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Notizie 1-15 dicembre 2015


Cooperazione tra Hamas e Isis nel Sinai

Decine di migliaia di dollari per contrabbando di armi.

L'ala militare di Hamas a Gaza, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, ha trasferito lo scorso anno, tramite emissari, decine di migliaia di dollari al mese alla branca dell'Isis nel Sinai. Lo afferma il sito Ynet secondo il quale il passaggio di contante non è che uno dei fattori della "cooperazione strategica e militare tra i due gruppi". Hamas - ha aggiunto il sito - sta pagando i militanti dell'Isis in Egitto per assicurarsi che carichi di armi siano contrabbandati dal Sinai alla Striscia. Tra le armi - ha continuato Ynet - c'è anche il propellente esplosivo che serve ad Hamas per lanciare i razzi verso Israele.

(ANSA, 15 dicembre 2015)



Germania - Arrestato il fondatore della "polizia della sharia"

In manette il predicatore salafita convertito all'islam: è accusato di aver collaborato con un'organizzazione terroristica affiliata a Isis. Avrebbe fornito denaro ed equipaggiamento ai jihadisti.

di Giovanni Masini

Sven Lau
La polizia tedesca ha fatto arrestare questa mattina Sven Lau, il predicatore salafita tedesco noto tra l'altro per avere fondato la cosiddetta "polizia della Sharia", nel settembre 2014 a Wuppertal (che di recente, però, è stata dichiarata legale).
Il sospetto degli inquirenti, riferisce lo Spiegel, è che l'uomo abbia sostenuto un'organizzazione terroristica in Siria. L'arresto è avvenuto questa mattina a Mönchengladbach, città di cui Lau - ora noto col nome islamico di Abu Adam - è solito predicare.
L'ufficio federale del procuratore sospetta che Lau abbia supportato l'organizzazione al-Muhadschirin Dschaisch wal-Ansar (Jamwa), legata allo Stato Islamico. Secondo gli inquirenti Lau avrebbe operato come riferimento dell'organizzazione in Nord-Reno Westfalia, lo Stato federato tedesco dove risiede e lavora. Avrebbe fornito supporto economico e logistico a due jihadisti, tra cui tre visori notturni per un valore di 1440 euro. Lau è noto, tra le altre cose, per essersi recato in Siria più volte nel corso degli ultimi cinque anni. L'avvocato di Lau per il momento si è rifiutato di commentare.
Soddisfazione invece è stata espressa dal ministro degli Interni del Land Nord-Reno Westfalia, Ralf Jäger: "Lau è uno dei leader della scena salafita in Germania, che avrebbe attirato molti giovani verso il radicalismo - ha commentato soddisfatto - La legge tedesca si impone."

(il Giornale, 15 dicembre 2015)


Netanyahu dispone fortificazioni alle fermate degli autobus a Gerusalemme

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat hanno promesso di rafforzare la sicurezza nelle fermate degli autobus dopo che un palestinese di Gerusalemme Est ha investito con la sua auto un gruppo di israeliani, ferendo 14 persone, tra le quali un bambino che resta ancora in condizioni critiche. L'incidente è avvenuto ieri pomeriggio alle porte di Gerusalemme. Dopo l'attacco, Netanyahu ha convocato una riunione di emergenza con Barak, con il ministro della Pubblica sicurezza Gilad Erdan e il ministro dei Trasporti Yisrael Katz. Durante l'incontro, Netanyahu ha disposto di rafforzare i controlli alle fermate degli autobus a Gerusalemme, in base a una lista che verrà formulata da parte della polizia e del ministero dei Trasporti. Barkat ha detto che il comune ha elaborato un piano per rafforzare centinaia di fermate dei mezzi pubblici nelle zone "a rischio" con un investimento di circa due milioni di shekel (circa 519.000 dollari). Secondo il sindaco, il piano può essere attuato in un mese.

(Agenzia Nova, 15 dicembre 2015)


Nessuna violazione dei diritti umani a Gaza da parte di Israele, dice un report dell'HLMG

Il rapporto ha evidenziato come lo stato israeliano ha rispettato il diritto dei conflitti armati durante la guerra dei Cinquanta giorni nell'estate del 2014. Violazioni accertate invece da parte di Hamas.

di Gabriele Carrer

Le forze armate israeliane non solo hanno rispettato il diritto dei conflitti armati durante la guerra dei Cinquanta giorni nell'estate del 2014, ma hanno persino superato i parametri minimi previsti dalle norme internazionali. È quanto emerge dal rapporto di ottanta pagine intitolato "An assessment of the 2014 Gaza conflict" redatto da undici alti ufficiali in pensione del gruppo High Level Military Group provenienti da Australia, Colombia, Francia, Germania, India, Italia, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti. La squadra, di cui fa parte anche il generale italiano Vincenzo Camporini - ex capo di stato maggiore dell'Aeronautica e della Difesa -, non ha riscontrato alcuna violazione dei diritti umani da parte dell'esercito israeliano. "Abbiamo descritto le evidenze che abbiamo documentato - dichiara il generale Camporini al Foglio. Non ho idea delle fonti citate da altre testimonianze che reputo fuori dalla realtà".
  Il documento è stato pubblicato dalla Friends of Israel Initiative, il gruppo fondato nel 2010 per volontà dell'allora premier spagnolo José María Aznar al fine di combattere una "campagna di delegittimazione senza precedenti ai danni Israele". Già all'inizio di quest'anno il gruppo HLMG aveva presentato le proprie conclusioni dinnanzi alla Commissione Diritti Umani dell'ONU. Questo rapporto, frutto di indagini sul campo da parte degli esperti, ha rinnovato la difesa dell'operato di Israele nella Striscia di Gaza nel conflitto del 2014, nonostante le stesse Nazioni Unite assieme a numerose ong avessero accusato lo stato ebraico di crimini contro l'umanità. "Crimini contro l'umanità e genocidi", scrive nella prefazione Rafael L. Bardaji, direttore della Friends of Israele Initiative, "sono gli strumenti della lawfare, la guerra asimmetrica fatta di abusi di norme e procedure internazionali, portata avanti dagli oppositori di Israele". Una guerra combattuta "per raggiungere obiettivi strategici che non possono essere raggiunti con mezzi politici e militari", con armi "nelle mani dei nostri nemici che cercano di limitare e bloccare la capacità degli eserciti occidentali di perseguire i nostri interessi di sicurezza nazionale".
  Il punto di partenza dell'analisi degli eventi è la necessità di scegliere quale sia il diritto applicabile conflitto dei Cinquanta giorni: non le leggi sui diritti umani bensì quelle sui conflitti armati (Law Of Armed Conflict). "L'Occidente - continua il generale Camporini - quasi due secoli fa ha cercato di darsi delle regole per rendere il meno disumano possibile un conflitto armato. Sono regole in linea con le carte più importanti, in primis quella dell'Onu, che quando applicate proteggono civili e infrastrutture civili. O si applicano queste regole oppure si sfocia nell'opinabile e nell'emozionale. E purtroppo l'emozionale serve solo a calmare le anime belle ma non a regolare la convivenza civile tra popoli in conflitto". Il rispetto delle leggi dei conflitti armati è il vero problema delle guerre asimmetriche di quest'epoca, sostiene il generale Camporini: "Sfruttare edifici in linea di principio intoccabili, come luoghi di culto e scuole, per crearsi un vantaggio tattico fa sì che l'altra parte combatta con una mano legata dietro la schiena. Ciò vanifica anche l'asimmetria tecnologica garantita dagli armamenti precisi che contribuiscono a ridurre i danni non voluti contro i combattenti. Questo atteggiamento viene sfruttato anche dal punto di vista mediatico: costringo il mio avversario ad attaccarmi e poi lo accuso di aver commesso un atto contrario ai diritti umani. Questa è la vera asimmetria dei conflitti di oggi, tra chi ha determinate regole e le rispetta e chi queste regole non se le pone, tra chi cerca l'ideale del conflitto senza vittime e chi è disposto a morire e far morire".
  Nel rapporti viene analizzato anche il numeri delle vittime civili, stimate in oltre 2.000 persone. L'Ufficio Onu per gli affari umanitari ha attinto a piene mani dai dati forniti dal Ministero della Salute di Gaza controllato da Hamas. I numeri erano pieni di incongruenze, tra nomi duplicati, età non corrette, morti da fuoco amico causate da Hamas o dalle sue organizzazioni affiliate (come nel caso di razzi che hanno fatto cilecca), morti non attinenti al conflitto ma classificati come tali. Se da una parte nessun crimine di guerra è stato dimostrato, dall'altra l'HLMG accusa della morte della stragrande maggioranza dei civili Hamas e la sua politica volta a causare, direttamente ed indirettamente, il maggior numero morti di civili palestinesi per soffiare sul fuoco dell'odio anti-israeliano.
  Il documento denuncia l'utilizzo da parte di Hamas di scudi umani e conferma molte delle accuse rivolte all'organizzazione terroristica circa lo sfruttamento di mezzi, strutture e "siti sensibili" delle Nazioni Unite. All'occhio degli esperti non è nemmeno sfuggito il circo mediatico orchestrato da Hamas che negava ai media la possibilità di documentare vittime e feriti tra i combattenti indirizzando i reporter sui civili feriti. E non di rado, secondo le testimonianze, Hamas avrebbe "preparato" i set post offensive israeliane rimuovendo armi e combattenti e lasciando solo i civili prima di consentire l'accesso ai giornalisti.
  Il rapporto inoltre ritiene adeguate le misure operative dell'IDF Israele finalizzate ad evitare vittime civili - tra queste il famoso "bussare sul tetto", le chiamate e i volantini per avvisare degli attacchi, - e la struttura organizzativa che ha consentito il costante coinvolgimento del procurato generale militare con il fine di garantire il rispetto del diritto di guerra e delle regole d'ingaggio. "Un rispetto delle standard spesso in contrasto con la convenienza militare che", ha dichiarato il colonello Richard Kemp, comandante delle forze britanniche in Afghanistan, "altre nazioni non sarebbero in grado di gestire".

(Il Foglio, 15 dicembre 2015)


Silvestri Sabatini premiata con la medaglia 'Giusta fra le Nazioni'

FIRENZE - Maria Adelaide Silvestri Sabatini, che fu membro della resistenza antifascista e fece fuggire numerosi ebrei in Svizzera, è stata riconosciuta 'Giusta fra le Nazioni', medaglia che sarà consegnata giovedì 17 dicembre presso la Sinagoga di Firenze. A ricevere il premio sarà il nipote Federico Sabatini dall'Istituto per la Memoria dei Martiri e degli Eroi dell'Olocausto Yad Vashem. Il riconoscimento indica i non-ebrei che hanno rischiato la propria vita per salvare anche un solo ebreo dal genocidio nazista, dalla Shoah. Maria Adelaide Silvestri Sabatini fece fuggire numerosi ebrei in Svizzera, procurando loro anche documenti e carte di identità falsi nonché anche luoghi di rifugio. "Diverse testimonianze - si legge nella nota diffusa - confermano che era lei stessa, alcune volte, ad accompagnare personalmente i fuggitivi da Firenze fino al confine svizzero tra cui le famiglie Della Pergola, Forti, Brunner e Silvia Purita".

(gonews.it, 15 dicembre 2015)


Siglato un accordo di cooperazione scientifica tra Cina e Israele

Il ministro della Scienza, della tecnologia e dello spazio israeliano, Ophir Akunis, ha firmato ieri un accordo di cooperazione per investimenti congiunti con l'omologo cinese, Wan Gang, a Pechino. Lo riferisce oggi il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". In base all'accordo il ministero israeliano investirà un milione di dollari, mentre quello cinese 500 mila dollari. La ricerca congiunta sarà condotta nel campo delle scienze neurologiche, delle nanotecnologie, della stampa 3D, della biomedicina, delle energie rinnovabili, delle scienze informatiche, e sull'invecchiamento della popolazione. Commentando la firma dell'accordo, Akunis e Wan Gang hanno detto "siamo due popoli antichi con un futuro comune". Il rappresentante di Pechino ha detto che "il popolo cinese dà grande valore alla cooperazione con Israele ed alle iniziative israeliane nel campo della scienza e delle tecnologie e quindi vogliono approfondire la cooperazione".

(Agenzia Nova, 15 dicembre 2015)


Hanukkah a Taormina

La storia degli ebrei a Taormina si è rifatta viva. Si è palesata quando il Rabbino Capo di Siracusa, Stefano Di Mauro, è giunto in città per la Festa delle luci. Una festività ebraica, conosciuta in tutto il mondo come Chanukkah (o Hanukkah), che si è svolta nell'antica giudecca di Taormina alla presenza di alcuni ebrei che vivono in zona. Rabbino Di Mauro: «Era dal 1492 che non si svolgeva la Festa delle luci nella giudecca della città».

di
Valerio Morabito

 Un ricordo tenuto in vita dalla toponomastica
 
Festa delle Luci nella giudecca di Taormina
  Gli ebrei a Taormina. Una presenza che affonda le sue radici nei secoli. Del resto è sufficiente ricordare come tra il IV e il V secolo d. C. risale un reperto archeologico che testimonia la presenza degli ebrei a Taormina. Si tratta di un mattone fittile ritrovato all'interno dell'Antiquarium del Teatro antico della Perla dello Jonio. Origini antiche e la storia degli ebrei a Taormina, come in tutta la Sicilia, è stata oggetto di persecuzioni e conversioni forzate. Purtroppo nella capitale del turismo siciliano rimane poco del passaggio degli ebrei in città. Più che altro il ricordo è tenuto in vita dalla toponomastica. Dal Corso Umberto di Taormina, infatti, è possibile scorgere, nella zona di Porta Catania, Vico Degli Ebrei, una Traversa Degli Ebrei e una Via Del Ghetto. Poi ci sono tre Stelle di David affisse sulla facciata di Palazzo dei Giurati, sede del comune di Taormina. Simboli posti per ricordare il passaggio del popolo ebraico dalla città. Segni chiari che mettono in luce come la giudecca di Taormina si trovava nella zona ad ovest della Cattedrale. Confinava con piazza Duomo, il Corso Umberto e l'antica piazza del Tocco, alle spalle del Palazzo dei Duchi di santo Stefano.

 La Festa delle luci
  Il 10 dicembre, però, la storia degli ebrei a Taormina si è rifatta viva. Si è palesata quando il Rabbino Capo di Siracusa, Stefano Di Mauro, è giunto in città per la Festa delle luci. Una festività ebraica, conosciuta in tutto il mondo come Chanukkah (o Hanukkah), che si è svolta nell'antica giudecca di Taormina alla presenza di alcuni ebrei che vivono in zona. A Giardini Naxos, per esempio, si trovano due famiglie ebree. Mentre a Taormina, a parte l'origine ebraica riscontrabile in molti cognomi, al momento non ci sono ebrei. «Dal 1492 non si era più festeggiata la Festa delle luci a Taormina. Si tratta dell'antica lotta del popolo ebraico per la libertà religiosa. Siate tutti fieri di essere o di voler essere ebrei, perché il Signore ci ha dato l'opportunità della rinascita», ha detto il Rabbino Di Mauro che era venuto a Taormina già nel 2010 per una conferenza sull'ebraismo. la festa, che dura otto giorni, celebra la consacrazione di un nuovo altare nel Tempio di Gerusalemme, dopo la libertà conquistata contro i greci nel secondo secolo avanti Cristo. Si festeggia ogni anno a partire dal 25esimo giorno del mese di kislev: il rituale principale prevede l'accensione delle candele di un particolare candelabro a otto braccia chiamato chanukiah, come quello che veniva acceso all'interno del Tempio di Israele: questo rituale è previsto per tutti gli otto giorni della festività in tutte le comunità ebraiche ortodosse che ci sono in giro per il mondo che espongono le candele accese vicino alle finestre.

 Rabbino Stefano Di Mauro: «C'è una volontà divina nel risorgimento dell'ebraismo»
  Il Rabbino Stefano Di Mauro, che abbiamo contattato, ha voluto ricordare cosa significa essere ebrei in Sicilia nell'epoca contemporanea, sottolineando le sofferenze di questo popolo nei secoli. «la maggior parte degli ebrei siciliani, nel corso dei secoli, sono stati costretti a convertirsi al Cristianesimo. Oggi, invece, c'è una volontà divina nel risorgimento dell'ebraismo. Il Papa ha detto, nell'ultimo periodo, che nessuno deve convertire gli ebrei. È una notizia che mi ha fatto molto piacere. Il risveglio ebraico, ha proseguito il Rabbino, ha un significato religioso importante, considerando la libertà religiosa negata per troppo tempo al nostro popolo. Ciò che è auspicabile è creare un'atmosfera di pace con il riconoscimento della storia. Oggi saremmo stati due milioni circa in Sicilia se non ci fossero state le persecuzioni e le conversazioni forzate». Nei prossimi mesi, con ogni probabilità, il Rabbino Di Mauro tornerà in zona, forse a Giardini Naxos, dove terrà un corso sull'ebraico. Shalom aleikhem.

(blogTaormina, 15 dicembre 2015)


Chiese chiuse

Ministro di Cameron sveglia l'Inghilterra: "L'Isis avanza sulle macerie del nostro secolarismo".

di Giulio Meotti

ROMA - Un filmato di un minuto, dove alcune persone in differenti contesti recitano il Padre nostro. Il video, realizzato dalla Church of England per sponsorizzare un nuovo sito, è stato rimosso dagli occhi del grande pubblico inglese. Definito offensivo" dalle tre più grandi catene di cinema inglesi (Odeon, Cineworld e Vue), che l'hanno così eliminato dalla programmazione natalizia. Intanto, i canali di informazione e propaganda dello Stato islamico continuano a penetrare ogni giorno le comunità islamiche del Regno Unito, tanto che sono raddoppiati in questo anno i volontari britannici partiti per combattere e servire con il Califfato. E' questo paradosso a essere denunciato da un ministro del governo di David Cameron, Stephen Crabb, che ha dichiarato che un secolarismo sciatto "sta spingendo i giovani musulmani nelle braccia dell'Isis".
   Laddove "la religione viene marginalizzata, delegittimata, ridicolizzata attraverso il sospetto e la paura", il fondamentalismo islamico avanza. "La risposta alla seduzione dell'Isis non è una dose maggiore di secolarismo", ha detto Crabb. Il ministro ha anche spiegato che "nel 2015 è più facile per un politico ammettere di fumare erba o guardare un film porno, piuttosto che ammettere che possa prendere sul serio la religione nella propria vita quotidiana".
   L'intervento di Crabb arriva pochi giorni dopo la pubblicazione del rapporto della commissione per la Religione e il Credo nella vita pubblica britannica, che suggerisce una analisi e una soluzione a dir poco drastiche: "L'Inghilterra non è più cristiana e quindi le sue istituzioni vanno de-cristianizzate". Diecimila chiese sono state già chiuse nel Regno Unito e altre quattromila lo saranno entro il 2020. "Si dice spesso che le congregazioni della Gran Bretagna si stanno riducendo, ma questo non si avvicina a esprimere il livello del disastro cui si trova di fronte il cristianesimo in questo paese" ha commentato lo Spectator. "Se il tasso di declino continua, la missione di sant'Agostino presso gli inglesi, insieme a quella dei santi irlandesi presso gli scozzesi, arriverà a termine nel 2067".
   Tra il 2001 e il 2011 il numero di cristiani nati in Gran Bretagna è sceso di 5,3 milioni: diecimila ogni settimana. "Le nostre cattedrali sopravviveranno, ma non saranno vere cattedrali perché non avranno vescovi", spiega lo Spectator. L'anglicanesimo sparirà dalla Gran Bretagna nel 2033. Nello stesso periodo, il numero dei musulmani in Gran Bretagna è cresciuto di quasi un milione, secondo un sondaggio condotto dal rispettato NatCen Social Research Institute. In Inghilterra erano chiese e cattedrali, per citarne soltanto alcune, la Central Mosque di Brent, la New Peckham Mosque e la moschea Didsbury di Manchester. A Cobridge la moschea Madina fino a tre anni fa era la chiesa cattolica dedicata a san Pietro e di proprietà dell'arcidiocesi di Birmingham.

 Scruton: "Una religione secolarista"
  Tre giorni fa, il celebre editorialista conservatore Damian Thompson ha scritto sul Daily Mail a proposito del rapporto sulla decristianizzazione: "Quando persone eminenti, nei loro ermellini, vesti accademiche e con le loro medaglie, decretano la morte della Gran Bretagna cristiana e che è il momento per un nuovo ordine sociale, dovremmo chinare il capo rispettosamente, abbagliati dalla loro illuminazione collettiva". "L'Unione europea ha cercato di fare del secolarismo una nuova religione" dice al Foglio Roger Scruton, visiting professor a Oxford, cui il Wall Street Journal ha appena recensito il libro "Thinkers of the New Left". "E' un fenomeno europeo e non soltanto inglese", dice Scruton. In Norvegia, il governo ha appena chiesto alle chiese di eliminare i simboli cristiani per meglio integrare i migranti ospitati nelle sue strutture. In Germania, la festa cattolica di fine autunno di San Martino è stata ribattezzata "festa delle luci" per dimostrare maggiore inclusività. A Parigi, la cattedrale di Notre Dame non sarà adornata con l'albero di Natale. E in Spagna, i comuni eliminano le "stazioni della croce" per non offendere. L'Isis, intanto, sradica la cristianità orientale nell'assenza dell'Europa. 0 per dirla con il Figaro: "Silenzio, stiamo perseguitando".

(Il Foglio, 15 dicembre 2015)


Ovviamente non vediamo con piacere l’espandersi dell’islamismo in zone sempre più larghe della nostra vita sociale, ma come cristiani evangelici non crediamo che il rimedio a questo sia una difesa ad oltranza della presenza della religione cristiana nelle istituzioni pubbliche e nei costumi sociali. Quello che può crollare deve crollare. Certo, il richiamo della tradizione può essere ammaliante, e anche chi scrive sente con piacere il suono delle campane anche se non frequenta i locali che vi si trovano sotto, e certamente non sostituirebbe volentieri quei familiari rintocchi con degli “Allahu Akbar” gridati dall’alto di un minareto. Ma resta il fatto che il trionfalista cristianesimo occidentale sposato al potere è destinato a crollare. Guardando indietro, alcuni oggi parlano di società giudaico-cristiana, ma non è vero. È stata una società cristiano-antigiudaica. Nelle nostre amate cattedrali abbondano i riferimenti a una sinagoga umiliata e sconfitta ai piedi di una chiesa gloriosa e trionfante. Il più alto rappresentante di questa religiosità gloriosa è proprio l’attuale simpaticissimo affabilissimo democraticissimo papa, che con i suoi atteggiamenti popolari vorrebbe far dimenticare che nei suoi stessi abiti e nello stile della sua corte ci sono i segni di una regalità secolare che si esprime anche con la forza. Di che cosa sono segno le papaline guardie svizzere con tanto di alabarda? E a che servono i cecchini appostati sull’alto dei tetti pronti a sparare su chi mette in pericolo la gente che sente parlare di misericordia da un supercristiano? #notinmyname, forse sarebbe bene che qualche cristiano cominciasse a dirlo nei confronti di certe religiosità popolari che vorrebbero presentarsi come cristiane. A cominciare da quelle promosse da quest’ultimo papa. M.C.


Benedizioni taroccate a due passi da San Pietro

L'imbroglio all'ombra del Giubileo. Ritrovate dalla Finanza 3.500 pergamene con falsi stemmi papali. Oltre 70mila euro di truffa, denunciato un negoziante stampatore.

di Chiara Pellegrini

 
Una moderna vendita delle indulgenze a due passi da San Pietro. Si era organizzato bene un stampatore romano che in occasione del Giubileo della Misericordia aveva ideato per i pellegrini il perfetto souvenir papale: (...) (...) un'elegante benedizione apostolica su pergamena pontificia rigorosamente taroccata. Gli elementi per credere che fosse genuina ed ingannare il credente di turno però c'erano tutti, dagli emblemi della Santa Sede alla fotografia di papa Francesco benedicente, peccato mancassero le necessarie autorizzazioni del governatorato pontificio.
   Infatti per ottenere le benedizione in Vaticano esiste un reparto preposto all'interno del Vaticano: l'"elemosineria apostolica". Un ufficio, nei pressi di porta San-t'Anna, cui inviare via fax tutte le richieste, che devono essere accompagnate tra l'altro da nome e cognome del richiedente e motivo della benedizione. Il costo della pergamena va dai 13 ai 25 euro, a seconda del modello scelto dall'ufficio per l'occasione indicata e va pagata solo dopo il ricevimento o tramite bollettino di conto corrente postale allegato alla spedizione o online con carta di credito. I tempi necessari per ricevere la pergamena sono di circa un mese dal giorno della richiesta. Insomma un iter scandito, nei tempi e nella modalità tutto dalla Santa Sede.
   Negli ultimi tempi però alle orecchie della Guardia di Finanza era giunta una curiosa proliferazione di certificazioni vaticane. Gli uomini del comando provinciale delle Fiamme gialle di Roma, coordinandosi con i colleghi della Gendarmeria vaticana, hanno cosi scoperto che a due passi dalla basilica di San Pietro un negozio vendeva indisturbato benedizioni apostoliche taroccate ad inconsapevoli pellegrini. Un lavoro minuzioso, impeccabile, quello dei finti stampatori, cosi perfetto da non permettere ai poveri malcapitati di riconoscere la truffa e sganciare, invece, dai 10 ai 22 euro per ogni pergamena. In cambio chiedevano ai clienti di compilare e sottoscrivere moduli, assicurando di inviarli all'unica autorità ufficialmente autorizzata ad emettere gli auspici papali. Tra battesimi, matrimoni, compleanni e cerimonie varie le fiamme gialle - impegnate nell'attuazione del piano d'azione "lubilaeum", dedicato a contrastare tutte le forme di abusivismo e frode che affliggeranno i pellegrini nella stagione giubilare - hanno rinvenuto circa 3500 pergamene false, già effigiate con l'immagine del Santo Padre, recanti gli stemmi papali e dello Stato Vaticano contraffatti e riportanti, in lingua italiana, spagnola, portoghese ed inglese, la dicitura "benedizione del pellegrino", personalizzabili con qualsiasi nominativo fornito dall'acquirente e pronte per essere spedite. Stando ad un primo bilancio il valore delle false benedizioni sequestrate supera i 70mila euro, ma è in corso il calcolo delle somme già incassate con le vendite dei primi giorni. II negoziante stampatore, privo delle necessarie autorizzazioni della Santa Sede, è stato denunciato per produzione e commercio di oggetti contraffatti. E' una priorità del governo perché è una battaglia per economia legale e per fare sì che i commercianti onesti abbiano la meglio rispetto a chi contraffà i prodotti senza neanche la minima tutela della salute dei consumatori», ha spiegato il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, commentando l'operazione della Guardia di finanza. «In una sola settimana dall'attivazione del piano "Jubilaeum"», ha aggiunto il ministro, sono stati sequestrati oltre un milione di prodotti contraffatti e denunciati 19 soggetti». Sei i punti operativi di azione delle fiamme gialle contro l'economia abusiva, in altrettanti settori: commercio, settore ricettivo, turistico, del trasporto, della somministrazione di bevande e cibi. Ai quale si aggiunge il rafforzamento dell'azione controllo economico sul territorio, con 32 pattuglie della guardia di finanza al lavoro a Roma. «Il Giubileo», ha tuonato Alfano, «deve essere un affare di spirito per i fedeli ma non un affare economico per i truffatori che cercano nell'Anno Santo occasioni di guadagno».

(Libero, 15 dicembre 2015)


L'odio religioso è contro gli ebrei

Per un report dell'Fbi, il 59 per cento dei reati è a danno degli ebrei.

In reazione alle sparate del candidato repubblicano Donald Trump, che ha proposto di bloccare l'immigrazione musulmana in America, la popolazione di fede islamica si è trasformata in specie protetta. Il New York Times scrve che "i giovani musulmani sentono la morsa del sospetto, e per l'establishment la priorità più urgente è diventata proteggere i musulmani d'occidente dalle reazioni spropositate e dagli attacchi d'odio razziale e religioso fomentati dal populismo. Ma il report annuale sui crimini d'odio in America presentato dall'Fbi dice che quando si parla di discriminazione religiosa bisogna stare attenti a non falsare il quadro con le emergenze del momento. Le principali vittime dei crimini d'odio a sfondo religioso in America nel 2014 sono state di gran lunga gli ebrei, contro i quali si è diretto il 59 per cento dei reati. Il report parla di distruzioni di proprietà, rapine, intimidazioni perpetrate contro ebrei nel corso del 2014.
Secondo il magazine online Forward, inoltre, l'Fbi non include nell'elenco dei crimini d'odio gli omicidi di tre ebrei avvenuti l'anno scorso. La mancata inclusione risponde a ragioni amministrative e burocratiche, ma il dato di Forward aiuta a dare la dimensione del problema. In confronto, i crimini contro i musulmani costituiscono il 14 per cento del totale, anche se sono in crescita, quelli contro cristiani cattolici ammontano al 6 per cento, contro cristiani protestanti all'1. La reazione al populismo à la Trump dovrebbe accorgersi che se c'è un'emergenza è quella che abbiamo sotto gli occhi da sempre, un odio anti ebraico che non ha mai accennato a placarsi, nemmeno in America.

(Il Foglio, 15 dicembre 2015)


Beteavòn, prima cucina sociale kosher in Italia, compie 2 anni

Beteavòn, la prima cucina sociale kosher in Italia, spegne la seconda candelina. Nata a Milano nel gennaio 2014 per iniziativa dell'associazione Merkos, ramo educativo del movimento ebraico Chabad Lubavitch, Beteavòn prepara e distribuisce pasti a chiunque si trovi in una situazione di necessità.

L'apertura della cucina sociale trova le sue ragioni in un momento particolarmente complesso in cui sempre più famiglie ed individui si trovano in difficoltà. La perdurante crisi economica ha moltiplicato infatti i bisogni dei più deboli, accrescendo allo stesso tempo il numero di coloro che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese. Anziani con il minimo della pensione, imprenditori falliti, uomini e donne che hanno perso il lavoro, ma anche papà separati e profughi.
   "Abbiamo iniziato con la preparazione e distribuzione di una decina di pasti per lo Shabbat, il giorno di riposo ebraico, per condividere il calore di questa festa anche con chi è più lontano" - commenta il Rabbino Igal Hazan, ideatore dell'iniziativa.
   "Ci siamo accorti ben presto, però, che la necessità e il bacino di utenza erano molto più ampio e non potevamo rimanere indifferenti. Arrivare a quota 1.000 pasti distribuiti al mese non è stato difficile, purtroppo". Beteavòn(che in ebraico significa "buon appetito") supporta il Comune di Milano e fornisce pasti ai Centri Ascolto Caritas e del Comune di zona 6 e 7 e alla Comunità di Sant'Egidio, distinguendosi come modello di cooperazione e sinergia tra realtà religiose e culturali diverse. Ogni settimana i volontari del Beteavòn cucinano e distribuiscono insieme ai volontari di Sant'Egidio minestre calde per i senza fissa dimora che si raccolgono attorno alle stazioni di Porta Garibaldi e Cadorna. "E' un'esperienza umanamente importante perché nel caldo delle nostre case non ci rendiamo conto di quante siano le "persone invisibili" che vivono nella nostra stessa città", commenta Davide Sonnevald, giovane volontario di Beteavòn.
   La cucina sociale è stata particolarmente attiva anche in occasione dell'emergenza profughi, cucinando e consegnando pasti per i migranti ospitati dal memoriale della Shoah di Milano. "La Torah dice: ed amerete lo straniero perché foste stranieri in Egitto. Il popolo ebraico, che ha vissuto anche di recente il dramma dell'essere profugo, ha come valore fondamentale l'aiuto e l'amore per chi è costretto a fuggire. Ci è sembrato naturale, in un momento difficile come questo, dare un aiuto concreto preparando pasti caldi per chi si trova in una situazione di emergenza", conclude Rav Igal Hazan.

(MilanoToday, 15 dicembre 2015)


In Israele c'è una App contro gli attacchi di panico

Tre mesi di attacchi dei "lupi solitari" hanno inciso profondamente nella vita degli israeliani. Sono state cambiate molte abitudini, a Gerusalemme prima di passare per un quartiere arabo adesso ci si pensa su almeno un paio di volte. La percezione di minaccia continua si è insinuata nella giornata di tutti. Il senso di angoscia è alimentato dalle reti all news che continuano a riproporre, fino al successivo, i video dell'ultimo accoltellamento preso da una delle migliaia di telecamere di sicurezza presenti nella Città Santa. Le strade di giorno sono piene di divise e adesso ci sono anche i Marshal sui mezzi pubblici per la sicurezza su tram, bus e alle fermate, spesso teatro degli attacchi col coltello. Con il buio le strade si svuotano, i lampioni illuminano marciapiedi deserti, i locali pubblici sono semivuoti e i cinema hanno cancellato l'ultimo spettacolo.
   La tensione è palpabile ma adesso c'è un App per smartphone che promette di combattere lo stress e gli attacchi di panico, senza dover ricorrere a farmaci spesso inefficaci e pieni di controindicazioni. Si chiama, guarda il caso, "Serenità" e l'ha messa a punto l'Eco-Fusion, una lanciatissima start-up di Haifa.
   Come funziona? Il concetto è semplice: basta prendere un respiro profondo. "Serenità" è in grado di misurare il livello di stress e offrire esercizi di respirazione personalizzati che aiuteranno ad alleviare la tensione. I livelli di stress sono individuati usando il pulsante di comando dello smartphone come sensore biomedico, basta poggiare per 1 minuto il dito indice. Il sensore rileva impulso e ritmo sangue, ed elabora le informazioni per valutare i livelli di stress dell'utente e la sua capacità di concentrazione. Dopo la diagnosi sui livelli di stress, l'App guida l'utente attraverso una tecnica per ridurre il livello di stress basata su esercizi respirazione, che in media richiedono cinque minuti al giorno e sono su misura per ciascun utente.

(la Repubblica, 14 dicembre 2015)


Le donne dell'Intifada dei coltelli

di Gabriele Carrer

 
Anat Berko, esperta di terrorismo
Cugina di Abdelhamid Abaaoud, la mente delle stragi di Parigi, Hasna Aitboulahcen, 26 anni, è stata la prima donna kamikaze ad essersi fatta esplodere in Europa. E sono sempre di più le ragazze che decidono di combattere la jihad palestinese con attacchi contro i cittadini israeliani ed ebrei.
   «Non è un elemento di novità. Usare le donne per gli attentanti è sempre stato funzionale al terrorismo, in particolar modo quello palestinese, che cerca di far leva sulle anime occidentali sempre pronte a difendere donne e bambini». A parlare è Anat Berko, tenente colonnello in pensione dell'esercito israeliano ed esperta di terrorismo, autrice di numerose ricerche sul tema e del testo The Smarter Bomb: Women and Children as Suicide Bomber. Nata da profughi in fuga dall'Iraq, la dottoressa Berko è entrata alla Knesset nello scorso marzo, eletta fra le fila del Likud del premier Netanyahu. Nelle recenti settimane, durante le quali l'intifada dei coltelli è tornata a colpire nelle strade di Israele, Berko si è distinta all'assemblea di Gerusalemme per un emendamento, approvato in prima lettura, alla Youth Law che prevede l'inasprimento delle pene per i minori condannati per terrorismo. Secondo la proposta di Berko, nata dallo sconvolgente impiego dei minori da parte di Hamas ma anche dello Stato Islamico, i giovani di età superiore ai 12 anni potranno essere messi in strutture dedicate, per poi essere trasferiti al compimento del quattordicesimo anno nelle prigoini israeliane.
   Non solo adolescenti, ma anche ragazze: è questo a caratterizzare l'Intifada dei coltelli. Gli attentanti compiuti da donne rappresentano infatti per i palestinesi occasioni uniche per strumentalizzare e martirizzare le combattenti, facendole passare come le innocenti vittime degli ebrei e degli israeliani. Come accaduto per le due diciottenni duranti i primi giorni dell'Intifada dei coltelli alla Porta dei Leoni e alla stazione degli autobus di Afula. O per la sedicenne che il 17 ottobre ha cercato di accoltellare una poliziotta israeliana a West Bank trovando lei stessa la morte. Come accadde tredici anni fa per la ventiduenne Reem Riyashi, madre di due bambini, che si fece esplodere al Valico di Erez portando con sé nell'aldilà quattro israeliani. Ma «emancipazione e femminismo non c'entrano nulla» sostiene la parlamentare Berko. «È solo un'altra forma di uso e di abuso sulle donne ad opera dei leader della società patriarcale palestinese. Non cercano di essere accettate come pari. Anzi, le giovani che compiono attacchi terroristici lanciano una sfida agli uomini, li spingono a pensare che se può farlo una donna, un uomo può e deve farlo meglio».
   Come Berko analizza anche nel suo libro The path to the paradise, le donne che compiono attentati sono ritenute peccatrici dalla società patriarcale palestinese. Questo vale soprattutto per le attentatrici suicide che, oltre a svolgere ruoli riservati agli uomini, tradiscono i loro doveri prestabiliti, il primo dei quali è sposarsi e avere figli. I due sessi si distinguono per il fatto che le donne compiono prevalentemente un solo attacco, mentre la maggior parte degli uomini ha una vera e propria carriera nel terrorismo che dura per tutta la loro vita. Ma le donne si ritrovano poi davanti ad un finale tragico in cui l'aspettativa di riscatto sociale si rivela pura illusione, nata sulle ali del rispetto artificioso del tempo in cui erano combattenti.
   Nel considerare le ragioni dell'impiego di donne nell'Intifada ci sono anche l'aspetto strategico e l'utilizzo di internet da considerare. Le donne, infatti, hanno maggior facilità a nascondere le armi. «Basti pensare alla morte di Rajiv Gandhi, ucciso da un'attentatrice che si fingeva incinta ma nascondeva sotto le vesti una cintura esplosiva - sottolinea Berko. L'impiego delle ragazze è quindi tattica, non semplice coincidenza». Inoltre, le chat online rappresentano un nuovo fattore che spinge all'utilizzo delle donne nell'Intifada 2.0: mezzi funzionali alla causa in quanto offrono la possibilità di adescare la vittima sul web. Come nel caso del liceale israeliano Ofir Rahum ucciso nel 2001. La parlamentare israeliana Anat Berko invita a diffidare dalle giovani palestinesi che, anche sulle chat, possono trarre in inganno per il loro aspetto molto occidentalizzato. Donne che a volte rifiutano il velo per sfoggiare la loro femminilità anche nella quotidianità. Ma «negli anni Settanta nessuna donna palestinese indossava il hijab, neanche a Gaza» sottolinea Berko. Nonostante i valori di devozione, disciplina e sacrificio che il velo incarna fossero già forti nell'animo delle attiviste palestinesi.
   Quella nata dagli scontri che fine settembre funestano Israele è una sollevazione a forti tinte rosa. Un'Intifada 2.0, degli smartphone e dei social media, dei singoli organizzati e della leadership palestinese nell'ombra, oltre che dei sassi e dei coltelli. Un'Intifada delle nuove generazioni che tramite i social network si allontanano dal controllo degli anziani ma che allo stesso tempi e attraverso questi mezzi alimentano l'antisionismo e organizzano le proteste in cui si brandiscono coltelli e bruciano bandiere israeliane. Ma è anche la sollevazione delle giovani donne che stanno fianco a fianco con i loro compagni pronte a rendersi utili alla causa raccogliendo e lanciando sassi, soccorrendo i feriti e lanciandosi in attacchi individuali. Non è l'Intifada dei poveri, dei rifugiati: le ragazze come i ragazzi protagonisti di questa nuova rivolta vivono infatti una vita agiata, sono istruiti, hanno un lavoro fisso; e come il diciannovenne Fadi Alloun, che nella Città vecchia di Gerusalemme ha accoltellato un ebreo quindicenne, appaiono curatissimi e alla moda sui loro social e frequentano i centri commerciali israeliani alla ricerca di capi firmati.

(East Magazine, 14 dicembre 2015)



«Benedetto sii tu, o Eterno, Dio del padre nostro Israele»

Il re Davide, dopo aver preparato il materiale per la costruzione del tempio che suo figlio Salomone avrebbe dovuto eseguire, invitò il popolo a fare offerte volontarie per la costruzione del palazzo, dando per primo il buon esempio. Il popolo rispose generosamente e con gioia. Alla fine della raccolta «Davide benedisse l'Eterno in presenza di tutta l'assemblea e disse:
    Benedetto sii tu, o Eterno, Dio del padre nostro Israele, di secolo in secolo! A te, o Eterno, la grandezza, la potenza, la gloria, lo splendore, la maestà, poiché tutto quello che sta in cielo e sulla terra è tuo! A te, o Eterno, il regno; a te, che t'innalzi come sovrano al disopra di tutte le cose! Da te vengono la ricchezza e la gloria; tu signoreggi su tutto; in tua mano sono la forza e la potenza, e sta in tuo potere il far grande e il render forte ogni cosa. Or dunque, o Dio nostro, noi ti rendiamo grazie e celebriamo il tuo nome glorioso. Poiché chi son io e chi è il mio popolo, che siamo in grado di offrirti volenterosamente cotanto? Giacché tutto viene da te; e noi t'abbiamo dato quello che dalla tua mano abbiamo ricevuto. Noi siamo dinanzi a te forestieri e pellegrini, come furono tutti i nostri padri; i nostri giorni sulla terra son come un'ombra e non v'è speranza. O Eterno, Dio nostro, tutta quest'abbondanza di cose che abbiamo preparata per edificare una casa a te, al tuo santo nome, viene dalla tua mano, e tutta ti appartiene. Io so, o mio Dio, che tu scruti il cuore e ti compiaci della rettitudine; perciò, nella rettitudine del cuor mio t'ho fatto tutte queste offerte volontarie e ho visto ora con gioia il tuo popolo che si trova qui, farti volenterosamente le offerte sue. O Eterno, o Dio d'Abraamo, d'Isacco e d'Israele, nostri padri, mantieni in perpetuo nel cuore del tuo popolo queste disposizioni, questi pensieri, e rendi saldo il suo cuore in te; e da' a Salomone, mio figlio, un cuore integro, affinché egli osservi i tuoi comandamenti, i tuoi precetti e le tue leggi, affinché esegua tutti questi miei piani, e costruisca il palazzo, per il quale ho fatto i preparativi.»
dal primo libro delle Cronache, cap. 29

 


Sondaggio: 67% dei palestinesi a favore di attacchi con coltello

Il 67% dei palestinesi si è detto a favore degli attacchi con i coltelli contro gli israeliani, ma il 73% si oppone al fatto che questi siano compiuti da giovani studentesse.
Sono alcuni dei risultati del sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey (Psr) e del centro Conrad Adenauer Stiftung, secondo cui i due terzi degli intervistati chiedono le dimissioni del presidente Abu Mazen e considerano la soluzione a due stati non più praticabile.
La stessa percentuale (71% a Gaza, 63% in Cisgiordania) crede che le recenti violenze serviranno di più l'interesse nazionale che nuovi negoziati. Il campione è diviso a metà riguardo la morte degli autori degli attacchi: il 51% è convinto che gli assalitori colpiti dall'esercito abbiano attaccato israeliani, mentre il 47% non lo crede. Gli intervistati pensano anche che gli attacchi abbiano il supporto di Hamas (71%), del Fronte per la liberazione della Palestina Fplp (66%) e di Fatah con il 59%.
La maggioranza degli intervistati è per abbandonare gli Accordi di Oslo (67%), boicottare i prodotti israeliani (70%) e interrompere il coordinamento alla sicurezza con Israele (64%).
Il 65% del campione vuole le dimissioni del presidente Abbas. Nel caso di nuove elezioni con la sola partecipazione di Marwan Barghouti (Fatah) e Ismail Hanyieh (Hamas), il primo vincerebbe con il 56% delle preferenze contro il 38% del secondo. Il 65% dei palestinesi non ritiene più praticabile la soluzione a due stati a causa dell'aumento delle colonie, ma il 70% si oppone alla soluzione a uno stato ed è convinto che (82%) l'aspirazione di Israele sul lungo periodo sia di annettere i Territori.

(swissinfo.ch, 14 dicembre 2015)


Delek Group smentisce il taglio della produzione di gas dal giacimento Leviathan

GERUSALEMME - La compagnia energetica israeliana Delek Group smentisce le voci ventilate dalla stampa sulla presunta riduzione della capacità produttiva del giacimento di gas naturale del Leviathan, al largo delle coste di Israele. Fonti vicine al dossier avevano riferito al quotidiano economico israeliano "Globes" che il gruppo starebbe ponderando una riduzione del target di produzione pari a 16 miliardi di metri cubi di gas naturale all'anno, a causa di un calo della domanda nel vicino Egitto. "Contrariamente a quanto è stato pubblicato, il piano di base per lo sviluppo della struttura del campo di Leviathan, avanzata dai partner del progetto, ha lo scopo di produrre alla massima potenza circa 16-18 miliardi di metri cubi di gas naturale all'anno utilizzando varie soluzione ingegneristiche", si legge nel comunicato. Il gas servirà a soddisfare le esigenze del mercato israeliano, giordano, egiziano e palestinese "in conformità con le lettere di intenti firmate fino ad oggi". Il gruppo israeliano sottolinea inoltre che "lo schema di base del piano di sviluppo non è stato alterato". Delek riferisce che dovranno essere valutate "diverse possibilità per adeguare la capacità del piano di sviluppo ai vari programmi di marketing".

(Agenzia Nova, 14 dicembre 2015)


Gli equilibrismi del presidente turco

Erdogan: "Rapporti con Israele? La normalizzazione serve a tutti".

di Daniel Reichel

In una delle sue ultime uscite sula situazione israeliana, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan aveva definito l'ultima ondata di attacchi terroristici palestinesi come "una nobile lotta". A settembre aveva chiesto all'Onu provvedimenti contro Gerusalemme, accusando il governo israeliano di aver "violato" la santità della moschea Al Aqsa e gettando benzina su una situazione già incandescente. Queste prese di posizione di Ankara sembravano il segnale dell'ennesimo naufragio dei tentativi di riallacciare i rapporti tra i due paesi. Dall'episodio della Mavi Marmara - la nave diretta verso Gaza, teatro nel 2010 dello scontro tra le forze di sicurezza israeliane e gli attivisti filopalestinesi a bordo. Nell'incidente morirono nove attivisti turchi - le relazioni tra Turchia e Israele sono gelide: Gerusalemme ha chiesto ufficialmente scusa ad Ankara, proponendo un risarcimento per i famigliari delle vittime. L'accordo sembrava fatto ma tutto fu poi congelato. Ora, in un Medio Oriente traballante, dove la Siria è in ginocchio, la minaccia dell'Isis è sempre più forte e l'influenza dell'Iran si sta estendendo, Erdogan sembra pronto a riaprire le porte al governo del Premier israeliano Bejamin Netanyahu. Nelle scorse ore infatti il presidente turco ha dichiarato che "un processo di normalizzazione dei rapporti con Israele sarebbe positivo per noi, per Israele, per i palestinesi e per l'intera regione".

(moked, 14 dicembre 2015)


Kalid Chaouki ammette: "L'islam cerca vendetta"

Il deputato Pd su terrorismo, presepi e Papa: la violenza è nel Corano e bisogna controllare gli imam.

di Claudio Cartaldo

 
Kalid Chaouki
"La violenza è la malattia dell'Islam, l'integrazione è fallita, il buonismo di certa sinistra fa il nostro male. E a noi musulmani servirebbe un papa come Francesco".
  Sono le parole di Khalid Choauki, che "confessa" le colpe dell'islam, il rischio del radicalismo, la ricerca di vendetta dei musulmani e gli errori della "sinistra chic che prova un falso senso di colpa verso l'immigrato, ritenuto pregiudizialmente dalla parte giusta". Secondo Chaouki sarebbe un "atteggiamento che offusca il buon senso e deresponsabilizza gli immigrati, che allo Stato non chiedono buonismo".
  Nella lunga intervista rilasciata a Libero, il deputato Pd ammette che l'islam andrebbe riformato: "Andrebbe riformata l'interpretazione del Corano con un concilio islamico che scomunichi la violenza e il terrorismo. Solo che purtroppo siamo ancora lontani da questo". Un'interpretazione che porta al terrorismo islamico e alla violenza, una minaccia per l'europa: "Il mondo arabo - aggiunge Chaouki - ha un complesso di inferiorità verso l'Occidente che si porta dietro dai tempi della sconfitta dell'Impero Ottomano. Sa di aver perso la battaglia con la civiltà occidentale perché qui ci sono una libertà, una ricchezza e un rispetto per l'individio impensabili nel mondo arabo. Per questo i terroristi sono assetati di vendetta e voglia di riscatto".

 Vendetta
  Il problema è che non esiste un controllo, un papa islamico che possa controllare tutti. Abbassare i toni. E poi c'è il Corano in cui - ammette Choauki - "c'è un versetto in cui il profeta annuncia che 'un giorno prenderemo Roma'. La città eterna - aggiunge - è da sempre meta di conquista dell'Islam e ha un valore simbolico unico. La minaccia è reale". Non solo. Perché la sete di vendetta islamica non si fermerà. "I musulmani - dice Chaouki - non si libereranno mai dall'odio verso l'Occidente finché non ci sarà una presa di coscienza che la violenza è purtroppo un cancro insito nella storia dell'islam e come tale va eliminato".
  Dal deputato dem indicazioni anche sugli imam radicali. "I leader politici e gli imam - dice - difendono il loro orticello e non curano gli interessi dei musulmani. Fanno propaganda, alimentano il vittimismo che genera rancore ma non propongono soluzioni. Parlano tanto di politica - conclude Chaouki - e poco di valori, sono litigiosi tra loro e fanno ancora troppo poco per una reale integrazione".

(il Giornale, 14 dicembre 2015)


Le note di Avital per l'Opera S. Francesco

Arriva il mandolinista israeliano che insegna musica nel deserto.

di Piera Anna Franini

MILANO - È stato il primo mandolinista a ricevere una nomination ai Classical Grammy Awards. Si chiama Avi Avital, domani al Dal Verme (ore 20.30) per il Concerto di Natale a favore di Opera San Francesco, messo in campo dalle Serate Musicali. Con lui, l'Orchestra Barocca di Venezia, in un programma che associa la Serenissima di Vivaldi alla Napoli di Paisiello. Avital è uomo del deserto, nato e cresciuto - anche musicalmente - a Beer Sheva, un centro a un'ora abbondante d'auto da Tel Aviv, una bottega strepitosa di musicisti. Da lì provengono Omer Meir Wellber, in questi giorni a Verona per l'inaugurazione di stagione, direttore ospite stabile della Israeli Opera, della Semperoper di Dresda, della Fenice di Venezia e della Raanana Symphonette. Proprio il padre di Wellber, brillante sindacalista degli anni Sessanta-Settanta, lasciava Gerusalemme per Beer Sheva su espressa richiesta di David Ben Gurion, fondatore di Israele. La missione era quella di dare dinamismo a una città in una fase di grande afflusso di immigrati ebrei dai Paesi Arabi. Iniziava col creare una scuola. Lo stesso Avi Avital è nato, 37 anni fa, da genitori ebrei marocchini, migrati a Beer Sheva negli anni Sessanta. Ora vive a Berlino ma ha studiato anche a Padova, allievo di Ugo Orlandi. Si è fatto le ossa proprio a Beer Sheva, dove è cresciuto un altro mandolinista di lungo corso, Jacob Reuven con Wellber artefice di un programma di alfabetizzazione musicale (Sarab) a Rahat, l'insediamento beduino più esteso al mondo, a un passo da Gaza, nel deserto del Neghev, 70 mila abitanti e una fitta rete di moschee. Rahat è il fanalino di coda dell'economia di Israele, il tasso di scolarizzazione è fra i più bassi del Paese, le tensioni all'ordine del giorno. Ora, con Sarab, si lancia un progetto inteso come forza trascinante e di riscatto in un territorio in perenne allarme.

(il Giornale, 14 dicembre 2015)


Scoperto un varco interno ad Akko: genovesi e veneziani litigavano anche lì

di Roberta Olcese

Si può camminare in Israele pensando di essere a Genova, lungo i portici di Sottoripa, in un quartiere sotterraneo e fortificato dove anche il Comune ligure aveva il suo palazzo. È la storia di Akko, nota anche come San Giovanni d'Acri, una delle mete turistiche più frequentate in Israele soprattutto per gli importanti siti archeologici che garantiscono un turismo di oltre 100mila visitatori l'anno. «Per due secoli Acri è stata una delle basi dell'espansione dei genovesi nel Mediterraneo, dal 1104 fino al 1291 quando i Mamelucchi hanno distrutto l'ultimo avamposto franco in Terra Santa». Spiega Fabrizio Benente, archeologo dell'Università di genova e direttore della missione archeologica del Ministero Affari Esteri per ricerche a Tiberiade e Akko che segue gli scavi dal 2006.
   Alla fine dell'estate il Dipartimento israeliano per le antichità ha fatto un'incredibile scoperta: l'accesso alla parte di città abitata dai genovesi era protetto internamente da un'entrata fortificata, con finestre a fessura per gli arcieri incaricati di proteggere i genovesi dagli assalti dei nemici. «Rispetto a quello che conoscevamo, trovare il varco di accesso al quartiere genovese e scoprire che è difeso da arcieri conferma le fonti: i genovesi erano ben protetti e presidiavano i loro beni. È un'entrata molto suggestiva, molto più piccola di Porta Soprana o Porta di Vacca a Genova».
   I genovesi si difendevano da dentro, ma da chi? «Insieme a loro nella città c'erano i veneziani e i pisani». Spiega Benente che a fine agosto, avvisato dai colleghi si è precipitato per controllare i nuovi ritrovamenti lungo la strada medievale lunga 350 metri, circa quattro metri sotto al variopinto "suk" arabo, arteria centrale del Quartiere genovese. Questa settimana anche gli ospiti del Centro internazionale per la conservazione di Akko (intestato alla città di Roma) hanno visto il primo tratto di quella strada.
   In realtà pare che la scoperta del varco fortificato sia stata piuttosto casuale: «A fine agosto-inizi settembre mentre scavavano nella direzione di una vicina sinagoga hanno scoperto il perimetrale esterno e il varco di accesso al quartiere dei genovesi» continua l'archeologo. Dal 2009 la spedizione genovese non ha più fondi per occuparsi della ricerca: «In passato avevamo un contributo dalla Regione» Lamenta Benente. Pare invece che gli israeliani siano molto interessati allo sviluppo di un terzo sito archeologico ad Acri, così da incrementare i flussi turistici con i conseguenti ricavi.

(Il Secolo XIX, 14 dicembre 2015)


Tour EDIPI di archeologia biblica: Promo-Intervista con Dan Bahat.

Redazione EDIPI

 
Dan Bahat
Abbiamo incontrato Dan in un recente incontro organizzato a Como con la collaborazione del pastore Gianni Digiandomenico e in quell'occasione parlando di tante cose ci ha rilasciato la seguente intervista.

- EDIPI: Il ns. presidente Ivan Basana ti ha corteggiato per anni quando andavi a Vicenza per il Festival Biblico e finalmente è riuscito a convincerti di fare da guida in un tour di archeologia biblica in Israele, diventato ormai storico.
DAN: E' stato nel 2012, ero un po' più giovane avendo solo 75 anni, e posso dire che ho un magnifico ricordo di quel viaggio archeologico in lungo e largo per Israele, soprattutto per la partecipazione e il coinvolgimento di tutti i partecipanti, in particolare del prof. Marcello con la moglie.

- EDIPI: Quest'anno proponi con il suggerimento di Andie Basana un tour di archeologia solo a Gerusalemme, perché?
DAN: Mai come in questo periodo Gerusalemme è sotto attacco, non alludo all'intifada dei coltelli, ma alle menzogne che vengono propinate da più parti riguardo alla sua storia e all'indiscutibile ebraicità e come unica vera ed integrale capitale di Israele. Per cui ritengo urgente e importante un percorso archeologico che riveli e confermi che la Bibbia ha ragione e Israele è la nostra terra con Gerusalemme capitale.

- EDIPI: Anche se hai 78 anni la passione e l'amore per l'archeologia sembra aumentare; ricordi i momenti salienti dei tuoi inizi?
DAN: Più di 50 anni fa negli scavi di Masada trovai dei reperti che sottoposti a Yigael Yadin, che era il capo della campagna di scavi, rivelarono uno dei momenti più drammatici della storia di Israele: erano i bossoli dell'estrazione a sorte dei 10 uomini che, unitamente al capo della rivolta Eleazar ben Yair, avrebbero portato a termine il suicidio di massa per non cadere in mano dei romani. Inoltre, quando ero molto giovane, alla fine dei miei studi, fui incaricato dal Ministero degli Esteri israeliano di scrivere una pubblicazione sul legame del popolo ebraico con la Terra di Israele. Il libretto si intitolava "Generazioni dimenticate" fu molto popolare ed ebbe un grande successo. In quell'occasione legai irresolubilmente due realtà: l'amore per l'archeologia con il fatto di esser ebreo in Terra d'Israele.

- EDIPI: Che ruolo può avere l'archeologia e nel nostro caso quella biblica in un periodo storico come questo, in cui antichi monumenti archeologici vengono distrutti.
DAN: Prima di tutto l'archeologia conferma che la Bibbia ha ragione e che la Terra di Israele appartiene agli ebrei e che ci sono sempre stati. Espressioni come "il ritorno del popolo ebraico alla terra dopo 2000 anni" evidenziano, non nel numero, ma nel concetto stesso che c'è un errore fondamentale. Abbiamo trovato sinagoghe del V e VI secolo, poco prima dell'avvento dell'Islam. Inoltre c'è un punto specifico da sottolineare: l'importanza dell'archeologia come strumento a sostegno di ideologia e geopolitica. Anche se è una disciplina relativamente recente, la sua evoluzione in Terra di Israele ha indubbiamente dato un significativo contributo ai drammatici cambiamenti politici e geopolitici della regione. In questo senso è bene rivederne i movimenti cruciali. Molti sostengono che la moderna archeologia sia nata nel 1880, ma io preferisco una data diversa: il 1838, quando Edward Robinson, un pastore evangelico, rifiutandosi di accontentarsi dei racconti e delle spiegazioni di guide locali, localizzò sulla mappa del paese i siti citati nella Torah e nel Nuovo Testamento. Nel 1860 troviamo Charles Wilson, che come ogni buon cristiano, era più interessato alla storia di Gerusalemme ai tempi di Gesù. Nel 1867 è la volta di Charles Warren che eseguì una prima mappatura completa dei siti storici conosciuti, evidenziando che questa terra era cosparsa in ogni sua regione di luoghi chiaramente corrispondenti ai racconti biblici. Oltre che ai testi biblici si avvalse anche di opere di autori successivi come Giuseppe Flavio.

- EDIPI: In quel periodo si può dire che l'archeologia fece un salto di qualità incoraggiando ricerche archeologiche sostenute da vari paesi europei.
DAN: Infatti allora l'archeologia assunse la fisionomia di disciplina scientifica e iniziò a discostarsi dalla razzia di reperti archeologici che avevano contraddistinto le spedizioni del passato e di cui i musei europei sono pieni. Per la prima volta inoltre la disciplina archeologica venne usata anche per scopi geopolitici. Molti governi acquistavano ampie aree dell'impero turco-ottomano, ormai in sfaldamento, con la giustificazione degli scavi archeologici. In questo senso si deve vedere la nascita dell'Israel Exploration Society e il contemporaneo acquisto, finanziato dai Rothschild, per la collina dell'antica e storica città di Davide.

- EDIPI: Purtroppo coincide con il periodo dello scoppio della prima guerra mondiale.
DAN: In effetti tutta l'attività archeologica in terra di Israele si fermò bruscamente per oltre 10 anni, con l'unica eccezione della scoperta fatta dai frati domenicani a Gerico dell'importantissima sinagoga di Na'aran del VI sec.: scavavano mentre tutt'attorno si combatteva furiosamente!

- EDIPI: Il periodo postbellico con il mandato britannico favorì la ricerca archeologica?
DAN: Certamente perché ci si muoveva con maggiore libertà, anche se la ricerca era indirizzata verso gli inizi del cristianesimo. Comunque cominciavano a divenire pubblici gli studi sulle sinagoghe che offrivano un quadro diverso di quello fino allora creduto dell'abbandono e vuoto ebraico, dopo la tragedia romana e, al contrario, legavano nomi e luoghi citati dalle fonti ebraiche post-bibliche (Talmud e Mishnà) a siti tangibili. In questo senso la scoperta della sinagoga di Bet Alfa risalente al 540 è illuminante.

- EDIPI: Che rapporto ha l'archeologia biblica con il movimento sionista che andava sviluppandosi in quel periodo?
DAN: Si può affermare che ne abbia incoraggiato gli inizi e comunque la concezione dell'archeologia al servizio del sionismo continua fino a dopo la fondazione dello Stato di Israele e per molti anni ancora, almeno fino al 1967. Tappe fondamentali sono state la scoperta casuale dei sette rotoli di Mar Morto nel 1947 e gli scavi di Masada iniziati nel 1963. La guerra dei Sei Giorni del 1967 portò ad una nuova situazione: il controllo israeliano di territori che precedentemente erano preclusi.

- EDIPI: Questo fu certamente un fatto molto importante in quanto faceva cadere molte limitazioni alla ricerca archeologica.
DAN: Gli impulsi maggiori e rinnovati si sono indirizzati sul Golan, fin da allora occupato dalla Siria, ma soprattutto a Gerusalemme. Tutta la ricerca su, intorno e sotto Gerusalemme ha continuamente del sorprendente, la reputo la miniera archeologica più interessante. Nonostante l'indifendibile negazione musulmana dell'esistenza stessa del Tempio e di tutto quello che significa in termini di vita quotidiana in quel periodo, mi trovo spesso a indicare a colleghi, turisti e credenti luoghi che sono identificati con precisione assoluta, spesso rovinando le loro convinzioni acquisite.

- EDIPI: Un problema però l'avete con l'organizzazione archeologica islamica di Gerusalemme (WAKF) per la Spianata del Tempio, concessa loro da Moshe Dayan dopo averla inizialmente conquistata.
DAN: I miei colleghi musulmani continuano a sostenere che prima di al-Aqsà c'era un'altra moschea e prima di questa ancora una moschea e così via fino ad Abramo (loro primo profeta) che ricevette da Dio la Ka'ba, la pietra che si trova all'interno della Mecca. Nulla che solo possa ricordare qualcosa di pre-islamico. Tralasciamo che l'accesso all'interno delle moschee è consentito solo ai musulmani. Va ricordato però che alle guide che accompagnano i turisti sulla Spianata delle Moschee è perentoriamente vietato di tenere aperte o mostrare illustrazioni che potrebbero alludere al fatto che quella fosse precedentemente la Spianata del Tempio. Insomma, nessuna apertura al benché minimo dialogo, se non politico, almeno scientifico.

- EDIPI: Veniamo ora ai prossimi programmi, c'è il progetto di questo tour EDIPI di archeologia biblica a Gerusalemme per maggio 2016, cosa puoi dirci in merito.
DAN: Vorrei ancora precisare che l'archeologia israeliana ha smesso dal 1967 di esser strumento geopolitico dello Stato Ebraico e in buona misura del sionismo. Questo non significa che le evidenze raggiunte non abbiano la loro importanza, bensì che quelle prove che lo Stato e il sionismo cercavano a sostegno delle proprie rivendicazioni sono ormai sul tavolo, visibili a tutti coloro che le vogliono vedere. In questo senso il prossimo viaggio organizzato da EDIPI che mi troverà in veste di inusuale guida ha come obbiettivo chi creare dei testimoni di verità storiche inoppugnabili per contrastare l'ondata di menzogne che si sta riversando su Israele e la sua storia. Per cui vi dò l'appuntamento dal 15 al 22 giugno... l'anno prossimo a Gerusalemme.

Locandina

(Edipi, 11 dicembre 2015)


Il tempo e la storia: nazisti in fuga. La rotta d'oriente

di Deborah Fait

 
                 Walter Rauff                                 Alois Hudal
E' da segnalare l'ottimo documentario di Rai 3, Il tempo e la storia sui rapporti strettissimi tra i nazisti e il mondo arabo/islamico, sia durante sia dopo la guerra, con i nazisti in fuga. Siria e Egitto danno immediatamente rifugio agli ufficiali del Reich cercando di sfruttare le loro competenze in campo militare e di intelligence. Migliaia di nazisti lasciano l'Europa scappando attraverso l'Italia, approfittando della tolleranza delle autorità civili e del Vaticano. Vigeva all'epoca nei confronti dei tedeschi del Reich la legge del silenzio, la parola d'ordine era "non è necessario perseguire i nazisti".
   Walter Rauff che fu il coordinatore dei Gaswagen, i camion a gas usati per ammazzare gli ebrei, gli omosessuali e altri prima dell'invenzione della camere a gas nei campi della morte, fu eletto capo della Gestapo a Milano. Riesce a fuggire agli alleati che lo avevano imprigionato, evade e corre a Roma dove lavora addirittura in un convento cattolico finché il Papa in persona, il tanto discusso Pio XII, lo fa insegnante presso la Santa Sede. Il vescovo filonazista Alois Hudal, capo del Collegio teutonico di Roma, era molto attivo nell'assicurare la fuga dei nazisti. Omertà assoluta della Croce Rossa che aiutava la fuga con passaporti falsi. Alla fine Rauff sceglie il Medio Oriente, il suo compito chiaro e semplice, su espressa richiesta del Muftì di Gerusalemme, era di esportarvi la Shoà e procedere insieme agli arabi allo sterminio degli ebrei.
   Insomma un documentario fatto molto bene che mette in chiaro gli stretti rapporti tra mondo arabo e Terzo Reich, tra il Mufti di Gerusalemme, Hitler, Himmler e Goering, suo amico personale. Himmler aiutò il Muftì a creare un corpo di SS musulmane che il generale nazista teneva in grande considerazione perché morivano allegramente convinti di trovare in paradiso. Obiettivo di tutti, arabi, Lega Araba e nazisti era la distruzione di Israele. Nauseante la posizione tollerante dell'Italia e anche di altri paesi europei, complici del nazismo nel portare a termine la Shoah e molto disponibili a guerra finita nell'aiutare la fuga dei criminali nazisti.
I nazisti dal canto loro, a tre anni dalla fine della guerra, erano ancora pronti a una seconda Shoah e organizzarono con 6 stati arabi l'invasione di Israele. E fu una disonorevole sconfitta, 6 eserciti arabi armati fino ai denti, addestrati dai soldati teutonici, messi in ginocchio da una manciata di ebrei, molti dei quali reduci dai campi di sterminio. Subito dopo la disfatta, caduto in disgrazia, Walter Rauff partì per l'Argentina. C'è da augurarsi che simili documentari, non manipolati dalla propaganda, vengano ripetuti e non siano soltanto un piacevole intermezzo in un mare di falsità storiche troppo spesso propinate ai telespettatori.
   Ernesto Galli della Loggia non ha mancato di far presente che Mein Kampf e I Protocolli dei Savi di Sion vanno per la maggiore ancora oggi nei paesi musulmani ad alimentare il tradizionale odio per gli ebrei. Conclude il documentario una breve intervista a Beate Klarsfeld sulla cattura del criminale nazista Barbie.

(Inviato dall'autrice, 14 dicembre 2015)


Sport che unisce: con Kinder bimbi arabi, ebrei, africani giocano assieme

GERUSALEMME, 13 dicembre - Sedici squadre miste di bambini dai 5 ai 14 anni: arabi, ebrei, diversamente abili e di colore. E' il Torneo di calcio 'Kinder+Sport' organizzato dal 'Roma Club di Gerusalemme' con il patrocinio dell'Ambasciata d'Italia in Israele che si e' svolto oggi a Tel Aviv. "E' un progetto globale responsabile sviluppato da Ferrero, a promuovere stili di vita attivi, incoraggiando gioco dinamico e sportivo tra i bambini e le loro famiglie, momenti di formazione fondamentali nella crescita di un bambino. E per questo lo abbiamo fatto nostro", ha spiegato Samuele Giannetti del 'Roma Club Gerusalemme' .
"Attraverso la partecipazione allo sport e all'educazione fisica, i giovani - è detto in un comunicato - imparano l'importanza di valori fondamentali come l'onestà, l'amicizia, l'unità, la fiducia e la fiducia negli altri, e Kinder+Sport vuole essere il sostenitore di questi principi in tutto il mondo". Ha partecipato alla premiazione l'ambasciatore di'Italia in Israele Francesco Maria Talo': "Oggi lavoro = piacere. Una bella giornata con bambini ebrei, arabi, africani", ha commentato su Twitter.
Il Roma Club di Gerusalemme e' una iniziativa ebraica per un tifo senza confini nato nel 1998 per iniziativa di un gruppo di italiani residenti in Israele, ed in primis il presidente Fabio Sonnino, i quali hanno sentito la necessità di rimanere attaccati e tifare per la squadra giallorossa anche a più di 3000 km di distanza aprendo così il primo club di tifosi romanisti in Medio Oriente.
Kinder+Sport è un progetto globale responsabile sviluppato da Ferrero, a promuovere stili di vita attivi, incoraggiando gioco dinamico e sportivo tra i bambini e le loro famiglie. Il progetto nasce dalla consapevolezza che una vita attiva è la formazione non solo per il corpo, ma anche per le emozioni e rappresenta un momento di formazione fondamentale nella crescita di un bambino.

(OnuItalia, 13 dicembre 2015)


Il villaggio neonazista di Jamel, in Germania

Dove i bambini marciano e sognano il ritorno del Terzo Reich

Il nazionalsocialismo sta riprendendo piede in Germania, come racconta un reportage de La Stampa, in particolare nelle aree rurali sparse tra la Pomerania e il Meclemburgo, piccoli villaggi trasformatisi in altrettanti piccoli Reich abitati da contadini "eco-nazi", neo-artamani, skinhead e nazi hipster. In uno di questi villaggi, Jamel, vi è solo una coppia di artisti, i Lohmeyers, che tenta di resistere alla rievocazione del nazismo, ma invano.
   Jamel è entrato nel radar dei nazi una quindicina di anni fa. In questo tranquillo villaggio di quaranta anime a sud di Schwerin è nato e cresciuto un noto naziskin tedesco, Sven Krueger. Esponente degli Hammerskin, pregiudicato, eletto consigliere comunale a Wismar nel partito di estrema destra Npd, ha cominciato a comprare le fattorie intorno alla sua, a invitare i sodali neonazisti a prendere quelle che si liberavano, a cacciare da Jamel chiunque non abbia il culto di Adolf. All'ingresso del villaggio, un cartello indica la distanza da Braunau am Inn, il paese natale di Hitler. Di fronte, un enorme murale copre il lato intero di una casa: rappresenta una famiglia bionda, sorridente, i nazionalsocialisti avrebbero detto «ariana». La scritta è in caratteri gotici: «Comunità di Jamel, libera, sociale, nazionale».
   I Lohmeyer, Birgit e Horst, vivono in questo clima di tensione, cercando di resistere. Per il loro impegno civile hanno addirittura vinto qualche premio, ma la paura è comunque una costante della loro vita.
   La coppia di artisti è circondata da «coloni hitleriani» che non si limitano a guardarli male. «Per anni ci hanno insultati per strada, inseguiti in macchina, hanno tentato di farci andare fuori strada, hanno bucato le ruote delle nostre macchine. Tentano continuamente di terrorizzarci, di farci andare via», racconta Horst. «Da allora non riesco più a scrivere i miei romanzi polizieschi», ammette Birgit. Poi aggiunge, tutto d'un fiato, «abbiamo paura, ma non ce ne andiamo, non l'avranno vinta».

(L'Huffington Post, 14 dicembre 2015)


Buenos Aires - Il nuovo governo applaudito a Gerusalemme

 
Il presidente argentino Mauricio Macri
"Si tratta di un cambiamento di direzione a cui diamo il benvenuto. Spero che vedremo un significativo miglioramento nelle relazioni tra Argentina e Israele così come, negli anni a venire, con altri paesi del Sud America".
   Ad esprime soddisfazione, il Primo ministro d'Israele Benjamin Netanyahu che, durante la riunione di governo di inizio settimana (la domenica in Israele), ha applaudito l'annuncio del neoeletto presidente argentino Mauricio Macri di non voler costituire la commissione congiunta con l'Iran per indagare sull'attentato all'Associazione Mutualità Israelita Argentina (Amia) del 18 luglio 1994. Nell'attacco furono uccise 85 persone e oltre 300 furono i feriti. Seppur in questi vent'anni non si sia riusciti a fare giustizia, la pista più solida (frutto di 600 pagine di inchiesta e avvalorata dall'Interpool) indica come responsabile dell'attentato una cellula del movimento terroristico Hezbollah che prendeva ordini da sei alti funzionari iraniani.
   Dietro l'eccidio di Buenos Aires ci sarebbe quindi la mano del regime di Teheran. Siglare un accordo come quello firmato nel 2013 con l'Iran dall'allora presidente Cristina Fernandez Kirchner per indagare sull'attentato all'Amia per le famiglie delle vittime è suonato come un insulto: per dirla come l'American Jewish Committee equivaleva a chiedere "alla Germania nazista di aiutare a ricostruire i fatti della Notte dei Cristalli". Un tribunale federale ha dichiarato illegittimo l'accordo tra Buenos Aires e Teheran ma la Kirchner aveva annunciato di voler ricorrere contro la decisione. Il cambio alla Casa Rosada ha però nuovamente modificato le carte in tavola portando tra l'altro il rabbino Sergio Bergman, tra i più strenui oppositori del citato accordo, a far parte del governo Macri.

(moked, 13 dicembre 2015)


Netanyahu: il ritorno di Tarabin dimostra la nostra preoccupazione per tutti cittadini del paese

Il ritorno in Israele di Ouda Tarabi, detenuto 15 anni nelle carceri egiziane, dimostra che Israele si preoccupa di tutti i suoi cittadini. Lo ha detto oggi il premier israeliano Benjamin Netanyahu poco prima della riunione di governo che ha discusso, tra le altre cose, del ritorno in patria di Tarabin, cittadino arabo-israeliano ritenuto dall'Egitto una spia di Tel Aviv. Lo riferisce il quotidiano "The Jerusalem post". Il primo ministro ha detto che Israele ha accettato di liberare tre prigionieri egiziani che avevano scontato la loro pena ed altri sei che la stavano ancora scontando per riportare nel paese Tarabin. Netanyahu ha anche ricordato di aver negoziato la liberazione di Tarabin con tre diversi presidenti egiziani, Hosni Mubarak, Mohammed Morsi, e Abdel Fatah al Sisi, e che 18 mesi fa ha mandato il suo inviato Yitzhak Molcho in Egitto per garantire che Tarabin, condannato con l'accusa di spionaggio, sarebbe davvero stato rilasciato dopo aver scontato la sua condanna.

(Agenzia Nova, 13 dicembre 2015)


Archeologia: a San Giovanni d'Acri riscoperto il rione genovese

AKKO - Sotto al variopinto "suk" arabo di Akko (S. Giovanni d'Acri), una delle mete turistiche più frequentate in Israele, a quattro-cinque metri di profondità sotto ai decori natalizi e alle bancarelle di pesci e di spezie, sono stati localizzati i resti di una strada di epoca crociata. Era lunga 150 metri.
   Come in un bazar, si presume che avesse ai lati botteghe e magazzini. Era la arteria centrale del "Quartiere genovese" in quell'affollato porto che (sulla base di reperti archeologici) estendeva i propri commerci oltre che all'Europa fino in Cina e in Marocco. Nove secoli fa, Genova e Acri erano città sorelle.
   Questa settimana, per la prima volta, gli ospiti del Centro internazionale per la conservazione di Akko (intestato alla città di Roma) hanno potuto vedere il primo tratto di quella strada tornato alla luce grazie a numerosi anni di scavi del Dipartimento israeliano per le antichità. Per via delle vicissitudini storiche, Akko è una città su due piani. Quello superiore, che ben conoscono i turisti, è di aspetto ottomano. Fu eretto sui resti della città crociata (1104-1291) che non venne rasa al suolo, ma semplicemente sepolta e sommersa di detriti.
   Dopo secoli di letargo, negli ultimi decenni archeologi israeliani hanno scavato sistematicamente recuperando importanti reperti crociati, fra cui la Fortezza degli Ospitalieri e la galleria dei Templari. Adesso il loro interesse si è concentrato su quanto resta delle repubbliche marinare: Genova, Venezia, Pisa. Ciascuna ad Acri costruì una sua «città nella città», a propria immagine e somiglianza.
   Avendo propiziato con la sua flotta nel 1104 la conquista di Acri, Genova ottenne da Re Baldovino I un terzo della città ed un terzo del reddito del porto. A quell'epoca Acri aveva 25 mila abitanti, il doppio di Londra, a cui si aggiungevano 10 mila pellegrini in transito. La città disponeva di un avanzato sistema di fognature, e di depositi per la raccolta dell'acqua piovana.
   Il rione genovese, spiega l'archeologo Eliezer Stern (che vi ha condotto lunghi scavi assieme a Fabrizio Benente dell'Università di Genova) era nel lato occidentale di Acri. La sua strada principale partiva dal punto dove oggi si trova il Monastero greco-ortodosso di San Giorgio. Proseguiva verso est - sotto all' attuale "suk" - fino alla sinagoga Ramhal, un edificio del Settecento.
   Sotto ai detriti, «si sono conservate pareti alte anche sei-sette metri», di edifici che potevano elevarsi su tre-quattro piani. In alcuni muri sono state scoperte fessure per gli arcieri, simili a quelle di palazzi della stessa epoca a Genova. Per il momento gli scavi si rendono possibili solo alle due estremità.
   Una volta completato un restauro, il suo aspetto ricorderebbe - secondo Stern - alcuni scorci dei vicoli di Genova: ad esempio, Sottoripa. «Se un giorno fosse aperta al pubblico - ha confermato Stern, nella visita organizzata in collaborazione con l'Istituto italiano di cultura di Haifa - rappresenterebbe certo un polo di attrazione per i turisti».

(Il Secolo XIX, 13 dicembre 2015)


I Nets sbagliano la scritta ebraica sulle magliette!

Il Brooklyn Nets volevano celebrare la serata dedicata alle tradizioni ebraiche con una maglietta dedicata… ma hanno commesso un errore di spelling!

di Alessandro Bonfante

Hanno invertito l'ordine delle lettere nella prima parola, che avrebbe dovuto essere מייצג
"Avrebbe dovuto" perché la scritta in ebraico aveva un errore di spelling. La stessa franchigia si è scusata per l'errore su Twitter: «Ci scusiamo per l'errore con le magliette. Abbiamo provveduto a correggere. Non vediamo l'ora di assistere ad una grande partita nella Jewish Heritage Night.»
Le T-shirt con la scritta corretta erano pronte per la vendita in tempo per la partita.
Per la cronaca, la partita è poi stata vinta per 100-91 dai Nets, con il contributo di 23 punti di Andrea Bargnani.

(La Gazzetta dello Sport, 13 dicembre 2015)


Il furgone della vergogna

Cosa lega un'idraulico del Texas direttamente alla Casa Bianca?

L'uomo del giorno, suo malgrado, si chiama Mark Oberholtzer e di mestiere fa l'idraulico in Texas City. La sua impresa di riparazioni ha avuto negli ultimi giorni una campagna pubblicitaria della quale, è facile presupporlo, avrebbe fatto volentieri a meno, e ora si ritrova ingarbugliata a un filo che lega un idraulico del Texas direttamente alla Casa Bianca... ma andiamo con ordine.
Circa due mesi fa Mark Oberholtzer, alla scadenza dei cinque anni di contratto leasing, ha restituito il suo furgone Pick Up alla società che glielo aveva affittato per prenderne uno nuovo. Prima di riconsegnarlo aveva però avvertito che avrebbe tardato la riconsegna di qualche giorno in modo da cancellare le scritte sul furgone con il suo indirizzo e numero di telefono. Il venditore però aveva fretta di riavere quel mezzo indietro e con la scusa di non rovinare la vernice, e su promessa che le scritte sarebbero state cancellate dai loro carrozzieri, lo aveva convinto a non ritardare l'operazione....

(Progetto Dreyfus, 13 dicembre 2015)


Terrorismo ed etichettature, due aspetti della stessa guerra contro Israele

Il boicottaggio dei prodotti 'Made in lsrael' non è una scelta economica ma una politica di discriminazione.

di Ugo Volli

Nel momento in cui scrivo questo articolo, l'Europa è sconvolta da una minaccia terrorista come non ne aveva conosciute da tempo e ciò ha messo in secondo piano l'ondata terrorista che continua ancora in Israele e anche il problema dei rapporti fra Unione Europea e Stato ebraico, che in questo momento si concentra sulla decisione di applicare un'etichettatura obbligatoria ed evidentemente discriminatoria alle merci prodotte nelle località poste al di là della linea armistiziale del '49, che furono il risultato della guerra che sei paesi arabi mossero contro Israele fin dal momento della sua costituzione e che Israele vinse: una "Linea verde" che fu stabilita con accordi che ne escludevano esplicitamente il carattere di confini internazionali.
   E' necessario pensare purtroppo che i tre temi cui ho accennato - terrorismo islamista in Occidente, terrorismo arabo in Israele, conflitto politico fra Unione Europea e Stato ebraico - siano destinati a permanere almeno nel medio termine ed è quindi necessario continuare a riflettere e a intervenire su ciascuno di essi, senza farci abbagliare da ciò che emerge alla cronaca in un momento o nell'altro. Per questa ragione è importante ragionare sull'etichettatura europea dei prodotti di Giudea e Samaria, che è un sintomo estremamente significativo di una situazione di conflitto in corso.
   Una parte importante della popolazione israeliana ha origini europee (magari mediate da un periodo di soggiorno negli Usa), il funzionamento del sistema politico israeliano somiglia di più al modello europeo di ogni altro stato (per esempio la legge è di origine britannica), il sistema multipartitico somiglia molto a quello italiano o francese, il livello di intervento pubblico e l'importanza dei sindacati sono abbastanza simili alle strutture tedesche. Bisogna prendere atto però che da decenni gli stati europei e dietro di essi le loro società sono ostili verso Israele. Le ragioni sono molte, sedimentate le une sopra le altre. C'è il vecchio, durissimo fondo dell'antigiudaismo cristiano, una predicazione d'odio che inizia già con i Vangeli e continua incessante nella teologia e nella pratica cristiana fino a travasarsi nell'odio per gli ebrei del pensiero laico (Voltaire, Kant, Marx) nell'antisemitismo "scientifico" ottocentesco e nel nazismo. C'è il complesso di colpa della Shoà, che si tramuta facilmente in aggressività e rivincita ("anche voi siete come i nazisti"). C'è la voglia di piacere al mondo arabo e dunque di dirsi partecipi del loro antisionismo. C'è la riproduzione degli schieramenti del comunismo, per cui gli arabi fanno parte del campo del progresso e Israele è un "lacchè dell'imperialismo". C'è invidia e timore per un giovane stato dinamico, capace di difendersi e di fare cose che l'Europa ha oggi paura di imitare. Quel che è importante comprendere è che l'etichettatura dei prodotti di Giudea e Samaria non è un provvedimento solo economico, non ha naturalmente nessun rapporto con la "corretta informazione dei consumatori" (negli stessi giorni in cui discriminava i prodotti di Israele, l'Unione Europea toglieva l'obbligo di indicare il luogo di elaborazione dei prodotti alimentari industriali).
   Il danno economico sarà certamente limitato. Quel che conta è l'aspetto politico, cioè il valore simbolico di questa decisione. E cioè che l'Unione Europea, che non è un organismo internazionale superiore se non agli stati che ne fanno parte (dunque non di Israele), si arroga il diritto di stabilire i confini di Israele, escludendone di sua iniziativa i territori contesi. Come se Israele, per ragioni sue, decidesse che la Catalogna non è più Spagna e i prodotti della Corsica e di Nizza debbano essere dichiarati "made in Italy", perché la Francia non li possiederebbe legittimamente. E' chiaro che una scelta del genere è del tutto contraria a ogni legalità internazionale: ogni stato (o superstato, come l'Europa si atteggia) si arrogherebbe il diritto di decidere a casa d'altri.
   Anche su questo punto bisogna chiedersi perché l'Unione Europea prende un atteggiamento del genere solo su Israele e su nessuno degli altri circa 200 conflitti territoriali che agitano il pianeta. Perché per esempio non imporre alla Turchia etichette o altri strumenti che accertino come nei suoi prodotti nulla sia stato fatto nella zona occupata di Cipro Nord (che è territorio europeo)? Perché non chiedere alla Russia lo stesso per la Crimea (territorio ucraino) e l'Abkazia (territorio georgiano)? Perché non farlo rispetto all'ex-Sahara spagnolo col Marocco, che gode di finanziamenti europei per sfruttare le risorse minerali e ittiche di questo territorio occupato?
   Potrei andare avanti a lungo, ma è chiaro che sotto c'è una pretesa di superiorità rispetto allo stato ebraico che non può non far pensare ai secoli in cui gli ebrei in Europa erano "proprietà" di questo o quel sovrano, e al modo in cui "per il loro bene" erano rinchiusi nei ghetti, obbligati a sottoporsi a vari tentativi di conversione, impediti di svolgere molti mestieri. E' un accostamento che non deriva solo da una sensibilità ebraica, ma che risulta chiaro a chiunque esca dalla cronaca e segua la dinamica storica dei rapporti fra ebrei e politica europea.
   Al di là di questi problemi di principio, è evidente che con l'etichettatura, che è premessa strumentale del boicottaggio, e magari in futuro non solo dei prodotti di Giudea e Samaria, ma di tutto Israele, l'Europa ripropone uno schieramento dalla parte degli arabi antisraeliani che è ribadito in mille cose dalle votazioni all'Onu e all'Unesco alle dichiarazioni politiche, dai comportamenti dei diplomatici in Israele fino al finanziamento sistematico delle organizzazioni "non governative" che vivono di fondi governativi o di fondazioni euroamericane che aizzano gli arabi a ribellarsi all'"occupazione" e sono fiancheggiatrici della "lotta popolare" che sfocia nel terrorismo. Questa posizione è un errore gravissimo, che ignora il fatto sempre più chiaro che Israele e l'Europa hanno lo stesso terribile nemico, l'islamismo assassino che colpisce a Parigi come a Gerusalemme. Alcuni stati europei, come la Germania e l'Ungheria si sono accorti di questo e hanno deciso di rifiutare l'etichettatura. Altri, come la Svezia, sono apertamente schierati dalla parte degli islamisti. Su tutto questo è necessario provocare il più possibile dibattito pubblico, perché i pregiudizi delle élites europee sono pieni di contraddizioni e inconciliabili coi fatti. Solo discutendone apertamente è possibile modificarli.

(Shalom, dicembre 2015)


"... una predicazione d'odio che inizia già con i Vangeli...". Se l'autore vede nei testi evangelici espressioni di odio antigiudaico, dovrebbe dire allora che questo odio comincia nell'Antico Testamento, dove si trovano testi ben più duri contro il popolo ebraico. In entrambi i casi lì si manifesta l'amore di Dio, non l'odio. Ma riconoscere l'amore di Dio per noi è umiliante per tutti: per i giudei prima e poi per i greci. M.C.


Netanyahu: sul clima Israele farà la sua parte

"L'accordo sul clima è importante" e Israele, come tutti i paesi, ha interesse che si riduca il riscaldamento globale. Per questo farà la "sua parte". Lo ha detto il premier israeliano Benyamin Netanyahu in apertura della consueta riunione di governo a Gerusalemme. Il premier ha anche parlato di Ouda Tarabin, il beduino israeliano, rilasciato dall'Egitto dopo 15 anni di carcere per aver spiato a favore dello stato ebraico: "Israele - ha detto - non abbandona i suoi cittadini".

(ANSA, 13 dicembre 2015)


C'è l'antisemitismo à la page

Intervista a Giulio Meotti.

È un clima da armi '30. Mentre in Germania c'erano le vignette contro i giudei sui giornali nazionalsocialisti, nell'Urss nei circoli intellettuali albergava l'odio al «cosmopolitismo degli ebrei». Sono gli intellettuali, sempre, i primi a tradire gli ebrei. E non solo oggi. Basta ricordare che, da Norberto Bobbio e Concetto Marchesi, tutti i padri nobili della sinistra italiana firmarono il questionario fascista sulla «razza ebraica» Nella commemorazione delle stragi del 13 settembre, Hollande ha citato tutti gli attacchi dalle Torri gemelle di New York, alle metro britanniche e spagnole, ai massacri a Bruxelles e a Parigi ma non ha mai menzionato gli assassinii perpetrati a Gerusalemme. In questo modo, Hollande ha pubblicamente fatto un'orrenda scelta morale per cui La Città Santa o Tel Aviv sono lecitamente sacrificabili e pure Israele. Ai feroci islamisti dell'lsis (e di tutte le altre parrocchie terroristiche) interessa distruggere i nostri valori e le nostre democrazie. E noi invece, a chi, quei valori, li pratica nel cuore del Medioriente, non guardiamo come se esso fosse un nostro grande alleato, ma lo viviamo come un problema. Sul Guardian 300 accademici hanno dichiarato di voler interrompere ogni rapporto con le università israeliane e l'hanno fatto.
C'è la grande organizzazione delle femministe americane che boicotta pubblicamente Israele, quasi che questo paese fosse il più grande violentatore o imitatore dei diritti di donne nel mondo. Anche Amnesty International non ha mai preso una posizione chiara sul terrorismo in Israele. Per non parlare del rapper ebreo americano Matisyahu che è stato addirittura cacciato da un festival di musica in Spagna. Non diverso è l'atteggiamento della famiglia reale inglese. Le pare possibile che né la Regina Elisabetta, né l'onnipresente Principe Carlo abbiano mai messo piede in Israele? In compenso essi vanno spesso in paesi meravigliosi, dal punto di vista del rispetto dei diritti umani (e in particolare (delle donne) tipo l'Arabia Saudita. Nei paesi scandinavi l'antiebraismo è il più esplicito e viene espresso senza pudore.

di Goffredo Pistelli

 
Giulio Meotti
Il 20 dicembre in libreria uscirà, per Lindau, il suo nuovo libro, Hanno ucciso Charlie Hebdo. «Sarà un pamphlet, a un anno dalla strage, ricordando tutti quelli che attaccavano i vignettisti ma da vivi. E hanno continuato pure da morti, per niente #jesuisCharlie. Ma sarà anche la storia di 30 anni in cui la nostra libertà di espressione si è ritrovata alle prese con l'intimidazione islamista, da Saiman Rushdie a Benedetto XVI, e di come quella libertà l'abbiamo perduta».
  Ma non abbiamo cercato Giulio Meotti, aretino, 36 anni, da 12 al Foglio, per parlare di islamismo quanto, piuttosto, di questo antisemitismo à la page, che circola in Europa, in cui è maturato l'embargo surrettizio contro i prodotti Israeliani: la Commissione vuole che in etichetta sia indicato se sono prodotti oltre la Linea Verde, aldilà della quale ci sono gli insediamenti conquistati con la guerra del 1967.

- Domanda. Che cos'è questo sentimento anti-israeliano che si vena sempre più di antiebraismo? Ce ne sono esempi eclatanti, Dagens Nyheter, il più sofisticato quotidiano di Svezia, che, come lei ha scritto, «ha recentemente pubblicato un editoriale dal titolo «E' permesso odiare gli ebrei», in cui l'autore, lo storico delle religioni Jan Samuelson, spiega che l'odio islamico per lo stato ebraico è giustificato.
  Risposta. Sì questo sentimento nasce dalle élite, è un fenomeno che oggi trovi soprattutto dal mondo intellettuale, nei giornali, nelle università, nell'editoria, nelle ong, nei ministeri degli Esteri e soprattutto nel Nord Europa. È lì che emerge il partito preso anti-Isreale. Io noto che anche negli anni '30 del 900 era già successo qualcosa del genere.

- D. I prodromi del nazismo?
  R. Non solo. Mentre in Germania c'erano le vignette contro i giudei sui giornali nazionalsocialisti, nell'Urss, sempre nei circoli intellettuali, albergava l'odio «al cosmopolitismo degli Ebrei». Oggi ovviamente non ci sono i pogrom ma l'odio altoborghese e colto. Sono gli intellettuali i primi a tradire gli ebrei. Non solo oggi, basti ricorda che da Norberto Bobbio a Concetto Marchesi, tutti i padri nobili della sinistra italiana firmarono il questionario fascista sulla «razza ebraica».

- D. Più pericoloso, perché poi, inevitabilmente, scenderà dai piani alti già fin nella strada.
  R. Certo che è più pericoloso. Già ora, per effetto di questo sentimento, l'opinione pubblica anche italiana non capisce molto di questa terza Intifada, non ha chiaro chi accoltelli chi, chi sia vittima e aggressore. Si è creata una confusa equivalenza morale, Israele e i terroristi sono sullo steso piano. Israele diventa ingiusto, iniquo.

- D. Ricordiamo qualche caso?
  R. Beh, recentissimo quello della ministra degli Esteri svedese, Margot Wallstrom: in un'intervista, dopo Parigi, aveva detto che «per contrastare la radicalizzazione dobbiamo tornare alla situazione in Medio oriente, dove i palestinesi vedono che non c'è futuro per loro e devono accettare una situazione disperata o ricorrere alla violenza». Mentre il premier, Stefan Lofven, ha spiegato che gli accoltellamenti non sono terrorismo ma un'altra cosa: resistenza, risposta all'occupazione. Del resto anche Francois Hollande ...

- D. Anche Hollande?
  R. Nella commemorazione del 13 novembre, ha citato tutti gli attacchi, dalle Twin Towers, alle metro britannica e spagnole, a Bruxelles e a Parigi ma non ha menzionato Gerusalemme. Facendo una scelta morale: la Città Santa o Tel Aviv sono sacrificabili e pure Israele lo è. Si va facendo strada l'idea che, eliminando il problema Israele, si risolverà il problema del mondo islamico.

- D. Che non mi pare sia in cima ai problemi dell'Isis: anche la loro propaganda punta ai paesi islamici moderati o al cuore dell'Europa. O, ancora, a Roma.
  R. Certo. A loro interessa distruggere i nostri valori e le nostre democrazie. E noi, invece, a chi quei valori li pratica nel cuore del Medioriente, non guardiamo con un grande alleato ma come un problema, un fastidio.

- D. Facciamo altri esempi, Meotti.
  R. C'è l'appello, sul Guardian, dei 300 accademici che, in occasione della terza Intifada, hanno dichiarato di interrompere ogni rapporto con le università israeliane e l'hanno fatto. Poi c'è la grande organizzazione di femministe americane che boicotta Israele, quasi fosse il più grande violentatore di donne del mondo. E, ancora, ci sarebbe Amnesty International, che non ha mai preso una posizione chiara sul terrorismo in Israele. E insiste sull'equivoco di fondo della risposta spropositata da parte di Gerusalemme. Per non parlare del rapper ebreo americano Matisyahu, cacciato da un festival di musica in Spagna.

- D. Lei diceva che i più duri stanno nel Nord Europa.
  R. Nei Paesi scandinavi soprattutto, per una serie di motivi, ma soprattutto per la presenza di comunità islamiche molto forti, che fanno pressioni e ricattano, anche se loro, gli intellettuali, i giornali, gli universitari, non lo ammetteranno mai. Laddove l'integrazione è alla prova, si pensa di cavarsela scaricando Israele.

- D. Citava il Guardian. In Gran Bretagna come va? C'è un problema storico, perché i sionisti fecero terrorismo durante l'occupazione inglese in Palestina e ci fu la strage dell'Hotel King David di Gerusalemme, nel 1946.
  R. Sì, è vero ma le pare possibile che né la Regina Elisabetta né il Principe Carlo abbiano mai messo piede in Israele? In compenso vanno spesso in Paesi meravigliosi, dal punto di vista dei diritti umani, tipo l'Arabia Saudita. Però Oltremanica, pur col multiculturalismo spinto e problemi di estremismo islamista, gli ebrei non scappano come dalla Francia.

- D. In Francia, c'era un brutto clima molto prima degli attentati: cimiteri profanati e il rapimento e la barbara uccisione di un cittadino Ilan Halimi.
  R. È vero che sono la comunità più grande, 250mila persone ma da lì fuggono 6mila israeliti all'anno. L'alià, come si chiama l'emigrazione verso Israele, gli costa moltissimo, amano l'Europa, ci vivono da secoli. Ma la storia d'amore fra ebrei e la Francia è finita da quando c'è stata la strage alla scuola ebraica di Tolosa nel 2012.

- D. E da noi?
  R. No, in Italia, si ama e si odia meno intensamente e in modo meno ideologico che altrove. E forse conta che gli ebrei siano poco più di 30mila. Certo, abbiamo le folli esternazioni di Gianni Vattimo e Piergiorgio Odifreddi, sui giornali e nelle università, gli editoriali di Repubblica, ma la gente è lontana da questo sentimento. Se uno va in giro in kippah (il copricapo israelitico, ndr), nessuno ha da dire qualcosa. L'Italia non ha conosciuto il fenomeno di delazione e collaborazionismo di Vichy, per intendersi.

- D. E la politica? Una volta a sinistra, addirittura nel Pci, c'era un nucleo filoisraeliano molto forte.
  R. Sì fino al 1967. Un sentimento che veniva da lontano, una simpatia verso l'ideale del kibbutz, perché Israele è stato a lungo un esperimento collettivista di successo. E poi se, non fosse stato per l'Urss, nel 1948, non sarebbe neppure nato.

- D. E con la Guerra dei sei giorni cosa succede?
  R. Che l'intellinghentzia di sinistra la inquadra come una guerra di espansione, un peccato originale, un corpo estraneo. Si guarda agli Israeliani come occupanti, associati all'Occidente. Da allora si è andati peggiorando, fino a una passeggiata di Massimo D' Alema, ministro degli Esteri del Prodi II, che a Beirut, nel 2006, si fece fotografare a braccetto con un dirigente di Hezbollah, mentre era in corso la guerra del Libano. Ma non siamo arrivati agli eccessi di Jeremy Corbyn.

- D. Il leader laburista è un tantino filopalestinese ...
  R. Amico della peggiore canaglie di Hamas e di Hezbollah, senza vergognarsene affatto. E' la sinistra che si accompagna agli imam dell'odio.

- D. Matteo Renzi è stato accusato di essere filoisraeliano fin dalle primarie del 2012, in cui si ricordavano gli interessi del suo runico Marco Carrai in quel Paese.
  R. Quando è andato in Israele ha parlato alla Knesseth facendo un bel discorso, ma quella di parlare bene è un po' una sua inclinazione ...

- D. Beh, disse «Chi pensa di boicottare Israele non si rende conto di boicottare se stesso, di tradire il proprio futuro».
  R. Infatti. Un discorso alto, da amico.

- D. Ma veniamo al boicottaggio contro il quale, voi del Foglio, il direttore Claudio Cerasa in testa, avete lanciato una campagna a comprare israeliano.
  R. Una cosa assurda, paradossale... Nelle stesse settimane in cui veniva tolto l'embargo all'Iran, si è introdotto questa marchiature dei prodotti israeliani fabbricati nei Territori. Una cosa vigliacca.

- D. Perché?
  R. Ci sono 200 conflitti nel mondo e, per nessuno di questi, Bruxelles sente il bisogno di far scegliere il consumatore. Nessuno pretende che sulle merci cinesi prodotte nel Tibet occupato, ci sia scritto «made in Tibet, under Chinese occupation», ossia «fatto in Tibet sotto occupazione cinese», eppure quando viene il Dalai Lama, tutti si commuovono un sacco. La marchiatura europea di Israele è il primo passo verso un boicottaggio vero e proprio.
  Il più grande magazzino di Berlino, la KaDeWe, aveva già cominciato, poi, per le proteste, sono tornati indietro. Benjamin Netanyau ha telefonato personalmente ad Angela Merkel. Una città irlandese, Kinwara, come quella inglese di Leicester, sono Israel free», si vantano di aver eliminato prodotti israeliani. Del resto la marchiatura europea ha un precedente proprio in Germania, 70 anni prima, con la «Ju» di juden, ebreo.Anche allora si cominciò dai prodotti.

- D. Mi ricordavo i negozi.
  R. Prima Goebbels obbligò la marchiatura dei prodotti ebrei. Ma per tornare al boicottaggio, ci sono fondi pensione norvegesi the non investono in aziende israeliane, supermercati olandesi, ~vedesi, inglesi che non vendono prodotti «made in Israel». Da noi circola una petizione per chiedere ad Acea di non stringere accordi con la società idrica Mekorot.

- D. A cosa punta questa guerra dell'etichetta?
  R. L'interscambio più forte è con l'Europa: si vuole arrecare un danno economico, si vuol colpire la vitalità di quel paese, che è forte perché ha un'economia forte, un Pil alto, che attrae investimenti. Lo si vuole trasformare in un luogo chiuso, isolato, meno appetibile.

- D. L'Europa prima del boicottaggio ha una lunga storia di sostegno economico ai palestinesi.
  R. Un buco nero: rovesciamo fra la Cisgiordania e Gaza miliardi di euro ogni anno e nessuno sa dove vanno.

- D. Paradossale, perché se c'è un mantra europeo si chiama «rendicontazione».
  R. Vero. Volevano far fallire la Grecia per un punto percentuale e qui abbiamo un fiume carsico di euro.

- D. Per fare?
  R. Un tempo quei soldi finanziavano le ville dei gerarchi dell'Olp e le loro corruttele ideologiche, oggi vanno all'Autorità nazionale palestinese-Anp ma nessun controllo su come vengano spese. Per esempio su che cosa si scriva nei libri di testo, stampati grazie a quei finanziamenti, che invece contengono spesso incitamento all'odio anti-israeliano

- D. E i soldi vanno anche a Gaza
  R. Certo. E non si può escludere che il cemento per costruire i tunnel con cui Hamas entra in Israele per fare i suoi, attentati venga da lì.

- D. Non fa specie la natura islamista di Hamas.
  R. Hamas è stata tolta dalla lista delle organizzazioni terroriste, dove era entrata nel 2003, merito, va detto, di Silvio Berlusconi, durante il somestre a guida italiana. È stato detto che l'esclusione di Hamas dalla black list è avvenuta «per un errore tecnico».

- D. Una manina, qualcuno potrebbe pensare ...
  R. Ma non mi sorprende: dialoghiamo apertamente con Hamas ed HezboIlah. E si continua a parlare di occupazione israeliana, quando la Gaza non c'è più un soldato di Tsahal, l'esercito israeliano.

- D. Perché l'Europa ha assunto negli anni questa posizione? Un contraccolpo emotivo alla creazione dello stato di Israele?
  R. Una sorta di complesso di colpa. Di cui il finanziamento a fondo perduto di uno Stato palestinese che però non ha dato frutti se non la perpetuazione del conflitto. L'Europa ha messo sullo stesso piano la Shoah e la «Nakba», la catastrofe della nascita di Israele come la chiamano i palestinesi.

- D. E ora, nel pieno della minaccia terrorista Isis, paradossalmente si arriva anche al boicottagio.
  R. Israele è diventato una foglia di fìco per le classi dirigenti europee per parlare d'altro. E i terroristi di Hamas diventano, con tutte le sfumature semantiche, combattenti, partigiani, resistenti. Eppure i kamikaze, le bombe, umane, li hanno inventati loro. Già ai tempi dei dirottamenti aerei e delle stragi degli anni '70: quelli dell'Olp si facevano ammazzare col kalashnikov in mano ma erano votati alla morte.

- D. Ma cosa pensa Giulio Meotti di questo problema? Come si risolve? Non si può negare che anche certi israeliani, con la loro radicalità, abbiano le loro colpe. Lei non ha fiducia nella formula «due popoli, due Stati»?
  R. È difficile applicare un'utopia, bella e sfuggente, alla realtà. Secondo mc imporre dall'alto una soluzione a Israele è un rischio. Sarebbe chiedergli di suicidarsi. Chiedere di riconsegnare i territori del '67 non avrebbe precedenti.

- D. Sì perché poi ci furono anche quelli annessi con la guerra del Kippur del 1973, poi riconsegnati.
  R. Oltre a Gaza e la Cisgiordania, Israele si è ritirato dal Golan, dal Sinai, dal Sud Libano. Ma «terra in cambio di pace» non ha funzionato: spesso, proprio da quelle terre, sono partiti e partono gli attacchi.

- D. Insomma come ne usciamo?
  R. I miei amici israeliani, quando glielo chiedo, mi dicono che è importante gestire il conflitto, minimizzare i danni e aumentare il benessere dei palestinesi.

- D. Il benessere contro le sirene del terrorismo…
  R. Oggi a Ramallah, a Nablus, a Jenin si vive meglio che al Cairo, a Riad e a Tunisi. Soluzioni politiche non ne vedo, anche perché non vedo palestinesi disposti a fare scelte impopolari come fece Anwar el Sadat, che pagò con la vita l'aver messo piede in Israele.

- D. Anche Yitzhak Rabin pagò con la morte, per mezzo di un terrorista ebreo, l'aver firmato la pace.
  R. E vero. Ma Abu Mazen, che pure non è una figura negativa, non pare disposto a firmare accordi. Il punto è che il massimo che Israele può offrire è meno del minimo di quanto cchiedonoi Palestinesi. Il conflitto è sul 1948 e non sul 1967, è sull'esistenza stessa di Israele.

- D. La sua citazione di Sadat mi fa venire in mente che i principali nemici della causa palestinese sono stati spesso i Paesi arabi: il re di Giordania li cacciò con le baionette nel famoso Settembre nero.
  R. I paesi arabi hanno sempre strumentalizzato la Palestina. Saddam, per esempio, finanziava i kamikaze e usava la questione palestinese. Ma le pare che potrebbero tenerli come li tengono da decenni nei campi profughi? Dal 1948 agli anni Sessanta, 800mila ebrei scapparono dal Medio Oriente e dall'Africa del Nord.

- D. Dallo stesso Iraq, con l'operazione Tappeto volante…
  R. Esatto. Ma nessuno in Europa è finito in un campo profughi. La comunità internazionale ha le sue colpe, a cominciare dall'Onu, che ha dedicato ai palestinesi una specifica agenzia, unico popolo al mondo, la Unrwa che sta per «United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees», Durante l'ultima guerra a Gaza si è scoperto che nelle scuole e negli ospedali gestiti dall'agenzia, Hamas aveva ammassato missili. Pensi l'ironia: proprio contro Israele, nato sul voto dell'Onu...

- D. Che fare allora?
  R. Solidarietà. È l'unica arma che abbiamo noi occidentali a favore di Israele, la frontiera che tutti gli uomini civili dovrebbero difendere.

(ItaliaOggi, 12 dicembre 2015)


Fatah e Isis: il sacrificio dei bambini palestinesi

di Bassam Tawil (*)

 
Di recente, sempre più ragazzi, ragazze e bambini palestinesi hanno lasciato le loro case per andare ad accoltellare gli israeliani. I funzionari dell'Autorità palestinese (Ap) sostengono che i loro figli hanno preso questa decisione spontaneamente e che nessuno li invia a compiere attacchi terroristici. In realtà, però, ogni palestinese sa che dietro questi attentati "indipendenti" e "spontanei" c'è una istigazione deliberata e organizzata, in parte dai politici e in parte dalle fatwa (opinioni religiose) emesse dalle autorità religiose. Uno di questi religiosi, Sheikh Yusuf al-Qaradawi, se ne sta lontano e al sicuro, in Qatar, e manda a morire i bambini palestinesi. Le moschee e le scuole dell'Ap e della Striscia di Gaza, così come i social media, spesso sfruttano spudoratamente i minori palestinesi - che magari sono un po' smarriti e che anelano a compiere un grande "atto eroico" per una grande "causa" romantica.
  Ma poiché i soldati israeliani catturano spesso questi assalitori, molti omicidi commessi da questi bambini finiscono tragicamente anche in inutili suicidi "passivi". I nostri leader perversi non solo incoraggiano i giovani palestinesi a commettere omicidi, ma quando essi sono uccisi mentre li perpetrano, sia l'Autorità palestinese sia Hamas affermano che sono stati "giustiziati" dagli israeliani. Poi, chiamano i nostri figli morti "martiri" (shuhadaa), li glorificano e li trasformano in figure di riferimento per altri ragazzi perdenti. E infine pagano alle loro famiglie ingenti somme di denaro. Essi mandano i minori a fare il lavoro sporco, ben sapendo che rischiano di essere uccisi dalle forze di sicurezza israeliane. Ma come possiamo giustificare noi stessi? Che cosa abbiamo permesso che accadesse alle belle menti che Allah ci ha dato? Che fine ha fatto il nostro senso della morale? È penoso vedere come questi ragazzi siano trasformati in cose di nessun valore. Sono bambini sacrificati da una cinica leadership palestinese che promuove una cupa cultura di sangue e morte.
  Se i palestinesi preferiscono davvero combattere Israele, allora perché mandano i loro figli a combattere una "guerra santa", invece di farlo loro in prima persona, da uomini? Da queste morti da entrambi i lati non ne viene nulla di buono - e nemmeno verrà. E la situazione della Moschea di al-Aqsa è migliorata? Non è più "in pericolo"? Il problema è che la Moschea di al-Aqsa non è mai stata in pericolo. Secondo l'agenzia di stampa ufficiale palestinese, Wafa. non ci sono mai stati topi resistenti al veleno, liberati dagli israeliani con lo scopo di far scappare dalle loro case i residenti arabi di Gerusalemme. Come ha scritto sardonicamente un giornalista arabo: "Non è chiaro come a questi ratti sia stato insegnato a stare lontani dagli ebrei, che guarda caso vivono anch'essi nella Città Vecchia". Non c'è mai stata alcuna gomma da masticare impregnata di afrodisiaco dagli israeliani per corrompere i nostri uomini e donne. E questo ha liberato un metro di terra palestinese? Gli ebrei sono davvero fuggiti "in preda al terrore" da Israele? Al contrario, gli ebrei europei fuggono in Israele. Paradossalmente, mentre gli ebrei sembrano divisi e scannarsi tra di loro, noi continuiamo a farli riavvicinare.
  In qualche modo, gli israeliani sembrano superare i rapimenti, gli attentati suicidi, gli omicidi e gli atti di terrorismo in generale che noi palestinesi perpetriamo contro di loro. Non indietreggiano mai, anzi avanzano. Ci sono due problemi che sembrano essere urgenti. Innanzitutto, dobbiamo decidere, e in fretta, se vogliamo davvero un altro conflitto armato con gli israeliani. In secondo luogo, dobbiamo veramente fare in modo che i nostri figli stiano lontani dai nostri campi di battaglia. Chiunque mandi giovani - molti di loro probabilmente con problemi emotivi - a uccidere e ad essere uccisi, è un assassino egli stesso e alla fine sarà distrutto. La società palestinese sembra regredire verso l'epoca oscura della jahiliyya, ossia verso l'era dell'ignoranza prima che l'Islam ci portasse nella luce. Anziché educare i nostri figli, come si fa in Occidente, a far parte della Generazione Start up, seguiamo l'esempio dell'Africa nera, dove i bambini sono armati con Kalashnikov e mandati a uccidere altri bambini. Siamo diventati niente di meglio degli iraniani, che inviavano i bambini, armati di "Chiavi del Paradiso" di plastica, a bonificare i campi minati, durante la guerra Iran-Iraq. Questi non sono "crimini di guerra"?
  Ogni giorno i nostri figli bevono al pozzo avvelenato di Internet e imparano come decapitare, crocifiggere e tagliare gole. Torniamo alla jahiliyyah e sacrifichiamo i nostri figli e le nostre figlie, in nome di Allah, come se Allah fosse una statua pagana con tanto di altare che deve essere placata con il sangue dei bambini. Questa è più o meno la situazione del terrorismo palestinese oggi. Quelli che trascurano l'educazione dei loro figli devono ricordare che le ragazze indifese che oggi escono di casa all'insaputa dei genitori per andare ad accoltellare un israeliano potrebbero un domani arrecare disonore alla loro casa. Una tale società non spaventa gli ebrei né chiunque altro. Alla fine, probabilmente riusciremo solo a favorire la comparsa di fondamentalisti tagliatori di gole e a distruggere noi stessi. Viviamo in una società malata, nella quale la legge di autoconservazione esige omicidi e vendetta. Nei giorni di festa, i nostri figli guardano come noi uccidiamo le pecore, così si abituano all'uso dei coltelli, a tagliare le gole e al sangue che scorre. Vedono video di persone bruciate vive e affogate in Iraq e Siria. Vedono l'Isis. Niente li sconvolge. In Occidente, la morte di un animale domestico, anche di un pesce rosso, fa quasi svenire un bambino. I nostri figli guardano le pecore che lanciano gridi nell'agonia, e non battono ciglio.
  L'Islam proibisce l'uccisione di donne, bambini e anziani, ma i palestinesi ascoltano le fatwa degli islamisti radicali che dicono loro di uccidere sempre e comunque - purché siano ebrei, anche fossero neonati. "Domani saranno soldati", asseriscono i palestinesi. Le fatwa come questa distorcono e falsano il fondamento stesso del nostro Islam mandando i bambini incontro alla morte. Hamas, la Jihad islamica palestinese e l'Isis - tutte organizzazioni terroristiche - si sono estremizzate e nutrite nello stesso piatto dei Fratelli Musulmani. I coltelli dei palestinesi non sono poi così diversi dai coltelli dell'Isis. Essi decapitano i bambini, i giornalisti, i lavoratori impoveriti e altre vittime innocenti - tutto nel nome di Allah, e poi vanno a compiere attacchi terroristici nel resto del mondo. L'unica differenza è che i membri dell'Isis combattono in prima persona, mentre i palestinesi mandano a combattere i loro ragazzi.
  Chi pensa di costruire il futuro della Palestina sulle spalle dei bambini assassini non solo sta distruggendo la società palestinese, ma ha imboccato la via delle fiamme dell'inferno. Anche il profeta Maometto (che la pace sia su di lui) e i suoi compagni decapitarono gli infedeli - ma questo nel VII secolo. Sempre più numerose sono le voci dei pii musulmani che invocano la riforma. Proprio la settimana scorsa, l'illustre accademica e giornalista Ibtihal Al-Khatib, dell'Università del Kuwait, ha detto in televisione: "Se non riformeremo noi stessi, ci estingueremo. Le nazioni che si attengono ai principi che sono contrati al progresso della civiltà scompariranno. Tali paesi non sopravvivranno. Qualsiasi tentativo di giustificare o legittimare il terrorismo è un'idea terroristica: l'idea e l'atto sono altrettanto pericolosi".
  Quanto asserito dalla Al-Khatib ha dimostrato come la studiosa sia anni luce più avanti rispetto al segretario di Stato americano John Kerry, che stupidamente si è lasciato sfuggire di bocca che certi attacchi terroristici avevano "una legittimità... una logica". Per questa dichiarazione egli è stato apertamente ridicolizzato. Le scuse che i terroristi trovano per giustificare l'uccisione di persone innocenti sono infinite, illimitate nella depravazione e inquinano le nostre società. Queste voci che invocano la riforma sono spesso frenate dalla paura che il loro potere, l'influenza e gli ottimi posti di lavoro - che mantengono solo grazie alla zakat [la decima] - potrebbero essere in pericolo. Alla maggior parte di noi non piace perdere benessere materiale e comodità. Molti musulmani non vogliono rinunciare ad avere schiavi, e questo non solo in Mauritania, ma ai vertici della comunità musulmana.
  Ma non vi è alcuna giustificazione per il terrorismo. I francesi, che facilmente giustificano il terrorismo contro gli ebrei in Medio Oriente, ora si trovano a dover affrontare la stessa situazione in casa. L'unica cosa sorprendente è che sono stati sorpresi. L'immagine del terrorismo islamico globale diventa sempre più chiara. Qui, gli islamisti vogliono "liberare" Gerusalemme dall'occupazione da parte degli infedeli sionisti e crociati. In seguito, vorranno "liberare" la Spagna occupata, che una volta era l'Andalusia musulmana, e restituirla all'Islam. Dopodiché, vorranno occupare il Vaticano e stabilire l'Emirato islamico sulle rovine del Cristianesimo, come fecero "nell'epoca d'oro", quando conquistarono Costantinopoli, la capitale dell'Impero bizantino.
  Mentre gli ebrei sono bravissimi a migliorare l'agricoltura, vincere i premi Nobel, inventare farmaci salvavita, creare startup e in genere a fare passi da gigante nelle scienze e nelle tecnologie di punta, noi palestinesi, indietreggiando verso la jahiliyya, non abbiamo dato nulla al mondo, se non terrorismo e morte. Anche prima che il palestinese Abdullah Azzam diventasse mentore di Osama bin Laden, i palestinesi avevano avviato una campagna terroristica globale. Il terrorismo palestinese ha preso il via negli anni Settanta. Nel maggio 1972, i passeggeri presenti nell'area ritiro bagagli dell'aeroporto israeliano di Lod (oggi chiamato Ben Gurion) furono massacrati. Nel settembre 1972, vennero trucidati 11 atleti della squadra olimpica israeliana, a Monaco. Nel maggio 1974, i terroristi palestinesi fecero strage di bambini israeliani nella cittadina di Ma'alot. Nel 1976, i terroristi dirottarono un aereo dell'Air France in volo da Tel Aviv a Parigi e individuarono i passeggeri ebrei a bordo. Nel 1978, sulla Strada costiera israeliana venne dirottato un autobus e furono uccisi i civili israeliani presenti sul mezzo di trasporto. Nel 1985, i palestinesi dirottarono la nave crociera "Achille Lauro", al largo dell'Egitto, e poi uccisero a sangue freddo e gettarono in mare un invalido sulla sedia a rotelle di 69 anni.
  E la lista potrebbe continuare all'infinito - dagli attacchi suicidi su autobus, nei caffè, negli alberghi, negli asili, nei centri commerciali e nelle discoteche, il più delle volte diretti contro la popolazione civile, all'attuale ondata di attentati contro gli israeliani accoltellati in strada, nelle loro auto e nei luoghi di culto. E adesso? I nostri leader palestinesi difendono questi minorenni accoltellatori spiegando che cercano di uccidere i civili ebrei a causa della "occupazione" o perché "al-Aqsa è in pericolo" - false dichiarazioni alla fine messe a tacere da un sondaggio palestinese della settimana scorsa. Nonostante i nostri figli siano manipolati a uccidere se stessi, ci sono ancora i leader di Fatah, come Abbas Zaki, un attivista anziano dell'organizzazione Fatah, che fa loro credere che ci sia qualche vantaggio da un'altra Intifada inutile o dal porre fine al coordinamento per la sicurezza con Israele. Lui e quelli come lui farebbero bene a ricordare che, come la maggior parte dei palestinesi sa benissimo, il coordinamento per la sicurezza con Israele è prima di tutto nel loro interesse. Impedisce all'Autorità palestinese di crollare; protegge i nostri leader dalla possibilità di essere assassinati per mano di Hamas, com'è stato il destino dei leader di Fatah nella Striscia di Gaza. È l'unica garanzia che abbiamo per una eventuale creazione di uno Stato palestinese.
  Potremmo fare anche bene a ricordare gli effetti delle prime due Intifade. Centinaia, forse migliaia, di palestinesi sono morti, ma gli israeliani non si sono mossi di un metro. Portiamo avanti una campagna terroristica dopo l'altra. E la violenza non ci conduce da nessuna parte e non ci porta nulla - né da Israele né dalla comunità internazionale. Se davvero vogliamo avere il nostro Stato palestinese, possiamo averlo domani. Tutto ciò che dobbiamo fare è cambiare la nostra immagine di terroristi.

(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 12 dicembre 2015 - trad- Angelita La Spada)


Il maratoneta

Yossi Cohen, la prima kippah alla guida del Mossad. La super spia "arrivata da un altro pianeta" ha gli occhi puntati su Teheran.

di Giulio Meotti
Camicia bianca, curato alla perfezione, è il contrario di Tamir Pardo, l'uomo che l'ha preceduto: schivo, introverso, pallido. Dovrà gestire una sorta di diplomazia non ufficiale con gli stati arabi sunniti che hanno in odio l'Iran. La Turchia è contenta. A ventidue anni fu l'unico cadetto del Mossad a indossare il copricapo degli ebrei religiosi. Ha studiato col rabbino Druckman. Netanyahu vorrà rafforzare l'opzione militare contro il nucleare dell'Iran, cui erano contrari i predecessori di Cohen.
La prima cosa che ha fatto Yossi Cohen non appena è stato nominato dodicesimo capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, è stato ringraziare uno dei quattro figli: "Yonatan è, ai miei occhi, il vero guerriero". Una storia familiare drammatica. Yonatan ha sofferto per una paralisi cerebrale durante il parto prematuro ed è oggi costretto su una sedia a rotelle. Eppure, questo non gli ha impedito di servire in una unità di intelligence informatica dell'esercito israeliano.
  Il padre di Yossi Cohen era un combattente dell'Irgun, la milizia di destra attiva prima delle nascita di Israele nel 1948, foriera di un nazionalismo che nulla aveva a che fare con l'umanismo tolstoiano, nell'accezione rural-populista del pioniere ebraico Gordon, né dal marxismo teorizzato da Borochov, cui si ispireranno i kibbutz. La madre di Cohen, Mina, è una insegnante la cui famiglia affonda le proprie radici a Hebron, la città dove sono sepolti Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe e le loro mogli Rebecca e Lea. La famiglia di Cohen è fra i fondatori anche del quartiere di Mea Shearim, l'enclave ulrtaortodossa di Gerusalemme.
  Scelto questa settimana dal premier Benjamin Netanyahu, Cohen prende il posto di Tamir Pardo alla guida delle spie israeliane e non potrebbero essere più diversi i due. Schivo, paziente, fumatore incallito, appassionato di cyberintelligence, ebreo laico figlio di una famiglia originaria della Turchia e dei Balcani, Tamir Pardo: quando è stato nominato da Netanyahu capo del Mossad nel 2012, i suoi vicini di casa nel moshav Nir ne ignoravano perfino l'esistenza. "Nessuno sapeva quello che stava facendo", diranno. Di Cohen, oltre alla kippah, non passa inosservata neppure la cravatta, in un ambiente da sempre informale come Israele, anche al vertice della sua sicurezza, e il fisico prestante, tanto da essersi guadagnato il soprannome di "maratoneta". Uno spymaster con una reputazione per l'attivazione e la gestione di agenti segreti in tutto il mondo, compresi i lunghi sforzi tesi a sabotare il programma nucleare iraniano tramite operazioni clandestine.
 
Yossi Cohen
  "Un funzionario che si presenta in giacca e cravatta, la camicia bianca stirata, curato alla perfezione, come un visitatore da un altro pianeta", lo ha definito Haaretz. Soprannominato "il modello" per l'aspetto e l'acconciatura, Cohen parla un arabo perfetto. E, forse ancora più importante, è riuscito a forgiare un linguaggio comune con il primo ministro israeliano, una caratteristica mancata spesso al suo predecessore, per non parlare dell'altro capo del Mossad prima di lui, Meir Dagan, che contro Netanyahu aveva avviato una battaglia pubblica e politica. I critici, che abbondano sempre sulla stampa israeliano, accusano Cohen di essere troppo legato a Netanyahu e perfino alla moglie, Sara: "Cohen è intelligente, affascinante ed è un reclutatore leggendario di agenti, ma i suoi orizzonti sono limitati", ha scritto Ben Caspit, un commentatore per il quotidiano Maariv. "Questo è esattamente ciò che Netanyahu ha voluto come capo del Mossad: qualcuno che sa come identificare la volontà del suo padrone". Esagerato, visto che anche Pardo era stato nominato da Netanyahu e gli ha dato non pochi mal di testa.
  Come consigliere per la sicurezza nazionale, Cohen ha avuto il grande merito di tenere aperta una linea di comunicazione costante con l'Amministrazione Obama proprio mentre le relazioni fra Washington e Gerusalemme erano ai minimi storici. Annunciando la nomina di Cohen, Netanyahu ha detto che si aspetta che il Mossad continui ad assisterlo "nello sforzo di sviluppare rapporti diplomatici in tutto il mondo, anche con gli stati arabi e islamici". Un riferimento importante, visto che Cohen dovrà curare in particolar modo i legami con gli stati arabi islamici avversi all'egemonia iraniana e alla sua fame di energia nucleare. Non a caso nei giorni scorsi anche i media turchi hanno salutato con favore la nomina di Cohen, perché in passato aveva cercato di riportare alla normalità i rapporti fra i due paesi dopo l'incidente sulla Mavi Marmara del 2010.
  "Questo tipo di diplomazia segreta è tradizionalmente il dominio del Mossad", ha dichiarato Yossi Alpher, ex direttore del Centro per gli studi strategici Jaffee e lui stesso un ex agente del Mossad. "Ogni paese arabo sunnita che come Israele percepisce il doppio pericolo di militanti sunniti e militanti sciiti è un candidato per questo tipo di rapporti". Cohen ha contestato il discorso controverso di Netanyahu al Congresso degli Stati Uniti, alla vigilia delle elezioni in Israele, e ha fatto del suo meglio per evitare un'escalation nel confronto con l'Amministrazione Obama. Il successo e l'influenza sono stati parziali, ma non insignificanti. Mentre l'ambasciatore a Washington, Ron Dermer, è stato considerato spesso non gradito alla Casa Bianca come "agente repubblicano", Cohen ha sempre tenuto un canale aperto con il sottosegretario di stato Wendy Sherman, che ha condotto i negoziati degli Stati Uniti con l'Iran, e con Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale. L'agenzia del Mossad ha avuto in precedenza soltanto undici capi nei settant'anni di storia israeliana: sei agenti del Mossad che hanno fatto carriera attraverso i ranghi e cinque generali dell'esercito. Yossi Cohen ha vinto la corsa alla guida del Mossad sugli altri due candidati di maggior peso: l'ex vice capo del Mossad, Ram Ben-Barak, che oggi è il direttore generale del ministero dell'Intelligence di Israele, e l'attuale vice capo del Mossad, di cui si conosce soltanto l'iniziale del nome "N", perché la sua identità è secretata. Cohen aveva l'esperienza necessaria in tutte le tre aree che Netanyahu ha discusso: in campo diplomatico, per via del suo lavoro come vice capo del Mossad sotto Tamir Pardo, e anche dal suo incarico come capo del Consiglio di sicurezza nazionale; nel campo dell'intelligence, in quanto ha diretto il ramo più importante del Mossad, "pane e burro" dell'organizzazione, ovvero la "Tzomet" (intersezione), la divisione responsabile nella individuazione, arruolamento e attivazione degli agenti; e in terzo luogo, l'aspetto operativo, in cui Cohen ha un'abbondante esperienza di trent'anni. Nel presentarlo al pubblico, Netanyahu ha ricordato che "i suoi agenti hanno lavorato ventiquattro ore su ventiquattro temerariamente e talvolta con grande rischio personale, al fine di garantire la sicurezza di Israele".
  Yossi Cohen ha due record alle spalle. Il primo quando a ventidue anni, nel 1984, venne ammesso al corso di ufficiali del servizio segreto israeliano. Era la prima kippah a entrare nei suoi quadri. Cohen era appena uscito da una yeshiva, una accademia religiosa, quella del rabbino Haim Druckman, oggi popolarissimo fra il pubblico nazionalreligioso in Israele. Il secondo record Cohen lo ha stabilito questa settimana, diventando la prima kippah a guidare il Mossad. Cohen non la indossa tutti i giorni, ma durante le feste e ogni Shabbath. Fa parte, infatti, della corrente ebraica Masorti, i tradizionalisti religiosi, e ha legami importanti con il mondo ultraortodosso. Il giorno prima della nomina, Cohen era con il leader del partito sefardita Shas, Aryeh Deri, e insieme sono andati a incontrare Menahem Gescheid, uno dei capi della politica ultraortodossa in Israele.
  La nomina di Cohen è il compimento di una rivoluzione culturale in Israele: i tre funzionari più alti in grado nella sicurezza dello stato ebraico sono oggi tutti religiosi. Non era mai successo prima. Oltre a Yossi Cohen, si tratta di Yoram Cohen e Roni Alsheich, rispettivamente capi del servizio segreto interno (Shin Bet) e della polizia israeliana. Il primo indossa ogni giorno il copricapo religioso e viene da una famiglia poverissima dell'Afghanistan. Il secondo è stato appena nominato capo della polizia, sfoggia anche lui la kippah, è figlio di ebrei yemeniti e ha vissuto per molti anni in un insediamento in Cisgiordania. Nell'ambiente della sicurezza era noto come "the fox", la volpe.
  Secondo Ronen Bergman, esperto di Mossad e giornalista di intelligence militare, corrispondente per il più grande giornale israeliano, Yediot Ahronot, "Cohen ha bisogno di essere in grado di aprire la strada non solo per la guerra, ma anche per la pace. I nemici sono sempre più sofisticati". Secondo Bergman, la priorità per il Mossad di Cohen sarà il progetto nucleare iraniano, seguito da "obiettivi classici" come la "rete estera di Hamas" negli stati del Golfo e e in Iran, così come Hezbollah in Libano e Siria. Uri Dromi, portavoce per i governi Rabin e Peres, ha detto che per essere un capo del Mossad, si deve avere la capacità di prendere decisioni che mettono a rischio delle vite umane per raggiungere gli interessi dello stato, il coraggio di alzarsi in piedi di fronte a un primo ministro e una prospettiva geostrategica. "Il fatto che sia riuscito a ottenere la fiducia di Netanyahu ha dato a Cohen un vantaggio importante sugli altri due candidati, soprattutto se Netanyahu prevede il rilancio dell'opzione militare contro l'Iran nucleare, cui gli ex capi del Mossad si erano opposti", ha detto Dromi. Oltre alle sigarette, resta da vedere se Cohen sarà diverso da Pardo. "E' più appassionato di operazioni aggressive di Pardo", dice Dromi. "Ma solo il tempo lo dirà". Intanto. Teheran è avvertita.

(Il Foglio, 12 dicembre 2015)


«Roma diventerà la capitale dell'lsis»

Nuovo video del Califfato con i carri armati dal Colosseo a San Pietro La strategia mediatica dello Stato Islamico: bandiere su Algeria e Libia.

di Francesca Musacchio

«L'Italia sarà nostra. Abbiamo stabilito la nostra capitale a Raqqa. Ora la prossima tappa sarà quella di trasferirla a Roma». L'Isis non molla e continua a minacciare il nostroPaese. Mentre l'allarme per il rischio attentati cresce in Europa e non solo, in un video pubblicato ieri in Rete gli jihadisti mostrano le immagini di San Pietro, piazza Navona, l'Altare della Patria e il Colosseo. Su quest'ultimo puntano i carri armati del
Califfato, con la bandiera nera che sventola minacciosa. Sullo sfondo una sinistra promessa: «Grazie all'aiuto di Allah, clemente e misericordioso, le nostre conquiste andranno da Costantinopoli a Roma. Le capitali cadranno con i loro difensori, così come gli ebrei». Nel filmato, girato come sempre in alta definizione, le immagini di alcuni dei luoghi simbolo di Roma sono riprese dall'alto e montate su scene di addestramento e combattimento dei mujaheddin nel deserto. Il messaggio, oltre alle parole, è chiaro: siamo alle porte di Roma. Nella produzione che dura 14 minuti, inoltre, viene anche mostrata una cartina in cui le bandiere dell'Isis sono puntate su Algeria, Libia e Sinai. Ad indicare che la tattica di accerchiamento, annunciata in numerosi manuali del terrore, è in corso. E nel video, i combattenti dello Stato islamico che lascerebbero intendere di essere molto vicini, forse in Libia o nel Sinai, si rivolgono «al popolo dell'Islam» spiegando che «contro gli infedeli i mujaheddin combattono nel deserto. E nel deserto, trovano rifugio in attesa dei prossimi attacchi e si addestrano per questo. Combattono e si sono privati di tutto' ma lo fanno pensando alla vittoria dell'Islam. Lavorano per l'unità mondiale dell'Islam. Combattono da soli contro tutti gli Stati della Coalizione, degli infedeli e dei miscredenti», E ancora: «Cosa pensano di fare l'America e l'Occidente che non hanno la nostra stessa convinzione nella fede? Sfonderemo tutte le porte che ci si opporranno».
   Ancora propaganda, dunque, e ancora minacce rivolte al nostro Paese che dall'inizio del Giubileo ha innalzato al massimo i livelli di allerta, come altri Stati europei che in questi giorni stanno facendo i conti con il rischio attentati. A Ginevra, secondo quanto riferito dal presidente della Confederazione svizzera Simonetta Sommaruga, potrebbe annidarsi una cellula jihadista legata allo Stato islamico. Ed è per questo che da giorni il livello di allerta è stato aumentato. La polizia svizzera sarebbe alla ricerca di quattro persone sospettate di essere legate al terrorismo. In serata i media locali hanno dato notizia dell'arresto di due siriani: nella loro auto sarebbero state trovate tracce di esplosivo.
   Non va meglio in Germania, dove l'intelligence ha individuato 1.100 islamisti presenti sul territorio nazionale. Di questi 430 sono ritenuti particolarmente pericolosi, in grado di commettere un attacco in qualsiasi momento. Il responsabile dei servizi segreti interni, Hans-Georg Maassen, ha denunciato la presenza di «oltre 8.350 persone appartenenti a gruppi salafiti. Questa cifra è aumentata in modo considerevole negli ultimi mesi, solo a fine settembre erano 7.900». La preoccupazione dilaga anche negli Stati Uniti, dove in un rapporto gli 007 ritengono che lo Stato Islamico sarebbe in grado di stampare passaporti siriani, che
sembrano autentici per aiutare i suoi seguaci ad infiltrarsi in territorio americano. E la Turchia, per fronteggiare l'Isis, ha stabilito una zona di sicurezza al fine con la Siria.

(Il Tempo, 12 dicembre 2015)


Nativi a Gerusalemme

A poco a poco la Terra d'Israele sta rivelando al popolo d'Israele i segreti rimasti sepolti nelle sue profondità per migliaia di anni.

La scoperta di un'impronta del sigillo reale di Ezechia negli scavi all'Ophel "riporta in vita davanti ai nostri occhi i racconti biblici su re Ezechia e sulle attività svolte durante la sua vita nel quartiere reale di Gerusalemme", afferma l'Università di Gerusalemme. In effetti, è molto più di questo.
Il rinvenimento e la decifrazione della bulla di 2.700 anni fa trovata negli scavi accanto al Monte del Tempio è la prova concreta delle profonde radici del popolo ebraico a Gerusalemme: una conferma degli atavici diritti degli ebrei a Gerusalemme. Il che è doppiamente importante in un periodo come questo in cui vi sono studiosi e archeologi che negano la veridicità di ogni racconto biblico dell'antico Israele, e molti palestinesi che sostengono che il popolo ebraico non ha nessuna storia e nessun diritto nazionale a Gerusalemme. Si consideri quanti - dall'Unesco, ai palestinesi, ai "pacifisti" intransigenti fino a scettici archeologi dell'Università di Tel Aviv - hanno contestato i due decenni di scavi all'Ophel e nella Città di Davide a Gerusalemme, alle falde del Monte del Tempio....

(israele.net, 11 dicembre 2015)


Alla Sinagoga di Siena visita guidata straordinaria per celebrare la Festa delle Luci

Appuntamento domenica 13 dicembre, a partire dalle 15.30: un'occasione unica per conoscere da vicino una delle celebrazioni più importanti e gioiose del calendario ebraico.

 
La sinagoga di Siena
rSi può dire "Channukkah" o "Hannukkah", in ogni caso benvenuti alla Festa delle Luci secondo il calendario delle festività ebraiche. Per svelare meglio il significato storico e religioso di queste ricorrenza che si protrae per otto giorni, alla scoperta dei suoi simboli come quello legato alla speciale lampada a otto bracci (chanukkià), la Sinagoga di Siena propone una visita guidata straordinaria per domenica 13 dicembre, a partire dalle 15.30, intitolata proprio "Channukkah, la festa delle luci". Un'opportunità per conoscere da vicino una delle celebrazioni più importanti e gioiose del calendario ebraico, con un percorso guidato alla scoperta della festa, proprio in occasione dell'ottavo giorno di "Channukkah". Al termine della visita guidata, alle 17, si terrà la cerimonia di accensione dei lumi della channukkià presieduta dal Rabbino di Siena Crescenzo Piattelli. Richiesta la prenotazione fino a esaurimento posti (telefono 0577 271345; e-mail sinagoga.siena@coopculture.it ): il costo dell'attività è di 2 euro a persona in aggiunta al biglietto d'ingresso ridotto di 3 euro, gratuito fino a 6 anni con possibilità di acquistare il biglietto famiglia a 10 euro per un massimo di due adulti e due minori.

Storicamente "Channukkah", conosciuta anche come Festa delle Luci, inizia il 25 di Kislév (nono mese lunare del calendario ebraico) e dura otto giorni. Ricorda la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme, profanato da Antioco IV Epifane che voleva imporre il paganesimo al popolo ebraico. La durata della festa è spiegata dal Talmud (il testo classico dell'Ebraismo, secondo solo alla Bibbia) con una leggenda: quando gli ebrei riconquistarono Gerusalemme cercarono l'olio puro per alimentare la menorah, il candeliere a sette braccia, trovandone però solo un'unica ampolla, sufficiente appena per un giorno. Per un miracolo, tuttavia, quella piccola scorta d'olio durò otto giorni. A questa leggenda è legato l'oggetto simbolo di questa festa: la speciale lampada a otto bracci chiamata chanukkià, le cui luci vengono accese una per sera tramite lo shammash (servitore) cosicché solo all'ottavo giorno possano splendere nella loro totalità.

(SienaFree, 11 dicembre 2015)


Esercitazione congiunta Cipro, Grecia e Israele

NICOSIA - Si chiama Afrodite 2015 l'esercitazione congiunta tra Cipro, Grecia e Israele, sotto la supervisione del Centro di coordinamento di soccorso di Larnaca, che si è svolta luogo nella zona economica esclusiva della piccola isola del Mediterraneo. L'esercitazione è stata effettuata nel contesto del continuo miglioramento della capacità di progettazione e aggiornamento di ricerca e soccorso (Sar) nella zona di Cipro. Le squadre coinvolte hanno affrontato diversi scenari, tra i quali una minaccia terroristica, un incidente con elicottero e l'evacuazione di una piattaforma.

(Agenzia Nova, 11 dicembre 2015)


In quarantena il cane di Netanyahu: ha morso due persone

La foto postata su Facebook da Netanyahu
È lo stesso premier israeliano a dare la notizia con una foto sui social. La legge israeliana richiede la quarantena per i cani che mordono. Kaiya, questo il nome del cane, avrebbe morso il marito della viceministro degli Esteri e una parlamentare
A guardarla così, in posa, tra i suoi padroni non si direbbe davvero aggressiva. Eppure Kaiya, il cane del premier israeliano Benjamin Netanyahu, è stato messo dal suo padrone in quarantena per avere morso due ospiti in occasione di un ricevimento per l'Hannukah. La legge israeliana richiede la quarantena per i cani che mordono. La notizia è stata resa nota dallo stesso Netanyahu su Facebook.
Insomma, la legge è uguale per tutti (umani e non). Il cane della famiglia Netanyahu ha morso il marito della viceministro degli Esteri e una parlamentare, entrambi membri del Likud. Una delle vittime ha definito l'episodio «irrilevante». Secondo la tv Canale 10, lo stesso Netanyahu sarebbe stato morso la stessa sera dal suo cane.

(Corriere della Sera, 11 dicembre 2015)


Israele: non interveniamo in Siria, ma siamo vigili sul ruolo dell’Iran

ROMA - Israele non è coinvolto e non interverrà nel conflitto siriano, ma resterà molto vigile sul ruolo giocato da Teheran. "Noi non interveniamo in Siria, questo deve essere chiaro. Non vogliamo interferire, ma stiamo attenti perché non lasceremo agli iraniani la possibilità di offrire i loro sistemi antimissile a Hezbollah", ha confermato oggi il capo dei negoziatori israeliani, Silvan Shalom, durante la seconda giornata del Dialogo mediterraneo.
Shalom non ha nascosto un filo diretto con Mosca. "Noi ci coordiniamo con i russi, non perché lavoriamo insieme ma perché non vogliamo incidenti come quello accaduto tra la Russia e la Turchia", ha spiegato. In ogni caso, ha aggiunto il diplomatico israeliano, l'obiettivo di Israele è "salvaguardare la sicurezza della sua gente" in un momento in cui "il Daesh (Isis) sta controllando il 70 per cento della Siria"..
"Dobbiamo combattere questi estremisti tutti insieme, sono pazzi che parlano a nome dell'Islam e che non rappresentano l'Islam così come io lo conosco", è il pensiero di Shalom. "Purtroppo sono molto attraenti per i giovani. Questi pazzi, che vengono da Hezbollah, Hamas, al Nusra, al Qaida e Daesh, condividono idee folli, e tutti i paesi arabi dovrebbero essere sostenuti dalla comunità internazionale perché sono la barriera che si può contrapporre a questi pazzi", ha concluso Shalom.

(askanews, 11 dicembre 2015)


Quelle femministe che boicottano Israele ma sono silenti sui crimini sessuali dell'Isis

La National Women's Studies Association vota per il boicottaggio delle colleghe israeliane e delle istituzioni dello stato ebraico. Ma si guarda bene dal condannare le atrocità perpetrate sulle donne musulmane da Hamas, Isis, Boko Haram, talebani.

di Giulio Meotti

La conferenza annuale della National Women's Studies Association
Se non ora quando, verrebbe da chiedersi. Quale nemico migliore dello Stato islamico da condannare nella più grande assise di femministe del nord America, quell'Isis che rapisce, vende e stupra le donne sotto il suo controllo, che le ingabbia sotto il burqa e le usa come carne da cannone nelle operazioni suicide? E se il califfo al Baghdadi non scalda abbastanza la platea militante delle femministe, perché non denunciare i crimini contro le donne nella teocrazia iraniana, dove sono proibite le unghie lunghe, le gemme nei denti, i cappottini stretti, i foulard che lasciano uscire lunghi ciuffi di capelli e gli stivali con i tacchi sopra ai pantaloni?
  Ovviamente no. La National Women's Studies Association ha scelto un nemico ben più appagante e meno pericoloso: lo stato di Israele. L'unico paese del medio oriente dove le donne occupano una posizione di prestigio in politica, nella cultura, nelle attività sociali, da Golda Meir a diversi premi Nobel fino a Tzipi Livni, leader dell'opposizione. E se si dovesse varcare la linea del 1967 basta chiedere alle donne palestinesi se stiano meglio a Ramallah o a Riad. Eppure, le femministe della National Women's Studies Association hanno votato il boicottaggio delle colleghe israeliane e delle istituzioni dello stato ebraico. Come ha detto la professoressa Simona Sharoni a Inside Higher Ed, "il 90 per cento dei membri della National Women's Studies Association ha votato la risoluzione". "Il voto è un tradimento della realtà e delle donne, specialmente delle donne che vivono sotto la sharia", dice al Foglio Phyllis Chesler, settantenne madrina del femminismo americano dall'alto delle milioni di copie vendute di "Le donne e la pazzia", caposaldo della letteratura femminista degli anni Settanta. "L'associazione non condanna le atrocità perpetrate sulle donne musulmane da Hamas, Isis, Boko Haram, talebani. Nulla sulla natura pervasiva della mutilazione genitale femminile o il matrimonio infantile nel mondo arabo-islamico. Nulla sul terribile destino delle donne che osano scegliersi i mariti. Israele non è un paradiso femminista, ma le donne si battono per i loro diritti e se le nostre controparti femministe facessero lo stesso alla Mecca, Mogadiscio, Teheran, Islamabad e Kabul, sarebbero incarcerate, stuprate, torturate, decapitate o lapidate. Le femministe hanno scelto thanatos su eros, timorose delle accuse di 'razzismo' e 'islamofobia'. Sono codarde e conformiste nella loro perfidia.
  Ci sono femministe che trovano allucinante l'apartheid di genere dell'islam ma hanno paura di dirlo e di perdere la reputazione, gli amici, il lavoro". E' stato un imprenditore ebreo canadese, Steve Maman, a salvare centinaia di ragazze yazide dalla schiavitù sessuale dello Stato islamico. E' il paradosso indicato da Phyllis Chesler: "Sono stati i cristiani, non le femministe, a salvare queste ragazze dall'Isis". E' il paradosso di femministe scatenate contro l'oscurantismo cattolico sulla donna ma supine sulla soumission della donna musulmana, teoriche dell'unisex ma anche del velo islamico come "emancipazione", boicottatrici dell'"occupazione" di Israele che si inginocchiano, silenti, di fronte all'occupazione dei corpi delle donne nel mondo arabo-islamico. Sono le migliaia di yazide bionde segregate legate al letto del califfo a chiederlo alla National Women's Studies Association che boicotta Israele e non i crimini islamisti: se non ora quando? Non hanno scelto di dare in affitto il loro utero.

(Il Foglio, 11 dicembre 2015)


"Insieme per la redenzione del mondo"

Alla vigilia del documento della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo, i rabbini di tutto il mondo sottoscrivono un testo per invitare ebrei e cristiani a lavorare come partner per affrontare le sfide morali di oggi.

Si intitola To Do the Will of Our Father in Heaven: Toward a Partnership between Jews and Christians ("Fare la volontà del nostro Padre in cielo: verso un partenariato tra ebrei e cristiani") la dichiarazione sul cristianesimo sottoscritta ieri da 25 rabbini ortodossi e pubblicata, alla vigilia della presentazione in Vaticano del nuovo documento della Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo dedicato al 50o anniversario della dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate.
Il testo — che porta la data del 3 dicembre — è stato diffuso sul sito del Center for Jewish-Christian Understanding and Cooperation (Cjcuc) ed è firmato da rabbini alla guida, nei rispettivi Paesi, di importanti comunità e istituzioni. Quattordici sono di Israele; quattro operano negli Stati Uniti; due della Germania e altrettanti della Svizzera. Nella lista figurano inoltre Shmuel Sirat (Francia), il rabbino capo di Finlandia, Simon Livson, e il rabbino capo di Serbia, Isak Asiel.

Di seguito pubblichiamo una traduzione de L'Osservatore Romano dall'inglese del documento:
    Dopo quasi due millenni di ostilità reciproca e di allontanamento, noi rabbini ortodossi che guidiamo comunità, istituzioni e seminari in Israele, negli Stati Uniti e in Europa riconosciamo la storica opportunità che ci si prospetta ora. Cerchiamo di fare la volontà del nostro Padre in Cielo, accettando la mano che ci viene tesa dai nostri fratelli e dalle nostre sorelle cristiani. Ebrei e cristiani devono lavorare insieme come partner per affrontare le sfide morali del nostro tempo.
       La Shoah è terminata settant'anni fa. È stata il culmine perverso di secoli di mancanza di rispetto, di oppressione e di rifiuto degli ebrei e della conseguente ostilità che si è creata tra ebrei e cristiani. In retrospettiva, è evidente che l'incapacità di superare questo disprezzo e di impegnarsi in un dialogo costruttivo per il bene dell'umanità ha indebolito la resistenza alle forze malvage dell'antisemitismo, che hanno trascinato il mondo nell'assassinio e nel genocidio.
       Riconosciamo che a partire dal concilio Vaticano II gli insegnamenti ufficiali della Chiesa cattolica sull'ebraismo sono cambiati in modo fondamentale e irrevocabile. La promulgazione di Nostra aetate cinquant'anni fa ha dato avvio al processo di riconciliazione tra le nostre due comunità. Nostra aetate e i successivi documenti ufficiali della Chiesa da essa ispirati rifiutano in modo inequivocabile ogni forma di antisemitismo, affermano l'eterna Alleanza tra Dio e il popolo ebraico, respingono il deicidio e sottolineano il rapporto unico tra cristiani ed ebrei, definiti «nostri fratelli maggiori» da Papa Giovanni Paolo II e «nostri padri nella fede» da Benedetto XVI. Su questa base, esponenti cattolici e di altre fedi cristiane hanno avviato un dialogo sincero con gli ebrei, che è cresciuto nel corso degli ultimi cinque decenni. Apprezziamo l'affermazione, da parte della Chiesa, riguardo al posto unico che Israele occupa nella storia sacra e nella redenzione finale del mondo. Oggi gli ebrei sperimentano amore sincero e rispetto da parte di molti cristiani, espressi attraverso numerose iniziative di dialogo, incontri e conferenze in tutto il mondo.
       Come Maimonide e Yehudah Halevi, riconosciamo che il cristianesimo non è un incidente né un errore, bensì l'esito dovuto alla volontà divina e dono alle nazioni. Separando ebraismo e cristianesimo, Dio ha voluto una separazione fra interlocutori con importanti differenze teologiche, non una separazione tra nemici. Il rabbino Jacob Emden ha scritto che «Gesù ha portato un doppio beneficio al mondo. Da un lato ha rafforzato in modo maestoso la Torah di Mosè […] e nessuno tra i nostri Saggi si è pronunciato con più enfasi sull'immutabilità della Torah. Dall'altro ha tolto gli idoli dalle nazioni e le ha impegnate nei sette comandamenti di Noè, in modo che non si comportassero come le bestie dei campi, instillando saldamente in loro tratti morali […]. I cristiani sono comunità che operano per il bene del cielo che sono destinate a perdurare, i cui intenti sono per il bene del cielo e la cui ricompensa non verrà negata». Il rabbino Samson Raphael Hirsch ci ha insegnato che i cristiani «hanno accettato la Bibbia ebraica dell'Antico Testamento come un libro di rivelazione divina. Professano la loro fede nel Dio del cielo e della terra come proclamato nella Bibbia e riconoscono la sovranità della divina provvidenza». Ora che la Chiesa cattolica ha riconosciuto l'eterna Alleanza tra Dio e Israele, noi ebrei possiamo riconoscere la costante validità costruttiva del cristianesimo come nostro partner nella redenzione del mondo, senza temere che ciò venga sfruttato per fini missionari. Come affermato dal Rabbinato capo della Commissione bilaterale d'Israele con la Santa Sede, sotto la guida del rabbino Shear Yashuv Cohen, «non siamo più nemici, ma partner univoci nell'articolare i valori morali essenziali per la sopravvivenza e il benessere dell'umanità». Nessuno di noi può realizzare da solo la missione di Dio nel mondo.
       Sia gli ebrei sia i cristiani hanno la missione comune, derivante dall'Alleanza, di perfezionare il mondo sotto la sovranità dell'Onnipotente, di modo che l'intera umanità invochi il suo nome e gli abomini siano rimossi dalla terra. Comprendiamo l'esitazione di entrambe le parti ad affermare questa verità e invitiamo le nostre comunità a superare tali timori, al fine di instaurare un rapporto di fiducia e di rispetto. Il rabbino Hirsch ha insegnato anche che il Talmud pone i cristiani, «per quanto riguarda i doveri tra uomo e donna, sullo stesso identico piano degli ebrei. Essi hanno rivendicato il beneficio di tutti i doveri non solo di giustizia, ma anche di amore fraterno attivo». In passato i rapporti tra cristiani ed ebrei sono spesso stati visti attraverso il rapporto di animosità fra Esaù e Giacobbe; tuttavia già verso la fine del XIX secolo il rabbino Naftali Zvi Berliner (Netziv) comprese che gli ebrei e i cristiani erano destinati da Dio a essere partner amorevoli: «In futuro, quando i figli di Esaù saranno mossi da puro spirito a riconoscere il popolo d'Israele e le sue virtù, allora anche noi saremo spinti a riconoscere che Esaù è nostro fratello».
       Le cose che noi ebrei e cristiani abbiamo in comune sono più di quelle che ci dividono: il monoteismo etico di Abramo; la relazione con l'unico Creatore del cielo e della terra, che ama e si prende cura di tutti noi; le sacre Scritture ebraiche; la fede in una tradizione vincolante; e i valori della vita, della famiglia, della rettitudine compassionevole, della giustizia, della libertà inalienabile, dell'amore universale e della somma pace nel mondo. Il rabbino Moses Rivkis (Be'er Hagoleh) conferma ciò, scrivendo che «i saggi hanno fatto riferimento solo all'idolatria del loro tempo, che non credeva nella creazione del mondo, nell'esodo, negli atti miracolosi di Dio e nella legge di origine divina. Al contrario, la gente tra la quale siamo disseminati crede in tutti questi elementi essenziali della religione».
       Il nostro partenariato non sminuisce in alcun modo le differenze che perdurano tra le due comunità e le due religioni. Crediamo che Dio ricorra a molti messaggeri per rivelare la sua verità, mentre affermiamo i doveri etici fondamentali che tutte le persone hanno dinanzi a Dio, che l'ebraismo ha sempre insegnato attraverso l'alleanza noetica universale.
       Nell'imitare Dio, ebrei e cristiani devono dare esempio di servizio, amore incondizionato e santità. Siamo tutti creati a immagine santa di Dio, ed ebrei e cristiani rimarranno dediti all'Alleanza svolgendo insieme un ruolo attivo nel redimere il mondo.
(Zenit, 11 dicembre 2015)

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"La lettera dei rav modernisti distoglie dai veri obiettivi"

di Adam Smulevich

"Comprendo lo spirito con cui è stato scritto, ma le definizioni di carattere teologico rischiano di far danno. È più utile concentrarsi su ambiti in cui la collaborazione tra ebrei e cattolici può trasformarsi in qualcosa di concreto". Non prevede grandi spaccature all'interno del rabbinato, anche perché "tanti nomi autorevoli" figurano tra i firmatari. Resta comunque l'impressione che tali iniziative non aiutino a raggiungere i "veri obiettivi". E cioè, tra i vari esempi, azione comune sul fronte della giustizia, del sociale e dell'ambiente.
 &Così rav Giuseppe Momigliano, presidente dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia, nel riferire a Pagine Ebraiche le proprie impressioni in merito al documento congiunto firmato diversi esponenti del rabbinato internazionale appartenenti alla corrente modern orthodox in cui si interpreta la nascita del Cristianesimo come parte di un piano divino "affinché ebrei e cristiani possano lavorare insieme per la redenzione del mondo".   Diversi i passaggi delicati del testo. "Ora che la Chiesa cattolica ha riconosciuto l'Alleanza eterna tra Dio e Israele - si sottolinea ad esempio - noi ebrei possiamo riconoscere il perdurante valore costruttivo del cristianesimo come nostro partner nella redenzione del mondo, senza nessuna paura che questa comunanza possa essere sfruttata per finalità missionarie".
   Tra i firmatari il rabbino David Rosen, intervenuto ieri in Vaticano alla presentazione del documento sul dialogo prodotto dalla commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo della Santa Sede. Un documento verso il quale rav Momigliano sembra manifestare interesse e apprezzamento. Anche se, ci spiega, valutazioni più esaustive saranno offerte soltanto al termine di una approfondita lettura.
Grande attenzione per il modo in cui i media UCEI hanno recepito la lettera dei modern orthodox sulla stampa cattolica. Scrive Avvenire: "Parole accolte con freddezza da Moked, che lo definisce 'un documento estremamente divisivo, che scarsi consensi sembra riscuotere all'interno degli ambienti ortodossi e che lascia immaginare una rottura da parte di alcuni rabbini decisamente aperturisti e modernisti'".

(moked, 11 dicembre 2015)


Concordiamo sostanzialmente con quanto dice il presidente dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia: “le definizioni di carattere teologico rischiano di far danno”. Possiamo tutti essere contenti se i rapporti personali tra chi si dice ebreo e chi si dice cristiano possono essere distesi, ma è bene accontentarsi di questo senza tentare superficiali sintesi teologiche; non solo perché possono danneggiare tali rapporti, ma soprattutto perché rischiano di essere contrarie alla verità. Non è vero, per esempio, che Gesù “ha tolto gli idoli dalle nazioni e le ha impegnate nei sette comandamenti di Noè”. Altri troveranno sicuramente altre dichiarazioni di cui negheranno la verità. Va detto inoltre che gli stessi termini “ebraismo” e “critianesimo” non hanno valore teologico, cioè presi da soli a questo riguardo non dicono niente. La buona disponibilità ai rapporti fra “diversi” potrebbe essere usata in altro modo: discutere insieme su quello che realmente dicono i testi biblici (non le diverse tradizioni) sulla figura del Messia, comune ad entrambe le parti ma con diversa interpretazione, evitando non solo la reciproca demonizzazione avvenuta nel passato, ma anche il desiderio di “sconfiggere” l’altro con inoppugnabili citazioni testuali. Tentare di capire l’altro è il primo passo per avere con lui un rapporto utile. Se qualcosa del genere dovesse nascere, ci diciamo fin d’ora interessati. M.C.


TravelersBox: intervista esclusiva ai fondatori

 
TravelersBox è una startup israeliana che offre ai viaggiatori l'opportunità di depositare la valuta straniera avanzata (monete e banconote) convertendola in credito sul proprio account e-Wallet (come ad esempio PayPal), donazioni e gift-cards.
Recentemente abbiamo dato uno sguardo a questa interessante innovazione dedicando un articolo a questo nuovo modo smart di usare la valuta estera che spesso dopo un viaggio ci rimane nelle tasche.
La redazione di siliconwadi.it ha contattato Dror Blumenthal, co-fondatore e CMO della startup, per saperne di più:

1. Siete una piccola startup israeliana con una grande idea: raccontaci brevemente quest'idea e quali sono stati i passi che vi hanno portato al successo.
   
Tutto è nato perché volevamo creare una soluzione semplice per i soldi che rimangono inutilizzati quando si è all'estero, concentrandoci unicamente nel creare la miglior soluzione possibile. Siamo partiti dal presupposto che ogni passeggero che sia in procinto di prendere l'aereo per tornare a casa abbia una media di 15$ con sé che non saranno mai riusati e rimarranno inutilizzati. Abbiamo pensato che fosse un mercato che avesse bisogno di qualcosa. Abbiamo quindi creato una macchina di facile utilizzo simile a quella del Bancomat, con un'interfaccia molto intuitiva e con un processo fiscale sofisticato al quale abbiamo aggiunto, tra i prodotti, nomi di grandi marchi. Tra alcune delle opzioni che sono venute fuori, abbiamo deciso di effettuare il test pilota a Istanbul dove, grazie alle testimonianze degli utenti abbiamo cominciato a migliorare il servizio offerto, i prodotti e l'esperienza.

2. Siete una startup israeliana, quale pensi sia la differenza tra giovani imprenditori che creano start up in Israele rispetto a chi decide di fondarle in altri paesi?
   
Avendo appena compiuto 38 anni non posso più considerarmi un giovane imprenditore ma posso comunque spiegare l'unicità dell'ambiente israeliano per giovani ragazzi con grandi sogni.
Prima l'esercito, poi l'università: Come sapete, noi siamo obbligati ad arruolarci nell'esercito subito dopo il liceo. Al termine del servizio abbiamo 21 anni e non siamo più ragazzini - a quell'età siamo già entrati in contatto con tecnologie super innovative e abbiamo assimilato l'idea che la vita è troppo breve per essere sprecata (è un concetto culturale). A 21 anni gli israeliani che finiscono la leva non sono più bambini ma hanno il desiderio e l'ambizione di vivere vite significative.
È un mondo e un paese ancor più piccolo: Israele è un paese piccolo. Il mercato che offre è ridotto e per questo non possiamo fare affidamento unicamente sul mercato locale, per avere successo devi pensare a livello globale. Ecco perché parliamo tutti inglese e molti israeliani parlano un'altra lingua, viaggiamo molto, siamo consumatori di culture internazionali (soprattutto quella americana) e abbiamo accesso ai mercati internazionali visto che molti israeliani ci hanno già spianato la strada in passato.
Tradizione: Siccome molte importanti realtà innovative sono state fondate in Israele e sono riconosciute in campo internazionale come israeliane, l'innovazione come idea di business e motore di crescita è entrata a far parte del nostro DNA e della nostra idea di società.

3. Quanti di voi lavorano sin dall'inizio su questo progetto? Quali sono le ragioni per cui a tuo avviso la costruzione del team dovrebbe essere una parte importante di ogni business?
   
La compagnia è stata fondata da tre soci. Tutti e tre abbiamo esperienza nello sviluppo di business che partivano da zero e tutti abbiamo lavorato in compagnie che si occupavano di tecnologia. Tomer ha lavorato per alcuni anni in una compagnia che si occupa di tecnologie a NY mentre io e Idan abbiamo lavorato come esperti di sicurezza informatica. L'unico modo per fondare una startup così impegnativa è impegnarsi tutti insieme lavorando come un team mettendo l'ego da parte. Prima di cominciare a ottenere qualcosa abbiamo preso tutti i rischi insieme, quando non potevamo sostenere le nostre famiglie facevamo di tutto per supportarci a vicenda, e quando qualcuno otteneva dei soldi li dividevamo. I fondatori sono la parte vitale della magia che si è creata in una piccola e ambiziosa azienda.

4. Quali sono i tre aggettivi che meglio descrivono un giovane uomo d'affari (per esempio: visione, duro lavoro, chutzpah)
   
Ottimismo, muoversi molto velocemente dalla pianificazione all'esecuzione ed apprendere in maniera molto veloce.

5. Dove ti vedi, insieme a TravelersBox, tra cinque anni?
   
Aspiriamo ad espanderci nei principali aeroporti internazionali del mondo, sviluppare nuove piattaforme, nuove caratteristiche e nuovi prodotti, sempre alla ricerca della perfezione. Onoreremo la fiducia che i nostri utenti ripongono in noi, svilupperemo il miglior servizio clienti che loro abbiano mai avuto e faremo in modo che la nostra compagnia diventi uno dei marchi trainanti di un nuovo segmento di mercato.

(SiliconWadi, 11 dicembre 2015)



Preghiera del re Davide

Dopo che il profeta Nathan gli aveva rivelato il proposito di Dio di rendere stabile il regno della sua casa.

Allora il re Davide andò a presentarsi davanti all'Eterno e disse:
"Chi son io, o Eterno Iddio, e che è la mia casa, che tu m'abbia fatto arrivare fino a questo punto? E questo è parso ancora poca cosa agli occhi tuoi, o Dio; tu hai parlato anche della casa del tuo servo per un lontano avvenire, e hai degnato considerar me come se fossi uomo d'alto grado, o Eterno Iddio. Che potrebbe Davide dirti di più riguardo all'onore ch'è fatto al tuo servo? Tu conosci il tuo servo.
O Eterno, per amore del tuo servo e seguendo il cuor tuo, hai compiuto tutte queste grandi cose per rivelargli tutte le tue meraviglie.
O Eterno, nessuno è pari a te, e non v'è altro Dio fuori di te, secondo tutto quello che abbiamo udito coi nostri orecchi. E qual popolo è come il tuo popolo d'Israele, l'unica nazione sulla terra che Dio sia venuto a redimere per formarne il suo popolo, per farti un nome e per compiere cose grandi e tremende, cacciando delle nazioni d'innanzi al tuo popolo che tu hai redento dall'Egitto? Tu hai fatto del tuo popolo d'Israele il popolo tuo speciale in perpetuo; e tu, o Eterno, sei divenuto il suo Dio.
Or dunque, o Eterno, la parola che tu hai pronunziata riguardo al tuo servo ed alla sua casa rimanga stabile in perpetuo, e fa' come tu hai detto. Sì, rimanga stabile, affinché il tuo nome sia magnificato in perpetuo, e si dica: L'Eterno degli eserciti, l'Iddio d'Israele, è veramente un Dio per Israele; e la casa del tuo servo Davide sia stabile dinanzi a te! Poiché tu stesso, o mio Dio, hai rivelato al tuo servo di volergli fondare una casa. Perciò il tuo servo ha preso l'ardire di rivolgerti questa preghiera.
Ed ora, o Eterno, tu sei Dio, e hai promesso questo bene al tuo servo; piacciati dunque benedire ora la casa del tuo servo, affinch'ella sussista in perpetuo dinanzi a te! Poiché ciò che tu benedici, o Eterno, è benedetto in perpetuo".

dal primo libro delle Cronache, cap.17
 


Mezzo secolo per non vedere

Da decenni gli ebrei in Israele e nella diaspora sono costretti a vivere sotto la minaccia del terrorismo. Il mondo, fino al 13 novembre, preferiva accusare le vittime e giustificare gli assassini. Forse qualcosa sta cambiando.

di Piero Di Nepi

I tedeschi la chiamano Schadenfreude. E' quel sentimento di piacere inconfessabile e sottilmente perverso che talvolta si prova di fronte alle sciagure che colpiscono gli altri, i diversi, i lontani, ma soprattutto i benestanti o presunti tali. Anzi, meglio ancora, quelli che ti hanno sbattuto in faccia la propria tranquillità e il proprio successo, inconsapevoli e insensibili di fronte al tuo problema e alle tue angosce.
   Quelli con il macchinone nuovo fiammante e il teppista di turno glielo graffia con un chiodo arrugginito, quelli che tifano per la squadra regina del campionato e la vedono battuta dalla provinciale ultima in classifica. Certo in queste settimane l'estremismo islamico catalizza ostilità generale. E tuttavia non manca chi senza vergogna continua a indicare nella politica di Israele e nella situazione dei Territori la radice del problema. In chilometri quadrati, la superficie equivale più o meno all'antica provincia di Perugia.
   Soffiando sul fuoco, qualche giornalista ha insistito comunque nel descrivere il West Bank come la polveriera più pericolosa del pianeta. Dopo le stragi del 13 novembre 2015 a Parigi, la tentazione della Schadenfreude potrebbe aver colpito qualche ebreo dei ceti più esposti e più popolari.
   Forse gli ebrei, numerosi, delle banlieues. Non quelli, pochi davvero, di Avenue Foch e i diplomati ENA. Tuttavia è stata una reazione "di pancia", come si usa dire. La stragrande maggioranza del mondo ebraico, in Israele come nella diaspora, conosce benissimo le dure lezioni della storia: quando una catastrofe si abbatte sulla società intera, a subirne le conseguenze più devastanti saranno alla fine proprio le nostre Comunità, Congregations, Concistoires, o chiamatele come meglio credete. Nel frattempo in Francia e in Belgio tutti gli adolescenti e tutti i bambini frequenteranno scuole blindate, nei ristoranti e nelle mense aziendali si guarderanno con sospetto borse e buste abbandonate, treni bus e metropolitane diventano obiettivi ad alto coefficiente di rischio, tutti i luoghi di culto di qualsiasi confessione religiosa conosceranno la sorveglianza armata, come pure discoteche e cinema. E i teatri, naturalmente, che l'Islam fondamentalista ritiene luoghi prediletti da Satana (proprio come il Cristianesimo delle origini, e soprattutto Tertulliano, 155-230 E.V.). L'Europa intera si scopre dunque nella condizione in cui vivono da decenni le comunità ebraiche e il popolo intero di Israele. E in tutto il mondo gli ebrei, cittadini tra altri cittadini, saranno esposti a qualche rischio supplementare. Ma come dimenticare decenni di indifferenza?
   L'estremismo islamista si scatenava contro sinagoghe, contro ristoranti e negozi casher, contro le scuole come a Tolosa, contro uomini e bambini con la kippà, contro religiosi e meno religiosi come Ilan Halimi, musei e istituzioni comunitarie (come a Buenos Aires): governi e pubblica opinione fingevano di non vedere. Nessuno osava dirlo apertamente, ma "gli ebrei se la sono cercata". Anche Charlie Hebdo se l'era in qualche modo cercata? Commenti normali anche per molti che citano sempre i versi famosi: "Quando arrivarono a me, dopo i comunisti dopo gli ebrei dopo i rom dopo i down… ebbene non c'era più nessuno a difendermi". Oggi i governi occidentali pretendono di combattere il Nuovo Califfato alleandosi con i clerico-fascisti di Teheran e gli Hezbollah libanesi della guerra perpetua contro gli israeliani: equivale a curarsi la polmonite con iniezioni di cianuro. E' dal tempo lontano della Guerra dei sei giorni che il terrorismo arabo colpisce indiscriminatamente Israele, sul territorio nazionale e all'estero. Ben presto l'obiettivo divennero gli ebrei, e poi coloro che si sentivano vicini al popolo ebraico. Gli USA in prima fila. Tra il 1948 e il 1967 il bersaglio dei terroristi che uscivano da Gaza furono i kibbutzim del Negev.
   C'è sempre stato qualcuno pronto a giustificare, soprattutto a sinistra. Nel 1968 non esistevano gli insediamenti, e Israele voleva restituire Giudea e Samaria in cambio della pace. Da Khartum arrivarono invece i "Tre No" arabo-islamici: nessuna trattativa, nessun riconoscimento, nessuna pace possibile. In Israele fu strage continua, fino alla costruzione del muro di separazione. Oggi è il tempo dei coltelli. Costano poco, e i primi a considerare insignificante la vita di chi li brandisce sono appunto i mandanti. E coloro che li giustificano, anche qui da noi, fingendo di non vedere il filo insanguinato che dipanano. Lo stesso filo che attraversa Francia e Belgio. Forse, ormai, l'Europa intera.

(Shalom, dicembre 2015)


"Caffè Odessa" chiude il Festival Nessiah

Appuntamento sabato 12 dicembre alla Città del Teatro a Cascina con Miriam Camerini, Manuel Buda e Bruna Di Virgilio.

Miriam Camerini nello spettacolo “Caffè Odessa"
CASCINA. -La diciannovesima edizione del Festival Nessiah - Viaggio nell'immaginario culturale ebraico arriva a conclusione. Un gran finale che avrà come location d'eccezione il palco della Città del Teatro e un appuntamento che vede il Comune di Cascina replicare e confermare una collaborazione ormai consolidata.
"Il senso lato", è questo il titolo e il filo rosso che ha legato tutti le date del Festival Nessiah 2015, iniziato lo scorso 22 novembre. La rassegna - che unisce musica, cinema, teatro, arte a 360 gradi - è diretta dal maestro Andrea Gottfried e organizzata dalla Comunità ebraica di Pisa con il sostegno della Fondazione Pisa, dei Comuni di Pisa e Cascina.
Dieci appuntamenti: tre concerti, quattro proiezioni (due presentate e introdotte dagli stessi registi), una mostra fotografica accompagnata da una degustazione, l'accensione del primo lume di Channukà. E ora lo spettacolo teatrale firmato da Miriam Camerini che è anche consulente artistica del festival: sabato 12 dicembre alle 21 alla Città del Teatro di Cascina andrà in scena "Caffè Odessa". Protagonisti saranno Miriam Camerini (drammaturgia, regia e canto); Manuel Buda (arrangiamenti, chitarra, saz e canto) e Bruna Di Virgilio (violoncello e pianoforte). Ingresso libero.
Una notte d'inverno nel quartiere ebraico di Odessa. La nebbia del porto si confonde con la luce dei lampioni, l'umidità entra nelle ossa attraverso il cappotto. Oltre le finestre appannate, un caffè promette compagnia, calore, qualche risata e un po' di musica. Viaggiatori e avventurieri, cantanti dell'Opera e marinai, ragazze di buona famiglia e attrici sfiorite, commercianti e militari. Da Cracovia a New York, da Berlino a Tel Aviv, da Istanbul a Buenos Aires, canzoni si susseguono, profumi si intrecciano, sapori si mischiano. A chi appartiene la cannella? All'Oriente profumato o alle notti del nord Europa? Esiste la musica ebraica? E se sì, che cos'è? Poco conta: in un Caffè come il nostro, l'importante è avere una storia da raccontare e una canzone da cantare.

(Il Tirreno, 11 dicembre 2015)


Il modello della violenza islamista? Terrorismo palestinese più appeasement occidentale

Ma la maggior parte degli esperti e degli opinionisti è troppo politicamente corretta per ammetterlo, e troppo occupata a boicottare lo stato democratico di Israele.

La settimana scorsa le vedove di due atleti israeliani uccisi nell'attentato palestinese alle Olimpiadi di Monaco del 1972 hanno rivelato le torture e le raccapriccianti violenze che subirono, durante le 20 ore in cui restarono nelle mani dei terroristi dell'Olp, gli ostaggi israeliani sopravvissuti all'assalto iniziale. Questi atroci dettagli, inseriti tra la strage di Parigi e il bagno di sangue di San Bernardino mentre perdura l'ondata di violenze palestinesi contro cittadini innocenti, hanno corroborato un dato di fatto che i negazionisti del terrorismo e gli apologeti dei palestinesi preferiscono non vedere: la tolleranza esercitata dal mondo nei confronti del terrorismo palestinese sin dagli anni '70 è ciò che ha fatto di quel terrorismo l'apripista pionieristico che ha indicato la strada al terrorismo islamista. Come ha argutamente osservato un amico, "il giubbotto esplosivo da terrorista suicida trovato in un bidone dell'immondizia a Parigi avrebbe potuto avere cucita addosso l'etichetta 'made in Palestina': una denominazione d'origine che, scommetto, non è sanzionata dalle norme dell'Unione Europea"....

(israele.net, 10 dicembre 2015)


L'appello di Ya'alon

Il ministro della Difesa israeliano spiega come si rafforzano i "boots on the ground" sunniti.

di Paola Peduzzi

 
Paola Peduzzi
MILANO - Più America, abbiamo bisogno di più America. Il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, ha parlato al Sabran Forum organizzato dalla Brookings Institution ispirandosi all'eccezionalismo americano, facendo a pezzi i tentennamenti e le cautele che hanno caratterizzato la dottrina-non-dottrina di politica estera della presidenza Obama. "L'America non può stare seduta a guardare", ha detto Ya'alon, il mondo non può ambire all'ordine, non può affrontare una guerra che ha sempre più l'aspetto di una guerra globale, se l'America sta in disparte. "Se stai seduto a guardare, il vuoto viene comunque riempito - in Siria, per esempio, o dall'Iran e dall'asse sciita sostenuto ora dalla Russia, o dallo Stato islamico. Ecco perché chiediamo un maggiore coinvolgimento dell'America nella nostra regione", ha detto Ya'alon.
  Non era soddisfatto il ministro quando ha detto: "La Russia sta giocando un ruolo più significativo degli Stati Uniti", "ma non ci piace che il re Abdallah di Giordania vada a Mosca, che i sauditi vadano a Mosca", sono gli americani che devono riprendere in mano la guida di questo conflitto. Soprattutto ora che c'è un'opportunità, "c'è il campo degli arabi sunniti, il campo più importante nella regione, che sta cercando una leadership". Non è il momento di fare eccessivi distinguo, i "boots on the ground" occidentali non sono esclusi, ma rappresentano un "last resort", ora è necessario rafforzare quelli che già combattono sul campo, "che non difendono i nostri interessi, ma i loro", e in questo caso coincidono, ha detto Ya'alon, sottolineando l'attuale convergenza con i paesi arabi dell'area, l'Arabia Saudita, l'Egitto, la Giordania, il Kuwait, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco.
  L'operazione "cuori e menti" riecheggia anche nelle parole del ministro della Difesa di Israele, "dobbiamo combattere lo Stato islamico in Siria e in Iraq, ma dobbiamo guardarci intorno, nel mondo islamico, e trovare i cuori e le menti (da portare dalla nostra parte), è facile a dirsi e difficile a farsi", ma se lo sforzo doveva iniziare molto tempo fa, "c'è ancora una possibilità". Non si può sconfiggere Daesh senza i "boots on the ground", ma se le truppe occidentali non arrivano - ed è difficile inviarle, anche se il contingente necessario per organizzare l'offensiva delle milizie già esistenti varia dalle 15 alle 20 mila unità, come hanno spiegato i senatori repubblicani John McCain e Lindsey Graham sul Wall Street Journal - "rafforziamo i 'boots' locali, i sunniti e i curdi. Ci saranno anche altri gruppi in Siria che non vogliono né l'Iran, né il regime di Bashar el Assad, né lo Stato islamico - ha detto Ya'alon - Questa è la nostra opportunità oggi", e questo esercito "deve essere diretto e guidato in modo che possa funzionare al meglio".
  Per Ya'alon, la guerra in Siria sarà lunghissima, e l'integrità territoriale potrebbe non essere garantita, non è detto che in un futuro esisterà ancora la Siria come la conosciamo oggi, perché "se dalle uova puoi creare un'omelette, da un'omelette non puoi ricreare le uova", i cocci non sempre si rimettono insieme. Ma se alla fine lo Stato islamico sarà battuto, dice il ministro israeliano, "con l'Iran è tutta un'altra questione, la Repubblica islamica è un 'original super power'", ha una visione di lungo periodo radicata nei decenni. Il nemico numero uno di Israele resta l'Iran - in questi giorni circola anche il video dell'incontro con gli studenti che il neonominato capo del Mossad, Yossi Cohen, tenne un anno fa: non c'è pericolo più grande della Repubblica islamica - e secondo Ya'alon l'accordo sul nucleare, "un errore enorme", è stato dettato soltanto da ragioni economiche: "Teheran ha bisogno di soldi". Anche negli anni Novanta, ricorda Ya'alon, ci fu un momento in cui sembrava che l'insofferenza popolare nei confronti degli ayatollah avrebbe avuto la meglio sul regime, "ero a capo dell'intelligence, me lo ricordo bene", ma il regime tenne e si rafforzò, così come questo accordo voluto dagli Stati Uniti finirà per irrigidire ulteriormente il regime. Lo Stato islamico si può battere, "il regime apocalittico e messianico" di Teheran no, "non vedo grandi cambiamenti all'orizzonte", ha detto Ya'alon, "possiamo sempre pregare, ma non penso che questa sia una politica: pregare".

(Il Foglio, 10 dicembre 2015)


Gli Ebrei a Modena: breve storia della comunità locale

Il rabbino capo della comunità ebraica di Modena Beniamino Goldstein ci apre le porte della Sinagoga di piazza Mazzini e ci guida alla scoperta di una comunità religiosa secolare che oggi conta soltanto un centinaio di credenti.

di Gaetano Gasparini

 
 
 
Modena è una delle città italiane che conservano importanti testimonianze della cultura ebraica. Una presenza che risale al XIII secolo, rafforzata dopo l'elezione della città a capitale del Ducato estense nel 1598. A Modena c'è infatti una sinagoga che si trova in pieno centro storico, a piazza Mazzini a pochi passi dal Palazzo Comunale. Un tempo in questa zona della città c'era il ghetto ebraico. Un perimetro delimitato da portoni e cancelli che andava dal vicolo Squallore a via Blasia passando per via Coltellini e via Torre fino a via Cesare Battisti.
   Non ci furono mai pogrom, persecuzioni di massa né espulsioni di Ebrei a Modena ma sin dal 1638 venne istituito un ghetto per volere del duca Francesco I. A quell'epoca la comunità ebraica locale superava il migliaio di fedeli, mezzo secolo prima costituivano invece il 10% della popolazione totale. I mestieri concessi agli Ebrei del ghetto erano fra i più umili e meno remunerativi. Se si esclude qualche banchiere-prestatore e orefice, gli altri potevano commerciare in abiti usati, in oggetti, mobili o biancheria rammendata: erano i cosiddetti "stracciaroli" o "zavaiari". C'erano anche modesti artigiani, raccoglitori di libri usati e piccoli commercianti.
   Gli Ebrei italiani, oggi circa 30mila, hanno storicamente seguito i flussi migratori che dalla provincia portavano nei grandi centri urbani dove le comunità ebraiche erano già impiantate e strutturate intorno a scuole e istituti ebraici, sinagoghe e attività commerciali kosher.
   Nella storia moderna, le migrazioni ebraiche verso Modena risalgono alla fine del XV secolo. Gli ebrei di Spagna cacciati dalla Reconquista cattolica della Penisola iberica si spostano nel Mediterraneo e si impiantano nella pianura padana. Sono Ebrei sefarditi che italianizzeranno i loro cognomi per fondersi meglio nella nuova realtà italica. Accanto a queste comunità "spagnole" ci sono gli Ebrei di culto italiano e una piccola comunità ashkenazita, ovvero di Ebrei provenienti dall'Europa orientale.
   E' di origine ashkenazita anche il rabbino capo di Modena e Reggio Emilia, Beniamino Goldstein che guida il Tempio israelitico dal 2009. Pronipote di ebrei ucraini migrati dall'estrema propaggine nord orientale al porto dell'allora Impero asburgico: i Goldstein lasciano Cernovizza e si stabiliscono per ragioni economiche a Trieste, sede di una delle comunità ebraiche più importanti del paese.
   Beniamino Goldstein passa la sua infanzia nella città giuliana poi parte per Israele dove prima studia nelle yeshivah e poi nell'Accademia talmudica. Si specializza nel collegio rabbinico di Gerusalemme nel 2000. Trasloca poco dopo a Merano dove per due anni e mezzo è rabbino capo della comunità ebraica, la più numerosa del Trentino Alto Adige. Sposato e con cinque figli si sposta successivamente a Milano prima di stabilirsi nel 2009 a Modena. "La funzione del rabbino non è assimilabile a quella del sacerdote e neanche a quello di guida spirituale della comunità - dice Goldstein - Un rabbino è uno studioso, un dottore in Ebraismo e il suo ruolo è quello di trasmettere la conoscenza dei Testi Sacri".
   A Modena abitano circa un centinaio di ebrei. Cognomi come Donati, Sacerdoti, Levi e Friedman sono tipici dell'ebraismo locale. Grandi famiglie che hanno segnato la storia ebraica di Modena. Una città in cui troviamo una sinagoga monumentale:"La caratteristica di Modena, che oggi conta soltanto un centinaio di fedeli sul suo territorio, è proprio l'esistenza di una sinagoga monumentale, un edificio neoclassico imponente che domina piazza Mazzini per una comunità numericamente molto ridotta", spiega il rabbino capo.
   La Sinagoga venne solennemente inaugurata nel 1873 e la sua costruzione "voleva testimoniare il nuovo senso di appartenenza degli Ebrei alla vita pubblica del nuovo regno: massima visibilità rispetto al passato e il messaggio che anche gli Ebrei hanno la loro cattedrale", dice Goldstein.
   Per poter celebrare le funzioni canoniche nel mondo ebraico c'è una soglia numerica minima obbligatoria. E' il "minian", il quorum di dieci ebrei maschi di età adulta necessari per lo svolgimento della preghiera pubblica ebraica. "Nelle piccole comunità dove non si raggiunge questa soglia si celebrano solo le grandi feste come il Kippur ma durante l'arco dell'anno non c'è niente. Qui a Modena ogni sabato celebriamo la funzione regolarmente e superiamo ampiamente la soglia del "minian"".
   Le sorti degli Ebrei di Modena, e d'Italia, seguono le evoluzioni storiche e politiche del contesto nazionale in cui sono inseriti peggiorando radicalmente durante il Novecento. "Le leggi razziali del 1938 sono per gli Ebrei italiani un atto di tradimento da parte dello Stato italiano. Appena qualche generazione prima molti Ebrei si erano impegnati nella lotta patriottica risorgimentale, avevano vissuto le trincee della prima guerra mondiale e partecipato attivamente ai grandi dibattiti politici del '900. Molti di essi erano stati nazionalisti e alcuni addirittura fascisti: l'aderenza degli ebrei al fascismo è stata infatti proporzionale alla partecipazione della popolazione al fascismo in generale", osserva il rabbino capo.
   C'erano fascisti e antifascisti fra gli Ebrei, e un gruppo di mezzo che non era ne l'uno ne l'altro ma si adattava alla situazione in corso "ma nel 1938 cambia tutto e la percezione di essere stati traditi dallo Stato italiano prevale fra gli Ebrei del paese: le leggi razziali sono state infatti votate dal Parlamento e controfirmate dal re".
   Nel dopoguerra molti Ebrei di Modena si spostano a Milano o a Roma, altri ancora partono per lo Stato di Israele. Numericamente quasi irrilevante se paragonata alla presenza di altre minoranze religiose in città, gli Ebrei a Modena sono appena un centinaio. Molto pochi in confronto ai 9mila musulmani residenti nel Comune di Modena, orbitanti intorno a tre centri islamici, e ai circa 2mila fedeli evangelici divisi fra una ventina di chiese.
   Gli Ebrei modenesi ereditano però di un edificio religioso dalle dimensioni monumentali che evidenzia la ricchezza culturale di queste aree della pianura padana e la coabitazione pacifica secolare fra comunità religiose. "Se si esclude l'ultimo periodo fascista la storia degli Ebrei a Modena e in più in generale in Italia è fatta di integrazione, lavoro e convivenza pacifica. Persino nel periodo delle leggi antisemite il grado di persecuzione a Modena è stato molto basso", ricorda Beniamino Goldstein, rabbino capo della comunità ebraica di Modena e Reggio Emilia.

(Note modenesi, 10 dicembre 2015)


Delegazione macedone in visita a Gerusalemme promuove opportunità imprenditoriali

SKOPJE - Le condizioni per fare impresa nell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia (Fyrom) sono favorevoli e possono motivare gli imprenditori israeliani. E' questo il parere della comunità imprenditoriale israeliana dopo la partecipazione alla conferenza organizzata dalla delegazione macedone in visita a Gerusalemme. Lo riferisce l'agenzia di stampa "Mia". Il premier macedone, Nikola Gruevski, guida la delegazione macedone composta anche dal ministro degli Esteri Nikola Poposki, in una visita ufficiale in Israele. Nella delegazione della Fyrom è presente anche Jerry Naumoff, ministro senza portafoglio incaricato dell'attrazione degli investimenti esteri. Durante l'incontro la comunità imprenditoriale israeliana ha sottolineato l'interesse ad investire nella Fyrom, sopratutto nei settori del turismo e dell'agricoltura: questo potrà essere favorito anche dai voli a basso costo tra Skopje e Israele che saranno introdotti nel 2016, sottolineano gli imprenditori israeliani.

(Agenzia Nova, 10 dicembre 2015)


A Tel Aviv il mattino ha l'uovo in bocca

di Federico F. Ferrero

Shakshuka israeliana
Mediterraneo, lo zucchero a colazione, non lo è mai stato. Dolci, biscotti e torte, fino al secondo dopoguerra, erano rari nelle cucine del popolo e anche sulle tavole dei potenti. Tradizionalmente, nella maggior parte del mondo conosciuto, al mattino ci si sfamava con qualche avanzo, un tozzo di pane secco inzuppato nel vino o nel latte, formaggi, miele, olive e, se andava di lusso, un uovo. Poi i tempi sono cambiati ma le uova, attualmente escluse da molte tavole senza reali motivazioni scientifiche, sono ancora l'incipit di giornata in molte regioni che si affacciano sul mare, nei paesi del Nord Europa e in tutte le aree di cultura anglosassone.
Ma soprattutto sono rimaste sinonimo di colazione nella Terra di Israele dove la «shakshuka» è un piatto nazionale. Gli ebrei tunisini avrebbero importato la tradizione di un piatto che in Nord Africa significa semplicemente «mistura», ma marocchini, libici, egiziani, algerini e yemeniti ne rivendicano la paternità. In tegame, peperoni, cipolle, pomodoro e cumino, rapprendono con lentezza in una salsa che accoglie le uova, inghiotte delicatamente l'albume e lascia a galla il tuorlo. Ogni mattina al Suk ha Karmel di Tel Aviv, in un recipiente comune, a turno si tuffano nell'intingolo bocconi di pane, per salutare il nuovo giorno con un gesto che ha il sapore di un rito ancestrale, che ribadisce legami e relazioni attraverso la quotidiana condivisione del cibo.

(La Stampa, 10 dicembre 2015)


Un appello contro «il Giornale». Parte la ghigliottina islamica

Ai musulmani viene chiesto di firmare un esposto perché «è importante denunciare chi ci diffama».

di Giuseppe De Lorenzo

I musulmani italiani vogliono portare il Giornale in tribunale. E i responsabili invitano i fedeli a farlo perché «è importante denunciare chi diffama l'Islam». L'accusa è apparsa nel sito internet «civiltaislamica.it», un contenitore web che rivendica di rappresentare «il punto di vista del vero islam» sunnita e moderato.
   A far scattare la ghigliottina sono stati gli articoli sugli attentati di Parigi. Ai responsabili del sito è andato di traverso il titolo «Islam assassino. Non ci arrendiamo» comparso in prima pagina dopo la strage del Bataclan. Ad essere presi di mira sono il direttore Sallusti, Magdi Cristiano Allam e Paolo Granzotto, colpevoli di vilipendio di religione, diffusione di notizie false, diffamazione e incitazione all'odio religioso. O forse, semplicemente colpevoli di aver espresso un'opinione.
   Non è la prima volta, e non sarà l'ultima, che il Giornale finisce nel mirino degli islamici. È successo nei giorni scorsi al giornalista Fausto Biloslavo, citato da alcune pagine Facebook (Islam Italia e Cronache Islamiche) per i suoi articoli sul «fratello Luca Aleotti (soprannominatosi «spada di Allah» e indagato a Bologna per terrorismo internazionale). Questa volta, però, non si sono fermati alle parole ed hanno diffuso online il facsimile dell'esposto che tutti possono sottoscrivere per mettere a tacere il Giornale dei «vili parassiti che si fanno chiamare giornalisti».
   Ma chi c'è dietro «civiltaislamica.it»? Il responsabile unico del sito è Massimo Abdul Haqq Zucchi, un italiano di 56 anni convertitosi all'islam nel '90: ad indirizzarlo ad Allah è stata la militanza «nella cosiddetta sinistra extraparlamentare». Uno scherzo del destino. Lo sostiene nello sforzo editoriale Sheikh Abdurrahman Rosario Pasquini, che peraltro è il vicepresidente della «Moschea della Misericordia» di Segrate, gestita dal Centro islamico Milano e Lombardia, «a cui questo sito fa riferimento dal punto di vista dottrinale». Spulciando tra i contenuti online, si leggono concetti aberranti. Si afferma, per esempio, che «la tolleranza non è concetto che abbia, né abbia mai avuto a che fare, con i cattolici»; si dimostra «la terribile violenza e intolleranza storica del cristianesimo» e il «carattere assassino» della credenza nel crocifisso. E ancora: si chiede la rimozione della croce di una Chiesa di Como perché «schiaccia» i non credenti. Infine, gli autori ritengono che «la schiavizzazione delle donne tramite il lavoro» sia lesiva della civiltà islamica. Ovvero, che le donne non dovrebbero lavorare ma rimanere a casa, coperte magari dal burqa.
   Se sono queste le indicazioni dottrinali della Moschea di Segrate, scritte dal pugno del suo vicepresidente, c'è da preoccuparsi. Soprattutto se poi sono gli stessi che si presentano come interlocutori islamici moderati.
   Non può infatti non stupire di trovare online il facsimile per la richiesta di esenzione degli studenti musulmani dalle lezioni di musica, in quanto «strumento di Satana». Le scuole italiane dovrebbero quindi adattarsi al Corano, evitando agli islamici di imparare canzonette con il flauto o altri strumenti musicali. Così come si rimane stupefatti nel leggere le minacce ai miscredenti: «Che Iddio maledica i nemici dell'lslam e dei musulmani», è scritto nel sito.
   E non siamo a Raqqa, ma a Milano. Dove l'integralismo sembra essere di casa. Dove i veri credenti islamici «sono quelli che si attengono strettamente alla dottrina fissata nel Sublime Corano». E che denunciano il Giornale.

(il Giornale, 10 dicembre 2015)


Israele testa 'Arrow 3', arma contro missili iraniani fine

GERUSALEMME - Israele ha testato il suo Arrow 3, missile intercettore anti-balistico: lo ha reso noto il ministero della Difesa, aggiungendo che dara aggiornamenti sul risultato del test. L'annuncio sembra aver lo scopo di rassicurare l'opinione pubblica, preoccupata da possibili lanci di missili provenienti dall'Iran, dalla Siria, dalla guerrilla di Hezbollah o da Hamas a Gaza. L'Arrows 3, che ha un raggio di azione di oltre 200 chilometri, e' in grado di intercettare obiettivi che viaggiano ad oltre 50km di altitudine, quando sono ancora sopra la stratosfera ed e' in grado di distruggere -grazie ai frammenti provocati dall'esplosione della testata- anche gli obiettivi mancati, ovvero che si trovano a 40/50 metri di distanza.

(la Repubblica, 10 dicembre 2015)


All'Israelitico le luci di Hanukkah per la riapertura dell'ospedale

La cerimonia di Hanukkah all'Israelitico
Accensione delle luci di Hanukkah all'ospedale israelitico di Roma per sollecitare la riapertura della struttura, ancora priva dell'autorizzazione sanitaria della Regione Lazio dopo la bufera giudiziaria per truffa e falso che ha portato all'arresto, insieme ad altri, dell'ex dg Antonio Mastrapasqua.
   ''E' una cerimonia che facciamo ogni anno nelle sale di questo ospedale ma quest'anno assume un significato particolare per la drammatica crisi in cui si trova questo ente e che speriamo trovi una soluzione nel più breve tempo possibile'', ha detto il rabbino capo Riccardo Di Segni in apertura della cerimonia, alla presenza, tra gli altri, del commissario nominato dalla comunità ebraica Alfonso Celotto e del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin.
   Oltre a Di Segni ad accendere le quattro candele del candelabro, oggi infatti è il quarto giorno della festa delle luci ebraica, anche l'ambasciatore d'Israele Naor Gilon, la presidente della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello e una dipendente di religione ebraica dell'ospedale.
   ''Se c'è una festa che simboleggia le nostre sensazioni in questo momento - ha detto Di Segni - è proprio la festa di Hanukkah che simboleggia non solo la storia di una rivolta militare per ottenere l'indipendenza ma anche quella di un miracolo: un'ampolla d'olio puro che venne trovata nel santuario con una quantità di olio sufficiente per un solo giorno ma che invece ne durò otto. Il miracolo di Hanukkah è quello che deve ripetersi qui, lo stiamo aspettando. Dal punto di vista della comunità abbiamo fatto tutti i passi necessari per assicurare una continuità e una ripresa. Ringrazio il ministro Lorenzin che oggi ci ha onorato della sua presenza. Adesso il testimone è in mano vostra. Avete nominato il vostro commissario (il magistrato Massimo Russo ndr), fatelo lavorare il prima possibile perché tutti, cittadinanza e personale dell'ospedale, vogliono che queste fiammelle tornino a brillare''.
 
Il ministro Lorenzin
   Al momento la struttura sanitaria, 1 milione di prestazioni l'anno e circa 800 dipendenti, si trova in un limbo burocratico. Dopo la nomina del commissario della comunità ebraica Alfonso Celotto, la Pisana sembra attendere l'insediamento ufficiale del commissario prefettizio Massimo Russo, magistrato siciliano nominato la scorsa settimana, ancora in attesa del nulla osta del Csm, per ridare l'autorizzazione sanitaria. Fino ad allora l'attività ordinaria dell'ospedale è sospesa e si stanno smaltendo solo le liste d'attesa precedenti allo scandalo delle 'cartelle false'. Soldi agli sgoccioli, in poche parole.
   ''Sono abituata a vedere anche nelle situazioni più terribili la parte positiva e da qui cercare le basi per un futuro - ha sottolineato la presidente della comunità ebraica Ruth Dureghello - In questo mese di lavoro abbiamo visto tante cose positive e non. In primo luogo il lavoro sinergico delle istituzioni con la comunità e il commissario nel tentativo di costruire un percorso di ripresa. In secondo luogo una fiducia reciproca nel voler dare a oltre 700 persone il lavoro e alla città il servizio che questo ospedale, una delle realtà sanitarie più antiche, ha sempre offerto''.
   ''È stato un mese molto intenso per capire che c'è voglia di ripartire: c'è entusiasmo nei dipendenti e nei pazienti e questo mi ha reso orgoglioso del compito che sto portando avanti che è quello di aiutare la burocrazia a sbrogliare la situazione'', ha detto a margine il commissario Celotto. ''Avremo un commissario prefettizio che mi affiancherà e insieme riusciremo a cogliere il primo obiettivo che è la riapertura dell'ospedale. Credo che l'ospedale riaprirà la prossima settimana, altrimenti ci troveremo in difficoltà economiche e finanziarie per ripartire. Dobbiamo dare un segnale concreto e stiamo lavorando con la Regione, la prefettura e il ministero della salute e con l'Anac proprio per riuscire a riaprire l'ospedale la prossima settimana. Manca solo il nulla osta del Csm, la procedura è già in corso, noi speriamo che possa bastare la nomina del commissario per riaprire l'ospedale''.
   Non si sbilancia sulla tempistica il ministro Lorenzin. ''C'e' una procedura in corso. Spero che l'ospedale Israelitico possa rinascere in modo più qualificato", ha detto il ministro della salute. "E' una festa importante, simbolo di ripartenza- ha aggiunto il ministro - L'Israelitico sta affrontando una brutta crisi e il primo pensiero va ai pazienti e alle persone che ci lavorano. E' in atto uno straordinario percorso normativo, che potrà essere utile anche per tante altre realtà, e il mio augurio è che l'ospedale torni ai romani quanto prima. La burocrazia è un elemento che sta sopra tutti noi ma la volontà è più forte''.

(Adnkronos, 10 dicembre 2015)


Dàgli all'islamofobo

Assalto a Ferguson che denuncia l'Europa in declino.

ROMA - Qualche anno fa, lo storico ed economista Niall Ferguson, uno degli accademici più in vista del mondo anglosassone, venne accusato di "razzismo" sulle colonne della London Review ofBooks per il suo libro, "Civilization", in cui spiegava l'unicità della civiltà occidentale: "Voglio dire, sono sicuro che gli Apache e i Navajo fossero culture ammirevoli. Ma nell'assenza di letteratura, non sappiamo chi effettivamente fossero perché non ci sono testimonianze scritte. Ma sappiamo che ammazzavano moltissimi bisonti. Fossimo rimasti ancorati alloro sistema, non credo oggi avremmo niente di lontanamente simile alla civilizzazione del Nord America".
  Adesso il grande storico scozzese, con cattedra a Harvard e prossimamente a Stanford, finisce sotto accusa per una column pubblicata sul Times di Londra. In essa, Ferguson rievoca il capolavoro di Edward Gibbon e altri studi sulla fine dell'Impero romano per tracciare un paragone con l'Europa di oggi: "Roma si era impercettibilmente fusa con le tribù germaniche, producendo un idillio multiculturale postimperiale", scrive Ferguson. Cita anche lo storico Bryan Ward-Perkins, che ha parlato di "orrori che spero sinceramente di non dover rivivere e che hanno distrutto una civiltà complessa, gettando gli abitanti dell'occidente di nuovo a un livello di vita tipico della preistoria". Peter Heather sottolineava invece gli effetti disastrosi non solo della migrazione di massa, ma anche della violenza organizzata.
  "Processi stranamente simili stanno distruggendo l'Unione europea di oggi, anche se pochi di noi vogliono riconoscerli per quello che sono", spiega Ferguson con coraggio intellettuale e lucidità storiografica. "Come l'Impero romano agli inizi del V secolo, l'Europa ha consentito alle sue difese di sgretolarsi. Ha aperto le sue porte agli stranieri che ambivano alla sua ricchezza, senza rinunciare alla loro fede ancestrale. Come aveva capito Gibbon, monoteisti convinti rappresentano una grave minaccia per un impero laico".

 Un nuovo caso Saul Bellow
  Poi lo storico getta lo sguardo sull'attualità: "E' senza dubbio vero che la stragrande maggioranza dei musulmani in Europa non sono violenti. Ma è anche vero che il punto di vista della maggioranza non è facilmente conciliabile con i principi delle nostre democrazie liberali, inclusi i nostri nuovi concetti di uguaglianza sessuale e la tolleranza non solo verso la diversità religiosa, ma verso quasi tutte le inclinazioni sessuali. E' quindi estremamente facile per una minoranza violenta acquisire le armi e prepararsi ad attaccare la civiltà all'interno di queste comunità che amano la pace".
  Un gruppo di accademici ha accusato Ferguson di "razzismo" e "islamofobia". "Lo storico di Harvard Niall Ferguson ha scelto di gettare benzina sul fuoco della islamofobia", si legge su Public Medievalist, un sito che raccoglie interventi di professori e storici anglosassoni. Ad esempio, il professor Mark Humphries afferma che Ferguson avanza "una distorsione semplicistica" della storia romana al servizio "di una agenda di 'noi' contro 'loro"'.
  Anche lo scrittore canadese naturalizzato americano Saul Bellow venne esecrato come paria razzista quando in un'intervista denunciò il declino delle università americane che avevano cancellato dalla lista degli autori studiabili tutti gli scrittori maschi, bianchi, europei, morti. "Chi è il Tolstoj degli zulù? Chi è il Marcel Proust della Papuasia?", chiese Bellow. Ovviamente diventò il bersaglio, come Niall Ferguson, di minoranze aggressive in cerca di riscatto letterario.

(Il Foglio, 10 dicembre 2015)


Israele: smartphone accessibili e gratuiti per disabili

Da ora in poi l'accesso agli smartphone sarà reso più semplice anche per i portatori di disabilità. Grazie ad uno sforzo congiunto tra Beit Issie Shapiro e Google, Sesame Enable, l'inventore del primo smartphone progettato per le persone che sono paralizzate, sarà a disposizione gratuitamente per chiunque ne abbia bisogno.
Oded Ben Dov, CEO di Sesame Enable, commenta entusiasta:

Siamo entusiasti di migliorare la vita di così tante persone che fino ad ora non erano coinvolti nella rivoluzione tecnologica degli smartphone. Il Sesame Phone consente alle persone con un uso limitato o nullo delle mani di ottenere l'indipendenza nell'utilizzo di dispositivi digitali, cosa che per molti di noi è scontata.

Il dispositivo è progettato per i malati di SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) e di altre malattie invalidanti le cui vittime non sono in grado di muovere gli arti.
Riconosciuto a livello internazionale e vincitore di importanti riconoscimenti - tra cui un premio di 1 milione di dollari da Verizon, società di cellulari statunitense - il dispositivo utilizza comandi vocali e gesti, seppur lievi.

(SiliconWadi, 10 dicembre 2015)


Il cane di Netanyahu morde due invitati alla cerimonia di Hanukkah

Un deputato del Likud e il marito della vice ministro degli Esteri Zipi Chotoveli.

Il cane del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha morso, ferendoli leggermente, due invitati alla cerimonia di accensione delle candele per la festa di Hanukkah nella sua residenza di Gerusalemme. Lo riferiscono i media locali, precisando che ieri il cane, chiamato Kaia, ha morso Sharren Haskel, deputato del Likud, partito di Netanyahu, e Or Alon, marito della vice ministro degli Esteri Zipi Chotoveli.
L'animale, si legge, sarebbe stato sovraeccitato dal rumore e avrebbe quindi aggredito i due ospiti. Da parte sua, il premier, profondamente imbarazzato, si è scusato con i malcapitati.
Kaia è stata adottata dalla famiglia Netanyahu dopo che il figlio del premier, Avner, aveva sentito che il cane, di 10 anni, sarebbe stato soppresso.

(Adnkronos, 10 dicembre 2015)


Il rabbino Giuseppe Laras: "Ma non si può prescindere dal ruolo che ha la giustizia"

Il discorso intorno alla misericordia è molto umano, ma la società civile non può prescidere dalla capacità di giudizio.

ROMA - Giuseppe Laras è il presidente dell'Assemblea rabbinica italiana
Informazione errata: da più di un anno il presidente dell’Assemblea rabbinica italiana è Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova.
ed è figura chiave del dialogo ebraico-cristiano.

- Rabbino, papa Francesco ha detto che bisogna «anteporre la misericordia al giudizio». Come interpreta queste parole?
  
«Innanzitutto penso che bisognerebbe seguire le parole del Pontefice, che sono belle e confortanti, senza troppi arzigogoli teologici. Il discorso intorno alla misericordia è molto umano, ma all'interno del vivere sociale non può prescindere dalla capacità di giudizio e dalla necessità della giustizia».

- La misericordia non è più importante del giudizio? In un momento come quello che viviamo, il messaggio di pace potrebbe essere questo: il perdono come forza prima della giustizia.
  
«Ma no, sono e devono essere contestuali. La giustizia non è mai fredda e meccanica, perché rischierebbe di essere espressione di vendetta, violenza e odio. La giustizia per essere tale deve partire da una posizione di rispetto e di benevolenza. Per questo dico che la misericordia è contestuale all'atto di giudizio. Non pensiamo solo alla giustizia nel senso della condanna, ma alla capacità di dare un giudizio, anche severo, che riesce a rimettere sulla giusta via le persone».

- Esiste un atto di misericordia assoluto?
  
«Sono due categorie distinte ma egualmente importanti. La misericordia è amore misto alla pietà, e bisogna avere una forte disposizione verso l'altro che non è così facile da possedere. In tal senso, la misericordia è importante nell'impostare i nostri rapporti con le altre persone. Ma non si può prescindere dalla giustizia perché se non siamo giusti, con noi e con gli altri, una società si può ammalare. Non si può, insomma, semplicemente amare con pietà senza dire all'altro se sbaglia o se ha peccato».

- Che differenze ci sono tra il pensiero ebraico e quello cristiano?
  
«Nel corso dei secoli si è molto fantasticato su un presunto pensiero ebraico totalmente incentrato sulla giustizia e poco sull'amore. Non è così. "Amerai il prossimo tuo come te stesso" si trova nella Torah prima che nei Vangeli. L'amore del prossimo è fondamentale ma lo è anche l'azione di giudizio che, se permeata dalla misericordia, è un fattore di stabilizzazione del vivere umano».

(La Stampa, 9 dicembre 2015)


Ai piedi di Maria madre degli ultimi

Nel pomeriggio in piazza di Spagna il tradizionale atto di venerazione all'Immacolata: ci ricorda che nella vita tutto è dono. L'affettuoso abbraccio ai malati. Poi la visita alla Vergine Salus Populi Romani.

di Gianni Cardinale

 
ROMA - E' stata all'insegna della misericordia anche la visita di papa Francesco nella romana piazza di Spagna per il tradizionale Atto di venerazione all'Immacolata. Gesto iniziato nel 1958 da san Giovanni XXIII e continuato dai suoi successori sul Soglio di Pietro. Gesto che Francesco ha ripetuto come «omaggio di fede e d'amore del popolo santo di Dio che vive in questa città e diocesi». Recitando una preghiera da lui appositamente composta, e che pubblichiamo integralmente in pagina, il vescovo di Roma si è presentato a nome delle famiglie, dei bambini e dei giovani, degli anziani, «in modo particolare» degli ammalati e dei carcerati, e anche «di quanti sono arrivati da terre lontane in cerca di pace e di lavoro». «Guardando te, Madre nostra Immacolata - ha proseguito - riconosciamo la vittoria della Divina Misericordia sul peccato e su tutte le conseguenze; e si riaccende in noi la speranza di una vita migliore, libera da schiavitù, rancori e paure».
   Il Papa, arrivato poco prima delle 16, è stato accolto in piazza dal cardinale vicario Agostino Vallini e dal commissario straordinario della Capitale, Francesco Paolo Tronca. Al suo fianco nella preghiera c'erano anche gli arcivescovi Giovanni Angelo Becciu (sostituto della Segreteria di Stato) e Georg Ganswein (prefetto della Casa Pontificia). Alla fine della cerimonia è stato salutato dalle principali autorità presenti: i vertici della Congregazione di propaganda fide che ha la sua storica sede proprio su Piazza di Spagna (con a capo il cardinale prefetto Fernando Filoni), il governatore della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il prefetto Franco Gabrielli.
   Gran parte del suo tempo papa Francesco l'ha comunque dedicato a salutare uno per uno, senza fretta, i tanti malati e disabili presenti alla celebrazione. Tra le grida di «Viva il Papa!» e «Grazie Francesco!» il Pontefice ha avuto per ciascuno di loro una parola di conforto, una benedizione, una carezza, un gesto di affetto.
   Prima di rientrare in Vaticano, il Pontefice si è recato a Santa Maria Maggiore, soffermandosi in preghiera davanti all'immagine della Salus Populi Romani. È stata, questa, la 29a visita del suo pontificato nella Basilica Liberiana, per un' orazione privata che però è stata seguita a breve distanza dai tanti fedeli che si sono fatti trovare nel più antico tempio mariano dell'Urbe. Della sua tradizionale visita ai piedi della colonna mariana di piazza di Spagna papa Francesco aveva parlato anche dopo aver guidato dal Palazzo Apostolico la recita dell'Angelus. «Vi chiedo di unirvi spiritualmente a me in questo pellegrinaggio, - aveva detto - che è un atto di devozione filiale a Maria, Madre di misericordia. A lei affiderò la Chiesa e l'intera umanità, e in modo particolare la città di Roma». Prima della preghiera mariana, recitata dopo la solenne Messa per l'Immacolata conclusa con l'apertura della Porta Santa della Basilica Vaticana per l'Anno della misericordia, il Papa aveva sottolineato come la festa celebrata comportasse due cose: «Primo: accogliere pienamente Dio e la sua grazia misericordiosa nella nostra vita. Secondo: diventare a nostra volta artefici di misericordia mediante un cammino evangelico». «Ad imitazione di Maria - aveva aggiunto - siamo chiamati a diventare portatori di Cristo e testimoni del suo amore, guardando anzitutto a quelli che sono i privilegiati agli occhi di Gesù». E cioè coloro che sono indicati da Gesù stesso nel Vangelo di Matteo: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Papa Francesco ha poi evidenziato come la festa dell'Immacolata Concezione di quest'anno «ha uno specifico messaggio da comunicarci: ci ricorda che nella nostra vita tutto è dono, tutto è misericordia». Così «non si può capire un cristiano vero che non sia misericordioso, come non si può capire Dio senza la sua misericordia». Essa infatti «è la parola-sintesi del Vangelo: misericordia».
   Al termine dell'Angelus papa Francesco aveva anche voluto rimarcare la presenza del Pontefice emerito all'apertura della Porta Santa. «Oggi - aveva detto - ha varcato la Porta della misericordia anche Papa Benedetto. Inviamo da qui un saluto, tutti, a papa Benedetto!». Aveva poi dedicato un «pensiero speciale» ai soci dell'Azione cattolica italiana, che ieri hanno rinnovata l'adesione all'associazione, augurando loro «un buon cammino di formazione e di servizio, sempre animato dalla preghiera».

(Avvenire, 9 dicembre 2015)

*

La rivincita della teologia
    Nell’Occidente laico i giornalisti “seri” non trattano temi teologici. Possono trattare temi ecclesiastici, questo sì, soprattutto se si possono raccontare cose gustose, magari scandalose, intorno quello che accade nell’appartato e strano ambiente dei religiosi di qualsiasi tipo. Ma le questioni “serie”, quelle che riguardano i rapporti politici fra popoli e nazioni, vanno trattate con ben altri strumenti culturali.
       Così era fino a qualche tempo fa. Ma da quando il religioso islam ha cominciato ad occupare un posto non più trascurabile neanche dagli osservatori più laici, i temi teologici sono ridiventati d’attualità. Non è forse una questione teologica stabilire qual è la corretta interpretazione del Corano? Non è forse teologicamente importante stabilire se il nome AL-Aqsa significa davvero “moschea più lontana” e si riferisce al supposto viaggio notturno che Maometto fece prima di ascendere al cielo? Non è forse teologia di gravissima importanza dichiarare che lo Stato islamico in realtà non è islamico perché l’islam è un’altra cosa? Chi, se non un teologo islamico potrebbe dirlo? E se ce ne fosse più di uno con tesi contrapposte, chi decideremmo di stare a sentire? Si comincia dunque, almeno per quel che riguarda la teologia islamica, a prendere in considerazione il dibattio religioso interno, e in molti casi anche a prendere posizione teologica, come per esempio fa Barack Obama quando dice: no, lo Stato islamico non è autentico islam.
       La stessa cosa invece non avviene per quel che riguarda il cristianesimo in senso lato. Ciò che non è cattolico viene ogni tanto preso in considerazione da qualcuno come curiosità, ma non si mostra quasi mai vero interesse per quello che cristiani non cattolici credono e confessano: è teologia, ma è marginale, quindi non interessa. Ciò che invece è cattolico, soprattutto se riguarda il papa, viene considerato con rispettosa attenzione. Quello che dice il papa è centrale, non marginale, perché il papa si colloca sempre al centro, ma è teologia, quindi non interessa. Non interessa quello che dice nei suoi contenuti teologici, ma interessa il fatto che lo dice stando al centro di avvenimenti che sono importanti di per sé, non per quello che dice lui, cosa che in realtà interessa ben pochi.
       Sarebbe importante invece che si prendesse seriamente in considerazione anche la teologia papale e qualcuno si chiedesse seriamente: ma questo è cristianesimo? Perché non porsi seriamente la domanda, come si fa con l’islamismo? Perché non lasciare aperta una delle due possibilità: no, non è cristianesimo. E’ quello che diciamo. Osiamo proporre un altro nome per la religione del papa: “Marianesimo”. Sì, perché se si dedicasse un po’ d’attenzione alla teologia cattolica si arriverebbe a capire che la figura della Madonna sta al centro di quella particolare espressione della cristianità ufficiale che si riconosce intorno al papa. In particolare, l’ottocentesco dogma dell’Immacolata Concezione, che il simpaticissimo papa Francesco ieri ha celebrato in pompa magna, è una totale invenzione che altera il senso dei testi evangelici e rende stabili le funeste conseguenze del falso insegnamento delle autorità religiose cattoliche.
       La cosa dovrebbe interessare in modo particolare gli ebrei, perché la sostituzione dell’israelita Maria con la figura della semipagana Madonna costituisce un furto a danno di Israele. Si può dire che anche queste sono affermazioni teologiche, ed è vero, ma questo conferma che la teologia è importante, più importante di tante chiacchiere pseudoculturali che girano sempre intorno ai problemi senza mai dire qualcosa di veramente essenziale e decisivo.
       Proprio perché consideriamo importantissimi certi temi teologici, anche per le conseguenze politiche che ne derivano, riportiamo su questa pagina, che di solito è dedicata all’attualità, un capitolo del libro “La superbia dei Gentili”. M.C.



Maria, figlia d'Israele
  1. Io credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra
  2. e in Gesù Cristo, Suo unico Figlio, nostro Signore,
  3. il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine,
  4. patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto;
  5. discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte;
  6. salì al cielo, siede alla destra di Dio, Padre onnipotente:
  7. di là verrà a giudicare i vivi e i morti.
  8. Credo nello Spirito Santo,
  9. la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi,
  10. la remissione dei peccati,
  11. la risurrezione della carne,
  12. la vita eterna. Amen.
Si tratta del famoso documento noto come "Credo apostolico", anche se è chiaro che gli apostoli biblici non c'entrano per nulla. E questo per un motivo molto semplice: perché gli apostoli erano ebrei, mentre questo venerando testo può essere considerato come uno dei più antichi documenti che sono serviti come base teologica dell'antisemitismo cristiano. "Ma se gli ebrei non sono neppure nominati", potrebbe obiettare qualcuno. "Appunto", è la risposta. Un documento che pretenda di racchiudere sinteticamente gli elementi fondamentali della fede cristiana e non avverta il bisogno di nominare personaggi come Abraamo, Isacco, Giacobbe, Mosè e Davide, manifesta per questo semplice fatto la volontà di cancellare il ricordo d'Israele dall'annuncio cristiano. E se questa è la volontà, la presenza di concreti ebrei nella vita di tutti i giorni non può che costituire una fastidiosa rievocazione da tentare di rimuovere in tutti i modi possibili. E il miglior modo per cancellare il ricordo è cancellare le persone.
  Si sostiene giustamente che il cristianesimo è una fede storica, cioè basata su fatti avvenuti nella storia. Ebbene, l'unico personaggio storico che compare in questo documento dogmatico è - a parte il "laico" Ponzio Pilato - una certa "Maria Vergine". Il documento non dice chi è questa donna, da dove viene, perché è stata scelta. Eppure, stando al testo, si direbbe che Dio entri per la prima volta nella storia attraverso questa donna. Certo, nell'insegnamento cattolico si spiega che questa donna è ebrea, che appartiene al popolo d'Israele, ma questo non ha importanza, o meglio: ha un'importanza soprattutto negativa, come vedremo fra poco.
  Nella comprensione popolare il cristianesimo comincia il giorno di Natale. A Natale infatti nasce il Cristo, e quindi lì nasce il cristianesimo. Ad accogliere il Cristo, anzi a metterlo al mondo, c'è una donna eccezionale: Maria. E di fatto è eccezionale, perché anche il Vangelo lo attesta. Ma perché? A questa domanda risponde il culto mariano, presentando Maria come donna concepita senza peccato, come persona il cui corpo dopo la morte non ha conosciuto la corruzione perché è stata assunta direttamente in cielo, e con altre caratteristiche che la fanno diventare un essere a metà fra l'uomo e Dio. Che c'entra Israele con tutto questo? Niente, risponderebbe probabilmente un devoto cattolico cresciuto nell'insegnamento della sua chiesa, perché in effetti si fa fatica a collegare in qualche modo il culto mariano con Israele. Tuttavia il collegamento c'è: la Maria cattolica sottolinea il fatto che Israele rappresenta il passato, un passato negativo da cui bisogna ripartire voltando pagina.
  Nel giorno di Natale, festa da molti considerata come la più importante tra quelle cristiane, i fedeli si dividono: chi fa il presepio e chi fa l'albero. Alcuni dicono: l'albero è pagano. Ed è vero. Il presepio invece sembra più "cristiano". Ma è così? Il quadro bucolico fatto di pastori, pecore, grotta, mangiatoia, stella e magi d'Oriente, è commovente, ma in tutta questa poesia ci si potrebbe anche dimenticare che la scena avviene in Israele. E invece il riferimento a Israele c'è: sta in quei due dolci animali che con il loro fiato riscaldano l'infreddolito Bambino: il bue e l'asinello. Sono un muto riferimento a una parola del profeta Isaia:
"Il bue conosce il suo possessore, e l'asino la greppia del suo padrone, ma Israele non ha conoscenza, il mio popolo non ha discernimento" (Is 1:3).
Il messaggio subliminale è semplice: il bue e l'asino sanno riconoscere in Gesù il Messia, ma Israele no. In questo modo il discorso con Israele è chiuso e il messaggio antisemita è partito. Da quel momento in poi la figura di Maria è rivolta verso il futuro, verso la costituzione del nuovo popolo di Dio che sostituirà Israele: la "Chiesa". L'ebrea Maria diventa la pagana Madonna, sostituzione e sintesi di innumerevoli divinità femminili adorate in tutto il mondo. Non si potrebbe immaginare niente di più antitetico alla spiritualità biblica del culto della Madonna, eppure proprio questa figura è diventata inscindibile dalla dottrina cattolica. Maria è tipo della "Chiesa". Come la Maria terrena un giorno ha fatto nascere Gesù, così oggi la Madonna celeste rappresenta la "Chiesa" che porta nel suo seno il Gesù sacramentale offerto agli uomini. La "Chiesa" è madre come Maria è madre. E se Gesù esprime l'umanizzazione di Dio, la "Chiesa", di cui Maria è tipo, esprime la divinizzazione dell'uomo. La "Chiesa" si considera partecipe della divinizzazione che venera nella figura della Madonna. Questi concetti sono bene espressi dall'autore cattolico Gianni Baget Bozzo:
    «La mariologia ha un ruolo essenziale nel Cattolicesimo, come nell'Ortodossia. Essa fa parte essenziale della visione cattolica del mondo che, nella figura storica di Maria di Nazaret, legge la figura stessa dell'umanità divinizzata in quanto distinta dal Verbo Incarnato. Proprio perché Gesù è Dio e uomo, rivelatore e redentore, occorre che un'altra figura esprima l'umanità in quanto divinizzata dall'unione della natura umana e divina nel Figlio. Maria rappresenta la figura del cristiano innanzi a Cristo.
      Nel Cattolicesimo, e ancor più nell'Ortodossia, la natura umana è divinizzata dal Cristo, che è come uomo e Dio, la forma e la causa della divinizzazione compiuta attraverso lo Spirito Santo. Conviene che anche l'umanità, in quanto divinizzata, appaia in una persona, che esprima la unità e la differenza dell'umanità divinizzata rispetto al Cristo. La realtà di una funzione universale è sempre espressa nel Cattolicesimo mediante il volto di una persona. Come Pietro rappresenta l'unità della Chiesa nel mondo come popolo di Dio, Maria esprime la realtà divino umana della Chiesa innanzi al Cristo. La Chiesa non è solo il popolo cristiano sulla terra, affidato a Pietro, è anche il popolo cristiano nella grazia e nella gloria divina. Pietro esprime l'unità della Chiesa nella storia, Maria esprime l'unità della Chiesa innanzi alla Trinità, la sua realtà escatologica. Per questo essa è l'Immacolata e l'Assunta. I privilegi mariani indicano la persona che esprime in sé la realtà escatologica della Chiesa. Maria è perciò la persona della Chiesa sul piano mistico ed escatologico, manifesta la differenza tra Creatore e creatura nella divinizzazione dell'uomo.»
    Gianni Baget Bozzo, Il futuro del Cattolicesimo, Alessandria 1997, pp.156-157
Al contrario della Madonna pagana, la Maria biblica è una figura rivolta verso il passato, un passato che appartiene a Israele perché contiene le promesse di Dio ad Abraamo, il cui compimento è annunciato nelle parole dell'angelo Gabriele:
"L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre. Egli regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà mai fine». Maria disse all'angelo: «Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?» L'angelo le rispose: «Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà dell'ombra sua; perciò, anche colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio. Ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figlio nella sua vecchiaia; e questo è il sesto mese, per lei, che era chiamata sterile; poiché nessuna parola di Dio rimarrà inefficace»" (Lu 1:30-37).
In questo annuncio si parla del trono di Davide, della casa di Giacobbe, di un regno che non avrà mai fine, tutte parole che hanno significato soltanto all'interno della storia d'Israele perché si riferiscono a promesse che Dio ha fatto a quel popolo. Maria non è la futura Madonna delle apparizioni pagane, ma la vergine di cui nel passato aveva parlato il profeta Isaia:
"Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio e gli porrà nome Emmanuele" (Is 7:14).
Ed è un segno dato alla casa di Davide (Is 7:13), come promessa e garanzia che, nonostante le disubbidienze del popolo che avrebbero portato ai disastri prodotti dagli Assiri e dai Babilonesi, Dio avrebbe mantenuto le sue promesse di consolazione fatte al popolo d'Israele. Di questo è consapevole la giovane ebrea Maria quando declama, sotto l'impulso dello Spirito Santo, quel magnifico inno che non è generica poesia, ma frutto maturo di una fede intrisa di riferimenti biblici alle promesse fatte a Israele:
"E Maria disse: «L'anima mia magnifica il Signore, e lo spirito mio esulta in Dio, mio Salvatore, perché egli ha guardato alla bassezza della sua serva. Da ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata, perché grandi cose mi ha fatte il Potente. Santo è il suo nome; e la sua misericordia si estende di generazione in generazione su quelli che lo temono. Egli ha operato potentemente con il suo braccio; ha disperso quelli che erano superbi nei pensieri del loro cuore; ha detronizzato i potenti, e ha innalzato gli umili; ha colmato di beni gli affamati, e ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servitore, ricordandosi della misericordia, di cui aveva parlato ai nostri padri, verso Abraamo e verso la sua discendenza per sempre»" (Lu 1:46-55).
Maria, con parole solenni che richiamano il biblico cantico di Anna (1 Sa 2:1-10), volge il suo sguardo verso il passato di Israele, un passato in cui risalta la misericordia di Dio promessa ai padri, di cui adesso, dopo tanti secoli di silenzio, Egli si ricorda venendo in soccorso di Israele, suo servitore. Nel lodare il Signore per la venuta sulla terra del Servo-Messia viene dunque menzionato anche il servo-popolo. E' vero che, come sappiamo dal resto dei racconti dei Vangeli, la generazione dei superbi nei pensieri del loro cuore che guidavano in quel tempo il servo-popolo rigetterà il Servo-Messia, ma è significativo che il termine "servo" al femminile sia usato anche per Maria:
"Maria disse: «Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola»" (Lu 1:38).
Dopo l'annuncio dell'angelo e prima del divino concepimento, Maria si riconosce come la serva del Signore, applicando a se stessa un titolo di alto significato profetico, e si dichiara pronta ad essere ubbidiente alla parola di Dio. Il Signore mostra di gradire questa umile espressione di ubbidienza della sua serva e mette in atto la parola annunciata dall'angelo. Per questo Maria esulta in Dio, suo Salvatore, perché nell'avvenuto concepimento riconosce che Dio ha guardato alla bassezza della sua serva. Maria non rappresenta dunque la futura "Chiesa" divinizzata e trionfante, ma l'umile residuo fedele d'Israele che confessa il suo peccato, esulta in Dio per la sua misericordia e accoglie il Messia come suo Salvatore. I superbi nei pensieri del loro cuore che Dio ha disperso sono i capi di Israele che rifiutano di accogliere il Messia; e i potenti che Egli ha detronizzato sono capi delle nazioni che rifiutano di riconoscere in Israele il servo del Signore, il popolo che Egli si è formato per dare gloria al suo nome e portare salvezza al mondo. Maria rappresenta i poveri che si abbeverano alle acque di Siloe che scorrono placide (Is 8:6), rappresenta i mansueti di Israele che un giorno erediteranno la terra (Sl 37:11), secondo le promesse fatte da Dio ad Abraamo (Ge 13:17, 15:18-21, 16:8).
  L'ultima volta che s'incontra Maria nei testi biblici è nel libro degli Atti, subito dopo l'ascensione di Gesù:
"Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, che è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato. Quando furono entrati, salirono nella sala di sopra dove di consueto si trattenevano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo. Tutti questi perseveravano concordi nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù e con i fratelli di lui." (At 1:12-14).
Dopo di che Maria sparisce dall'orizzonte biblico e non viene più nominata in tutto il resto del Nuovo Testamento. Dire questo non significa togliere onore alla madre di Gesù, ma riconoscerne la vera natura, che non sta nell'essere madre della "Chiesa", ma figlia di Israele, figlia benedetta che nella benedizione ricevuta vede compiersi la promessa fatta da Dio ad Abraamo: "… ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione" (Ge 12:2).
  Il culto della Madonna rappresenta dunque la forma più alta di autoesaltazione della chiesa cattolica, che considera "il ruolo della Vergine Madre come espressione e quindi custode perenne dell'identità ecclesiale, del Cattolicesimo della Chiesa cattolica". E questo naturalmente avviene in contrasto mortale con Israele, perché la Madonna cattolica deve far dimenticare che la Maria biblica è figlia d'Israele, espressione umile di quel residuo fedele che secondo le promesse di Dio non mancherà mai nel popolo che Egli si è formato (cfr. p.es. 1Re 19:18, 2Re 19:31, Is 10:20, Ez 14:22, Ro 11:5).
  C'è un passo nel libro dell'Apocalisse che si presta ad un'interessante varietà di interpretazioni:
"Poi un grande segno apparve nel cielo: una donna rivestita del sole, con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle sul capo. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Apparve ancora un altro segno nel cielo: ed ecco un gran dragone rosso, che aveva sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi. La sua coda trascinava la terza parte delle stelle del cielo e le scagliò sulla terra. Il dragone si pose davanti alla donna che stava per partorire, per divorarne il figlio, non appena l'avesse partorito. Ed ella partorì un figlio maschio, il quale deve reggere tutte le nazioni con una verga di ferro; e il figlio di lei fu rapito vicino a Dio e al suo trono. Ma la donna fuggì nel deserto, dove ha un luogo preparato da Dio, per esservi nutrita per milleduecentosessanta giorni." (Ap 12:1-6).
E chiaro che in questa visione il figlio che deve reggere tutte le nazioni con una verga di ferro non può che essere il Messia. Ma se è così, allora chi è la donna? Un'interpretazione diffusa in ambiente cattolico vede in questa donna una figura della Chiesa. Se così fosse, è chiaro che la mariologia ne otterrebbe un notevole sostegno, perché se la donna che fugge nel deserto è la Chiesa, allora anche la donna che partorisce il figlio maschio è la Chiesa. Maria di Nazaret sarebbe dunque lo strumento umano con cui la Chiesa partorisce il Gesù storico, e la Madonna dei santuari sarebbe lo strumento divinizzato con cui la Chiesa offre al mondo il Gesù spirituale.
  A questa interpretazione se ne contrappone un'altra, molto più convincente, secondo cui la donna che fugge nel deserto è il residuo fedele d'Israele, che negli ultimi tempi sarà ferocemente perseguitato dal gran dragone rosso, rappresentazione di Satana. La Maria biblica rappresenta allora il servo-popolo nel cui seno viene "generato" dal punto di vista umano il Salvatore del mondo, e nello stesso tempo l'umile residuo fedele d'Israele che accoglie il suo Messia e riconosce in Lui il compiersi delle promesse fatte ai padri.
  La figura semidivinizzata della Madonna pagana è un'espressione eloquente della "superbia dei gentili". Anche senza pensare alle ben conosciute forme popolari di culto idolatrico, la semplice formulazione dottrinale della mariologia contiene i germi di un antisemitismo pratico che nessuna dichiarazione di simpatia o amore per gli ebrei può mitigare. Viceversa, una comprensione attenta della figura biblica di Maria conduce ad un amore per il popolo d'Israele che nessuna vera o presunta iniquità degli ebrei può spegnere.


(Notizie su Israele, 9 dicembre 2015)


Donna Karan e Barbra Streisand in campo per il Ghetto di Venezia

Il pranzo nella villa della cantante e la raccolta fondi negli Usa per restaurarlo: già trovati due milioni.

di Claudio Del Frate

                                                               Donna Karan                                                                                                                  Barbra Streisand
I vip di Hollywood e le comunità ebraiche degli Stati Uniti si mobilitano per salvare il ghetto ebraico di Venezia. Servono almeno 8 milioni di euro, in cassa ce ne sono già quasi 2 frutto di donazioni di tutti quelli che - noti e meno noti - al di là dell'oceano amano i tesori della Laguna. La cantante Barbra Streisand ha promesso di mobilitarsi, i! suo entusiasmo ha trascinato la stilista Donna Karan e altri nomi dell'elite jewish. A smuovere mari e monti si è messa la Venetian Heritage, fondazione da anni impegnata nel salvataggio di Venezia e del suo patrimonio culturale.
   La scelta di concentrare gli sforzi sul ghetto non cade a caso: il 29 marzo 2016 saranno trascorsi esattamente 500 anni dal giorno in cui la Serenissima, primo Stato al mondo, decise di confinare gli israeliti in alcuni isolotti della città dove c'era una fonderia: un «getto», appunto, o «ghetto» secondo la pronuncia andata storpiandosi con il tempo, che da quel momento è divenuto sinonimo di ogni quartiere ebraico.
   «Siamo una fondazione laica, non religiosa - precisa Toto Bergamo Rossi, direttore della Venetian Heritage - impegnata nella salvaguardia della città attraverso la raccolta di fondi. Ricorrenza storica a parte, siamo stati sorpresi dall'entusiasmo con cui è stata accolta una mostra su una settantina di oggetti di culto di una sinagoga che qualcuno nascose in una soffitta del ghetto nel '43 prima di essere deportato e ritrovati casualmente dopo 70 anni. Quella piccola rassegna è stata richiesta a Parigi, New York, Houston, Vienna, Perth oltre a Venezia naturalmente. Minimo sforzo, grande successo, segno dell'affetto per la città; del resto la storia della città e della sua comunità ebraica sono legate a filo doppio».
   Sulle ali dell'entusiasmo è nata l'idea di far rivivere il ghetto in occasione dei suoi cinque secoli: esiste già un progetto che consiste, nella sua parte più impegnativa, nel risanamento delle cinque sinagoghe dell'antico nucleo; oggi solo due sono aperte al pubblico. «Siamo partiti per gli States - racconta Bergamo Rossi - dove abbiamo contattato gli esponenti delle comunità ebraiche. Si è trattato di un vero e proprio "porta a porta" perché per conquistare la fiducia in questi casi conta molto farsi vedere. Tra i primi ad aderire c'è stato Michael Frost, un capitano dell'industria farmaceutica americana. Ma abbiamo contatti con un paio di Fondazioni che, se scendessero in campo dalla nostra parte, ci consentiranno di raggiungere il traguardo prefissato» .
   E poi ci sono i nomi famosi, che si sono fatti testimoniaI dell'impresa: magari danno un contributo economico non decisivo ma servono a richiamare l'attenzione ...
   «Tre anni fa Barbra Streisand venne in visita a Venezia e toccò a me accompagnarla nel tour. Il ghetto fu tra i luoghi che più la incantarono. Siamo rimasti amici e quando sono andato negli Usa l'ho chiamata. "Vieni a pranzo da me a Malibu" mi ha detto. Lì c'erano lei e la stilista Donna Karan, che ha staccato un assegno da 50.000 dollari. E Barbra si è impegnata a promuovere la nostra causa. Diane von Fiirstenberg è pronta ad aiutarci e contiamo di chiamare presto Steven Spielberg».
   Ma le adesioni sono arrivate anche da chi meno te l'aspetti: «li New York Times ha pubblicato un articolo sulle bellezze del ghetto veneziano. Da quel giorno riceviamo decine di mai! di ebrei americani che ci dicono: "Per il bar mitzvah (cerimonia che introduce i ragazzi nell'età adulta, ndr) di mio figlio ho deciso di donare 100 dollari al vostro progetto". Sono gli episodi che ci danno fiducia: avanti così e i cantieri nel ghetto partiranno entro la fine del 2016».

(Corriere della Sera, 9 dicembre 2015)


"Libro antisemita", e il rabbino diserta la fiera

Di Segni rinuncia alla rassegna dell'editoria che ospita un autore anti-israeliano.

di Viola Giannoli

ROMA - Un libro antisionista presentato alla Fiera della piccola e media editoria "Più libri più liberi" fa infuriare la comunità ebraica. E il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, diserta l'evento a cui era stato invitato. A scatenare la polemica, il testo Sionismo, il vero nemico degli ebrei del giornalista inglese Alan Hart, fortemente critico sulla politica di Israele, fino a ritenere, ad esempio, che dietro l'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre ci possa essere stato un complotto dei servizi segreti israeliani. Alla Fiera sono arrivate le richieste di cancellare l'evento da parte di un consigliere della Comunità ebraica. «Delirante povero ebreo» l'ha definito, su Facebook, il curatore del volume Diego Siragusa, che ieri mattina, con l'editore Zambon, ha presentato il libro al Palazzo dei Congressi dell'Eur. Lo stesso giorno in cui, cinque ore più tardi, doveva andare in scena l'incontro tra Di Segni, la storica Anna Foa e il giornalista Fabio Isman su "Gli abitanti del Ghetto di Roma" di Angela Groppi, censimento della popolazione ebraica tra il 1555 e il 1796. Ma il rabbino ha deciso di rinunciare all'appuntamento organizzato da mesi: «La manifestazione dell'editoria è libera di presentare quel che vuole, io sono altrettanto libero di fare le mie scelte» spiega. Ad annunciare alla sala piena il forfait è stata la Foa: «La comunità ebraica ha deciso di dissociarsi dall'evento e il Rabbino per protesta non verrà».
   La querelle a Roma era già scoppiata il giorno prima: il 7 doveva essere la sezione dell'Anpi Don Pappagallo dell'Esquilino a presentare il volume di Hart. Doveva, perché l'iniziativa è stata revocata dopo la durissima reazione del presidente dell'Ucei, Renzo Gattegna: «E' sconcertante che l'Anpi, che dovrebbe tutelare e diffondere ben altri valori, si faccia promotrice di un'iniziativa di aperto odio antiebraico e antisraeliano» aveva tuonato. «Non sapevamo nulla» si è scusato il presidente nazionale Carlo Smuraglia. Ed Ernesto Nassi, resposanbile locale, ha aggiunto: «II volume non è in linea con i nostri principi che rifiutano qualsiasi forma di antisemitismo».
   Scelta diversa per la Fiera dei piccoli editori. «Dopo la richieste di annullare la presentazione - spiega la coordinatrice Silvia Barbagallo - abbiamo verificato il contenuto del libro per accertarci che, al di là delle posizioni rigide sul sionismo e la questione palestinese, non ci fosse nulla di antisemita. Abbiamo invitato i rappresentanti della comunità a confrontarsi con noi perché le critiche ci sono sembrate eccessive e politiche. Abbiamo seguito l'incontro e non c'è stata alcuna allusione razzista. Nulla di offensivo nemmeno nel libro a nostro avviso, e così abbiamo deciso di andare avanti».

(la Repubblica, 9 dicembre 2015)


«La manifestazione dell'editoria è libera di presentare quel che vuole, io sono altrettanto libero di fare le mie scelte». Esemplare la posizione del rabbino Di Segni: non cerca di togliere ad altri la libertà di dire o fare qualcosa, ma ribadisce la sua libertà di esprimere concretamente il suo dissenso. M.C.


Uno squallido circo antisemita con la scusa di criticare il sionismo

Desolante, grottesco squallore e spazio a un delirio che si pretende antisionista, ma che lascia facilmente trasparire le proprie radici ideologiche di odio antisemita. L'infame pubblicazione intitolata Sionismo: il vero nemico degli ebrei è approdata alla fiera romana della piccola editoria con un esito disastroso e inquietante. "Descrivo il conflitto in Palestina che è diventato lo stato Sionista - non ebraico! - di Israele come il cancro al cuore degli affari internazionali e credo che senza una cura questo cancro consumerà tutti noi". Sono queste alcune delle numerose e farneticanti dichiarazioni di Alan Hart, l'autore del controverso volume.
  Volgarmente e patologicamente antisionista, il libro aveva generato ferme prese di posizione a causa dell'annunciata presentazione, che sarebbe dovuta avvenire lo scorso 7 dicembre, nei locali della sezione Anpi (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) don Pietro Pappagallo della Capitale.
  Evento in seguito annullato dopo l'intervento del presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna: "È sconcertante - aveva denunciato il presidente UCEI - che l'Associazione Nazionale Partigiani Italiani, realtà che dovrebbe tutelare e diffondere ben altri valori, si faccia promotrice di un'iniziativa di aperto odio antiebraico e antiisraeliano. Un fatto gravissimo, che merita la più ferma condanna". "Il sionismo - ha proseguito Gattegna - è un elemento fondante dell'identità ebraica contemporanea. Qualsiasi operazione volta a screditare questo assunto risulta così fuorviante e grottesca". La segnalazione è stata accolta immediatamente dallo stesso direttivo dell'Anpi che ha preso le distanze: il presidente della sezione romana Ernesto Nassi ha infatti sottolineato come il libro in questione non fosse "in linea con i valori e i principi dell'associazione, che rifiutano qualsiasi forma di razzismo ed antisemitismo".
 
  La presentazione di oggi, avvenuta in una saletta della fiera libraria, ha visto la presenza di una ventina di persone (chi con un braccialetto con sopra disegnata la bandiera palestinese, chi indossando una kefiah al collo). A prendere la parola solamente l'editore Zambon e il curatore Diego Siragusa che hanno insistito, con l'appoggio del pubblico, nel sottolineare come il "potere ebraico" controllerebbe i media e il "pericolo" sionista incomba su tutti noi. Se l'editore si è lanciato in una velleitaria ricostruzione storica che vuole gli israeliani come discendenti di ugro-finnici convertitisi millenni fa e spacciatisi per semiti; Siragusa, dopo aver favoleggiato di complotti orchestrati dal Mossad, Stalin e bolscevichi "assassini", concentra la sua invettiva contro la stampa e spiega "se io dico una cosa è perché è oro colato, sennò vi dico che non ne sono certo". "Israele nasce - riassume - anche perché gli ebrei vengono considerati 'in qualche modo' oggetto di persecuzione". Poi prosegue sostenendo come gli scritti di Theodor Herzl coincidano in alcuni passaggi con quelli di Adolf Hitler: "entrambi - dice - parlano di superiorità della razza". Verso le conclusioni, Siragusa inasprisce ancora di più i toni e alza la voce: "Israele è uno stato di apartheid, uno stato razzista. Nessuno vuole recensire questo libro, nemmeno il Manifesto. Vengono recensite le più grandi cazzate di questo mondo ma questo no, perché vige un controllo dall'alto". Avvicinatosi allo stand, uno dei partecipanti all'incontro conclude "degnamente" rivolgendosi all'editore: "Lei è di razza ebraica vero? Quindi me lo farà lo sconto o no?".
  Tra teorie del complotto e riscritture della storia, Alan Hart sembra essere letteralmente ossessionato dal ruolo di Israele come burattinaio del mondo, andando a pescare tra le maglie di stereotipi più o meno articolati. Hart non nasconde la sua radicale avversione per il Sionismo e la politica di Israele, attraverso una militanza corrosiva alimentata sul suo blog nel quale sostiene di aver intessuto fortissimi rapporti con Golda Meir e Yasser Arafat che gli avrebbero rivelato in conversazioni private i segreti del conflitto. Il libro Sionismo: il vero nemico degli ebrei è articolato in 3 volumi (che recano i seguenti titoli: Il falso messia, Davide diventa Golia e Il conflitto senza fine?) e racchiude le sue teorie secondo cui il Sionismo non sarebbe fondato su altro se non la mitologia e i sionisti non coinciderebbero con i veri ebrei abitanti nell'antico Regno di Israele. A premere Hart è soprattutto una legittimazione delle sue posizioni da esponenti di religione ebraica: vengono riportate spesso tesi dello storico israeliano Ilan Pappe e primeggia la reazione al libro firmato dal rabbino inglese Ahron Cohen, noto per le sue posizioni ferocemente anti-sioniste. Nelle sue pagine Hart vorrebbe infatti dimostrare come Israele rechi il danno più grande agli ebrei stessi e sia la causa di un nuovo rigurgito antisemita. Secondo lui "il Sionismo è una ribellione all'ebraismo" e non farebbe altro che "un lavaggio del cervello" che porterebbe, in ultima istanza, alla paranoia.
  Autore di una biografia sull'ex leader dell'Olp Yasser Arafat, Hart non disdegna anche teorie complottiste legate all'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001: esso sarebbe stato, ha detto più volte, un piano macchinato dal Mossad, i servizi segreti israeliani, a sostegno di una parte degli americani (in una intervista fa addirittura il nome del vice presidente Usa di allora Dick Cheney). L'11 settembre? Altro che Bin Laden, dichiara Hart, è stato un "inside job" realizzato con la connivenza dei media che "in parte - prosegue - sono controllati dagli ebrei" anche se il primo nemico rimane "il sistema" e la censura. Ha fonti certe da amici molto influenti, dice, di cui però non è dato sapere il nome.
  I tre volumi sono pubblicati da una casa editrice che ha nel suo catalogo altri titoli nettamente schierati dal tenore di La resistenza islamica all'imperialismo, Crimini di guerra a Gaza o La fine del sionismo e la liberazione degli ebrei e che fa del tema della Cospirazione il suo marchio di fabbrica. A pubblicare in Italia il libro di Hart è una casa editrice altrettanto fantomatica, che non dispone di un sito se non in lingua tedesca e che proclama: "Rifiutiamo di adeguare le nostre scelte editoriali al grado di intossicazione ideologica ed al livello di sub-cultura attribuiti al fantomatico «lettore medio», livello di cui sono invece responsabili le grandi concentrazioni mediatico-finanziarie che hanno coscientemente e sistematicamente perseguito l'obiettivo della disinformazione e dell'indottrinamento reazionario dei propri lettori" e propone di rivelare ai suoi, invero poche centinaia, lettori segreti sulla Cia, il Sud America e, ovviamente, Israele.
  Curatore dell'edizione tradotta è Diego Siragusa, già autore per la Zambon di Il terrorismo impunito. Perché i crimini di Israele minacciano la pace mondiale, di cui il titolo sembra essere già una dichiarazione di intenti. Insegnante di legislazione sanitaria ma anche di storia del conflitto israelo-palestinese e di storia delle dottrine politiche nell'associazione dopolavoristica Università popolare di Biella, Siragusa ha fatto politica senza mai uscire da una dimensione locale, provando a più riprese una carriera letteraria di incerto successo.
  Nel suo blog ingaggia una vera e propria battaglia via web contro Israele con tanto di rubrica dal titolo Palestina mon amour. In una lettera riproposta dallo stesso sul suo blog, commentava l'uccisione dei tre ragazzi israeliani Eyal, Gilad e Naftali esprimendo fantasiosamente la sua teoria del complotto secondo cui non esclude "che siano stati gli stessi israeliani tramite il Mossad ad orchestrare questo delitto in un momento cruciale" e rimarca come la stampa sia manovrata dai "Sionisti": "Oggi si tratta di giocare sulle emozioni suscitate dai giornali e dai mezzi visivi di comunicazione controllati dai sionisti. Delle centinaia e migliaia di palestinesi uccisi non si parla…. tranne per dire che si fa bene ad ucciderli". Inserisce inoltre una sua intervista a Gianni Vattimo, lo studioso di filosofia noto per le sue dichiarazioni anti-sioniste che non si lascia mancare l'occasione di ribadire come sia favorevole in linea di principio alla bomba atomica dell'Iran, il paese che ha esplicitato in ogni occasione la propria intenzione di "distruggere lo Stato di Israele". Stando al video Vattimo non avrebbe inoltre perso occasione di un ulteriore conato antisemita: dopo che Siragusa gli dice che il suo editore avrebbe origini ebraiche, gli risponde: "Ma in quante copie verrà stampato il libro? No perché essendo l'editore ebreo avrà pur qualche interesse finanziario…".
  Invitando alla presentazione del libro di Hart, riproposta oltre che alla fiera libraria anche alla Comunità di base di San Paolo, Siragusa finisce poi per lanciare un attacco all'Anpi che secondo lui "avrebbe subito pressioni dall'estrema destra israeliana" e dai "sionisti italiani". r.s.

(moked, 8 dicembre 2015)


"... il Sionismo è una ribellione all'ebraismo". Il gioco è fatto: per salvare l’ebraismo bisogna distruggere lo Stato d’Israele e obbligare gli ebrei che vi abitano o lo appoggiano a “convertirsi” all’antisionismo. E’ quello che dice in sostanza Khamenei dall’alto di un’autorità spirituale che evidentemente molti gli riconoscono. Rispetto agli ebrei Khamenei è come un papa del Medioevo. L’avevamo già detto: l’antisionismo è paragonabile all’antigiudaismo, più che all’antisemitismo biologico, perché colpisce “soltanto” l’ebreo religioso, offrendogli la possibilità di salvare l’uomo. Dunque, cari ebrei che vi rifate a Sion: abbandonate al più presto la vostra ingannevole fede sionista, rinnegate lo stato assassino che fraudolentemente si dice ebraico e convertitevi, dando chiari e pubblici segni della vostra abiura. Questo vi dice con trepida passione l’autore del libro sopra recensito. M.C.


Yossi Cohen è il nuovo capo del Mossad

Ex vice della centrale di intelligence, attuale consigliere per la sicurezza, sostituisce Tamir Pardo. Carismatico ed elegante, lo chiamano 'il modello'.

 
Yossi Cohen
Il nuovo capo del Mossad è Yossi Cohen, ex vice capo della centrale di intelligence di Israele e attuale Consigliere per la sicurezza nazionale. L'annuncio è giunto ieri sera dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Cohen sostituisce Tamir Pardo, giunto dopo cinque anni al termine del proprio mandato.

 Chi è
  Cohen, 54 anni, è entrato nel Mossad nel 1982 e ha trascorso la maggior parte del suo servizio nel dipartimento 'Zomet', preposto alla attivazione degli agenti segreti. Secondo la stampa israeliana è dotato di grande carisma, e si avvale anche di una eleganza particolare che gli ha guadagnato il soprannome: 'Il modello'. Negli anni trascorsi nel Mossad ha guidato un dipartimento specializzato in innovazioni, per le quali è stato insignito del premio per la 'Sicurezza di Israele'. In seguito è stato anche vice capo del Mossad. Nel 2013 Netanyahu lo ha nominato Consigliere per la sicurezza nazionale, divenendo così uno dei collaboratori piu' intimi del primo ministro. In particolare Cohen si è trovato coinvolto in prima persona nei contatti fra Israele e Stati Uniti, specialmente circa la questione del nucleare iraniano.

 Netanyahu
  In un intervento alla televisione Netanyahu ha affermato che la missione principale oggi per il Mossad è di misurarsi "con un Islam estremista, guidato dall'Iran e dall'Isis, che minaccia il mondo intero". Compito del Mossad, ha aggiunto, è di svolgere operazioni speciali, raccogliere informazioni di intelligence e anche "spianare la strada per relazioni politiche con Paesi che non hanno con noi rapporti diplomatici, fra cui Paesi arabi ed islamici". La loro considerazione verso Israele, ha aggiunto, è stata espressa ancora di recente durante incontri da lui avuti a Parigi, ai margini della conferenza sul clima. Netanyahu ha detto che la scelta del nuovo capo del Mossad è stata molto difficile perché anche gli altri due candidati (fra cui un agente la cui identità non può ancora essere rivelata) erano pure molto dotati. Il premier ha infine ringraziato il capo uscente, Pardo, per il servizio svolto a beneficio della Nazione.

(globalist, 8 dicembre 2015)


"Quel nuovo inizio che lega alla giustizia le nostre religioni"

Per capire che cosa è il Giubileo.

di Riccardo Di Segni
Rabbino capo della Comunità ebraica di Roma

Per capire che cosa è il Giubileo bisogna tornare alle pagine della Bibbia, al capitolo 25 del libro del Levitico. In questo capitolo compare una legge per controllare una speciale situazione storica.
   All'arrivo del popolo ebraico nella terra promessa, la terra d'Israele, il territorio fu diviso equamente tra tribù, famiglie e singoli, in modo che ciascuno potesse avere con il suo pezzo di terra l'autonomia del sostentamento e la dignità del lavoro. Ma come in ogni sistema economico era inevitabile che nel corso degli anni per tanti motivi la situazione si potesse modificare, creando squilibri sociali, accumuli di ricchezza e sacche di povertà; e in conseguenza di questo molte persone cadute in miseria venivano assoggettate come schiavi.
   Il Giubileo serviva ogni cinquanta anni a rimettere le cose in ordine, azzerando le modifiche avvenute e riportando tutto alla situazione originaria. All'inizio dell'anno consacrato, alla fine del giorno del Kippùr, il suono di un corno di montone (Yovèl in ebraico, da cui Giubileo in italiano) segnava l'inizio del nuovo stato. Gli schiavi venivano affrancati e ognuno tornava a recuperare l'iniziale possesso famigliare. Dato che il presupposto perché tutto tornasse come prima era l'insediamento dell'intero popolo ebraico nella sua terra, da quando gli Assiri conquistarono nel 720 av. E.C. il regno d'Israele e ne deportarono gli abitanti (lasciando intatto il regno di Giudea) il Giubileo fu sospeso e mai più ripreso. Quindi nell'ebraismo il Giubileo è solo un ricordo di un'istituzione molto remota. Non sono però un ricordo le istanze di libertà, di ripartizione equa delle risorse, di dignità del lavoro.
   Il Giubileo cristiano si ispira all'antica norma biblica nel nome, nella periodicità e riprendendone alcuni temi ma è evidentemente una cosa diversa. Il Giubileo che ora inizia non è certamente un evento ebraico. La comunità ebraica lo segue tuttavia con attenzione e rispetto. Il richiamo attuale al tema della misericordia è profondamente legato alle radici bibliche ed ebraiche. Certo per entrambe le fedi la misericordia non può fare a meno della giustizia; sono due aspetti indissolubili della realtà divina e dell'impegno umano. Ma concentrarsi sulla misericordia nel momento storico che attraversiamo, in cui parrebbe che la religione sia solo sangue e ferocia distruttiva è un segnale opportuno.

(Il Messaggero, 8 dicembre 2015)


Ringraziamo il rabbino Di Segni per la sua precisazione storico-biblica. Apprezzabili sono anche le parole con cui il rabbino vuol esprimere il rispetto degli ebrei per una manifestazione “cristiana” che non è loro, ma di cui avvertono echi lontane di suoni biblici. Come cristiani, invece, non possiamo manifestare un analogo rispetto. Il giubileo è una manifestazione che si presenta come “nostra”, perché si dice cristiana, mentre noi, insieme a tanti altri cristiani meno presenti del papa nei mezzi di comunicazione di massa, non la consideriamo affatto nostra. La misericordia evangelica annunciata nell’opera di salvezza di Gesù Cristo non ha niente a che vedere con la grandiosa esposizione pubblicitaria-commerciale a cui stiamo per assistere. Prendiamo nettamente le distanze da questo giubileo. Saremmo anche grati ai nostri amici ebrei se fossero un po’ più rigorosi nell'uso dei termini e parlassero di “Giubileo cattolico”, e non di Giubileo cristiano. Una volta i papi facevano distinzioni molto nette, e chi non era cattolico non era cristiano. Con tutto quello che significava in termini patibolari. Adesso invece per i papi tutti i credenti in qualche dio sono cristiani e tutti i cristiani sono cattolici, e il centro di questa sincretistica religiosità mondiale ovviamente si trova a Roma. Questo significa il Giubileo cattolico. E’ un’espressione teatrale di pubblica “misericordia” che si basa sulla finzione e la menzogna. E nulla di buono proviene da ciò che è finzione e menzogna. E’ il Vangelo che ce l’insegna. M.C.


Così la Svezia è diventata una socialdemocrazia che predica contro Israele

Stoccolma accusa Gerusalemme di "esecuzioni extragiudiziarie". Ebrei nel mirino, dai giornali alle linee aeree.

di Giulio Meotti

Margot Wallström
ROMA - Per il Global Peace Index, la Svezia è un modello mondiale di uguaglianza e pari opportunità. Stoccolma eccelle soltanto in un particolare tipo di odio, quello nei confronti di Israele. Intervistata dalla Svt2 dopo le stragi parigine del 13 novembre, la ministra degli Esteri, Margot Wallström, aveva detto che "per contrastare la radicalizzazione dobbiamo tornare alla situazione in medio oriente, dove i palestinesi vedono che non c'è futuro per loro e devono accettare una situazione disperata o ricorrere alla violenza". Frasi liquidate dal premier israeliano, Benjamin Netanyahu, come "sconvolgenti per la loro sfrontatezza". Socialdemocratica, femminista e umanitarista, eurocommissaria dal 1999 al 2009, ieri Wallström è tornata a demonizzare Israele, accusandolo di "esecuzioni extragiudiziarie" nella Terza Intifada.
   "Tutti in Svezia sono contro di noi, c'è una sfacciata tendenza anti israeliana", ha detto un alto funzionario israeliano al quotidiano Yedioth Ahronoth. Un anno fa, la Svezia è stata ufficialmente il primo paese dell'Unione europea a riconoscere lo "Stato di Palestina". Intanto, l'antisemitismo fermenta in una parte della società svedese. L'ambasciatore israeliano a Stoccolma, Isaac Bachman, si è sentito chiedere in radio: "Gli ebrei sono responsabili per la crescita dell'antisemitismo?". Omar Mustafa, leader degli islamici svedesi, ha invitato a "bombardare" Israele (per questo si è dovuto dimettere dai Socialdemocratici). Il governo ha finanziato con 104 mila euro un manuale dal titolo "Colonialismo e Apartheid", in cui si accusa Israele di pulizia etnica. Il fondo pensione svedese ha disinvestito dalla compagnia israeliana Elbit, minacciando di far fare la stessa fine a Motorola. Nelle scorse settimane, in Svezia, la "Notte dei Cristalli" del 1938 è stata commemorata senza invitare le vittime di allora: gli ebrei.
   La principale catena di supermercati svedese, Coop, ha eliminato i prodotti israeliani dagli scaffali dei suoi seicento punti vendita (boicottaggio poi ritirato a causa delle proteste). La compagnia aerea Scandinavian Airlines ha sospeso i voli verso Tel Aviv, a causa della "instabilità politica". Un film svedese, dal titolo "I morti non hanno ancora nome", che stabilisce il paragone fra l'Olocausto e la situazione dei palestinesi, è stato incluso nel curriculum scolastico di Göteborg. Le pagine culturali dell'Aftonbladet, il più venduto quotidiano svedese, hanno pubblicato un articolo, senza fonti né prove, in cui si accusa l'esercito israeliano di rubare gli organi ai palestinesi. Dagens Nyheter, il più sofisticato quotidiano svedese, ha pubblicato un editoriale dal titolo "E' permesso odiare gli ebrei", in cui l'autore, lo storico delle religioni Jan Samuelson, spiega che l'odio islamico per lo stato ebraico è giustificato. Il Museo nazionale di Stoccolma ha esposto un'opera "d'arte" con la foto di Hanadi Jaradat, la kamikaze palestinese che ha ucciso 21 israeliani in un ristorante di Haifa.
   Dopo le stragi di Parigi, la Svezia ha chiuso le sinagoghe, simbolo della grande serrata sulla comunità ebraica. Un documentario per la tv racconta che "molti tra i 600 ebrei rimasti a Malmö hanno paura di uscire dalle loro case e vogliono lasciare la città". Settant'anni fa, la Svezia di Raoul Wallenberg era il paese europeo più attivo nel salvataggio degli ebrei. Oggi Stoccolma, in nome della sua virtù umanitarista, getta sugli ebrei uno sguardo carico di odio e malizia.

(Il Foglio, 8 dicembre 2015)


Torneo "Kinder+Sport" con il Roma Club Gerusalemme

16 squadre di bambini fra i 5 e i 14 anni. Dal 13 dicembre.

TEL AVIV - Sedici squadre di bambini dai 5 ai 14 anni: arabi, ebrei, diversamente abili e di colore. E' il Torneo di calcio 'Kinder+Sport' organizzato dal 'Roma Club di Gerusalemme' con il patrocinio dell'Ambasciata d'Italia in Israele che si svolgerà domenica prossima, 13 dicembre, a Tel Aviv. "E' - ha spiegato Samuele Giannetti del 'Roma Club Gerusalemme' - un progetto globale responsabile sviluppato da Ferrero, a promuovere stili di vita attivi, incoraggiando gioco dinamico e sportivo tra i bambini e le loro famiglie, momenti di formazione fondamentali nella crescita di un bambino. E per questo lo abbiamo fatto nostro". "Attraverso la partecipazione allo sport e all'educazione fisica, i giovani - è detto in un comunicato - imparano l'importanza di valori fondamentali come l'onestà, l'amicizia, l'unità, la fiducia e la fiducia negli altri, e Kinder+Sport vuole essere il sostenitore di questi principi in tutto il mondo".

(ANSAmed, 8 dicembre 2015)


Accordo Usa-Iran: le lobby israeliane e saudite passano al contrattacco

di Paolo Mauri

ROMA - Nei mesi scorsi è stata raggiunta l'intesa tra la Repubblica Islamica dell'Iran e le nazioni del "5+1" per l'alleggerimento delle sanzioni economiche e lo sviluppo dell'energia atomica per scopi civili che ha visto il Presidente degli Stati Uniti quale uno degli artefici principali di questo storico accordo.
  Dopo quasi 40 anni di gelo tra Teheran e Washington sembrava inaugurarsi un nuovo corso della diplomazia internazionale a stelle e strisce, con non poche preoccupazioni da parte degli storici alleati degli Usa nell'area: Arabia Saudita e Israele.
  In realtà le monarchie del Golfo e Tel Aviv possono contare su un'arma molto potente per impedire questo processo di disgelo: il Congresso americano.
  I rappresentanti degli Stati che compongono il Senato e la Camera dei Rappresentanti avversano fortemente questo nuovo corso politico del Presidente Obama e non si tratta solo di partigianeria di partito: l'opposizione è bipartisan e vede molti rappresentanti democratici in prima fila in questa battaglia.
  Sostenuti da diverse lobby più o meno formalmente registrate che sono la voce degli interessi sauditi e israeliani, alcuni senatori si stanno facendo alfieri del dissenso contro la politica presidenziale e il primo dicembre scorso hanno presentato al Congresso una risoluzione che recita: "E' prerogativa del Congresso che gli Stati Uniti debbano supportare la decisione di ogni singolo Stato o governo locale che, per questioni morali, prudenziali o di reputazione distolga, o proibisca, dall'investire risorse dello Stato o del governo locale in personalità che sono coinvolte in attività economiche nel settore energetico iraniano finché l'Iran sia soggetto a sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti" ed inoltre esprime la possibilità del Congresso, cosa ancora più importante, di far valere il diritto degli Stati o amministrazioni locali di mantenere sanzioni economiche verso l'Iran stante il fatto che qualsiasi misura presa localmente in tal senso non è sottoposta all'autorità del Governo Federale.
  Ad oggi trenta stati dell'Unione più il Distretto di Columbia, dove ha sede la capitale, hanno imposto le proprie sanzioni all'Iran e undici tra questi hanno messo in vigore leggi e provvedimenti per proibire che lo Stato e le amministrazioni locali aggiudichino appalti a imprese che fanno affari con l'Iran. Una sorta di embargo in miniatura se non fosse che tra gli Stati in questione ci siano nomi di peso come California, New York, Connecticut, Pennsylvania e Rhode Island.
  Possono farlo? Sì.
  La legislazione americana prevede che qualsiasi atto siglato dal Presidente degli Stati Uniti sia solo un "accordo dell'esecutivo" se non viene ratificato dal Congresso che ne decreta il passaggio a legge federale con maggioranza dei due terzi, e sino ad ora l'accordo sul termine delle sanzioni all'Iran e quindi sul nucleare non è ancora stato approvato dalle Camere, né mai lo sarà stante il fatto che è inviso ad una schiacciante maggioranza di rappresentanti sia democratici che repubblicani. Pertanto tale accordo è destinato a decadere se non rinnovato dal prossimo esecutivo, in quanto il Presidente Obama non può essere rieletto essendo al termine del suo secondo mandato (gennaio 2017), mentre i senatori, il cui mandato dura sei anni, possono essere rieletti un numero indefinito di volte.
  Inoltre l'ordinamento statale americano, come abbiamo visto, permette che ciascuno stato membro dell'Unione si comporti un po' come una piccola nazione indipendente dal punto di vista commerciale ed economico, arrivando quindi perfino ad indire proprie sanzioni verso paesi stranieri.
  Di più.
  I paesi stranieri possono fare pressioni su singoli Stati americani per veder accolte le loro istanze che poi saranno portate al Congresso anche in barba alla politica ufficiale del Presidente, come stanno facendo Israele e Arabia Saudita.
  Insomma l'unione americana non è di certo "unitaria", per usare un gioco di parole, del resto non è un caso che si stiano riscoprendo le radici confederate e che il governo centrale faccia di tutto per soffocarle.
  L'Iran quindi, nonostante la vittoria in campo diplomatico, potrebbe ritrovarsi ad avere di nuovo uno scomodo ed influente nemico sulla via che conduce verso l'energia atomica e soprattutto sulla riapertura dei traffici commerciali con l'occidente, così importanti per Teheran come lo sono per l'Europa ed in particolare per l'Italia, che è sempre stata un partner privilegiato della Repubblica Islamica nel campo delle risorse energetiche.

(Il Primato Nazionale, 8 dicembre 2015)


Israele e Thailandia insieme per lo sviluppo idrico

L’esperto israeliano Shlomo Kramer durante il seminario regionale MASHAV-TICA in Thailandia
MASHAV, l'agenzia israeliana per la cooperazione e sviluppo internazionale, ha organizzato un workshop in Thailandia dal titolo "Integrated Approaches for Small Scale Water Resources Management". Il seminario ha avuto luogo presso l'Università di Khon Kaen in collaborazione con TICA, l'agenzia di Cooperazione Internazionale per lo sviluppo della Thailandia.
Il workshop ha visto la partecipazione di 22 professionisti provenienti da Cambogia, Timor Est, Laos, Filippine, Thailandia e Vietnam ed è stato condotto congiuntamente dall'esperto israeliano Shlomo Kramer.
Si tratta della seconda attività israelo-thailandese a seguito dell'accordo di cooperazione tra i due paesi.
Il programma - e focus del seminario - è stato l'importanza della Ricerca e Sviluppo, la gestione delle risorse idriche in agricoltura per lo sviluppo sostenibile, rafforzare la produzione agricola di piccole aziende sia in campo aperto che per la produzione di ortaggi in serra, teoria e pratica della piccola irrigazione e tecniche avanzate per la realizzazione di sistemi di irrigazione.
Presenti alla cerimonia anche l'Ambasciatore di Israele in Thailandia Simon Roded ed il vice capo della missione Yuval Waks. Insieme ai partecipanti si è discusso sulle possibili modalità di attuazione delle conoscenze idriche acquisite.

(SiliconWadi, 8 dicembre 2015)


A scuola di cinismo

Per l'Autorità Palestinese va bene assassinare ebrei, ma bisogna farlo in modo tale da evitare la riprovazione internazionale.

Jibril Rajoub, capo del Consiglio Supremo dell'Autorità Palestinese per i Giovani e lo Sport, non esita ad esprimere totale sostegno al terrorismo palestinese che negli ultimi due mesi ha visto almeno 22 israeliani uccisi a sangue freddo e più di 200 feriti. Ha detto infatti:
"Mi congratulo con tutti coloro che hanno realizzato [gli attentati]. Io vi dico, siamo fieri di voi". (Da: TV ufficiale dell'Autorità Palestinese, 17.10.15).
Tuttavia, ha aggiunto Rajoub, i palestinesi devono fare attenzione a non compiere attentati terroristici suicidi per esempio a Tel Aviv (come avveniva negli anni '90 e nei primi anni duemila), e questo non perché uccidere gli israeliani in quel modo sia sbagliato, ma perché la comunità internazionale rifiuta e condanna quel genere di attentati. Di conseguenza Rajoub raccomanda ai palestinesi di assassinare solo quegli israeliani - "coloni e soldati" - il cui omicidio la comunità internazionale accetta come legittimo perché si trovano "nel momento sbagliato e nel posto sbagliato". In sostanza Rajoub istruisce gli assassini di israeliani su come essere sicuri di uccidere quelli che è conveniente uccidere. Ha detto infatti:...

(israele.net, 8 dicembre 2015)


Israele: l'Europa si svegli

di Emanuela Mattiussi

 
 
GERUSALEMME - Bandiere a mezz'asta in giro per le strade di Gerusalemme, la città vecchia illuminata con il tricolore francese, manifestazioni di solidarietà a Tel Aviv, questo è Israele nelle ultime settimane. Gli israeliani si sentono molto vicini ai francesi in queste giornate cosi difficili, sono addolorati per tutte le vittime innocenti morte a Parigi durante quel terribile venerdì sera ma non sono stupiti.
   "Siamo vicini ai francesi perché capiamo perfettamente cosa stiano passando in questi giorni così bui, sappiamo cosa significhi la sensazione dopo lo shock iniziale, le difficoltà, lo strazio, l'impotenza e la rabbia che porta il terrorismo perché noi il popolo israeliano stiamo vivendo questa sensazione e soffriamo nella stessa maniera dal momento in cui è nato Israele. Abbiamo visto il radicalismo islamico crescere in Europa e il fatto che più ci sorprende è proprio la sorpresa dei leader europei per ciò che è accaduto."
   Sembra un gioco di parole con una nota di cinismo forse, un "ve l'avevamo detto" che non fa piacere sentire ma in cui tutti gli israeliani di destra, sinistra, conservatori e liberali si riconoscono e lo dicono apertamente.
   Il terrorismo è sempre terrorismo non ci sono diverse sfaccettature, diverse interpretazioni, il terrorismo è sempre il male, non è giustificabile in nessun modo. Il razzismo sta dilagando tra i social networks e i giornali, città intere sono state blindate ed è stato dichiarato lo stato di emergenza è questo il futuro che ci aspetta in Europa?
   Il Premier israeliano Benjamin Netanyahu ha più volte espresso la sua vicinanza al popolo francese e alle famiglie delle vittime dando anche istruzioni alle forze di sicurezza e d'intelligence israeliane di assistere in ogni modo possibile lo Stato francese e gli altri Stati europei.
   Ha però anche sottolineato il fatto che "Il terrorismo deve essere sempre condannato e combattuto. Non c'è differenza tra i morti di Parigi, Londra, Madrid, Mumbai, Buenos Aires e Gerusalemme, sono tutte vittime del terrorismo islamico, non la sua causa."
   Gli attentati in Israele continuano a esserci ogni giorno, più volte al giorno sia contro i militari e poliziotti ma soprattutto anche contro i civili, non c'è differenza se siano israeliani, americani o europei, si colpiscono le persone indistintamente solo per il fatto che si trovano in Israele.
   Gli ultimi attacchi a Parigi hanno dimostrato che gli obiettivi possiamo essere tutti noi, non c'è un motivo particolare per cui attaccare un posto o una persona piuttosto che un'altra. I terroristi hanno colpito i quartieri di Parigi in cui vive la gente normale, dove esce la sera e si diverte.
   Non si tratta delle sedi di parlamenti e banche, non è un attacco al potere ma alla gente comune. Parlando con dei ragazzi sono tutti d'accordo nel dire che "è solo l'inizio. È sempre lo stesso terrore e la stessa gente. Ciò che state vivendo voi europei in questi giorni è simile a quello che viviamo noi, ma in miniatura, è un decimo di ciò che accade ogni giorno in Israele."
   Quella che viene chiamata "l'intifada dei coltelli" sta colpendo Israele profondamente e se all'inizio la gente non usciva di casa per paura ora la vita è tornata alla normalità - anche se si potrebbe discutere su cosa si intende qui per normalità - si cammina per le strade, si può entrare nella città vecchia, si prendono gli autobus anche se il livello di tensione non si è abbassato. Chiudersi in casa, non avere contatti umani tra le persone, generare paranoie e insicurezze farebbe il gioco dei terroristi.
   La situazione in Siria e Iraq è fuori controllo ormai da più di un anno e mezzo e mentre l'Europa è immobile, al-Baghdadi e i suoi uomini pronti a tutto per rivendicare la legittimità dello Stato Islamico, sono riusciti a prepararsi, armarsi e attaccare l'Occidente non una ma più volte. L'Europa intera si è trovata impreparata e per paura o incapacità ha lasciato che fino ad ora le cose seguissero il loro corso.
   La risposta di Hollande subito dopo la strage nella capitale francese è stata bombardare Raqqa, la capitale dello Stato Islamico. Hollande ha affermato di voler «colpire duro lo Stato Islamico e di mirare obiettivi che possano fare il massimo dei danni possibili a questo esercito terrorista». Una prova di forza dettata dalla rabbia per ciò che la Francia ha subito ma che come abbiamo visto in Iraq e Afghanistan in passato non porta a nessun risultato positivo nel lungo periodo.
   Per la prima volta qualche settimana fa l'Isis ha minacciato Israele con un videomessaggio in ebraico fluente. "La guerra vera non è ancora iniziata, stiamo arrivando"- per continuare ancora dicendo "ci stiamo avvicinando a voi da Sud e da Nord. Il nostro scopo è di cancellare per sempre i confini tracciati con gli accordi di Sykes-Picot". La minaccia è chiara ma Israele reagisce anche in questo caso in maniera imprevedibile. Secondo l'Institute for National Security Studies israeliano (INSS)
   "Le analisi che sono state fatte fino ad ora riguardo alle minacce contro Israele rivelano che lo Stato Islamico, al momento lontano dai confini israeliani e con capacità militari ridotte, non rappresenta una diretta minaccia strategica contro lo Stato ebraico. Al contrario Hezbollah, armato di capacità operative avanzate, di missili a lungo raggio e razzi che possono raggiungere tutto lo Stato israeliano, potrebbe rafforzarsi grazie all'intervento russo nell'area."
   La paura israeliana è infatti che la Russia rafforzi la collaborazione militare e strategica con le cosiddette forze dell'asse scita: Iran, Siria ed Hezbollah. L'INSS afferma che "la vera preoccupazione di Israele è quella di una lotta per il potere regionale, in cui l'Iran abbia più influenza di Israele grazie al supporto della Russia al governo di Assad in Siria e agli hezbollah sul confine settentrionale di Israele."
   Israele rimarca l'importanza della sicurezza, un tema onnipresente nei discorsi ufficiali israeliani, che ha spesso dato adito a molte critiche in Europa e che viene spesso banalizzata dai giornalisti e politici europei con termini come psicosi-israeliana o sindrome di persecuzione ebraica.
   Ma vivere costantemente nella paura di un attacco, di un attentato, sotto la minaccia del terrorismo ha portato Israele a sviluppare forse il più efficiente sistema d'intelligence e sicurezza al mondo. Investire nella difesa, prevenire e non subire.
   Una signora mentre le faccio qualche domanda mi guarda sconsolata e mi dice: "È triste vedere come la leadership in Europa non comprenda ciò che sta succedendo. Non avete nessuna conoscenza dell'Islam e non avete idea di cosa significhi radicalizzazione."
   C'è un'enorme differenza culturale che non può essere colmata se non con un processo lento e controllato. "Come si è visto a Parigi la maggior parte dei terroristi erano cittadini europei, residenti e cresciuti in Europa. Ciò che manca è quindi proprio l'integrazione di queste persone nel Paese in cui risiedono e l'Europa deve fare i conti con questo problema sociale e culturale".
   Ciò che è accaduto a Parigi ha scosso l'Europa intera, una tragedia che ha avvicinato gli Stati nella lotta contro il terrorismo. Una battaglia che è iniziata molti anni fa ma che forse non è stata combattuta nella maniera più adeguata. Perciò, come dicono tutti qui, "Wake up Europe"!

(Analisi Difesa, 8 dicembre 2015)


Hamas rifiuta di cedere il controllo del valico di Rafah all'Autorità palestinese

GERUSALEMME - Hamas ha respinto le richieste dell'Autorità palestinese (Anp) di cedere il controllo del lato di Gaza del valico di Rafah, lungo il confine con l'Egitto. Lo riferisce il quotidiano "Jerusalem Post". La dichiarazione è arrivata in risposta a una campagna partita sui social media, che esorta Hamas a cedere il controllo del valico di frontiera, chiuso per la maggior parte dell'anno. La scorsa settimana, le autorità egiziane hanno riaperto il passaggio per 48 ore, consentendo ai palestinesi di viaggiare in entrambe le direzioni, prima di chiuderlo di nuovo sabato. Dall'inizio di quest'anno, il valico è rimasto aperto per soli 21 giorni. Salah Bardaweel, alto funzionario di Hamas, ha detto che il suo movimento non ha alcuna intenzione di consegnare il valico nelle "sporche mani di coloro che hanno tradito il popolo palestinese". Bardaweel ha aggiunto che il passaggio deve essere gestito in base agli accordi di riconciliazione precedenti tra Fatah e Hamas.

(Agenzia Nova, 7 dicembre 2015)


Ma le "sporche mani di coloro che hanno tradito il popolo palestinese" non sono quelle del legittimo governo dello “Stato di Palestina” prossimo venturo? Che razza di stato”è quello che molte nazioni hanno già riconosciuto ed altre sono ansiose di riconoscere? M.C.


La storia tragica di Bennetta Betbadal, la cristiana fuggita dall'Iran e uccisa a San Bernardino

Nel 1987 la donna aveva abbandonato l'Iran khomeinista per trovare rifugio in America dall'estremismo islamico. I jihadisti l'hanno uccisa negli Stati Uniti.

di Gabriele Carrer

 
Bennetta Betbadal con la sua famiglia
In fuga dall'estremismo islamico da trent'anni, Bennetta Betbadal ha trovato la morte nella strage jihadista di mercoledì scorso a San Bernardino, in California. La quarantaseienne cristiana assira, una delle quattordici vittime della coppia di terroristi islamici, era scappata dall'Iran khomeinista nel 1987 all'età di diciott'anni e viveva con la famiglia a Rialto. "Scappava dall'estremismo islamico e dalle persecuzioni ai danni dei cristiani che seguirono alla rivoluzione iraniana", hanno ricordato i famigliari di Bennetta. Una vita in fuga dall'islam radicale, prima a New York, poi in California, dove si è sposata nel 1997 con Arlen, agente di polizia al Riverside Community College. Cristiana cattolica devota, l'ispettrice del dipartimento della Salute della contea lascia il marito, una figlia di quindici anni e due figli di dieci e dodici anni.
  La coppia si era scambiata qualche messaggio al mattino presto di quel drammatico mercoledì californiano. Lui impegnato nello shopping natalizio, lei entusiasta per la presentazione che avrebbe dovuto tenere ai colleghi e ai superiori durante la riunione annuale del centro. A squarciare la giornata la strage jihadista. In un'intervista rilasciata ai media locali, il marito ha parlato di "malvagità senza alcuna ragionevolezza", piangendo la morte della moglie. Una vita portata via dallo stesso fondamentalismo dal quale Bennetta era scappata da ragazza, superando l'Atlantico per dare il suo contributo alla realizzazione il suo sogno americano. "Era fiera di lavorare per la gente della contea di San Bernardino", ha affermato la famiglia. "Amava il suo lavoro, la sua comunità, il suo paese". Il marito, anch'egli di religione cristiana, ha ricordato il "bellissimo albero di Natale" che Bennetta aveva decorato per la famiglia, il suo vero grande amore.
  Nella pagina per la raccolta fondi si legge un'amara dichiarazione: "È il colmo dell'ironia che la sua vita sia stata strappata via da quello che sembra essere lo stesso tipo di estremismo da cui lei era fuggita tanti anni fa". La storia di Bennetta è la storia della persecuzione, del genocidio perpetrato contro i cristiani, contro gli infedeli, in medio oriente e in Africa. Lì dove essere cristiani è peccato, l'infamia più grande, il marchio della schiavitù, una condanna a morte. Le violenze sistematiche in Siria, in Iraq, in Sudan, in Nigeria, in Eritrea, in Arabia Saudita e in Iran altro non sono che l'altra faccia della medaglia della guerra di terrore e religione combattuta in nome dello Stato islamico. La cultura dell'odio e del disprezzo del diverso viaggia sui treni tra Belgio e Francia, sui voli che collegano i focolai dell'estremismo islamico alle nostre città, a volte negli stessi vagoni dei perseguitati che sono riusciti a sfuggire allo sterminio. Bennetta scappava dal regime degli ayatollah iraniani. Ha trovato rifugio e sicurezza, una vita e una famiglia in occidente. Quello stesso cancro dell'umanità da cui fuggiva l'ha ritrovata, e se l'è portata via con sé.

(Il Foglio, 7 dicembre 2015)


Celebrazione del 19 di Kislev a Milano

MILANO - In occasione del Capodanno della Chassidut, che ricorda la liberazione di Rav Shneur Zalman dalla prigionia zarista, nella sala dell'Hotel Quark di Milano si sono riuniti circa 300 ebrei milanesi per celebrare tale ricorrenza.
Presenti tra gli ospiti d'onore il rabbino capo di Milano, Rav Alfonso Arbib, che ha concluso lo studio delle opere di Maimonide, e Rav Yosef Y. Pevzner, emissario del Rebbe di Lubavitch, nonché Direttore delle Istituzioni Educative "Sinai" di Parigi.
Proprio quest'ultimo, ha ricordato che, nonostante i precedenti attcchi terrositici perpetrati nella capitale francese, Chabad continua regolarmente le proprie attività, focalizzandosi soprattutto sulla festività corrente di Hannukkà, e sul porre le Hannukkiot in luoghi pubblici.
Altro illustre ospite della serata è stato Rav Levi Volvowsky, anch'egli emmissario del Rebbe, venuto da Firenze. Presa la parola, Rav Volvowsky ha narrato di alcuni suoi episodi di vita spirituali e non, riscuotendo grande consenso tra il pubblico, che, ascoltandolo, ha avuto modo di apprendere quante più preziose nozioni possibili.
Il moderatore della serata, organizzata dal Bet Chabad di Milano diretto da Rav Moshe Shaikevitz, è stato Rav Miki Nazrolay.
Yuli Edelshtein, presidente della Knesset, il parlamento israeliano, ha inviato un messaggio video personale che è stato mostrato all'evento.

(Chabad.Italia, 7 dicembre 2015)


Verona - In piazza Erbe il rito ebraico della Chanukkah: "Un messaggio di luce e di pace"

Si è svolta nella giornata di ieri domenica 6 dicembre la celebrazione della festività ebraica che ricorda la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme dopo la vittoria dei Maccabei sugli assiro-ellenici e la liberazione dagli "idoli" del Paganesimo.

Si è svolta nella giornata di ieri domenica 6 dicembre la celebrazione di un evento assai rilevante per quanto riguarda la storia della comunità ebraica. In piazza Erbe è stata infatti accesa la luce della Chanukkah, parola che letteralmente significa "inaugurazione" e che rinvia alla vittoria dei Maccabei sugli assiro-ellenici, dopo che liberarono il Tempio di Gerusalemme dagli "idoli" del paganesimo.
   Si tratta di una ricorrenza importante che dura per otto giorni, gli stessi che occorsero oltre 2100 anni fa perché si consumasse l'ampolla di olio che mantenne accesa la luce all'interno del Tempio per la sua riconsacrazione. Durante la cerimonia di ieri, così come riferito dall'Arena, erano presenti tra gli altri anche il sindao Flavio Tosi, in compagnia della senatrice di "Fare!" Patrizia Bisinella, il rappresentante del prefetto Alessandro Tortorella, il rabbino capo Yosef Yitzchak Labi, il capo della comunità ebraica di Verona Pietro Carmi e anche Roberto Israel per i "Figli della Shoah", oltre a una cospicua componente della stessa comunità ebraica locale.
   Il sindaco Tosi è intervenuto con queste parole, riportate dall'Arena, durante la cerimonia: "In questa piazza si rivolge un segno di pace a tutti, una volontà di collaborazione nel segno della democrazia ". Anche il capo della comunità ebraica locale Pietro Carmi ha voluto sottolineare il messaggio di pace che tale manifestazione comporta: "Il messaggio di luce e di pace trasmesso da Chanukkah rappresenta il trionfo della libertà d'espressione e della libertà religiosa. Un crescere di luce nella nostra vita e nella società. La diversità è un bene prezioso che vogliamo tutelare nel rispetto reciproco e in quello totale delle persone e della natura".

(Verona Sera, 7 dicembre 2015)


Oltremare - Chi se ne va

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Dopo quasi otto anni in Israele, anche io comincio a contare chi c'è e chi se ne va, come qualunque locale. E non parlo degli Olim tira-e-molla, quelli che non sai mai se questo mese sono qui, o sono di nuovo ritornati per la trecentesima volta nel paese d'origine: di quelli ce ne sono sempre, e non fanno parte integrale della vita israeliana. Incapaci o impossibilitati a prendere una decisione definitiva, se non sanno rispondere con certezza alla domanda fondamentale: "sì, ma dov'è il tuo cuscino, e il tuo pigiama preferito?", meglio tornare a parlare del tempo o di politica.
No, quelli che se ne vanno sono una generazione, che conta nomi come Arik Einstein, Moti Kirschembaum e Yossi Sarid. Non potrebbero essere persone più diverse, ma sono accomunati dal peso che hanno avuto tutti e tre sulla cultura e società israeliana. Di Arik ho scritto su queste pagine due anni fa, quando è mancato improvvisamente e al saluto del popolo telavivese in Kikar Rabin è arrivato perfino il Primo Ministro, per dare un'idea di quanto un cantante e attore in Israele possa unire tutti gli strati della società.
Kirschembaum era un giornalista eccellente, anche lui cresciuto fra l'avanspettacolo e la radio, e anche lui onnipresente nella cultura israeliana, di recente con un programma in preserata in cui si prendeva libertà giornalistiche, intervistando personalità ed emeriti ignoti, forte di un senso dell'umorismo e di uno spessore culturale indiscusso. Anche lui se ne è andato all'improvviso, lasciando il pubblico interdetto e il palinsesto orbo.
Yossi Sarid, dopo oltre trent'anni alla Knesset, politico tutto d'un pezzo del Meretz, era adesso una firma altrettanto tutta d'un pezzo di Haaretz. Era così corretto e fine nella scrittura, da essere apprezzato anche da acerrimi nemici politici. Come gli altri due, era un pezzo di cultura israeliana, nel suo caso di una parte politica molto definita, ma come Arik e Moti, rappresentava una correttezza nel mestiere di uomo di parole, che mancherà, anche al di là della politica.


(moked, 7 dicembre 2015)


Il parroco anti-islam: «Imam in chiesa? Mai»


Il torinese don Babuin ha detto no al corteo antiterrorismo: «Era ambiguo. Bisogna dirlo, il loro Dio non è come il nostro» «II Corano parla di pace? Sarà, ma è lo stesso testo letto dai fondamentalisti».

di Nadia Muratore

TORINO - «Gli imam in chiesa non li voglio. E poi chi mi garantisce che non siano degli estremisti? lo la mano sul fuoco non ce la metterei per nessuno di loro». Parole scandite in maniera chiara, quelle pronunciate da don Michele Babuin, il nuovo parroco della chiesa Nostra Signora della Pace di Torino. Parole destinate a suscitare scalpore, pronunciate per spiegare la sua assenza al corteo contro il terrorismo, organizzato alcune sere fa a Barriera di Milano. Nonostante fosse stato invitato, lui dietro lo striscione con la scritta #notinmyname non c'era e non c'erano neppure altri parroci, che si sono però giustificati spiegando che all'ora in cui si svolgeva la manifestazione dovevano dir messa. Don Babuin, fronte spaziosa e capelli brizzolati, è stato invece molto più diretto, dicendo semplicemente quello che pensa: «Ovviamente sono a favore di qualsiasi iniziativa contro la guerra o il terrorismo - precisa don Babuin con un accento che tradisce le sue origini venete - ma non ho condiviso il modo in cui il corteo è stato organizzato, così ho preferito non partecipare. Comunque non capisco perché noi cattolici dobbiamo far entrare i musulmani in chiesa, quando loro non fanno lo stesso nelle loro moschee».
   Il responsabile della più grande parrocchia del quartiere torinese fin da subito aveva mostrato la sua perplessità sulla manifestazione, dichiarando che non avrebbe partecipato.
   Perché se «tutti noi aderiamo ai messaggi di pace - ha precisato deciso - è necessario anche essere chiari: abbiamo un dio diverso». La presa di posizione del sacerdote ha suscitato non poche polemiche, in un quartiere dove la percentuale di stranieri è molto alta ma lui non indietreggia di un millimetro e anzi spiegare meglio la sua posizione: «Non ho mai detto di non accettare il confronto con la comunità musulmana ma non ho bisogno di una bandiera per farlo. Aiutiamo 300 famiglie di origine straniera, quasi tutte di religione islamica, però quella manifestazione era ambigua. Il Corano recita la pace ma è lo stesso testo che leggono i fondamentalisti che perseguitano gli infedeli».
   Certo, don Babuin è dispiaciuto per l'immagine della parrocchia della Pace. «Qui - ribadisce - non abbiamo mai chiuso la porta a nessuno, l'oratorio è aperto a tutti, chiedo solo un po' di rispetto quando diciamo la preghiera. Chi non vuole farla, sta in silenzio. lo sono per la pace e per il dialogo con tutte le fedi ma resto convinto che per organizzare manifestazioni simili ci voglia più prudenza. Ci sono varie correnti nell'Islam, gli imam sono esponenti del mondo della cultura e della politica. Chi ci dice che non siano estremisti?». E a chi lo accusa di esagerare, don Babuin risponde senza esitazione: «Non credo, ma comunque la mano sul fuoco per loro non ce la metto. Un ragazzino musulmano che ha tirato un calcio a una ragazza mi ha detto: tanto è femmina. È un atteggiamento dal quale si possono capire molte cose». Certo non sarà facile far digerire una simile presa di posizione a Papa Francesco, che ha pregato con i rappresentanti delle comunità islamiche. «È vero - conclude don Babuin - ma l'ha fatto fuori dalla Chiesa. C'è poco da fare, le due religioni sono diverse, crediamo in dio diversi. Il nostro si è fatto carne e ha accolto i peccatori, il loro no. Il nostro è più samaritano».

(il Giornale, 7 dicembre 2015)


Palermo - Inizia la festività ebraica: il sindaco Orlando accende le luci

Il primo cittadino ha partecipato alla tradizionale ricorrenza ebraica del Channukkah (detta più comunemente la Festa dei Lumi) all'interno del complesso monumentale del Rettorato a Palazzo Chiaramonte Steri.

Orlando accende una candela durante la cerimania di Chanukkah
Il sindaco Leoluca Orlando ha partecipato al tramonto di ieri, all'interno del complesso monumentale del Rettorato a Palazzo Chiaramonte Steri, alla tradizionale ricorrenza ebraica del Channukkah (o Hannukkah, Channukà, la Festa dei Lumi). La festa dura otto giorni ed inizia al tramonto del ventiquattresimo giorno ebraico di Kislev, che quest'anno cadeva appunto il 6 dicembre.
Il Sindaco è stato invitato ad accendere la prima delle 8 candele che saranno accese nei giorni della festa. "Per me è importante essere qui e rappresentare alla comunità ebraica la partecipazione della città a questo momento di festa - ha detto Orlando - anche perché proprio a Palermo, nel 1998 questa festa fu celebrata per la prima volta dopo la cacciata degli ebrei dalla Sicilia con una toccante cerimonia svolta a Palazzo delle Aquile."

(Palermo Today, 7 dicembre 2015)


Nirenstein: "Occidente stretto tra Califfo e Ayatollah"

Intervista a Fiamma Nirenstein

di Roberto Santoro

Se compito degli intellettuali è dire la verità, Fiamma Nirenstein lo realizza da anni con determinazione, coraggio e autonomia. Ha raccontato la complessa quest dello Stato ebraico, denunciato il risorgere dell'antisemitismo in Occidente e anticipato come la minaccia del terrorismo islamico riguarda non solo Israele ma tutti noi. Con lei parliamo del suo ultimo libro, Il Califfo e l'Ayatollah (Mondadori 2015), ma anche dei tanti altri aspetti di un intenso percorso di ricerca.

- Nirenstein, c'è un filo rosso tra i suoi libri?
  
La denuncia del nuovo antisemitismo, la lotta contro la israelofobia. In tutti i miei libri c'è la demistificazione di questa "critica" irrazionale e piena di pregiudizi che viene riservata a Israele e che produce un nuovo odio verso gli ebrei. E' stata la scoperta più grande che ho fatto nella mia vita e ho cercato di rivelarla al pubblico italiano.

- Un esempio?
  Ho raccontato Gerusalemme (A Gerusalemme, Rizzoli 2012), cuore pulsante della vita e della storia dello Stato ebraico, spiegando come contro questa città si eserciti da tempo una forma di negazionismo identica a quello sulla Shoah. Se non più grave, perché il nuovo negazionismo vuole togliere agli israeliani ciò che è stato concesso a tutti gli altri popoli, l'autodeterminazione, il diritto ad avere una patria.

- Del tradimento dei diritti umani parla in uno dei capitoli di "Il Califfo e l'Ayatollah"...
  
Non basterebbe una biblioteca intera per spiegare in che modo sia stata rovesciata l'idea dei diritti umani, una delle cose più disgraziate avvenute nel corso della nostra epoca. Abbiamo assistito al completo sovvertimento dei principi che dopo la Seconda Guerra mondiale avevano ispirato la nascita delle Nazioni Unite per evitare che si ripetessero cose spaventose come la Shoah o il risorgere del nazismo. Quei diritti si sono trasformati nell'affermazione del terzomondismo nei confronti dell'Occidente, nella legittimazione del razzismo, dell'omofobia, della sottomissione della donna. Oggi il nuovo negazionismo ci spinge a relativizzare anche il terrorismo, chi dissente viene accusato di islamofobia. Mi sembra una lettura dei diritti umani completamente sballata.

- I media hanno impiegato quasi 48 ore per dirci con chiarezza che i killer di San Bernardino erano due jihadisti
  
La coppia cercava sponde nella rete terroristica internazionale e aveva una casa piena di armi. Non capisco perché si sia aspettato tanto per dire come stanno le cose.

- Califfo e ayatollah, doppio imperialismo?
  In questa fase della storia islamica siamo davanti a due volontà parallele di dominare il mondo, due imperialismi che si scontrano tra loro ottenendo ognuno degli importanti successi. ISIS ha occupato una parte della Siria e dell'Iraq estendendosi anche altrove. Teheran controlla quattro capitali del mondo musulmano, una cosa impressionante a cui non viene data nessuna importanza.

- Perché l'Iran rappresenta una minaccia?
  
Nei giorni scorsi l'Agenzia internazionale per l'energia atomica ha accertato che nel 2003 l'Iran conduceva attività di ricerca e sviluppo sulle armi nucleari, un fatto che Teheran ha sempre negato, dicendo di aver interrotto il suo programma. Invece quei piani andavano avanti. Ora che abbiamo scoperto le bugie del passato perché non parlare di quelle del presente? E' realistico pensare a uno sviluppo militare del nucleare iraniano considerando le premesse storiche, ideologiche e pratiche del khomeinismo.

- Il flusso dell'immigrazione incontrollata dal Medio Oriente potrebbe frenare se l'Iran sedesse al tavolo dei vincitori?
  Non mi sembra, perché chi scappa dalla Siria non fugge solo da ISIS. Certo il Califfato fa paura ma è grande anche il timore per quello che potrebbe arrivare dopo. Hezbollah è presente in forze in Siria, la Russia protegge Assad e su tutto questo si stende l'ala dell'Iran sciita. In realtà i sunniti non vedono l'ora di abbandonare una porzione di territorio che rischia di essere occupata dallo sciismo più aggressivo. L'immigrazione incontrollata è generata sia dalla paura della Sunna che della Shia.

- Quale lezione trarre dal suo libro?
  
Credo di aver rotto con l'impostazione unilaterale oggi prevalente quando si parla di Medio Oriente, mostrando invece il rischio binario degli opposti fondamentalismi. Bisogna fare più attenzione, non si può dimenticare il ruolo che sta svolgendo Teheran nell'area. Sottovalutare l'Iran è un errore dal punto di vista dell'affermazione dei diritti umani.

- Chi sono gli alleati dell'Occidente in questa guerra?
  Nel libro ho provato a delineare alcune possibilità, credo con tratto realistico, guardando ai fatti, agli interessi comuni tra Paesi diversi. Ricordo per esempio la conferenza che si è svolta a Washington il 4 giugno scorso, l'incontro tra il professor Dore Gold, direttore generale del ministero degli esteri israeliano, e Anwar Eshky, già top adviser del governo saudita. Israele e gli Emirati Arabi hanno aperto un ufficio comune sullo sviluppo delle energie rinnovabili ad Abu Dhabi. Sono tutti segnali importanti.

- Matrimoni d'interesse?
  Possono esserci interessi comuni tra Paesi occidentali, Israele e l'Egitto, e subito dopo con l'Arabia Saudita. Sconfiggere il terrorismo, battere l'ISIS e contenere l'Iran. Smettiamola di negare il terrorismo e non addossiamoci anche questa responsabilità come occidentali: il terrorismo è uno strumento di dominazione del mondo che viene usato da una parte non secondaria dell'Islam. Proprio per questo motivo a reagire devono essere innanzitutto i musulmani e ritengo che ci sia un gran numero di persone di fede islamica che abbiano un interesse nel vedere sconfitto il terrorismo. Vedrà, la strada è questa.

(l'Occidentale, 6 dicembre 2015)


Incontro Barelli-Netanyahu a Gerusalemme

 
Paolo Barelli con Benjamin Netanyahu
Il presidente della Ligue Europeenne de Natation e della Federnuoto Paolo Barelli ha incontrato a Gerusalemme, presso il relativo ufficio, il Primo Ministro dello Stato di Israele Benjamin Netanyahu nell'ambito della 18esima edizione dei campionati europei di nuoto in vasca corta, in svolgimento a Netanya. Presente anche il presidente della federazione israeliana di nuoto Shay Schachner.
Netanyahu ha ringraziato il presidente Barelli per l'assegnazione della manifestazione internazionale definita "il più importante evento sportivo mai ospitato da Israele" ed ha esortato la LEN ad attribuire in futuro "ulteriori competizioni di pari prestigio", esprimendo "soddisfazione" nell'aprendere che proprio Israele organizzerà tra due anni i campionati europei giovanili di nuoto al Wingate Institute.
Netanyahu ha poi confidato a Barelli di "amare il nuoto" e di praticarlo abitualmente presso una piscina lunga 10 metri "finanche nuotando un chilometro al giorno". Poi ha affrontato il momento politico internazionale, sottolineando di "ritenere l'Italia - che ha visitato poche settimane fa - un paese amico e di sentirla molto vicina".

(Federnuoto.it, 6 dicembre 2015)

*

L'analisi di Swimbiz sull'Europeo di nuoto in terra d'Israele

Editoriale del direttore del portale Swimbiz.it che commenta lo stato sportivo, marketing e politico del nuoto tricolore alla luce dei successi raggiunti in quest'ultimo Europeo di nuoto in vasca corta in terra di Israele.

di Christian Zicche

Apriamo con la statistica questa sera. Inevitabile sul finale dell'ennesimo grande europeo. Su due fronti, perché l'europeo acquatico israeliano di Netanya parla italiano dentro e fuori la vasca. Parla coi numeri, 17 medaglie conquistate che non è record, ma di record ne abbiamo siglato uno spaziale, mondiale, con Gregorio Paltrinieri. Ci siamo ripresi un trono di velocità da gara regina con Marco Orsi, abbiamo gioito di una spettacolare Federica Pellegrini. Partiamo dai numeri dell'ultimo biennio, in lunga e corta, sfumature acquatiche che portano abbondantemente al di là della quota cinquanta: a Berlino furono 23 medaglie, a Doha 6, a Kazan 14 e oggi un diciassette che va visto come chiusura paniere, escluso l'anno olimpico prossimo ma che ha la spinta propulsiva dei numeri. Sul fronte della gestione italiana ed europea voto dieci al Presidente Paolo Barelli che le riunisce entrambe e che vede lungo tra le pieghe dei risultati. Una sfumatura importante la sua, una scommessa vincente per la gestione del marketing del mondo del nuoto, che è ovviamente nella concretezza dei risultati, operativa e politica. I risultati sui due fronti sono il frutto di un lavoro congiunto, anche in termini di sponsorship che avvicina il movimento italiano a quello continentale, basti pensare per esempio la vasca di Netanya con il brand Unipol ai blocchi di partenza. Forse mai come oggi la dimensione acquatica del nuoto ha stabilito un'identità valoriale che raggiunge picchi di seguito in parallelo alla crescita delle star acquatiche. E se il colloquio odierno di Barelli con il premier Netanyahu ha avuto più di un valore simbolico, oltre il cerimoniale ha certamente valore operativo e di ringraziamento per il passo europeo nella gestione della Len. Sul "fronte" interno il passo acquatico del sistema Italia è certamente un turbo inserito per i Coni e il Presidente Giovanni Malagò e i rapporti internazionali che porteranno alla grande scommessa di Roma Olimpica nel 2024.

(Swimbiz.it, 6 dicembre 2015)


Netanyahu a Kerry: Israele non sarà uno stato binazionale

"Israele non sarà uno stato binazionale". Così il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha riposto al segretario di stato Usa John Kerry che ieri ha ammonito su questo rischio se non si raggiunge la pace e se Israele permette il collasso dell'Autorità palestinese.
"Per ottenere la pace - ha avvisato Netanyahu - anche l'altra parte deve volerla. Sfortunatamente non è quello che vediamo".
Netanyahu - che ha parlato in apertura di riunione di governo a Gerusalemme - ha evidenziato a questo proposito che "l'istigazione da parte dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) continua, visto che il negoziatore capo palestinese visita la famiglia di un terrorista che ha cercato di uccidere ebrei. Non solo non ha condannato ma anche offerto le sue condoglianze".
Netanyahu si è riferito alla visita che Saeb Erekat, segretario generale dell'Olp, ha compiuto a casa di un ufficiale dell'intelligence accusato di aver ferito un civile e un soldato israeliani in un attacco a colpi di arma di fuoco giovedì scorso.

(swissinfo.ch, 6 dicembre 2015)


Netanyahu attacca la Svezia: "Scandalose le critiche a Israele"

GERUSALEMME - Salgono i toni nella polemica tra Israele e Svezia, dopo che il ministro degli Esteri di Stoccolma, Margot Wallstrom, aveva definito "esecuzioni extra-giudiziali" le uccisioni di palestinesi che tentano di attaccare cittadini israeliani. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha parlato di dichiarazioni "scandalose". "Sembra", ha dichiarato in una riunione di governo, "che si aspetti che i cittadini di Israele offrano le loro gole a quanti tentano di accoltellarli ma questo non accadra' e continueremo a proteggere le vite dei nostri cittadini".
La riunione del governo dovrebbe decidere "una dura risposta" alle parole della Wallstrom che potrebbe tradursi nell'esclusione della Svezia dagli sforzi diplomatici per trovare una soluzione al conflitto tra Israele e palestinesi.

(AGI, 6 dicembre 2015)


Livorno - Dura lettera di Mosseri a Nogarin: frattura con la Comunità ebraica

Il presidente della Comunità ebraica ha scritto al sindaco chiedendo "rispetto" ed "equilibrio" dopo alcune parole dette in consiglio comunale da un consigliere e l'organizzazione della Giornata per la Palestina.

Il sindaco Filippo Nogarin e il presidente Vittorio Mosseri
LIVORNO - "Rispetto", "equidistanza" ed "equilibrio". A chiederli è la Comunità ebraica di Livorno, in una lettera inviata dal presidente Vittorio Mosseri al sindaco Cinquestelle Filippo Nogarin. Come si legge sul portale dell'ebraismo italiano (Moked), nella lettera si fa riferimento "ad alcuni episodi delle scorse settimane tra cui un delirante intervento del consigliere comunale Marco Valiani, che ha parlato in pubblico di "giudeomassoneria italica" senza ottenere né censure né condanne da parte del primo cittadino". Accanto a questo "l'organizzazione di una Giornata per la Palestina (in un primo tempo prevista nella sala più prestigiosa del Comune) segnata da prese di posizione apertamente anti-israeliane". "Non è la prima volta - si legge su Moked - che si registrano forti tensioni tra Nogarin e la Comunità ebraica. I rapporti si erano fatti particolarmente tesi nell'estate del 2014, dopo l'affissione di uno striscione con scritto "Fermare il genocidio a Gaza. Israele vero terrorista" su un palazzo di proprietà comunale". "Adesso il rischio concreto, senza inversione di tendenza - conclude la nota - è di una clamorosa rottura".
"Sono molto amareggiato, volevo che la questione restasse tra la Comunità e il sindaco", ha detto Vittorio Mosseri contattato dal Tirreno: "Se avessi voluto scrivere ai giornali, lo avrei fatto, come accadde un anno e mezzo fa, quando ci fu la storia dello striscione appeso durante Effetto Venezia. Nella lettera faccio riferimento a quello che è accaduto lunedì, durante la Giornata per la Palestina organizzata a Livorno, che ho trovato squilibrata: doveva esserci un chiarimento tra noi e il sindaco. Ma non voglio aggiungere altro: sono molto dispiaciuto per quello che sta accadendo, non ho intenzione di creare alcuna tensione, i momenti sono già molto difficili". Di seguito la lettera che sta circolando in città.

Pregiatissimo sig. Sindaco
a che gioco giochiamo? I suoi concittadini ebrei meritano maggiore rispetto ed equilibrio nelle iniziative che il Comune da Lei gestito inserisce nella sua agenda e non solo. Solo per una questione temporale innanzitutto vorrei chiederLe ragione di un suo mancato chiarimento sulla posizione espressa dal consigliere comunale Valiani in merito alla questione Fasulo. E' forse proibito, e da chi, partecipare ad una iniziativa pubblica della massoneria? Nel commentare la partecipazione di Fasulo alla riunione del Grande Oriente di Livorno il consigliere Valiani ha utilizzato slogan nazifascisti del tipo "giudeomassoneria italica", che richiama il "complotto demoplutogiudaico massonico" tesi tanto cara durante il ventennio fascista. Da parte Sua non una presa di distanza, non un chiarimento. Ha pensato ai suoi concittadini ebrei, ha pensato a quali fantasmi potessero evocare in loro, li ha difesi come sarebbe stato giusto? Dove si nascondono gli antifascisti a cui dovrebbe ribollire il sangue solo a sentire certe cose?
   E veniamo adesso ad una faccenda molto più attuale: "Giornata per la Palestina" di lunedì 30 novembre. Ospitata, in un primo tempo, nella sala più prestigiosa del comune, e preceduta nella mattinata da una iniziativa che ha visto gli stessi relatori confrontarsi con gli studenti delle scuole superiori. Penso Lei sappia che i promotori sono gli stessi che, recentemente hanno organizzato un'altra iniziativa del genere, sempre sotto la Vostra egida, dove le cose più gentili, riferite a Israele, erano che praticava la pulizia etnica, l'apartheid, il genocidio dei palestinesi, e tante altre amenità del genere.
   La partecipazione di un rabbino, già noto per aver aderito ad iniziative del genere in Europa, e per i suoi interventi in sintonia con quanto sopra esposto non rappresenta certo per noi alcuna garanzia di rispetto della verità.
   È questa l'equidistanza tra le posizioni che un'amministrazione comunale dovrebbe tenere su temi così attuali e scottanti come la questione israelo-palestinese?
   Ancora non abbiamo dimenticato il Vostro atteggiamento quando lo scorso anno a Effetto Venezia non avete fatto rimuovere lo striscione della vergogna, cercando una mediazione con persone in malafede che nascondendosi dietro slogan antisraeliani, diffondevano l'odio antisemita. In questa situazione di tensione globale, di guerra mondiale a pezzi e di terrorismo dilagante, sarebbe necessario che chi è più in vista, e Lei certamente lo è, non assumesse posizioni di parte ma che desse a tutte le parti in causa stesse occasioni di fare conoscere non solo la propria verità, bensì anche l'effettiva realtà delle cose mediante una vera imparzialità.
   Quello che noi ci aspettiamo da Lei è una chiara inequivocabile presa di posizione contro quanto affermato dal consigliere Valiani, cosi come in merito alla iniziativa Giornata Palestina ci aspettiamo che anche alla controparte siano date la stesse opportunità e possibilità di visibilità. In caso contrario, e cioè se Lei e la Sua Amministrazione continuerete a sostenere e propendere per una sola parte ritengo che non ci sia più spazio di dialogo e di collaborazione. Neanche per la prossima commemorazione del Rabbino Toaff nell'anniversario della sua scomparsa".
Il Presidente
Vittorio Mosseri

(Il Tirreno - Livorno, 6 dicembre 2015)


Le bombe di Teheran

L'Iran espande il suo ruolo in Siria e l'alleanza con la Russia. Obama è pronto a togliere le sanzioni.

di Eugenio Cau

 
ROMA - La coalizione militare a guida americana intensifica le operazioni contro lo Stato islamico in Iraq e soprattutto in Siria, con l'ingresso immediato del Regno Unito, a poche ore dal voto favorevole in Parlamento, nella campagna di bombardamenti, e l'invio da parte degli Stati Uniti di nuovi elementi delle truppe speciali. Ma al tempo stesso anche l'Iran, membro principale della coalizione sciita a guida russa che compie una campagna parallela in territorio siriano, sta considerando la possibilità di usare la propria aviazione in Siria, oltre a costutire la principale forza di terra a sostegno del rais Bashar el Assad. Alcuni jet iraniani F-14 Tomcat sono già entrati nello spazio aereo siriano alla fine di novembre, ma solo per scortare i bombardieri russi durante le loro missioni. Secondo report non confermati dai diretti interessati e riportati dal giornale del Kuwait Al Rai e da altri media mediorientali, Teheran si prepara a dislocare nella base siriana di Tiyas, a est di Homs, due squadroni di Sukhoi di fabbricazione russa per compiere missioni in coordinazione con l'aviazione di Mosca. Attraverso le milizie di Hezbollah, organizzazione terroristica e proxy libanese del regime degli ayatollah, e gli squadroni di Guardie rivoluzionarie presenti nel paese, l'Iran è il principale sostenitore "on the ground" del regime siriano, ma l'inizio di una campagna di bombardamenti aerei, per quanto limitata, costituirebbe un salto di qualità nella proiezione della sua potenza militare. L'alleanza tra l'Iran e la Russia si sta consolidando non solo in Siria, ma anche a livello strategico: Mosca avrebbe infatti consegnato a Teheran i missili terra-aria S-300, un sistema di difesa antiaerea temibile che per esempio rende le infrastrutture nucleari iraniane virtualmente invulnerabili a qualunque attacco da parte degli Stati Uniti o di Israele. Gerusalemme e Washington hanno protestato duramente alla notizia della vendita dei missili, che è stata confermata il mese scorso da fonti ufficiali russe dopo una trattativa durata anni.
   L'Iran si sta rafforzando e legittimando a livello internazionale, ed è pronto a festeggiare l'"implementation day", l'eliminazione delle sanzioni economiche a seguito degli accordi nucleari raggiunti con le potenze occidentali del 5+1 lo scorso luglio a Vienna. Mercoledì l'Aiea, l'agenzia delle Nazioni Unite per l'energia nucleare, organo a cui spettano le verifiche sull'attività nucleare iraniana, ha pubblicato un report secondo cui Teheran ha cercato "in maniera coordinata" di ottenere la bomba atomica fino al 2003, e altre attività relative alla costruzione della Bomba sono state portate avanti in maniera meno strutturata fino al 2009, molto più avanti di quanto ammesso dagli iraniani e ritenuto dalla stessa Aiea. Inoltre, l'agenzia scrive che nel corso della sua indagine, durata quattro mesi e necessaria all'implementazione del deal, l'Iran non ha collaborato appieno e spesso ha cercato in maniera palese di ostacolare il lavoro degli ispettori. Uno dei punti più controversi è il sito nucleare di Parchin, dove, scrive l'Aiea, l'Iran ha mentito sulla destinazione d'uso di una grande camera blindata costruita per testare gli esplosivi (secondo gli iraniani serviva per testare componenti chimici). Le infrastrutture a Parchin sono state smobilitate febbrilmente negli ultimi mesi, e gli ispettori dell'Aiea hanno avuto un accesso molto limitato al sito. Parte del materiale necessario per le ispezioni è stato prelevato e consegnato all'Aiea direttamente dagli iraniani, in una situazione in cui all'inquisito è stato consentito di auto inquisirsi.
   Sul nucleare l'Iran ha mentito, ma i risultati ottenuti sono sufficienti secondo l'Aiea per dire che "non ci sono prove credibili di attività in Iran riguardanti lo sviluppo di un ordigno nucleare dopo il 2009". Questo basta tanto all'agenzia Onu, il cui board questo mese probabilmente voterà a favore della chiusura dell'indagine sul nucleare iraniano, quanto all'Amministrazione Obama, che a seguito del voto del board si prepara a sollevare le sanzioni all'Iran già a gennaio, scrive il Wall Street Journal. "Non ci aspettavamo una confessione piena dall'Iran, né ne avevamo bisogno", ha detto al Wsj un funzionario anonimo dell'Amministrazione, come a ribadire che il deal nucleare si basa sulla fiducia nei confronti del regime degli ayatollah più che sulla solidità delle prove.

(Il Foglio, 6 dicembre 2015)


Potrebbe essere che l’Isis finisca per diventare per Putin quello che le SA di Ernst Röhm furono per Hitler. Il seduttore nazista acquistò potere definitivo in Germania quando fu salutato come il salvatore della nazione dalle squadracce rivoluzionarie delle SA di Röhm. Oggi l’occidente si sta avviando a salutare in Putin (con l’appoggio di Khamenei) il salvatore del mondo dai terroristi dell’Isis. Attenzione a certi salvatori! Vale soprattutto per Israele. M.C.


California, parla il papà del killer

Il papà del killer di San Bernardino ''Affascinato dall'Isis, odiava Israele".

Sono le sette di sera ed è calato il buio, sulla comunità residenziale di Corona dove vive Raheel Farook, fratello del killer di San Bernardino. Busso alla porta di casa su Forum Way, ma nessuno risponde, anche se le luci dentro sono accese. Dalla strada si avvicina un signore anziano che spinge una bambina sul triciclo, e mi chiede: «Posso aiutarla?». Certo che può. Lei è il padre di Syed, vero? «Sì». Possiamo parlare di suo figlio? «No, guardi, l'Fbi mi ha già interrogato per sette ore. C'è un'inchiesta criminale aperta, e se parlo rischio la prigione». Ma parliamo solo di suo figlio, non dell'inchiesta. Com'era, come persona? «Un angelo. Bravo, ubbidiente, studioso. Forse un po' troppo timido, conservatore, e fissa to contro Israele».

- Lei quando è arrivato dal Pakistan?
  
«Nel 1973. Sono andato a Chicago, ho preso la laurea breve in ingegneria meccanica, e poi mi sono messo a lavorare duro per costruire una famiglia. Ho guidato anche i camion: settimane lontano da casa, e la schiena spezzata, per garantire ai miei figli un'istruzione e la possibilità di avere successo».

- Come mai vi chiamate tutti Syed?
  
«Perché all'ospedale dell'Illinois dove sono nati i miei bambini erano ignoranti e hanno confuso i nomi. In realtà si chiamano Raheel e Rizwan. Io sono Syed».

- Perché dice che suo figlio era troppo conservatore?
  
«Pensate che da adolescente non andava alle feste dei compagni di classe, perché diceva che un buon musulmano può vedere ballare solo sua moglie. Io vengo dalla città, sono un liberal, scherzavo su tutto come fanno i pachistani e gli suggerivo di sciogliersi, ma non c'era nulla da fare».

- Dicono che sua moglie Rafia ha divorziato perché lei beveva e la picchiava. Così è andata a vivere con Rizwan, mentre lei è venuto qui con Raheel. E vero?
  «Sono tutte frottole. Rizwan era il cocco di mamma, e lei è molto religiosa come lui. Si sono coalizzati contro di me. Una volta avemmo una disputa sulla figura storica di Gesù: mio figlio urlò che ero un miscredente e decise che il matrimonio con mia moglie doveva finire. Avevo comprato una casa bellissima, dove in giardino avevo piantato venti alberi da frutta. L'hanno venduta e hanno distrutto la mia famiglia».

- Perché Rizwan ha fatto quello che ha fatto?
  
«Non lo so. Mi dispero e non capisco. Aveva tutto: guadagnava 70.000 dollari all'anno, più 20.000 di straordinari, una casa, una figlia di sei mesi, faceva il master per guadagnare di più. Era appassionato di meccanica, come me. Aveva studiato ingegneria ambientale perché là c'era il lavoro, ma il suo divertimento erano le auto. Nel tempo libero faceva il meccanico, dentro al suo garage. Non lo so, non riesco a darmi pace. Forse se fossi stato a casa lo avrei scoperto e fermato».

- Lei non si era accorto che accumulava armi?
  
«Una volta ho visto che aveva una pistola, e mi arrabbiai: in 45 anni di Stati Uniti - gli urlai - non ho mai avuto un'arma. Lui scrollò le spalle e rispose: peggio per te».

- Parlavate mai del terrorismo, dell'lsis?
  
«Certo. E chi non ne parla oggi? Lui diceva che condivideva l'ideologia di Al Baghdadi per creare lo Stato islamico, ed era fissato con Israele».

- Che vuol dire?
  
«Io gli ripetevo sempre: stai calmo, abbi pazienza, fra due anni Israele non esisterà più. La geopolitica sta cambiando: la Russia, la Cina, anche l'America, nessuno vuole più gli ebrei laggiù. Li riporteranno in Ucraina. A cosa serve combattere? Lo abbiamo già fatto e abbiamo perso. Israele non si batte con le armi, ma con la politica. Lui però niente, era fissato».

- Fissato su cosa?
  
«Ce l'aveva con Israele».

- Aveva contatti con terroristi all'estero?
  
«Non lo so. Ma di questi tempi chi può dirlo, con internet e tutta quella tecnologia?».

- Qualcuno dice che a radicalizzare suo figlio sia stata la moglie.
  
«Forse, non lo so. Ma sa che io non l'ho mai vista? Neppure tutta coperta col burqa ce la mostrava. So soltanto che era nata in Pakistan e viveva in Arabia Saudita, ma non le ho mai parlato. Non voleva neppure vedere i suoi cognati. Dissi a mio figlio che così distruggevano la nostra famiglia, ma a lui non importava nulla».

- Quando vi siete separati?
  
«A maggio scorso lui è andato con la moglie, la figlia e la madre a Redlands, e a settembre io sono venuto qui a vivere con Raheel».

- Quando vi siete visti l'ultima volta?
  
«È passato a trovarci in un paio di occasioni. Gli ho detto che doveva finire il master per guadagnare di più, perché ora aveva la responsabilità di sua figlia».

Intanto la nipotina, cuginetta di questa bambina di sei mesi rimasta orfana, si è addormentata sul triciclo. La nuora chiama Syed per andare a cena. Lo saluto e gli auguro di ritrovare la pace: «No, non succederà. Ti spacchi la schiena per allevare un figlio, e poi lo perdi così. Come ti riprendi da una tragedia simile? Ho 67 anni e la mia vita è finita qui».

(La Stampa, 6 dicembre 2015)


Interessante la frase del padre del killer: “Fra due anni Israele non esisterà più”.


La tv che fa parlare i taglialingue

Oggi Magdi Cristiano Allam presenterà il suo libro «Islam, siamo in guerra» a Roma, alla Domus Romana in via Quattro Fontane 113. L'incontro è organizzato da Laura Lucibello. Appuntamento alle 18.

di Magdi Cristiano Allam

Aiuto! In Italia è esplosa la «imamite», la moda contagiosissima di accattivarsi le simpatie degli imam, le guide della preghiera islamica all'interno delle moschee. Le televisioni e in generale i mezzi d'informazione fanno a gara per accaparrarsi costi quel che costi la presenza degli imam nelle trasmissioni di maggior ascolto o per un'intervista più o meno esclusiva. Le istituzioni politiche e la Chiesa elevano gli imam a propri interlocutori istituzionali, a prescindere dal fatto che non sono né designati da un clero islamico che non esiste, né sono rappresentativi di una «comunità islamica», che di per sé è frutto di una forzatura ideologica, e che in ogni caso non li ha eletti.
   Sul piano dell'informazione la giustificazione di questa voglia insaziabile di imam è la «par condicio», la regola che nasce in un contesto elettorale e che ormai prevale sulla nostra capacità di intendere e di volere. Ormai quando si parla di islam, di terrorismo islamico o del velo delle donne musulmane, bisogna obbligatoriamente bilanciare la valutazione dell'esperto laico con l'opinione dell'imam. Lo facciamo con la spinta emotiva e l'ingenuità intellettuale del buonismo, che ci portano a immaginare il prossimo automaticamente del tutto simile a noi, senza scomodarci a far riferimento alla ragione e ad entrare nel merito dei contenuti di ciò che effettivamente sostanzia l'islam.
   Sul piano del comportamento delle istituzioni e della Chiesa, che si traduce ad esempio nella presenza del sindaco e del vescovo al fianco dell'imam nell'inaugurazione di una moschea, l'imputato per eccellenza è la dittatura del relativismo, che ci ha sottratto la nozione stessa di verità, portandoci a mettere sullo stesso piano il cristianesimo e l'islam, legittimando acriticamente Allah, il Corano, Maometto, le moschee e le scuole coraniche.
   Non è probabilmente un caso che in piena epidemia di imamite, la sedicente «Associazione Islamica Italiana degli Imam e delle Guide Religiose» ha acquistato a San Giovanni Lupatoto, in provincia di Verona, lo stabile dell'ex calzaturificio Armani (450.000 euro all'asta fallimentare), per adibirlo a propria sede nazionale e avviare al suo interno un centro di formazione degli imam. Questa Associazione è parte dell'Ucoii (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia), ideologicamente legata ai Fratelli Musulmani, che annovera tra i suoi aderenti i terroristi islamici di Hamas.
   La trappola in cui stiamo cadendo è di immaginare che per salvarci dal terrorismo dei tagliagole dobbiamo affidarci al terrorismo dei taglialingue, quelli che vorrebbero codificare il reato penale di «islamofobia» per vietarci di criticare l'islam. I tagliagole ci decapitano una volta per tutte. I taglialingue ci uccidono dentro giorno dopo giorno, negandoci l'uso della ragione e sottraendoci la libertà. Fermiamo l'epidemia di «imamite», liberiamoci dal buonismo, dalla par condicio e dal relativismo. Vogliamoci del bene, salviamo sia la testa sia la nostra libertà.

(il Giornale, 6 dicembre 2015)


Terrorismo islamico, hamburger e patate fritte

Per giorni Obama si è rifiutato di definire un atto di terrorismo islamico l'attentato di San Bernadino. Ha cercato in tutti i modi di non chiamarlo con il suo vero nome. Solo alla fine è dovuto capitolare all'evidenza dei fatti.
Il post-attentato di San Bernardino è lo specchio esatto della politica di Obama e della politica dell'Unione Europea guidata da Federica Mogherini. Sembra che la parola d'ordine sia "minimizzare", non creare panico, non ventilare una guerra di religione neanche di fronte alle evidenze. Sembra quasi che ammettere di avere il terrorismo islamico in casa sia diventata una bestemmia. Eppure è così, il terrorismo islamico ce lo abbiamo in casa, li abbiamo cresciuti noi i terroristi delle stragi di Parigi e quelli di San Bernardino, li abbiamo accolti, istruiti, pagati, agevolati in ogni modo solo per essere ripagati con raffiche di mitra. E il fatto tragico è che continuiamo a farlo, continuiamo ad accoglierli, a sfamarli, a istruirli e ad agevolarli in ogni modo con la recondita speranza che non ci ripaghino a suon di bombe e raffiche di mitra....

(Right Reporters, 6 dicembre 2015)


Georges Bensoussan punta il dito sui ''Politici senza coraggio''

di Francesca Matalon

 
Georges Bensoussan
I territori perduti della nazione non sono lande desolate, luoghi lontani dove la Repubblica e i suoi valori non sono mai arrivati. Quei territori perduti sono nel cuore della Francia, nel cuore delle città, delle strade e delle scuole. Sono le banlieue, le periferie delle grandi città, abitate da una popolazione di immigrati musulmani, prevalentemente dai paesi del Maghreb, sempre più densa e sempre più restia a integrarsi. A definirle così è stato Georges Bensoussan, storico ebreo francese di origine marocchina, responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi, curatore nel 2002 del volume intitolato Les Territoires perdus de la République (I territori perduti della Repubblica), una denuncia contro i mali prima di tutto dell'istruzione ma in generale della società francese - la violenza, l'islamismo radicale, l'antisemitismo - di cui una nuova edizione è appena comparsa nelle librerie francesi. Una riflessione che parte dalla messa in luce di una realtà per cui ci troviamo oggi di fronte a "un fatto storico inedito": per la prima volta si assiste a un fenomeno di "disintegrazione, anzi di disassimilazione" Ed è per questo che ora, quando si parla di territori perduti, non si può più chiamare in causa solo la tanto celebrata Repubblica, intesa per prima cosa una forma di governo, ma la nazione francese stessa, intesa come l'insieme del suo passato, i suoi valori, la sua lingua e la sua letteratura - in altre parole, la sua cultura.
  In essa, una parte della gioventù di cittadinanza francese si riconosce ogni giorno un po' meno. "Stiamo assistendo in Francia all'emergere di due popoli - ha affermato Bensoussan - al punto che qualcuno invoca addirittura i germi di una guerra civile, due popoli che si stanno formando fianco a fianco e che si guardano spesso con ostilità". Le ragioni del fenomeno non sono solo sociali, secondo lo storico. Accanto alla disoccupazione, alla povertà, alla marginalità anche geografica, vi è una vera e propria regressione identitaria che ha influito su questo fondo di frustrazione e risentimento. "Una regressione identitaria - spiega Bensoussan - che innanzitutto riguarda popolazioni giovani e numerose, venute da un mondo musulmano in espansione e che, allo stesso tempo trova la sua espressione politica nell'islamismo e non più nel nazionalismo arabo che è oramai affondato. Si aggiunga poi - continua - il contesto mediatico, con la tv via cavo e internet che hanno favorito la diffusione delle tesi islamiste e di un antisemitismo virulento proveniente dal Medio Oriente". La congiunzione di tutti questi fattori demografici, sociali, culturali e mediatici ha perciò diviso il paese, e secondo lo storico questo si è visto proprio all'indomani degli attentati di gennaio, la cui reazione ha mostrato un paese ben lontano dall'essere unito, bensì l'esistenza di "due paesi che vivono l'uno accanto all'altro, ma non formano più una nazione".
  A tutto questo è legata la peculiarità di quello che Bensoussan ha individuato come "l'antisémitisme des banlieues". E diverso da quello tradizionale, legato soprattutto agli ambienti di estrema destra, si tratta di un antisemitismo "d'importazione". È nelle famiglie che si trasmette e si apprende, e arrivati a scuola si è già pienamente radicato. Diverse branche dell'antisemitismo vengono così a unirsi nei cliché e nel linguaggio utilizzato: la destra estrema che conosce una rinascita, una certa sinistra estrema antisionista che qualche volta fatica a mascherare il suo antisemitismo. "Ma il ramo più grande, e di gran lunga, è quello arabo-islamista Solo quello - sottolinea Bensoussan - "passa agli atti, insulta, colpisce e uccide". Del resto non si tratta più di un antisemitismo di esclusiva matrice arabo-islamista poiché oggi straripa nelle banlieues, ne è diventato il codice d'integrazione sociale, un'integrazione "che in Francia viene fatta al contrario, escludendo la parte ebraica della società". In una grande intervista rilasciata a Pagine Ebraiche nel febbraio del 2012, Bensoussan metteva già in guardia sul fatto che tale islamismo militante "a casa nostra" potesse rappresentare un nuovo nazismo, "con la sua intolleranza nei confronti della varietà umana, il suo irrispetto per le donne, il suo delirio purificatore, la sua attesa della fine dei tempi". A tal proposito, lo storico citava l'esempio di uno studente francese di religione islamica che al ritorno da un viaggio ad Auschwitz vinse un concorso di poesia, ma al momento della premiazione ufficiale dovette rinunciare a declamarla: "la poesia conteneva una parola che non poteva da lui essere proclamata in pubblico, la parola 'ebreo" Una situazione dunque ora portata all'estremo, che tuttavia per Bensoussan è chiara da molto tempo ma vittima della volontà delle istituzioni, dei media e della stessa società francese di chiudere gli occhi e non parlarne. "L'omertà fa parte dei problemi denunciati nel libro - afferma - si ha paura di dire ciò che si vede come se parlare di ciò che è reale fosse farlo esistere". Les territoires perdus de la République nacque infatti dai racconti pervenuti a Bensoussan al Mémorial de la Shoah di alcuni insegnanti e presidi di istituzioni scolastiche sul fatto che accanto a una crescente offensiva islamista nelle scuole superiori francesi era sempre più difficile affrontare certi argomenti, in particolare legati alla seconda guerra mondiale. Di lì le constatazioni, poi divenute un insieme di saggi, sul fatto che l'integrazione di una parte di popolazione delle banlieues, sempre più relegata in quelle periferie e colpita dalla disoccupazione di massa, era fallita. "Tuttavia - rileva lo storico - sembrava difficile in Francia fare questa semplice osservazione poiché si rischiava di essere accusati di razzismo, che del resto è proprio quello che è successo". Anche recentemente, quando per aver detto in una trasmissione radiofonica che i musulmani delle banlieues succhiano l'antisemitismo con il latte dalle madri fin da bambini, Bensoussan è stato denunciato dal Mouvement contre le racisme et pour l'amitié entre les peuples. Accanto a questo, si registrano anche un interesse e un numero di denunce sempre maggiori degli atti antisemiti stessi.
  Mentre nel 1990, dopo la profanazione del cimitero ebraico di Carpentras, scesero in piazza centinaia di migliaia di francesi compreso il presidente della Repubblica, solo una generazione dopo, nel 2012, in solidarietà alle vittime della strage alla scuola ebraica di Tolosa e nel 2014 a quelle della sparatoria al Museo ebraico di Bruxelles, lo fecero solo gli ebrei. Un segno evidente, secondo Bensoussan, della crescita di un ripiegamento su se stessi e dell'indifferenza, nonché di una frammentazione della società francese e allo stesso tempo di un certo scoramento. U11a disaffezione che ha però forse anche delle altre cause, e cioè il fatto che quell'antisemitismo "non veniva da dove ce lo si aspettava, cioè l'estrema destra". Mohammed Merah, l'attentatore di Tolosa, così come Mehdi Nemmouche, quello di Bruxelles, erano musulmani, e dunque "il nemico non era quello giusto" contro cui manifestare.
  "Una certa strumentalizzazione della storia - fa quindi notare Bensoussan - ha paralizzato la riflessione politica". Per giunta, sia Merah sia Nemmouche erano nati in Francia e cittadini francesi, e frequentavano il liceo nel 2002, quando uscì Les territoires perdus de la République. Un dato preoccupante che, osserva Bensoussan, "pone degli interrogativi sull'educazione nazionale, e in particolare su questa idea un po' semplicista secondo la quale un buon insegnamento della Shoah, che è il caso della Francia, sarebbe sufficiente a mettere un freno a razzismo e antisemitismo". Una necessità, quella di ricercare nuove prospettive di didattica e di Memoria lontane dalla meccanica ripetizione di formule a fronte di una crescita di fraintendimenti e letture strumentali, su cui Bensoussan aveva già messo in guardia anche nella sua intervista a Pagine Ebraiche. "Stiamo assistendo - aveva detto - a una preoccupante avanzata del culto della Memoria. Il rischio è la costituzione di una religione civile in cui l'Europa in una stagione cupa si rinchiuda, una stagione in cui si respira la perdita di fiducia nei confronti del presente e l'incapacità di programmare l'avvenire.
  Il passato diviene un rifugio del pensiero e ritorna in quanto struttura museale dove portare al riparo i propri sentimenti". Ma oggi, dopo la presa di coscienza seguita agli attentati di gennaio e ancor più a quelli di novembre, si andrà finalmente alla radice del problema? Lo storico non ne è sicuro: "L'accidia intellettuale e soprattutto la mancanza di coraggio politico fanno sì che questa rischi di essere un'onda senza un seguito. La forza del torpore - afferma - rischia di condurre all'immobilismo".

(Pagine ebraiche, dicembre 2015)


Chanukkah: torna a Trani l'antichissima festa ebraica delle luci

di Luciana Doronzo

 
Il Rabbino Capo di Napoli, Rav Umberto Piperno
Lunedì 7 dicembre alle ore 17.30, nel piazzale antistante la Sinagoga Scolanova, la comunità ebraica di Trani (Bat), insieme a numerosi ebrei del Gruppo Kesher di Milano, accenderanno la seconda luce della festa di Chanukkah. Parteciperanno all'accensione il Rabbino Capo di Napoli Rav Umberto Piperno e il direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell'Unione Comunità Ebraiche Italiane Rav Roberto Della Rocca.
   Chanukkah significa in ebraico "inaugurazione" ed è una festività che dura otto giorni. Era l'anno 165 dell'era volgare allorquando gli Israeliti guidati da Giuda Maccabeo, figlio del sacerdote Mattatià, affrontarono e sconfissero gli occupanti siriani, entrando a pieno diritto a Gerusalemme. Giuda Maccabeo riconsacrò il Bet Hamikdash (Santuario) abbattendo gli idoli fatti installare dal re Antioco IV Epifane di Siria (sotto il cui governo era caduto Israele) e ripristinando la sovranità della Toràh (la Legge scritta e orale data da Dio a Mosè) e dei Suoi precetti sul popolo ebraico. Il Talmud racconta che nel Tempio appena riconsacrato fu trovata una piccola ampolla di olio puro con il sigillo del Sommo Sacerdote. L'olio poteva bastare per un solo giorno ma avvenne un grande miracolo: l'olio bruciò per otto giorni, diffondendo una bellissima luce e dando così la possibilità ai sacerdoti di preparare l'olio nuovo. Fu così che i Maestri proclamarono che a partire dalla vigilia del 25esimo giorno del mese ebraico di Kislèv e per i successivi otto giorni gli ebrei celebrassero l'avvenimento del miracolo dell'olio che non si consumò. Per otto sere viene accesa una fiammella in più sulla Channukkia, un candelabro a 9 braccia (otto fiamme oltre allo shammash, il lume che serve ad accendere gli altri lumi).
   Channukkah manifesta in pieno l'universalità dell'ebraismo, universalità che si esprime nel monoteismo, nel riposo del Sabato, nella superiorità di una Legge divina e morale su ogni aspetto della vita quotidiana; anche chi non è ebreo riesce a condividere parte di questa identità.
   Perchè Trani? Perchè l'ebraismo è elemento fondamentale della cultura e della storia di questa città pugliese; anche per questo , in base ad una usanza ormai consolidata, le Autorità comunali accendono il primo lume della Channukkia (lo shammash) in segno di condivisione di valori inestinguibili come la libertà e la multiculturalità della quale la Festa dell'olio che non si consumò è uno dei simboli più riusciti.
   Una riflessione sulla festa di Chanukkà: nel Diario di Anna Frank, Chanukkah è l'unica festività che Anna racconta descrivendo le difficoltà del nascondiglio e la scarsità di candele che "…non abbiamo tenute accese che per dieci minuti; ma è andato tutto egualmente bene, perché, ciò che più importava, i canti rituali sono continuati a lungo…" (Diario di Anna Frank lunedì 7 dicembre 1942) Non potremo mai sapere quanto fosse profonda la consapevolezza ebraica della giovane Anna che in poche righe scolpiva l'essenza di Chanukkah: i canti rituali che continuano a lungo. Chanukkah è la celebrazione di un grande canto: il canto per l'identità ebraica che vive e non sopravvive. Vive nonostante gli anni, i tentativi di aggressione culturale, i tentativi di eliminazione fisica ed i tentativi di oblio dei quali molto spesso siamo complici.
   Se leggiamo superficialmente le pagine della Storia siamo portati a pensare che la persecuzione ellenista non fosse poi in fondo così tremenda. Cosa chiesero i Greci agli Ebrei ? Solo la loro assimilazione, che è cosa ben diversa dal progetto di distruzione dei giorni bui di Anna Frank, ma non è certo meno pericolosa. Il motto ellenista era: "Assimilatevi a noi e sarete salvi." I numeri diedero ragione ai Greci e tanti ebrei imboccarono la strada della assimilazione, ma l'intervento armato dei Maccabei ha fatto in modo che si sia qui a ricordare una vittoria militare che fu soprattutto la vittoria spirituale di chi non volle cancellare se stesso per sopravvivere in una vita altrui.
   Volendo si può anche ignorare il grido silenzioso dell'identità ebraica, ma semplicemente si rimanda il problema alla generazione che verrà dopo di noi, che forse avrà ancora più domande e certamente meno strumenti per affrontarle. Chanukkah porta con se l'idea che ogni ebreo o figlio di ebreo o nipote di ebreo arriverà un giorno ad affermare con le parole di Hannah Arendt: "Ho sempre considerato la mia ebraicità come uno di quei fatti indiscutibili della mia vita, che non ho mai desiderato cambiare o ripudiare…".

(Fame di Sud, 5 dicembre 2015)


Luca, il convertito italiano che predica odio sul web

Si fa chiamare "Spada di Allah" e posta indisturbato commenti violenti: "I peggiori sono i musulmani che piangono per Parigi. Voglio la sharia".

di Fausto Biloslavo

«Ma quando muore Berlusconi?», si chiede speranzoso sulla sua pagina Facebook con la bandiera nera, Luca Aleotti, un convertito italiano, che vivrebbe a Reggio Emilia e ha scelto come nome musulmano Saif Allah.
   In arabo significa spada di Dio e potrebbe essere in realtà un romano. Il post è stato pubblicato il 2 dicembre alle 11.33. Piace a cinque sodali dell'estremista islamico di casa nostra. In rete i radicali usano spesso nomi di battaglia o inventati, ma Kim Sami Fla Nina, che sostiene di essere stato in carcere a Bari aggiunge «E la Santanchè? E i leghisti?» alla domanda su «quando muore Berlusconi».
   Aleotti risponde senza mezzi termini: «Kuffar maledetti» riferendosi ai seguaci di Matteo Salvini e alla parlamentare del centro destra. I kuffar sono gli infedeli da passare a fil di lama secondo i tagliagole jihadisti che combattono in Siria ed Iraq.Forse sono solo parole demenziali in libertà, ma la copertina scelta dal convertito italiano assomiglia molto alla bandiera nera del fronte al Nusra, la costola siriana di al Qaida a parte la scritta sotto «Musulmani d'Italia». Non solo: il 2 dicembre, quando augura indirettamente a Berlusconi di crepare presto, era uscita sul Corriere della sera l'intervista all'ex presidente del Consiglio che auspicava una grande alleanza dagli Stati Uniti alla Russia, sotto l'egida dell'Onu, per sconfiggere il Califfato.Il 14 novembre, un giorno dopo la carneficina di Parigi, Aleotti si sfoga scrivendo: «Il peggio sono i musulmani che pregano per i morti i Francia e non dedicano nemmeno un secondo di riflessione alle centinaia di migliaia di martiri nel Levante». Il nome usato dalle truppe jihadiste per indicare la Siria.
Il 13 novembre non una parola contro i terroristi, ma si scaglia contro i musulmani che li sconfessano e posta un'immagine di miliziani in mimetica che pregano rivolti verso la Mecca facendo sventolare il vessillo nero. Il giorno dopo si lamenta su Facebook dei troppi profili con il tricolore francese. E aggiunge: «L'unica bandiera per la quale morirei è questa», quella nera della sua copertina.Il 16 novembre pubblica un video con dei francesi che bruciano una copia del Corano. E sbraita: «Volete ancora avere pietà per i Kuffar (infedeli nda)? Possa Allah darci la vittoria sui miscredenti. Dio è grande!!!!!!!». A più riprese attacca «questo pseudo Islam moderato» rappresentato dagli imam invitati in studio dalle tv. La «spada di Allah» spera che la bandiere nere conquistino Gerusalemme come previsto dal Profeta. Il 30 novembre invita a boicottare la trasmissione Quinta colonna su Rete 4: «Non esiste nessun islam laico o moderato esiste solo la sottomissione ad Allah».
   Il 3 dicembre si scaglia contro i musulmani che rispettano «gli idoli con addobbi natalizi, presepi e giuramenti vari su leggi inventate dal vicario in terra in nome di un'integrazione, che va contro tutti i precetti dell'Islam ...costoro, mettono nei loro cuori miscredenza ... e la Collera dell'Altissimo!». Fra amici e commenti in rete ci sono diversi personaggi poco raccomandabili come Qatip Sulemanji, un estremista albanese che risiede in Toscana. Fino ad oggi nessuno ha fermato la «spada di Allah» di casa nostra. Nonostante il 2 dicembre avesse parlato chiaro commentando su Facebook un video di due imam, che hanno giurato simbolicamente sulla Costituzione. «Non mi sono certamente convertito per farmi prendere in giro da imam sviati - ha scritto Aleotti - voglio la sharia e non la costituzione italiana né la democrazia».

(il Giornale, 5 dicembre 2015)


L'UNRWA non licenza gli insegnanti che fomentano razzismo e violenza

Cosa insegneranno agli scolari palestinesi degli educatori (pagati dalla comunità internazionale) che inneggiano all'uccisione di innocenti?

I membri dello staff dell'UNRWA (l'agenzia Onu per i profughi palestinesi) che diffondono sui social network immagini o testi che inneggiano all'uccisione di ebrei dovrebbero essere licenziati. Lo ha affermato la ong "UN Watch", pubblicando all'inizio di questa settimana un nuovo rapporto che documenta questo genere di attività.
Il rapporto mostra, fra l'altro, una serie di messaggi postati su Facebook da Mazen Abo Hady, che si presenta come un insegnate a Gaza stipendiato dall'agenzia delle Nazioni Unite, nei quali si può ammirare la rappresentazione grafica di un uomo con kefiah sul volto che brandisce un coltello e lacera una bandiera israeliana. Accanto a lui, l'insegnante ha postato una fotografia del rabbino Yishayahu Krishevsky, vittima di un attentato terroristico palestinese a Gerusalemme lo scorso 13 ottobre....

(israele.net, 4 dicembre 2015)


Porta a Porta: uno spettacolo penoso e vergognoso

di Deborah Fait

Bruno Vespa
Come da settimane accade in ogni tasmissione televisiva, anche a Porta a Porta l'argomento era i musulmani, l'intolleranza e il sangue degli infedeli che scorre nel mondo. La presenza in studio di Riccardo Pacifici ha dato però alla trasmissione un'impronta diversa e più interessante nel constatare le differenze enormi tra una comunità e un'altra, diversa anche nelle reazioni dei media e dell'opinione pubblica indifferenti e distaccati quando il terrorismo islamico colpisce gli ebrei.
   Fra i tanti attentati antisemiti accaduti in Europa Pacifici ha portato l'esempio dell'attacco mortale alla scuola ebraica di Tolosa dove furono ammazzati a bruciapelo tre bambini e due adulti.
Io aggiungo che sono tre mesi che in Israele è scoppiata l'intifada dei coltelli con decine di morti e centinaia di tentativi ma nessuno ne parla.
   Pacifici ha ricordato come l'Ucoii sia una branca dei Fratelli Musulmani e legata a Hamas che festeggia ogni volta che in Israele qualcuno viene ammazzato dal terrorismo palestinese oltre a rifiutare di riconoscere il diritto ad esistere dello stato ebraico.... "la parola Israele è tabù per loro", ha detto chiaramente.
   A questo punto Vespa ha preso la palla al balzo e ha chiesto ripetutatamente a Elzir se l'Ucoii riconoscesse Israele, lo ha fatto due, tre volte senza ricevere risposta se non qualche incerto... ma... se..., infine, spazientito, ha chiesto: " SI O NO?" Elzir a questo punto ha incominciato a balbettare "... con tutto il rispetto... dottor Vespa... con tutto il rispetto... questa non è una domanda... non tirate noi nel mezzo... con tutto il rispetto... noi siamo italiani, è lo stato italiano che decide non noi...." insomma non ha dato risposta ma, ha fatto notare Pacifici, il pubblico dovrebbe aver capito l'ambiguità dell'imam.
   Beh, io non ne sarei così sicura. Esattamente come aveva detto all'inizio della trasmissione, la parola Israele è tabù per l'islam sia esso radicale o .... moderato. Il musulmano più tranquillo e pacifico nel momento in cui sente "quel" nome diventa una belva. Provare per credere.
   Fino a questo momento del programma tutto è andato bene, anzi benissimo nel senso che Pacifici ha potuto spiegare alcune cose e che Elzir ha fatto una figuraccia nel blaterare fino alla noia senza dire niente se non cercare di giustificare i musulmani e responsabilizzare gli altri, lo stato italiano, la scuola italiana, tutti meno la comunità islamica, innocente, angelica, "amore e tolleranza, pace e fratellanza". Questo atteggiamento è comune a tutti i personaggi islamici che appaiono in TV, passano dall'arroganza alle dichiarazioni di innocenza e illibatezza di fronte al sangue che scorre in nome di Allah, senza porsi problemi.
   Inaspettatamente, a un certo punto della trasmissione, Elzir se ne esce con: "Io ho la fortuna di essere nato in Palestina come Gesù, benedetto sia il suo nome..."
   Ahhhhhh, ho pensato, eccoci a bomba... ci siamo, era il momento, la grande occasione per fare finalmente chiarezza e Riccardo Pacifici non se l'è fatta scappare: "Se posso aiutare storicamente l'Imam della moschea di Firenze, Gesù non è nato in Palestina che è stata nominata tale 200 anni dopo."
   A questo punto ha dovuto fermarsi di fronte all'inaspettato urlo di Vespa: "Vabbè, vabbè, vabbè, andiamo avanti, andiamo avanti....".
   All'improvviso, è venuto fuori un casino, Vespa che urlava "vabbè vabbè", Andrea Riccardi in sottofondo che ripeteva ridendo la stupidaggine del secolo: "Diciamo allora che era romano", l'imam che diceva qualcosa che nella confusione non si capiva e Pacifici che cercava di inserirsi in questo caos con "Gesù era ebreo... Giudea... non Palestina..." infine Vespa perentoriamente ha messo fine alla confusione che lui stesso aveva creato concludendo: "Diciamo che Gesù era ebreo nato in Palestina, va bene?"
   No che non va bene, Vespa, non va bene per niente, anzi va malissimo! L'aver interrotto Riccardo Pacifici mentre cercava di ristabilire la verita' sulla figura di Gesu' e sul suo luogo di nascita, e' stato, oltre a uno spettacolo penoso e vergognoso, un errore etico madornale che ha fatto sprecare un'importante occasione.
   Si poteva fare molto di più, si poteva chiarire una volta per tutte, ripristinare la verità storica se, sia Vespa che Riccardi, avessero aiutato Pacifici, affiancandolo nella spiegazione, non interrompendolo con delle grida inconsulte gettando letteralmente in vacca un argomento così importante.
   Abbiamo detto e ridetto che Gesù nacque ebreo, visse da ebreo osservante, predicò la Tora' nelle sinagoghe, quando mori' i Romani scrissero sulla croce "Gesu' re dei Giudei". Gerusalemme fu distrutta nel 70 dopo Cristo e nel 135 l'imperatore Adriano , per umiliare gli ebrei, volle cambiare nome a Israele e conio' il termine Syria Palaestina. "Judea Capta" è scritto sulle monete romane dell'epoca. Perché tanta paura ad ammetterlo, a dirlo chiaramente? Cosa c'è sotto? Sembra quasi esista un ordine superiore che impedisca di dire la verità. A parte la figura di Gesù che ai musulmani serve da propaganda, quello che pare chiaro e lampante è che non si possa dire che i palestinesi siano una popolazione molto recente... diciamo nata nel 1967 dopo la guerra dei 6 giorni, e che la Palestina sia una nazione mai esistita nella storia.
   L'argomento è tabù esattamente come pronunciare il nome di Israele. Nell'urlo di Vespa si è sentito il terrore, il tentativo maldestro di Andrea Riccardi di ridicolizzare e banalizzare il discorso con quel "allora era romano" non dimostrano altro che paura della verità.
   Sinceramente ho provato una sensazione non solo di rabbia ma di vero e proprio schifo per la pusillanimità che mi si presentava davanti in modo così inequivocabile. Credo sia dovere di ogni giornalista essere chiaro e trasparente soprattutto in tempi complicati e pericolosi come quelli che stiamo vivendo con l'islam radicale che vuole conquistare il mondo e distruggere la nostra cultura, annegandola nel sangue e nella paura, e quello che chiamano islam moderato che tace e acconsente. Chi ha la possibilità di influenzare l'opinione pubblica ha il dovere e la responsabilità di smascherare i negazionisti e coloro che, come fanno sempre gli arabi, arrivano a travolgere la verità, a insinuare il dubbio nelle menti più deboli e ignoranti, mettendo addirittura in discussione l'esistenza di un Popolo antico come quello ebraico.
   Ieri sera Vespa con quei suoi assurdi e tremebondi vabbe' vabbe' ha gettato alle ortiche tutto questo, la verità , l'etica e e la giustizia. Una volta di più è stato commesso un sopruso nei confronti di un popolo da sempre vessato di cui si mette in discussione il diritto alla vita e ad avere il proprio stato nella propria Terra avita, un popolo che viene defraudato della sua storia per privilegiare chi con le minacce fa paura! Chi ruba la Storia va smascherato, Vespa, chi la trasforma a proprio uso e consumo nel tentativo di cancellare un popolo come è stato fatto varie volte con gli ebrei, deve essere fermato se no si diventa complici. Lei, Vespa, non lo ha fatto, peggio, non ha voluto farlo.

(Inviato dall’autrice, 5 dicembre 2015)


Abbiamo sempre detto che il problema “Israele” è una questione di verità, non di pragmatismo politico Per questo chi si muove contro Israele, contro la sua presenza con pieno diritto sulla terra che occupa e anche su quella occupata da un inesistente stato di Palestina, non può che ricorrere alla menzogna, in varie forme a seconda del soggetto. Aver deciso, come hanno fatto i governi israeliani del passato e del presente, di non sottolineare, ripetere, ribadire fino alla nausea, come fanno i suoi nemici con la menzogna, il pieno diritto giuridico di Israele a governare su tutta quella terra, prima di affrontare ogni altro discorso pragmatico di convivenza, privllegiando invece aspetti di sicurezza, ha messo nelle mani dei nemici di Israele un’efficacissima arma di menzogna che non si lasciano scappare di mano neppure per un istante. Qualunque cosa faccia o dica Israele, per tutti deve restare un ladro. Questa è l’accusa, falsa, che inchioda per sempre Israele. A meno che non finisca di essere un ladro, cioè ceda tutto e sparisca definitivamente. Questo dice Khamenei e i democratici occidentali non ne sono turbati perché anche loro sono pragmatici, e se con chi dice e sostiene il falso si possono fare buoni affari, perché no? L’accusa di furto è la più grave di tutte, perché trova consenso in tutte le nazioni e in tutti gli strati sociali e culturali. Anche tra gli ebrei, anche tra gli israeliani. La legittimità dello Stato d’Israele su quella terra è uno dei nodi fondamentali in cui si articola l’enigma della verità. Anche gli altri sono tutti collegati a Israele, e soltanto nella Bibbia si trova la soluzione. Possono essere così schematizzati: popolo d’Israele, Stato d’Israele, Messia d’Israele. M.C.


Viaggio alla scoperta della Roma anticlericale

I luoghi della Repubblica Romana e il cimitero acattolico a Piramide. Il Palazzaccio costruito per oscurare San Pietro e il "luddismo" dei lanari a Trastevere. Ecco la capitale dei ''mangiapreti''.

di Checchino Antonini

 
Questa storia può iniziare dal nordest della Capitale, in bicicletta sulla riva sinistra del Tevere, dove sbocca l'Aniene quasi invisibile, per chi non abbia voglia di cercare la città nascosta dal cemento. «Alla velocità dei pedali - per dirla con Andrea Sana dei Têtes de bois - tutto è più reale, se vuoi conoscere il mondo, dal malessere alla meraviglia». Ora ci vuole un po' di immaginazione: su quella riva c'era un posto di guardia, una notte nebbiosa di ottobre del 1867, i fratelli Cairoti vi sorpresero tre gendarmi pontifici e lasciarono passare così i fucili per Garibaldi verso Ponte Milvio, poi nascosti a Villa Glori (Claudio Fracassi, La ribelle e il Papa Re, Mursia 2009).
  La faccenda finì malissimo, come diciotto anni prima era finita la Repubblica Romana. «Ma quando i sogni sono belli, i vinti diventano più importanti dei vincitori», come ci insegna Marco Baliani. Nei suoi cinque mesi di vita, la Repubblica trasformò Roma, una delle capitali più reazionarie d'Europa in un laboratorio di democrazia. I'assemblea costituente nazionalizzò i beni ecclesiastici, 120 milioni di scudi dell'epoca. Poi abolì il Tribunale del Sant'Uffizio, la giurisdizione della Chiesa su università e scuole, la censura. Istituì il matrimonio civile. Stabilì che le donne potessero godere della successione ereditaria e distribuì la terra ai contadini. A piazza della Minerva, la sede del tribunale dell'Inquisizione venne trasformata in abitazioni per le famiglie bisognose.
  Era, ed è, il sogno di una Roma senza papa che aveva preso corpo nel Rinascimento, con le pasquinate e i libelli famosi, e prosegue fino ai giorni nostri con le marce No Vat del decennio scorso. Senza papa e quindi anche «senza paternostri e giubilei» (pensateci se passerete sotto casa di Ciceruacchio, in via Ripetta 248) e, per estensione, senza grandi eventi. Secondo un ex consulente del governo inglese, Greg Clark, già solo presentare una candidatura è motore di sviluppo e occasione di governance, incentivazione del mercato immobiliare e dell'infrastruttura delle regione, cemento verticale e orizzontale. Altre costruzioni e altre autostrade. Quarant'anni fa, la denuncia dei legami "diabolici" fra Chiesa, palazzinari e Dc in occasione dell'anno santo del '75, costò il posto da abate a Giovanni Franzoni. Nella basilica di San Paolo fuori le mura, si sentivano "orazioni" per ottenere la "conversione" delle strutture ecclesiastiche oppressive o colluse con i potenti. Troppo, decisamente, per le gerarchie di Oltretevere e anche per i fascisti, che compirono irruzioni violente in basilica e fecero scritte sui muri (Franzoni giuda al rogo») nel quartiere dove ancora oggi opera la comunità cristiana di base, non lontano da periferie ancora più dilatate di allora dalla speculazione, con la natura (la 'Terra di Dio") più inquinata e violentata dalla "crescita economica". A meno di un chilometro da qui c'è il cimitero acattolico, all'ombra della Piramide. I papi vietavano di seppellire i miscredenti in terra consacrata.
  Qui riposano, tra le altre, le ceneri di Gramsci, Labriola, Gregory Corso e dell'altro poeta Dario Bellezza. Oscar Wilde pensava che fosse «il luogo più sacro della terra».
  Ma voi siete in bicicletta e io faccio "filosofia"! Se ricordo bene vi ho lascialo ai piedi della collina dei
A Piazza Cavour l'unica chiesa presente è quella valdese. Tutto
si snoda come ad assediare il Vaticano sino al Palazzaccio, bruttissimo ma costruito per oscurare San Pietro dal Pincio.
Parioli. Bene, proseguite fino al Quartiere Prati: toponomastica dedicata a eretici, poeti pagani, ai rivoluzionari romani, ai capitani militari contro la chiesa. A Piazza Cavour l'unica chiesa presente è quella valdese. Tutto si snoda come ad assediare il Vaticano sino al Palazzaccio, bruttissimo ma costruito per oscurare San Pietro dal Pincio. Il sindaco di allora era Ernesto Nathan, ebreo di origini anglo-italiane, cosmopolita, repubblicano nella linea di Mazzini e Saffi, massone, laico e anticlericale. Fu il primo sindaco di Roma estraneo alla classe di proprietari terrieri che aveva governato la città fino al 1907. Allora, il 55% delle aree edificabili era in mano a soli otto grandi proprietari.
  Caspita, siete già sul Lungotevere! Ora scendete, andate a piedi: tutto ciò aumenta la consapevolezza delle proprie sensazioni. Ogni viaggio si compie in compagnia di amici vivi, amori finiti o compagni illustri. Nel nostro caso non c'è che l'imbarazzo della scelta: accanto a Giordano Bruno in Campo de' Fiori potrebbe esserci Enrico Ferola, il fabbro di via della Pelliccia 40, a Trastevere, che fabbricava i chiodi a quattro punte, utilissimi a bloccare i mezzi dei nazi nell'occupazione di Roma. Oppure Righello, dodicenne trasteverino, che si gettava con uno straccio sulle bombe francesi per smorzarne la miccia e rispedirle al mittente. Perché no, Giorgiana Masi, diciott'anni, che era andata a festeggiare l'anniversario della vittoria divorzista al referendum ma fu uccisa dalla polizia di Kossiga su ponte Garibaldi. Immaginatevi delle barricate a via del Corso, Il dove non riuscirono a issarle gli studenti il 12 dicembre del 2010. Le issarono, invece, i repubblicani di Roma utilizzando i confessionali di San Carlo al Corso e di San Lorenzo in Lucina. Mazzini si rifugiava non lontano da lì, nella soffitta di Piazza di Pietra, nella casa di Gustavo Modena, il più grande attore italiano dell'800 che utilizzava gli incassi degli spettacoli per finanziare la ribellione. Se salirete fino al Gianicolo, in cerca degli echi della battaglia, portatevi un libro: Roma senza papa di Riccardo Cochetti (Ensemble 2015, con un cd) oppure La meravigliosa storia della repubblica dei briganti di Claudio Fracassi (Mursia, 2005), o le cronache in presa diretta di Margaret Fuller. Insomma, credete sia possibile ritrovare le tracce di quella che fu "una città ribelle e mai domata" ma oggi somiglia a quella più depressa che vide quattromila camicie rosse uscire da Porta San Giovanni dopo la disfatta della Repubblica? Via Aurelia antica era tappezzata di manifesti con l'articolo 5 della Costituzione francese, che è più o meno come il nostro attuale articolo 11. Ma anche allora non servì. È anche una storia di fughe, insorgenze, di spie, soldati, di utopie, quella che si dipana ssottoi vostri occhi, dentro un centro storico ormai occupato dai palazzi della politica, studi professionali, negozi delle griffe e altri non luoghi del turismo di massa.
  Non vi sfuggirà che mancano posti dove socializzare, per esempio delle vere osterie. Uno degli ultimi a scriverne fu Walter Benjamin che nel 1930 fece sosta a piazza Montanara (vedi la Guida alla Roma ribelle, Voland 2014), poi, il piccone di Mussolini sfigurò il quartiere deportando in estrema periferia buona parte
All'epoca dei papi, le osterie erano considerate dei "covi", e furono chiuse nelle ore serali dopo i primi scioperi del 1865 mentre nasceva- no anche nell'arretrata Roma le prime società di Mutuo soccorso.
del proletariato romano. Ma già all'epoca dei papi, le osterie erano considerate dei "covi", furono chiuse nelle ore serali dopo i primi scioperi del 1865 mentre nascevano anche nell'arretrata Roma (ci volevano 12 ore per arrivare in treno a Firenze) le prime società di Mutuo soccorso. Già trent'anni prima c'erano stati a Trastevere i primi episodi di luddismo da parte dei lanari, che s'erano dati appuntamento a piazza Romana con picconi e martelli. Sei anni dopo, circondarono Gregorio XVI che pensava di cavarsela con una benedizione al posto del pane e del lavoro di cui avevano bisogno. I lanari lo inseguirono fino al Belvedere, ora inglobato all'interno delle mura vaticane.
  Fate conto ora di essere arrivati alla Lungaretta: qui, al civico 97, c'era il lanificio Ajani, dove con altri congiurati antipapalini fu uccisa Giuditta Tavani, in quell'ottobre del '67 da cui ha preso il via questo viaggio. Ora piazza Romana porta il suo nome. Sempre da quella parte di fiume, in via della Lungara, il seicentesco palazzo del Buon Pastore è sede della Casa internazionale delle donne. Per trecento anni vi furono recluse ragazze costrette a pentirsi attraverso la mortificazione dei corpi. lI posto fu occupato negli anni 80 dalle reti femministe dopo lo sgombero dell'ex Pretura occupata dalle donne in via del Governo vecchio.
  Se qualcuno pontifica sulle radici cristiane dell'Europa, consigliategli una visita al museo criminologico di Palazzo del Gonfalone, ex carcere minorile voluto da Papa Leone XII nel 1827, tra via del Gonfalone e via Giulia. Qui potrà ammirare ghigliottine e altre macchine di tortura commissionate dai pontefici. Le esecuzioni avvenivano in piazza del Popolo, vi si assisteva dalla Collina del Pincio. Oppure in via dei Cerchi, a Santa Maria in Cosmedin, annunciale da rumorosi, lugubri cortei di incappucciali membri delle confraternite.
  Ecco perché, nel tempo, le rivolte hanno sempre preso di mira il Vaticano. Come quando la folla, nel 1849, si impadronì dei berretti da cardinale esposti nelle botteghe dei cappellari e li lanciò festosa da Ponte Sisto: era il sogno del suffragio universale contro la teocrazia, dei lumi contro l'oscurantismo, quello che ha guidato anche voi in questo e altri viaggi possibili.

(left, 5 dicembre 2015)


Dalla Shoah alle ferite del terrorismo, la storia di una famiglia israeliana

Auschwitz, i morti per terrorismo e ieri il suicidio. L'incredibile storia di una famiglia israeliana. Un buco nero.

di Giulio Meotti

E' la storia indicibile di una famiglia che ci porge, come pochissime altre, la normalità sofferente di Israele. Una lunga coda di buio carica di dolore e di vitalità. La storia inizia a Zdeneve, un piccolo villaggio sui Carpazi ungheresi, negli anni Trenta. Lipa è un ragazzino ebreo. Famiglia poverissima, si sfama con due mucche che danno ogni giorno tre litri di latte e le patate coltivate nell'orto. Gli abiti vengono rammendati e passati da un bambino all'altro. Nel 1944, durante la Pasqua ebraica, arrivano i nazisti e ordinano a tutti gli ebrei di preparare un bagaglio di venti chili. Salgono sul treno per Auschwitz. All'arrivo, sulla rampa di Birkenau, Lipa si ritrova solo. La madre, il padre, la sorella e il fratello di un anno dopo due ore verranno inghiottiti dalle camere a gas. "Alla mia sinistra vedevo il fumo dei crematori, i corpi presi per i piedi e le mani e gettati nel fuoco", mi ha raccontato Lipa. Gli fu data una divisa, un cappello e una gavetta di alluminio. Era tutto ció che aveva al mondo. "Ad Auschwitz pensavo che se fossi stato forte, i tedeschi avrebbero avuto bisogno di me". Passano i mesi, si avvicina la fine della guerra e Lipa viene deportato in Austria, nel lager di Mauthausen. Da quel momento si sarebbe chiamato con un numero. "68.864 era il mio nome". Quel numero era impresso sui pantaloni e la giubba, assieme a un triangolo rosso e alla lettera "J". L'iniziale di Juden, ebreo. Sopravvive anche a Mauthausen, arriva la Brigata Ebraica, assieme ai soldati inglesi e americani. "Ci aiutarono a credere che gli ebrei potevano difendersi da soli e avere il loro stato. Diventare ebrei in Palestina"'. Lipa entra nella sinistra sionista di HaShomer Hatzair. Ma gli inglesi avevano posto restrizioni all'immigrazione, così Lipa restó nei campi fino al marzo 1948. Il 14 maggio di quell'anno, Lipa si trova a Marsiglia, dove si imbarcherà sulla prima nave diretta in Israele. Era il giorno della proclamazione dello stato ebraico. "Salpammo sapendo di avere uno stato". Attracca a Haifa, c'era fermento nell'aria e l'esercito ebraico lo arruolò subito. Lo misero di guardia a un kibbutz, Ein Hashofet. Due anni dopo nasce il primo figlio, Avner, che significa "ricordo di mio padre", per onorare il padre gassato ad Auschwitz. Sei anni dopo arriva il secondo figlio, Yanay. Passano gli anni e nasce anche Gidi. Servono tutti nell'esercito israeliano, chi nell'artiglieria, chi nell'aviazione. Da una Shoah a un'altra.
   Il terrorismo palestinese inizia a portarsi via pezzi di questa famiglia. E' l'inizio della Seconda Intifada. La prima vittima delle bombe umane è la bellissima Inbal, la figlia di Avner. Lavorava agli archivi del Beit Locamei Haghetaot, il centro che documenta la resistenza ebraica ai nazisti. Prendeva sempre l'autobus per tornare a casa dall'Emek Yisrael College nella fertile valle di Jezreel. Ma quel giovedì, Inbal sceglie una strada diversa per incontrare i genitori al ristorante. La strada passa attraverso numerosi villaggi arabi. Ancora non c'era la barriera antiterrorismo, ingiustamente condannata da tutto il mondo come "il muro". I genitori la chiamano al cellulare per sapere dove fosse.
   Due minuti dopo un terrorista di Jenin si fa saltare in aria. Il bus è quasi vuoto: tre israeliani uccisi, fra cui Inbal. Le conseguenze di quel giorno, come vedremo, si avvertiranno anche a tanti anni di distanza. Come una cometa carica di dolore.
   Passano due anni da quell'attentato terribile e il 29 aprile la famiglia rivive lo stesso film. E' la giornata della memoria della Shoah in Israele. Nelle stesse ore, i jet dell'aviazione con la stella di Davide sorvolano i prati di Auschwitz, dove vennero sparse le ceneri di un milione di ebrei, tra cui quelle dei genitori e dei fratelli di Lipa. La dimostrazione è guidata dal generale israeliano Amir Eshel. "La piattaforma delle selezioni, la linea ferroviaria, i campi verdi, un innocente silenzio", disse Eshel. "Così appariva l'inferno sulla terra, nel cuore dell'Europa. Abbiamo compreso l'enormità della nostra responsabilità, nel garantire l'eternità del nostro popolo e della nostra terra. E' stato un grande privilegio essere i delegati del nostro popolo e portare la sua grandezza sulle nostre ali".
   Quella sera, mentre lo stato ebraico sarà chiamato a stringersi nel ricordo dalla stessa sirena che annuncerà alla popolazione il lancio dei missili dei terroristi da Gaza, Yanay si stava esibendo in un pub del lungomare di Tel Aviv. Il kamikaze fu fermato all'ingresso dalla guardia, che volò alcuni metri in aria ma che sarebbe sopravvissuto. Yanay era appena uscito fuori per una boccata d'aria, e venne ucciso sul colpo. L'attentatore, entrato da Gaza, aveva il passaporto inglese. Era arrivato dall'Europa soltanto per uccidere ebrei innocenti. Il terzo tragico capitolo di questa straordinaria famiglia, che aveva sempre creduto nella coesistenza con i palestinesi, che ha sostenuto il rilascio di Gilad Shalit in cambio del mandante dell'uccisione della loro figlia (il terrorista del Jihad islamico Tabeth Mar-dawi), è stato scritto una settimana fa.
   E' il giorno dell'anniversario dell'uccisione di Inbal, quando suo fratello Ami, terzogenito di Avner, militare con lodi della marina israeliana, estrae la pistola di ordinanza e si uccide. Non lascia neppure un biglietto. Il giorno dopo sua sorella dà alla luce una splendida bambina. La storia di questa famiglia è la storia stessa di Israele, dove ogni vita che finisce si annoda a una che nasce, i sei milioni di ieri con i sei milioni di oggi. E' il buco nero che l'Europa ha scelto tragicamente di ignorare.

(Il Foglio, 5 dicembre 2015)


A Finale Emilia torna la Festa della Sfogliata o Torta degli Ebrei

La Torta degli Ebrei o Sfogliata
L'8 dicembre Finale Emilia festeggia come tradizione la Festa della Sfogliata, l'ormai consueto appuntamento (la prima edizione risale al 1994) con la Tibòia (come veniva chiamata in dialetto finalese) o torta degli Ebrei (dalle sue origini storiche). Tanti nomi per un solo prodotto assolutamente artigianale e la cui produzione è particolarmente difficile e faticosa per i tanti passaggi a cui vengono sottoposti i teli di sfoglia che la compongono. Un prodotto amatissimo dai finalesi, tanto dai residenti quanto da coloro che si sono trasferiti altrove, ma ormai anche dai tantissimi affezionati che ogni anno affollano le vie di Finale già dalla mattina, quando iniziano le distribuzioni gratuite degli assaggi, accompagnati da un bicchierino di anicione, altro tipico prodotto locale.
  Organizzata dal Comune di Finale Emilia - Assessorato al Commercio e alla Cultura, in collaborazione con il Comitato Attività Produttive, le associazioni di categoria e gli ambulanti, la Festa della Sfogliata inizia di primo mattino con il mercato dell'Hobbysmo e del Riuso e Fatto a Mano - Mercatino Artistico, arte e musica da esposizione che dalle 8 alle 18 allestiranno in piazza Garibaldi le loro esposizioni. Nel corso della giornata anche gli esercizi commerciali terranno alzate le loro serrande con interessanti proposte per i frequentatori di vie e piazze del centro storico finalese.
  Nel primo pomeriggio, dalle ore 15, inizieranno gli spettacoli con Il Circo, la Musica e l'Arte di Strada, animazione e spettacoli itineranti per grandi e piccini, ispirati alla tradizione circense. A occuparsene saranno C.S.C... Circondati da Sospetti Circensi del Piccolo Nuovo Teatro di Bastia Umbra, il Grande Circo di Gregor e Katjusha del Circo Puntino di Torino e All'Incirco Varietà della Compagnia Lannutti & Corbo di Bologna. Grazie al Moto Club Fiamme Estensi di Bondeno in piazza Garibaldi ci sarà Babbo Natale con i suoi elfi e la fantastica slitta (motorizzata) piena di doni.
  In largo Agnini, dalle ore 15,30 i volontari del Comitato Carnevale proporranno l'ormai consueta iniziativa "Caro amico ti scrivo" con lancio dei palloncini con messaggio augurale dei bambini. La colonna sonora del pomeriggio è affidata alla Bass Gang, band di allievi della Scuola di Musica dell'Area Nord Fondazione Carlo e Guglielmo Andreoli. In piazza Verdi, nel negozio ex Benetton Bimbi il Comitato Femminile della Croce Rossa di Finale Emilia allestirà la Pesca di Beneficenza "Donare per ricevere".
  Sempre in piazza Verdi il gruppo Cuciniamo con Amore e l'associazione culturale Artinsieme proporranno il Natale solidale con la "Bancarella dello Sbarazzo", mentre alla fantastica bancarella della Scuola dell'Infanzia, Babbo Natale aspetterà tutti i bambini con le loro letterine. Ciascuna letterina, se riporterà l'indirizzo con nome e cognome del mittente, riceverà la risposta direttamente a casa.

SCHEDA
La torta degli Ebrei o Sfogliata, detta in dialetto "tibuia" o "sfuiada", è un piatto esclusivamente artigianale e solo di Finale Emilia, paese in provincia di Modena. Se la si trova in qualsiasi altra parte del mondo, significa che in famiglia c''è un finalese. È un impasto di farina, formaggio, burro e strutto, di esecuzione abbastanza difficoltosa, perché non permette errori.
  Si prepara dalla prima metà del '600, in quanto a quell''epoca a Finale esisteva una fiorente comunità di ebrei che erano stati scacciati dalla Spagna edaccolti nei Ducati Estensi, in particolare la famiglia dei Belgradi, che cucinavano una torta salata che i turchi chiamavano "Burek", la cui ricetta era tenuta segretissima.
  Avvenne però che un ebreo convertitosi al cristianesimo, a metà dell'''800, per vendicarsi del disprezzo che gli riservavano gli altri Ebrei, rivelò la ricetta e si mise a venderla sostituendo però al grasso d''oca della ricetta originale della sfogliata, lo strutto, che gli ebrei non potevano mangiare perché il maiale era vietato dalla loro religione.
  Dopodiché divenne uso che le donne la preparassero a casa per venderla sull''uscio sotto i portici su un caratteristico treppiede con un braciere (la tibuia) per mantenerla calda.
Si mangiava per strada ancora fumante in un cartoccio di carta gialla. Ed ebbe un successo che ancora oggi soprattutto in inverno si mangia per lestrade di Finale.
  E per tradizione si mangiava sempre il giorno dei morti, accompagnata da un goccio di anicione, liquore tipico di Finale a base di anice. C'è ancora anche la festa della Sfogliata.
Ai tempi dei nonni era una colazione, ma può essere una merenda, una cena, qualsiasi cosa. La ricetta passa di casa in casa, ma adesso ci sono anche laboratori che la preparano.

(Modena Today, 5 dicembre 2015)


È morto l'ex ministro e parlamentare israeliano Yossi Sarid

Noto per le sue dichiarazioni incisive sul conflitto israelo-palestinese.

L'ex ministro e parlamentare Yossi Sarid, figura di spicco della sinistra israeliana, conosciuto per le sue dichiarazioni incisive sul conflitto israelo-palestinese, è morto ieri sera. Aveva 75 anni.
Yossi Sarid si era ritirato nel 2006 dopo una carriera politica pluritrentennale, contraddistinta tra l'altro dalla presidenza del partito di sinistra Meretz, dal 1996 al 2003.
"Con la morte di Yossi Sarid, se ne va una delle voci più importanti, originali e taglienti dell'arena parlamentare e pubblica in Israele", ha scritto il capo dell'opposizione israeliana, il laburista Isaac Herzog, sulla sua pagina Facebook.
"Yossi Sarid, deputato, ministro dell'Istruzione, scrittore e poeta ha lasciato un segno profondo sul sistema educativo e sul Paese intero", ha aggiunto.

(Corriere quotidiano.it, 5 dicembre 2015)



O Israele, torna all'Eterno

O Israele, torna all'Eterno, al tuo Dio!
poiché tu sei caduto per la tua iniquità.
Prendete con voi delle parole,
e tornate all'Eterno!
Ditegli: «Perdona tutta l'iniquità,
e accetta questo bene;
e noi t'offriremo, invece di giovenchi,
l'offerta di lode delle nostre labbra.
L'Assiria non ci salverà,
noi non monteremo più su cavalli,
e non diremo più: “Dio nostro”
all'opera delle nostre mani;
poiché presso di te l'orfano trova misericordia».
Io guarirò la loro infedeltà,
io li amerò di cuore,
poiché la mia ira s'è stornata da loro.
Io sarò per Israele come la rugiada;
egli fiorirà come il giglio,
e spanderà le sue radici come il Libano.
I suoi rami si stenderanno;
la sua bellezza sarà come quella dell'ulivo,
e la sua fragranza, come quella del Libano.
Quelli che abiteranno alla sua ombra
faranno di nuovo crescere il grano,
e fioriranno come la vite;
saranno famosi come il vino del Libano.
Efraim potrà dire:
“Che cosa ho io più da fare con gl'idoli?”
Io lo esaudirò, e veglierò su lui;
io, che sono come un verdeggiante cipresso;
da me verrà il tuo frutto.
Chi è savio ponga mente a queste cose!
Chi è intelligente le riconosca!
Poiché le vie dell'Eterno sono rette;
i giusti cammineranno per esse,
ma i trasgressori vi cadranno.

                   dal libro del profeta Osea, cap.14

 


La polizia palestinese ferma un corteo diretto al valico di Beit El

RAMALLAH - Le forze di sicurezza palestinesi, che fanno capo all'Autorità nazionale palestinese (Anp), stanno impedendo in queste ore ad un corteo di manifestanti di raggiungere il valico israeliano di Beit El, vicino Ramallah. Lo ha annunciato l'emittente televisiva "al Jazeera". I manifestanti si sono mossi in corteo al termine della preghiera del venerdì dalle moschee di Ramallah per dare il via ad un altro "venerdì della rabbia" e protestare contro le autorità israeliane.

(Agenzia Nova, 4 dicembre 2015)


Monaco '72: ora sappiamo chi sono i guerriglieri palestinesi

di Dimitri Buffa

Che gente erano i terroristi dell'Olp prima di convertirsi all'Islam? Le persone normali, quelle perbene che non trovano odiose ragioni per giustificare l'omicidio di ebrei ed israeliani in tutto il mondo, non avevano bisogno delle rivelazioni della signora Ileana Romano, vedova del lottatore olimpico Josef Romano, per darsi una risposta. Arafat, Abu Mazen e tutta la loro cricca erano semplicemente dei capi di una banda di assassini e mafiosi che hanno tenuto in ostaggio per quasi mezzo secolo due popoli e due stati: quello di Israele e quello della Palestina. Che a causa loro non è mai nato.
   Gente che per avere visibilità, proprio come oggi fanno i vari califfi e pretoriani dell'Isis, non ha esitato a uccidere a sangue freddo, dopo averli torturati e in almeno un caso anche evirati, degli inermi atleti di una squadra olimpica. Uno neanche riesce a immaginarsi che violenza e che cinismo occorrano per compiere degli scempi simili sui corpi di due persone già ferite a morte durante un attacco terroristico.
   Ecco oggi, dopo oltre quaranta anni, due coraggiose vedove israeliane, che hanno dovuto lottare fino al 1992 contro la burocrazia dei servizi segreti tedeschi (evidentemente imbarazzati a morte per quel che era successo sul territorio che avrebbero dovuto presidiare in occasione di un evento come le prime Olimpiadi tenutesi in Germania dopo la fine della Seconda guerra mondiale) per vedere le foto classificate dell'agguato del 5 settembre 1972, rivelano cosa è successo in quegli spogliatoi del villaggio olimpico di Monaco.
   E questa notizia arriva in concomitanza con un rapporto Onu ancora segreto che chiede conto all'attuale Anp di Abu Mazen (che era il finanziatore dell'organizzazione che portò al massacro di Monaco) di quasi dieci miliardi di euro di aiuti scomparsi . Soldi non solo europei. Se è vero come dice Putin, e nega Obama, che la Turchia aiuta sottobanco l'Isis è altrettanto vero che l'Europa, l'America e gran parte dei paesi arabi sunniti continuano ufficialmente a rifornire di soldi i capi mafia dell'Anp e quelli di hamas.
   Con il lodevole intento di finanziare il "povero popolo palestinese" e la sua "nobile causa." Che è un po' come finanziare i corleonesi, Totò Riina e Matteo Messina Denaro, sperando di risollevare le sorti della sottosviluppata Sicilia. Il mondo può sempre fare finta di non vedere. E i ben pensanti che vivono nei talk show potranno dire che "l'islam non c'entra".
   E, paradossalmente, questa volta in effetti non c'entra per davvero: i capi palestinesi che odiavano Israele per professione e li uccidevano per vocazione non avevano neanche bisogno della nota "religione di pace" per trovare uno scudo dietro cui riparare la propria ferocia e le proprie azioni. Evidentemente erano già di quella indole al naturale.

(L'Opinione, 4 dicembre 2015)


 Derna e Saturno Cecchini "Giusti fra le nazioni"

di Simonpietro Cecchini

VETRALLA (VT)- 16 ottobre 1943, ore 5,15 di un mattino piovigginoso: i nazisti invadono le strade del Portico d'Ottavia e cominciano una spietata caccia all'uomo.
Alle 14 circa la retata finisce: 1259 persone vengono ammassate nel Collegio militare di Via della Lungara; dopo alcuni controlli, ne restano 1024. Il 18 ottobre i "rastrellati" sono caricati sui vagoni alla stazione Tiburtina e il 23 arrivano nel lager di Auschwitz. La maggior parte di essi muore durante il viaggio o subito dopo nelle camere a gas. Sopravvivono alla selezione 149 uomini e 47 donne: torneranno in 16, tra cui una sola donna.
   Dopo il 16 ottobre, la polizia tedesca catturerà altri ebrei. Alla fine, i deportati di Roma saranno 2091, pari a un quarto dell'intera comunità ebraica.
   La famiglia Fornari scampò a tale tragedia grazie all'aiuto spontaneo e gratuito di Derna Peruzzi e Saturno Cecchini. Lilly, allora bambina e oggi unica testimone, racconta di come, assieme ai genitori, ai nonni paterni e al fratellino Sergio, si trovasse a trascorrere il periodo estivo a Cura di Vetralla, in un appartamento che si affacciava sulla piazza principale del paese.
   Nel settembre del '43, gli ebrei furono privati anche della cittadinanza: non più cittadini, dunque, ma non-persone. Nonno Ottavio decise, così, di non fare rientro in città, nonostante avesse ricevuto l'ingiunzione, da parte dei proprietari, di lasciare l'appartamento.
   Dove riparare? Conoscendone la fama di persona generosa e solida, chiese aiuto a Saturno Cecchini che, assieme alla moglie Derna e ai tre figli, viveva in un ampio casale, circondato da un vasto podere. La coppia non esitò ad accoglierli. I beni della famiglia furono nascosti in un lungo cunicolo che, dal forno, portava alla cantina e, di lì, in aperta campagna: in piena guerra, durante i bombardamenti, anche molti paesani vi troveranno riparo e salvezza. Vi fu una protratta e serena convivenza, finché accadde una delazione. Avendo intuito il pericolo, a sera, Saturno fece salire quella che ormai era una sola famiglia su un carro e, fingendo di trasportare merce, la condusse alla frazione Pietrara, presso una sorella. Tornò indietro da solo, preoccupato di cancellare qualsiasi traccia potesse rivelare la presenza dei suoi ospiti. La notte seguente, giunsero i perquisitori. La casa venne messa a soqquadro; razziarono cibo e vino, poi se ne andarono.
   Su richiesta di Lilly, il 10 marzo 2015, Derna e Saturno Cecchini sono stati riconosciuti "Giusti fra le nazioni" e i loro nomi rimarranno per sempre incisi sul Muro dell'onore dello Yad Vashem, Istituto per la memoria dei martiri e degli eroi dell'olocausto. Giovedì 10 dicembre, nella sala del consiglio comunale di Vetralla, si svolgerà la cerimonia per la consegna delle onorificenze ai discendenti, alla presenza delle autorità locali e del ministro consigliere Rafael Erdreich, funzionario dell'Ambasciata d'Israele a Roma.

(Tuscia Web, 4 dicembre 2015)


Europa e Israele, due modi diversi di vivere il terrore

di Simone Somekh

Uno studente italiano scrive da Tel Aviv, raccontando cosa significa vivere sotto la costante minaccia di un terrorismo che l'Europa comincia a conoscere solo ora.

La caporedattrice mi fa accomodare nel suo ufficio e mi porge un foglio su cui sono scritti i nomi delle persone che devo intervistare la settimana seguente. Leggo velocemente i nomi delle città dove sono locati gli uffici delle persone da intervistare: Haifa, Be'er Sheba, Gerusalemme…
  «Devo… devo andare a Gerusalemme?» chiedo.
  «Certo» mi risponde lei.
  Sono stati giorni intensi. Ogni tre ore arriva una notifica sull'iPhone che comunica l'avvenimento di un nuovo attentato terroristico. Si tratta perlopiù di accoltellamenti, perpetrati da palestinesi ed arabi israeliani, sia uomini che donne, di tutte le età. Ogni attacco è una missione suicida: nel giro di pochi minuti il terrorista viene neutralizzato da una forza di sicurezza presente sul posto; non dopo aver seminato il panico e aver ferito, se non addirittura assassinato, diverse vittime.
  Cisgiordania, Tel Aviv, Gerusalemme, Bat-Yam, sono poche le città israeliane in cui non è avvenuto uno di questi attentati. In totale le forze di difesa israeliane hanno calcolato che, solo nel mese di ottobre, sono avvenuti 74 accoltellamenti, 10 sparatorie, 11 speronamenti automobilistici, per una somma di oltre 21 omicidi e 184 ferimenti.
  Il giorno dopo l'incontro con la caporedattrice della rivista di chimica per cui lavoro, leggo su Twitter che in Cisgiordania un terrorista ha sparato su un'automobile. Sono morti tre civili: un rabbino, uno studente americano e un passante palestinese. Guardo le foto delle vittime; il mio cuore si ferma per qualche istante non appena vedo il volto del ragazzo ucciso e mi dico: «Questo lo conosco».
  Il gelo.
  Chiedo conferma ai miei amici su Facebook e scopro che sì, quello è Ezra Schwartz, il ragazzo che frequentava lo stesso liceo di Boston dove io ho trascorso un anno di studi. Il giovane, scherzoso,
Ezra Schwartz
sorridente Ezra che amava giocare a baseball e ridere di ogni sciocchezza, freddato da una pallottola, morto di una morte inutile, tanto per gli ebrei che per i palestinesi, una morte che non porta ad alcuna vittoria, ad alcun cambiamento dello status-quo, ad alcun progresso nel processo di pace.
  Ezra era venuto in Israele per frequentare un programma di studi religiosi e l'anno prossimo avrebbe cominciato l'università negli Stati Uniti. Aveva diciott'anni. La sua bara è partita la sera stessa su un aereo diretto a Boston, dove i suoi genitori, sua sorella e i suoi fratelli lo aspettavano con lacrime bollenti che sgorgavano dai loro occhi, colmi di incredulità e privi di una spiegazione.
  Da settembre, il terrorismo di matrice islamica (e non dico palestinese, notare bene) non sembra intenzionato a dare un solo minuto di pace a chiunque viva in Israele, rendendo la vita un incubo per gli israeliani di tutte le etnie e religioni. Persino un arabo israeliano di settant'anni è rimasto ferito in un attacco avvenuto a Gerusalemme. A rimetterci sono tutti i cittadini musulmani, che vengono guardati con sospetto da guardie di sicurezza e civili per la strada, sugli autobus e negli ascensori.
  Lavoro come giornalista in Israele e studio all'università di Bar-Ilan da oltre due anni. Mi confronto con questa realtà ogni giorno. Il terrorismo diventa forse una costante, ma non una norma; la paura diventa una sensazione incessante, ma non ci si può fare l'abitudine, come invece sembrano fare i giornali esteri, che spesso non si curano neanche di riportare le tragiche notizie provenienti da questo minuscolo angolo di Medio Oriente.
  Telefono ad un'amica italiana in trasferta a Bruxelles, che mi dice che la città è «sotto assedio»: la polizia è alla ricerca di un terrorista e le scuole, la metropolitana, gli uffici pubblici, tutto è stato chiuso. Una vittoria per i militanti dell'ISIS, che non desideravano altro se non mettere in ginocchio la liberale Europa.
  Anche in Italia oggi ogni certezza viene distrutta; ogni sensazione di sicurezza, ogni fiducia reciproca, viene messa alla prova. E viene messa alla prova anche la tolleranza: d'un tratto ogni donna col velo viene guardata con sospetto, come se potesse farsi esplodere da un momento all'altro.
  Buongiorno, Europa.
  Nelle ultime settimane, cara Europa, hai avuto un assaggio del terrore quotidiano a cui i cittadini israeliani sono sottoposti. Hai scoperto a cosa servono i posti di blocco. Sei stata costretta all'enorme pressione di dire di no al razzismo ma dire di sì alla sicurezza e alle precauzioni. Hai scoperto che il prezzo da pagare per prevenire il terrorismo è il semplicismo, la generalizzazione, la discriminazione.
  Questa sfida, con cui l'Europa si confronta oggi per la prima volta, caratterizza la realtà di Israele da decenni. All'università ho numerosi compagni di classe palestinesi; abbiamo un ottimo rapporto. Ma non appena lascio il campus, ogni palestinese che incontro è una potenziale minaccia.
  Bruxelles si ferma. Tel Aviv no.
  Perché se Tel Aviv dovesse fermarsi ad ogni attentato, ogni allarme rosso, ogni razzo, ogni terrorista in fuga — Tel Aviv sarebbe ferma da 67 anni. E Tel Aviv non può stare ferma un solo istante; le sue start-up non possono smettere di produrre nuove tecnologie, il Centro Peres per la pace non può smettere di promuovere attività sportive per ebrei e palestinesi, i giovani non possono smettere di festeggiare la loro liberalissima città sulla spiaggia il venerdì mattina, i vecchi non possono smettere di respirare ogni boccata d'aria perché ogni singolo respiro è per loro una vittoria nei confronti dei nazisti che hanno sterminato le loro famiglie settant'anni fa.
  Con la mente carica di preoccupazioni e il mio blocchetto per gli appunti e la mia penna in tasca, esco di casa e mi dirigo a Gerusalemme. Ho un grosso zaino sulle spalle per prevenire un attacco da dietro; gli auricolari non sono nelle orecchie cosicché io possa sentire qualsiasi rumore sospetto. E ho la speranza, la speranza che un giorno israeliani, francesi, italiani, tutti i popoli del mondo, possano passeggiare per le loro strade in pace, senza il terrore di venire uccisi, ancora con qualche briciola di fiducia nei confronti di questo pazzo crudele pianeta.

(East Magazine, 4 dicembre 2015)


"Vi racconto la piscina dove insegnò Gesù"

L'archeologo Dan Bahat a Milano: in Terrasanta ogni giorno nuove sorprese.

di Sara Ricotta Voza

 
Dan Bahat
MILANO - Le pietre parlano, e quelle di Israele hanno storie antichissime da raccontare. Storie contenute in ben 48 parchi archeologici e 9 siti Patrimonio dell'Unesco, che ogni mese riservano sorprese. L'ultima è di ieri, e parla di una bolla appartenuta a Ezechia, re di Giudea tra VIII e VII secolo a.C. Un reperto minuscolo ma rilevantissimo, il primo sigillo di un re di Israele ele rinvenuto in uno scavo archeologico scientifico.
   Altre scoperte recenti sono state presentate proprio in questi giorni a Milano dal professor Dan Bahat, per oltre un decennio l'archeologo ufficiale di Gerusalemme, prima docente all'Università ebraica di quella città e oggi presso la facoltà di Teologia di Lugano. Famosi suoi scavi nell'area del Muro del Pianto, dove ha portato alla luce il tunnel che scorre alla sua base. «In questo luogo non si finisce mai di scoprire qualcosa», ha spiegato Bahat, che ha poi iniziato una narrazione della città attraverso gli ultimi scavi. «Una scoperta fondamentale viene dalle pendici del Monte Sion, si tratta di quello che viene chiamato "palazzo del re Davide", pochi resti ma tutti del X secolo a.C.». Dati che permettono di dire qualcosa sulla vicenda di Davide, per molti ancora nel dubbio se sia storia o mito. È di un mese fa la scoperta della cittadella (Akra) dei tempi di Giuda Maccabeo, esempio di fortificazione del II secolo avanti ti Cristo, e scavi recenti vicino alla spianata del Tempio hanno portato alla luce una torre, oggi visitabile, che a giudicare dalle giare con iscrizioni riguardanti le tasse, doveva essere una sorta di ufficio amministrativo. Similmente, gli scavi nell'area della piscina di Siloe raccontano di una piattaforma con una scalinata che doveva invece essere una sorta di ufficio oggetti smarriti dai pellegrini.
   Ma è la zona della piscina di Siloe con la strada che portava alla spianata del Muro del pianto avanto la più ricca di sorprese. «Quasi tutte le meraviglie che Gesù fece a Gerusalemme le fece qui, e ora si possono mostrare i luoghi concreti dove insegnò ai rabbini quando aveva 12 anni, dove cacciò i mercanti». C'è pure la scalinata da cui forse scese nella piscina il cieco guarito, e i resti di bagni rituali e una fognatura che oggi può essere percorsa dai visitatori. Qui è stato trovato un ninfeo in cui l'acqua dell'acquedotto esce dai capitelli delle colonne. E uscendo da Gerusalemme, si scoprono nuovi «luoghi santi ». «Sulla strada verso Betlemme è stata trovata una chiesa ottagonale del V secolo sul luogo dove si tramandava che avesse dormito la Vergine all'inizio della fuga in Egitto».

(La Stampa, 4 dicembre 2015)


Accordo Italia-Israele sulla previdenza sociale in vigore dal 1o dicembre

4 dicembre 2015 - L'Inps, con circolare n.196 del 2 dicembre, informa che, dal 1o dicembre 2015, è in vigore l'accordo tra la Repubblica italiana e lo Stato di Israele sulla previdenza sociale, firmato a Gerusalemme il 2 febbraio 2010 e ratificato con legge 18 giugno 2015, n.98. Tale accordo sostituisce integralmente la previgente intesa, firmata a Gerusalemme il 7 gennaio 1987.
In attesa della stipula dell'Accordo amministrativo, l'Istituto fornisce le prime istruzioni operative in materia di determinazione della legislazione applicabile/distacchi, totalizzazione dei periodi di assicurazione ai fini pensionistici, trasferibilità delle pensioni e formulari.

(Centro Studi di Lavoro e Previdenza, 4 dicembre 2015)


Chanukkà, quando è giusto battersi per restare ciò che si è

di Rav Alfonso Arbiby

Forti e orgogliosi come alberi di cedro? O sottomessi e cedevoli come giunchi?
Gli ebrei nel corso della storia sono stati l'uno e l'altro. Dipende dalla posta in gioco.


 
Chanukkìa
MILANO - Chanukkà è l'unica ricorrenza ebraica in cui si festeggia una vittoria in guerra, la vittoria dei Maccabei sui Greci, la vittoria dei pochi sui molti. In realtà non è esattamente così, la tradizione ebraica mette l'accento soprattutto su un altro aspetto della festa: l'accensione dei lumi che ricorda il miracolo dell'olio. E anche il giorno in cui si festeggia Chanukkà non è il giorno della vittoria ma quello successivo, il giorno della tranquillità e della pace. Rimane però vero che la lotta dei Maccabei contro la dominazione greca è un elemento caratteristico di questa festa. Questo aspetto caratteristico rappresenta un'eccezione nella storia ebraica, la contrapposizione armata contro i nemici e i persecutori solo raramente si è verificata nella nostra storia. Non sempre il risultato è stato vittorioso. Si pensi per esempio alla rivolta di Bar Kokhbà contro la dominazione romana. In molte altre occasioni gli ebrei hanno convissuto con grande difficoltà con nemici e persecutori aspettando che passasse la tempesta. La chiave per capire questo atteggiamento è in un Midràsh che sostiene che "migliore è la maledizione di Achià Hashilonì della benedizione di Bil'àm". Il mago profeta Bil'àm paragonò il popolo ebraico a un cedro. Achià Hashilonì lo paragonò a un giunco. Il cedro è un albero forte, possente, che può resistere a quasi tutti i venti. C'è però un vento particolarmente potente che è in grado di sradicare il cedro. Il giunco è molto debole, si piega a ogni vento ma, una volta che il vento è passato, ritorna su ma non viene mai sradicato. Paradossalmente la debolezza del giunco è la sua forza. Nella loro storia gli ebrei sono stati spesso giunchi che si piegavano a ogni vento senza però essere mai sradicati. A Chanukkà invece si sceglie la via opposta: si combatte e si vince, ma si corre il rischio di essere sradicati.
   Che cosa porta a fare una scelta piuttosto che un'altra? Una possibile risposta a questa domanda la troviamo in un altro Midràsh. Il Midràsh narra di Rabbì Chaninà ben Teradion che, quando i romani vietarono di studiare Torà, andava in giro con un Sefer Torà in mano, radunava gruppi di ebrei e insegnava pubblicamente Torà. Nel passo talmudico che racconta la storia di Rabbì Chaninà si dice anche che il suo comportamento viene criticato da uno dei grandi Maestri dell'epoca, Rabbì Yosè ben Kismà. Rabbì Chaninà non si limita a studiare e a insegnare Torà, non ubbidendo alla legge romana - questo del resto lo fanno molti altri - ma assume un atteggiamento di sfida, riunisce le persone sulla pubblica piazza e lo fa tenendo tra le braccia un Sefer Torà per fugare ogni dubbio su quali siano le sue intenzioni.
   È giusto comportarsi così? È giusto sfidare i nemici? Non c'è una risposta unica e definitiva a questa domanda. Il problema in realtà è qual è la posta in gioco. La sfida per la sfida per dimostrare la propria forza non è un elemento caratterizzante della tradizione ebraica. Gli ebrei, nei lunghi anni dell'esilio hanno perseguito essenzialmente l'obbiettivo di rimanere vivi e di rimanere se stessi, di mantenere viva la propria identità ebraica facendo ogni sforzo per continuare a vivere una vita ebraica. Per ottenere questo sono stati spesso disposti anche a piegarsi come giunchi.
   In questi giorni, dopo che un ebreo è stato accoltellato a Milano perché riconoscibile come tale da una kippà in testa, si è parlato molto nei giornali della kippà come segno di sfida. In realtà la kippà rappresenta altro, rappresenta l'adesione alla tradizione ebraica, non è una sfida ma la volontà di rimanere se stessi, di mantenere la propria identità.
   Anche per Rabbì Chaninà ben Teradion la posta in gioco è la stessa, però lui ritiene che per raggiungerla sia necessario la sfida, ritiene insufficiente limitarsi a studiare Torà di nascosto. Questo avrebbe salvato l'identità ebraica di piccoli gruppi di eletti, ma ci sarebbe stato il rischio di perdere una gran parte degli altri.
   È lo stesso problema di Chanukkà: senza la sfida, senza la contrapposizione a nemici e persecutori c'era il rischio di perdere buona parte del popolo ebraico. Per evitare questo si è scelto, dopo lunga riflessione, di combattere. La sfida di Chanukkà si conclude con una grande vittoria. Quella di Rabbì Chaninà ben Teradion, almeno apparentemente, con una sconfitta. Rabbì Chaninà viene catturato dai romani, avvolto nel Sefer Torà e bruciato vivo. È uno dei tanti martiri della storia ebraica. In quel momento però a una domanda dei suoi allievi risponde che vede una pergamena che brucia e lettere della Torà che volano. Le lettere che volano, la Torà che rimane nonostante tutto rappresentano la vittoria ideale di Rabbì Chaninà, del popolo ebraico.

(Mosaico, 4 dicembre 2015)


«Occidente remissivo fino al suicidio»

Il politologo Robert Spencer: «Si nega l'evidenza affermando che i jihadisti tradiscono l'islam, si pensa alla Turchia musulmana in Europa, si fanno entrare migliaia di rifugiati mediorientali. E intanto loro si infiltrano».

di Francesco Borgonovo

Combattere il terrorismo con la cultura - come qualcuno propone - è una follia. Ciò non significa (...) (...) che, per sconfiggere il radicalismo islamico, a fianco di opportune azioni militari, non serva anche una robusta battaglia culturale. È quella che da anni conduce Robert Spencer. Grande esperto di terrorismo islamico e autore di vari saggi sull'argomento, dirige il sito Jihad Watch (www.jihadwatch.org), che mappa e analizza le attività jihadiste a livello globale. Spencer si occupa di sfatare i luoghi comuni che circolano sull'islam e di combattere il buonismo occidentale, come dimostra il suo libro al vetriolo pubblicato in Italia da Lindau: Guida (politicamente scorretta) all'islam e alle crociate. Dopo la strage di San Bernardino, Spencer ha pubblicato sul suo sito la testimonianza - diffusa dai media americani - di un uomo che lavorava nella zona del massacro. Questo testimone ha raccontato di aver visto, nei giorni precedenti l'attacco, «una mezza dozzina di uomini mediorientali» aggirarsi nell'area. Benché insospettito, ha tenuto per sé l'informazione onde evitare di «passare per razzista».
  Spencer ricorda che la stessa cosa avvenne alcuni anni fa, nel caso del piano jihadista per attaccare la base militare di Fort Dix nel New Jersey. «Il giovane che per caso scoprì il piano inizialmente esitò a contattare la polizia, spaventato dal fatto di poter essere considerato razzista. Questo è ciò che hanno prodotto quattordici anni di pressione sui media da parte del Cair (Council on American-Islamic Relations, ndr) e della sinistra. La gente crede che difendere se stessi e il proprio Paese sia qualcosa di sbagliato».

- Dottor Spencer, dopo gli attacchi di questi mesi possiamo dire che ci sia una guerra in corso? Che tipo di guerra è?
  
«Certamente c'è una guerra in corso. Lo Stato islamico ha dichiarato guerra all'Occidente, e ha spiegato nei dettagli come ha pianificato di condurre questa guerra. Non è una guerra di eserciti convenzionali: i jihadisti aspirano a distruggere l'Occidente attraverso la sovversione e l'infiltrazione».

- Da dove origina questo conflitto? L'Occidente ne è responsabile?
  
«Questo conflitto può esplodere ovunque, visti gli appelli che lo Stato islamico ha fatto agli attacchi di "lupi solitari". L'Occidente non ne è responsabile: l'imperativo del jihad nell'Islam non dipende dalle azioni degli infedeli che sono messi nel mirino».

- Molti sostengono che i terroristi non siano veri musulmani e che l'islam sia in realtà una religione di pace.
  
«Dire che l'islam è una religione di pace è un inganno totale. L'islam è l'unica religione che invita alla guerra contro gli infedeli e alla sottomissione di questi ultimi».

- Nemmeno dopo la morte di Bin Laden Usa e l'Europa non sono riusciti a fermare il terrorismo. Perché?
  
«Perché il jihad globale non dipendeva da Bin Laden. Non si tratta di un movimento che ruota attorno a una figura carismatica. Piuttosto, è basato su un'ideologia che sopravvive anche dopo la morte di Osa-ma Bin Laden».

- Come giudica la reazione dell'Europa agli attacchi di Parigi?
  
«La risposta dell'Europa è consistita nel far entrare migliaia di rifugiati siriani, senza avere alcun modo per verificare se avessero mai compiuto attività jihadiste o se avessero simpatie in questo senso. La reazione è stata anche quella di affermare che i jihadisti non agiscono in nome dell'islam, contrariamente a quanto loro stessi dichiarano. Questa negazione è controproducente al punto tale da essere suicida».

- Crede che la Turchia dovrebbe entrare nell'Ue?
  
«Se accadesse, questo ingresso comporterebbe l'islamizzazione dell'Unione Europea».

- Secondo lei la Turchia e l'Arabia Saudita sono responsabili dell'avanzata dello Stato islamico?
  
«Sì. I sauditi hanno diffuso a livello globale l'ideologia che giustifica lo Stato islamico. I turchi invece non hanno combattuto lo Stato islamico perché quest'ultimo odia i kurdi e Assad, che sono odiati anche dai turchi medesimi».

- Che cosa pensa dell'«islamofobia»? Esiste davvero? I musulmani sono realmente discriminati in Occidente?
  
«"Islamofobia" è un termine creato per forzare la gente a pensare che sia sbagliato resistere al terrore jihadista. In realtà, l'islamofobia non esiste affatto. I musulmani godono di più diritti e libertà in Occidente che nei loro Paesi natali».

- In varie scuole italiane si tolgono i presepi o non si permette ai vescovi di benedire le classi per non offendere culture e religioni diverse. Che ne pensa?
«Penso che queste altre culture non saranno così generose e modeste quando giungeranno al potere. E quel giorno sta arrivando».

- Questo significa che non ci sono solo gli attacchi terroristici: esiste anche uno «scontro di civiltà» diffuso, quotidiano. Come si risolve secondo lei?
  
«Rafforzando il principio che la legge si applica nello stesso modo per tutti. E non consentendo la formazione di enclave in cui vige la shari'a».

- Perché così tanti giovani musulmani, anche se nati e cresciuti in Europa, si radicalizzano?
  
«I giovani musulmani in Europa si radicalizzano perché considerano le attività jihadiste un loro dovere, come prescritto dal Corano e dalla Sunna».

- Quali sono le mosse più urgenti per sconfiggere lo Stato islamico?
  
«L'invio di truppe di terra. Assieme a uno sforzo programmato per combattere le vere radici ideologiche grazie alle quali lo Stato islamico esercita attrazione. L'Occidente, oggi come oggi, non riesce a farlo semplicemente perché i leader occidentali negano l'esistenza di queste radici».

(Libero, 4 dicembre 2015)


Basket - La Dinamo a un soffio dal successo ma vince il Maccabi Tel Aviv

È il Maccabi Tel Aviv a spuntarla nel finale thrilling del round 8 di Eurolega: i giganti sfiorano il successo dopo essere stati sotto oltre la doppia cifra. Finisce 74-76.

SASSARI - Finisce all'ultimo possesso la sfida tra i campioni d'Italia e il Maccabi Tel Aviv: i biancoblu condotti da un super Marquez Haynes, autore di 26 punti, sfiorano il successo giocandosi la vittoria all'ultimo tiro. Gli dei del basket però non concedono alla Dinamo la prima vittoria europea ed è il Maccabi a spuntarla. I ragazzi di coach Calvani escono comunque a testa alta dalla sfida con una squadra blasonata che ha fatto la storia del basket europeo. Coach Marco Calvani ha dovuto fare a meno di David Logan, tenuto fermo precauzionalmente dopo un problema muscolare, e Brent Petway che ha accusato un piccolo fastidio durante il riscaldamento. Ottime prestazioni di Jarvis Varnado, mattatore nei primi due quarti, con 19 punti e 5 rimbalzi a referto, Eyenga (13 pt 4 rb) e Alexander, che ha trovato il ritmo nell'ultimo quarto e messo a segno 10 punti. Doppia doppia di Haynes che ai 26 punti aggiunge 10 falli subiti e 3 assist.

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(Sardegna Oggi, 3 dicembre 2015)


Israele: nuova missione per l'energia rinnovabile ad Abu Dhabi

Il Ministero degli Esteri israeliano ha confermato l'intenzione di aprire una missione per l'Agenzia internazionale per le energie rinnovabili ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti.
Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Emmanuel Nacason ha raccontato a ISRAEL21c che questa sarà la prima missione israeliana in un paese con cui Israele non ha rapporti diplomatici e si tratterà della prima volta in cui cittadini israeliani andranno a vivere negli Emirati Arabi Uniti.
Una delegazione del ministero israeliano degli Affari Esteri ha visitato il quartier generale ed ha incontrato il Sig. Adnan Z. Amini, direttore generale dell'Agenzia a margine della decima riunione del Consiglio di IRENA, che si è tenuto ad Abu Dhabi lo scorso 24 e 25 novembre.
I ministri del governo israeliano avevano già in precedenza partecipato alla conferenza IRENA ad Abu Dhabi nel 2010 e nel 2014, e l'idea di istituire una missione permanente è stata annunciata dopo la visita del 2014.
La missione sarà presidiata dal diplomatico israeliano Rami Hatan. Sembra che inizialmente Hatan andrà da solo negli Emirati Arabi Uniti e che successivamente potrebbero unirsi altri esponenti in base al volume delle attività.

(SiliconWadi, 3 dicembre 2015)


Le Forze di difesa israeliane consigliano alla Marina di limitare la flotta di sottomarini

GERUSALEMME- Le Forze di difesa israeliane hanno consigliato alla Marina di limitare la propria flotta di sottomarini da guerra a cinque unità: quando verrà consegnato il sesto sottomarino di produzione tedesca, il più vecchio verrà dismesso. Nel 2011 Israele ha perfezionato l'acquisto di un sesto sottomarino classe Dolphin dalla Germania. Ieri l'esercito israeliano ha inoltre raccomandato la chiusura della base aerea di Sde Dov a Tel Aviv entro tre anni; gli aerei di stanza presso la base verranno trasferiti a quella di Hatzor, più a sud. Le Forze di difesa prevedono anche di ridurre gli investimenti destinati alle capacità di attacco dell'Iran. Le proposte sono inserite in un piano pluriennale, che prevede il reindirizzamento delle risorse risparmiate all'Aviazione. "Non stiamo costruendo capacità militare al ritmo di uno o due anni fa, ma le Forze di sicurezza hanno bisogno di essere pronte per il momento in cui l'accordo nucleare giungerà a conclusione", ha spiegato un alto ufficiale militari israeliano, citato da "Haaretz".

(Agenzia Nova, 3 dicembre 2015)


Ebrei: se l'Europa non è più casa loro

Intervista a Giuseppe Laras

Rav Giuseppe Laras
Sia l'indomani della strage a Charlie Hebdo e al supermercato della catena kosher Hyper Cacher, sia dopo i recenti attentati che hanno nuovamente insanguinato Parigi. Giuseppe Laras, presidente del Tribunale rabbinico del Centro Nord ltalia, ha scritto al Corriere della Sera. Due lettere, entrambe coraggiose e controcorrente, schiette e che centravano il punto, al di là di ogni conformistica cautela: «Tutti noi, con la viltà, otterremo solo sottomissione. Mai libertà». Per i suoi studi e per i ruoli che ha ricoperto durante la sua vita, Laras è un'autorità in campo internazionale: è stato per venticinque anni rabbino capo di Milano, ha coltivato una profonda amicizia con il cardinale Carlo Maria Martini, e ad aprile, su iniziativa dell'arcivescovo Angelo Scola, è diventalo il primo studioso non cattolico a far parte del Collegio dei dottori dell'Ambrosiana.
  «Siamo in guerra e prendiamo coscienza che siamo solo agli inizi». scrisse il 13 gennaio, sottolineando sia le titubanze nel mondo musulmano nel denunciare il terrorismo sia la grave incapacità occidentale a capire l'islam: un'insipienza mascherata da ipocrisie politicamente corrette che impediscono di «comprendere ciò che accade e chiamarlo per nome». Lui, che per esperienza familiare ricorda ancora quando in Italia le delazioni si «pagavano cinquemila lire a ebreo, ha scritto un monito terribile: «La nostra contemporaneità ricorda tristemente il periodo sinistro tra le due guerre mondiali: una sorta di collasso sistemico. La crisi che viviamo - e in cui per lungo tempo continueremo a vivere - non è economica e demografica soltanto: è una crisi culturale e valoriale, legata alla crisi del cristianesimo e, in un certo senso, della conoscenza della Bibbia, il cardine dell'intera nostra cultura dal punto di vista urbanistico, artistico, musicale, letterario, filosofico, giuridico, politico e religioso».
  Quando la storia si è tristemente ripetuta a novembre, Laras è intervenuto di nuovo con la seconda lettera per denunciare le complicità degli «occidentali "odiatoti di sé"»: «Alleati dell'islam jihadista (Isis, Fratelli Musulmani, Hamas, Al Qaeda, Hezbollah e Iran) sono quei politici, pensatori, storici e religiosi che hanno distorto la pace in pacifismo, la tolleranza e l'inclusione in laissez-faire, la forza della verità in debolezza dell'opinione arbitraria, il dialogo in liceità di ogni pressione, il sano dissenso in intollerante conformismo politically correct».
  Per Laras quel che oggi l'Europa è chiamata ad affrontare è ciò che Israele vive «da decenni: sopravvivere allo jihadismo che nutre menti, cuori e attese politico-religiose di troppi musulmani, anche se non di tutti».

- Rav Laras, c'è un fenomeno di cui si parla poco, eppure ha dimensioni preoccupanti e riguarda l'esodo di ebrei che abbandonano l'Europa per trasferirsi in Israele. E tutto ciò, ben prima che accadesse il noto attacco del 9 gennaio all'Hyper Cacher. Nel 2014, 6.500 ebrei hanno lasciato la Francia per Israele, al pari di 323 nostri connazionali. In tutta Europa sono stati 17-18 mila solo lo scorso amo. Secondo i dati diffusi dall'ente addetto all'immigrazione in Israele, nei prossimi dieci anni 120 mila ebrei francesi si trasferiranno in Israele. Anche in Sottomissione, il romanzo di Michel Houellebecq, l'amante ebrea del protagonista abbandona la Francia per «tornare a casa». La Francia, e più in generale l'Europa, è un luogo inospitale per gli ebrei? E cosa significa per il Vecchio Continente il loro esodo?
  Si tratta di questioni difficili e dolorose. Gli ebrei italiani che abbandonano l'Italia alla volta di Israele possono sembrare relativamente pochi, ma, rispetto ai numeri complessivi dell'ebraismo italiano, sono una cifra rilevante. Specie perché si tratta, per lo più, di giovani. Tra le cause vi sono i problemi economico-lavorativi legati alla crisi economica, come pure l'invecchiamento progressivo di molte comunità - espressione della crisi demografica europea -, riducente antiche comunità ebraiche a pallide espressioni del passato. Vi sono, tuttavia, anzitutto sentimenti aggressivi antisemiti, legati all'antisionismo e alla questione israelo-palestinese, alimentati abbondantemente da certi ambienti politico-culturali terzomondisti, come pure legati a molte voci del mondo arabo-islamico, europeo e non. Vi è poi il fatto che, abbastanza a breve, in Europa, per semplici motivi demografici, la voce "araba" sarà molto forte e, anche nell'immaginario della persona comune, l'ebreo tornerà a essere l'estraneo, inchiodato a una proiezione distorta e schizofrenica di "vittima" - con un senso di colpa generico da parte di molti occidentali - e di presunto "carnefice" per la questione israeliana, con conseguente funzione assolutoria per la cultura europea rispetto ai suoi passati antisemiti. Non è un caso che, affossato il riconoscimento delle radici ebraico-cristiane dell'Europa dalla cultura laicista e da un certo cristianesimo, dai medesimi si additi ora, per varie ragioni, il futuro "islamo-cristiano" dell'Occidente europeo. La soppressione dell'aggettivo "ebraico" è emblematica, non solo per le sorti dell'ebraismo europeo. Aggiungo che purtroppo il dialogo ebraico -cristiano è arrivato troppo tardi - e troppo debolmente - per incidere in senso contrario in seno a questa civiltà e a questa cultura. E allora stereotipi antisemiti torneranno anche in seno al mondo cristiano, visto che, per esempio, il Corano e gli Hadith sono pieni di riferimenti antigiudaici.

- Nella lettera che scrisse al Corriere l'indomani della strage di gennaio, lei pose due domande ai teologi musulmani. Nella prima, riassumendo, chiese se fosse possibile «per l'islam (...) accettare teologicamente, apprezzandolo, il concetto di cittadinanza politica. anziché quello di cittadinanza religiosa, confliggente quest'ultimo con i valori occidentali e pericoloso per le comunità cristiane ed ebraiche, che, in qualità di minoranze sarebbero esposte a intolleranze e arbitrio». E la seconda: poiché per l'islam «gli ebrei hanno alterato la Rivelazione divina e i cristiani hanno pratiche cultuali, oltre a condividere con i primi la Rivelazione alterata, dal sapore idolatrico» è possibile «per l'islam in ossequio al Corano e per necessità religiosa interiore dei musulmani osservanti, e non solo perché sollecitato da ebrei e cristiani, apprezzare positivamente. in una prospettiva teologica. ebrei e cristiani in relazione alle problematiche sollevate da questo assunto coranico?». La mia domanda è questa: qualcuno le ha risposto? E soprattutto: pensa che l'islam possa fornire una risposta a questi interrogativi senza entrare in contraddizione con se stesso?
  Una risposta puntuale a queste domande non c'è stata. Mi rendo ben conto che sono domande serie e problematiche. La cosa drammatica, tuttavia, è che queste domande siano state snobbate, non raccolte e non problematizzate seriamente da pensatori, politici. intellettuali. religiosi, teologi ebrei. cristiani, laici - liberali e libertini -, che le riprendano e invitino pressantemente il mondo islamico a riflettere su questi temi, specie in seno alle nostre società secolarizzate. Come pure non si inviti, per converso, il mondo europeo, informandolo puntualmente, a riflettere proprio su questi problemi.

- Nella lettera pubblicata sul Corriere il 18 novembre lei ha scritto: «Il dramma è che. con cieca ignoranza. la cultura laicista considera. semplificandolo, l'islam politico realtà consimile e analoga a cristianesimo ed ebraismo e alle loro storie, anch'esse non prive di ombre. Le cose non stanno così». Lei ha ragione, eppure vediamo ancora oggi che gran parte del mondo culturale e politico europeo pensa di poter fermare il terrorismo imponendo una sorta di "religione laica" che releghi le altre, al massimo, nel privato. Come se ne esce?
  Per ora sembra che non se ne esca. Quello del "politically corrcct" è un nuovo totalitarismo, estremamente subdolo, che in molte sue espressioni culturali e politiche lo stesso cattolicesimo contemporaneo si è auto-inoculato, con una sorprendente forza ottundente dei problemi. Bisogna resistere, mantenendo cervello e nervi saldi e alzando ancora di più i nostri standard culturali e informativi. È estremamente faticoso e non privo di sconforto.

- Oggi c'è chi cerca di "venire a patti col diavolo". E' già accaduto, lei lo ha più volte fatto notare, col nazismo prima del Secondo conflitto mondiale. Ma, ha scritto sempre sul Corriere, «arretrando si arretra sempre più». Per "avanzare" cosa serve?
  In alcuni casi anche non arretrare è già una conquista ...

- Nella prospettiva del jihad, dopo il popolo del sabato tocca a quello della domenica. E' quello che vediamo accadere oggi in molti paesi del Medio Oriente e dell'Africa. I cristiani hanno sottovalutato quello che stava accadendo a voi ebrei? Cosa pensa del fatto che i cristiani occidentali sembrino molto timidi nel denunciare le persecuzioni subite dai propri fratelli nel resto del mondo?
  Il jihad non è unicamente un fenomeno bellico-politico. Si tratta, per moltissimi musulmani religiosi, onesti e integri, anzitutto di un fatto eminentemente spirituale, ossia di una lotta dell'anima umana contro le forze negative e perverse che possono abitare in essa. Non possiamo tacere questa realtà, pena essere davvero "anti-islamici". Vi è poi il jihad cui fa riferimento lei, che certamente esiste e che pervasivamente alberga nei cuori e nelle attese di molti. E il movente non è la presunta povertà, come erroneamente qualcuno crede. Basti, al riguardo, vedere le biografie di quasi tutti i terroristi, come pure i grandi finanziatori del jihadismo contemporaneo, dietro cui si muovono capitali enormi, ivi inclusi eccezionali investimenti economici e culturali in Occidente. In questo senso, il problema è antico. Si pensi, oltreché a noi ebrei, ai cristiani armeni e ai cristiani caldei e alle loro storie. Purtroppo i cristiani delle Chiese di Occidente quasi mai hanno letto ciò che subirono i loro fratelli di Oriente. Ripeto, si pensi alla storia armena. Al riguardo vi è, oltre al diniego, abissale ignoranza da parte di troppi occidentali. Purtroppo, quindi, con molta amarezza, non mi stupisce che la storia degli ebrei sefarditi di Oriente sia snobbata, non conosciuta o smussata nella sua gravità dagli ascoltatori europei. Inoltre, purtroppo, il cristianesimo di Occidente, che oggi è in crisi identitaria anche per il suo trovarsi "minoranza erosa" in casa propria, ha sempre ragionato - e tuttora ragiona - in un'ottica di "maggioranza", che ritenne quelle minoranze cristiane, antiche e distanti per simboli e cultura, sacrificabili, specie nell'incontro-scontro con un'altra "maggioranza", quella islamica, che nella sua storia ha sempre avuto l'autocoscienza mai scalfita di "maggioranza civilizzatrice".

(Tempi, 3 dicembre 2015)


La posizione di Giuseppe Laras è in netto contrasto con quella del papa. Naturalmente il gesuita Bergoglio non l’ammetterà mai in pubblico, perché non fa parte dello stile avvolgente che si addice a un papa. Il quale, essendo capo della chiesa “cattolica”, cioè universale, e presentandosi in quanto tale come il maggiore paladino della “pace”, deve avere verso ogni interlocutore una faccia sorridente. Pochi giorni fa Francesco papa ha fatto visita agli islamici in una moschea, il prossimo gennaio visiterà gli ebrei in sinagoga a Roma. Che cosa dirà agli ebrei in fuga dall’Europa? Che cosa gli chiederanno gli ebrei? Che cosa risponderà Bergoglio? Sarà interessante fare un confronto fra quello che dirà e quello che ha detto Laras. M.C.


Monaco 1972, l'orrore esce dagli archivi: «Atleti israeliani torturati dai palestinesi»

Yossi Romano fu evirato dai terroristi di Settembre Nero. Il New York Times non pubblica le foto.

Gli atleti israeliani massacrati dai terroristi palestinesi
La squadra di Israele alle Olimpiadi del 1972
GERUSALEMME - Prima d'aprire la cartelletta con le foto, l'avvocato Pinchas Zeltzer le chiese se volesse un dottore di fianco. nana Romano rispose di no. Aspettava da vent'anni quelle immagini di suo marito. Anche se non se le aspettava così: «Fu dolorosissimo. Fino a quel giorno, avevo avuto di Yossef il ricordo d'un giovane uomo con un grande sorriso e le fossette. In quel momento, si cancellò tutto lo Yossi che conoscevo». Accadde nel 1992, lo rivela ora il New York Times: il governo tedesco ha declassificato gli scatti terrificanti, «non pubblicabili», di ciò che i palestinesi di Settembre Nero fecero agli undici atleti israeliani presi in ostaggio alle Olimpiadi di Monaco 1972. I peggiori riguardano proprio Yossi Romano, il sollevatore di pesi che aveva provato a ribellarsi. Violentato, evirato, lasciato agonizzare davanti ai compagni di squadra. Ai quali peraltro, prima di morire, non furono risparmiate le torture: carbonizzati nel blitz per liberarli, avevano tutti le ossa spezzate.
  È tutta un'altra storia: i fedayn dell'Olp hanno sempre sostenuto di non aver voluto uccidere, «gli ostaggi morirono quando la polizia ci attaccò». Le foto delle sevizie confermano invece quel che andava dicendo la vedova Romano: «Erano venuti alle Olimpiadi per colpire duro. Per uccidere». 69 anni, padre pistoiese e madre libica, nana s'è rifatta una vita ma non s'è mai fatta una ragione di quei morti. Di come morirono. Nelle sue azioni legali contro le autorità tedesche, quando esigeva trasparenza, s'era regolarmente sentita rispondere che non esistevano documenti riservati. Nel 1992, scaduto l'obbligo del segreto, fu un ex funzionario dei servizi di Bonn a spedire all'avvocato So pagine di dettagli. E la cartelletta con quelle foto: nana e Ankie Spitzer, moglie dell'allenatore di scherma André ucciso assieme a Yossi Romano, insistettero per vederle, ricordarle per sempre, non parlarne mai più. Fino a oggi, al film-documentario «Munich 1972 & Beyond» che uscirà in America a gennaio e, per la prima volta, le mostrerà.
  Ce n'era bisogno? Sì, dice nana. È materia che ancora disturba: sono 40 anni che lei chiede d'aprire ogni Olimpiade ricordando la strage. Ma il Cio, per non avere grane con molti Paesi arabi, anche a Rio 2016 eviterà una cerimonia a parte: gl'israeliani saranno commemorati, sì, ma come tutti gli atleti morti per varie ragioni in 120 anni di Giochi. È anche materia che continua a scottare. Per dirne una: l'architetto della strage, Abu Daud, prima di morire nel 2010 a Damasco, rivelò che l'operazione era stata finanziata con 9 milioni di dollari. E che quei soldi erano stati trovati da un oscuro funzionario dell'Olp che si chiamava Abu Mazen. «Invenzioni», ha sempre replicato l'entourage del presidente palestinese. Cinque anni fa però, alla Mukata di Ramallah, fecero sensazione la passatoia, i fiori, i ventun colpi sparati al cielo in onore di Amin Al Hindi. Era l'ultimo palestinese sopravvissuto al gruppo di Monaco e, negli anni successivi, alla vendetta del Mossad. Gli dedicarono funerali solenni. E Abu Mazen s'inchinò: «Quest'uomo - disse - ci mancherà».

(Corriere della Sera, 3 dicembre 2015)


Gli scrittori iraniani perseguitati trovano riparo (ed editori) in Israele

di Giulio Meotti

ROMA - Novantanove frustate per aver "insultato la divinità", oltre che per aver stretto la mano in pubblico a una donna che non fa parte della sua famiglia. E' la condanna che il regime iraniano ha appena inflitto a Mehdi Mousavi, il poeta reo di non aver seguito i recenti dettami dell'ayatollah Ali Khamenei, che ha stabilito le regole di ciò che la "Guida Suprema" ritiene i "buoni poeti islamici" debbano osservare durante la scrittura.
   Rahim Safavi, capo dei pasdaran integralisti, lo aveva promesso: "Dovremo tagliare la gola a qualcuno e la lingua a qualche altro". Il poeta Said Sultanpour venne rapito il giorno del matrimonio del figlio e ucciso in una prigione di Teheran. A Rahman Hatefi-Monfared tagliarono le vene e venne lasciato sanguinare a morte nella prigione di Evin. A Mehdi Shokri cavarono gli occhi, perché aveva scritto un poema beffardo in cui sosteneva che l'immagine dell'ayatollah Khomeini era apparsa in una luna piena. "Spero di vedere il giorno in cui nessuno sarà mandato in prigione in questa terra per aver scritto poesie", aveva detto Mehdi Mousavi, condannato a undici anni di carcere oltre che alla sua porzione di frustate. E' andata meglio al più celebre poeta della giovane generazione, Payam Feili. Qualche giorno fa il ministero dell'Interno israeliano, guidato da Silvan Shalom, gli ha rilasciato un permesso di ingresso nello stato ebraico. Sì, i perfidi sionisti hanno aperto le porte al cittadino di uno stato nemico, un iraniano. La visita di Feili coincide con la messa in scena a teatro a Tel Aviv della sua opera "Le tre stagioni", bandita dagli ayatollah.
   Poeta omosessuale, Feili ha subìto la censura, gli arresti, le minacce e le vessazioni del regime iraniano, prima di riparare in Turchia e adesso in Israele. E' da undici anni che una sua opera non viene pubblicata in farsi e gli ayatollah costrinsero persino la casa editrice per la quale Feili lavorava come editor a licenziarlo. Lo scorso luglio, in una intervista al portale israeliano Nrg, Feili aveva espresso il desiderio di visitare lo stato ebraico. Così il ministro della Cultura, la likudnik Miri Regev, ha chiesto al ministro Shalom di concedergli il permesso di ingresso. Appena arrivato a Tel Aviv, il poeta iraniano ha dichiarato: "Ma questo è il più bel posto del mondo". Doveva ricordarsene l'Alto rappresentante della politica estera dell'Ue, Federica Mogherini, che in visita in Iran lo scorso luglio aveva parlato di "un'alleanza di civilizzazioni" tra Europa e Iran. La storia di Feili e di tanti altri dissidenti iraniani ci indica il contrario. Ci parla dell'unicità di Israele, l'unico porto franco di tutto il medio oriente per le minoranze religiose e sessuali: a sud, ci sono le fruste dei custodi dell'Arabia Saudita; a nord, i palazzi da cui vengono gettati gli omosessuali dallo Stato islamico; a est l'Iraq e poi l'Iran. Si affaccia sul Mediterraneo, a Haifa, il quartier generale della minoranza sincretista Bahai, perseguitata dal regime iraniano. Hanno trovato riparo in quel piccolo stato, più piccolo della Toscana, una goccia con i suoi ventimila chilometri quadrati contro una superficie di tredici milioni di chilometri quadrati dei paesi arabo-islamici. In una grande mezzaluna che va da Casablanca a Mumbai c'è soltanto il libero stato d'Israele.

(Il Foglio, 3 dicembre 2015)


Il miracolo dell'acqua in Israele

Scienziati e politici israeliani hanno capito da tempo che in Medio Oriente l'acqua non va divisa: va moltiplicata.

Trent'anni fa Boutros Boutros-Ghali, un politico e diplomatico egiziano che nel 1992 sarebbe diventato Segretario Generale delle Nazioni Unite, mise in guardia rispetto a future guerre mediorientali. La sua previsione era corretta, ma si sbagliava sulle cause. Avrebbe dovuto preoccuparsi dell'aumento dei movimenti estremisti all'interno del mondo islamico; invece, ciò che lo preoccupava era acqua.
L'acqua era un tema su cui lui e altri autorevoli personaggi internazionali tornavano di frequente. La loro soluzione? Dieci anni fa, in un'intervista alla BBC, Boutros-Ghali esortava la comunità internazionale "a garantire un'equa suddivisione delle risorse idriche fra le nazioni".
Per fortuna c'erano quelli che la vedevano in modo diverso. Erano d'accordo che, senza acqua pulita e abbondante, i poveri sarebbero rimasti poveri e le nazioni in crescita avrebbero smesso di crescere. Ma non credevano che la risposta fosse autorizzare dei burocrati transnazionali a suddividere una risorsa scarsa in base ai loro criteri di equità. L'alternativa? Rendere meno scarsa la risorsa. Renderla abbondante....

(israele.net, 3 dicembre 2015)


Israele - Scoperto un sigillo di 2700 anni fa

La bolla appartenuta al personaggio biblico Ezechia, re di Giudea, ha le dimensioni di un'unghia.

 
La bolla appartenuta 2700 anni fa a Ezechia, uno dei re di Giudea.
Un sigillo appartenuto 2700 anni fa a uno dei re di Giudea, Ezechia, è stato scoperto dagli archeologi dell'Università ebraica di Gerusalemme a due passi dalle mura della Città Vecchia.
La bolla, ha precisato l'archeologa Eilat Mazar «ha quasi le dimensioni di un'unghia: 12 millimetri per 13».

 Personaggio biblico
  Ma in quello spazio molto ridotto artigiani dalle capacità che oggi lasciano strabiliati riuscirono ad inserire un testo in ebraico arcaico: «Hezkiahu (figlio di) Achaz re di Giudea».
Aggiunsero anche un simbolo grafico che rappresenta la vita ed un emblema scelto dal monarca nella fase finale del suo regno, protrattosi negli anni 727-698 a.C.: un sole con le ali stese verso il basso.
Ezechia (in ebraico il suo nome significa 'Rafforzato dal Signore') viene menzionato ripetutamente dalla Bibbia e presentato come un monarca dotato di grandi capacità.

 «Un saluto dal passato»
  Anche se in passato reperti analoghi erano stati localizzati in negozi di antiquariato, la dottoressa Mazar ha precisato che è questa la prima volta che una bolla direttamente appartenuta a un re di Israele o della Giudea viene riportata alla luce nel corso di scavi archeologici scientifici, nel posto preciso dove era rimasto per millenni. «È una scoperta stupefacente», ha concluso, «come ricevere un saluto enorme dal passato remoto».

(Lettera43, 2 dicembre 2015)


Tel Aviv: appuntamento con "AperiKucha-Made in Italy"

Terzo appuntamento per "AperiKucha - Made in Italy", iniziativa organizzata dai giovani della comunita' italiana d'Israele. Domani sera, presso il Tutus Karex a Tel Aviv, giovani imprenditori racconteranno le loro esperienze, seguiti dal concerto di Raiz, cantautore e voce degli Almamegretta che vive tra Napoli e Tel Aviv. Le sue canzoni in italiano, napoletano ed ebraico rappresentano la contaminazione della musica e dei generi - tra funk, soul, rock, reggae, electro e dub - con un legame particolare al Mediterraneo. L'evento ha l'obiettivo di far conoscere e mettere in contatto le numerose e variegate attivita' svolte da giovani di tutte le nazionalita', il cui filo conduttore e' il legame con l'Italia e il Made in Italy. La serata, che si svolgera' in lingua inglese, prende spunto dal cosiddetto "Pecha Kucha", schema di presentazione nato in Giappone e composto da 20 diapositive per 20 secondi ciascuna. L'iniziativa e' patrocinata dall'ambasciata italiana in Israele che, grazie alla collaborazione con "AperiKucha - Made in Italy", vuole avvicinare e coinvolgere la crescente comunita' giovanile italiana in Israele.

(Farnesina, 2 dicembre 2015)


L'alchimia moderna: utilizzare la CO2 per produrre combustibile

Start-up israeliana intende commercializzare il know how per il 2018.

REHOVOT (Israele) - Sdoganare la CO2 dalla panoplia dei gas serra che soffocano il pianeta. Questo l'obiettivo promesso da una start-up israeliana che intende sviluppare una tecnologia che consenta alle emissioni di anidride carbonica, tra i principali responsabili dell'effetto serra, di essere riciclate come carburante di pronto utilizzo.
Il procedimento ideato dalla NewCO2Fuels, società di Rehovot, nel sud d'Israele, suona complicato, anche perché lo è, ma i fondatori della Ncf garantiscono sul suo potenziale per combattere i cambiamenti climatici.
Togliere alla CO2 la sua aura venefica e diabolica è una scommessa impegnativa.
"Il mondo sta mettendo in circolo ogni anno un surplus di 40 milioni di tonnellate di CO2. E non smetterà" sottolinea David Banitt, presidente di Ncf. Perché non possiamo permetterci di fare a meno di elettricità e di usare l'acciaio. Efficienza e riduzione sono cose buone ma dobbiamo trovare una soluzione in positivo".
All'istituto Weitzman di Rehovot i ricercatori israeliani stanno perfezionando la centrale solare capace di produrre un idrocarburo, il syngas, a partire dall'anidride carbonica dell'atmosfera. Intorno all'edificio, un campo di pannelli solari rifrange l'energia accumulata su un unico specchio, una sorta di gigantesca lente d'ingrandimento che consente di riscaldare un reattore a oltre 1.000 oC.
"Il calore passa nel reattore ed è qui che si produce la dissociazione del gas" spiega Uzi Aharoni, direttore operativo della NewCO2Fuels. "Nel reattore immettiamo CO2 e acqua, da cui uscirà il syngas, un insieme di monossido di carbonio e idrogeno, con un flusso separato di ossigeno". E questo syngas potrà in seguito essere utilizzato come carburante, dichiara molto sicuro di sé il moderno alchimista israeliano, a fianco del suo pentolone da stregone hi-tech.
Il reattore potrà essere installato a fine ciclo di produzione di fabbriche che generano grandi quantità di calore e di CO2 come, per esempio, quelle siderurgiche, riducendo e mettendo a profitto sotto forma di combustibile le emissioni.
Ottenere carburante impiegando solo l'aria, il sole e otto anni di ricerche d'avanguardia sembra troppo bello per essere vero. Ma la NewCO2Fuels intende commercializzare il procedimento entro il 2018 per conquistarsi un posto al sole in un mercato stimato intorno ai 23 miliardi di euro l'anno.

(askanews, 2 dicembre 2015)


Italia-Israele: on-line i bandi per la cooperazione scientifica e industriale

ROMA - Dalla medicina allo spazio passando per le tecnologie applicate al cambiamento culturale e demografico.
   Anche per il 2016 Italia e Israele rinnovano la cooperazione in ambito scientifico e industriale e pubblicano due bandi per la raccolta dei progetti da finanziare congiuntamente nel prossimo biennio. Le domande potranno essere presentate da imprese, universita' e centri di ricerca italiani congiuntamente con partner israeliani entro il 7 marzo e dovranno riguardare i settori prioritari della collaborazione bilaterale in materia: medicina, agricoltura, ambiente, nuovi fonti di energia, innovazione dei processi produttivi, tecnologie dell'informazione e spazio per la componente industriale; malattie neurodegenerative a carico del sistema motorio e nuove tecnologie applicate ai fenomeni migratori per la componente scientifica (dettagli a questa pagina web). Capofila dell'iniziativa e' il ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (Maeci) per parte italiana e il ministero della Scienza, Tecnologia e Spazio (Most) e il Ministero dell'Economia (Iserd) per parte israeliana, enti coordinatori per l'attuazione dell'accordo intergovernativo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica firmato a Bologna nel 2000 ed entrato in vigore nel 2002. "Ad oggi, grazie agli strumenti forniti dall'Accordo, sono stati realizzati 127 progetti di sviluppo industriale e 50 progetti di ricerca di base, con il coinvolgimento delle migliori realta' scientifiche e produttive di Italia e Israele.
   Nostro obiettivo e' sfruttare ulteriormente le potenzialita' dell'Accordo ed e' per questo che, a partire dal 2016, i team che presenteranno domanda di collaborazione per lo sviluppo di progetti industriali potranno, tra l'altro, accedere ad un anticipo sui finanziamenti accordati in seguito al processo di valutazione", ha spiegato Roberto Cantone, capo dell'Unita' per la cooperazione scientifica e tecnologica del Maeci, nell'ambito di un evento di presentazione del bando che si e' svolto alla Farnesina alla presenza di oltre 70 tra enti di ricerca, universita' e associazioni industriali di categoria.
   "Israele e' il terzo Paese al mondo per capacita' innovativa e qui l'Italia e' vista come una valido partner nella fase di industrializzazione dei prodotti e delle tecnologie, grazie alla diversificazione, flessibilita' ed estensione del suo sistema industriale. Tali sinergie hanno trovato diretta applicazione nei sette laboratori congiunti italo-israeliani che, in meno di quindici anni e grazie all'Accordo in questione, e' stato possibile realizzare", ha aggiunto Stefano Boccaletti, addetto scientifico all'ambasciata d'Italia a Tel Aviv. Tra le novita' del 2016 anche il "Premio Rita Levi Montalcini" in fase di istituzione per favorire la mobilita' di studiosi di prestigio internazionale.

(AGI, 2 dicembre 2015)


Israele - Presentato un nuovo blindato, sarà senza pilota e radiocomandato

Il nuovo mezzo militare potrà essere usata massicciamente dal 2025. Servirà in zone di coflitto.

di Gabriele Bertocchi

I
 
Il nuovo blindato israeliano
l ministero della difesa di Israele ha avviato attraverso il Research and Development Bureau un programma di sviluppo per veicoli blindati a guida autonoma.
Il progetto che fa parte di un'attività globale che coivolge mezzi aerei e navali, sottomarini compresi, con la prospettiva di eliminare il 90% degli uomini nelle missioni.
Infatti visti gli enormi passi avanti compiuti nel settore della guida autonoma e del controllo a distanza, si arriverà presto a una vera e propria rivoluzione della attività militari e non solo. Alcuni di questi progressi ahnno portato alla sviluppo, dopo 5 anni di lavoro, alla versione definitiva del primo UGV (unmanned ground vehicle). Presentato nell'ambito di un convegno internazionale dedicato a questi temi, potrà essere impiegato massicciamente nel 2025 in attività di controllo dei confini e degli obiettivi sensibili. Il mezzo grazie all'assenza dello spazio destinato al pilota ed all'equipaggio potrà essere più leggero e meno costoso, senza però rinunciare alla blindature che andranno a proteggere i sensori e sistemi di controllo dell'ambiente esterno. Questi, infatti, saranno la chiave di volta che permetterà la sorveglianza a distanza di territori pericolosi e in condizioni proibitive.
Video

(il Giornale, 3 dicembre 2015)


Israele ammette per la prima volta: «In Siria bombardiamo anche noi»

Obiettivo Hezbollah (ma senza irritare i russi).

di Michael Sfaradi

Mentre gli aerei russi e francesi continuano a martellare le basi di Daesh in Siria e Iraq, lo scambio di accuse fra Mosca e Ankara dopo l'abbattimento dell'aereo russo non si placa e in molti temono un ritorno di fiamma che possa portare le due nazioni a uno scontro militare. E quest'ultima ipotesi non fa dormire sonni tranquilli ai vertici della Nato. In un Medioriente con venti di guerra che arrivano da tune le direzioni incrinando vecchie alleanze e creandone di nuove, a prima vista improbabili, ogni giorno porta novità.
   Quella di ieri arriva da Israele dove il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato alla commissione della Galilea riunitasi ad Akko (San Giovani d'Acri). Netanyahu ha rivelato che oltre ad operare a ridosso del confine del Golan per aiutare i feriti della guerra civile in Siria, azione umanitaria nei confronti della popolazione civile e anche dei miliziani delle fazioni in lotta che va avanti da quando sono cominciate le ostilità, le forze armate dello Stato ebraico sono impegnate in missioni volte a fermare il passaggio di anni dalla Siria al Libano. Si tratta soprattutto di missili a media e lunga gittata un tempo appartenenti all'ex esercito siriano ora caduti in mano ai ribelli. Queste missioni oltre ad ostacolare il traffico d'armi servono a impedire che forze nemiche, iraniane o fedeli a Teheran, si avvicinino al confine del Golan.
   Armi pesanti verso il Libano e presenza iraniana: questi i punti più volte messi in risalto dai rapporti di intelligence che negli ultimi mesi sono arrivati sul tavolo del consiglio di difesa. Da tempo Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah, minaccia, spalleggiato da Teheran, di scatenare l'inferno su Israele e a Gerusalemme prendono sul serio le intimidazioni, da qui tutto il lavoro di prevenzione attuato nei punti nevralgici di una regione, quella siriana, ormai fuori controllo. Anche se voci di corridoio da tempo davano per certo interventi di questo tipo la notizia, ormai confermata, oltre ad a ungere preoccupazione nella popolazione civile israeliana getta altra benzina sul fuoco mediorientale. Con il discorso di oggi Netanyahu ha finalmente chiarito il perché della sua alleanza con la Russia di Putin e ha anche dato la conferma implicita che erano israeliani gli aerei che nelle scorse settimane e a più riprese hanno bombardato i convogli di Hezbollah al confine fra Libano e Siria. Se la politica è l'arte del compromesso da questo quadro confuso solo un particolare è chiaro, per Israele i russi sono intoccabili, ma tutto quello che si muove verso il Golan e verso il Libano è visto come una minaccia da eliminare.

(Libero, 2 dicembre 2015)


Il patto Israele-Russia sulla Siria certifica il gap fra Bibi e Obama

Altro che Erdogan. Gerusalemme accetta gli sconfinamenti degli aerei russi per colpire in Siria, in cambio attacca Hezbollah.

di Redazione

ROMA - Tra le molte contraddizioni della guerra siriana, l'accordo tattico tra Israele e la Russia iniziato dopo l'inizio dei bombardamenti di Mosca mostra la necessità per gli attori regionali di gestire i vari fronti della guerra, e al tempo stesso il logoramento delle relazioni tra Gerusalemme e il suo migliore alleato, gli Stati Uniti. Ancora ieri, a una settimana dall'incidente aereo tra Turchia e Russia in cui i caccia di Ankara hanno abbattuto un jet di Mosca accusandolo di aver violato lo spazio aereo turco, Barack Obama ha lodato pubblicamente gli sforzi del collega Erdogan contro lo Stato islamico e sostenuto il suo diritto a difendere il proprio spazio aereo. Poche ore dopo il premier israeliano, Benjamin Nethanyhau, ammettendo per la prima volta in pubblico che Israele di tanto in tanto è intervenuto in territorio siriano per attaccare Hezbollah, sottolineava invece la cooperazione con la Russia.
  Prima di lui, alcuni funzionari israeliani avevano riconosciuto pure che nelle scorse settimane i protocolli di sicurezza hanno impedito che succedesse un incidente simile a quello turco anche in Israele. Il ministro degli Esteri Moshe Ya'alon ha detto per esempio ai giornalisti che un jet russo è entrato per sbaglio 1,5 chilometri all'interno dello spazio aereo israeliano nelle scorse settimane, ma che è tornato indietro dopo essere stato avvertito dall'aviazione di Gerusalemme. "I jet russi non vogliono attaccare noi e quindi non c'è alcuna ragione di abbatterli, anche se c'è stato qualche tipo di errore", ha detto Ya'alon, aggiungendo che appena l'aereo è entrato nello spazio israeliano l'errore è stato "immediatamente corretto attraverso il canale di comunicazione" che Israele e Russia hanno instaurato dopo l'inizio dei bombardamenti di Mosca in Siria. Da settembre i due paesi hanno deciso di stabilire una "joint committee" per coordinare le loro attività militari in Siria.
  Grazie a questo accordo, i russi avvertono in anticipo Gerusalemme tutte le volte che i loro jet volano vicino al confine israeliano, e gli israeliani mostrano una certa tolleranza anche in caso di sconfinamento accidentale - la stessa tolleranza che alla Turchia è mancata completamente. Queste misure di sicurezza concordate tra i due paesi danno a entrambi la possibilità di perseguire i propri obiettivi in Siria, e sono molto più avanzate dei tentativi di "deconfliction" messi in pratica dalle due forze che bombardano in Siria, la Russia e la coalizione a guida americana. La tolleranza israeliana è giustificata dalla tolleranza russa: Israele bombarda, ogni volta che l'intelligence fornisce informazioni al riguardo, uno dei principali alleati della Russia in Siria, l'organizzazione terroristica Hezbollah. Netanyahu lo ha riconosciuto ieri, dicendo che Israele colpisce in Siria per impedire trasferimenti di armi a Hezbollah in Libano.
  L'ultimo raid è avvenuto nella zona di Qalamoun, dove i jet israeliani hanno colpito un convoglio di Hezbollah uccidendo 13 persone e facendo decine di feriti tra truppe siriane e membri del Partito di dio. Un attacco simile, con l'intento di prevenire il trasferimento a Hezbollah di armi, è stato condotto la settimana scorsa. Secondo il generale Amos Gilad, direttore dell'ufficio degli Affati politico-militari del ministero degli Esteri israeliano, l'accordo stipulato con la Russia dà a Israele la libertà di colpire i traffici di Hezbollah che minacciano la sua sicurezza. Nonostante ciò, ancora due giorni fa Putin ha incontrato in un bilaterale Netanyahu a Parigi, proprio mentre rifiutava una richiesta simile del collega turco Erdogan, così coccolato da Obama. I leader di Gerusalemme e Mosca hanno espresso soddisfazione per il coordinamento tra eserciti, i cui rappresentanti si sono incontrati ieri per approfondire la loro azione comune in Siria.

(Il Foglio, 2 dicembre 2015)


Secondo Abu Mazen, assassinare israeliani è una forma di lotta "pacifica"

La realtà alla rovescia della (micidiale) retorica palestinese.

Una recente dichiarazione di Abu Mazen spiega come mai il presidente dell'Autorità Palestinese non ha condannato neanche uno dei 22 omicidi di israeliani perpetrati in questi ultimi due mesi di terrorismo palestinese, benché continui ad affermare davanti alla comunità internazionale di essere contrario al terrorismo.
Parlando dell'attuale ondata di aggressioni palestinesi, che al momento di questa dichiarazione di Abu Mazen aveva già causato l'assassinio a sangue freddo di 14 israeliani e il ferimento di altri 167 nel corso di 65 attentati all'arma bianca e 8 attentati con armi da fuoco, Abu Mazen ha affermato alla tv dell'Autorità Palestinese che tutto questo rappresenta una "rivolta pacifica"....

(israele.net, 2 dicembre 2015)


Ecco come l'Occidente si è illuso

Niall Ferguson, lo storico di Harvard, parla al Foglio. Le esitazioni croniche dell'Europa sulla guerra e l'autocensura sull'immigrazione. "Ci ricordiamo delle nostre libertà solo dopo atrocità come Parigi. E dimentichiamo subito".

di Giulio Meotti

 
Niall Ferguson
ROMA - Dieci anni fa, dalle colonne del New York Times, Niall Ferguson parlò di un'"Eurabia" rassegnata all'"islamizzazione strisciante di una cristianità decadente". Allora il grande storico ed economista scozzese la intuì come "ipotesi plausibile". Oggi Ferguson ritiene che si tratti di una realtà impossibile da esorcizzare. Fra gli accademici più in vista del mondo, autore di bestseller come "The Ascent of Money" e "Civilization", docente di Storia dell'economia a Harvard (il prossimo anno passerà a Stanford), fra i maggiori opinion maker anglofoni e firma dei quotidiani di maggior tiratura internazionale, come il Financial Times, Ferguson sta completando la seconda parte della biografia di Henry Kissinger. In questa intervista al Foglio, Ferguson parla della crisi d'identità dell'Europa dopo gli attacchi terroristici di Parigi. "L'Europa affronta tre tipi di problemi. Il primo è una esitazione cronica su cosa fare mentre gli islamisti avanzano in nord Africa e in medio oriente, in particolare mentre i conflitti in Siria, Iraq e Libia subiscono una escalation. Troppa gente pensa ancora alla storia semplicistica dell'ascesa dell'islamismo - sia come ideologia politica che come network di violenza organizzata - ovvero alla colpa dell'occidente e che resistergli renderà soltanto peggiori le cose. Il secondo aspetto è una drammatica sottovalutazione dei pericoli politici di una immigrazione incontrollata dentro l'Unione europea. L'idea di una Europa senza confini è sempre stata utopistica e ora, con 220 mila persone che entrano in Europa via mare ogni mese, dobbiamo ricostruire le frontiere che abbiamo puerilmente smantellato. Terzo, c'è una 'quinta colonna' di jihadisti e simpatizzanti dello Stato islamico già dentro ai nostri confini - in gran parte figli e nipoti della prima ondata di immigrati e alcuni convertiti all'islam. La cosa stupefacente è che nessuno di questi problemi è apparso all'improvviso, ma sono lì da anni". Non tutti erano sordi e ciechi. "Io da anni ho spiegato che l'Europa stava scivolando verso il disastro. Me c'è stata una campagna massiccia degli islamisti e dei loro 'compagni di viaggio' occidentali per screditare chiunque lanciasse l'allarme. Se dicevamo di intervenire in Siria, eravamo 'guerrafondai'. Se mettevamo in guardia dall'immigrazione incontrollata, eravamo 'xenofobi'. Se denunciavamo la diffusione dell'estremismo nelle comunità islamiche, eravamo 'bigotti'. E le persone con una mentalità lagnosa sono sempre state attratte da questo tipo di fango".
  Perché il multiculturalismo è fallito ovunque come via all'integrazione? "L'idea che il moderno stato nazione, o anche una confederazione di stati nazione come l'Unione europea, possa avere più culture è rassicurante in maniera superficiale. In un'epoca in cui il relativismo domina le università, dove è considerato di cattivo gusto ricordare che la civiltà occidentale ha prodotto i momenti chiave della modernità, l'argomento di una uguaglianza delle culture è irresistibile. Ma è doppiamente sbagliato. Primo, se siamo impegnati verso la parità dei sessi, la libertà di espressione, la tolleranza religiosa, non possiamo dare uguaglianza a una cultura che le rigetta tutte e tre, come fa l'islam politico. Inoltre, è evidente che lo stato moderno, con le sue attività collettive e gli alti livelli di tassazione, richiede una forma di omogeneità culturale per essere legittimo. Con grande imbarazzo della sinistra, è in corso un conflitto fra welfare state e multiculturalismo. La lezione americana è chiara: se vuoi immigrazione di massa, hai bisogno di un meccanismo per trasformare i nuovi arrivati in cittadini che accettano le norme dominanti della maggioranza. E anche in quel caso, non sarai in grado di stabilire livelli europei di redistribuzione".
  Nel suo libro "Civilization", Ferguson scrive che "l'ascesa dell'occidente è, molto semplicemente, il fenomeno storico più eminente della seconda metà del Secondo millennio dopo Cristo. E' l'enigma storico più difficile da risolvere". Ha ancora un futuro l'idea di occidente come motore del progresso e della storia? "Sì, specie negli Stati Uniti ma anche in Europa, almeno spero", dice Ferguson. "Ci sono ancora persone che credono nei princìpi della libertà individuale. Le società occidentali, compreso Israele, restano le più innovative del mondo, nonostante i progressi in Asia orientale. Continuiamo a dominare il mondo dalla scienza alla cultura popolare. La nostra debolezza è connaturata a certe istituzioni, come i dipartimenti di umanistica nelle università, i media di stato e i partiti politici. E' lì la malattia del relativismo. Penso che le persone comuni in Europa e nord America sentano profondamente le questioni che stiamo trattando, ma sono alienate da élite politiche e culturali che ripetono 'lo Stato islamico non ha nulla a che fare con l'islam', 'l'islam è una religione di pace' e 'wir schaffen das' (ce la possiamo fare, la versione merkeliana di "yes we can" applicata alla crisi dei rifugiati), dove 'das' significa assorbire più di un milione di immigrati ogni anno per un indefinito numero di anni a venire".
  Chiudiamo con la triste profezia con cui abbiamo iniziato l'intervista, la metamorfosi dell'Europa: "Nessuno può prevedere i flussi demografici con certezza, ma è una ipotesi plausibile che la popolazione islamica in Europa continui a crescere nel futuro immediato, come risultato dell'immigrazione e dei differenti livelli di fertilità. E' altrettanto ragionevole che la forma più militante di islam, il movimento che chiamiamo islamismo, crescerà altrettanto. Non vedo allo stesso tempo una fine nella secolarizzazione delle società cristiane. In linea di principio queste società hanno sviluppato una concezione che prevede i valori dell'illuminismo e del classico liberalismo. Quindi l'islamizzazione sarebbe abbastanza facile da evitare. Ma la verità è che ci ricordiamo delle nostre libertà soltanto quando accade una atrocità come quella di Parigi. Poi, dopo qualche mese, l'oltraggio svanisce e l'illusione ritorna".

(Il Foglio, 2 dicembre 2015)


La finta svolta: l'Iran condanna il terrore

di Roberto Fabbri

Con un paio di settimane di ritardo rispetto ai tragici eventi di Parigi, la Guida suprema della Repubblica islamica dell'Iran ha deciso di esprimere tutta la sua riprovazione. Lo ha fatto scrivendo una lunghissima lettera aperta indirizzata «ai giovani occidentali», nella quale raccomanda loro di non accusare la vastissima comunità islamica mondiale di connivenze con i sanguinari terroristi che chiamano Allah a giustificazione dei loro massacri di innocenti. Ali Khamenei non ha lesinato con le parole. «Un miliardo e mezzo di musulmani - ha scritto arrotondando generosamente a suo favore i dati sui fedeli maomettani nel mondo - è rimasto sconvolto e indignato per quanto accaduto e prova odio e ripugnanza verso gli autori di questi crimini». A una prima, superficiale lettura di queste parole si è portati a credere che si tratti di una svolta sostanziale, di un ripudio della violenza in nome della religione. Leggendo però i passaggi successivi della lettera si colgono altri aspetti, e in particolare l'immancabile adesione di Khamenei a quel «partito del Tco» (Tutta colpa dell'Occidente) i cui tenaci pregiudizi sono tanto in voga anche alle nostre latitudini. «Finché nella politica occidentale domineranno il sistema dei due pesi e delle due misure, fino a quando il terrorismo agli occhi dei suoi potenti sostenitori viene diviso in buono e cattivo (...) non bisognerà cercare le radici della violenza altrove». Colpa nostra, insomma, di noi sostenitori del «terrorismo buono» attuato da Israele contro i palestinesi con il sostegno del «grande Satana» americano (accusato anche di aver finanziato i «cattivi» Al Qaida e talebani): «Sono più di sessant'anni che il sofferente popolo palestinese sperimenta la peggiore forma di terrorismo. Se oggi le genti d'Europa sono costrette a rimanere a casa per qualche giorno, è da decine di anni - scrive Khamenei - che a causa della macchina di distruzione e di massacro del regime sionista una famiglia palestinese non si sente sicura nemmeno nella propria casa. Quale violenza è paragonabile nelle atrocità alla costruzione di colonie illegali da parte del regime sionista?» Khamenei prosegue mettendo in guardia i giovani occidentali dal favorire l'emarginazione dei musulmani che vivono nei loro Paesi. «Il grave errore nella lotta al terrorismo sono le reazioni affrettate - scrive l'ayatollah -. Qualsiasi azione emotiva e frettolosa che isoli o spaventi le comunità islamiche in Europa e negli Stati Uniti e limiti ancor di più i loro diritti non solo non risolverà i problemi ma aumenterà anzi le distanze e i rancori».Il leader della teocrazia iraniana chiude con un piccolo capolavoro di amnesia: «Il mondo occidentale da secoli conosce bene i musulmani» e «nella maggior parte dei casi non ha visto che gentilezza e pazienza». La parte minore, diciamo così, ce la ricordiamo meglio noi.

(il Giornale, 1 dicembre 2015)


Nessuno si distragga pensando ai poveri francesi, tutti invece ricordino sempre che il popolo più sofferente al mondo è quello palestinese. Nessuno pensi che l'islam è feroce e violento, perché i massacratori dei francesi non sono veri islamici, ma criminali comuni che fanno pensare a quel mostro di criminalità che è il regime israeliano. Questo è l'Iran di Khamenei.
E in effetti, nessuno si distragga: l'obiettivo di Teheran resta la distruzione di Israele. Molti dicono di no, non sono convinti. Non ancora. Aspettano che questo avvenga per convincersi. Poi faranno le dovute commemorazioni. M.C.


Piano di 24 milioni di euro per lo sviluppo economico di Gerusalemme

GERUSALEMME - Il governo israeliano ha recentemente approvato un piano del valore di circa 100 milioni di shekel, pari a circa 24 milioni di euro, per accompagnare il processo di sviluppo economico della città di Gerusalemme. I ministeri delle Finanze, degli Affari relativi alla Città di Gerusalemme e del Turismo si sono accordati per incoraggiare lo sviluppo del settore commerciale, dell'industria del turismo e dello status di Gerusalemme quale città di rilievo accademico. A tal fine il piano prevede: una dotazione di 17 milioni di euro per sostenere le piccole e medie attività economiche; una dotazione di 4 milioni di euro per favorire i flussi turistici nella città sia dall'estero che da Israele ampliando l'attuale offerta culturale; una dotazione di circa 2 milioni di euro per incrementare il numero di studenti nelle università di città. A ciò si aggiunge un fondo di 9,7 milioni di euro per prestiti a condizioni vantaggiose per piccoli e medi esercizi commerciali oltre a forme di rateizzazione e ristrutturazione dei debiti nei confronti dell'autorità fiscale. Lo ha reso noto l'ufficio di Tel Aviv dell'Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane.

(Agenzia Nova, 1 dicembre 2015)


Tris d'assi per l'Europeo in Israele

di Giacomo Casadio

 
Alessia Polieri, Fabio Scozzoli e Ilaria Bianchi
Sarà un esordio un po' particolare, non c'è dubbio. La prima volta di un Europeo di nuoto in Israele coincide, purtroppo, con uno dei periodi storico-politici più delicati dell'ultimo ventennio. Eppure, the show must go on, lo spettacolo deve andare avanti. Anche giustamente, ci permettiamo di aggiungere. Dal 2 al 6 dicembre sono in programma a Netanya i 23esimi campionati di nuoto in vasca corta. Dal governo israeliano sono arrivate tutte le rassicurazioni del caso, anche il presidente della Federazione europea, Paolo Barelli, si è mosso in prima persona per garantire la sicurezza di tutti gli atleti.
Due i portacolori dell'Imolanuoto in gara in Israele: Fabio Scozzoli, che ha staccato il pass per i 50 rana proprio poche settimane fa (e probabilmente tenterà la fortuna anche nei 100, di cui è stato campione per due edizioni di fila). Alessia Polieri, attesa nei 200 farfalla (e forse nei 200 misti), dopo il quinto posto mondiale a Doha nel 2014. Dall'Azzurra - e da Castel San Pietro Terme - partirà invece Ilaria Bianchi. La farfalla castellana tenterà l'assalto al podio nei 50 e nei 100 oltre che in staffetta.
Le gare in tv. Anche per l'edizione israeliana, Rai ed Eurosport saranno in prima fila per seguire le avventure dei nostri portacolori. Tutte le mattine, dalle 9, la diretta delle batterie. Il pomeriggio, dalle 16.20, le finali. Anche sul nostro sito aggiornamenti continui delle gare.

(Il Nuovo Diario Messaggero, 1 dicembre 2015)


Svizzera - Didier Burkhalter: unire le forze per lottare contro antisemitismo

Le autorità e la società civile devono unire le forze per lottare in modo più incisivo contro l'antisemitismo. Così si è espresso oggi il consigliere federale Didier Burkhalter, aprendo a Berna un convegno sulla situazione della minoranza ebraica in Svizzera.
Il Consiglio federale è consapevole del fatto che il numero di atti antisemiti è aumentato in Europa e ciò può rappresentare una minaccia per le persone di religione ebraica e le loro istituzioni in Svizzera, ha aggiunto, stando a quanto indica una nota diffusa dal Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE).
Le autorità seguono attentamente questa situazione e prendono i provvedimenti necessari per proteggere questa minoranza, ha assicurato Burkhalter, ricordando come la comunità ebraica sia presente in Svizzera dal Medioevo e sia parte integrante della società.
Herbert Winter, presidente della Federazione svizzera delle comunità israelite (FSCI), ha da parte sua analizzato la situazione attuale degli Ebrei in Svizzera, a 150 anni dal riconoscimento della parità dei diritti con i loro concittadini e ha elencato le sfide che devono affrontare oggi.
Nel corso del convegno, due esperti del Consiglio d'Europa hanno evocato i diritti della minoranza ebraica e i corrispondenti obblighi degli Stati che partecipano alla Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali.
Infine, conclude la nota del DFAE, nell'ambito di due tavole rotonde, si è discusso delle sfide concrete che la comunità ebraica in Svizzera si trova ad affrontare in questo momento e delle risposte che le autorità e la società civile possono o devono dare a riguardo.

(swissinfo.ch, 1 dicembre 2015)


Così i funzionari dell'Onu fomentano terrorismo e antisemitismo

L'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi continua ad accogliere tra le sue fila gente che inneggia all'Intifada dei coltelli e all'odio contro gli ebrei. Con i finanziamenti di Europa e America.

di Gabriele Carrer

Mentre a Parigi i leader mondiali benedetti da Papa Francesco e capitanati dal segretario generale Onu Ban Ki-moon discutono di quella che Hollande ha definito "sfida del nostro tempo assieme alla lotta a terrorismo", un rapporto dell'ong UN Watch racconta il fallimento delle Nazioni Unite nei confronti dell'incitamento al terrore e all'odio anti-israeliano professato dai suoi funzionari e impiegati attraverso i social network. Il problema nasce dall'Unrwa, l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, i cui impiegati esibiscono nei loro profili online immagini di ebrei come scimmie e maiali, coltelli, scritte inneggianti alla jihad e alla violenza.
   Mohammed Al Jowhary, che su Facebook si descrive come insegnante presso l'Unrwa, il 27 ottobre 2015, lo stesso giorno in cui due soldati israeliani sono stati accoltellati e feriti da alcuni palestinesi, tra post inneggianti alla jihad e al martirio ha postato una foto che ritraeva una donna con due orecchini a forma di coltello. Sopra il commento "Nuovi accessori per i palestinesi". Al Jowhary è stato anche insignito di alcuni riconoscimenti tra cui quello dell'organizzazione canadese Right to Play e quello del British Council come ambasciatore per il World Voice Programme. Ci sono anche gli insegnanti Mazen Abo Hady di Gaza, che celebra l'Intifada dei coltelli e festeggia i morti israeliani ed ebrei, e Suad Assi di Ramallah che, oltre a mostrare il certificato Unrwa per il corso di etica, descrive i sionisti e gli ebrei come "figli delle scimmie e dei maiali" e condivide video di attacchi con il coltello. E ancora medici che inneggiano al martirio, funzionari e insegnanti che celebrano la violenza e il terrorismo contro Israele commemorando i leader morti di Hamas.
   UN Watch ha presentato questa settimana al segretario Ban Ki-moon e al capo dell'Unrwa Pierre Krähenbühl il suo rapporto annuale in cui si segnalano ventidue nuovi soggetti, di cui dieci tra insegnanti, presidi e personale dell'agenzia. Alla consegna erano presenti anche il commissario per gli Affari esteri dell'Unione europea Federica Mogherini e l'ambasciatrice americana all'Onu Samantha Power. Europa e America lo scorso anno hanno finanziato l'Unrwa con circa un miliardo di dollari. Lo scorso ottobre il portavoce del segretario Onu aveva promesso azioni disciplinari contro alcuni membri del personale già denunciati da UN Watch per antisemitismo e incitamento all'odio. Ma Hillel Neuer, direttore di UN Watch, ha detto che le sospensioni temporanee "chiaramente non funzionano", aggiungendo che "chi incita al razzismo o al massacro dovrebbe essere licenziato". Proprio come ha fatto recentemente il governo britannico, che ha cacciato a vita dalle scuole inglesi il trentaseienne insegnante Mahmudul Choudhury dopo che questi aveva condiviso su Facebook un'immagine di Hitler con un commento antisemita.
   Ad aprile di quest'anno inoltre è arrivata direttamente dal Palazzo di Vetro la conferma di un acronimo dell'Unrwa assai diffuso in Israele: United Nations Rocket Warehousing Agency, agenzia Onu per il deposito di razzi: anche il segretario generale Ban Ki-moon ha confermato che Hamas e gli altri gruppi islamici hanno usato scuole ed altre strutture delle Nazioni Unite come deposito e base di lancio per i razzi durante la guerra di Gaza dell'estate 2014.
   Intanto si è chiusa 20-3 la partita tra Israele e il resto del mondo al tavolo dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nell'anno in corso, infatti, sono state venti le risoluzioni contro Israele e tre contro stati terroristici come Iran, Siria e Corea del nord. Nell'ultima Assemblea generale del 24 novembre sono state sei le bozze di risoluzione adottate contro Israele. Tra queste, l'annuale risoluzione redatta dalla Siria in cui, noncurante delle politiche di Assad che hanno minato ogni trattativa, Damasco lamenta la battuta d'arresto nel processo di pace aggiungendo che la questione del Golan "occupato" rappresenta "lo scoglio sulla via per raggiungere un pace giusta, globale e duratura nella regione".

(Il Foglio, 1 dicembre 2015)


Perché il rifiuto palestinese della pace non fa mai notizia?

Abu Mazen ha ammesso d'aver rifiutato l'offerta di accordo di Ehud Olmert, ma le convinzioni di chi dà sempre la colpa a Israele non cambiano mai.

Benché fossimo tutti comprensibilmente assorbiti dai tragici fatti di Parigi e dalle loro conseguenze, pare perlomeno curioso - in realtà, inquietante - che sia passata sotto silenzio una notizia che dovrebbe far saltare sulla sedia chiunque si occupi con qualche competenza del conflitto israelo-arabo-palestinese e del (mancato) processo di pace.
La notizia è che in un'intervista andata in onda la sera dello scorso 17 novembre sul Canale 10 della tv israeliana, il presidente dell'Autorità Palestinese Abu Mazen ha serenamente ammesso d'aver rifiutato, nel 2008, l'offerta dell'allora primo ministro israeliano Ehud Olmert di creare uno stato palestinese che comprendesse, oltre alla striscia di Gaza, il 93,7% della Cisgiordania, più territori israeliani equivalenti a un 5,8% della Cisgiordania, più un collegamento fra Gaza e Cisgiordania anch'esso parte dello stato di Palestina e persino un trasferimento della Città Vecchia di Gerusalemme sotto controllo internazionale. "Non ero d'accordo - racconta Abu Mazen - Rifiutai subito"....

(israele.net, 1 dicembre 2015)


Il Cremlino attacca ancora il Sultano: "Compra petrolio dal Califfato"

di Maurizio Molinari.

Truppe speciali lungo la frontiera con la Turchia e una nuova base aerea a ridosso delle posizioni dell'Isis. Quindi l'affondo diretto contro Erdogan: «Ha fatto abbattere il nostro aereo - dice Vladimir Putin, da Parigi dove si trova per la conferenza sul clima - per difendere i propri traffici petroliferi con lo Stato islamico». «Se fosse vero, mi dimetterei», risponde sprezzante Erdogan citato dall'agenzia russa «Tass». La tensione fra i due Paesi, anche dopo le sanzioni russe varate venerdì e ratificate domenica, è alle stelle. Le conseguenze sono le mosse sul terreno. Con i russi che muovono le pedine sul teatro di operazioni siriano per aumentare la pressione militare sugli avversari. A svelare quanto sta avvenendo sul terreno è «Al-Rai», il quotidiano del Kuwait che ha già dimostrato di aver accesso a fonti riservate nella «war room» creata a Baghdad fra le unità di intelligence di Russia, Iran, Hezbollah, Siria ed Iraq.
  A schierarsi lungo il confine siriano, a pochi metri dalla Turchia, sarà una «brigata di intelligence», ovvero gli eredi diretti delle truppe speciali «Spetsnaz» protagoniste della Guerra Fredda. Il compito sarà controllare i corridoi terrestri che attraversando i posti di controllo di Aazaz e Bab al-Salamah consentono ai camion civili provenienti dalla Turchia di portare in Siria armi, munizioni e rifornimenti ai gruppi ribelli che si battono contro il regime di Assad.
  L'intelligence raccolta dai russi nell'ultimo mese - anche con sorvoli aerei simili a quello interrotto dall'abbattimento del Sukhoi-24 - ha portato ad identificare proprio in questo passaggio una delle più importanti rotte di consegna dei missili anti-tank «Tow». Assad, incontrando domenica a Damasco l'inviato iraniano Ali Akbar Velayati, ha accusato Ankara di «far arrivare i Tow ai terroristi». Si tratta di un segnale forte a Recep Tayyp Erdogan: se i russi dovessero intercettare un carico di armi dalla Turchia ai ribelli islamici, Ankara sarebbe in forte imbarazzo.

 Le nuove basi di Mosca
  Ma non è tutto perché, aggiunge «Al-Rai», le unità di intelligence saranno di base nei pressi della base aerea di Al-Shayrat, a circa 35 km a Sud-Est di Homs. Se al momento l'aviazione russa dispone di circa 50 aerei nella base di Hmeimim, adiacente all'aeroporto di Latakia, ad Al-Shayrat sono già pronti 45 hangar e ciò significa che il numero degli apparecchi raddoppierà. Al-Shayrat è vicina a due località siriane nelle mani dei jihadisti dello Stato Islamico (Isis): Qaryatayn e Palmyra. Al momento sono iraniani ed Hezbollah a fronteggiare l'Isis in entrambe le città ma poiché ora vi saranno gli aerei russi è prevedibile una maggiore pressione contro lo Stato islamico. Lo spettro delle operazioni russe dunque si allarga: da un lato puntano a bloccare i rifornimenti per i ribelli islamici filo-turchi e filo-sauditi nella provincia di Idlib, dall'altro ad incalzare l'Isis con più efficacia rispetto a quanto finora avvenuto.
  A rafforzare l'impressione di un'accelerazione militare di Mosca ci sono le notizie che rimbalzano da Parigi sull'incontro fra Benjamin Netanyahu e Putin teso a «estendere e rafforzare» l'accordo di «cooperazione militare in Siria per evitare incidenti non necessari» ovvero simili all'abbattimento del Sukhoi-24 da parte della Turchia. Si tratta di intese con importanti conseguenze tattiche: negli ultimi giorni aerei russi che operavano sul Golan siriano hanno potuto sorvolare il territorio israeliano durante missioni di combattimento.

(La Stampa, 1 dicembre 2015)


Al summit sul Clima Netanyahu vedrà Putin, ma non Obama e Abbas

A Parigi per il summit sul Clima, il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ne approfitterà per incontrare il presidente russo Vladimir Putin. Un incontro che giunge in un momento cruciale per la crisi in Siria, con aerei russi impegnati nei bombardamenti nel paese al confine con Israele.
Netanyahu avrà altri incontri bilaterali con il presidente francese Francois Hollande e il primo ministro giapponese Shinzo Abe. Non sono previsti incontri con il presidente americano Barack Obama, dopo che i due si sono recentemente visti a Washington, nè con il presidente palestinese Mahmoud Abbas.

(Libero Reporter, 1 dicembre 2015)


Gli Europei in vasca corta diventano extra large. Istruzioni per l'uso

Tutto quello che non dovete perdere: la prima Pellegrini di stagione, Paltrinieri superstar, la forzata della piscina Hosszu e il ranista forzuto Peaty. Dal 2 al 6 dicembre a Netanya.

di Giulia Zonca

 
Federica Pellegrini
NETANYA - L'euro in vasca corta ingrassa, per la prima volta Israele organizza un evento internazionale di nuoto e la manifestazione più corta d'Europa diventa extra large. Si gareggia a Netanya, nel centro di formazione olimpica Wingate, affacciato sul Mediterraneo: sempre sui 25 metri solo che la competizione si allunga di un giorno e la partecipazione aumenta. E diventa più ricca. Cinquecento atleti (291 uomini e 209 donne) per 48 paesi compreso l'ultimo entrato nella Lega europea, il Kosovo che debutta nella manifestazione. C'è pure un premio extra: 200.000 euro da assegnare alle migliori 12 prestazioni maschili e femminili e 500.000 euro da distribuire tra le federazioni partecipanti.
L'Italia schiera la squadra quasi al completo, capitanata da Magnini, 33 anni, il veterano tra gli uomini ma non il più maturo tra i presenti. Lo batte una donna di casa, Anna Gostomelsky, israeliana di 34 anni impegnata nei 50 dorso e 50 farfalla. Presenti Federica Pellegrini «anche se continuo a non amare questa dimensione» e Gregorio Paltrinieri, alla prima uscita da campione del mondo dei 1500.

Cinque squadre da tenere d'occhio
 Gli azzurri
  Spedizione baby, 5 matricole (senza acconciatura di iniziazione perché quella vale solo per l'esordio in vasca lunga). La più giovane è la sedicenne Ilaria Cusinato che gareggia nei misti. Facce nuove e veterani che qui di certo non cercano risposte o tempi ma testano (e allenano) le motivazioni. Solo due Bad Boy della staffetta medagliata agli ultimi Mondiali (piscina da 50 metri) sono qui, formazione da rivedere con Bocchia e Guttuso, uno dei deb. Occhio di riguardo per Fabio Scozzoli (rana) per capire a che punto è arrivato dopo il rientro dall'infortunio e il ritorno a Imola.

 Israele
  Mai così numerosi, sono gli ospiti e ci tengono a farsi notare: 46 nuotatori, prima di questa competizione non sapevano nemmeno di averne tanti, ma qui c'è da mostrarsi orgogliosi. Media di età intorno ai 22 anni, il portabandiera è Gal Nevo (argento nei 400 misti, due anni fa, a Herning) e l'obiettivo è prendersi il primo oro della storia.

 Russia
  Prima uscita di una nazionale dopo lo scandalo doping di stato. 38 convocati, dopo Israele i più numerosi. I dubbi e i sospetti non sono vincolati alla pista di atletica, loro ambiscono a ripartire e questo è lo start.

 Ungheria
  Katinka ci riprova. Sfida se stessa e il soprannome (ormai più etichetta) di Iron Lady: è iscritta a 11 gare, le vuole fare tutte, mira a un minimo di 8 podi. Ce la farà? E in squadra resiste Lazlo Cseh, rivitalizzato dal Mondiale di Kazan e rinnovato dal matrimonio (si è sposato in agosto). Si porta dietro 12 ori europei in corta e alla voce ambizioni a Netanya scrive «migliorare». Deve ancora rasarsi la testa, il rito si compie sempre a poche ore dal debutto.

 Gran Bretagna
  Adam Peaty va a caccia d nuovi record. Il ranista innamorato della boxe che negli ultimi due anni ha rivoluzionato classifiche e cronometri della specialità si tuffa al solito con grandi progetti. A 20 anni non pensi a dosare le forze in una stagione impegnativa, vuoi solo prendere tutto quello che c'è. Famelica pure Hanna Miley, se non di ferro di una lega bella resistente visto che si cimenta in 8 prove e sfida direttamente la stakanovista originale Katinka nei 400 stile, 200 farfalla, 100, 200 e 400 misti. Vediamo chi vince il titolo di sempre-in-acqua.

Programma

(La Stampa, 1 dicembre 2015)


Il flop della Mogherini con Israele tocca tutta l'Ue

Motivo: l'etichettatura dei prodotti che arrivano dalla Giudea.

di Dimitri Buffa

Federica Mogherini
Una disfatta diplomatica targata Federica Mogherini ma caduta sulla testa di tutta la Ue. Ambienti della diplomazia israeliana ieri hanno precisato i contorni di questa decisione unilaterale del governo di Benjamin Nethanyahu di escludere la Ue dalle relazioni di cooperazione per trovare una soluzione di pace con i palestinesi. La storia della «odiosa» etichettatura ad hoc dei beni di consumo, principalmente datteri e altre squisitezze locali, che vengono prodotti in Giudea e Samaria, territori contesi con l'Anp, e di quelli che provengono dalle alture del Golan (contese con quel che resta della Siria), soprattutto vino e olio d'oliva, si può considerare «al massimo la goccia che ha fatto traboccare il vaso».
   Il problema invece per il governo di Gerusalemme ha nome e cognome: Federica Mogherini. Che peraltro prima di entrare in area renziana e governativa era nota tra i tanti attivisti di estrema sinistra europei del movimento per il disinvestimento e per il boicottaggio accademico, il famigerato Bds movement. La Mogherini stessa fu studentessa di islamistica all'università prima di entrare nel giro della cooperazione. E per Israele la scelta di Renzi di mandarla, anzi di imporla, come miss Pesc in Europa è stata vissuta come una tragedia sin dall'inizio. La ex ministra degli esteri non ha buoni rapporti neanche con paesi dell'area come Qatar e Arabia Saudita, per non parlare dell'Egitto di Al Sisi, essendo stata lei fino a poco tempo fa un'estimatrice del presunto moderatismo dei Fratelli mussulmani e dell'ex presidente Morsi. Israele, proprio insieme a Egitto, Qatar, i sauditi e l'Anp, ha da tempo iniziato le proprie trattative segrete per mettere il mondo di fronte al fatto compiuto di un accordo provvisorio con i palestinesi che in ogni caso escluderebbe Hamas. Un accordo fatto tenendo ai margini lo stesso Obama. E a maggior ragione la Ue, giudicata un organismo inutile che in politica estera non rappresenta nessuno degli stati più importanti, Francia, Germania e Gran Bretagna, con cui invece Nethanyahu i rapporti continua a mantenerli.

(Il Tempo, 1 dicembre 2015)


Rischio di estinzione degli ebrei nei paesi islamici del Medio Oriente

Meno di 30 mila rimasti, dopo 2500 anni di storia

di Elisa Pinna

ROMA - Tra cinquant'anni non ci sarà più probabilmente nessuna comunità ebraica nei paesi arabi e musulmani del nord Africa e del Medio Oriente, e le tracce e la memoria di una presenza così importante, risalente a oltre 2500 anni fa, rischiano di venire cancellate per sempre. E' quanto ha spiegato con preoccupazione il prof. Hain Saadoun, uno dei massimi esperti di ebrei orientali, decano della Open University e membro del Ben Tzvi Institute di Gerusalemme, in una conferenza tenuta alla Link Campus University di Roma, alla presenza dell'ambasciatore di Israele, Naor Gilon, e del presidente dell'Ateneo, Vincenzo Scotti.
   Prima del 1948, circa 900 mila ebrei vivevano nell'area biblica allargata, dal Marocco all'Iran. Erano comunità fiorenti, protagoniste della vita nazionale dei loro rispettivi Paesi, dalle arti alle scienze all'amministrazione. Godevano - ha spiegato il prof. Saadoun - di una sorta di "età dell'oro". Poi, dopo la proclamazione dello Stato di Israele, oltre 850 mila ebrei furono espulsi o costretti alla fuga dalle violenze contro di loro. Abbandonarono le loro case, i loro beni, i loro luoghi di culto, la loro vita per cercare rifugio nel nuovo Stato ebraico. In alcuni casi, come in Iraq, Yemen, Libia, le comunità ebraiche furono cancellate in modo traumatico, nel giro di tre anni, dal 1948 al 1951. In altre nazioni l'emigrazione fu un processo più lento.
   "La cosa incredibile - ha osservato il docente israeliano - è che l'esodo degli ebrei, una componente così importante nelle società mediorientali dell'epoca, fu vista con assoluta indifferenza dalle popolazioni locali". Si trattò di una delle migrazioni più imponenti del XX secolo, più numerosa anche se più ignorata, rispetto a quella dei 700 mila palestinesi che lasciarono le loro terre durante la guerra del 1948.
   A indurre gli ebrei alla fuga dal mondo arabo e musulmano - ha detto Saadoun - furono un insieme di fattori: certo il timore di violenze anti-ebraiche e di un futuro politico incerto, ma anche il potenziale economico dell'emigrazione verso Israele, motivazioni religiose, il ruolo dell'Agenzia ebraica, il fatto di sentirsi una minoranza con un livello più alto di modernità rispetto alle società musulmane dell'era post-coloniale, le tensioni tra mondo arabo e Israele.
   Secondo stime israeliane, oggi nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente sono rimasti poco meno di 30 mila ebrei. Le comunità più numerose vivono in Turchia, con circa 14 mila ebrei a Istanbul, e in Iran, dove - secondo cifre più incerte - rimarrebbero 10 mila ebrei, specie a Teheran e a Shiraz. Al Cairo è rimasta una minuscola pattuglia di 30 ebrei, a Sanaa, capitale dello Yemen, sopravvivono in un centinaio. Non esistono più quartieri ebraici e poco viene fatto per mantenere in piedi luoghi di culto del passato.
   Ci sono tuttavia alcune eccezioni: in Marocco è stato costruito il Museo ebraico di Casablanca e sono state restaurate importanti sinagoghe, come il Grande Tempio di Fes. In Tunisia, la comunità ebraica dell'isola di Djerba, un migliaio di persone, "dimostra una grande vitalità ed è in rapida crescita demografica", ha riferito il docente. Saadoun teme però che queste poche realtà positive non bastino a colmare i grandi vuoti da cui è accompagnata la storia degli ebrei orientali. "Non ne sappiamo abbastanza e dobbiamo lottare per cercare di formare una memoria collettiva". Altrimenti tutto potrebbe finire per ridursi alle sfuocate immagini in bianco e nero di folle di uomini, donne e bambini che cercano di imbarcarsi alla disperata, nel porto di Tripoli, in Libia, su navi dirette ad Haifa.

(ANSAmed, 1 dicembre 2015)


Perché gli ebrei scappano da Bruxelles

Così il "fondatore di Molenbeek": "Gli ebrei negano ai musulmani il diritto alla diversità". Sinagoga chiusa per la prima volta in settant'anni.

di Giulio Meotti

 
Due poliziotti a Bruxelles, davanti al museo ebraico
ROMA - Bruxelles è impegnata in una guerra diplomatica a Israele, con la marchiatura e il boicottaggio dei prodotti degli insediamenti ebraici (l'appello del Foglio contro questa decisione ha già raccolto cinquemila firme). Domenica il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha escluso l'Unione europea dai negoziati con i palestinesi. Intanto, dalla capitale della Ue gli ebrei se ne stanno andando.
   Lunedì il Telegraph ha raccontato la drammatica storia di Betty Dan, storica leader della comunità ebraica di Bruxelles, dove ha diretto la radio comunitaria, che ha deciso di fare le valigie e lasciare il paese alla volta di Israele. "Fino a qualche anno fa erano i pensionati a partire", ha detto Dan. "Oggi sono le coppie con figli, vendono casa e lasciano tutto. Hanno paura". La settimana scorsa, mentre l'esercito cingeva d'assedio la capitale temendo un attacco "imminente" dopo i massacri di Parigi, la Grande sinagoga di Bruxelles è rimasta chiusa per la prima volta in settant'anni. Non accadeva dalla fine dell'occupazione nazista. "La gente oggi prega a casa", ha detto Avraham Guigui, rabbino capo della città. "Non c'è futuro per gli ebrei in Europa". Una campagna sui social network porta il titolo "Io sono belga, io sono ebreo. Devo andarmene?". Una comunità ancora cospicua con 40 mila iscritti.
   Sara Brajbart-Zajtman, filosofa e attivista che ha lanciato la campagna virale, denuncia: "Le scuole sono barricate, bambini ebrei subiscono abusi nel cortile della ricreazione, uccidono le persone perché ebrei. Questo è ciò che ha fatto Hitler…".
   In un anno ci sono stati 130 attacchi antisemiti in Belgio, il doppio dell'anno precedente (il più grave è l'attacco al Museo ebraico di Bruxelles, che causò quattro morti). "Non avrei mai pensato di dover nascondere il quotidiano ebraico nel metrò", ha detto Betty Dan. Intanto ci si prepara all'eventualità di un attentato. Zaka, l'organizzazione israeliana che interviene dopo una catastrofe o un attentato, alcuni giorni fa ha simulato proprio a Bruxelles un attacco terroristico con decine di morti.
   La più antica scuola ebraica della capitale belga, intitolata al grande pensatore medievale Maimonide, ha chiuso per gli attacchi antisemiti e la mancanza di studenti. Il trenta per cento della popolazione di Bruxelles (un milione) è musulmano e diventerà maggioranza fra tre generazioni. Il quotidiano De Morgen ha pubblicato i risultati di un sondaggio tra i giovani musulmani nelle scuole superiori di Bruxelles: "La metà può essere definita antisemita, un tasso molto alto", ha detto Mark Elchardus, sociologo della Vrije Universiteit Brussel.
   Non è un caso che l'ambasciatore degli Stati Uniti in Belgio abbia incolpato Israele per l'antisemitismo tra i musulmani. Howard Gutman ha detto che "si dovrebbe distinguere tra l'antisemitismo tradizionale, che dovrebbe essere condannato, e l'odio dei musulmani verso gli ebrei, che deriva dal conflitto in corso tra Israele e i palestinesi".
   A fomentare questo grande sospetto nei confronti di Israele e degli ebrei è stato proprio il sindaco di Molenbeek, il sobborgo epicentro oggi della campagna jihadista in Europa, dove viveva anche Mehdi Nemmouche, il terrorista che ha realizzato la strage al Museo ebraico della capitale belga. Si tratta di Philippe Moureaux, socialista e primo cittadino di Molenbeek dal 1992 al 2012. Un ventennato che lo ha portato a essere chiamato "il fondatore di Molenbeek".
   "Mi rattrista come gli ebrei oggi neghino ai musulmani il diritto alla diversità", ha detto Moureaux. "Molti hanno interesse a dividerci" ha detto poi Moureaux dopo l'attentato a Charlie Hebdo. "Stanno cercando di creare l'odio per gli arabi qui in occidente, al fine di giustificare le politiche dello stato di Israele". Lo scorso weekend, il capo dell'esercito di Israele, generale Gadi Eisenkot, ha compiuto una visita lampo proprio a Bruxelles. Per parlare anche della sicurezza degli ebrei della capitale dell'Unione europea. Dove ormai ci sono più niqab islamici che kippah ebraiche.

(Il Foglio, 1 dicembre 2015)


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