente avvincenti. Era il tempo in cui fingevo di fare il giornalista e difatti andai a intervistare Slocombe nel suo studio parigino non lontano dalla Gare Montparnasse, uno studio che mi sembrò come avvolto nella cultura di un Giappone in cui Slocombe aveva vissuto a lungo. Erano gli anni in cui lui stava cavalcando alla grande la maniera del romanzo poliziesco (in francese “polar”) stile Série Noire, e ne venne fuori la formidabile quadrilogia di romanzi ambientati in Giappone denominata “La Crucifixion en jaune” di cui purtroppo non ho letto l’ultimo, pubblicato nel 2006. E questo perché lo avevo un po’ perso di vista Slocombe, finché a furia di frugare alla ricerca di libri non ho avvistato un’altra sua allettante serie romanzesca, quella cui funge da baricentro il personaggio dell’ispettore di polizia Léon Sadorski. Uno che nella Parigi occupata dai nazi ci si mette di buzzo buono nell’andare a caccia di ebrei, e non perché sia costituzionalmente antisemita e bensì perché è quello che gli dicono di fare i suoi superiori. Ho letto il primo volume della saga, L’Affaire Léon Sadorski del 2016 (meritoriamente tradotto in Italia da Fazi), ma ho capito che quello che faceva al caso mio era il secondo volume della saga, L’Étoile jaune de l’inspecteur Léon Sadorski edito nel 2017 (purtroppo non ancora tradotto in Italia), un romanzo che fin dalla prima pagina ti fa capire che il suo apice narrativo saranno le due dannatissime giornate del luglio 1942. Quello di Slocombe è un romanzo, ma tutto vi è particolarmente reale, tanto i luoghi e le circostanze dell’azione narrata quanto i nomi dei personaggi, corrispondenti a quelli di gente che si trovò esattamente in quelle situazioni. Sonia Guttman, la studentessa di lettere che in una scena del libro ha di fronte il poliziotto Sadorski cui ribatte colpo su colpo, porta il nome di una studentessa ebrea morta ad Auschwitz-Birkenau.
  Al fine di raccontare al meglio la “rafle” del luglio 1942 Slocombe ha perlustrato a fondo documenti, testimonianze, libri sull’argomento. I novemila uomini di cui avevamo detto s’erano ben armati per portare la guerra contro donne, vecchi, bambini. I francesi ci tenevano a fare bella figura, a dimostrarsi affidabili. O forse pensavano che se lo avessero giostrato loro il “vento di primavera”, ne sarebbe stato risparmiato quel centinaio di migliaia e passa di ebrei francesi che vivevano a Parigi? Quando si incontrarono nei giorni immediatamente adiacenti all’azione criminale, che cosa si dissero esattamente Dannecker e il trentatreenne capo della polizia francese, quel René Bousquet che era un vanto dell’apparato statale francese e al quale François Mitterrand – uno che lo sapeva al dettaglio com’erano andate le cose durante “l’occupazione” nazi – mantenne una sua speciale amicizia fino all’ultimo. Fino a quel 1991 in cui Bousquet venne incriminato in Francia per il suo concorso alla “rafle”, solo che l’8 giugno 1993 uno squilibrato bussò alla sua porta e lo uccise come un cane. Nel luglio 1942 Bousquet aveva offerto ai nazi il destino degli ebrei di origine straniera pur di salvare gli ebrei francesi? E’ una domanda straziante al solo formularla, ma che cosa avrebbe potuto fare di meglio un funzionario francese che aveva di fronte dei nazi ai quali bastava uno schiocco di dita per sbranare la Francia reale?
  E comunque il dettagliatissimo racconto di Slocombe è raggelante. Non credo si inventi nulla quando scrive di una donna ebrea scaraventatasi giù dal quinto piano dopo aver buttato le sue due figliolette, o di un vecchio ebreo che non era in casa quando gli portarono via l’intera famiglia e che si uccide buttandosi sotto le ruote di un’auto. Tutte cose possibilissime nei due giorni parigini del luglio 1942

Il Foglio, 22 aprile 2023)

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Gerusalemme, folla festeggia la fine del Ramadan

Migliaia di palestinesi si sono riuniti venerdì presto nel complesso di Al Aqsa, nella Città Vecchia di Gerusalemme, per le preghiere di Eid al-Fitr, che segnano la fine del mese sacro del Ramadan. I fedeli hanno pregato presso il santuario della Cupola della Roccia e le famiglie si sono riunite per festeggiare e assistere a spettacoli di intrattenimento. Dopo le preghiere, centinaia di manifestanti hanno scandito slogan a sostegno del gruppo militante islamico Hamas, che controlla la Striscia di Gaza. La fine del Ramadan arriva dopo settimane di tensioni a Gerusalemme e in Cisgiordania.

(LaPresse, 21\ aprile 2023)

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“Revocate loro il mandato”: appello all’ONU delle Associazioni Italia-Israele

di Nathan Greppi

Non si placano le polemiche causate dalle posizioni sulla questione israelo-palestinese di rappresentanti dell’ONU: la Relatrice Speciale alle Nazioni Unite Francesca Albanese, proprio nel giorno di Yom HaShoah, ha recentemente ripresentato all’Università Ca’ Foscari di Venezia il suo Rapporto 2022 sui Diritti Umani in Palestina, in cui accusava Israele di pulizia etnica e apartheid. Sull’accaduto uscì un comunicato di condanna del presidente della Comunità Ebraica di Milano Walker Meghnagi.
  Di recente, anche tre membri della Commissione internazionale d’inchiesta sui Territori palestinesi, Navy Pillay Chris Sidoti e Miloon Kothari sono stati protagonisti di scandali forse ancora più gravi. Sulla questione anche la Federazione delle Associazioni Italia-Israele, in un comunicato del 20 aprile, chiede espressamente al Segretario generale ONU António Guterres e all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Volker Türk di licenziare queste figure.

• I tre della Commissione d’inchiesta
  Il testo della Federazione è firmato dal presidente Bruno Gazzo e dalla consigliera Cristina Franco, ai quali si aggiunge anche Lisa Palmieri-Billig, rappresentante in Italia dell’AJC (American Jewish Committee). I firmatari si dichiarano “profondamente preoccupati per le posizioni e le dichiarazioni assunte e rilasciate da alcuni titolari di Alto Mandato delle Nazioni Unite, che non rispettano nemmeno in parte le regole fondamentali di neutralità, obiettività, indipendenza e integrità personale richieste a chi è impegnato ad alti livelli nelle responsabilità dell’ONU”.
  Entrando nel merito di ciò che hanno fatto i tre, questi sono i fatti: “La signora Pillay, a capo del COI, è arrivata a chiedere che a Israele venga impedito di utilizzare l’Iron Dome per proteggere la popolazione dal lancio di razzi. […] Miloon Khotari ha più volte dichiarato che i social media sono nelle mani di “lobby ebraiche” e ha messo in dubbio il diritto stesso di Israele di essere uno Stato membro delle Nazioni Unite. […] Chris Sidoti si riferisce sempre agli attacchi terroristici che colpiscono gli israeliani come “resistenza”. Non identifica mai le uccisioni di cittadini israeliani innocenti come attacchi terroristici. Nessuno di questi funzionari delle Nazioni Unite parla mai delle aggressioni di Hamas o dell’oppressione di Hamas sulla popolazione palestinese. La loro retorica sottolinea solo la parzialità nei confronti di Israele e non può che provocare odio e ulteriore violenza”.

• Francesca Albanese
  Come il presidente della CEM Meghnagi, i firmatari hanno rivolto il loro sdegno anche verso l’operato della Albanese. “Nel 2014 ha descritto gli Stati Uniti e l’Europa come “dominati dalla lobby ebraica”, un’antica ma sempre oscena accusa antisemita. La sua retorica sulla lobby israeliana motivata dall'”avidità” è palese. Ha persino paragonato gli israeliani ai nazisti e parla regolarmente di Israele come di un’occupazione militare, ma anche di un’impresa coloniale in cui gli ebrei sono “intrusi stranieri che sottomettono una popolazione palestinese autoctona”. Ancora, pochi giorni fa, in occasione dell’uccisione terroristica di due giovani sorelle israeliane e della loro madre, ha twittato che “Israele ha il diritto di difendersi, ma non può rivendicarlo quando si tratta delle persone che opprime, le cui terre colonizza”. Tali affermazioni possono facilmente portare ad autorizzare e legittimare nuovi attacchi terroristici contro i civili israeliani considerati come presunti “oppressori”. Non esprime alcuna pietà per le povere vittime”.
  Viene anche fatto notare come, quando l’avvocato italiano Alessandro Parini è stato ucciso a Tel Aviv da un terrorista palestinese, “Francesca Albanese si è limitata a postare sui social media il proprio cordoglio, ma non ha speso una parola sulle cause o sulle responsabilità dell’omicidio”.
  Per tutte queste ragioni, concludono i firmatari del comunicato, i “suddetti rappresentanti delle Nazioni Unite devono essere tutti chiamati a dimettersi o a essere licenziati. Nelle istituzioni dell’ONU non ci deve essere spazio per pregiudizi o propaganda antisemita e non ci deve essere spazio per nomine macchiate o per titolari di mandati scandalosi. È in gioco la credibilità stessa dell’ONU insieme ai valori della democrazia, della coesistenza in pace e della forza del diritto internazionale”.

(Bet Magazine Mosaico, 21 aprile 2023)

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Studio israeliano: coltivati pomodori che resistono alla siccità

di Jacqueline Sermoneta

Non teme la siccità estrema. È una nuova varietà di pomodori prodotta da un gruppo di ricerca della Hebrew University (HU) di Gerusalemme. Attraverso un’approfondita analisi genetica, gli studiosi sono riusciti ad aumentare la produzione e la resistenza delle piante anche in condizioni di scarsità d’acqua.
  Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), organo ufficiale dell'Accademia delle Scienze degli Stati Uniti.
  Come riporta il Jpost, la ricerca è stata condotta dal Dr. Shai Torgeman e dal Prof. Dani Zamir della Facoltà di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente della HU e rientra nell’ambito della cooperazione scientifica con l’Unione Europea nel programma Horizon 2020.
  I ricercatori hanno incrociato due diverse specie di pomodoro: il ‘solanum pennellii’ una varietà selvatica a frutto verde proveniente dai deserti del Perù occidentale e il pomodoro comune coltivato ‘solanum lycopersicum’.
  Per oltre quattro anni sono state condotte accurate analisi su 1.400 piante e il sequenziamento del DNA. I risultati della ricerca hanno mostrato che l’interazione di due aree dei genomi sui cromosomi delle piante ha determinato un aumento della produzione del 20-50% in condizioni di normale o di scarsa irrigazione.
  Secondo i ricercatori, i risultati dimostrano l’efficacia dell’utilizzo di specie selvatiche per migliorare la resa agricola in risposta al riscaldamento globale. Ciò potrebbe essere applicabile anche su altre coltivazioni. Infatti, i pomodori non sono l’unica coltura a rischio: aglio, cipolle e molti altri frutti e ortaggi hanno sofferto delle pessime condizioni climatiche in questi ultimi anni, portando al rapido aumento dei prezzi dei prodotti in tutto il mondo.
  Lo scopo della ricerca è quello di coltivare questa nuova varietà di pomodoro per inserirla sul mercato alimentare nei prossimi due o tre anni.

(Shalom, 21 aprile 2023)

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Esplorazione storica su Giove in collaborazione con Israele

di Michael Soncin

La storica missione programmata dall’Agenzia Spaziale Europea – ESA, che esplorerà il pianeta Giove e le sue lune, partita nel mese di aprile 2023, si avvale di diverse componenti della ricerca spaziale israeliana, oltre all’importantissimo contributo anche da parte dell’Italia.
  JUICE – sigla che sta per “Jupiter ICy moons Explorer” – dopo che avrà raggiunto l’orbita di Giove entro il 2031, per studiarne la composizione dell’atmosfera, effettuerà delle ricerche, per un periodo quadriennale sui 3 dei 4 satelliti del gigante gassoso, che furono scoperti dal grande astronomo italiano Galileo Galilei: Ganimede, Callisto, Europa.
  Gli studi che verranno effettuati riguarderanno da un punto di vista generale le misurazioni gravitazionali del pianeta e delle sue lune, oltre a conoscerne maggiormente l’atmosfera.
  I satelliti galileiani – incluso Io, non facente parte dell’indagine – sono i più grandi di Giove, che nel complesso, in base alle individuazioni attuali, conta un totale di 92 lune, numero che supera quelle di Saturno che ne ha 83.
  ISRAEL21c riporta che l’Agenziale Spaziale Israeliana – ISA e il Ministero dell’Innovazione, della Scienza e della Tecnologia hanno finanziato un apparecchio, un oscillatore ultrastabile (USO, ultra-stable oscillator) che permette al veicolo di eseguire una serie di esperimenti e comunicare con la Terra.
  È definito come l’oscillatore spaziale più preciso al mondo. L’apparecchio personalizzato all’Istituto Weizmann sotto la guida del Prof. Yohai Kaspi e del Dr. Eli Galanti è stato costruito dalla società israeliana AccuBeat, una delle cinque produttrici di orologi atomici al mondo.
  “Questo non è il nostro primo coinvolgimento in missioni spaziali internazionali, ma il fatto che si tratti di una creazione completamente israeliana lo rende molto speciale per noi”, ha detto Kaspi. “Quando mi sono avvicinato per la prima volta all’Agenzia spaziale israeliana con l’idea di costruire l’oscillatore, questo sembrava un compito impossibile, ma l’impegno dell’agenzia e la sinergia dell’industria e del mondo accademico lo hanno reso possibile.”
  Benny Levi, CEO di Accubeat, lo ha definito un “capolavoro tecnologico su scala globale”.
  Uri Oron, direttore dell’ISA ha detto che “AccuBeat è un esempio delle formidabili capacità ingegneristiche che si trovano in Israele. Senza dubbio, la ricerca condotta presso l’Istituto Weizmann costituirà una componente essenziale nel programma di ricerca della missione, che continuerà a far progredire la ricerca spaziale in Israele, posizionandola tra i leader mondiali del settore”.

(Bet Magazine Mosaico, 21 aprile 2023)

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Tel Aviv commemora Parini tra le vittime del terrorismo

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TEL AVIV - Il Comune di Tel Aviv, secondo quanto si apprende, ha deciso di inserire il nome di Alessandro Parini, il giovane italiano ucciso sul lungomare della città lo scorso 7 aprile, tra le vittime del terrorismo a cui è dedicato, insieme ai soldati caduti in guerra, il Giorno del Ricordo, commemorazione nazionale in programma lunedì prossimo.
  Per questo, nel pomeriggio di domenica 23, il nome di Parini - falciato in un attacco con l'auto lanciata sulla folla da un arabo israeliano - apparirà nella lista di oltre 750 nominativi iscritti nelle lastre di pietra del monumento al Parco HaBanim nel nord della città. L'ambasciatore italiano in Israele Sergio Barbanti interverrà alla cerimonia e deporrà, insieme al sindaco Ron Huldai, una corona di fiori accanto al cippo che ricorda il giovane avvocato italiano.

(GDB, 21 aprile 2023)

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Polonia e Israele raggiungono un (inquietante) accordo per i viaggi scolastici ad Aushwitz

Dopo un lungo periodo di stop, Polonia e Israele hanno raggiunto un accordo per la ripresa dei viaggi scolastici dedicati alla memoria della Shoah promuovendo una narrazione distorta dell’Olocausto…

di Valentina Chiara Baldon

Negli ultimi anni sono state moltissime le polemiche sulla memoria della Shoah in Polonia, nella maggior parte dei casi derivate da una narrazione faziosa da parte del Governo polacco. Tutto ciò ha portato Israele alla drastica decisione di annullare tutti i viaggi giovanili educativi nel Paese, anche a seguito dell’adozione di una legge che vieta di sostenere il coinvolgimento della popolazione polacca nell’Olocausto. Inoltre, la Polonia aveva richiesto che nelle gite scolastiche degli studenti israeliani fossero inclusi anche siti dedicati alla commemorazione delle vittime polacche delle persecuzioni tedesche e sovietiche.

• Il punto di rottura tra Polonia e Israele
  Da una parte abbiamo il desiderio del Governo polacco di controllare i programmi di studio sull’Olocausto dedicati a bambini e ragazzi israeliani in visita ad Auschwitz e in altri campi di concentramento nazisti, tentando di addolcire la realtà dei fatti e di minimizzare il coinvolgimento della nazione nello sterminio ebraico, dall’altro abbiamo una legge del 2021 che rende ancora più complicata la restituzione dei beni confiscati agli ebrei dai nazisti, incamerati poi dalla dittatura comunista. Tutto ciò ha inevitabilmente portato a una rottura tra i due paesi, con Israele che ha accusato la Polonia di infangare la memoria.

• L’inquietante accordo delle scorse settimane tra Israele e Polonia
  Nelle scorse settimane, la Polonia ha presentato a Israele una proposta per riprendere i tour commemorativi. I dettagli dell’inquietante accordo sono stati pubblicati dal quotidiano israeliano Haaretz e si tratta di un sogno che diventa realtà per tutti i negazionisti dell’Olocausto. L’accordo è stato firmato dal ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen e da quello polacco Zbigniew Rau e prevede la ripresa immediata dei viaggi studio, a patto che gli studenti visitino almeno un altro sito a scelta tra quelli presenti nella lista presentata dalla Polonia. L’accordo è ora in attesa di ratifica da parte della Knesset e del parlamento polacco.
  Tra i luoghi storici inclusi troviamo l’Ostrołeka Museum: nato per commemorare Józef Kuras, personaggio controverso accusato di antisemitismo e di crimini di guerra, che includono l’uccisione di diversi rappresentanti delle comunità ebraiche e slovacche in Polonia. Una beffa non indifferente, che ha indignato l’opinione pubblica israeliana rispetto all’accordo tra i due stati.

• Varsavia difende l’accordo
  Il vice-ministro della Cultura polacco, Jarosław Sellin, sostiene che il raggiungimento di tale accordo era necessario poiché finora la Polonia è stata presentata solo come un “enorme cimitero ebraico a cielo aperto” a tutti gli studenti israeliani. Inoltre. il fatto che i gruppi di studenti venissero scortati da forze di sicurezza israeliane armate non è mai andato giù alla Polonia. Sempre secondo le dichiarazioni di Sellin, questo ha favorito l’isolamento e la rottura dei rapporti, diffondendo “la paura infondata di un paese ospitante presumibilmente pericoloso”.

• L’opinione di Israele e del ministro dell’Istruzione
  Secondo l’opinione pubblica israeliana, l’accordo è oltraggioso e difende la propaganda polacca di negazione, o almeno di ammorbidimento, dell’Olocausto. Tuttavia, il ministro dell’Istruzione israeliano ha affermato che: “la crisi è stata creata dal precedente governo e che era necessario concordare una soluzione dedicata alla ripresa dei viaggi studio”. Inoltre, aggiunge che il governo polacco ha richiesto da aggiungere dei siti all’elenco, ma “non esiste alcun obbligo per gli studenti di visitarli“.

(East Journal, 21 aprile 2023)

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Las Vegas: incisa una svastica sulla schiena di uno studente ebreo autistico


L’FBI ha avviato un’indagine per determinare chi ha inciso una svastica sulla schiena di uno studente ebreo autistico di 17 anni di Las Vegas, ha confermato martedì l’ufficio del Nevada dell’Anti-Defamation League (ADL).
  Il giovane, che ha una forma non verbale di autismo, è tornato a casa da scuola il 9 marzo con il simbolo sulla schiena, ha detto mercoledì sua madre a Jewish Press, e una borsa dell’attrezzatura indossata dal suo cane di servizio era a brandelli.
  Poiché la scuola, amministrata dal distretto scolastico della contea di Clark, non ha mai installato telecamere di sorveglianza nei suoi locali, ci sono poche informazioni su quando e dove si è verificato l’incidente.
  Da allora la madre ha tenuto il figlio a casa da scuola. Il programma School Watch dell’Israel-American Council (IAC), che promuove scuole sicure per i bambini ebrei, è responsabile di portare questo caso all’attenzione dell’FBI.
  “Questo Consiglio israelo-americano è rimasto sconvolto nell’apprendere che un adolescente ebreo potrebbe essere stato preso di mira in un attacco antisemita così disumano”, ha dichiarato Shoham Nicolet, co-fondatore e CEO di IAC, in una dichiarazione condivisa con The Algemeiner. “Esortiamo le autorità a indagare a fondo su questo incidente e chiunque nella comunità abbia ulteriori informazioni a segnalarlo all’FBI e allo School Watch dell’IAC”.
  L’ufficio del Nevada dell’Anti-Defamation League (ADL) martedì ha condannato l’incidente e ha annunciato che sta collaborando con la scuola del giovane per istituire corsi educativi sull’antisemitismo.
  “Non solo questo studente è stato preso di mira per la sua fede identificabile, ma era particolarmente vulnerabile a causa della sua disabilità”, ha detto Jolie Brislin, direttore regionale dell’ADL Nevada. “Questo incidente illustra i punti di intersezionalità nel modo in cui l’odio può manifestarsi nelle comunità emarginate”.
  A marzo, un audit dell’ADL sugli incidenti antisemiti negli Stati Uniti ha rilevato che 494 si sono verificati nei campus K-12, con un aumento del 49% rispetto all’anno precedente. Il totale comprendeva 257 episodi di molestie, 232 vandalismi e cinque aggressioni.

(Bet Magazine Mosaico, 21 aprile 2023)

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Israele: una start up ha il via libera per iniziare a produrre il “latte coltivato”

Remilk, una start up con sede in Israele, ha ricevuto il via libera dal governo israeliano per produrre latte coltivato.

di Luca Venturino

C’è chi ruggisce accampando scuse e chi sperimenta e innova. Una start up con sede a Israele e attiva nel settore della tecnologia alimentare riceverà nei prossimi giorni il via libera per produrre “latte coltivato”, stando a quanto recentemente annunciato dal primo ministro Benjamin Netanyahu. Remilk – questo il nome dell’azienda – aveva per di più già ottenuto, verso l’inizio dell’anno, l’approvazione normativa per vendere i suoi prodotti in quel di Singapore – un angolo di mondo che continua a configurarsi come avanguardia del cibo coltivato -; mentre la Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti ne ha già riconosciuto la sicurezza per il consumo alimentare aprendo la porta anche al mercato statunitense.

• Latte coltivato a Israele
  Fondata nel 2019, Remilk produce proteine del latte attraverso un processo di fermentazione a base di lievito che le rende “chimicamente identiche” a quelle presenti nel latte e nei latticini di mucca. Il risultato? Un prodotto privo di lattosio, colesterolo, ormoni della crescita e antibiotici. Le proteine del latte vengono ricreate prendendo i geni che le codificano e inserendole in un microbo unicellulare manipolato geneticamente affinché produca la proteina, mentre il prodotto viene poi essiccato in polvere.
  Gettarsi nella critica alla miopia che invece spadroneggia dalle nostre parti è una grossa tentazione, ma almeno possiamo consolarci pensando alla coerenza della linea d’azione governativa. Cibo coltivato? No, meglio nascondersi dietro la comoda scusa del “potenzialmente nocivo per la salute” ignorando, naturalmente, i pareri di OMS e FAO che raccontano di tutt’altro. Meglio puntare sulle vere eccellenze italiane come i polli deformi.
  Ma torniamo a noi – latte coltivato, proteine alternative, Israele. “Oggi abbiamo mangiato pesce prodotto senza pesce e carne prodotta senza bestiame. Questa è una rivoluzione globale”, ha affermato Netanyahu. “Israele è un leader globale nel campo delle proteine alternative, e faremo in modo di mantenere questa posizione”.
  Israele vanta il secondo posto complessivo – dietro gli Stati Uniti – nella classifica degli investimenti in proteine alternative nel 2022, con startup locali operative nel settore che hanno potuto raccogliere circa 454 milioni di dollari di capitale secondo un rapporto del Good Food Institute (GFI) Israel. Nello stesso anno – il 2022, per l’appunto – il governo israeliano ha riconosciuto ufficialmente la tecnologia alimentare tra le prime cinque nuove priorità nazionali per quanto riguarda gli investimenti dei prossimi cinque anni.
  All’inizio di quest’anno, l’Autorità israeliana per l’innovazione ha annunciato un piano con un budget fino a 50 milioni di NIS (13,7 milioni di dollari) per costruire un centro di ricerca e sviluppo per una tecnologia di fermentazione all’avanguardia di microrganismi, come lieviti o funghi, per produrre proteine alternative e sostenere il Paese come pioniere e avanguardia del settore. Teniamoci stretti i nostri polli deformi e specchiamoci nella brillantezza del liceo del Made in Italy, nel frattempo.

(dissapore, 21 aprile 2023)

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L'ultima provocazione della NATO

di Massimo Mazzucco

Quella che segue è una lista di eventi storici (*) che ripercorre tutti i passaggi più importanti che riguardano la possibile entrata nella NATO dell’Ucraina, dal 2014 ad oggi. Entrata che i russi hanno sempre detto di non poter tollerare, per motivi che non è nemmeno necessario spiegare.

2014 – Non appena diventato primo ministro (dopo il colpo di stato di Maidan), Arseniy Yatsenyuk viene ricevuto alla Casa Bianca, e si premura di far sapere al mondo da che parte starà la nuova Ucraina: “Probabilmente nei prossimi 7-10 giorni l'Ucraina firmerà la parte politica dell'accordo di associazione con l'Unione Europea. E vogliamo dire molto chiaramente che l'Ucraina è e sarà parte del mondo occidentale”.

Dopo di che Yatsenjuk invita la NATO a venirlo a trovare a Kiev, e chiede apertamente aiuti e armamenti per supportare il nuovo governo: “Ho esteso un invito al Consiglio Nord-Atlantico per visitare Kiev, e sarà splendido se ci incontreremo a Kiev. Noi crediamo che sia necessario aumentare la nostra cooperazione, e sarebbe bello se potessimo avere qualche forma di aiuto addizionale, supporto tecnico, supporto umanitario, per migliorare il sistema di difesa ucraino, a livello tecnico. Questo ci aiuterebbe a stabilizzare la situazione e a mantenere pace e stabilità nella regione.”

Il 29 agosto 2014 Yatsenyuk annuncia che l’Ucraina chiederà ufficialmente di entrare nella NATO.

Il 21 novembre 2014 la coalizione di governo ucraina annuncia che la NATO è la loro priorità.

Il 23 dicembre 2014, il parlamento di Kiev mette fine allo stato di non-allineamento dell’Ucraina, condizione necessaria per iniziare il processo di ammissione alla NATO.

Nel marzo 2015, il presidente Poroshenko approva un piano di esercitazioni militari multilaterali con la NATO. Fra queste, l’operazione “Guardiano Impavido”, con duemiladuecento soldati di cui 1000 americani, l’operazione “Brezza di mare”, con mille militari americani e 500 della NATO, e l’operazione “Tridente rapido”, con 500 militari americani e 600 della NATO. L’11 di aprile 2015 arriva in Ucraina il primo convoglio militare della NATO, per l’operazione “Guardiano Impavido”, partito da Vicenza.

Nell’aprile 2016 Joe Biden (allora vice di Obama) promette a Poroshenko 335 milioni di dollari in aiuti “per la sicurezza”. Questi andranno ad aggiungersi ad un terzo prestito da un miliardo di dollari.

Nel giugno 2017 la Rada, il parlamento di Kiev, vota una legge che ristabilisce l’ingresso nella NATO come priorità per la politica estera ucraina. La legge è firmata dal presidente della Camera Andrij Parubij, che è stato il cofondatore del partito neonazista Svoboda. Parubij è stato indagato per la strage di Odessa, ed ha pubblicamente lodato Hitler in televisione, dicendo che è stata la più grande persona a praticare la democrazia diretta. Questo era il presidente del parlamento Ucraino sotto Poroshenko.

Nel luglio 2017 Poroshenko incontra il segretario della nato Stoltemberg e chiede ufficialmente che venga iniziato il percorso di ammissione alla NATO.

Nel settembre 2018 Poroshenko chiede al parlamento di emendare la costituzione, in modo da rendere più facile l’ingresso dell’Ucraina nella NATO.

Il 7 Febbraio 2019 il parlamento approva i cambiamenti richiesti alla costituzione e conferma il percorso dell’Ucraina verso l’Unione Europea e la NATO, con un totale di 334 voti a favore su 385.

Il 21 febbraio 2019 entra ufficialmente in vigore in Ucraina la modifica della Costituzione che prevede l’ingresso nell’UE e nella NATO.

Nel maggio 2019 Zelensky vince le elezioni e prende il posto di Poroshenko. Appena eletto, Zelensky vola a Bruxelles e incontra Stoltemberg, segretario della NATO.

Nel giugno 2020, la NATO concede all’Ucraina lo status di “partner con accresciute opportunità”.

Nel settembre 2020, il presidente Zelensky approva la nuova strategia di sicurezza nazionale, che prevede lo sviluppo della speciale partnership con la NATO, allo scopo di diventarne membro.

Il 24 marzo 2021 Zelensky firma un decreto presidenziale per “attuare la decisione del consiglio di sicurezza e difesa nazionale dell’Ucraina, sulla strategia di disoccupazione e reintegrazione del territorio temporaneamente occupato della repubblica autonoma di Crimea e della città di Sebastopoli.” “Strategia di disoccupazione e reintegrazione del territorio” significa riprendersi militarmente la Crimea e Sebastopoli.

Nel maggio 2021, il senatore americano Chris Murphy visita Kiev e incontra Zelensky. Dopodichè annuncia che “aprire all’Ucraina il percorso di adesione sarà il prossimo passo logico verso l’ingresso nella NATO”.

Un mese dopo, al summit di Bruxelles, i leader della NATO riconfermano la decisione presa nel 2008 al summit di Bucharest: l’Ucraina diventerà un membro dell’alleanza, con il Piano di Adesione che farà parte integrante della procedura.

Il 28 giugno 2021 l’Ucraina e la NATO lanciano una esercitazione militare congiunta nel Mar Nero.

Il 28 novembre 2021 Mosca chiede garanzie legali che l’Ucraina non entrerà mai nella NATO. Queste garanzie non le vengono date.

Il 30 novembre 2021 Putin dichiara ufficialmente quale sia la linea rossa dei russi sull’Ucraina: “Qualunque ulteriore posizionamento di forze o di materiali NATO in Ucraina rappresenterebbe la linea rossa per il suo paese.” Putin ha sottolineato soprattutto le sue preoccupazioni per il potenziale arrivo di missili ipersonici a lunga gittata, che potrebbero colpire Mosca in 5 minuti. “Spero che non arriveremo a questo – ha detto Putin – e che il buon senso e la responsabilità verso i propri paesi e verso la comunità globale alla fine prevalgano”.

Il primo dicembre 2021, Putin chiede ufficialmente garanzie che la NATO non si espanderà verso Est. Ma gli stati Uniti rispondono che “per l’Ucraina le porte sono sempre aperte”.

Il 23 dicembre 2021, in conferenza stampa, Putin torna a ripetere che per loro un’ulteriore espansione della NATO verso est è inaccettabile, e torna per l’ennesima volta a spiegarne i motivi: “Abbiamo detto chiaramente che ogni ulteriore movimento della NATO verso est è inaccettabile. Non c'è niente di poco chiaro al riguardo. Noi non stiamo mettendo i nostri missili ai confini degli Stati Uniti. Mentre gli Stati Uniti stanno piazzando i loro missili vicino a casa nostra, davanti al cortile di casa. Quindi, stiamo forse chiedendo troppo? Gli stiamo semplicemente chiedendo di non piazzare i loro sistemi di attacco a casa nostra. Cosa c'è di così strano in questo?”

Il 31 gennaio 2022, alle nazioni Unite, l’ambasciatore russo accusa pubblicamente gli Stati Uniti di fomentare le tensioni e di provocarli verso la guerra, come se quello fosse davvero il loro desiderio nascosto: “I nostri colleghi [americani] dicono che bisogna ridurre le tensioni. Ma sono loro i primi ad aumentare le tensioni e alzare i toni, e stanno provocando una escalation. Parlare di una minaccia di guerra è una provocazione in sè stessa. Sembra quasi che voi la stiate cercando. E come se voleste che succedesse, lo state aspettando. E come se voi voleste che le vostre parole si avverassero.”

L’8 febbraio 2022 Putin lancia un ultimo avviso tramite i media occidentali: “Lo voglio sottolineare ancora una volta. Lo vado dicendo da tempo, ma voglio davvero che finalmente mi ascoltiate, e lo comunichiate al vostro pubblico su stampa, tv e internet. Vi rendete conto che se l'Ucraina entra nella NATO e cerca di riprendersi la Crimea per via militare, i paesi europei si troveranno automaticamente coinvolti in un conflitto militare con la Russia? Non ci saranno vincitori. Vi ritroverete coinvolti in questa guerra contro la vostra volontà.”

Subito dopo la Russia fa un’ultima richiesta ufficiale agli Stati Uniti, di mettere per iscritto che l’Ucraina non entrerà a far parte della NATO, e che non ospiterà armi balistiche della NATO. Da Washington, Blinken risponde picche: “Dal nostro punto di vista non posso essere più chiaro. La porta della NATO è aperta, rimane aperta, e questo è il nostro impegno”.

24 febbraio 2022: rimasto senza opzioni, Putin è costretto ad invadere l’Ucraina.

E oggi, dopo oltre un anno di guerra, il segretario della Nato Stoltemberg non trova nulla di meglio da fare che andare a Kiev e dire a Zelensky che “Il posto dell'Ucraina è nella Nato. E nel tempo, il nostro sostegno contribuirà a renderlo possibile".

Qui non è più il caso di dire “c’è un aggressore e c’è un aggredito”, come ripete Mentana da oltre un anno, ma “c’è un provocatore e c’è un provocato”. Il provocatore sono gli USA, il provocato è Putin. Quindi, di chi è la colpa di tutto quello che succede in Ucraina?
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* Tutti gli eventi storici citati sono documentati nel video "Ucraina l'altra verità"

(Luogo Comune, 20 aprile 2023)

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Le startup israeliane del settore healthtech hanno raccolto $2,8 miliardi di dollari nel 2022

Pur non essendo immune dal contesto macroeconomico generale, l’healthtech si è dimostrato più resistente nel 2022, con un calo dei capitali raccolti nel settore di appena il 13% rispetto ad altri settori high-tech che hanno registrato un calo collettivo del 43%.
  Secondo un nuovo rapporto pubblicato da aMoon, società israeliana di venture capital nel settore delle scienze della vita, e dalla società di ricerca IVC Data and Insights, il numero di aziende del settore healthtech in Israele è aumentato di oltre il 30% dal 2015, fino a raggiungere 1.810 aziende nel 2022, mentre gli investimenti in questo settore sono cresciuti dell’80% negli ultimi cinque anni, raggiungendo i 2,8 miliardi di dollari lo scorso anno. Secondo il rapporto, il 2022 è stato il secondo anno più alto in termini di capitali raccolti, superando il totale dei finanziamenti del 2020. L’aumento della dimensione media delle transazioni nell’healthtech è stato un fattore di crescita fondamentale per il settore. La dimensione media delle transazioni è più che raddoppiata, passando da 6,2 milioni di dollari nel 2018 a 13 milioni di dollari nel 2022.
  Il numero di aziende del settore healthtech in Israele continua ad aumentare di anno in anno, ma il tasso di crescita ha iniziato a diminuire negli ultimi anni. Nel 2022 sono state fondate 61 nuove aziende rispetto alle 118 del 2021. Questa tendenza alla diminuzione delle nuove imprese, sebbene in linea con le tendenze di altri settori high-tech, è stata determinata anche dal recente andamento degli investimenti.
  Nel complesso, l’healthtech rappresenta il 20% delle aziende high-tech in Israele e impiega oltre 63.000 persone nel 2022. Tuttavia, l’healthtech non è immune dal contesto macroeconomico generale, anche se ha dimostrato una maggiore resilienza in termini di finanziamenti rispetto ad altri settori in Israele. Nel 2022, i capitali raccolti nell’healthtech sono diminuiti solo del 13% rispetto ad altri settori high-tech che hanno registrato un calo collettivo del 43%.
  La crescita dell’healthtech è stata in gran parte trainata dalla salute digitale e dalle biotecnologie. Dal 2015, in Israele si è registrato un aumento significativo del numero di aziende operanti nel settore della salute digitale e delle biotecnologie, con un’impennata del 95% per le aziende di salute digitale e del 34% per le aziende di biotecnologie. Oltre all’aumento del numero di aziende, anche i capitali raccolti nel settore della salute digitale e delle biotecnologie sono cresciuti in modo significativo. Nel 2022, i due sottosettori hanno raccolto complessivamente oltre 2 miliardi di dollari, costituendo il 78% del capitale totale raccolto dalle aziende del settore healthtech in Israele e contribuendo a otto dei 10 principali round di finanziamento israeliani nel settore healthtech.

(israele360°, 18 aprile 2023)

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A Riad incontro tra Abu Mazen e Mohammed Bin Salman

L’Arabia Saudita vuole riprendere la centralità regionale che ha perso, sia nei confronti degli Emirati Arabi che del Qatar, il maggiore finanziatore di Hamas, gruppo finanziato anche dall’Iran. Un duro colpo per il governo di Benjamin Netanyahu, fautore degli Accordi di Abramo.

di Nello del Gatto

Sta diventando sempre più Riad il centro nevralgico e diplomatico della stabilizzazione in Medioriente. Dopo le aperture saudite a Iran e Siria, nei giorni scorsi Mohammed Bin Salman (MBS), il principe ereditario saudita ma di fatto il reggente dello stato arabo, ha incontrato il Presidente dell’autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a Riad. Ma nello stato arabo, sono presenti anche i vertici di Hamas, il gruppo ritenuto terroristico da diversi governi al mondo e che governa Gaza, il quale da anni non ha rapporti sia con i sauditi che con Ramallah.
  Mahmoud Abbas e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, hanno discusso, si legge in note diplomatiche, degli ultimi sviluppi nei Territori palestinesi, delle relazioni bilaterali, dei piani di diversificazione economica dell'Arabia Saudita e del conflitto con Israele. Mentre i due erano all’incontro, sia sui media che sui social media arabi sono stati pubblicati video che mostrano la leadership di Hamas mentre compie un pellegrinaggio alla Mecca. Non è chiaro se, come successo per Abu Mazen, MBS incontrerà anche i vertici di Hamas, con cui i rapporti da anni non sono idilliaci.
  L’ultima visita in Arabia Saudita di un leader di Hamas è stata nel 2015. Nell'agosto 2021, un tribunale saudita ha condannato 69 cittadini palestinesi e giordani al carcere per accuse di legami con il gruppo che governa Gaza. Questi poi sono stati liberati negli ultimi mesi, a cominciare dal leader di Hamas nel regno saudita Mohammad al-Khudary. Lo scorso settembre, il leader di Hamas, Ismail Haniyeh ha affermato che il suo movimento stava cercando di ricucire le relazioni con l'Arabia Saudita, ma che terze parti indefinite stavano cercando di impedire che ciò accadesse. Haniyeh ha aggiunto che Hamas ha lavorato per ripristinare i legami con l'Arabia Saudita e la Giordania dopo che il gruppo ha ristabilito i rapporti diplomatici con il governo siriano.
  Hamas, con i suoi stretti rapporti con l'Iran e i suoi legami con la Fratellanza Musulmana, ha avuto scarsi rapporti con l'Arabia Saudita negli ultimi dieci anni. Tuttavia, un recente riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran, e uno sforzo generale di Riad per ricucire i legami con i suoi rivali regionali, ha aperto la porta a un nuovo capitolo con Hamas.
  La notizia della visita di Abu Mazen ma, soprattutto, l’eventuale incontro e ripresa dei rapporti con Hamas, gruppo foraggiato da Teheran, rappresentano certamente un duro colpo per il governo di Benjamin Netanyahu. Quest’ultimo, fautore degli accordi di Abramo del 2020, con i quali ha stretto rapporti con Emirati Arabi e Bahrein nell’area, ha sempre puntato sull’allargamento delle relazioni ad altri paesi arabi. L’Arabia Saudita, convitato di pietra in questi consessi, è il vero oggetto del desiderio di Netanyahu e sembrava che le cose andassero verso questa strada, con una fitta rete di relazioni sottobanco, apertura di spazi aerei e paventato inizio di un collegamento aereo tra Israele e l’Arabia in occasione del pellegrinaggio rituale o del mese di Ramadan. Cosa che, invece, è stata messa in stand by.
  L’apertura di Riad nei confronti di Teheran prima e di Damasco poi, nemici giurati di Israele, ha raffreddato le cose. Un incontro con Hamas renderebbe tutto ancora più difficile. Dopotutto Riad intende riprendere la centralità nell’area, che ha perso nei confronti sia di Emirati, dal punto di vista dello sviluppo e dell'economia, sia dal Qatar. Proprio contro questi mise in atto un boicottaggio durato anni. Doha da sempre ha rapporti con Teheran, anche perché condividono il giacimento di gas più grande al mondo. E Doha è anche il maggior finanziatore di Gaza, dove sostiene settimanalmente le famiglie dell’enclave strette nella morsa di Israele, Egitto e della stessa Autorità nazionale Palestinese. Nella capitale qatariota, inoltre, c’è una vera e propria ambasciata di Hamas dove trovano rifugio i suoi leader.
  Netanyahu, dal canto suo, continua ad ostentare sicurezza. Lo ha fatto poche ore fa in una intervista alla americana CNBC, nella quale ha affermato che le preoccupazioni saudite sul terrorismo avrebbero superato le remore per la linea dura del suo governo sui palestinesi, il ripristino dei legami dell'Arabia Saudita con l'Iran ha "molto poco" a che fare con Israele e riguarda principalmente l'allentamento delle tensioni nelle regioni, in particolare nello Yemen.
  Nell’intervista il premier ribalta totalmente la questione, spiegando che quelle mosse di riavvicinamento di Riad con Teheran e Damasco, hanno lo scopo di inviare loro un messaggio in vista di un possibile accordo di pace con Israele. "Forse per dire loro che dovranno prepararsi, forse per provare a dire loro di smettere di fare il tipo di terrore che fomentano", ha detto. Netanyahu ha ribadito la sua convinzione che la pace con l'Arabia Saudita porrebbe fine al più ampio conflitto arabo-israeliano, anche se ha ammesso che non risolverebbe immediatamente il conflitto con i palestinesi. Il Premier israeliano ha affermato inoltre che Riyadh fosse ben consapevole dei vantaggi della collaborazione con Israele. "Abbiamo fatto molto bene da soli, ma possiamo fare molto meglio insieme", ha dichiarato. E sulla mediazione cinese, il premier ha glissato, dicendo che non ha mai ricevuto alcuna proposta formale da Pechino, che il dialogo con la Cina è sempre aperto, ma che si aspetta una maggiore presenza e peso americani nell’area.

(eastwest.eu, 20 aprile 2023)

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Gerusalemme: al via il Congresso Sionista mondiale

Oltre 2.000 ebrei provenienti da tutto il mondo si riuniscono questa settimana a Gerusalemme per il Congresso Sionista dell’Organizzazione Sionista Mondiale, in occasione del 75° anniversario dello Stato di Israele e del 125° anniversario del primo Congresso Sionista di Basilea.
  Il Congresso Sionista Mondiale è un incontro di rappresentanti ebrei sionisti provenienti da quaranta Paesi del mondo ed è l’organo più alto in termini di legislazione e di definizione delle politiche dell’Organizzazione Sionista Mondiale, che agisce in modo simile a un parlamento ebraico. I delegati sono rappresentanti eletti dalle Federazioni sioniste di tutto il mondo, i cui membri sono iscritti all’Organizzazione sionista mondiale.
  Alla conferenza parteciperanno il Presidente israeliano Isaac Herzog, i leader della comunità ebraica mondiale e centinaia di imprenditori con l’intento di portare avanti la visione di Theodor Herzl per il sionismo del presente e del futuro.
  Yakov Hagoel, presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ha dichiarato ai media: “Siamo orgogliosi di ospitare le migliaia di ebrei che sono venuti in Israele nonostante le tensioni sulla sicurezza in Israele, come gesto di unità e solidarietà sionista”.
  In merito all’escalation della situazione della sicurezza in Israele e alle tensioni interne al governo israeliano, Hagoel ha aggiunto: “La situazione in Israele ci impone di ricordare che siamo una famiglia e non importa da dove ognuno di noi provenga nel mondo… Le migliaia di ebrei che sono venuti in Israele torneranno nei loro Paesi di origine con l’obiettivo di sponsorizzare lo Stato di Israele come Stato ebraico basato sulla visione democratica e sociale di Herzl”.
  Il Congresso sionista di quest’anno includerà la Conferenza Herzl per l’imprenditorialità sociale ed economica, con oltre 300 imprenditori che cercano di mettere in pratica la visione di Herzl.
  Il forum tratterà idee, iniziative e progetti che possono far progredire e concentrare le industrie israeliane in diversi campi, compresi i diciassette Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite.

• Promozione della gioventù ed educazione sionista
  Nell’ambito del Congresso si terrà anche una conferenza giovanile per l’educazione informale e la leadership giovanile. Tra i partecipanti ci saranno circa 1.000 giovani israeliani che si incontreranno con i leader della gioventù ebraica provenienti da Stati Uniti, Canada, Australia, Argentina, Brasile, Uruguay, Paesi Bassi, Messico, Belgio, Ecuador, Regno Unito, Sudafrica, Cile, Costa Rica, Paraguay, Perù, Italia, Spagna, Nuova Zelanda e Venezuela.
  I giovani partecipanti rappresentano quattordici diversi movimenti giovanili sionisti globali e prenderanno parte a tavole rotonde sui temi del sionismo, dello Stato di Israele e del rapporto tra Israele e la Diaspora.
  Sergio Edelstein, membro del consiglio di amministrazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale e responsabile della conferenza dei giovani, ha dichiarato: “Il legame tra i giovani che fanno parte dei movimenti giovanili sionisti e che guideranno l’ebraismo della Diaspora e lo Stato di Israele e la generazione futura è una risorsa strategica per lo Stato di Israele”.

• Valori sionisti condivisi
  Per molti dei delegati, il Congresso sionista che si svolge in occasione del 75° Giorno dell’Indipendenza di Israele è molto più di una semplice conferenza: è partecipare al futuro dello Stato di Israele e collegare Israele alla diaspora in una straordinaria dimostrazione di unità.
  “I congressi si sono svolti in cicli di quattro o cinque anni sin dal primo di Herzl nel 1897, ma questo straordinario congresso è stato convocato in occasione del 75° anniversario di Israele”, ha dichiarato Danny Lamm, presidente dell’Executive Council of Australian Jewry, che è volato in Israele per il congresso.
  Lamm è coinvolto nel Congresso sionista dal 1972, e prima di allora sia suo padre che suo nonno erano delegati.
  “Il valore più grande è quello di portare la leadership sionista globale a festeggiare insieme, a condividere le nostre sfide individuali e nazionali e a rinvigorire i nostri sforzi”, ha detto Lamm.
  Herbert Block, direttore esecutivo del Movimento Sionista Americano, ha fatto eco allo stesso sentimento sottolineando che questo Congresso, che è stato rinviato di tre anni dall’incontrarsi di persona a causa della pandemia, è davvero un motivo di celebrazione.
  “Legare il Congresso sionista a questo momento è importante perché l’anno scorso abbiamo celebrato il 125° anniversario del primo Congresso sionista di Herzl, tenutosi a Basilea nel 1897, e ora, pochi mesi dopo, il 75° anniversario dello Stato di Israele, ed è davvero un’occasione importante”.

• È tutta una questione di dialogo
  Forse la caratteristica più unica del Congresso sionista è che riunisce così tante comunità diverse con sfide diverse, ma con il valore comune del sionismo.
  Block ha detto che la conferenza di quest’anno è particolarmente incentrata sulla promozione del dialogo.
  “La WZO si è sforzata di avere più dialogo e discussione piuttosto che dibattiti conflittuali… per abbassare la temperatura dei dibattiti in corso nella società civile israeliana e nel mondo”, ha detto.
  Anche se ci sono risoluzioni che verranno affrontate in questa conferenza, si tratta chiaramente di un’opportunità per imparare dalle comunità di tutto il mondo su una causa comune.
  “Ci sono lezioni da imparare da queste esperienze completamente diverse, dall’Australasia, dal Regno Unito, dai Paesi europei, dalle Americhe meridionali e centrali, dall’Africa, dal Canada e dagli Stati Uniti”, ha detto Lamm, aggiungendo che “ho sempre creduto che ciò che ci unisce è più grande di ciò che ci divide. Il nostro compito è quello di concentrarci sul gioco principale di collegare Israele con il nostro popolo e viceversa”.

(Rights Reporter, 20 aprile 2023)

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Israele rafforza i legami con l’Azerbaigian in vista di una guerra con l’Iran

di Michele Giorgio

A Baku per rafforzare i rapporti già stretti con l’Azerbaigian, quindi ad Ashgabat per inaugurare l’ambasciata israeliana in Turkmenistan ad appena 20 chilometri dal confine con l’Iran. È stato, tra martedì e oggi,  un inizio settimana intenso per Eli Cohen con il quale il ministro degli esteri israeliano ha provato a compensare in Asia centrale le battute di arresto subite dagli Accordi di Abramo nelle ultime settimane. L’Arabia saudita, candidata nelle speranze del governo di estrema destra guidato da Benyamin Netanyahu, ad aderire alla normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e Stato ebraico, si sta riconciliando con l’Iran nemico di Israele e a inizio settimana ha ricevuto a Riyadh i leader del movimento islamico Hamas. Il trattato di pace con il Sudan, precipitato in violenti scontri tra i militari golpisti, appare più lontano rispetto alle tappe che proprio Cohen aveva fissato a Khartoum appena qualche settimana fa.
  Cohen ieri ha dichiarato che è sul tavolo una sua visita a Riyadh anche se la data non è stata fissata. A diversi analisti le sue parole sono apparse un modo per parare i colpi e fare pressioni sulla monarchia Saud.
  A Baku invece le cose vanno sempre meglio per Israele e i suoi piani strategici militari ed economici. Della delegazione al seguito di Cohen hanno fatto parte anche una trentina di imprenditori. Una presenza che dichiara l’intenzione israeliana di aumentare oltre alla vendita di armi all’Azerbaigian – si devono anche alle forniture di droni killer i successi militari di Baku a danno degli armeni nella regione contesa del Nagorno-Karabakh – anche gli scambi commerciali che si aggirano al momento intorno ai 200 milioni di dollari all’anno. Gli azeri inoltre coprono il 30% del fabbisogno israeliano di petrolio.
  Cohen a Baku ha incontrato il presidente Ilham Aliyev e diversi ministri, due settimane dopo l’inaugurazione dell’ambasciata azera a Tel Aviv, la prima in Israele di un paese a maggioranza sciita. I media israeliani hanno dato parecchio spazio al viaggio del ministro degli esteri a Baku descrivendolo come una risposta alla «crescente influenza dell’Iran nella regione». «Israele e Azerbaigian stanno rafforzando la loro alleanza politica e di sicurezza» si legge in un comunicato diffuso da Cohen, «ho incontrato il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev e abbiamo parlato delle sfide strategiche che condividiamo, in primo luogo la sicurezza regionale e la lotta al terrorismo». Quindi il ministro israeliano è andato al punto centrale. L’Azerbaigian, ha detto, «gode di una posizione strategica nel Caucaso meridionale».
  Più volte si è parlato dell’Azerbaigian, che mantiene rapporti tesi con Teheran, come di una possibile base per un attacco israeliano alle centrali atomiche iraniane. Baku ha smentito, anche di recente, questa opzione. Tuttavia la distanza e la necessaria violazione dello spazio aereo di alcuni paesi, rendono complesso un raid di cacciabombardieri da Israele fino all’Iran. Problemi che si risolverebbero se gli aerei da combattimento dovessero decollare dall’Azerbaigian. In quel caso Aliyev sa che il suo paese subirebbe la rappresaglia dell’Iran. Al momento, e su questo non ci sono dubbi, Israele mantiene una forte presenza di intelligence a Baku e Tehran ha irrigidito ulteriormente la sua linea nei confronti dell’Azerbaigian. I due paesi hanno avuto colloqui di recente per allentare la tensione ma i rapporti restano difficili.
  Cohen ieri è andato in Turkmenistan, direttamente dall’Azerbaigian, diventando il primo rappresentante del governo israeliano a visitare lo Stato dell’Asia centrale in quasi 30 anni. L’ultimo ministro israeliano a recarsi ad Ashgabat era stato Shimon Peres nel 1994, tre anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Pagine Esteri

(Pagine Esteri, 20 aprile 2023)

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Vandalizzata la sinagoga di Barcellona con la scritta “Palestina libera”, poco prima di Yom Ha Shoah

di Roberto Zadik

La  sinagoga di Barcellona vandalizzata da ignoti lunedì 17 aprile, alla vigilia di Yom Ha Shoah, con la scritta “Palestina libera”
  Perfino in ricorrenze luttuose, come Yom Ha Shoah, l’antisemitismo non si ferma e, lunedì 17 aprile, alcuni sconosciuti dal volto mascherato hanno deturpato i muri della Grande sinagoga di Barcellona con la scritta “Palestina libera”. La notizia è apparsa su vari siti internazionali, a cominciare da Jewish Telegraphic Agency che, in un articolo firmato da Gabe Friedman, riporta del ritrovamento non solo della scritta “Palestina libera dal fiume al mare; solidarietà con il popolo palestinese” ma anche di una lettera, estremamente minacciosa, ritrovata nelle vicinanze dei graffiti.
  Essa conterrebbe accuse di genocidio israeliano contro la popolazione palestinese criticando le “lobby catalane” per il sostegno ad Israele. Immediata la condanna delle organizzazioni ebraiche internazionali che hanno condannato questo grave episodio evidenziando il legame, spesso messo in discussione, fra antisionismo e antisemitismo, visto che proprio a Yom Ha Shoah gli attivisti propalestinesi si sono espressi contro Israele.
  In tema di reazioni, riguardo all’accaduto, il Congresso Ebraico Europeo ha definito “oltraggioso” questo gesto. Pinchas Goldschmidt, ai vertici del Congresso Rabbinico Europeo, ha poi ipotizzato un legame fra il vandalismo degli attivisti propalestinesi e le dichiarazioni di Ada Colau, sindaco di Barcellona, che lo scorso febbraio aveva rinunciato al gemellaggio di Barcellona con Tel Aviv in quanto esso avrebbe “messo gravemente in pericolo la comunità ebraica della città”.
  Goldschmidt, ex rabbino capo di Mosca, dopo aver abbandonato la capitale russa, successivamente all’invasione dell’Ucraina, ha espresso la propria indignazione per questa scelta del sindaco aggiungendo “a mio parere ogni caso di vandalismo e violenza potrebbe derivare da questa decisione”. L’articolo del JTA ha ricordato come il sindaco di Barcellona non si sia limitato a rinunciare al legame con Tel Aviv, iniziato nel lontano 1988, ma abbia espresso commenti sprezzanti contro Israele accusandolo di “apartheid” e di “sistematica violazione dei diritti umani”. Il giorno dopo, come per rimediare a queste dichiarazioni, il sindaco di Madrid Josè Luis Martinez Almeida ha lanciato l’idea di un gemellaggio fra Tel Aviv e la capitale spagnola.
  Ma cosa significa la frase sul muro della sinagoga catalana “Palestina Libera dal fiume al mare?” Secondo l’interpretazione di alcuni citata nell’articolo di Gabe Friedman sul Jewish Telegraphic Agency, essa sarebbe una chiamata alla violenza per i palestinesi. Coniato nel 1964 dall’OLP, Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il termine inneggiava ad uno Stato palestinese che si estendesse dalle rive del Giordano al Mar Mediterraneo senza alcun controllo da parte di Israele; esso diventò uno slogan popolare usato da gruppi terroristici, come Hamas, che escludeva qualsiasi compromesso con lo Stato ebraico.

(Bet Magazine Mosaico, 20 aprile 2023)

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Zikaron Basalon - Un salone per trasmettere la memoria

"In occasione di Yom HaShoah, il giorno istituito dallo Stato d’Israele per trasmettere il ricordo della Shoah, si rinnova un’iniziativa di grande coinvolgimento emotivo. Con l'organizzazione del Centro di Cultura Ebraica, la casa Arbib-Sermoneta ha ospitato un incontro speciale tra Edith Bruck, scrittrice e sopravvissuta ai campi di sterminio, e gli studenti di alcune scuole capitoline. Non il tradizionale evento in grandi aule o in palazzi istituzionali, ma un incontro intimo e ristretto, in ebraico chiamato “Zikaron Basalon”, letteralmente “Il ricordo in salone”. Un metodo alternativo di trasmettere la memoria, perché è nella stanza simbolo della convivialità domestica che il dialogo acquista un valore aggiunto, quasi personale.

(Shalom, 20 aprile 2023)

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A Varsavia si combatte ancora la battaglia della memoria. I narcisi della contromanifestazione

Il discorso del presidente Duda alla commemorazione della rivolta del ghetto e il ricordo di chi si riunisce fuori dalle transenne e porta i fiori

di Francesco M. Cataluccio 

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VARSAVIA - Cielo plumbeo e una marea di gialle giunchiglie, che fioriscono proprio in questi giorni, hanno fatto da cornice, nella centrale piazza degli Eroi del Ghetto, alla commemorazione dell’ottantesimo anniversario della rivolta di un gruppo di coraggiosi ebrei, che tennero testa alle truppe tedesche dal 19 aprile al 10 maggio 1943. A mezzogiorno in tutta la città risuonano le sirene. Poi è iniziata la commemorazione ufficiale alla presenza del presidente polacco Andrzej Duda, dei presidenti di Germania, Frank-Walter Steinmeier, e Israele, Isaac Herzog, autorità civili e religiose.
  l discorso di Duda rispecchia quelli che negli ultimi mesi, con maggiore decisione rispetto al passato, sono i temi di mai sopita “Battaglia della memoria”. II nazionalisti polacchi vogliono che la tragedia della Shoah non “oscuri” milioni di vittime polacche durante la Seconda guerra mondiale. Come ha affermato alcune settimane fa il ministro dell’Istruzione, si vorrebbe che le migliaia di giovani che ogni anno visitano i campi di sterminio, fossero condotti anche nei luoghi più significativi del martirio dei polacchi. Tutto ciò si accompagna a una forte opposizione  (anche con sanzioni penali) a qualsiasi accenno ad alcune complicità (per ragioni economiche o per odio antisemita) che ci furono da parte di polacchi nell’uccisione di ebrei (polacchi). Così si insiste sul fatto che i rivoltosi non potevano essere aiutati più di così, dall’esterno delle mura del Ghetto, dove (in Piazza Krasinskich) c’era addirittura una giostra che continuò a funzionare con le persone che acchiappavano i brandelli di cenere delle case che bruciavano, e la gente disperata si buttava dalle finestre mentre i cecchini tedeschi facevano a gara a chi ne ammazzava di più mentre precipitavano.  Questi fatti non si ricordano, ma si preferisce  sottolineare il fatto che su un tetto, accanto alla bandiera del Bund (il partito della sinistra sionista al quale apparteneva la maggioranza dei rivoltosi), fu issata anche la bandiera polacca.   
  Per questo motivo, molti polacchi preferiscono stare fuori dalle transenne, controllate da molti poliziotti, che circondano il grande Monumento, di Nathan Rapaport, posto sul luogo dove si iniziò a sparare contro i tedeschi e di fronte al Museo della storia degli ebrei polacchi (Polin), il cui direttore, Dariusz Stola, si dimise nel 2020 per contrasti con il governo di Mateusz Morawiecki, che lo accusava di aver politicizzato il museo dando risalto all’antisemitismo dei polacchi. 
  La contromanifestrazione, che ha visto la partecipazione di molti oppositori, tra i quali Adam Michnik, quest’anno è stata particolarmente affollata. I partecipanti si sono riuniti davanti al monumento alla memoria di Szmul Zygielbojm (1895-1943), il politico socialista ebreo polacco e membro del governo polacco in esilio che si tolse la vita nel maggio 1943 a Londra, in segno di protesta contro l’inazione degli Alleati di fronte all’annientamento tedesco degli ebrei europei e soprattutto per la sconfitta della rivolta del ghetto di Varsavia. E’ stato letto un brano della sua ultima lettera: “Non posso tacere e non posso continuare a vivere mentre il resto degli ebrei polacchi, di cui sono rappresentante, viene ucciso”. Poi in corteo sono andati a deporre mazzi di giunchiglie nei vari luoghi dove sono stati uccisi gli ebrei. La famosa attrice Maja Komorowska ha letto delle poesie nel luogo, in via Mila 18, dove c’era il bunker nel quale, pochi giorni dopo il suicidio di Zygielbojm, si uccise per non finire in mano ai tedeschi anche Mordechaj Anielewicz (1919-1943), il comandante dell’Organizzazione ebraica di combattimento (Zob). Fu allora che Marek Edelman prese la testa della rivolta assieme a un gruppo di giovani compagni, come raccontò, nel 1945,  nel suo memoriale “Il ghetto di Varsavia lotta” (a c. Di W. Goldkorn, Giuntina 2012). E continuò a lottare anche dopo la guerra, contro l’antisemitismo, il totalitarismo comunista, in difesa della Serajevo assediata, che paragonò alla situazione del ghetto di Varsavia. 
  Edelman, l’eroe amaramente modesto della rivolta del ghetto, introdusse la tradizione di portare le giunchiglie sulle lapidi dei suoi compagni (“Non mi è stato dato di cadere come loro, assieme a loro. Ma appartengo a loro e allo loro tombe”) ed evitare le cerimonie ufficiali. Ha insegnato che la memoria ha un senso non per contemplare le vecchie ferite, ma perché aiuti a scegliere oggi tra il bene e il male. E ad agire. 

Il Foglio, 20 aprile 2023)

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Olocausto: 35esima Marcia dei viventi ad Auschwitz-Birkenau

di Magdalena Chodownik

Il 2023 segna il 35° anniversario della prima “Marcia dei viventi”, la marcia annuale dei sopravvissuti all’Olocausto. In Polonia sono arrivati da tutto il mondo insieme a parenti e amici per la commemorazione ad Auschwitz-Birkenau, affinché simili atrocità non accadano mai più. Quest'anno la marcia è organizzata in occasione anche dell'80° anniversario della rivolta nel ghetto di Varsavia e del 75° anniversario della creazione dello Stato di Israele.

(euronews, 19 aprile 2023)

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Israele-Palestina, la Cina si offre come mediatrice

Ka proposta del ministro degli Esteri Qin Gang in una telefonata al suo omologo israeliano Eli Cohen

La Cina è disposta a facilitare la ripresa dei colloqui di pace tra Israele e Palestina e ha chiesto alle due parti di mostrare coraggio politico e intraprendere iniziative per riavviare il dialogo, secondo il ministro degli Esteri di Pechino, Qin Gang. Il diplomatico cinese ha trasmesso questo messaggio al suo omologo israeliano, Eli Cohen, nel corso di una telefonata ieri sera, in cui ha espresso anche la preoccupazione della Cina per le tensioni in corso nella regione. Lo ha riferito l'agenzia di stato Xinhua.
  La proposta arriva dopo che Arabia Saudita e Iran hanno concordato lo scorso marzo, proprio con l'inedita mediazione della Cina, di ripristinare le relazioni diplomatiche dopo un'interruzione di sette anni: un traguardo che lo stesso Qin ha citato come esempio nella sua conversazione con Cohen.
  Il ministro cinese, inoltre, ha affermato che la priorità in questo momento è controllare la situazione e prevenire l'escalation del conflitto, per il quale ha chiesto "calma e controllo" e di evitare "parole e azioni eccessive e provocatorie". Secondo Qin, è fondamentale ora riprendere i colloqui di pace e attuare la "soluzione dei due Stati". "Non è mai troppo tardi per fare la cosa giusta", ha sottolineato il ministro di Pechino.
  Da parte sua, Cohen, secondo Xinhua, ha ringraziato la Cina per la disponibilità a sostenere la soluzione del conflitto e ha assicurato che Israele vuole "raffreddare" la situazione, pur precisando che il problema non può essere risolto a breve termine. Cohen ha anche affermato che il suo Paese attribuisce grande importanza all'influenza della Cina, segue da vicino la questione nucleare iraniana e spera che Pechino svolga un ruolo positivo.

(la Repubblica, 19 aprile 2023)


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Conflitto tra Israele e Palestina, perché la mediazione offerta dalla Cina è molto seria

di Eugenio Palazzini

ROMA – La notizia è di quelle che possono strappare sciocchi sorrisi a denti stretti, della serie: non sparate sciocchezze, questa è una missione impossibile. Sì perché la Cina si è detta disposta a mediare tra Israele e Palestina, addirittura per risolvere l’atavico – tragicamente iconico – conflitto mediorientale. E’ quanto annunciato dal ministro degli Esteri cinese, Qin Gang, durante due colloqui telefonici avuti con gli omologhi israeliano e palestinese, Eli Cohen e Riad al Maliki. Stando a quanto riportato dall’agenzia Xinhua – che ricordiamo essere voce sempre attendibile in questi casi perché megafono di Pechino, in quanto subordinata al controllo del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare – il ministro Qin ha chiesto ai suoi due interlocutori di “dar prova di coraggio politico e riprendere i colloqui di pace”, assicurando la disponibilità della Cina a mediare.
  Il ministro israeliano Cohen ha ringraziato la Cina per la sua disponibilità a sostenere la soluzione del conflitto israelo-palestinese. “Israele è impegnato a raffreddare la situazione, ma è improbabile che il problema si risolva a breve termine”, ha detto. Sottolineando poi che “Israele attribuisce importanza all’influenza della Cina, presta grande attenzione alla questione nucleare iraniana e si aspetta che la Cina svolga un ruolo positivo”.

• Conflitto tra Israele e Palestina, la mediazione offerta dalla Cina
  Ingenuità? Eccesso di ottimismo? Oppure la Cina si è montata la testa dopo il successo della mediazione tra Iran e Arabia Saudita? Verosimilmente nulla di tutto questo. Perché la Cina non è ingenua, tende sempre alla cautela più che all’ottimismo e sa bene di dover procedere su più livelli per ottenere risultati concreti anche in termini di immagine. E’ però altrettanto consapevole di potersi presentare come arbitro credibile in diverse aree del globo e tra attori che storicamente si guardano in cagnesco, o peggio si fanno la guerra da decenni. Perché in determinati contesti è sempre rimasta astutamente “neutrale”, termine rivedibile in portata più ampia ma che nella fattispecie può rendere l’idea.
  Nella riscrittura in atto dello scacchiere globale, Pechino è insomma conscia di sapersi ergere a potenza in grado di far pesare la propria voce, in scenari macroregionali dove il peso degli Stati Uniti si è fatto meno rilevante e quello europeo fatica a (ri)emergere. Non sempre l’agire del Dragone è però inviso alla Casa Bianca, come di primo acchito potremmo facilmente dedurre. Questione di interdipendenza, allorché Stati Uniti e Cina sono entrambi consci di non poter rinunciare a un abbraccio implicito. Là dove non può muoversi l’uno, per ragionali storiche, oltreché per contingenze reputazionali ed economiche, si inserisce l’altro. Equilibrio delicato, in certi casi in fieri più che reale, eppure sempre più cercato e alimentato. Spartizione di campo non definitiva, né totale. Semmai volta a stabilizzare lo scorrere del flusso finanziario. Finché regge.

• Se la nuova via della Seta passa dalla Palestina
  La Nuova via della seta (meglio al plurale, nuove vie), in apparenza scomparsa dai radar con il Covid e frettolosamente bollata oltre il limes cinese come ormai naufragata, passa anche da Israele e Palestina. Nel 2016, Xi Jinping riaffermò il sostegno di Pechino “alla istituzione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme est“. Annunciando alla Lega araba un progetto da 7.6 milioni di dollari per la costruzione di pannelli solari nei territori palestinesi. Nel 2017, l’allora ministro degli Esteri cinese Wang Yi, disse che “la mancanza di uno Stato palestinese indipendente costituisce una terribile ingiustizia”. Gli obiettivi di Pechino passano però anche da un’inevitabile cooperazione con Tel Aviv, pena il naufragio di qualunque progetto possibile in Palestina.

(Il Primato Nazionale, 19 aprile 2023)

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Medio Oriente, il pericoloso isolamento d’Israele

di Margherita Furlan ed Elisa Angelone

Con la svolta multipolare dei principali attori del Medio Oriente, Stati Uniti e Israele vedono sempre più remota la speranza di includere l’Arabia Saudita nei famosi Accordi di Abramo che avrebbero dovuto portare, nel 2020, secondo Trump, alla normalizzazione delle relazioni tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein con la mediazione statunitense.
  La ripresa delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran con - invece - la mediazione cinese ha dato il via a un vero e proprio rimodellamento degli equilibri in Medio Oriente, aprendo la strada a nuove intese che rischiano di portare gli attori della regione troppo lontano dall’influenza israelo-statunitense che avrebbe voluto invece compattarli in funzione anti-iraniana.
  Secondo il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen un accordo di pace con l’Arabia Saudita è comunque fattibile, poiché i due paesi hanno un nemico comune, ovvero l’Iran.
  Israele continua quindi a chiedere che il Regno saudita riconosca lo Stato ebraico, attraverso il premier Benjamin Netanyahu, che ieri, 17 aprile, ha incontrato a Gerusalemme il senatore statunitense Lindsey Graham. Il senatore americano avrebbe altresì espresso al principe ereditario saudita il desiderio da parte dell’amministrazione Biden di migliorare le relazioni con il Regno, non tanto per la “stabilità dell’intera regione”, quanto per ragioni indubbiamente petrolifere. Ma il tempo stringe. E’ giunta ieri la notizia secondo cui re Salman avrebbe accettato l’invito a recarsi prossimamente a Teheran da parte del presidente iraniano Raisi, mentre il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, il principe Faisal bin Farhan, ha incontrato a Damasco il presidente siriano Bashar al-Assad.
  Il tutto accade “mentre la Russia, nel setacciare il mondo intero alla ricerca di acquirenti dei suoi vettori energetici, trova partner commerciali impazienti in un luogo un tempo inaspettato: negli stati ricchi di petrolio e gas del Golfo Persico”, scrive il Wall Street Journal.
  Secondo i dirigenti delle compagnie petrolifere e gli analisti del settore, infatti, a causa delle sanzioni occidentali, le società statali in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti hanno approfittato di prezzi preferenziali dei prodotti russi.

(Casa del Sole TV, 19 aprile 2023)

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Rav Yisrael Meir Lau ad Auschwitz: ‘’Il popolo ebraico deve imparare a vivere insieme’’

di Luca Spizzichino

Rav Yisrael Meir Lau
In occasione di Yom HaShoah ieri nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau si è tenuta la trentacinquesima edizione del “March of the Living”, la marcia dei vivi, un programma educativo annuale che porta studenti da tutto il mondo in Polonia. Quest’anno hanno partecipato oltre a diversi sopravvissuti ad Auschwitz, tra cui Tatiana e Andra Bucci, anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la Presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello, la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni e l’ex rabbino capo dello Stato d’Israele, e sopravvissuto alla Shoah, Rav Yisrael Meir Lau.
  Rav Lau, che partecipò alla prima marcia dei vivi nel 1988, ha tenuto un discorso durante la cerimonia per l’accensione delle Torce del Ricordo vicino i resti dei forni crematori di Auschwitz-Birkenau. «Nell’ufficio di Hitler c’era un globo, bello e pieno di colori, dove c’erano scritti diversi numeri di colore nero. Cos’erano questi numeri, a cosa servivano? Adolf Hitler diede al suo staff l’ordine di far iniziare la guerra il primo settembre del 1939 e sapere esattamente quanti ebrei ci sono in ogni paese del mondo» ha raccontato Rav Lau. «Negli Stati Uniti d'America nel 1939 vivevano 6 milioni di ebrei, un numero simbolico, mentre in Albania ce n’era uno solo, nella capitale, a Tirana. Hitler disse al suo staff: “Fino a quando non ripulirò questo globo non avrò finito il mio lavoro, perché questa è la mia missione”, e voi potete immaginare cosa fece» ha proseguito.
  «Il Ghetto di Varsavia non fu l’unico luogo in cui ci furono delle rivolte, gli ebrei si ribellarono senza avere nulla, nessuna arma. Combatterono per la loro sopravvivenza lottando contro i nazisti» ha poi spiegato Lau, che ha poi parlato dell’operazione per liberare gli ostaggi ebrei in Uganda. «L’esercito israeliano riuscì a liberare tutti gli ebrei tranne uno. Con quell’operazione mostrammo al mondo che il sangue ebraico non è vano e ha un prezzo. Noi abbiamo uno stato e abbiamo il potere per lottare per la nostra esistenza» ha sottolineato.
  «Voglio dire una cosa: tutti gli ebrei, di ogni generazione, sono sopravvissuti alla Shoah, e lo dico come tale. Se Adolf Hitler fosse riuscito nel suo intento, noi non saremmo qui. Ogni ebreo deve capire che è quasi una vittima, e che se siamo qui, ed esistiamo, è un miracolo di D-o. Dobbiamo sapere che siamo dei sopravvissuti» ha detto Rav Lau, che ha ringraziato i presenti, in particolare i non ebrei, la cui «amicizia è per noi molto molto profonda». Inoltre ha voluto ricordare chi salvò il leader più grande del popolo ebraico, Mosè. «Lei non era ebrea, era la figlia del Faraone, lo stesso che ordinò di gettare i bambini ebrei nel Nilo. Lei salvò la vita di questo bambino e lo portò nel palazzo del padre. Lei ha mostrato la via su cosa significa essere umani, su cosa significa vivere insieme».
  «Noi ebrei siamo esperti, e lo dico sempre, nel morire insieme, ma non impariamo a vivere insieme. Questo è il problema. Nel morire insieme, non ci sono differenze, e l'abbiamo capito con la Shoah e lo abbiamo visto in tutta storia del popolo ebraico. Per morire insieme siamo esperti, per vivere insieme dobbiamo ancora imparare. Continuiamo a dire Am Israel Chai senza comprendere che dovremmo dire Am Israel Chai Be Yachad (Il popolo d’Israele vive ed è unito)!» ha concluso.

(Shalom, 19 aprile 2023)

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L'attacco antisemita: vernice nera sui Simpson deportati ad Auschwitz

Il murale dell'artista aleXsandro Palombo vicino al Memoriale della Shoah di Milano è stato deturpato

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Vandalizzato uno dei due murales "Binario 21, i Simpson deportati ad Auschwitz" dell'artista aleXsandro Palombo, apparsi sui muri del Memoriale della Shoah di Milano il 27 gennaio in occasione della giornata della Memoria. L'artista aveva ritratto la famiglia Simpson deportata nei campi di concentramento nazisti per raccontare il prima e il dopo la deportazione. L'opera è stata deturpata con strisciate di colore nero, mentre le stelle di David di colore giallo, le stesse che erano sulle divise di Auschwitz, indossate dai Simpson, sono state tutte ricoperte con vernice nera.
  "Affrontare l'antisemitismo è sempre disgustoso, come in questo caso. Tuttavia, se l'obiettivo del razzista era quello di sminuire la commemorazione dell'Olocausto, ritengo che abbia fallito. Oscurare le stelle di David che identificano gli ebrei come obiettivi specifici dei nazisti non fa che confermare questo fatto. I segni della penna del vandalo costringono involontariamente gli spettatori a ricordare la verità sull'identità dell'etichetta gialla mancante. Allo stesso modo, dissacrare il murale dell'artista e lo spazio pubblico che lo accoglie non fa che rafforzare l'importanza della commemorazione. I graffiti prendono potere rovinando strutture e immagini importanti. Prendere di mira un memoriale nazionale dell'Olocausto dimostra che questi criminali riconoscono comunque il suo significato duraturo nelle società liberali occidentali", il commento di Jeffrey Demsky, storico e professore di Scienze Politiche e Storia dell’Università americana di San Bernardino Valley in Florida.
  "Questo vile atto antisemita mette in luce il pericolo dell’indifferenza, dell’oblio e ci costringe a un inciampo visivo che ci svela la realtà, l’odio, il razzismo, la crudeltà e il pregiudizio verso gli ebrei. Qualunque forma di distorsione dell'Olocausto conduce al negazionismo e all’antisemitismo perché mette in dubbio la realtà e le atrocità dell’Olocausto", ha dichiarato l'artista Palombo. 
  La giornata di ieri coincideva con il giorno dello Yom HaShoah, la giornata del ricordo degli ebrei che furono uccisi durante l'Olocausto. Per ora gli autori del gesto sono ignoti, ma è probabile che siano stati 'visti' dall'occhio elettronico posizionato nei pressi del museo. "Queste opere sono un inciampo visivo che ci costringono a vedere quello che non vediamo più. Le cose più terribili possono diventare realtà e l’arte ha il dovere di ricordarle perché è un potente antidoto ai rischi dell’oblio", aveva dichiarato l'artista in precedenza.

(MilanoToday, 19 aprile 2023)

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Il figlio dell’ultimo scià dell’Iran visita Israele per promuovere un futuro comune

di Francesco Paolo La Bionda

Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo scià dell’Iran attualmente residente in esilio negli Stati Uniti, è arrivato in Israele lunedì 17 aprile, per un viaggio che è stato presentato come uno sforzo per ricostruire le relazioni tra le due nazioni. Pahlavi è stato accolto al suo arrivo all’aeroporto internazionale Ben Gurion, vicino a Tel Aviv, dal ministro dell’Intelligence israeliano Gila Gamliel, che lo ospiterà durante la sua permanenza.
  “Siamo molto felici di essere qui e ci impegniamo a lavorare per il futuro pacifico e prospero che il popolo della nostra regione merita”, ha scritto Pahlavi su Twitter, dopo essere arrivato nello Stato ebraico insieme alla moglie.

• Il richiamo al comune passato biblico
  Pahlavi prima della partenza aveva commentato che “in quanto figli di Ciro, gli iraniani aspirano ad avere un governo che onori la sua eredità di supporto dei diritti umani e di rispetto della diversità religiosa e culturale, anche attraverso il ripristino di relazioni pacifiche e amichevoli con Israele e gli altri vicini dell’Iran nella regione”, riferendosi al re persiano che permise agli ebrei di tornare a Sion dall’esilio nel VI secolo a.C.

• Le visite a Gerusalemme e in Cisgiordania
  Martedì 18 aprile Pahlavi si è quindi recato a Gerusalemme, dove ha visitato il Muro Occidentale e ha partecipato alla cerimonia ufficiale per il Giorno della Memoria presso lo Yad Vashem, presso il quale ha anche incontrato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
  Il principe ereditario iraniano ha quindi fatto visita alla famiglia Dee nella loro casa nell’insediamento cisgiordano di Efrat, partecipando al loro lutto per la morte delle sorelle Maia e Rina e della loro madre Lucy in un agguato mortale teso loro da terroristi palestinesi durante la festività della Pasqua ebraica.

• Quando Israele e Iran erano alleati
  Dalla fondazione dello Stato ebraico nel 1948 fino alla rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini del 1979, Israele e Iran sono stati alleati e in ottimi rapporti e hanno collaborato in particolare in materia di energia e di sicurezza. Dopo che lo scià filoccidentale Mohammad Reza Pahlavi, padre dell’attuale principe, fu deposto ed esiliato nel 1979, al posto della monarchia venne instaurato l’attuale regime teocratico islamista, che ha trasformato Israele nel suo più acerrimo nemico in nome della solidarietà religiosa con i palestinesi musulmani.

(Bet Magazine Mosaico, 19 aprile 2023)

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Oggi il giorno del ricordo e della Shoà in Israele

di Ugo Volli

• La cerimonia
Oggi in Israele si ricorda la Shoà. Molti edifici pubblici sono illuminati di giallo in segno di memoria. Come tutti gli anni, ieri sera c’è stata una cerimonia solenne allo Yad Vashem di Gerusalemme: al centro della cerimonia, alla presenza di tutti i vertici civili e militari dello Stato sei torce sono state accese da persone legate alla resistenza contro i nazisti a ricordo dei sei milioni di ebrei uccisi. Oggi Israele si ferma al suono delle sirene che si sentono in tutto il Paese. Per due minuti tutti si immobilizzano, in un momento di silenzio, di riflessione e di ricordo. In numerosi luoghi si leggono i nomi degli assassinati.

• Non solo il genocidio, anche la resistenza
  Il ricordo della Shoà in Israele è ovviamente molto diverso dalla “giornata della memoria” europea, per contenuto, per emozione, per data e anche per significato. La Knesset, il parlamento monocamerale di Israele, scelse nel 1951 una data civile, il 27 di Nissan per un momento collettivo di ricordo. La data è stata decisa così per ricordare non una liberazione per mano d’altri e nemmeno l’anniversario di una delle peggiori atrocità commesse dai nazisti, ma il più evidente atto di resistenza della popolazione ebraica in Europa, il primo giorno della rivolta del ghetto di Varsavia. Questa scelta rifiuta, dunque, di sottolineare solamente negli ebrei uccisi dai nazisti la condizione di pure vittime di una violenza subita “come agnelli”, con i connotati religiosi cristianeggianti che ne seguono (l’”olocausto”, cioè il “sacrificio”) ed è perciò nominata Yom Hazikaron laShoah ve-laGevurah, cioè “giorno del ricordo del disastro [cioè il genocidio] e dell’eroismo”. L’ultima clausola è importante. L’“eroismo” è quello di chi seppe ribellarsi e resistere ai nazisti, come i combattenti di Varsavia e di altri ghetti, i resistenti che si dettero alla macchia unendosi ai partigiani, ma anche coloro che si rifiutarono di abbandonare la loro dignità e le pratiche religiose, di accettare la disumanizzazione da parte dei nazisti, di rifugiarsi nel solo ruolo di vittime passive della violenza. Quel che si vuol dire è che nonostante le condizioni terribili e l’impotenza di vecchi, bambini, donne, uomini disarmati e non organizzati, il popolo di Israele trovò i modi di resistere al genocidio e che questo va ricordato.

• La data
  Bisogna comprendere come questa data tragga il suo senso anche dalla collocazione in una serie di commemorazioni. Essa viene subito dopo Pesach, il ricordo dell’uscita dalla schiavitù in Egitto, che pure è lontana oltre trentacinque secoli. Le segue la festa dell’indipendenza (Yom HaAtzmaut) che è celebrata nella data ebraica del 5 di Iyar, e dunque circa una settimana dopo la giornata dedicata alla Shoà. Alla vigilia della festa dell’Indipendenza, il 4 di Iyar, c’è un’altra celebrazione molto commovente, chiamata semplicemente Yom Hazikaron, cioè “giorno della memoria”, che è dedicata al ricordo dei caduti nelle guerre sostenute da Israele per difendere la sua esistenza dagli attacchi di chi voleva distruggerlo e insieme a quello delle vittime del terrorismo antisraeliano: tutti coloro che sono stati uccisi dall’odio contro Israele. Vi è dunque venti giorni circa una serie di quattro eventi che riassumono la vicenda del popolo ebraico, come la si può vedere oggi dal punto di vista prospettico del rinato stato di Israele: la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, la persecuzione nazista (e la resistenza ebraica), il duro prezzo di sangue pagato da Israele per la sua vita, l’indipendenza e la libertà.

• Il ricordo religioso
  Altre date ancora sono invece generalmente utilizzate per ricordare il genocidio in ambito religioso. Il primo è il digiuno del 10 del mese ebraico di Tevet (che cade fra dicembre e gennaio), che ricorda l’inizio di quell’assedio di Gerusalemme da parte dei babilonesi, che avrebbe poi portato alla conquista della città e alla distruzione del primo Santuario. Il Gran Rabbinato d'Israele scelse questa data come "giorno generale del lutto" per consentire ai parenti delle vittime della Shoà, le cui date di morte non sono note, di osservare le tradizionali pratiche per i defunti, e anche per permettere di ricordare anche tutti coloro che sono stati uccisi senza lasciare parenti in grado di ricordarli. In alcune comunità si usa pure aggiungere un “rituale della rimembranza” al seder di Pesach, perché esso ricorda anche il primo tentativo di genocidio del popolo ebraico, quello intrapreso dal Faraone tremila e cinquecento anni fa.

• Il rapporto con Israele
  La scelta di ricordare assieme persecuzione e resistenza è alla base del legame fra memoria della Shoà e difesa di Israele, che è centrale nella coscienza ebraica contemporanea: non certo perché lo stato di Israele sia una compensazione delle sofferenze della Shoà, gentilmente offerta dalla comunità internazionale a spese degli arabi, come pretendono gli antisionisti; ma perché lo stato ebraico costituisce oggi la più importante garanzia di autodifesa rispetto alla possibilità che la lunga storia delle persecuzioni e dei genocidi degli ebrei si ripeta. Si può dire dunque che la più importante risposta al genocidio da parte ebraica si ritrova nella “legge del ritorno” promulgata dalla Knesset il 5 luglio 1950, dunque prima ancora della proclamazione di Yom haShoà, in cui si assicura il diritto di ottenere la cittadinanza israeliana a tutti coloro che secondo le leggi naziste di Norimberga avrebbero dovuto essere in qualche modo perseguitati. Come è scritto anche nella Dichiarazione di Indipendenza, il ricordo allora freschissimo, della Shoà e il bisogno di resistere all’antisemitismo sono fra le ragioni basilari della vita dello stato di Israele. È importante che questa dimensione collettiva non vada dimenticata.

(Shalom, 18 aprile 2023)


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Una candela per illuminare la memoria della Shoah

La cerimonia a Gerusalemme e le storie dei sopravvissuti

di Michelle Zarfati

Si è celebrata lunedì sera la cerimonia in memoria di Yom HaShoah, al memoriale di Yad Vashem. Yom HaShoah è uno dei giorni più solenni del calendario nazionale israeliano, il 27° giorno del mese ebraico di Nisan, lo stesso giorno in cui iniziò la rivolta del ghetto di Varsavia. La cerimonia è stata infatti in parte dedicata alla coraggiosa rivolta. “La vostra memoria è la nostra memoria” ha detto il Presidente israeliano Isaac Herzog durante la cerimonia a cui ha preso parte assieme al Primo Ministro Benjamin Netanyahu e molte altre personalità. Il presidente di Yad Vashem, Dani Dayan, ha acceso la prima la torcia commemorativa e Shoshana Weis ha parlato a nome dei sopravvissuti. La cerimonia è stata inoltre trasmessa in diretta streaming dallo Yad Vashem in varie lingue. L’evento con i vari interventi da parte delle autorità sono stati intervallati dalle interpretazioni canore di Shuli Rand, Keren Peles, Yair Polishook, Shahaf Regev e Yoav Ayalon. Sono stati poi proiettati brevi video sulle storie dei sopravvissuti che hanno acceso le torce commemorative di Yom HaShoah.
  Una candela per illuminare la memoria della Shoah, specialmente se accesa da chi quell’orrore l’ha vissuto sulla pelle. Sono infatti stati sei i sopravvissuti che hanno acceso le torce commemorative, ognuno con la propria storia. La prima torcia è stata accesa da Tova Gutstein: nata a Varsavia nel 1933, fu testimone fin dalla giovane età degli orrori del ghetto. Con l'istituzione del ghetto nel 1940, suo padre fu mandato ai lavori forzati e Gutstein aiutò la sua famiglia a sopravvivere sgattaiolando fuori dal ghetto per mendicare cibo dai polacchi locali o raccogliere prodotti dai campi. Proprio mentre era fuori a cercare scoppiò la rivolta del ghetto di Varsavia. Al suo ritorno, la casa era stata distrutta e la famiglia scomparsa. Fuggendo dai combattimenti, corse tra i cadaveri che giacevano per strada e trovò rifugio nel bosco, dove fu accolta dai partigiani. Dopo la guerra, ha trascorso 18 mesi in un orfanotrofio prima di ricongiungersi finalmente con la madre, le sorelle e il fratello in un campo profughi nella città tedesca di Ulm. Si è trasferita in Israele nel 1948 ed è diventata un'infermiera ospedaliera. Oggi è attiva nell'aiutare i sopravvissuti.
  La seconda torcia è stata accesa invece da Ben-Zion Raisc, nato nel 1932 a Cernauti, Romania, ora Chernivtsi, Ucraina. Raisch emigrò nella Palestina del mandato britannico nel 1938 a causa del crescente antisemitismo, lasciando Raisch e suo fratello minore alle cure della madre. La città fu occupata dai sovietici nel 1940, poi dai rumeni e dai tedeschi nel 1941. La famiglia di Raisch fu inviata al campo di concentramento di Mărculești, poi marciato verso un certo numero di ghetti mentre altri prigionieri morivano intorno a loro di freddo. Raisch e sua madre riuscirono a sopravvivere fino a quando i sovietici non rioccuparono l'area nel 1944, poi si riunirono con suo padre in Israele nel 1946. Raisch divenne un tecnico wireless nell'IDF e dopo il servizio militare studiò ingegneria elettronica al Technion-Israel. Ha lavorato per molti anni per la società di tecnologia di difesa Rafael.
  La terza torcia è stata accesa da Judith Sohlberg: nata ad Amsterdam nel 1935. Sohlberg è cresciuta indossando una stella gialla dopo che la Germania ha occupato i Paesi Bassi nel 1940. Nel 1943, Sohlberg e la sua famiglia furono deportati nel campo di transito di Westerbork, quindi furono inviati a Bergen-Belsen. Nell'aprile del 1945 la famiglia fu stipata su un treno con gli altri prigionieri, viaggiando senza meta tra l'adiacente fronte orientale e quello occidentale. Molti prigionieri morirono sul treno prima che fosse liberato due settimane dopo dall'Armata Rossa vicino alla città di Tröbitz. Dopo aver viaggiato in Svizzera e aver incontrato il suo ex compagno di classe, Saul, che era sopravvissuto alla guerra nascondendosi con contadini cristiani, lo sposò e i due emigrarono in Israele nel 1959.
  Per la quarta toccherà a Robert Bonfil: figlio unico, nato nel 1937 a Karditsa, nella regione greca della Tessaglia. La Tessaglia fu occupata dall'Italia nel 1941 e nel 1943 i tedeschi arrivarono a Karditsa. Bonfil fuggì con i suoi genitori su un carro trainato da asini sotto una pioggia torrenziale, nascondendosi in una serie di villaggi di montagna sempre più remoti in un gioco al gatto col topo con i nazisti. Dopo la ritirata della Germania, la famiglia tornò a casa a Karditsa e scoprì che i membri della famiglia di sua madre erano stati deportati ad Auschwitz, dove furono assassinati. Bonfil sposò una sopravvissuta alla Shoah dalla Germania ed è immigrato con la sua famiglia in Israele nel 1968. È professore emerito di storia ebraica medievale e rinascimentale presso l'Università Ebraica di Gerusalemme.
  Efim Gimelshtein accenderà la quinta torcia. Nato in una famiglia tradizionale di lingua yiddish in Bielorussia nel 1935, Gimelshtein perse il padre nel 1941 quando i tedeschi invasero l'Unione Sovietica e fu reclutato nell'Armata Rossa, dove fu ucciso in battaglia. Tra il 1941 e il 1943, Gimelshtein e la sua famiglia furono imprigionati nel ghetto di Minsk, dove sopravvisse alle brutali forze di polizia e a diversi rastrellamenti. Nel 1943, Gimelshtein e la sua famiglia si nascosero per nove mesi, insieme a dozzine di altri, in un bunker sotterraneo costruito per contenere sette persone. Quando Minsk fu liberata dai sovietici nel 1944, 13 delle 26 persone nascoste nel bunker erano morte. Nel 1992, Gimelshtein e sua moglie sono emigrati in Israele. Oggi l’uomo si occupa di volontariato allo Yad Vashem e racconta la sua storia a gruppi di studenti di lingua russa.
  L’ultima fiaccola è stata acceda da Malka Rendel. Nata a Nagyecsed, Ungheria, la più giovane di una famiglia ortodossa di otto persone. Suo padre venne ucciso in un incidente prima della sua nascita. Quando i nazisti entrarono a Nagyecsed nel 1944, chiusero le imprese ebraiche e costrinsero gli ebrei a indossare la stella gialla. Nel maggio di quell'anno la famiglia fu inviata nel ghetto della vicina città di Mateszalka, dove l'intera famiglia allargata visse in un appartamento. Tre settimane dopo furono deportati ad Auschwitz. All'arrivo, Rendel e due delle sue sorelle furono mandate da una parte, mentre il resto della sua famiglia immediata fu mandata dall'altra. Le tre sorelle furono gli unici membri della famiglia a sopravvivere alle selezioni. Avrebbero trascorso il resto della guerra ai lavori forzati, prima in una cava di roccia vicino al campo di concentramento di Płaszów, poi in una fabbrica di paracadutisti a Neustadt. Con l'avvicinarsi dell'Armata Rossa, le sorelle furono inviate in una marcia della morte forzata al campo di concentramento di Gross-Rosen. Furono poi inviati a Bergen-Belsen, dove morirono le due sorelle di Rendel. Dopo la liberazione, Rendel è stata portata in Svezia, dove è stata ricoverata. Dopo il suo rilascio, si è imbarcata su una nave per rifugiati diretta a Israele, ma è stata catturata e imprigionata in un campo di detenzione britannico a Cipro. Alla fine, ha continuato a immigrare in Israele, dove è diventata un'insegnante. Dopo il suo pensionamento, ha insegnato l'ebraico ai nuovi immigrati.
  La cerimonia si è conclusa poi con la recitazione di un capitolo dei Salmi da parte del rabbino capo di Israele, il rabbino David Lau. il rabbino Yitzhak Yosef ha recitato il Kaddish, e il sopravvissuto alla Shoah Efraim Mol ha recitato El Maleh Rahamim, la preghiera ebraica per le anime dei martiri.

(Shalom, 18 aprile 2023)

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Il vizio antisemita dell'esperta (italiana) dell'Onu

È triste, proprio nel giorno della memoria della Shoah, che l'Università Ca' Foscari di Venezia pubblicizzi, con foto civettuola e compiacimento mediatico, un incontro con la "special rapporteur on the occupied palestinian territories" Francesca Albanese.

di Fiamma Nirenstein

È triste, proprio nel giorno della memoria della Shoah, che l'Università Ca' Foscari di Venezia pubblicizzi, con foto civettuola e compiacimento mediatico, un incontro con la «special rapporteur on the occupied palestinian territories» Francesca Albanese. Dispiace che sia italiana questa collezionista di luoghi comuni. La base ideologica della politica che ha portato allo sterminio degli ebrei, proprio ieri ha risuonato alla Ca' Foscari: la delegittimazione e la criminalizzazione degli ebrei oggi è travestita dalla più banale «damnatio» dello Stato d'Israele.
  Non spenderò parole su questa ultima incarnazione dell'antisemitismo: bastano i testi del professor Robert Wistrich. Antisemitismo oggi è la criminalizzazione di Israele, il ridurlo nei panni di uno stato colonizzatore, di apartheid, indegno di vivere la Albanese ne è campione. E non conosce remora, e questo fa vergogna, all'Onu, al suo Paese d'origine. Ne ha fatto anche oggetto di interrogazione il senatore Giulio Terzi di Sant'Agata, con i documenti di 4mila avvocati dell'International Legal Forum impegnato nel contrasto all'antisemitismo e nella promozione dei diritti umani, e di un gruppo bipartisan del congresso Usa. Chiedono all'alto commissario per i diritti umani Volker Turk di licenziare la fomentatrice di odio.
  L'Onu ha sempre scelto male, la maggioranza automatica ne fa una fucina di condanne per Israele e di finanziamenti ai palestinesi che finiscono in terrorismo e propaganda dell'odio. Ma Albanese è speciale: anche quando è stato ucciso Alessandro Parini, anche quando due ragazzine, Rena e Maya Dee, e la loro mamma sono state ammazzate la «rapporteur» riporta che Israele non ha diritto all'autodifesa. Albanese ha partecipato a varie iniziative di boicottaggio Bds, ha definito «difensori dei diritti umani» individui arrestati per terrorismo, ha comparato quella che i palestinesi chiamano la «nakba», cioè l'esodo del 1948 durante la guerra da essi iniziata, all'Olocausto, su questa linea indecente ha paragonato Hamas a Gaza agli ebrei del Ghetto di Varsavia, ha anche scritto che l'Europa e l'America sono soggiogate «dal senso di colpa e dalla lobby ebraica», difende i missili da Gaza, ha partecipato a conferenze con Hamas, ha lodato terroristi come Leila Khaled; sull'accusa di apartheid, la più assurda, sostiene che non è abbastanza. Albanese non accetta l'indubitabile appartenenza storica degli ebrei alla terra di Israele, a Gerusalemme. Per lei la sparizione di Israele è un obiettivo, ha detto che è stato creato «in Palestina», nome inventato dai romani dopo la distruzione del Tempio.
  Il modo in cui Albanese agisce vellica le speranze genocide, chiude la porta alla convivenza, ignora l'autocrazia e la corruzione in cui i palestinesi sono rinchiusi. È tempo che l'Onu abbandoni il gioco della Guerra Fredda, l'ammiccante propaganda antiebraica.

(il Giornale, 18 aprile 2023)

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Netanyahu perde popolarità. Solo un israeliano su quattro lo appoggia

I risultati di un sondaggio diffuso da Channel 13 vedono il partito Likud in terza posizione, con il suo leader criticato dal 71% degli intervistati

di Cecilia Scaldaferri

Forte calo di popolarità per il premier israeliano Benjamin Netanyahu: se si tenessero oggi elezioni, il suo partito Likud scivolerebbe in terza posizione dopo Unità nazionale di Benny Gantz e Yesh Atid di Yair Lapid. È il risultato di un sondaggio diffuso da Channel 13 che mostra il malcontento diffuso per l'operato del governo dopo solo tre mesi e mezzo in carica.
  Per il 71% degli intervistati, Netanyahu non sta facendo un buon lavoro (il 20% lo appoggia) e solo il 25% vuole che l'attuale maggioranza resti al potere, mentre il 33% vorrebbe nuove elezioni e un altro 33% un governo di unità tra Netanyahu e Gantz.
  In caso di voto oggi, il Likud passerebbe dai 32 seggi odierni in Parlamento a 20, un crollo mai visto in 17 anni (nel 2006 tocco il minimo storico con 12) mentre il partito di Gantz ne conquisterebbe 29, più del doppio degli attuali 12. In seconda posizione ci sarebbe Yesh Atid dell'ex premier Lapid che scenderebbe da 24 a 21.
  Con i numeri indicati nel sondaggio, l'attuale coalizione (l'unione di Likud, partiti ultraortodossi ed estrema destra) perderebbe la maggioranza e scenderebbe a soli 46 seggi mentre l'opposizione anti-Netanyahu ne raggiungerebbe 64, più che sufficienti per governare senza aver bisogno dei partiti arabo-israeliani Hadash-Ta'al e Balad.

(AGI, 17 aprile 2023)

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La visita in Israele del principe iraniano: una speranza per il futuro

d Ugo Volli

• L’Iran contro Israele
  Oggi l’Iran è il più accanito e pericoloso nemico di Israele. Non passa quasi giorno senza che la propaganda degli ayatollah non dica che Israele va distrutto, anzi è già vicino alla sua distruzione. Non è solo propaganda. L’Iran non è minacciato da nessuno dei suoi vicini, ma da molti anni lavora a costruire un armamento nucleare e ormai è riuscito a costruire missili che possono portare la bomba atomica. La loro portata è di almeno 1.500 chilometri, cioè superiore alla distanza che separa tutto Israele dal territorio persiano: non ci sono infatti fra i due stati confini comuni né rivendicazioni territoriali o economiche. Di più, l’Iran arma e finanzia i gruppi terroristici che cercano di insidiare la vita degli israeliani: non solo la Jihad Islamica, che è un’organizzazione direttamente dipendente da loro, ma anche Hamas e Hezbollah che ne dipendono ideologicamente oltre che militarmente, Fatah e gli altri gruppuscoli della galassia terrorista.

• Una relazione storica lunga e positiva
  Eppure la storia dei rapporti fra il popolo ebraico e la Persia (che fu ribattezzata Iran a metà del secolo scorso) sono sempre stati piuttosto buoni. Fu l’imperatore persiano Dario a permettere la ricostruzione di Gerusalemme che era stata distrutta dai babilonesi; nella corte persiana avvenne la storia di Ester, in cui alla fine il popolo ebraico riuscì ad avere la meglio sul progetto genocida del visir Aman, che la tradizione presenta come non persiano. Fino a che l’impero persiano non fu travolto dall’Islam gli ebrei poterono vivervi produttivamente e fondare le accademie talmudiche della Mesopotamia che era sotto il loro dominio. Anche dopo l’islamizzazione del paese, l’esilio persiano fu uno dei meno problematici. Alla fondazione dello stato di Israele, infine, e fino alla rivoluzione islamica vi fu un’alleanza di fatto fra Israele e l’Iran, che subivano entrambi l’ostilità degli arabi. Fu solo dopo che Khomeini rovesciò lo scià Mohammed Reza Pahlavi che il clero sciita diffuse l’odio per Israele e iniziò il progetto di una guerra di distruzione.

• Una visita di speranza
  Per questa ragione è molto significativa la visita in Israele su invito della ministra dell’Intelligence israeliana Gila Gamliel del figlio dello scià Reza Ciro Pahlavi in Israele, che inizia oggi. Il principe persiano sarà in Israele qualche giorno e parteciperà anche alle cerimonie di Iom haZicharon, che ricorda i caduti in azione delle forze armate israeliane e le vittime del terrorismo. La visita non può avere un carattere direttamente politico, perché Pahlavi è in esilio e non detiene alcun potere reale. Ma si tratta pur sempre di un simbolo importante, che molti persiani ricordano con nostalgia. Per Israele ricevere il figlio dello Scià con molti onori serve a dire ai persiani quel che Netanyahu ha spesso ripetuto in questi anni: il popolo israeliano non odia quello persiano, lo considera amico, è solidale con le sue sofferenze sotto il regime degli ayatollah e ha sempre mostrato solidarietà a chi si è ribellato alla loro oppressione: qualche anno fa il movimento verde e in questi mesi le donne, i beluci e gli altri coraggiosi combattenti per la liberà. Israele non ha rivendicazioni di sorta nei confronti dello stato persiano, desidera solo non essere aggredito dal suo governo e se possibile vorrebbe sviluppare buoni rapporti politici, economici e culturali. Per il principe Reza Ciro Pahlavi la visita serve a ribadire la possibilità di un’alternativa al regime islamista e a porsi come candidato a guidarla. In un momento di crisi in cui si parla sempre più spesso della possibilità di guerra fra Iran e Israele, ma anche di crisi del regime degli ayatollah, questa piccola speranza per il futuro è certamente utile e opportuna.

(Shalom, 17 aprile 2023)

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Israele e Marocco, progetti comuni di acquacultura sulle sponde dell’Atlantico

di Vincenzo Ferrara

Sono in arrivo investimenti da Gerusalemme nel Sahara Occidentale, territorio rivendicato dal Marocco. Gli israeliani infatti hanno annunciato un nuovo progetto di acquacultura, che segue altre iniziative comuni fra le istituzioni e le compagnie dei due Paesi.

• Acquacultura e maricultura
  Un’azienda israeliana, di cui ancora non è stato reso noto il nome, lancerà presto un progetto di aquacoltura nel Paese nordafricano. Ne ha dato l’annuncio alla Conferenza ONU sull’acqua del 22-24 marzo Ofir Akunis, ministro israeliano dell’Innovazione, della Scienza e della Tecnologia. A latere del congresso Akunis ha incontro il ministro marocchino per le Attrezzature e l’Acqua Nizar Baraka, per discutere della cooperazione bilaterale fra i rispettivi Paesi.
  A febbraio vi era stato  un accordo fra la compagnia israeliana AgriGo e l’Agenzia nazionale marocchina per l’agricoltura, per la creazione di un impianto di maricoltura nei pressi di Tangeri sull’oceano Atlantico. Nel marzo 2022 si era tenuto il primo simposio relativo ai temi dell’agricoltura e della piscicoltura, organizzato proprio dalla Camera di Commercio marocchino-israeliana (CCIMI).

• Normalizzazione delle relazioni
  Secondo il ministro Akunis, il nuovo progetto – così come i precedenti – è stato in definitiva reso possibile dagli accordi di Abramo del 13 agosto 2020, propiziati dall’amministrazione Trump. Con tale atto cominciava una fase di normalizzazione dei rapporti fra Israele e alcuni Paesi islamici. Con il Marocco in particolare, i contatti diplomatici sono ripartiti a pieno regime grazie al trattato del dicembre 2020.
  L’incontro durante la recente conferenza alle Nazioni Unite è stato il primo colloquio ufficiale fra i ministri dei due Paesi dopo la formazione dell’attuale governo Netanyahu, ma già in precedenza l’ex ministro israeliano dell’Economia Orna Barbivai aveva ribadito l’intenzione di Gerusalemme di costruire “la base per un partenariato strategico” con i nordafricani. Lo scorso dicembre, il presidente di Israele Isaac Herzog ha ringraziato il re del Marocco Mohammed VI per l’assistenza offerta dal suo Paese durante la Seconda guerra mondiale agli ebrei, salvandoli dall’Olocausto.

(Strumenti Politici, 17 aprile 2023)

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Le ultime parole dal ghetto in fiamme

di Fabiana Magrì

Una delle pagine manoscritte dal diario di un membro della Jewish Fighting Organization nel ghetto di Varsavia
Tra le testimonianze scritte più preziose risalenti ai giorni della rivolta del ghetto di Varsavia, vi sono quelle svelate al pubblico dagli archivisti del museo Beit Lohamei Ha-Getaot dieci anni fa. Noam Rachmilevitch, responsabile dell’archivio, ha spiegato a Shalom il valore di due manoscritti in particolare. Entrambi in polacco e anonimi per questioni legate alla sicurezza di chi temeva di essere identificato, contengono vividi resoconti della vita e delle attività durante l’insurrezione compiuta dalla popolazione ebraica tra il 19 aprile e il 16 maggio 1943 contro le autorità tedesche nella capitale polacca occupata.
  La cronaca da un bunker in via Mila è raccolta nelle dieci pagine del diario attribuito a un membro della ZOB, l’Organizzazione combattente ebraica clandestina, scritto con uno stile che l’archivista definisce “di buona qualità letteraria”. Nel sesto giorno della rivolta, il 24 aprile 1943, quando il Brigadeführer Jürgen Stroop diede ordine di incendiare il ghetto, si legge: “Tutto tranquillo fino alle 12. "Allerta", i tedeschi sono dentro casa nostra. È passato senza incidenti. Continuiamo a dormire. […] Sono le 20. Si sentono dei passi fuori dal rifugio. Qualcuno bussa al “judasz”. Per diversi minuti c'è un'ansia immensa. Le persone che bussano alla porta sono il signor Rosenheim e la signora Sonia. Ci avvertono che sta bruciando. Tutti i giovani escono nel cortile. L'edificio sta andando a fuoco. La facciata dell'edificio è stata incendiata. Gli appartamenti stanno bruciando. Iniziamo a combattere il fuoco. […] Nel pomeriggio i tedeschi hanno nuovamente incendiato la casa. Non la parte superiore dell'edificio, ma il pavimento sopra il rifugio antiaereo, il nostro nascondiglio principale. Abbiamo deciso di non spegnere l'incendio. Noi stessi abbiamo bruciato le scale che portavano al nostro seminterrato e abbiamo dato fuoco a legna e materiali infiammabili che giacevano intorno al cortile e agli appartamenti. Alle 6 del mattino andiamo a dormire. Il ghetto sta andando a fuoco”. Prezioso anche lo schema del bunker, tratteggiato in una mappa dall’autore il 5 maggio, in cui sono indicati la batteria di difesa, l’ingresso sotterraneo, le cuccette per sdraiarsi, il condotto principale dell’aria, il pozzo, quattro piastre elettriche, il lavabo, il muro dell'edificio, il cancello e il “judasz” (l’ingresso mimetizzato). “Viviamo il giorno, l'ora, il momento”, con queste parole fatali, termina il diario.
  La seconda testimonianza è stata redatta da una combattente di cui non si sa nulla se non l’indirizzo dove era rifugiata. Il suo diario è "speciale e unico”, secondo Rachmilevitch, perché scritto durante la liquidazione del ghetto. La donna descrive in termini molto “fisici” - i rumori, il fumo - ciò che vede ogni giorno, anche più volte al giorno, da una piccola finestra. “Dobbiamo sopravvivere, speriamo di sopravvivere. Lottiamo per la giustizia e per il diritto alla vita”, sono le sue ultime parole.

(Shalom, 17 aprile 2023)

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«Le vittime del vaccino aumentano»

La fondatrice del Comitato Ascoltami: «Vogliamo essere ricevuti in Parlamento, le istituzioni non possono cancellare le nostre vite. Io da due anni brucio, c'è chi è morto. Prima della puntura servivano esami mirati» 

di Marianna Canè 

«Perché la magistratura non si è ancora attivata? Spero che qualcosa si stia muovendo, perché tutti noi danneggiati dal vaccino contro il Covid abbiamo bisogno di risposte, verità e giustizia, oltre ovviamente di diagnosi e terapie». Federica Angelini da quasi due anni si batte per squarciare il velo di omertà sui danni da vaccino e proprio per questo ha fondato il Comitato Ascoltami che riunisce le vittime di effetti avversi e che ad oggi conta oltre 4.000 iscrizioni. 

- Federica, siete ancora in attesa di diagnosi e cure? 
  «Purtroppo c'è il più totale immobilismo da parte delle istituzioni, quelle stesse che ci hanno chiesto di vaccinarci ora ci hanno abbandonato. E alla luce dei documenti che state pubblicando e che sta mostrando Fuori dal Coro, mi chiedo come sia possibile che nulla si muova. È tutto fermo, stanno tutti zitti. Sembra che quello che è accaduto debba essere nascosto, come hanno voluto nascondere anche la nostra esistenza». 

- C'è molta indignazione nelle sue parole. 
  «Tutto è stato coperto da un terribile silenzio, a partire dai dati degli effetti avversi. Se l'obiettivo è la tutela della salute pubblica, perché celare informazioni importanti? Ed è sconvolgente rendersi conto di quanta superficialità ci sia stata nelle valutazioni. Penso ad esempio alla farmacovigilanza: se i dati sono stati nascosti per tutelare le persone ed evitare il panico, e non per paura che qualcosa venisse alla luce, allora perché si è solo fatta un'analisi passiva?». 

- Con la sorveglianza attiva le cose sarebbero andate diversamente? 
  «Senza dubbio. Perché approfondendo i casi, seguendo le persone danneggiate, ci sarebbe stata almeno una speranza di poter guarire. Invece così siamo lasciati nell'oblio, e non è giusto. Non ci sono giustificazioni per non aver avviato programmi di sorveglianza attiva quando già sapevano che gli effetti avversi si stavano verificando e potevano essere gravi. Stesso discorso vale per le analisi preventive». 

- Intende prima di sottoporsi alla vaccinazione contro il Covid? 
  «Se prima di invitare la gente a vaccinarsi, avessero evidenziato determinate patologie come rischiose e avessero suggerito degli esami preventivi, non si sarebbero potuti evitare dei danni? Le parlo del mio caso: io sono stata vaccinata con AstraZeneca e da due anni brucio. Il mio male non dorme mai, non mi lascia tregua. Recentemente ho scoperto che ho delle mutazioni genetiche che potrebbero aver causato questa reazione avversa, se avessi fatto prima delle analisi mirate avrei potuto evitare il danno». 

- Secondo lei quindi molti danni potevano essere evitati? 
  «lo penso che un comportamento corretto e davvero interessato a preservare la salute di tutti, sarebbe stato chiedere degli esami preventivi, ad esempio nel questionario che facevano compilare. E poi, se qualcuno segnalava dei danni, monitorare in maniera attiva il caso. Studiarlo anche per migliorare la sicurezza del vaccino stesso. Invece niente di tutto questo è mai stato fatto. Qualcuno dovrà rispondere di queste mancanze per rispetto ai danneggiati e per rispetto a chi è morto, perché non dobbiamo dimenticare che c'è anche chi ha perso la vita per il vaccino» . 

- Sta pensando a qualcuno in particolare? 
  «Purtroppo sì. Da pochi giorni la nostra Jolanda è volata in cielo. Era una persona felice e solare prima di fare quella puntura. Si è ammalata di Sla poco dopo, l'ha aggredita ad una velocità fulminante. È stato un declino molto rapido. E non è l'unico caso. Eppure nessuna istituzione si fa carico di studiare che rapporto c'è tra il vaccino e la Sla, come mai? Lei è morta prima di avere delle risposte, io sono qui proprio per averle, anche per lei e per tutti i danneggiati». 

- Che progetti avete? 
  «Adesso l'obiettivo è chiedere una audizione in Commissione Sanità perché devono darci delle risposte, soprattutto alla luce di tutto quello che sta emergendo. È arrivato il momento di rompere quel muro di silenzio e omertà, le istituzioni non possono più far finta di non vedere che qualcosa è accaduto, ed è anche grave. Purtroppo siamo tanti e con la correlazione certificata da medici, scritta nero su bianco. E continuiamo ad aumentare, non possono e non devono più ignorarci». 


INTERVISTE

Jenny Lopresti (comitato guariti)
Dario Giacomini (sanitari sospesi)
«Nei guariti inoculati più eventi avversi. Ma l’Aifa ha taciuto»

L'avvocato: «Pronta un'azione legale dopo le rivelazioni a ''Fuori dal Coro?»

«In questi anni non abbiamo mai avuto risposte dalle istituzioni e da quello che sta emergendo le risposte le stiamo capendo da soli». Ci accoglie nel suo studio a Treviso, l'avvocato Jenny Lopresti, referente del Coordinamento Comitati dei guariti che da quasi due anni si sta battendo in prima linea per la sospensione della campagna vaccinale per chi ha già superato il Covid.

- Avvocato, a quali risposte vi riferite?
  «I documenti pubblicati da Fuori dal Coro e dalla Verità finalmente ci fanno capire il perché in questi anni di pandemia siamo stati ignorati da Aifa e dal ministero della Salute. Li abbiamo diffidati più volte a proseguire la campagna vaccinale per i guariti. Ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta, pensavamo che il silenzio fosse dovuto al fatto che non sapevano cosa dirci, ma non era così».

- Non hanno risposto volutamente?
  «E proprio questo il punto. Da quanto è emerso è evidente che quando noi abbiamo posto le domande sull'opportunità di vaccinare i guariti, l' Aifa già sapeva che poteva essere pericoloso, ma non ci hanno mai risposto e lo hanno fatto in maniera consapevole. Alla luce di tutto questo i nostri atti diventano delle prove, testimonianze evidenti che hanno volutamente ignorato il tema dei guariti. E per questo che adesso speriamo che le nostre diffide entrino in un fascicolo di indagine civile, penale o di una commissione di inchiesta».

- Quindi secondo lei i guariti sono la prova che alcune verità sono state volutamente messe a tacere?
  «Sono la pistola fumante della narrazione distorta di questa campagna vaccinale. Perché se tutto ciò che non riguarda i guariti si può giustificare con la necessità di salvare le persone, per chi ha già superato la malattia questa motivazione non sta in piedi. Anzi, la tutela della salute si sgretola alla luce di oltre 1.200 studi in cui si dimostra che non ha alcun senso vaccinare i guariti e può essere persino pericoloso».

- Perché aumenta la probabilità di sviluppare effetti avversi?
  «Purtroppo sì, ma anche questo continua ad essere ignorato. Ci sono studi che dimostrano che un guarito ha il 60% di possibilità in più di sviluppare un danno da vaccino e il 50% in più di manifestare una miocardite grave. Allora noi ci chiediamo, come è possibile che tutto questo sia stato e continui ad essere ignorato?»,

- Avete in mente di intraprendere altre azioni legali?
  « Noi vogliamo giustizia, per questo stiamo preparando una nuova azione legale sulla base delle rivelazioni su Aifa. La battaglia può essere lunga, ma non ci fermeremo mai».

«L’Ordine dei medici ha fatto solo politica. Adesso risarciteci»

Il dottore: «Quello che dicevamo era già nello studio Pfizer. Nessuno ci ascoltò»

Il dottor Dario Giacomini fondatore dell'associazione ContiamoCi! che riunisce i sanitari sospesi perché non vaccinati contro il Covid, chiede che nella futura commissione di inchiesta si prendano in considerazione anche le responsabilità degli organi tecnici, come Aifa, Cts e ordini professionali. Lo incontriamo a Vicenza, dove lavora.

- Dottore, come mai questa richiesta?
  «Perché in questi anni hanno taciuto delle informazioni fondamentali e così facendo hanno creato un danno di salute, di fiducia ed economico a chi è stato sospeso e danneggiato. Noi sanitari abbiamo sempre voluto sottolineare i dubbi che avevamo riguardo alla campagna vaccinale e agli elementi che c'erano per avviarla. A causa di questo siamo stati denigrati, perseguitati, eppure dicevamo delle cose sotto gli occhi di tutti».

- A cosa si riferisce?
  «Nello stesso studio iniziale di Pfizer, che è sempre stato pubblico, la casa farmaceutica sottolineava che la sperimentazione non era finita e che erano state escluse determinate categorie come fragili, immunocompromessi e donne in gravidanza. Tutto questo è stato ignorato. Non sono stati fatti studi neanche sull'efficacia. Eppure su queste mancanze è calato il più assoluto silenzio delle istituzioni, ordini professionali compresi».

- E alla fine nessuno vi ha ascoltato.
  «Non sono state mai prese in considerazione tutte le segnalazioni fatte da studiosi, professori universitari, associazioni. La vaccinazione era intoccabile. Quando la poni in questi termini non è più una questione medica o scientifica, e io credo che è sempre e solo stata una questione politica».

- Le decisioni prese in campagna vaccinale erano più basate sulla politica?
  «Basta guardare come si è comportato l'ordine dei medici: è stato un mero esecutore delle direttive politiche, senza neanche sollevare dei dubbi. Ha sospeso i sanitari, emesso provvedimenti disciplinari a chi sollevava delle perplessità sulla campagna vaccinale. Si è creato un clima di terrore. lo penso che tutte quelle figure a cavallo tra politica e medicina debbano rispondere di quello che è successo, dimettersi e restituire quello che è stato tolto, anche a livello economico».

- Gli stipendi non corrisposti per via delle sospensioni?
  «Certamente. Alla luce di quello che sta emergendo noi chiediamo che vengano riconosciuti gli stipendi non ricevuti, i contributi previdenziali e il fatturato non incassato per chi svolgeva la libera professione. Soldi dovuti perché alla base di tutta la gestione c'è stata un'enorme omissione che ha permesso di attuare tutte le politiche di discriminazione e la perdita del lavoro per quasi due anni».


(La Verità, 17 aprile 2023)

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Istruzione ebraica: come funziona

di Angela Miranda 

L’istruzione ebraica è fondamentale nella cultura semitica, è un processo di formazione morale e spirituale, centrato sullo sviluppo della virtù e della giustizia. Si basa sullo studio e la pratica dei comandamenti e sullo sviluppo del rispetto e aiuto dei poveri.
  Dalla Scrittura si evince che Mosè, figura centrale nella religione ebraica, fu il primo a ricevere la Torah dal Dio ebraico Yahweh sul monte Sinai e trasmise poi queste leggi a tutto il popolo. Non è possibile identificare il primo insegnante ebreo, ma Mosè viene considerato il primo profeta poiché i suoi insegnamenti hanno influenzato la cultura ebraica. Dopo Mosè ci furono il re Davide, il profeta Isaia, il re Salomone e molti altri.
  Nella società ebraica diversi attori sono presenti nel processo educativo: la famiglia, la scuola, scribi, sapienti, sacerdoti e profeti. L’istruzione ebraica inizia fin dalla tenera età, quando si insegna ai bambini ad amare Dio, a rispettare la comunità e a seguire i comandamenti. Attraverso l’educazione gli studenti imparano la lingua e lo studio dei testi sacri tra cui la Torah. Questo processo avviene nelle sinagoghe e nelle scuole ebraiche.
  L’educazione ebraica è definita un processo continuo e duraturo: anche gli adulti sono incoraggiati all’apprendimento religioso. Le prime scuole ebraiche risalgono al 516 a.C. In esse ci si riuniva per insegnare la Torah e le leggi ebraiche e per discuterne. Tra il I e il IV secolo d.C., le scuole diventarono dei centri di studio e di insegnamento della Torah e delle leggi ebraiche.
  L’istruzione ebraica si divide in:

  • Chedar: istruzione base, per studenti dai 5 ai 13 anni. In questi anni si studiano la lingua, la Torah e le preghiere;
  • Yeshiva: istruzione avanzata, durante la quale si studiano le leggi, la filosofia e la teologia. In alcune comunità ci sono classi separate per genere, in altre sono miste;
  • Ulpan: è un corso per adulti, nel quale si impara la lingua e la cultura ebraica;
  • Scuole pubbliche: in molti paesi viene data la possibilità di avere un’istruzione generale oltre a quelle della lingua ebraica e della religione. In queste scuola sono incluse materie come la matematica, le scienze e le lingue.

I testi sacri insegnati nelle scuole sono: la Torah, il testo centrale, che contiene i cinque libri di Mosè e nel quale vengono spiegate la creazione del mondo, la storia degli antenati ebrei, le leggi divine; i Nevi’im, in cui sono contenute la storia e le profezie dei profeti; i Ketuvim, in cui sono conservate le scritture storiche.
  Ad oggi, l’istruzione è obbligatoria fino all’età di 16 anni anche se molti decidono di continuare. È importante considerare la differenza nell’istruzione tra uomo e donna: ad oggi questa disparità si tra riducendo, ma in passato solo gli uomini avevano la possibilità di apprendere la Torah e le leggi ebraiche mentre le donne erano addette alle mansioni domestiche e all’educazione dei figli. Le donne venivano istruite a casa e potevano frequentare solo le scuole locali.

(Eroica Fenice, 16 aprile 2023)

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Netanyahu nega coinvolgimento Mossad nelle proteste

Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha respinto domenica le insinuazioni attribuite alla CIA secondo le quali alti membri della leadership del Mossad avrebbero incoraggiato le proteste contro la revisione giudiziaria del governo Netanyahu.
  Le informazioni provengono da un documento trapelato nell’ambito di una serie di file sulla sicurezza degli Stati Uniti che hanno fatto rivelazioni di vasta portata sugli alleati e i nemici di Washington. Chuck Todd, conduttore di “Meet the Press” della NBC, ha chiesto a Netanyahu: “Uno di questi documenti trapelati indica che il Mossad, la versione israeliana della CIA, raccomanda ai suoi membri di protestare contro l’attuale governo. Lei crede che il Mossad si opponga al suo governo?”.
  “Io no”, ha risposto il primo ministro. “Stimo un po’ di più l’intelligence americana e penso che probabilmente conoscano la verità”. E ha aggiunto: “La verità è che il consulente legale del Mossad ha detto che, secondo la legge israeliana, i membri junior del Mossad possono partecipare alle manifestazioni, non i membri senior. Questo è, credo, ciò che ha portato a questo malinteso. No, penso che il Mossad, i militari, i servizi di sicurezza interni, stiano lavorando fianco a fianco con me come primo ministro per assicurare la sicurezza del Paese, e stanno facendo un ottimo lavoro”.
  Netanyahu ha anche negato qualsiasi tensione con l’amministrazione Biden, settimane dopo che il presidente degli Stati Uniti aveva espresso opinioni molto discordanti rispetto a quelle del primo ministro israeliano rispetto alla riforma giudiziaria.

(Rights Reporter, 16 aprile 2023)

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Netanyahu rende omaggio a Parini sul luogo dell'attentato

Il premier israeliano ha deposto una corona di fiori rossi accanto ad un mazzo di gigli portati dall'ambasciatore italiano

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Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, insieme alla moglie Sarah, oggi si è recato sul luogo dell'attentato di Tel Aviv del 7 aprile per deporre una corona di fiori alla memoria di Alessandro Parini, il giovane italiano rimasto ucciso nell'attacco, compiuto da un arabo israeliano. Era presente l'ambasciatore italiano in Israele, Sergio Barbanti. Il premier ha deposto una corona di fiori rossi accanto ad un mazzo di gigli portati dall'ambasciatore italiano. Netanyahu si è intrattenuto sul posto per venti minuti assieme a Barbanti al quale ha rinnovato la solidarietà di Israele nei confronti dell'Italia per la perdita della vita di Parini. Il premier - ha raccontato l'ambasciatore - si è informato sulla vita del giovane italiano e del perché si trovasse in Israele, mostrando grande partecipazione e commozione per l'accaduto. Infine ha pregato Barbanti di trasferire i suoi saluti alla premier Giorgia Meloni. "Siamo rimasti molto toccati dal tributo giunto dal premier Netanyahu e dalla moglie Sarah nel luogo dove Parini è stato ucciso", ha poi commentato l'ambasciatore Barbanti. "Italia ed Israele sono unite da amicizia e solidarietà, contro il terrorismo", ha sottolineato il diplomatico.  

• Presente anche il poliziotto che neutralizzò l'attentatore
  Alcuni giorni fa l'ufficio di Netanyahu aveva anche fatto pubblicare sulla stampa locale un annuncio funebre in cui stabiliva che "il governo ed il popolo di Israele sono a lutto per la morte di Alessandro Parini, sia benedetta la sua memoria, cittadino italiano ucciso in un attentato da un maledetto terrorista". In quell'attacco sono rimasti feriti anche sette turisti, fra cui cittadini italiani e britannici.Nella delegazione che ha accolto il premier israeliano Benyamin Netanyahu sul luogo dell'attentato c'era anche il poliziotto che venerdì scorso neutralizzò l'attentatore arabo israeliano. E' stato lo stesso poliziotto - rispondendo ad una domanda del premier - a raccontare come si sono svolti i fatti e come sia intervenuto sul posto colpendo poi l'autore dell'attacco.   

• La visita al rabbino
  In precedenza Netanyahu si era recato anche nell'insediamento ebraico di Efrat (presso Betlemme, in Cisgiordania) per una visita di condoglianza al rabbino Leo Dee, in seguito alla perdita della moglie e delle due figlie nell'attentato avvenuto nella valle del Giordano. Anche quell'incontro ha avuto momenti di commozione quando una delle figlie del rabbino ha chiesto a Netanyahu cosa avesse provato lui stesso nell'apprendere della morte del fratello Yoni Netanyahu durante un'operazione di commando in Uganda nel 1976. Il premier ha cercato di trovare per lei parole di conforto, per poi concludere con una citazione rabbinica: ''La Terra d'Israele si riscatta mediante sofferenze''.

(SkyTG24, 16 aprile 2023)

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Israele e la riforma della giustizia, l’economia chiede il compromesso

L’attesa è per fine aprile quando la Knesset tornerà ufficialmente al lavoro. Per allora il presidente d’Israele Isaac Herzog spera di riuscire a trovare un compromesso sulla riforma della giustizia del governo Netanyahu. Presso la sua residenza a Gerusalemme in queste settimane Herzog sta ospitando le diverse delegazioni dei partiti di maggioranza e opposizione con l’obiettivo di raggiungere un’intesa sulla contestata riforma. “È un potenziale momento costituzionale”, le sue parole in una recente intervista ai media internazionali. “Un momento in cui possiamo indirizzare Israele ad avere una struttura più forte e solida”. Al momento la maggioranza guidata dal Premier Netanyahu ha sospeso l’approvazione della revisione – volta in particolare a limitare il potere della Corte Suprema – dopo le proteste che hanno coinvolto realtà molto diverse della società israeliana. Proteste che proseguono a Tel Aviv dove nel fine settimana è andata in scena per la quindicesima volta un’altra manifestazione contro il governo. Quest’ultimo ha preparato il terreno per poter approvare in una giornata il pacchetto delle riforme e potrebbe accadere nel caso in cui i negoziati dovessero fallire. Herzog a riguardo ha detto di “non essere un ingenuo” e di essere dunque consapevole della fragilità dei negoziati. “Ma c’è ancora una possibilità”, la sua valutazione.
  Nel frattempo a preoccupare il mondo economico del paese è arrivata la decisione dell’agenzia di rating Moody’s di abbassare l’outlook sul debito israeliano da “positivo” a stabile, affermando che le riforme previste potrebbero indebolire le istituzioni del paese. “Il modo in cui il governo ha tentato di attuare una riforma ad ampio raggio senza cercare ampio consenso indica un indebolimento della sua solidità istituzionale e della prevedibilità politica”, si legge nel comunicato di Moody’s. “Di conseguenza, i rischi sul rating di Israele portano a un outlook stabile”. L’agenzia internazionale di valutazione del credito ha mantenuto però il rating ad A1.
  Alla notizia della decisione di Moody’s hanno reagito il Primo ministro Netanyahu e il suo ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. In un comunicato congiunto, diffuso al termine di shabbat, hanno dichiarato che “gli analisti dell’agenzia di rating Moody’s riconoscono correttamente la forza dell’economia israeliana in tutti gli indici e la corretta e responsabile leadership economica che conduciamo, con la saggia gestione della spesa pubblica e l’avanzamento delle riforme che favoriscono la crescita”. Rispetto alle preoccupazioni dell’agenzia sulla stabilità del paese a causa della riforma, Netanyahu e Smotrich le considerano dovute a una mancanza di conoscenza della “forza della società israeliana”. E aggiungono: “L’economia israeliana è stabile e solida e con l’aiuto di Dio rimarrà tale”. Un forum che raccoglie alcuni dei principali economisti e uomini d’affari israeliani ha molto criticato la risposta del governo. L’ha definita “estremamente preoccupante e scollegata dalla realtà”. Secondo queste voci è “strano” che Premier e ministro delle Finanze interpretino in modo positivo il rapporto di Moody’s perché i punti positivi di quest’ultimo “riguardano la capacità della società israeliana di opporsi alle misure del governo, mentre tutti i punti negativi riguardano i piani del governo”.
  L’agenzia di rating nel suo documento mette in evidenza come l’esecutivo abbia “ribadito la sua intenzione di cambiare le modalità di selezione dei giudici. Ciò significa che permane il rischio di ulteriori tensioni politiche e sociali all’interno del Paese”. Tensioni, si avverte, che rischiano di indebolire ulteriormente l’economia nazionale. Da qui l’invito a trovare un’intesa, obiettivo su cui si concentrano gli sforzi del presidente Herzog.

(moked, 16 aprile 2023)

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Missione verso Giove: avanzata tecnologia israeliana a bordo della sonda

di Jacqueline Sermoneta

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Israele ha dato un significativo contributo alla missione verso Giove appena partita. Gli avanzatissimi strumenti a bordo della sonda JUICE (sigla di JUpiter ICy moons Explorer, ‘esploratore delle lune ghiacciate di Giove’) dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA) sono stati realizzati non solo grazie alla comunità scientifica e all’industria italiana ma anche attraverso diverse cooperazioni internazionali, fra cui l’Agenzia Spaziale Israeliana (ISA).
  La sonda, lanciata giovedì scorso dallo spazioporto di Kourou, nella Guyana francese, a bordo del razzo vettore Ariane 5, percorrerà 750 milioni di chilometri per raggiungere Giove entro il 2031. Dopodiché per quattro anni esplorerà il gigante dei pianeti e le sue lune ghiacciate Ganimede, Europa e Callisto.
  Tra i più innovativi dispositivi a bordo, un oscillatore ultrastabile, realizzato da un team del Dipartimento di Scienze della Terra e dei pianeti del Weizmann Institute of Science, guidato dal Prof. Yohai Kaspi e dal Dr. Eli Galanti. Questo strumento, il più preciso e avanzato del suo tipo al mondo, permetterà un’indagine accurata dell'atmosfera di Giove. Prodotto dalla società israeliana AccuBeat, è stato finanziato dall’Agenzia Spaziale Israeliana.
  "Questo non è il nostro primo coinvolgimento in missioni spaziali internazionali, ma il fatto che si tratti di una creazione completamente israeliana lo rende molto speciale per noi" ha affermato Kaspi, come riporta Arutz Sheva. Il gruppo di ricerca del Weizmann ha iniziato a lavorare al progetto nel 2013, non appena l'ESA ha annunciato la missione. "Quando mi sono avvicinato per la prima volta all'Agenzia Spaziale Israeliana con l'idea di costruire l'oscillatore, sembrava un compito impossibile, ma l'impegno dell'Agenzia e la sinergia tra l'industria e del mondo accademico lo hanno reso possibile" ha aggiunto Kaspi.
  "L'Agenzia Spaziale Israeliana - ha detto Uri Oron, direttore dell'ISA - è orgogliosa di prendere parte a questa importante missione dell'Agenzia Spaziale Europea, sia in termini di ingegneria e tecnologia, sia di ricerca. Lo studio, condotto presso l’Istituto Weizmann, costituirà indubbiamente una componente chiave nel programma e continuerà a far progredire la ricerca spaziale in Israele, collocandolo tra i leader mondiali del settore".
  Gli scienziati del Weizmann, inoltre, parteciperanno all’osservazione dei tre satelliti, a cui potranno dare il loro contributo grazie alla loro esperienza. Le lune gioviane, completamente ghiacciate, potrebbero rappresentare il più grande deposito di acqua del sistema solare. La ricerca, quindi, è fondamentale per la conferma dell’esistenza di oceani sotterranei e, in tal caso, indicare anche la possibilità di condizioni favorevoli allo sviluppo di forme di vita.

(Shalom, 16 aprile 2023)

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