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Notizie 15-31 marzo 2017


Israele: il paese che tutti amano così tanto da volersene andare


di Michael Laitman

Se volessimo credere ai sondaggi, e c'è da chiedersi quanto possano essere attendibili, sembra che Israele sia un posto molto felice. Secondo il Rapporto annuale sulla Felicità nel Mondo, anche nel 2017, come nei precedenti due anni, Israele si conferma il paese più felice del mondo. Il Professor Jeffrey Sachs, economista e consigliere speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, riguardo al rapporto ha detto: "I paesi felici sono quelli che hanno un sano equilibrio fra prosperità e capitale sociale, il che significa un alto grado di fiducia nella società, poca disuguaglianza e affidabilità del governo". Ma se Israele è questo posto talmente meraviglioso per viverci, ancor più di Germania, Giappone, USA e Regno Unito, come mai altri sondaggi dimostrano che "più di un terzo degli Israeliani se potesse lascerebbe il paese"?
  Il problema degli israeliani non è con la terra di Israele, ma con gli altri israeliani che ci vivono. In poche parole, non ci sopportiamo a vicenda. Ma non solo molti israeliani che vivono in Israele vorrebbero vivere all'estero, gli israeliani immigrati si integrano più di qualsiasi altra fazione del Giudaismo. Apparentemente, gli israeliani che vivono all'estero vogliono farla finita definitivamente anche con il Giudaismo.

 Il motivo dell'odio verso se stessi
  La nazione ebraica è diversa da qualsiasi altra nazione. Di solito le nazioni sono formate da una cultura o un'etnia comune, o da entrambi. La nazione ebraica è esattamente l'opposto. Il Midrash (BeresheetRabah) e Maimonide (Mishneh Torah) forniscono descrizioni dettagliate sulla formazione del nostro popolo. Secondo Maimonide: "Abramo cominciò a chiamare a raccolta tutto il mondo… vagando di città in città e di regno in regno, fino a quando arrivò nella terra di Caanan… E quando tutti si riunirono attorno a lui e gli posero domande sulle sue parole, egli insegnò loro".
  Abramo insegnò loro ad unirsi. Dato che il popolo accorso presso Abramo non condivideva né parentela biologica, né prossimità geografica, tutto ciò che avevano in comune era l'adesione all'idea di unione. Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe e Mosè, tutti loro insegnarono l'unione al popolo d'Israele. Quando fuggirono dall'Egitto sotto la guida di Mosè, non erano ancora un popolo. Ottennero questo status solo quando decisero di vivere "Come un solo uomo con un solo cuore".
  In quel momento, non solo fu dato loro l'appellativo di "nazione", ma venne anche affidato loro il compito di trasmettere il loro unico "collante nazionale". Nelle parole della Torah, venne comandato loro di essere "Una luce per le nazioni". I primi ebrei sapevano che il loro compito era condividere col mondo il loro metodo di unione, proprio come Abramo, il quale cercò di insegnarlo a tutti i suoi concittadini nell'antica Babilonia prima di partire per la terra di Israele.
  Per circa 18 secoli, il popolo ebraico ha alimentato e sviluppato il suo metodo di connessione. Attraverso prove estreme, ha estratto l'essenza della legge ebraica in poche, parole semplici. Come disse Hillel il Vecchio: "Ciò che tu odi, non farlo al tuo prossimo; questo è tutta la Torah" (Shabbat, 31a).
  Approssimativamente nel periodo della distruzione del Tempio e dell'esilio dalla terra d'Israele, Rabbi Akiva cercò di insegnare a coloro che ancora non erano consumati da litigi interni. Egli affermò: "Ama il prossimo tuo come te stesso; questa è la grande regola della Torah" (Talmud di Gerusalemme, Nedarim, 30b).
  Purtroppo, fra noi prevalse l'odio e il popolo ebraico si disperse nel mondo. Rispetto all'essenza del Giudaismo, che è l'amore per gli altri, in quel tempo smettemmo di essere Ebrei. Siamo diventati, invece, ancora più carichi di odio di quanto non lo fossimo prima che Abramo ci unisse. Ora, la nostra distanza originaria, l'animosità attuale e il peso del compito di essere una luce per le nazioni, rendono ancora più forte e profondo il nostro disprezzo reciproco.
  Per comprendere il livello di odio fra gli ebrei, nel periodo della distruzione del Tempio, pensate al più brutto processo di divorzio che si possa immaginare e applicatelo ad un'intera nazione. Se la coppia separata non si fosse mai incontrata, avremmo semplicemente avuto due estranei, probabilmente indifferenti l'uno all'altra. Ma dopo essersi incontrati, innamorati e poi aver smesso di amarsi al punto di arrivare alla reciproca diffidenza e al disprezzo, il rifiuto che sentono è molto più appassionato di quello che avrebbero potuto provare degli sconosciuti.
  Quest'odio profondo è al centro del disprezzo degli israeliti per il loro paese ed è il motivo che spinge gli ebrei in tutto il mondo ad integrarsi in massa con le popolazioni che li ospitano. In realtà, se non fosse per l'antisemitismo, gli ebrei sarebbero scomparsi già da tempo. L'odio delle nazioni è l'unica cosa che tiene insieme gli ebrei.

 Tutto fuorché ebreo
  Se potessimo, preferiremmo non essere affatto ebrei. Il 58% degli ebrei si sposa al di fuori della fede religiosa e il numero di matrimoni misti fra gli israeliani che vivono all'estero, è ancora più elevato. Ogni volta che ci viene data la libertà di integrarci con le popolazioni locali, lo facciamo ma, quando lo facciamo, soffriamo terribilmente. I due esempi più significativi di questo processo sono anche i due eventi più traumatici nella nostra storia, dopo la distruzione del Tempio: l'Inquisizione con l'espulsione finale dalla Spagna e l'Olocausto.
  A causa del nostro antico compito, ovvero, portare la luce alle nazioni, non ci è mai stato permesso di integrarci fino alla completa estinzione. All'ultimo momento, arriva sempre un super cattivo che ci punisce e ci costringe a riunirci.
  Talvolta, ma non sempre, sentiamo che l'odio delle nazioni è collegato al nostro odio reciproco, ma quando lo capiamo, in genere è troppo tardi. Per esempio, nel 1929, il Dott. Kurt Fleischer, leader dei Liberali all'Assemblea della Comunità Ebraica di Berlino, sostenne che "l'Antisemitismo è il flagello che Dio ci ha mandato per indurci a stare insieme e ad unirci".
  Oggi ci sono anche ebrei che capiscono l'importanza fondamentale dell'unione ebraica per la nostra sopravvivenza. In riferimento alla Comunità Ebraica Americana, meno di due settimane fa Isi Leibler, leader ebraico veterano della Diaspora, ha scritto: "Oggi, volendo dare una definizione all'autodistruzione, basta volgere lo sguardo sul considerevole numero di leader irresponsabili, ma di maggior successo e fra i più potenti, della comunità della diaspora ebraica: sembrano impazziti e stanno alimentando l'antisemitismo" proprio perché sono davvero molto di parte.
  Possiamo attribuire a molte cause la recente ondata di antisemitismo, ma la verità è che proviene dalla nostra divisione interna. Dato che siamo destinati ad essere un faro di unione per il mondo, quando facciamo il contrario, le nazioni del mondo ci imitano; si odiano fra loro e, in particolare, odiano noi.
  Molti di noi vogliono essere tutto tranne che ebrei e, per quanto concerne amare il prossimo come noi stessi, in realtà non lo facciamo. Eppure niente ci libererà dal nostro dovere verso il mondo. Gli Stati Uniti sono oggi in procinto di relazionarsi con gli ebrei come ha fatto l'Europa nel secolo scorso.

 Passare oltre l'odio
  Nonostante la tetra previsione, c'è molto che oggi possiamo fare e che non potevamo fare allora. Oggi abbiamo la consapevolezza della vitalità dell'unione che, come comunità, non abbiamo avuto prima. Non dobbiamo sederci e osservare come le cose vadano di male in peggio, e non serve ascoltare le parole dei nostri leader che calmano la gente e la rassicurano sul loro futuro, come hanno fatto i capi ebraici prima dell'Olocausto. Invece, noi possiamo e dobbiamo assumere un atteggiamento proattivo e dobbiamo usare le opportunità che abbiamo per ristabilire la solidarietà fra noi.
  Tra poco più di una settimana celebreremo Pesach (Pasqua ebraica), la festa della libertà. Ma come possiamo parlare di libertà quando siamo schiavi del nostro odio? Nel libro Likutey Halachot (Regole Assortite) è scritto: "L'essenza della vitalità, dell'esistenza e della correzione della creazione vengono raggiunte da persone di differenti opinioni integrate fra loro con amore, unione e pace".
  I nostri saggi hanno sempre saputo che l'unione è la chiave della nostra libertà, felicità e pace. Anche Il Libro dello Zohar sottolinea l'importanza di superare l'odio e di unirsi. Lo Zohar (porzione Aharei Mot) scrive: "Ecco quanto è bello e piacevole che i fratelli siedano insieme. Questi sono gli amici che siedono insieme e non sono separati gli uni dagli altri. In un primo momento, sembrano persone in guerra che desiderano uccidersi le une con le altre. Ma poi tornano ad essere in amore fraterno… E voi, gli amici che sono qui, dato che siete stati in affetto e in amore prima, d'ora in poi non vi separerete… E per merito vostro ci sarà la pace nel mondo".
  Dovremmo sapere che la nostra felicità non dipende da chi sposiamo o da dove viviamo. Dipende solo da come ci relazioniamo alla gente della nostra nazione: gli ebrei. La sola libertà che ci serve è la libertà dal nostro odio interno. Se raggiungeremo questo, ripristineremo la nostra posizione come luce fra le nazioni, ed i popoli del mondo smetteranno di odiarci e di odiarsi a vicenda.
  Durante la nostra prima Pesach, nel deserto del Sinai, ci siamo uniti e siamo diventati una nazione. Ora, dobbiamo farlo di nuovo e dobbiamo riconquistare la nostra nazione. Il passaggio che dobbiamo fare non è attraversare un mare, ma oltrepassare il mare dell'odio che sentiamo per i nostri fratelli. Se realizzeremo anche solo una parte di questa nobile aspirazione durante la prossima Pesach, le nuvole scure che si addensano attorno agli ebrei in tutto il mondo potrebbero portare nient'altro che pioggia. Ma i rovesci sono già cominciati ed il tempo sta finendo. Il compito davanti a noi è palesemente chiaro: mettere da parte la nostra faziosità e l'antipatia reciproca, e stabilire un legame al di sopra del nostro odio perché tutto il mondo possa vedere, credere ed imitare.

(Uniting Europe, 31 marzo 2017)


L’autore è di quelli che “basta l’amore, quando c’è l’amore c’è tutto”. Che è un po’ come dire “basta ‘a salute, quanno c’è ‘a salute c’è tutto”. Oppure, in modo più tecnico “: Il vero rimedio alla malattia è la salute”. M.C.


«Tanto gas tra Egitto, Israele e Cipro l'Italia non sprechi l'occasione»

Il ceo
Orrendo acronimo dell'espressione inglese chief executive officer. Scritto in minuscolo finisce per diventare una parola della lingua italiana. Perché qualcuno non comincia a ribellarsi?
Eni Descalzi al Festival Città Impresa: un ponte energetico Europa-Nord Africa

di Raffaella Polato

VICENZA - Stiamo comodi nelle nostra case riscaldate d'inverno e ci piace l'aria condizionata d'estate. Guidiamo auto sempre più potenti, e alla fine non importa quanto costa la benzina: il serbatoio lo vogliamo sempre pieno. Quello cui non pensiamo mai, o che comunque non accettiamo, è che «l'energia non si genera da sola, e non è senza costi». Quello che allo stesso modo non capiamo, e per le identiche ragioni, è che pur con tanti limiti l'Italia è un grande Paese e l'Europa un grande continente ma sono loro, siamo noi, «a viaggiare con il serbatoio vuoto». Per cui sì, aggiunge Claudio Descalzi, certo che c'è il rischio di restare schiacciati «tra i dazi degli Usa e le sanzioni alla Russia». Loro le risorse le hanno e perciò, per dire, almeno per un po' l'America di Donald Trump può anche pensare di chiudersi nell'autosufficienza industriale e commerciale. Ma noi europei, che il petrolio e il gas non lo abbiamo? «Poi come produciamo? E soprattutto: poi a chi esportiamo?».
   E' uno dei massimi problemi dell'Unione. Per una volta però l'Italia può giocare in prima linea e avere un ruolo nella soluzione. Anzi, dice l'amministratore delegato dell'Eni, lo sta già facendo. Cita Carlo Calenda, il ministro dello Sviluppo economico, e «la sua consapevolezza della necessità di attivare il "canale Sud" del Mediterraneo, il grande hub che si sta creando tra Egitto, Israele e Cipro». Parla dei conseguenti contatti con i ministri dell'Energia del nuovo asse energetico, «dove sono già stati trovati 3.500 miliardi di metri cubi di gas ma dove si potrebbe presto salire a 9 mila miliardi». Spiega che è tanto importante che «anche la Russia se ne interessa» e, in ogni caso, non dovremmo vedere il nuovo hub Mediterraneo «come conflittuale rispetto a Mosca: non solo per noi sarebbe complementare, perché ci servono l'uno e l'altra, ma ci eviterebbe di essere nelle mani di un solo fornitore». Situazione che non è mai felice: «Prima o poi ti arriva il conto».
   Può fare un certo effetto, questa frase. In realtà chi ascolta Descalzi qui a Vicenza, in un Teatro Olimpico affollatissimo per l'incontro del Festival Città Impresa in cui il numero dell'Eni e il politologo Angelo Panebianco - coordinati dal vicedirettore del Corriere della Sera Daniele Manca - raccontano «I difficili equilibri della geopolitica» nell'era di Trump e nello snodo chiave del petrolio, sa che il top manager non va iscritto al partito anti-Mosca. E infatti ricorda: «I legami fra Europa e Russia sono fortissimi: il 40-45% del nostro fabbisogno, vale a dire 18o miliardi di gas, viene da lì. Visto che non abbiamo voluto sviluppare fonti nostre, a meno di andare a carbone senza questa energia non riusciremmo a vivere». Ma, appunto, «non possiamo essere nelle mani di un fornitore solo». Evitiamo, perciò, di ripetere gli errori del passato. «Ci sono alternative energetiche che chiedono solo di essere sviluppate, nuovi equilibri che dobbiamo aiutare». E ci sarebbe, accanto all'hub Egitto-IsraeleCipro, il Nord Africa del gas che noi italiani già conosciamo bene: «L'Algeria: 4 mila miliardi di metri cubi. La Libia: 1.500. Che potrebbero triplicare. Se solo potessimo investire».

(Corriere della Sera, 1 aprile 2017)


Da Torino a Roma, l'ebraismo parla la lingua dei giovani

"C'è una bellissima atmosfera, una grande partecipazione dei giovani, in particolare delle piccole Comunità. Molta l'interazione tra i partecipanti e gli ospiti, con un ottimo livello degli incontri. Ci apprestiamo a questo shabbat con un grande entusiasmo". È la soddisfazione espressa da rav Roberto Della Rocca, direttore dell'Area Cultura e Formazione dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, per la quattro giorni organizzata per questo fine marzo dall'UCEI e dedicata al mondo giovanile ebraico. Irua (evento, in ebraico) il titolo dell'appuntamento che vede coinvolti 160 ragazzi provenienti da tutta l'Italia ebraica. "La risposta dei giovani è stata ottima e il clima è veramente positivo - conferma l'assessore ai Giovani dell'Unione Livia Ottolenghi, che ieri insieme al presidente della Comunità ebraica di Firenze Dario Bedarida e a rav Della Rocca, ha dato il suo benvenuto ai partecipanti - Sono molto contenta del risultato: sia per il numero dei ragazzi coinvolti sia per la loro provenienza. Sono rappresentate tutte le realtà ebraiche italiane, dalle piccole alle grandi, da Casale Monferrato a Roma. Le attività sono le più diverse, dalle lezioni di Talmud con rav Della Rocca alle partite di calcetto, fino agli incontri con un educatore esperto come Daniel Segre. Irua è veramente un'opportunità per i nostri giovani di incontrarsi, conoscersi e riconoscersi". Ci sono ragazzi di Savona, Firenze, Sannicandro, Roma, tutti riuniti per parlare, fare amicizie e confrontarsi su tematiche importanti per il futuro dell'ebraismo italiano. "Il futuro sono loro - spiega Ottolenghi - e questo appuntamento vuole essere un momento di incontro ma anche un'occasione per lavorare sul domani delle nostre Comunità. Ad esempio, le tavole tematiche organizzate da Dani Segre nelle scorse ore gravitavano su alcune domande che interrogavano i nostri ragazzi su come vedono tra 10 anni le rispettive kehillot (comunità): sulla loro visione dell'educazione ebraica, della leadership comunitaria e della rabbanut, sull'antisemitismo, su tutti quei grandi temi che presto saranno loro (i giovani) a dover affrontare concretamente". Ottolenghi spiega che l'idea di Irua è che non si esaurisca nella quattro giorni toscana ma "da qui vogliamo creare delle linee di discussione e poter dare un feedback alle questioni sollevate dai ragazzi, anche per dare seguito a quanto affermato dal Consiglio dell'Unione, ovvero che le future generazioni sono la nostra priorità".
   "Le iniziative - le parole di Ariel Nacamulli, presidente dell'Unione giovani ebrei d'Italia, promotrice dell'incontro assieme all'Area Cultura e Formazione UCEI, con il coinvolgimento di altre associazioni ebraiche - stanno andando molto bene. I ragazzi sono molto partecipi e alle tavole rotonde organizzate oggi ci sono stati confronti aperti e vivaci". "Unico rammarico - aggiunge l'assessore Ottolenghi - è il mancato coinvolgimento di alcune realtà, in particolare Milano, i cui numeri sono un po' esigui ma ribadisco: siamo molto felici del risultato e sicuramente i prossimi giorni saranno molto stimolanti".

(moked, 31 marzo 2017)


Napoli, comunità ebraica in piazza contro il convegno sul boicottaggio

di Giuseppe Crimaldi

 
L'associazione radicale Per la Grande Napoli ha manifestato questa mattina davanti alla sede del Consiglio Comunale, in via Verdi, a sostegno della comunità ebraica napoletana e contro la decisione di concedere la stessa sala consiliare agli organizzatori di un convegno sul boicottaggio di Israele e dei suoi prodotti. Alla manifestazione erano presenti anche i rappresentanti dell'Associazione Italia-Israele della Campania.
«Il sindaco de Magistris - sostengono i radicali - si sta chiudendo sempre più in questa autoconsolatoria e autoassolutoria identità partenopea cieca e violenta rispetto alla comunità ebraica napoletana e populista. Vogliamo una Napoli capace di traghettare la sua cultura e identità mediterranea in Europa, lavorando per una democrazia più forte e libera, non una Napoli che costruisce identità e cultura per sottrazione e attraverso antagonismi».
L'associazione invita il sindaco «a visitare le carceri di Napoli, a sostenere le attività culturali di una Napoli aperta e costruttiva, ad unirsi alla nostra richiesta per mediazioni culturale arabo/musulmana al fine di individuare Imam che possano entrare nelle carceri dell'area metropolitana di Napoli (magari campane), a chiedere ai direttori l'istituzione formale di una stanza per la preghiera comune del venerdì e di smetterla con la costruzione culturale di barriere».

(Il Mattino, 31 marzo 2017)


Israele-Slovacchia - Il presidente slovacco Kiska incontra il premier israeliano Netanyahu

GERUSALEMME - Il presidente della Slovacchia Andrej Kiska ha incontrato il primo ministro Benjamin Netanyahu a Gerusalemme. Lo riferisce questa mattina l'agenzia di stampa israeliana "Jewish Press", osservando che si tratta della prima visita dopo 20 anni allo Stato ebraico di un leader di un paese dell'Europa centrale. "La Slovacchia è un paese amico di Israele e spero che questa visita migliori la nostra amicizia e la cooperazione in un mondo che sta cambiando, ma nel quale abbiamo tanti valori e interessi comuni", ha detto Netanyahu a Kiska durante la cerimonia tenutasi presso la residenza del primo ministro.

(Agenzia Nova, 31 marzo 2017)


Il telegramma di Himmler al Gran Muftì di Gerusalemme: al vostro fianco contro gli ebrei

Il documento scoperto nella National Library di Israele, spedito il 2 novembre 1943

di Giordano stabile

 
Heinrich Himmler con il Grand Mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini nel 1943
BEIRUT - Un documento riemerso dalla National Library di Israele getta nuova luce sui rapporti fra la Germania nazista e il Grand Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini. E consolida in qualche modo la tesi del premier Benjamin Netanyahu che il religioso abbia giocato un ruolo nell'incitare allo sterminio degli ebrei. E' un telegramma spedito dal capo delle Ss Heinrich Himmler a Husseini, il 2 novembre 1943, nel ventiseiesimo anniversario della Dichiarazione di Balfour.
Himmler ricorda che la Grande Germania è stata una "strenua sostenitrice" della battaglia "degli arabi in cerca di libertà, in particolare in Palestina, contro gli ebrei invasori". Il nemico in comune, continua, "sta creando una solida base per l'unità fra la Germania e gli arabi nel mondo. In questo spirito, vi auguro, nell'anniversario della Dichiarazione di Balfour, di continuare la lotta fino alla grande vittoria".
   Proprio la citazione della Dichiarazione di Balfour ha portato a riemergere il documento. La biblioteca stava infatti conducendo una ricerca di tutte le testimonianze sul tema nel centenario della Dichiarazione. Il telegramma era stato confiscato dall'esercito americano nel 1945, dopo la disfatta della Germania nazista, dove viveva il Gran Muftì. Poi era entrato in possesso dell'Haganah, l'organizzazione ebraica che ha portato alla nascita di Israele. E infine era arrivano alla National Library, dove è rimasto sepolto fino ad ora.
   Il documento originale, ingiallito ma in perfetto stato di conservazione, è stato pubblicato sul giornale. E naturalmente si è riaccesa la discussione sulle frasi di un anno e mezzo fa di Netanyahu, quando aveva accusato il Gran Muftì di aver suggerito a Hitler di "bruciare" gli ebrei, il loro sterminio. Poi il premier aveva fatto marcia indietro in mancanza di prove storiche. Il telegramma non prova che quella conversazione abbia veramente avuto luogo ma conferma i rapporti "calorosi" fra i nazisti e il leader religioso.
   L'incontro fra Hitler e il Gran Muftì è però del novembre 1941, due anni prima del telegramma di Himmler. Lo sterminio degli ebrei, come conferma Dina Porat del Museo dell'Olocausto Yad Vashem, sempre citato da Haaretz, "era già cominciato da un pezzo" e i nazisti stavano già uccidendo gli ebrei "e avevano già abbandonato l'idea che l'emigrazione forzata e l'espulsione fossero una soluzione". Il telegramma ribadisce comunque l'esistenza di un'alleanza ideologica fra nazisti e il Muftì in quel preciso momento storico.

(La Stampa, 31 marzo 2017)


Il documento non è stato “scoperto” in questi giorni, ma soltanto reso pubblico. Quel telegramma di Himmler al Gran Muftì di Gerusalemme è stato pubblicato da “Notizie su Israele” circa quindici anni fa, insieme alla traduzione in italiano, “Adolf Hitler e il Muftì di Gerusalemme”. Haaretz non ha voluto perdere l'occasione di usare la notizia per colpire Netanyahu. M.C.


Puglia capofila della missione in Israele di 40 imprenditori di Ance e Confindustria

BARI - Puglia capofila della missione in Israele - in programma fino al 3 aprile - promossa dai Giovani imprenditori di Ance Bari e BAT, alla quale stanno prendendo parte circa 40 imprenditori di Confindustria provenienti da tutta Italia, soprattutto costruttori.
Incontri istituzionali finalizzati a conoscere il sistema imprenditoriale israeliano, studiare modelli innovativi di bioedilizia e cogliere nuove opportunità di business; sono questi gli obiettivi della missione - organizzata dal presidente del gruppo Giovani di ANCE Bari e BAT e primo console onorario di Israele in Italia, Luigi De Santis -, preceduta da un incontro a Roma con l'ambasciatore d'Israele in Italia Ofer Sachs, che ha voluto salutare gli imprenditori italiani prima della partenza.
La delegazione, accompagnata dal referente del Ministero degli Esteri Ran Natanzon e accolta dall'ambasciatore d'Italia in Israele Francesco Maria Talò, avrà modo di studiare - attraverso la presentazione di alcune startup - modelli innovativi di bioedilizia e di individuare possibili opportunità di business per via degli importanti piani di sviluppo infrastrutturale e immobiliare al via per qualche miliardo di euro. Dopo la visita ad alcuni cantieri, come quello della Metro di Tel Aviv, la delegazione incontrerà a Gerusalemme Charles Salomon, direttore generale del Ministero dei Trasporti.
«Israele - commenta Luigi De Santis - vanta il maggior numero di startup tecnologiche a livello mondiale e non può che rappresentare un esempio per sviluppare, anche in Italia e nella nostra regione, nuove idee di business applicate al settore delle costruzioni. Le idee innovative dei giovani imprenditori israeliani, integrate con la creatività delle imprese italiane e pugliesi, possono condurre a risultati fecondi per la nostra economia: è un'occasione da non perdere».

(Giornale di Puglia, 31 marzo 2017)


La manipolazione dell'informazione attraverso le immagini

Marco Reis: Pallywood. La manipolazione dell'informazione attraverso le immagini. Israele e altre storie.

Firenze, Le Murate, 1 aprile 2017, ore 17.30
Tra tutte le forme di informazione, quella basata sulle immagini (telegiornali, fotocronache, ecc.) ci sembra la più 'vera', oggettiva, reale. Invece le immagini possono essere manipolate in mille modi, esattamente come le parole, e… lo sono, infatti, quotidianamente, da parte dei media più 'seri' anche se poi si dà la colpa a Facebook e al web. Per di più, attraverso le immagini passa esattamente l'informazione più ingannevole: proprio perché la crediamo 'vera'. Ecco perché quando si svela la menzogna veicolata ogni giorno dal sistema mediatico, ci stupiamo profondamente. Questa conferenza probabilmente stupirà molti.
Marco Reis, giornalista professionista, è anche docente a contratto di Filosofia e teoria dei linguaggi presso l'Università di Torino.
Locandina

(Associazione Italia Israele di Firenze, 31 marzo 2017)


Astana, Baku e Pechino: Israele guarda a Oriente

Negli ultimi tempi il Premier israeliano Netanyahu ha compiuto diverse visite ufficiali in Asia. In particolare, i colloqui con Kazakistan e Azerbaijan, due Stati post-sovietici a maggioranza islamica, hanno mostrato la determinazione di Tel Aviv di spezzare vecchi tabù e spostare la propria collocazione strategica sempre più verso oriente. Allo stesso tempo l'interessamento israeliano conferma lo scacchiere asiatico come una realtà dall'indubbia rilevanza geopolitica a livello internazionale

di Luttine Ilenia Buioni

 Israele, il Kazakistan e la questione iraniana
 
Il premier israeliano Netanyahu è accolto nel Palazzo Presidenziale di Astana
   In carica dal 1989, il Presidente kazako Nursultan Nazarbayev - classe 1940 - è contemporaneamente una figura autoritaria e un maestro di diplomazia: ideatore della politica estera multivettoriale, garante della stabilità politica del Paese e regista di un'ascesa economica senza precedenti nel panorama post-sovietico.
Nondimeno, alla soglia dei 77 anni, il "Padre della Patria" sente incombere il momento di una successione ormai necessaria: un evento che desta l'interesse dell'intera comunità internazionale, fra svariate scommesse sul futuro del Paese e lo stupore generale per la recentissima e inaspettata ventata di democrazia. Solo due mesi fa, il Presidente comunicava infatti alla nazione una riforma dell'architettura istituzionale, che molto presto attribuirà buona parte dei poteri del Capo dello Stato agli organi legislativo ed esecutivo.
Crocevia tra Russia e Cina e nono Paese al mondo per estensione, il Kazakistan è l'autentico cuore strategico dell'Eurasia, attorno al quale gravitano le attenzioni delle maggiori potenze globali e di alcuni attori mediorientali quali Turchia, Iran e ora anche Israele.
Lo scorso dicembre il Premier israeliano Benjamin Netanyahu si è infatti recato in visita ufficiale nella capitale kazaka. Come si vedrà, la visita è stata la pietra angolare di una missione geopolitica che guarda ben al di là della preziosa partnership con Astana, ma anche un'opportunità per saggiare l'accortezza diplomatica di Nazarbayev. Difatti, al Presidente kazako è affidata l'ardua impresa di bilanciare gli interessi di due partner che non potrebbero essere più diversi tra loro: da un lato Teheran, dall'altro Tel Aviv (o Gerusalemme, secondo una prospettiva squisitamente israeliana).
Secondo quanto riportato dal Jerusalem Post, l'intenzione di Teheran di acquistare 950 tonnellate di concentrato di uranio dal Kazakistan - principale produttore mondiale - nasconderebbe il proposito iraniano di convertire il materiale in esafluoruro (un composto generalmente utilizzato nel processo di arricchimento dell'uranio) da rivendere al Kazakistan, dove l'elemento gassoso verrebbe trasformato in combustibile nucleare per l'esportazione.
Un'eventualità del resto ammessa dallo storico accordo sul nucleare iraniano, nonostante nel Regno Unito - uno dei cinque Paesi che supervisionano l'implementazione del negoziato - residuino ancora dei dubbi in merito alle clausole che regolamentano il cd. yellowcake.

 Astana, un ponte terrestre verso l'estremo oriente
  Negli anni più recenti, la politica multivettoriale di Astana si è rivelata una carta vincente per il consolidamento della cooperazione con la sfera europea ed euro-atlantica. Resta tuttavia da verificare se e in che modo la peculiare collocazione del Kazakistan e gli interessi delle grandi potenze orientali possano eventualmente influire sulla stabilità del Paese.
Da parte sua, la Russia si dichiara pronta a riconquistare nel 2017 un ruolo di primissimo piano nell'arena globale: ma se pure così fosse, la linea politica adottata da Nazarbayev rappresenterebbe un buon antidoto contro qualsiasi tentativo di riassorbimento nell'orbita ex-sovietica.
Tuttavia, all'hard power della Russia fa da contraltare il soft power della Cina, impaziente di dar vita al grandioso progetto della One Belt, One Road, che coinvolgerà l'intera Asia Centrale. Così, tra l'euforia degli altri Stans locali e il parziale sconcerto del più cauto Kazakistan, dall'Estremo Oriente pioveranno finanziamenti per un valore di 250 miliardi di dollari da destinare allo sviluppo infrastrutturale delle cinque repubbliche post-sovietiche.
Ecco quindi che il profilo geopolitico del Kazakistan è punto di forza, ma anche tallone d'Achille di un Stato che - se non fosse per l'astuzia diplomatica del suo Presidente - si troverebbe forse a gestire diversamente le avances di Pechino, che ha già individuato nel Paese un irrinunciabile spazio strategico.
Nella geografia della Nuova Via della Seta il Kazakistan rappresenta dunque una liaison tra il Medio e l'Estremo Oriente, oltre che un partner chiave per allacciare relazioni multilaterali con i circostanti Stans. Ed è su queste direttrici che si innestano le aspirazioni di Tel Aviv, alla ricerca di un proprio ruolo nell'ordine centro-asiatico e palesemente attratta da un mercato in costante espansione.
Anzitutto, Israele rappresenta per il Kazakistan un valido alleato in campo economico e commerciale, così come nei settori della tecnologia agricola e delle comunicazioni. Per altro, l'attuale partnership bilaterale vede Israele impegnato nel rinnovo degli armamenti del Kazakistan - anche alla luce della comune opposizione alla minaccia del radicalismo islamico - e nell'acquisto di petrolio per circa il 25% del proprio fabbisogno.
Oltretutto, nel novembre 2015 lo Stato ebraico ha sottoscritto un accordo di libero scambio con l'Unione Economica Eurasiatica (EEU) e proprio Astana risulta esserne il beneficiario privilegiato, merito soprattutto della neutralità assunta nei confronti del conflitto arabo-israeliano.
Per queste ragioni, la visita di Netanyahu ha indubbiamente contribuito a rinsaldare gli impegni in corso, ma ha costituito anche l'occasione perché il Premier israeliano esercitasse delle pressioni in funzione anti-iraniana, esprimendo forte preoccupazione verso i programmi nucleari di Teheran.

 Baku, un interlocutore strategico per la sicurezza
 
Benjamin Netanyahu con il Presidente dell'Azerbaijan, ?lham Aliyev
  La puntata ad Astana dello scorso dicembre è stata però solo la seconda tappa di un breve viaggio diplomatico che anzitutto aveva condotto il Premier israeliano in Azerbaijan. Anche la presenza di Netanyahu a Baku, sulla sponda occidentale del Caspio, è indice di un sensibile avvicinamento dello Stato ebraico al piccolo eldorado di idrocarburi, cuore pulsante di un (pur discontinuo) processo di industrializzazione, dall'eredità sovietica poco ingombrante e in prevalenza fedele all'Islam sciita, nonostante alcuni dissapori con il vicino persiano.
I colloqui con il Presidente İlham Aliyev rappresentano in realtà la prosecuzione di un fruttuoso dialogo bilaterale cominciato sul finire degli anni Novanta in materia di economia, sicurezza ed energia. In particolare, negli ultimi vent'anni l'Azerbaijan avrebbe acquistato da Israele materiale militare per un valore pari a circa cinque miliardi di dollari, mentre dall'alleato caucasico provengono un terzo del gas ed il 40% del petrolio che consente ad Israele di soddisfare il fabbisogno energetico nazionale.
Ma v'è un'altra ragione per cui la popolarità israeliana in Azerbaijan è in rapida ascesa, e ciò in quanto l'asse con Tel Aviv potrebbe indirettamente rinvigorire la credibilità militare di Baku nel contesto regionale. Si ricordi che solo un anno fa la cosiddetta "guerra dei 4 giorni" (2-5 aprile 2016) spezzava una tregua di cristallo durata complessivamente ventidue anni e riportava il frozen conflict del Nagorno-Karabakh al centro dell'attenzione diplomatica e mediatica dello spazio post-sovietico. Com'è facilmente intuibile, la riconquista della regione a maggioranza armena avrebbe potuto straordinariamente innalzare l'indice di gradimento del Presidente Aliyev nel Paese, già vittima di una recessione determinata dall'imprevedibilità del mercato energetico e dal vertiginoso calo degli investimenti.
Ecco dunque che in uno scenario strategico orientato alla tutela della sovranità territoriale, la partnership militare con Israele riveste un ruolo essenziale. Come corrispettivo, Tel Aviv riconosce nel Paese caucasico un partner ideale, situato proprio al confine settentrionale della Repubblica Islamica dell'Iran.

 L'arco delle aspettative israeliane in Asia
 
La sinagoga di Krasnaiya Sloboda, villaggio dell'Azerbaijan settentrionale prevalentemente abitato da residenti di religione ebraica
  Lo Stato ebraico, mentre segue con attenzione gli sviluppi della politica internazionale, coltiva con disinvoltura nuovi semi di cooperazione e si appresta a tessere future alleanze nel quadrante asiatico. A febbraio lo sguardo di Tel Aviv ha accarezzato anche il Sud-Est del continente, come testimonia un rapido stopover di Netanyahu e consorte a Singapore, per poi raggiungere l'Australia: complici il divieto di sorvolo dello spazio aereo indonesiano per la compagnia israeliana El Al, ma soprattutto l'amicizia tra Tel Aviv e la città-stato asiatica. Ancora, solo il 19 marzo - su invito ufficiale del Presidente Xi Jinping - il Premier israeliano è volato a Pechino, per celebrare le nozze d'argento delle relazioni diplomatiche tra Israele e la Repubblica Popolare Cinese. L'incontro si è risolto naturalmente in una pioggia di accordi su ricerca spaziale, alta tecnologia, medicina, commercio ed agricoltura.
Se dunque il supporto di Washington rappresenta ancora il caposaldo della politica estera israeliana, Tel Aviv individua però ulteriori spazi di cooperazione verso est e sembra avere una chiara visione dei maggiori player internazionali in grado di influenzare lo scenario mediorientale e di contenere, eventualmente, i propositi dell'avversario iraniano.
A tale riguardo, l'approccio più esplicito - formalità diplomatiche a parte - rimane indubbiamente quello che aveva connotato i colloqui tra Netanyahu e Nazarbayev. Ma pur considerando la crescente influenza di Israele in Kazakistan, basterebbe dare un'occhiata alla sagoma geografica del Paese centro-asiatico - privo di significativi sbocchi al mare, se si eccettua il Caspio - per comprendere che l'Iran rappresenta un partner irrinunciabile per Astana. Infatti, grazie alla linea ferroviaria che attraversa il Turkmenistan, le merci kazake possono raggiungere i porti iraniani del Golfo Persico per poi accedere al mercato globale, evitando il transito in territorio russo o cinese.
Tuttavia, in questo gioco sul filo dell'equilibrio, lo Stato ebraico confida nella lungimiranza dell'anziano Nazarbayev, affinché l'ago della bilancia penda a favore di Tel Aviv. E spera nel frattempo che il Kazakistan del futuro sia altrettanto abile nel flettere adeguatamente la curva degli interessi in gioco e si mostri all'altezza dell'eredità politica e diplomatica dell'attuale Presidente, un "Padre della Patria" dalla linea dura, ma non così scomoda al di fuori dei patri confini.

(Il Caffè Geopolitico, 31 marzo 2017)


"La solitudine dell'uomo di fede"

Domenica 2 aprile si inaugura la stagione 2017 delle iniziative culturali del Museo Ebraico Fausto Levi di Soragna.
Il primo appuntamento alle ore 16.00 è la presentazione del libro "La solitudine dell'uomo di fede", di rav. Joseph Dov Beer Soloveitchik, edito da Salomone Belforte & C editori.
Il volume, che inaugura la collana Ma'aloth, Biblioteca di storia e pensiero ebraici di Belforte Editore, rappresenta una delle più profonde riflessioni ebraiche ed è considerato un capolavoro della produzione spirituale e filosofica del popolo di Israele nel corso del XX secolo.
L'autore, Rabbi Joseph Beer Soloveitchik (1903-1993) è considerato tra i più importanti rabbini ortodossi in America nel XX secolo.
La riflessione di Soloveitchik aiuta ancor oggi in modo magistrale ad affrontare i problemi del vivere umano nella dialettica dell'uomo pratico e dell'uomo di fede.
Alla presentazione, che avverrà nella splendida cornice della neoclassica Sinagoga di Soragna, interverranno Vittorio Robiati Bendaud, segretario Tribunale rabbinico nord e centro Italia, direttore della collana Ma'aloth, nonché traduttore e curatore del libro e Guido Guastalla, editore del volume e Giorgio Yehuda Giavarini, Presidente della Comunità Ebraica di Parma.

(Comunità Ebraica di Parma, 31 marzo 2017)


Al Meis ci sarà lo "spazio delle domande"

La scoperta dell'identità ebraica sarà al centro di un itinerario 'vivo' fra natura, musica e cultura

di Cecilia Gallotta

FERRARA - Diventerà "Lo spazio delle domande" il Meis, che con questo provocatorio titolo apre i battenti alla città mercoledì 5 aprile alle ore 16, in un itinerario pronto ad accogliere tutte le curiosità sul mondo ebraico, di cui Ferrara è custode di storia.
   La mostra, aperta fino al 27 aprile dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 18, allieta l'attesa per l'apertura della nuova sede Meis, prevista per dicembre presso l'ex carcere "con un'esposizione particolarmente forte".
La palazzina di via Piangipane 81, però, non sarà solo temporaneo teatro 'delle domande', perché molte delle esposizioni di aprile rimarranno parte di un percorso permanente del Meis, destinato a diventarne, dopo l'apertura del nuovo edificio, lo spazio didattico.
   Articolato in quattro sale e un giardino, lo 'spazio delle domande' "vuole essere un luogo dove soprattutto i non ebrei possano porre delle domande - chiarisce la direttrice Simonetta Dalla Seta - dalle più semplici alle più complesse, da quelle formulate dai bambini a quelle degli adulti".
   Del resto, l'ebraismo è la "cultura delle domande - afferma il rabbino capo della Comunità di Ferrara Rav Luciano Caro - perché è nel connubio dialettico fra domanda e risposta che si sviluppa la conoscenza. A una domanda possono essere date tante risposte, e quella migliore quasi sempre non è quella che ci piace, ma quella che ci fa più riflettere". Una risposta, s'intende, destinata a chi ha sete di sapere, a chi nutre, elabora e ricostruisce incessantemente il proprio pensiero, e che spesso, è un'altra domanda.
   E' infatti uno degli obiettivi principali del Meis quello di ricostruire la conoscenza, la cui assenza, come constata il sindaco Tiziano Tagliani "è stata culla del pregiudizio". Questo sarà possibile nella prima sala attraverso l'ascolto di interviste inedite a sette ferraresi sulla propria identità ebraica, realizzate dal regista Ruggero Gabbai in un più ampio progetto "di ritratti sui volti dell'ebraismo", in cui l'identità ebraica viene illustrata a prescindere dalla tragedia della Shoa, alla quale "soltanto siamo abituati a ricongiungere".
   Oltre alle domande ci sarà spazio anche per la musica grazie a Enrico Fink, che ha riproposto inedite musiche originali usate nelle sinagoghe di Ferrara. "Abbiamo scelto le musiche da matrimonio", tema centrale della seconda sala, che rivivrà i tempi, il valore e l'atmosfera della celebrazione ebraica, con una selezione di oggetti - dal baldacchino al calice per la santificazione del matrimonio - provenienti dalla collezione del Museo Ebraico della Comunità di Ferrara. Grandi e piccini potranno poi interagire in una strada di botteghe e abitazioni ebraiche, ricostruita in scala.
   Novità assoluta l'apertura del giardino, "che sarà un giardino di spezie e piante bibliche", fra cui melograno, ulivo, fico, grano e dattero, attraverso cui si cercherà di imparare le regole dell'alimentazione ebraica. Uno spazio, insomma, "in cui speriamo - è l'augurio del rabbino - che le vostre domande ci aiutino a porcene altre, e che ci sia uno scambio reciproco di ricchezza".

(estense.com, 31 marzo 2017)


Al Museo ebraico di Lecce l'arte ebraica contemporanea in una mostra di Itman

 
LECCE - Domenica 2 aprile, alle ore 18, nelle sale del Museo ebraico di Palazzo Taurino "Medieval Jewish Lecce", la mostra contemporanea di Joel Itman "Da Minneapolis a Lecce: tradizione e innovazione nell'arte ebraica contemporanea", che propone ai visitatori ceramiche e stampe ideate e realizzate dall'artista americano negli scorsi anni di lavoro in Italia.
Nato negli Stati Uniti, Itman ha studiato arte e cinema a Minneapolis, Parigi e New York. Vive a Milano. La sua arte è popolata da personaggi - umani, animali e d'invenzione - che trasmettono un messaggio universale d'umanità. I colori accesi, le linee fluide e le forme fantasiose comunicano un senso di immediata e naturale vitalità.
"Quattro anni fa - rivela Joel Itman - ho iniziato una ricerca sulle mie origini ebraiche europee, che mi hanno ispirato per creare una nuova arte ebraica. Anche se profondamente radicato nella tradizione, il mio stile - colorato ed estroso - diverge nettamente dalle rappresentazioni più tradizionali di temi artistici ebraici. La mia arte rispecchia un ebraismo vivo e vibrante".
"Siamo rimasti affascinati dal percorso compiuto dall'artista alla ricerca delle proprie radici in Europa - commenta Fabrizio Lelli, direttore del museo di Palazzo Taurino - in linea con il nucleo tematico principale del nostro museo, incentrato sul recupero della memoria ebraica obliterata da secoli nel Salento".

(Corriere Salentino, 31 marzo 2017)


L'antiterrorismo di Tel Aviv agli israeliani: "Via da Sharm el-Sheik"

L'anti-terrorismo israeliano fa scattare l'allerta e chiede il rientro a Tel Aviv dei suoi cittadini: "Seria minaccia dell'Isis"

di Luca Romano

Torna la paura nei centri turistici del Nord Africa. La minaccia è sempre la stessa: un attacco jihadista nei villaggi frequentati dai turisti.
Dopo gli attacchi a Sousse e al Museo del Bardo in Tunisia, nel mirino dei terroristi potrebbe essere tornata Sharm El Sheik. A rivelarlo è l'antiterrorismo israeliano.
Tel Aviv ha avvisato i suoi cittadini di lasciare immediatamente tutti i resort della località egiziana di Sharm el-Sheikh e dell'area del Mar Rosso per l'alto rischio di attentati da parte dell'Isis. Secondo gli organismi anti-terrorismo di Tel Aviv, "esiste un serio e attuale rischio che attentati siano condotti contro i turisti, in particolare israeliani, nell'immediato futuro", per questo è necessario che "tutti facciano rientro in patria e che chi abbia previsto un viaggio nella zona lo cancelli". Lo stesso capo dell'anti-terrorismo d'Israele, Eitan Ben-David, ha detto: "Non gridiamo al lupo, siamo convinti che la minaccia sia seria". Alcune centinaia di cittadini israeliani sono attualmente presenti nella zona ma molti di più sono attesi nelle prossime settimane in coincidenza con il periodo festivo di Pesach, la Pasqua ebraica. In queste ore dunque diversi cittadini israeliani dovranno imbarcarsi su un volo per rientrare in Israele. L'allarme dal governo di Tel Aviv viene definito "serio". Torna dunque la paura sulle spiagge dello svago, meta preferita di diversi turisti, non solo israeliani.

(il Giornale, 30 marzo 2017)



«Boicottaggio anti Israele», sit in dei Radicali

L'europarlamentare Martusciello invita la presidente della comunità ebraica di Napoli a Bruxelles. Il vice ministro degli Esteri Mario Giro oggi alla Federico II: «Meglio non alimentare tensioni antiche».

 
NAPOLI - I radicali napoletani hanno organizzato un sit-in, domani, a partire dalle 9,30, nei pressi della sede del consiglio comunale di Napoli in via Giuseppe Verdi, per esprimere solidarietà alla comunità ebraica. «In questi anni - affermano Roberto Gaudioso, segretario dell'Associazione Radicale "Per La Grande Napoli", e Giuseppe Alterio, membro della direzione nazionale di Radicali Italiani - il sindaco ha costruito attivamente il suo odio contro Israele, gli atti più indicativi sono la cittadinanza onoraria ad Abu Mazen e quello di qualche giorno fa, quando ha concesso l'aula del consiglio comunale di Napoli per un convegno che avrebbe lo scopo di far introdurre nell'agenda del Comune un'azione concreta anti-israeliana di durata fondata sul "Bds" (boicottaggio-disinvestimenti-sanzioni)». L'iniziativa radicale fa seguito alla lettera che Lydia Schapirer, presidente della Comunità ebraica di Napoli, ha inviato al sindaco Luigi de Magistris, ricordandogli che «se il Comune intende davvero proporsi come motore dei processi di pace», si rende necessario attuare «un deciso cambio di rotta improntato all'equilibrio e all'ascolto delle ragioni dell'una e dell'altra parte senza retorica e facili slogan». Giacché «l'idea che il sostegno alla causa della nascita dello stato palestinese possa passare per un'azione di chiusura verso lo stato ebraico, la cui cultura e ricerca scientifica sono apprezzati nel mondo per il loro contributo al miglioramento delle condizioni di vita e al dialogo tra i popoli, ha il sapore amaro di qualcosa di già subito dagli ebrei in seguito all'espulsione dalla Spagna e dai suoi possedimenti».
   Inoltre, l'europarlamentare di Forza Italia, Fulvio Martusciello, e presidente della delegazione nei rapporti tra Ue e Israele, ha invitato la presidente Schapirer a Bruxelles: «Abbiamo provveduto a invitare quali speakers, per la seduta di delegazione del 27 aprile - ha riferito l'esponente politico - la presidente della comunità ebraica di Napoli e la presidente della comunità ebraica italiana. Discuteremo di antisionismo e di quello che sta accadendo a Napoli nei confronti di Israele».
   Stamane, intanto, alle 10, il vice ministro degli Esteri, Mario Giro, interverrà con il rettore della Federico II, Gaetano Manfredi, e con il rettore de L'Orientale, Elda Morlicchio, ad un seminario sulla cooperazione internazionale presso l'aula Pessina di corso Umberto. «lllustrerò - spiega Giro - come la cooperazione internazionale fornisca tante possibilità di lavoro per i giovani: dalla Unione europea all'Onu, dalle Ong - che in questi anni hanno proceduto a moltissime assunzioni - alla carriera diplomatica. Insomma, il contesto internazionale non è fatto soltanto di ragazzi che sono in qualche modo costretti a trovare lavoro in un pub a Londra o a Barcellona, ma anche di significative opportunità». Tuttavia, le tensioni internazionali rovesciano, a volte, effetti sul contesto locale. E il viceministro Giro non si sottrae alla riflessione sul caso che vede, in queste ore, il sindaco de Magistris al centro di una polemica con la comunità ebraica che gli contesta di sostenere le attività di boicottaggio nei confronti di Israele e di parteggiare per la causa palestinese. «Sarei attento quando si toccano certi argomenti - risponde il rappresentante del Governo - perché si fa riferimento a conflitti antichi che devono essere trattati con attenzione. Non mi permetto di dare giudizi, ma di fronte a questi fenomeni è meglio non soffiare mai sul fuoco della tensione. Sarebbe più utile trovare una via di mezzo. Le nostre democrazie occidentali - prosegue - sono sempre in evoluzione e l'Europa resta un continente formato da società significativamente avanzate sotto il profilo del rispetto dei diritti umani e della sensibilità popolare». A.A.

(Corriere del Mezzogiorno, 30 marzo 2017)


Quando il Duce amava l'Islam

Mussolini fu arrestato durante il governo Giolitti perché protestava contro l'invasione della Libia. In libreria la nuova opera di Giancarlo Mazzuca e Gianmarco Walch.

di Pietro De Leo

«Siete dunque buddista?». Così, Benito Mussolini ebbe uno dei suoi primi avvicinamenti al mondo musulmano. Il secondo, a dir la verità. Perché il primo si verificò quando, con Pietro Nenni, il maestro di Predappio manifestava contro la colonizzazione della Libia da parte del governo Giolitti e per questo si fece alcuni mesi di galera. Da qui prende corpo il volume scritto da Giancarlo Mazzuca e Gianmarco Walch, «Mussolini e i Musulmani. Quando l'Islam era amico dell'Italia» (Mondadori, 150 pagine, 19 euro). E che c'entra il buddismo con l'Islam? C'entra in quello slancio di sincretismo della domenica, mescolando tutte le acque esotiche, con cui Mussolini, ancora direttore de l'Avanti, si avvicinò a Leda Rafanelli, toscana che passò del tempo ad Alessandria d'Egitto dove s'imbevve di maomettanesimo, e da lì, tornando in Italia, prese a girare vestita da odalisca.
   Era, la Raffaelli, una pittoresca presenza del sottobosco intellettuale, che dal futuro Duce si sentì attratta, ricambiata in quel furore amatorio che sempre lo contraddistinse. E lì, nelle stanze (di lei) agghindate di cuscini e annebbiate d' incensi dei quali par di sentire l'aroma, cominciò il suo avvicinamento culturale al Corano e al mondo musulmano.
   Che proseguì, ai tempi dell'«Impero», nel segno dell'inizio: alla vis politica (ora divenuta di governo e di dominio) si aggiungeva una significativa vena iconografica, di cui forse l'istantanea più significativa è quella del Duce che sguaina la spada dell'Islam nell'oasi di Bùgara (che peraltro, di islamico, quella spada aveva ben poco visto che fu fabbricata da artigiani fiorentini). E proprio la Libia fu il fulcro di quella campagna di conquista, che accanto al tentativo di trovare nuove opportunità per le imprese e i lavoratori italiani, affiancò quello di affratellare i due popoli e le due culture.
   Operazione spericolata, condotta all'ombra dei minareti sdoganando l'Islam probabilmente con troppa disinvoltura a-storica, considerando la storia di sangue e dominazione che la dominazione portava con sé, anche per il nostro Paese (basti ricordare l'efferatezza con cui vennero trucidati i martiri di Otranto).
   Da lì, iniziative di propaganda come Radio Bari (proprio nel capoluogo pugliese, nel IX Secolo, fu istituito un emirato islamico durato per un venticinquennio), che trasmetteva in arabo. E da lì, anche, le degenerazioni peggiori, come l'amicizia con il Gran Muftì di Gerusalemme accolto con tutti gli onori in Italia e sostenuto nel piano orribile di inquinare l'acquedotto di TelAviv, città dove si era stabilito il più alto numero di ebrei giunti in Palestina. Anche la guerra al cristiano Negus, in Etiopia, si incardina in questo quadro. Che non finì con la disfatta del fascismo e la caduta del Duce.
   Infatti, il volurne di Mazzuca e Walch si concentra per porre una certa continuità tra l'impostazione filoaraba del Duce e quella che si ebbe per tutta la Prima Repubblica, tra la strategia energetica di Mattei e i movimenti nello scacchiere della Democrazia Cristiana. Circostanza che osserva anche Magdi Allam nella postfazione, ponendo l'accento a tutti gli aspetti più controversi della cosa: «Mussolini, Mattei, Moro, Andreotti, e persino i governi successivi - scrive Allam - hanno rappresentato una continuità nella politica filoaraba e filoislamica dell'Italia. L'accordo segreto sottoscritto negli anni Settanta tra Moro e l'Olp, tramite il colonnello del Sismi Stefano Giovannone, è stato la conferma di questo rapporto privilegiato al punto da lasciare praticamente la facoltà ai terroristi palestinesi di utilizzare il territorio italiano per le loro attività logistiche». E dunque proprio in questa chiave di lettura, il volume di Mazzuca Walch diventa un tassello per ricostruire oltre un sessantennio di storia italiana, antidoto all'errore, piuttosto comune, di collocare una voragine tra il fascismo e quanto venne dopo.

(Il Tempo, 30 marzo 2017)


Hamas e la sua "piccola Hollywood" ricreano Gerusalemme nella Striscia di Gaza

Il gruppo terroristico gira un film stilla città rivendicata come capitale

di Fabio Scuto

KHAN YOUNIS (GAZA) - Ciak! Azione!». Il gruppetto di ebrei ortodossi, protetti da un reparto della Border Police israeliana armato di M-16, cammina nei vicoli stretti. Gli arabi in fondo alla strada inveiscono, li insultano, lanciano pietre. I negozianti si affrettano a buttare dentro le loro mercanzie e sbarrare la porta. Una gru porta giù rapidamente la cinepresa per un primo piano della scena con gli scontri, in quelle che sembrano le viuzze della Città Vecchia di Gerusalemme. Siamo, invece, vicino a Khan Younis, sul set dell'ultima produzione cinematografica di Hamas, che sui resti dell'ex colonia israeliana di Ganney Tal ha costruito la sua «piccola Hollywood» per la sua prima vera importante produzione: «La porta del Paradiso», un serial che, come tradizione nel mondo arabo, andrà in onda durante il prossimo Ramadan, che inizia il 27 maggio. Niente produzioni turche o egiziane, quest'anno Hamas ha messo mano ai suoi fondi e attraverso la sua tv, «Al Aqsa», ha deciso di produrre il primo «movie» ambientato nella Striscia e realizzare da sé il programma normalmente più visto in quei giorni di festa. Mandare troupe, attori e comparse nella vera Gerusalemme era impossibile, ed ecco perché fra queste dune sabbiose è stata riprodotta una scenografia, che ricostruisce in un dettaglio accettabile l'atmosfera di chi si trova dentro le Mura di Gerusalemme, con le sue bancarelle, i vicoli affollati, il vociare impastato della gente di arabo e ebraico, i controlli di esercito e polizia israeliana. Mohammed Thoraya, generai manager della tv di Hamas, è soddisfatto del lavoro svolto: «Abbiamo cercato di simulare in piccolo quel che c'è in realtà».
   Il destino di Gerusalemme è il cuore del conflitto israelo-palestinese, in grado di suscitare tensioni fortissime fra le comunità, per il controllo e l'accesso ai luoghi santi per le tre religioni. La Città Vecchia con i suoi luoghi sacri per ebrei, cristiani e musulmani, venne giusto conquistata dagli israeliani cinquant'anni fa. I palestinesi la rivendicano come capitale del loro futuro stato. Un tema di sicura attrattiva per Hamas e che si presta bene all'esigenza di imporre una sua versione della Storia. «La porta del Paradiso», spiega senza voler svelare il finale il regista Zouhir al-Efrengi, «mostrerà la fermezza dei gerosolimitani (antichi ordini cavallereschi del Regno di Gerusalemme, ndr) e l'amore della loro terra di fronte all'occupazione sionista».
   Gli attori e i cineasti reclutati dalla tv «Al Aqsa» sono tutti di Gaza, la maggior parte di loro non è mai stata a Gerusalemme, e come documentazione gli sceneggiatori hanno usato vecchi film girati nella «Old City». Il costo della produzione è ufficialmente top secret, Gru e Panavision professionali indicano un certo capitolo di spesa, ma gli attori hanno una vita grama, i figuranti ingaggiati sono pagati 4 dollari al giorno, le comparse - se c'è un primo piano - possono arrivare anche a 9 dollari. L'importante per questi giovani - vestiti da ebrei religiosi, ultraortodossi o agenti di polizia israeliani, che nel serial si esprimono in lingua ebraica - però è esserci, partecipare.
   Nonostante la sceneggiatura sia «blindata», non è difficile intuire i contenuti della narrativa di Hamas, che è padrona della Striscia da 10 anni, durante i quali ha combattuto tre guerre con Israele e ha giurato la distruzione dello Stato ebraico. La piccola industria cinematografica di Gaza vive nonostante attori dilettanti e le continue interruzioni di corrente - una scena in interno de «La porta del Paradiso» è stata girata 19 volte per i continui blackout-, ma il leitmotiv resta sempre lo stesso-, e per questo difficilmente sarà un successo. Anche se siamo a Gaza.

(La Stampa, 30 marzo 2017)



Parashà della settimana: Vayikrà (E chiamò)

Levitico 1:1-5:26

 - "Il Signore chiamò Moshè dalla tenda della Radunanza" (Lev. 1.1).
Il midrash rabbà riferisce che Moshè aveva dieci nomi e tra questi il Signore ha scelto di chiamarlo con quello di Moshè cioè con il nome regale, che gli dette Batya, figlia del faraone. Il Hatan Sofer sostiene che D-o concede la profezia ad un uomo che sia saggio, ricco e umile. Perché vengono richieste queste qualità? Nella Torah è scritto: "L'uomo Moshè è l'uomo più modesto della terra" (Num. 12.3). La modestia di un povero è legata alla sua condizione sociale mentre quella di un ricco, come Moshè, è veramente tale. Difatti pur essendo vissuto nel palazzo del re d'Egitto, Moshè ha conservato la sua modestia e per questo è stato scelto dal Signore.
Il libro di Vayikrà (lett. chiamò), conosciuto nel mondo profano con il termine di Levitico, tratta dei rituali riguardanti i sacrifici che i sacerdoti offrivano al Signore nel Tabernacolo. Parlare di sacrifici animali oggi si incorre in qualcosa di "negativo" essendo questa cosa ritenuta da molti un massacro di animali, un bagno di sangue. Ma la Torah avverte e chiede all'uomo di non fermarsi alle apparenze, in quanto il libro del Levitico contiene al suo interno tesori ancora da scoprire.
In lingua ebraica il sacrificio è indicato con la parola "korban" che significa avvicinarsi a D-o. Difatti l'altare del Tabernacolo è il punto di unione tra il mondo celeste (spirituale) con quello terrestre (materiale). Pertanto tramite il sacrificio l'uomo può avvicinarsi alla sua origine divina e ritrovare l'unità con il suo Creatore. L'offerta animale portata al Tempio fa scoprire all'uomo la natura del suo peccato e gli indica la strada per riparare. Il rabbino Rafael Hirsch sostiene che il sacrificio di "olà" (elevazione) è il sacrificio per eccellenza. Adamo, Noè ed Abramo portarono sull'altare sacrifici di olà come testimonianza della loro volontà di avvicinarsi a D-o nell'intento di fare "teshuvà" intesa come un ritorno verso il loro Creatore. Maimonide (Rambam) nella sua opera sulle leggi di teshuvà, sostiene che la prima tappa di questo processo di ritorno sia quello di riconoscere le proprie colpe. Può sembrare una tappa inutile in quanto se un uomo si pente si presume che conosca il suo peccato. E' un'illusione pericolosa, sostiene il Maimonide. Difatti non basta dire: "Non farò più in questo modo". L'uomo deve rendersi conto della sua "distanza" da D-o creata dal peccato. Soltanto allora avrà posto una pietra angolare per il ritorno, sollecitato anche dalla "chiamata" del Creatore, che non vuole la morte del peccatore ma la sua teshuvà. Questo discorso vale per il singolo come pure per il popolo e per i suoi dirigenti. A riguardo sia il gran Sacerdote che il Sinedrio sono obbligati, in caso di errore da loro commesso, ad offrire un sacrificio di espiazione.
"Qualora pecchi il Sacerdote unto, inducendo in colpa il popolo, dovrà offrire in espiazione del peccato da lui commesso, un toro senza difetti" (Lev.4.3).
L'insegnamento della Torah è sorprendente: vuole insegnarci che "l'infallibilità" umana non esiste. Il gran Sacerdote può sbagliare, ma deve riconoscere il suo errore, abbassare il suo orgoglio e comprendere con umiltà che è l'animale sacrificato a pagare per il suo peccato. Nelle offerte al Tempio non esistono restrizioni in modo da permettere anche ai più poveri in Israele di portare omaggi al proprio Creatore. In conseguenza l'offerta può essere un animale (kasher), una coppia di colombi oppure una piccola quantità stabilita di farina bianca.
Il sistema dei sacrifici consistente nelle offerte per le colpe commesse, hanno all'orecchio dell'uomo moderno un suono straniero ed inutile. Perché pagare qualcosa? Rav Soloveitchik sostiene che esiste un legame tra sacrifici nel Tempio e le benedizioni. In cosa consiste questo legame? Nella teshuvà. Il sacrificio risveglia nell'uomo, che vive nell'oscurità, il suo pentimento verso la luce, in modo che egli possa avvicinarsi al Signore.
Abramo offrì in sacrificio il figlio Isacco su ordine del Signore, ma la sua mano venne fermata dall'angelo di D-o. Che significa tutto questo? Che il determinismo presente nella natura non esiste. La fede dell'uomo può superare questi "limiti" (mitsraim) e portare la benedizione nel mondo. Ai nostri giorni, dinanzi alle tragedie che hanno colpito l'Umanità, si è parlato della "morte" di D-o, ma sarebbe più giusto parlare della morte della Teshuvà da parte dell'uomo, che si è allontanato da D-o. F.C.

*

 - La tremenda crisi del Sinai che ha inizio al capitolo 32 dell'Esodo sembra essersi conclusa alla fine del capitolo 40, dove si dice che "la nuvola coprì la tenda di convegno, e la gloria dell'Eterno riempì il tabernacolo" . Conclusa?

Ricordiamo i fatti essenziali della crisi.
Dopo essere riuscito a far recedere il Signore dal suo proposito di distruggere il popolo, Mosè si trova davanti a un altro fatto gravissimo: Dio si rifiuta di venire ad "abitare in mezzo ai figli d'Israele", com'era previsto nel patto stipulato all'inizio (Es. 29:45). Questo conferma che il patto originario ormai non è più valido, altrimenti bisognerebbe accusare Dio di inadempienza. A questo punto Mosè, che avrebbe dovuto iniziare la costruzione del tabernacolo se il patto fosse stato ancora in vigore, costruisce invece una tenda, la porta fuori dell'accampamento e vi entra dentro nella speranza di poter proseguire lì il colloquio con Dio. L'iniziativa non dispiace al Signore, che accetta la proposta di dialogo. Ogni volta che vede Mosè entrare nella tenda, con il chiaro proposito di parlare, la nuvola che segnala la sua presenza scende verso la terra e si avvicina alla tenda. Ma non entra.
"Appena Mosè entrava nella tenda, la colonna di nuvola scendeva, si fermava all'ingresso della tenda, e l'Eterno parlava con Mosè" (Es. 33:9)
Sta scritto che Mosè parlava con Dio "faccia a faccia, come un uomo parla col suo vicino" (Es. 33:11). Questo è certamente un privilegio eccezionale di Mosè: poter dialogare direttamente con Dio in un botta e risposta personale, ma non significa che Mosè abbia potuto vedere la faccia di Dio, per il semplice fatto che Mosè stava dentro la tenda mentre il Signore stava fuori, dentro la nuvola.
Da qui si può capire che fino a questo momento Dio non aveva ancora accettato di venire a "convivere" con il popolo.

Dio abiterà in mezzo al popolo. Ma come?
Le cose vanno avanti e, come abbiamo visto la volta scorsa, Mosè riesce a far cambiare idea al Signore. Il racconto biblico ci presenta Mosè che scende dal Sinai portando le nuove tavole con le nuove disposizioni, e al popolo in trepidante attesa comunica la "buona notizia" che, in base al nuovo accordo stabilito, Dio acconsente a venire ad "abitare in mezzo ai figli d'Israele". Il tabernacolo dunque potrà essere costruito, e Mosè impartisce le necessarie istruzioni.
Dopo che il tabernacolo è costruito, arriva il momento di inaugurarlo: si aspetta soltanto che il Signore venga ad abitarvi. Questo effettivamente avviene, ma avviene anche un fatto singolare. In quello che possiamo chiamare "il colloquio della tenda", avvenuto in pianura, Mosè parlava da dentro la tenda e il Signore rispondeva da fuori, perché evidentemente si rifiutava ancora di entrare; adesso invece, dopo che il tabernacolo è stato costruito sulla base dell'accordo fatto con Mosè, il Signore accetta di entrare nel tabernacolo, ma non vi fa entrare Mosè.
"Allora la nuvola coprì la tenda di convegno, e la gloria dell'Eterno riempì il tabernacolo. E Mosè non poté entrare nella tenda di convegno perché la nuvola vi s'era posata sopra, e la gloria dell'Eterno riempiva il tabernacolo" (Es. 40:34-35).
Le parti dunque si sono invertite: se prima Mosè stava dentro e il Signore stava fuori, adesso il Signore sta dentro e Mosè sta fuori.
Questo fatto non è una curiosità giornalistica: è la conferma del carattere di "compromesso dilatorio" che ha la seconda formulazione del patto del Sinai, diversa da quella del primo. La gloria dell'Eterno, quella che poi sarà chiamata la "Shekhinah", sarà presente in mezzo al popolo, per l'intercessione di Mosè, ma solo perché in mezzo al popolo c'è il Santuario e nel Santuario c'è il Signore. Ma adesso il tabernacolo, che nel progetto originario doveva essere un luogo di amorevole incontro tra Dio e il suo popolo, come il Signore aveva detto: "lì io mi troverò coi figli d'Israele" (Es. 29:43), si trasforma in un luogo pericoloso: è diventato uno scudo con cui il Signore difende la sua santità e protegge il popolo dalla sua ira.
Per capire quanto sia differente quest'ultima situazione dalla prima, si può riandare a ciò che è accaduto dopo la stipula del primo patto, quando il Dio d'Israele si fece vedere nella sua gloria da "quegli eletti tra i figli d'Israele" (Es. 24:11) in un gioioso pranzo sulle pendici del monte Sinai.
"Mosè dunque salì sul monte, e la nuvola ricoperse il monte. E la gloria dell'Eterno abitò sul monte Sinai e la nuvola lo coperse per sei giorni; e il settimo giorno l'Eterno chiamò Mosè di mezzo alla nuvola" (Es. 24:15-16).
Si paragoni questa descrizione con quella di Esodo 40. Nell'ambito del secondo patto vediamo la nuvola che copre il tabernacolo, la gloria di Dio che la riempie, e Mosè che deve restare fuori. Nell'ambito del primo patto vediamo la nuvola che copre il monte Sinai, la gloria di Dio che abita sulla sua sommità, e Mosè che viene invitato da Dio ad entrare nella nuvola, dove è presente la sua gloria.
"E Mosè entrò in mezzo alla nuvola e salì sul monte; e Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti" (Es. 24:18).
E' importante notare il gioco di parole: Dio chiamò Mosè di mezzo (mitoch, מתוך) alla nuvola, e Mosè entrò in mezzo (betoch, בתוך) alla nuvola. Mosè dunque ha avuto il privilegio, unico fra gli uomini, di passare quaranta giorni e quaranta notti non soltanto in colloquio con Dio, ma in vicinanza fisica con la sua gloria. Questo privilegio però non era destinato ad essere soltanto personale, perché Mosè si trovava lì in rappresentanza di tutto il popolo, che poco prima aveva concluso col Signore un patto di sangue. Il popolo infatti assiste dalla pianura all'eccezionale evento e in questo modo ne diventa partecipe:
"E l'aspetto della gloria dell'Eterno era agli occhi dei figli d'Israele come un fuoco divorante sulla cima del monte" (Es. 24:17).

Patto originario e patto revisionato
La tesi che qui si vuole sostenere è che i capitoli dell'Esodo da 25 a 31, essendo frutto del periodo in cui Mosè rappresentava un popolo in pace con il Signore in virtù del patto originario, non sono da mettere sullo stesso piano dell'elaborato complesso di norme che saranno introdotte nel patto revisionato, dopo che il primo è stato rotto. Invece di leggere le due formulazioni come se fossero in continuità, si dovrebbero notarne e sottolinearne le significative differenze. Vediamone una, di particolare peso.
Fin dai primi capitoli del Levitico la legislazione del patto revisionato ordina di fare sacrifici, anche cruenti, per singoli fatti personali: "quando qualcuno avrà peccato per errore" (Lev. 4.19).
La prima legislazione invece, quella del patto originario, non ordina mai di fare sacrifici particolari per peccati commessi dal popolo o da singoli: i sacrifici cruenti riguardano soltanto il santuario. Sono fatti per la consacrazione dei sacerdoti, in un periodo di sette giorni, e non vengono più ripetuti fino a che il sacerdote vive (Esodo 19). L'imposizione delle mani sul capo del giovenco e dei montoni ha il significato di trasferire giuridicamente il peccato del popolo, come tale, sugli animali predisposti. Gli inevitabili peccati commessi dai singoli sono portati a Dio dal Sommo Sacerdote quando entra nel luogo santo con la lamina sulla fronte su cui è inciso "Santo all'Eterno". Questa lamina "starà sulla fronte d'Aaronne, e Aaronne porterà le iniquità commesse dai figli d'Israele... ed essa starà continuamente sulla fronte di lui, per renderli graditi al cospetto dell'Eterno" (Es. 29:38).
L'unico altro sacrificio cruento ordinato è il cosiddetto "sacrificio perpetuo", cioè l'offerta giornaliera di due agnelli, uno il mattino e uno la sera, "all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlarti. E là io mi incontrerò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria" (Es. 29:42-43). Questo sacrificio è a tempo indeterminato e non dipende dal comportamento del popolo o dei singoli.
Non c'è dunque, nel patto originario del Sinai, un correre dietro a tutti i possibili peccati dei singoli per mettere ovunque pezze di riparazione con sacrifici cruenti, ma un'oggettiva posizione di perdono giuridico in cui Dio pone il suo popolo al fine di fare di lui "un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es. 19:5), che possa un giorno diventare "luce delle nazioni e strumento della sua salvezza fino alle estremità della terra" (Isaia 49:6), come dirà poi il profeta Isaia.
Se questo non è avvenuto nella forma originaria voluta da Dio, è a causa del "peccato originale" di Israele: la giuridica rottura del patto provocata dall'adorazione del vitello d'oro. Il Signore ha dovuto cambiare la forma del compimento della sua promessa fatta ad Abramo, ma non l'obiettivo finale, il quale richiede che "il popolo d'Israele viva".
E' proprio a questo punto della storia che comincia a delinearsi, e in seguito diventerà via via sempre più chiaro, quella che sarà la soluzione vera del "problema Israele", che è anche il "problema umanità": la venuta del Messia. M.C.

  (Notizie su Israele, 30 marzo 2017)


La viltà dell'odio

di Francesco Lucrezi

Il fiume melmoso dell'odio anti-israeliano, che ormai si preoccupa sempre meno di mascherare la sua natura squisitamente antisemita, continua a scorrere indisturbato per le nostre strade, emanando il suo sinistro odore di violenza, viltà, ignoranza, stupidità. È un fiume che cresce di giorno in giorno, gonfiato da una pioggia acida ininterrotta, e incontra ben pochi ostacoli. Parecchi ne godono, pochi se ne lamentano, pochissimi cercano di contrastarlo, e la grande maggioranza delle persone - ed è questo il dato che ci pare più triste e preoccupante - mostra di non accorgersene, o di non importarsene minimamente. Per fermarci solo alla cronaca più recente, apprendiamo che una signora continua a chiedere - e spesso a ottenere - la concessione di sale pubbliche per la proiezione di un suo allegro filmetto, intitolato "Israele, il cancro"; che i rappresentanti degli studenti di un importante Ateneo italiano hanno chiesto ufficialmente al Senato Accademico di interrompere ogni rapporto con lo stato lebbroso; che una sala municipale della capitale d'Italia era stata concessa - salvo successivo ripensamento - per la promozione di un'analoga iniziativa di boicottaggio; che sulla stessa linea si sta muovendo l'Amministrazione della terza città d'Italia (sui cui successivi ripensamenti non c'è da fare molto affidamento). E l'elenco potrebbe continuare.
   Non abbiamo, almeno in questo momento, particolari commenti da fare su queste persone e le loro attività. Fra l'altro, è così triste e deprimente dovere dire sempre le stesse cose. Purtroppo, però, la rabbia e la costernazione allontanano la noia, che, se non fossero cose così preoccupanti e serie, avrebbe certamente ragione di esserci. L'unica cosa che vorrei invece dire è come, tra le varie storture provocate da questo fenomeno morboso e distruttivo, ce n'è anche una, di tipo puramente filologico, che, a mio avviso, contribuisce molto all'imperante faziosità e disinformazione. Mi riferisco all'uso, costantemente adoperato dai nostri mass media a proposito di questi personaggi e queste iniziative, dell'aggettivo "filo-palestinese". Mai, a mio avviso, nella pur ricca casistica dell'umano linguaggio, c'è stato un più incolmabile divario tra significante e significato, mai parola è stata usata in modo più falso ed errato. Cos'hanno, questi comportamenti, di filo-palestinese? In che modo aiutano la Palestina? Anche un bambino, non accecato dall'odio e dalla propaganda, capirebbe che tutto ciò - oltre, ovviamente, a fare crescere la ripugnanza verso Israele, presentato come un orrendo bubbone iniettato nella terra da un dio malvagio - non farà che legare sempre più a filo doppio la Palestina e tutti i suoi abitanti a un futuro di buio, disperazione e tragedia. Nei libri di storia quelli che colpivano gli ebrei per avere ucciso Gesù sono forse ricordati come amici di Cristo? e chi li perseguitava in quanto bolscevichi, è definito amico del liberalismo? Chi li ha odiati come capitalisti, è stato un paladino della classe operaia? E chi ha promulgato le leggi razziali, è stato un amico della "razza ariana"? E perché, allora, questi qua sarebbero amici della Palestina?
Perché non li chiamiamo per quello che sono, ossia nemici?
   Mi rendo ben conto che, a questa mia osservazione, si potrebbe obiettare che sono le stesse legittime autorità della Palestina a considerare questi signori, senza eccezione alcuna, come loro amici. E sono ben consapevole, purtroppo, che è vero, e che i primi nemici della Palestina stanno nei suoi stessi confini. Di qui il mio profondo sconforto, la mia triste convinzione che, su questa china, si andrà scivolando sempre più giù, e potrà accadere qualcosa di peggio, mai di meglio.

(moked, 29 marzo 2017)


Efficacissima descrizione dello stato d’animo che ogni tanto coglie chi ha deciso o si sente in obbligo di osservare le mosse del nemico antisemita. Avere a che fare con nemici malvagi, violenti, determinati, ma lucidi e razionali, può incutere paura, ma alla fine spinge a reagire col massimo delle proprie capacità di coraggio e intelligenza; ma avere a che fare, e per molto tempo, con quel particolare nemico che è “il fiume melmoso dell'odio anti-israeliano” emanante “il suo sinistro odore di violenza, viltà, ignoranza, stupidità” può far cadere nella depressione. E’ l’arma più temibile che gli antisemiti hanno in mano, ma la sua forza minacciosa sta nel fatto che non lo sanno. Sì, combattere a lungo la menzogna che ha di vero soltanto la sua stupidità è rischioso. Bisogna ogni tanto fare un bagno d’immersione nella verità. M.C.


Museo Ebraico Fausto Levi, nuova stagione

Una visita al museo è un viaggio nella cultura del popolo ebraico

di Valerio Gardoni

 
SORAGNA (CR) - Domenica 2 aprile aprirà la stagione 2017 delle iniziative culturali del Museo Ebraico Fausto Levi di Soragna. Tanti gli appuntamenti di natura variegata che definiscono il Museo come luogo di cultura ebraica a 360 gradi, capace di rispondere alle esigenze di un pubblico attento agli aspetti culturali e filosofici, ma anche vicino al mondo della scuola, alla storia del territorio e alle tradizioni tipiche della vita ebraica. Primo appuntamento, alle ore 16 di domenica, è la presentazione del libro "La solitudine dell'uomo di fede", di rav. Joseph Dov Beer Soloveitchik, edito da Salomone Belforte & C editori, librai in Livorno dal 1805.
  Vivo testimone della presenza delle comunità ebraiche nel territorio, il Museo Ebraico "Fausto Levi" viene inaugurato ufficialmente nel 1981 quando l'allora presidente della Comunità Ebraica di Parma Fausto Levi, la cui famiglia è originaria di Soragna, ha riaperto al pubblico l'antico edificio contenente la sinagoga completamente ristrutturato e rinnovato.
  Le stanze che sin dal primo '600 erano state sede della Comunità israelitica soragnese sono così divenute custodi di rare testimonianze, oggetti di culto e documenti tra i pochi rimasti a raccontare la secolare storia degli ebrei parmensi e piacentini; opere provenienti non solo da Soragna ma anche dalle antiche comunità scomparse di Busseto, Fiorenzuola, Cortemaggiore, Monticelli D'Ongina, sono il cuore di una collezione costituita con dedizione e accurate ricerche dallo stesso Fausto Levi, cui il Museo è intitolato.
  Una visita al museo è un viaggio nella cultura del popolo ebraico che in molte località della pianura ha lasciato indelebili impronte nel panorama storico, artistico e religioso. L'edificio, ora sede del museo, fu interamente ristrutturato nel 1855 con il contributo di tutte le famiglie ebraiche. Quando, in seguito alle leggi razziali, furono confiscati i beni artistici di proprietà della comunità, le sale dove oggi è il museo divennero sede della Casa del fascio.
  Il Museo, diviso in sezioni, è un piccolo gioiello che conserva oggetti di culto di buona fattura artistica (notevole fra gli altri l'aron ha-kodesh del 1847, restaurato nel 1998, proveniente dal luogo di culto, oggi non più esistente, di Monticelli d'Ongina), documenti e grida dal 1555 al 1803, insieme a fonti di storia contemporanea. Sale della vita quotidiana e una sezione del museo è dedicata alla Shoah.
  Nella raccolta sono conservate oggetti di grande valore, salvati da sicura dispersione e degrado. Arredi lignei, argenti preziosi, documentazione autentica, e rotoli di pergamena sono il cuore di una testimonianza storica e documentale tra le più preziose e peculiari d'Italia.
  Gli altri appuntamenti:

7 maggio Presentazione del volume La Psicoanalisi, di Enzo Bonaventura. Interviene David Meghnagi, Professore di Psicologia Clinica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Roma Tre.
28 maggio Premiazione del concorso scolastico Shevilim, settima edizione, alla presenza delle autorità patrocinatrici dell'Evento e delle scolaresche vincitrici.
18 giugno Gli Ebrei a Busseto: Donazione delle ultime testimonianze di una Comunità sparita, con Elisa Long, ultima rappresentante della Comunità di Busseto. L'incontro terminerà con la donazione al Museo degli ultimi oggetti provenienti da Busseto.
10 settembre Giornata Europea della Cultura Ebraica, il tema di quest'anno è dedicato alla Diaspora.
15 Ottobre I dolci delle Feste, con Susanna Bondi, Comunità Ebraica di Parma, esperta di cucina ebraica e giudaico-romanesca. Ingresso su prenotazione, posti limitati.

(popolis, 29 marzo 2017)


Putin-Rouhani: l'alleanza che sta oscurando gli USA in Medio Oriente

Nel vertice di Mosca fissate le condizioni della cooperazione militare in Siria e raggiunti nuovi accordi su nucleare e forniture di armi. Se non cambia strategia, Washington rischia di rimanere ai margini dello scacchiere mediorientale.

di Alfredo Mantici

Il 27 e 28 marzo Hassan Rouhani si è recato in visita ufficiale a Mosca con l'obiettivo dichiarato di rafforzare le relazioni tra Teheran e il Cremlino di fronte a quello che il presidente iraniano ha definito «il declino del dominio dell'Occidente e la fine del suo monopolio delle ricchezze».
  Il primo giorno del suo viaggio a Mosca Rouhani, accompagnato dal suo ministro degli Esteri Javad Zarif, ha incontrato il primo ministro russo Dmitri Medvedev. Già da questo primo meeting sono scaturite importanti decisioni sulla cooperazione tra Teheran e Mosca, in riferimento in particolare al teatro di guerra siriano.
  È stato infatti concordato che l'aviazione russa potrà usare liberamente basi aeree iraniane per colpire le posizioni dei ribelli siriani o dei gruppi jihadisti che operano in Siria. «La Russia non dispone di basi militari in Iran - ha dichiarato il ministro degli esteri iraniano Zarif - ma noi abbiamo stabilito un eccellente livello di cooperazione, per cui ogni volta che si renderà necessario, nella lotta contro il terrorismo, per i russi utilizzare basi iraniane, noi lo consentiremo».
  Già nello scorso agosto l'Iran aveva concesso all'aviazione militare russa il permesso di attraversare lo spazio aereo iraniano e l'uso dell'aeroporto di Hamadan per compiere missioni di bombardamento in Siria. Mentre in autunno Russia e Iran, insieme ai vertici della Difesa di Siria e Iraq, hanno istituito a Baghdad
 
una centrale informativa comune per coordinare le operazioni militari contro ISIS e altri gruppi jihadisti così come contro i ribelli siriani.

 Gli altri accordi di cooperazione
  Oltre alla cooperazione in campo militare, nella due giorni moscovita del presidente Rouhani sono state prese altre importanti decisioni. Nell'incontro del 28 marzo con il presidente russo Vladimir Putin, sono stati siglati ben 14 accordi di cooperazione bilaterale in campo politico, economico, scientifico e culturale. Si è deciso che 9 delle 20 centrali nucleari, che saranno parte essenziale del programma nucleare iraniano, verranno costruite dai russi che forniranno a Teheran anche il sistema di difesa missilistico S-300.
  All'atto della firma dei protocolli d'intesa, Putin ha voluto sottolineare che «le relazioni diplomatiche tra Teheran e Mosca risalgono a 515 anni orsono» e che«l'Iran è un buon vicino e uno partner stabile e affidabile». Rouhani, dal canto suo, ha sottolineato che la cooperazione russo-iraniana «non mira ad altro che a rafforzare la stabilità regionale».

 I rapporti con la Turchia
  Nel comunicato congiunto finale è stato fatto un esplicito riferimento al ruolo nevralgico che nel processo di pace in Medio Oriente deve svolgere anche la Turchia, avversario e competitor storico di Teheran. A tal proposito è stato sottolineato che solo la cooperazione tra Ankara, Teheran e Mosca è riuscita a portare al tavolo dei negoziati tutte le parti in causa del conflitto siriano, con l'eccezione chiaramente dei jihadisti contro i quali le forze armate dei tre Paesi continueranno a combattere.
  Il rapporto tra Ankara e Teheran non è mai stato facile, ma il Cremlino è finora riuscito in qualche modo a fare da ponte tra i due storici avversari convincendoli, finora con successo, a unire i propri sforzi nella
 
guerra al Califfato, anche se ciò comporta per la Turchia la necessità di ingoiare l'amaro boccone della salvezza almeno temporanea del regime di Bashar Al Assad.

 Conclusioni
  La visita a Mosca di Rouhani segna un importante successo per il presidente Putin e per il suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov, non solo nel campo delle relazioni bilaterali con l'Iran, ma soprattutto perché conferma la centralità che il Cremlino ha ormai acquisito come principale attore nell'intero scacchiere mediorientale.
  Dopo gli insuccessi della politica estera di Washington negli ultimi anni di tensioni mediorientali - dal disastro iracheno all'appoggio alle fallite "primavere arabe", fino alla palesata incapacità di controllare le guerre civili scoppiate in Libia e Siria - il progressivo ritiro degli Stati Uniti dalla scena del Vicino Oriente offre al Cremlino l'opportunità storica di tornare a esercitare un ruolo di protagonista assoluto nelle relazioni internazionali riuscendo non solo a fungere da garante per i propri alleati, come Assad, ma anche da mediatore tra avversari tradizionali, come i turchi e gli iraniani.
  Mentre il nuovo presidente americano Donald Trump affronta con fatica i primi cento giorni alla guida della Casa Bianca - pressato internamente da accuse che gli piovono tanto dai repubblicani quanto dai democratici e ancora incerto sulle strategie da seguire sul fronte internazionale - la Russia sta tornando a riappropriarsi della dimensione di superpotenza, obiettivo per il quale Putin ha lavorato tanto in questi anni ottenendo finora un innegabile successo.
  Una situazione che porta il Washington Post a commentare amaramente la visita di Rouhani a Mosca: «Mentre l'influenza degli Stati Uniti diventa evanescente in tutto il Medio Oriente, Iran e Russia hanno unito le loro forze per espandere il loro potere nella regione, consolidando le loro relazioni economiche e diplomatiche e sviluppando un impegno militare congiunto in Siria». Una malinconica analisi del fallimento dell'approccio delle due Amministrazioni presidenziali che hanno preceduto l'Amministrazione Trump - quella di George W. Bush, prima, e quella di Barack Obama, poi - a uno scacchiere geopolitico nel quale troppo spesso gli americani si sono comportati come elefanti in una cristalleria.

(LookOut, 29 marzo 2017)


Dalla Lega Araba: ora Hezbollah è resistente a Israele, non un "gruppo terrorista"

di Michele Santoro

E' questa la novità sostanziale che emerge dall'incontro dei ministri degli esteri della Lega Araba che si sono incontrati ad Amman, in Giordania.
La dichiarazione, come riporta il quotidiana Al-Hayat, intende mettere un paletto tra quello che comunemente viene indicato come terrorismo puro del gruppo Hezbollah (secondo la tesi astrusa dei ministri), dalla legittima attività di resistenza contro l'occupazione israeliana che il gruppo garantirebbe al Libano.
Secondo questa balzana tesi, Hezbollah non sarebbe un gruppo terrorista ma un gruppo di resistenza ad una occupazione israeliana del Libano che di fatto non esiste.
Una dichiarazione che annulla la precedente del 2016 che definiva senza mezzi termini Hezbollah un gruppo terroristico.
Cosa sarà cambiato nel tempo? Certo, la partecipazione al consesso del presidente del Sudan, Omar al-Bashir, su cui pende un mandato d'arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale con l'accusa di crimini di guerra e genocidio, potrebbe spiegare molte cose nel contesto arabo.
Di certo, l'Iran, non può che ringraziare così come il presidente del Libano che recentemente ha dichiarato che Hezbollah è di fatto, un gruppo di difesa integrata dell'esercito libanese.
A questo punto, considerato che Hezbollah è uno stato nello stato a sud del Fiume Litani, e che possiede, secondo Defense News , sistemi missilistici a lungo e medio raggio , con un arsenale missilistico di oltre 100,000 pezzi, oltre ovviamente ad armamenti pesanti di varia provenienza, la domanda al Presidente del Consiglio italiano, Gentiloni e al neo segretario generale dell'ONU, António Guterre, è sempre la stessa: è onorevole lasciare UNIFIL ostaggio di Hezbollah?

(Osservatorio Sicilia, 29 marzo 2017)


Israele-Nicaragua, dopo sette anni verranno ripristinate le relazioni diplomatiche

Il Nicaragua ha sospeso le relazioni diplomatiche con Israele nel 2010 dopo che le truppe israeliane hanno fatto irruzione sulla nave Mavi Marmara che tentava di rompere il blocco israeliano della Striscia di Gaza.

MOSCA - Israele e Nicaragua hanno ripristinato le relazioni diplomatiche dopo che i legami tra i due paesi erano stati sospesi nel 2010 a seguito dei fatti della Mavi Marmara. Lo hanno reso noto i due paesi in una dichiarazione congiunta. Martedì scorso, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che il suo paese avrebbe ristabilito relazioni diplomatiche con un paese, tuttavia, non aveva specificato con quale. "Nel corso degli anni, fino alla sospensione dei rapporti nel 2010, abbiamo avuto relazioni amichevoli e cooperazione in vari settori quali l'agricoltura, la salute e l'educazione. I due governi attribuiscono grande importanza al rinnovamento delle relazioni, con l'obiettivo di far progredire attività comuni a beneficio dei due popoli".

(Fonte: Velino International, 29 marzo 2017)


Fumetti assassini, la prima mostra sulla propaganda antisemita in Europa

Arthur Langerman fu separato dai genitori, deportati ad Auschwitz, all'età di due anni: da allora colleziona manufatti sull'antisemitismo

 
A volte un fumetto racconta più di mille parole. Per questo la mostra sulla propaganda antisemita in Europa, ospitata fino al 15 dicembre al Mémorial de Caen-Normandie, Francia, non è solo una mostra che affronta il tema dell'antisemitismo ma lo fa mostrando per la prima volta una collezione unica nel suo genere. Già il titolo rivela la particolarità dell'esibizione: "1886-1945, Fumetti assassini o sulla propaganda antisemita in Europa" porta il visitatore in un lungo e terribile viaggio negli anni che precedettero il nazismo e che prepararono l'orrore della Shoah tramite fumetti, cartoline, poster, manifesti e artefatti provenienti da diversi paesi europei. Gli oltre 120 documenti eccezionali fanno parte dell'enorme collezione di Arthur Langerman, un sopravvissuto all'Olocausto, che visse sulla sua pelle la tragedia dell'antisemitismo, venendo separato dai genitori, deportati ad Auschwitz, all'età di due anni.
   La mostra nasce per raccontare la nascita del sentimento antisemita in Europa, dimostrando che il secolo dei Lumi non era bastato a cancellare gli orrori dell'odio verso gli ebrei. Tre le tappe in cui vengono accompagnati i visitatori, come si evince già dal titolo.
   La prima riguarda gli anni sul finire dell'Ottocento, raccontati tramite due pubblicazioni che più di ogni altre favorirono la ripresa dell'antisemitismo: il trattato "La Francia giudaica" di Edouard Drumont e l'affaire Dreyfus. La seconda sezione riguarda il periodo tra le due guerre (1918-1933) e la terza il nazismo.
   I documenti e i manufatti raccolti da Langerman nel corso degli anni sono documenti storici di altissimo valore e mostrano l'avanzata di un sentimento d'odio verso gli ebrei che non ha mai lasciato del tutto il Vecchio Continente e che la politica e le élite dei tempi passati hanno usato a proprio favore.
   L'educazione all'odio passa sempre dai più piccoli e tra gli oggetti esposti hanno grande importanza i manifesti e i fumetti, così come le cartoline e libri illustrati per bambini, provenienti da Francia, Germania, Russia, Ucraina e Ungheria. L'immagine dell'ebreo cattivo, il "nemico" per eccellenza, colui che mise in croce Gesù, l'incarnazione di tutti i difetti umani, prende corpo nelle opere di alcuni artisti dell'epoca come Philipp Rupprecht, meglio conosciuto come Fips, fumettista noto per le caricature antisemite pubblicate sul quotidiano nazista Der Stürmer e autore di un libro per bambini sulla minaccia ebraica (Il Fungo Velenoso, 1938).
   Tra i messaggi più subdoli e distorti rientrano le 33 cartoline disegnate dall'artista ceco Karel che citano in maniera errata il Talmud per deridere le tradizioni e i rituali ebraici. A dimostrazione di quanto l'odio verso gli ebrei avesse pervaso la cultura anche artistica europea, la mostra propone al pubblico una serie di statuette di legno provenienti da Strasburgo, della fine del XIX secolo: finemente intagliate, rappresentavano lo stereotipo dell'ebreo, sfigurandolo in pose e atteggiamenti mostruosi, ed erano popolari in tutta la Francia orientale.
   Tutte le 120 opere esposte fanno parte della collezione privata di Arthur Langerman, un sopravvissuto all'Olocausto. Nato ad Anversa nel 1942, all'età di due fu messo in un orfanotrofio dalle SS dopo che i genitori vennero deportati ad Auschwitz, dove il padre morì. Riunitosi con la madre, Langerman ha vissuto in Belgio: la mamma ha preferito non parlargli mai degli orrori dei campi di concentramento. Il processo ad Adolf Eichmann nel 1961 scoperchiò il velo sugli orrori della Shoah e per Langerman fu l'inizio di un'ossessione: capire come fosse stato possibile far nascere un mostro simile nel cuore dell'Europa.
   Da allora ha iniziato a collezionare documenti, fumetti, manifesti e manufatti antisemiti sparsi in diversi Paesi: oggi la sua collezione conta oltre 7mila pezzi, unici nel loro valore storico. Lagerman li conserva tutti gelosamente nel suo appartamento e li ha concessi raramente per mostre e musei, ma quando gli è arrivata la richiesta del Memoriale di Caen ha detto sì.
   Lo ha fatto perché i tempi sono cambiati, perché la memoria è sempre più labile e il razzismo strisciante, quello che si vergognava di venire allo scoperto, oggi ha rialzato la testa. "Dopo la guerra, l'antisemitismo che si vede guardando la mia collezione era un tabù", ha spiegato al Guardian. "Oggi, non lo è più".

(NanoPress, 29 marzo 2017)


Gaza, sale tensione con Israele dopo la morte del leader di Hamas

L'11 maggio il presidente Abbas arriverà a Mosca

di Rosaria Sirianni

Quattro colpi alla testa, sparati a distanza ravvicinata da una pistola con silenziatore. E' morto così il leader del gruppo islamista palestinese di Hamas, Mazen Fuqaha (38 anni). Nella notte di venerdì, l'uomo è stato ritrovato senza vita in garage, ancora seduto al posto di guida della sua auto, in un quartiere a sud di Gaza City. Originario di Tubas, in Cisgiordania, Fuqaha era un ufficiale di alto livello delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato del movimento fondamentalista palestinese. Hamas punta il dito contro Israele. In un comunicato diffuso dalle Brigate al Qassam l'assassinio viene definito "un omicidio mirato extragiudiziale commesso dal nemico sionista". Sotto accusa gli uomini del Mossad, l'agenzia israeliana di spionaggio all'estero. Finora Tel Aviv ha preferito non commentare l'accaduto. Tuttavia, alcuni funzionari israeliani hanno precisato che l'uomo era stato coinvolto, in passato, nella pianificazione di diversi attacchi contro Israele.
   La morte di Fuqaha ha sollevato non poche tensioni all'interno dello Stato ebraico ma soprattutto, si legge sul "New York Times", "potrebbe minare il già fragile cessate il fuoco raggiunto a Gaza nel 2014, dopo 50 giorni di conflitto tra Israele e Hamas". Secondo il quotidiano statunitense, l'uccisione del leader delle Brigate al-Qassam "potrebbe rappresentare lo spettro di un nuovo conflitto bellico tra nemici giurati". E in effetti "la convinzione generale nella striscia di Gaza - spiega il "Jerusalem Post" - è che Israele abbia fatto ricorso all'uccisione di Fuqaha non solo per eliminare un pericoloso capo terrorista, ma anche per inviare un doppio avvertimento. Innanzitutto agli altri terroristi ex detenuti nello Stato Ebraico, scarcerati ed espulsi a Gaza che sono tornati a praticare il terrorismo. In secondo luogo, alla nuova dirigenza di Hamas e in particolare al nuovo leader del gruppo fondamentalista palestinese, considerato un sostenitore della linea dura contro Tel Aviv". Il messaggio è che nessuno, anche a Gaza, può sentirsi al sicuro se pratica il terrorismo contro Israele.
   "Tuttavia - si legge ancora sul quotidiano locale - l'Autorità palestinese di Ramallah aveva più o meno le stesse ragioni di Israele per volere morto Fuqaha". "Ma la stessa Hamas avrebbe potuto essere interessata all'uccisione del comandante". Il gruppo fondamentalista, infatti, è noto per essere un movimento che non esita a eliminare coloro che non si adeguano agli ordini dei capi o che sembrano un pò troppo indipendenti e competitivi. Ma è anche possibile che Fuqaha sia stato sospettato di fare il doppio gioco con Israele, e che Sinwar abbia ordinato di ucciderlo in un modo che sembrasse opera dei servizi segreti di Tel Aviv. Già in passato, infatti, il nuovo leader di Hamas ha personalmente assassinato più di dieci palestinesi sommariamente accusati di collaborare con Israele nella lotta contro il terrorismo.
   Intanto, il ministero dell'Interno dell'enclave palestinese ha deciso di riaprire parzialmente il valico di Erez, tra Gaza e Israele, chiuso in via straordinaria subito dopo l'omicidio dell'ufficiale di Hamas. Il valico è stato riaperto in entrata. Permangono, invece, delle restrizioni per l'uscita, consentita soltanto ai pazienti che necessitano di cure mediche, alle famiglie dei detenuti nelle carceri israeliane e ai ministri del governo palestinese. Resta ancora vietata, invece, l'uscita dalla Striscia per gli uomini di età compresa fra i 15 ed i 45 anni. Il comandante delle Brigate al-Qassam era stato esiliato a Gaza dopo lo scambio di prigionieri avvenuto tra Hamas e Israele nel 2011 per la liberazione del caporale Gilad Shalit.
   Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che al momento non ha rilasciato alcuna dichiarazione in merito all'affaire Fuqaha, è intervenuto lunedì alla conferenza annuale dell'American Israel Public Affairs Committee (Aipac), che si è svolta a Washington. "Lo Stato ebraico è impegnato a lavorare con l'amministrazione del presidente Usa, Donald Trump, per far avanzare il processo di pace in Medio Oriente con i palestinesi e gli altri paesi vicini", ha dichiarato Netanyahu in collegamento via satellite. E' intervenuto alla conferenza dell'Aipac anche il vicepresidente Usa, Mike Pence, che ha commentato lo spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e ha ribadito che "dopo decenni di semplici discussioni, il presidente Trump sta prendendo (la questione,ndr) in seria considerazione".
   Nella stessa giornata di lunedì, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, ha incontrato a Bruxelles i vertici delle principali istituzioni Ue. Le politiche di occupazione dei Territori palestinesi "non porteranno pace nella nostra regione - ha dichiarato Abbas - perché pace e stabilità possono essere raggiunte solo con le relazioni di buon vicinato. Questo è ciò che intendiamo fare - ha aggiunto il leader dell'Anp - e spero che Israele e la popolazione israeliana colgano questa opportunità per fare la pace". Abbas ha avuto anche un bilaterale con l'Alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini. Quest'ultima ha ribadito al leader palestinese che "la pace tra Israele e Palestina resterà un'alta priorità nell'agenda politica" dell'Ue. "Rimaniamo impegnati - ha detto Mogherini - per una soluzione dei due Stati negoziata, che per noi resta l'unica strada praticabile per porre fine al conflitto".
   Il presidente dell'Anp è atteso l'11 maggio a Mosca. Obiettivo principale della visita sarà discutere il risultati del prossimo vertice arabo in Giordania. I palestinesi chiedono il riconoscimento di uno Stato indipendente sui territori della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza, oltre che il ritiro di Israele dai territori occupati.

(ofcsreport, 29 marzo 2017)


Dove si trovava il ghetto ebraico a Modena?

Modena dal '600 vede nel suo cuore un ghetto ebraico prospero e che ha visto la crescita di una comunità, ma dove si trovava e vi sono ancora oggi testimonianze di quella storia?

di Francesco Folloni

 
La Sinagoga di Modena
L'interno
La comunità ebraica ha da secoli un legame forte con la comunità modenese, tanto che la comunità ebraica a Modena, vede il primo atto notarile che testimonia la presenza di due cittadini modenesi che vendettero all'ebreo Leone del fu Sabbatuccio da Montesano già dal 26 Gennaio 1368. Considerando che nel XIV secolo vi era persino un cimitero ebraico nella nostra città di una certa capienza, fa comprendere l'espansione che ebbe tale comunità durante i secoli passati a Modena. Ma dove si trovava il ghetto ebraico?

 La Sinagoga
  L'opera ebraica più importante a Modena è senza ombra di dubbio la Sinagoga, situata in Piazza Mazzini. L'opera è di forma ellittica e fu idea di Ludovico Maglietta, mentre le decorazioni dipinte all'interno sono di Ferdinando Manzini. Uno degli elementi stilistici più interessanti sono rappresentati dalle dodici colonne che sorreggono il matroneo, in rappresentanza delle dodici tribù di Israele. Ed è da sempre simbolo di questa comunità.

 Il ghetto
  Tuttavia i confini del ghetto ebraico, realizzato nel 1638 e rimasto tale per secoli, vede sì al centro la Sinagoga, ma i confini sono ben più ampi della sola Piazza Mazzini, e alcune vie ne testimoniano ancora oggi la presenza. Il ghetto ebraico si trovava tra via Emilia, vicolo Squallore, via Cortellini e via Taglio.

 Vicolo Squallore
  Di queste la più importante testimonianza è senza ombra di dubbio vicolo Squallore. Infatti tale vicolo ha la particolarità di riprodurre l'architettura delle strade del ghetto. Infatti, essendovi nel ghetto poco spazio orizzontale, gli edifici vengono realizzati verticalmente, per questo motivo le case sono molto alte, ma non solo. Le finestre sono di dimensioni differenti e disallineate secondo l'asse orizzontale.

(Modena Today, 29 marzo 2017)


Israele, Putin e Assad. "Posso bombardare i vostri alleati?" "Prego, fate pure"

La guerra segreta e la farsa diplomatica che si giocano nei cieli siriani sono arrivate al punto di non ritorno.

di Daniele Raineri

Quarantaquattro raid aerei israeliani contro Assad in quattro anni, ma i "bombardamenti segreti" sono un ossimoro Gli iraniani hanno messo in giro la voce che i russi hanno dato i codici segreti ai jet israeliani per volare sulla Siria senza problemi Il generale iraniano ha fatto uccidere il capo di Hezbollah in Siria al termine di un incontro andato male, dicono gli israeliani Se Israele ci attacca di nuovo lanceremo i nostri missili scud, dice Damasco. Risposta: se i siriani reagiscono li distruggeremo

È venerdì 17 marzo 2017 e in medio oriente succedono cose impensabili. La prima è che Israele ammette per la prima volta i raid aerei contro le basi militari di Bashar el Assad dentro la Siria. Il governo di Gerusalemme aveva sempre tenuto una linea molto discreta sulla guerra civile che si combatte nel paese a fianco, non aveva mai preso posizione e anzi si era chiuso in un bozzolo improbabile di diplomazia muta - come se tutto quello che succede in Siria non riguardasse anche gli israeliani. Per la prima volta annuncia di avere lanciato un raid aereo in Siria - vedremo più avanti perché - ma non parla ancora di tutto quello che è successo prima: una campagna di bombardamenti oltre confine che va avanti da quattro anni, dal gennaio 2013, almeno 44 missioni e mai una conferma ufficiale (è difficile tenere il conto preciso perché sono operazioni segrete e alcune potrebbero essere avvenute senza testimoni, ma che ci siano state è un fatto assodato: "una campagna di bombardamenti discreta" è un ossimoro). Soltanto una volta, il 7 dicembre 2016, il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Liberman, parla agli ambasciatori dell'Unione europea e spiega che le missioni aeree israeliane in Siria sono fatte per bloccare il trasferimento "di armi sofisticate e di armi chimiche" al gruppo libanese Hezbollah, e in questo modo rivela anche che secondo Israele il governo di Assad nasconde ancora armi chimiche in violazione dell'accordo dell'estate 2013. Ma il ministro è una personalità irruente e le sue parole non sono molto notate.La seconda novità di venerdì 17 marzo è che Israele colpisce in profondità dentro la Siria. Di solito i jet si limitano ad arrivare fin sopra alle montagne del Libano e a sganciare bombe speciali, le Spice 1000, che planano nell'aria per decine di chilometri fino ad arrivare sul bersaglio. E di solito è sufficiente, le basi militari colpite di più sono quelle vicine alla capitale Damasco a circa sessanta chilometri dal confine. Ma questa volta le bombe non possono arrivare perché l'obiettivo è fuori dalla loro portata (100 chilometri), quattro aerei imboccano una rotta che passa a nord della Beqaa libanese controllata da Hezbollah, penetrano per trecento chilometri nello spazio aereo siriano e colpiscono l'aeroporto militare T4, nel deserto vicino Palmira, appena strappata per la seconda volta allo Stato islamico (è ancora la sera del 16 marzo, per la precisione). La base T4 era stata assediata per settimane dagli estremisti ed era diventata un rifugio anche per i soldati russi scappati in fretta da Palmira a dicembre. Era stata, per qualche settimana, la guarnigione russo-siriana sul confine tra Stato islamico e Siria. Forse gli iraniani e il gruppo libanese Hezbollah sperano che sia troppo lontana per essere bombardata da Israele, oppure che sia in un luogo troppo simbolico per essere colpita - perché è vicina alla città-scrigno-d'arte di Palmira (che gode di uno status privilegiato rispetto alle altre città rase al suolo allegramente in Siria) e si sa che l'opinione pubblica è veloce a immaginare che "se non stai con gli assadisti allora stai con l'Isis". Oppure, ancora, confidano nel fatto che la presenza di soldati russi dissuada Israele.
  Secondo fonti del giornalista israeliano Ron Ben Yishai, decano del settore, dentro la T4 ufficiali iraniani passano al gruppo Hezbollah una quantità di missili balistici Scud modello D, il più accurato della famiglia. Altre fonti precisano che i jet colpiscono un convoglio partito dalla base e non la base stessa, per non correre il rischio di uccidere soldati russi. Se credete che il governo israeliano abbia una posizione neutrale sulla guerra in Siria, considerate questo: ha seguito questo trasferimento di armi mentre avveniva. E anche quando sostiene che il governo di Assad ha ancora armi chimiche, potrebbe avere informazioni solide. L'ultima volta che Israele aveva colpito così in profondità in Siria era il 6 settembre 2007, i jet avevano raso al suolo un reattore nucleare - Damasco negò la sua esistenza, un rapporto delle Nazioni Unite ha poi confermato nel 2011 che c'era.
  Perché Israele ammette questo raid specifico? Perché per la prima volta i siriani rispondono al fuoco e sparano almeno quattro missili terra-aria contro i quattro jet. Sono SA-200 di fabbricazione russa, meglio conosciuti con la sigla Nato SA-5 (la Nato è un'organizzazione militare che tra le altre cose studia e tiene l'inventario delle armi prodotte dalla Russia. C'è chi la considera obsoleta) e sono appena stati in Russia per essere aggiornati. E' come se il governo di Damasco volesse sfoggiare la nuova capacità militare acquisita grazie alla partnership con i russi davanti al mondo. Per abbattere uno dei SA-5 anche gli israeliani ricorrono a una prima volta: sparano uno dei loro missili Arrow, che è un sistema a ombrello che protegge il paese dai missili balistici a lunga gittata. C'è Iron Dome, che è il sistema che in piccolo distrugge in volo i razzi semiartigianali sparati da Hamas nella Striscia di Gaza, e ci sono gli Arrow, che fanno la stessa cosa in grande - ma non c'era mai stato bisogno prima. Un contro-missile israeliano colpisce un missile siriano in diretta sugli schermi radar che sorvegliano la Siria, è uno dei cieli più militarizzati del mondo, a Gerusalemme scattano le sirene dell'allarme antiaereo, i frammenti dell'esplosione piovono fino in Giordania, a quel punto negare il raid sarebbe ridicolo.
  Quel venerdì la Russia convoca l'ambasciatore israeliano da poco arrivato a Mosca e senza troppi riguardi per il fatto che è già la sera di shabbat, segno che c'è parecchia rabbia o agitazione. Il 9 marzo il primo ministro d'Israele, Benjamin Netanyahu, era arrivato a Mosca per parlare con il presidente Vladimir Putin e fare pressione contro la presenza iraniana in Siria, qualsiasi cosa si fossero detti c'è bisogno di una nuova conversazione una settimana dopo. La Siria intanto annuncia in tv di avere abbattuto un aereo israeliano e di averne danneggiato un secondo, ma non è vero (le immagini dei rottami si riferiscono ai missili). Alcuni commentatori dicono che i russi impongono a Israele uno stop alle operazioni aeree, ma o è falso oppure gli israeliani non obbediscono, perché domenica 19 e lunedì 20 lanciano altri due raid, però vicino al confine libanese (più facili). Un drone israeliano colpisce l'automobile di un leader delle milizie pro-governative sulle alture del Golan, sono le milizie nazionali di difesa (quwat al difaa al watani) create dal governo siriano con l'aiuto di esperti iraniani con compiti controrivoluzionari. L'ambasciatore della Siria alle Nazioni Unite, Bashar al Jaafari, dice che "il gioco è cambiato e ora Israele ci penserà un milione di volte prima di colpire di nuovo". Il ministro della Difesa Liberman dice alla radio militare israeliana che "la prossima volta che i siriani sparano contro aerei israeliani distruggeremo tutta la loro difesa aerea senza esitazioni". Domenica 26 il governo siriano rincara: "Se Israele attaccherà di nuovo lanceremo i missili Scud, possiamo colpire la città di Haifa".
  Gli iraniani passano a un giornale kuwaitiano la notizia, velenosa e per nulla verificata, che i jet israeliani sono riusciti a volare così indisturbati nello spazio aereo siriano perché hanno i codici del sistema di difesa aerea siriano, glieli hanno passati i russi. In pratica, il sistema vede gli aerei israeliani ma li identifica come amici. Fa parte del gioco di disinformazione incrociata che ogni giorno le potenze militari in medio oriente si sbattono in faccia l'una con l'altra.
  Il raid della base T4 mette in crisi tutto il complicato patto vedo-non vedo-faccio finta-di-non-vedere tra Gerusalemme, Teheran, Damasco e Mosca. Proviamo a spiegarlo. In un prossimo futuro ci sarà la terza guerra tra il gruppo libanese Hezbollah e Israele, dopo l'ultima che si è interrotta senza un risultato definitivo nel luglio 2006. Gli israeliani hanno già fatto circolare la loro dottrina militare in caso di ripresa del conflitto e prevede misure molto punitive per i siti da dove i guerriglieri libanesi sparano razzi e missili - quella zona vicina al fiume Litani che è pattugliata anche dai Caschi Blu italiani, dopo la guerra del 2006 - e per i comandi militari dentro Beirut. La dottrina prevede la demolizione delle infrastrutture di Hezbollah con bombardamenti cruenti, quando è uscita alcuni giornali nei titoli hanno usato il verbo "polverizzare". Per questo motivo Hezbollah e gli sponsor iraniani hanno deciso di sfruttare il caos siriano e di allargare il fronte e i siti di lancio alle alture del Golan tagliate dal confine tra Israele e Siria e lo hanno anche annunciato ai giornalisti locali. Scrive Ron Ben Yishai sul quotidiano Yedioth Ahronoth: "Hezbollah e gli iraniani hanno più o meno esaurito il potenziale del Libano di diventare la base delle operazioni contro il fronte nord israeliano e contro le comunità di civili. Per questo hanno bisogno di un nuovo fronte sul Golan, da cui lanciare missili sulla fascia centrale di Israele e anche incursioni di terra contro il nord e contro gli abitanti delle aree adiacenti al confine".
  Ci avevano già provato all'inizio del 2015, ma un drone israeliano era volato per tre chilometri dentro lo spazio aereo siriano e aveva colpito il convoglio che stava portando un generale iraniano in visita (sembra che avesse dimenticato in tasca il telefonino acceso, che funzionò come un rilevatore di posizione) e aveva ucciso anche il giovane Jihad Mughniyeh, figlio del leggendario leader militare di Imad, assassinato a Damasco nel 2008. Ora Hezbollah e iraniani ci stanno riprovando, ma questa volta intendono trasformare la Siria intera nella piattaforma per il prossimo conflitto. Anche quel che resta di Palmira, se è necessario (per capire il clima, si può andare a vedere un'intervista sulla tv siriana al figlio di Khaled al Asad, celebre archeologo eroe che si fece uccidere dallo Stato islamico piuttosto che abbandonare la città e i suoi tesori d'arte. Ebbene, il figlio dice che la distruzione di Palmira è il risultato non dell'invasione dei guerriglieri di al Baghdadi, ma di un più vasto e pericoloso complotto degli israeliani. Vedi gioco della disinformazia citato prima). Ben Yishai definisce questi raid aerei e questi duelli a colpi di missile in Siria "la battaglia per la prossima guerra", vale a dire per decidere chi partirà in posizione di vantaggio quando arriverà un conflitto che è considerato inevitabile.
  I russi non hanno alcun interesse strategico a mettersi contro Israele, ma in questo momento non possono fare a meno degli iraniani in Siria. Da quando nel giugno 2015 il generale Qassem Suleimani, architetto delle operazioni di Teheran in tutto il medio oriente, volò a Mosca per chiedere aiuto nella guerra in Siria e ottenne l'intervento di aerei, elicotteri, artiglieria e forze speciali russe, Putin non può abbandonare il campo da perdente. Per vincere però gli aerei non bastano, ci vogliono anche gli uomini a terra e mandare "boots on the ground" contro i gruppi armati sunniti che infestano città e colline in Siria vorrebbe dire - come hanno imparato gli americani a loro spese in Iraq - dover sopportare molte perdite. Ma la questione non si pone, non c'è, perché le truppe le mettono gli iraniani e quando non sono truppe regolari sono le migliaia di miliziani sciiti stranieri addestrati dagli iraniani (soltanto gli afghani della brigata Fatemiyoun spediti ad Aleppo sono diciottomila).
  Per Putin impegnare uomini a terra in Siria sarebbe davvero un problema. Già adesso, con un impegno tenuto al minimo, a livelli fantasmatici, deve sopportare perdite troppo alte. Durante la riconquista di Palmira partita il 29 gennaio, una trappola esplosiva ha tagliato entrambe le gambe del generale russo Petr Melukhin - che dirigeva le operazioni proprio nella zona della base T4- e ha ucciso i quattro soldati che erano con lui. Secondo un'inchiesta di Reuters (fatta sentendo le famiglie dei soldati in Russia) pubblicata il 22 marzo, Mosca nasconde le perdite: da fine gennaio ne ha dichiarate soltanto cinque, ma in realtà sono diciotto, perché nella maggioranza dei casi sono contractor - quindi non truppe regolari - e in altri casi impone il silenzio. Ma nel 2018 ci saranno le elezioni e considerato il clima di malumore che si respira in Russia è meglio pensare a una via d'uscita (del resto Putin ha già annunciato in due occasioni il parziale disegagement dalla Siria). Il patto con gli iraniani è chiaro: noi mandiamo gli aerei e i consiglieri militari, voi mandate la carne da cannone. Quando nel maggio 2016 il capo delle operazioni militari di Hezbollah in Siria, Mustafa Badreddine, ha provato a protestare con il generale iraniano Suleimani che stava perdendo troppi uomini e che il movimento libanese ci stava rimettendo troppe risorse, in un incontro riservato all'aeroporto di Damasco, l'iraniano ha detto alla sua guardia del corpo di ucciderlo. Ameno, così dicono gli israeliani: forse è vero, forse è ancora una volta il gioco della disinformazia.
  Martedì 21 marzo il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha detto che la minaccia principale per Israele è l'Iran. Sempre la solita musica da anni, si dirà, tutti sanno che Israele mette l'Iran in cima alla lista dei nemici. Ma la parte importante nelle parole del capo del Mossad è quella che manca, quella che è rimasta sottintesa. Proviamo a riassumere così quello che Cohen non ha detto: le bande di estremisti sunniti che scorrazzano in jeep, bandana e mitragliatrice per metà della Siria non ci impensieriscono tanto quanto la presenza militare iraniana, che sta lavorando per trasformare il paese nella sua piattaforma militare proprio accanto a noi, al di là del reticolato che taglia le alture del Golan. Quelli hanno i coltellacci e le telecamere e si scannano anche tra loro all'inseguimento del Califfato. Gli altri hanno un disegno organico, organizzato e molto più discreto, comandi militari, strutture scientifiche, missili balistici e un programma atomico ora sospeso. E l'Iran ha alleati in Siria. L'alleato più importante è la Russia di Vladimir Putin.

(Il Foglio, 29 marzo 2017)


Mondo arabo a pezzi, la Lega araba ricomporrà i cocci?

La bandiera della Lega Araba
Il vertice della Lega araba che si apre oggi, 29 marzo, in Giordania, avrà di fronte a sé un compito difficile: ricompattare un mondo arabo più diviso che mai. L'importanza dell'appuntamento è sottolineata dalla massiccia presenza di capi di Stato. Nel villaggio nei pressi del Mar Morto dove si svolgerà saranno presenti sedici capi di Stato, tra cui sette africani: Mohammed VI, Re del Marocco; Beji Caid Essebsi, Presidente tunisino; l'egiziano Abdel Fattah al Sisi; il sudanese Omar El-Bashir, il libico Fayez el Sarraj; il gibutino Ismaìl Omar Guelleh; il somalo Mohamed Abdullahi Farmajo; il mauritano Mohamed Ould Abdel e il comoriano Aziz Othman Ghazali. Non sarà presente il Presidente algerino Abdelaziz Bouteflika da tempo malato e impossibilitato a muoversi, che sarà rappresentato dal Presidente del Consiglio di Stato, Abdelkader Bensalah.
   Il mondo arabo si presenta spaccato. Fonte di divisione è la lotta tra le due potenze regionali, Arabia Saudita e Iran, che ha polarizzato una comunità già di per sé litigiosa e spesso incapace di risolvere i problemi che la attanagliano. Problemi di grande rilevanza: la guerra in Siria che si trascina dal 2011, la storica questione palestinese, la guerra in Yemen, ma anche la lotta al fondamentalismo islamico e, in particolare, a Daesh (lo Stato Islamico) che si è pericolosamente diffuso in Medio oriente e in Africa.
   Sul tavolo anche i rapporti sempre più difficili con gli Stati Uniti. La Presidenza di Donald Trump si è rivelata, fin dalle prime settimane, diffidente, se non ostile, nei confronti dei Paesi arabi. L'annunciato spostamento dell'ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme (rivendicata da ebrei e musulmani come propria capitale) e il decreto anti immigrazione, che riguarda alcuni Paesi arabi, sono apparse ad alcuni leader mediorientali e africani come uno sgarbo.
   Tra le novità del vertice è la presenza del Re del Marocco. La partecipazione è un successo personale di Re Abdullah di Giordania, il padrone di casa. Mohammed VI non voleva prendere parte al summit che considerava inutile perché offriva «una falsa impressione di unità e di solidarietà in un mondo arabo tutt'altro che compatto». Il sovrano marocchino ha però accettato l'invito e il suo discorso è particolarmente atteso. Probabilmente, come ha fatto in altre occasioni internazionali, il Re inviterà i capi di Stato arabi a una profonda azione riformatrice che dovrà essere fatta «da loro stessi e per se stessi».

(Africa, 29 marzo 2017)


E Fantoni il Giusto salvò Artom, l'amico ebreo

L'onorificenza al figlio

di Adam Smulevich

Il recente raduno dei protagonisti di 70 anni di impegno nelle istituzioni fiorentine ha rappresentato uno dei momenti maggiormente simbolici di rievocazione del nuovo corso democratico impresso alla città, tra i banchi di Palazzo Vecchio, dopo la caduta del nazifascismo. Domani alle 11, in sinagoga, una nuova pagina d'orgoglio che si lega a questa lunga storia. Renato Fantoni (1894- 1954), esponente di spicco del Partito Liberale, combattente della Resistenza e assessore alla Casa nella prima Giunta del dopoguerra, diventerà ufficialmente un Giusto tra le Nazioni. Il primo Consigliere comunale di Firenze a ricevere tale riconoscimento dallo Yad Vashem, il Memoriale di Gerusalemme. Sarà il figlio adottivo Piero, il cui padre naturale fu ucciso dai nazisti a Cerreto Maggio, a ricevere il riconoscimento dalle mani dei rappresentanti dell'ambasciata israeliana e della Comunità ebraica. Decisiva, ai fini dell'attribuzione dell'onorificenza, la solidarietà offerta da Fantoni (coadiuvato dalla moglie Beatrice) a un altro illustre rappresentante del Partito Liberale, l'ebreo Eugenio Artom, futuro Consigliere comunale, membro della Consulta nazionale e senatore della Repubblica, che nascose insieme alla moglie Giuliana Treves e al maggiordomo Amedeo a Pian del Mugnone. Una vicenda rimasta sconosciuta per lungo tempo, nota soltanto a Piero e alla ristretta cerchia dei suoi cari. «Ho una lettera che penso possa interessarti. Forse puoi aiutarmi». Era l'estate del 2014, Piero aveva finalmente deciso di condividere questa storia con qualcuno. Sul tavolo del suo appartamento di Scandicci, una pila di documenti e un fascicolo che custodiva meticolosamente quelle memorie. E in particolare una lettera, «la» lettera. Poche righe, ma sentite. È Giuliana che le firma, in un messaggio rivolto a Fantoni e consorte: «La vostra accoglienza così immediata, affettuosa e senza riserve, oltre alla salvezza materiale ha ridato col vostro esempio anche la fede nella fratellanza umana». Siamo nel 1951, sono passati alcuni anni ormai. Ma la gratitudine è ancora un sentimento vivo, da sottolineare con l'inchiostro. Dopo la pubblicazione di quella lettera su Pagine Ebraiche, si sono mosse molte cose. E soprattuto ha potuto aver luogo un commovente incontro. Per la prima volta infatti Piero e i discendenti degli Artom si sono conosciuti, parlati, abbracciati. Un sorriso sul volto di tutti i partecipanti alla riunione, convocata nella casa di F ortunee Treves (una delle nipoti di Giuliana): i diversi frammenti di quel passato, raccontati sia nella prospettiva dei salvatori che dei salvati, combaciavano alla perfezione. Era giunto il momento di procedere oltre. Fino a Gerusalemme.

(Corriere Fiorentino, 29 marzo 2017)


Hamas: 'Il treno della riconciliazione con Abu Mazen è fermo

Portavoce Qassem: la Lega araba faccia pressioni

GAZA - La riconciliazione fra Hamas ed al-Fatah e' al momento bloccata: lo ha detto oggi all'ANSA Hazem Qassem, un portavoce di Hamas. "Pensavamo di aver già raggiunto un accordo sui dettagli e sui processi da intraprendere, ma il treno della riconciliazione si è poi bloccato - ha affermato - perché il presidente Abu Mazen insiste per decidere in maniera unilaterale in tutti gli apparati (dell'Anp, ndr) e a non coordinarsi con alcuna delle altre fazioni palestinesi". "Noi desideriamo che la Lega araba faccia pressione sul presidente Abu Mazen affinché porti avanti la questione della riconciliazione" ha aggiunto il portavoce, riferendosi al summit arabo convocato per domani in Giordania.
Da quel vertice Hamas si attende peraltro "che annetta alla questione palestinese la massima priorità nel mondo arabo" e che la Lega araba "si schieri al fianco del popolo palestinese nella sua lotta per la liberazione dall'occupazione israeliana".

(ANSAmed, 29 marzo 2017)


Antico cimitero ebraico di Mantova, la nota dei rabbini italiani

A seguito di articoli di stampa che presentano una contrapposizione presunta fra la posizione dei rabbini italiani "accomodanti" e rabbini americani intransigenti sulla questione del cimitero di Mantova vorremmo precisare che tale distinzione giornalistica è fuorviante e che per chiunque e in particolare per qualunque rabbino la regola fondamentale è l'applicazione della normativa halakhica che stabilisce che la sepoltura ebraica è perpetua e intangibile.
A questo proposito vorremmo citare quanto da noi comunicato al presidente UCEI in data 3 marzo 2017.
"L'area cimiteriale ebraica antica di Mantova deve essere trattata come ogni altro cimitero ebraico, secondo le regole della halakhà che, in primo luogo proibiscono qualsiasi edificazione sopra le sepolture (ricordiamo che la vendita del cimitero da parte della Comunità di Mantova non ne cambia lo status). L'ARI ribadisce che da questo principio non è lecito derogare e che ogni proposta di soluzione del problema dovrà comunque avere la preventiva approvazione della Consulta Rabbinica, a norma di Statuto".
Il Consiglio dell'Assemblea Rabbinica Italiana

(moked, 28 marzo 2017)


Occhio pigro? Da Israele, una nuova soluzione!

di Daniel Ferraro

 
Tel Aviv - Un bambino mentre usa Binovision
L'occhio pigro, scientificamente conosciuto come Ambliopia, rappresenta la principale oftalmopatia pediatrica che causa disabilità visive. La patogenesi di questa affezione riconosce, alla sua base, un non corretto sviluppo visivo e neuronale in cui le vie nervose che mettono in comunicazione occhio e cervello, non sono adeguatamente stimolate.
   Tra i fattori predisponenti a questa patologia vi sono ulteriori disturbi che possono compromettere il normale sviluppo visivo come: miopia, strabismo, astigmatismo o anche cataratta in età prevalentemente adulta. Essendo questa una patologia monoculare, fin ora il trattamento previsto consisteva nell'appore un patch (una benda) sull'occhio dominante in modo da poter permettere al cervello, attraverso le proprietà di plasticità neuronale, di utilizzare maggiormente le vie visive proprie dell'occhio affetto in modo tale da effettuare una "correzione".
   Oltre all'applicazione del patch, altra strategia terapeutica è quella dell'utilizzo di colliri a base di atropina che offusca temporaneamente la vista al fine di stimolare maggiormente l'occhio controlaterale. All'alba delle ultime frontiere tecnologiche, l'azienda israeliana Medisim è pronta per immettere in commercio le video-lenti BinoVision. Questi occhiali ultratecnologici funzionano attraverso la rappresentazione di viste separate e indipendenti della stessa immagine per ciascun occhio. Per i bambini, questo nuovo approccio, rappresenta una forma "divertente" per curarsi, in quanto, non saranno più costretti ad indossare una benda, ma potranno sfruttare le capacità di questo dispositivo per connettersi e collegarsi a qualsivoglia sorgente di video in streaming, potendo in tal modo selezionare: film, giochi, cartoni animati, video musicali e trasmissioni televisive. Il tutto potrà essere monitorato dal medico grazie ad una funzione di registrazione di cui è dotato il dispositivo.
   Il dott. Chaim Stolovitch, capo dell'unità di oftalmologia e strabismo pediatrico del Tel Aviv Center, nel 2016 ha presentato i risultati del trial clinico ai medici dell'Association for Research in Vision and Ophthalmology in una conferenza a Seattle.
   "Abbiamo chiesto ai bambini di usare gli occhiali BinoVision per 60 minuti al giorno - che potrebbero essere divisi in due sessioni di 30 minuti ciascuna - sei giorni alla settimana per tre mesi. Abbiamo valutato la loro acuità visiva ogni quattro settimane e chiesto ai pazienti di tornare per il follow-up più tardi, per vedere i miglioramenti, ma soprattutto il mantenimento di quest'ultimi".
   Al termine dello studio clinico hanno constatato che i risultati sono stati migliori rispetto all'impego di patch o colliri pertanto la Medisim ha fatto richiesta d'approvazione alla Food And Drug Amministration.
   Ancora una volta Israele offre innovazioni terapeutiche che gradualmente stanno rivoluzionando il mondo della medicina.

(Peerqasje, 28 marzo 2017)


Hamas: "Pronti ad accettare sfida se Israele cambia le regole del gioco"

GERUSALEMME - Il capo dell'ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal, ha tenuto un discorso a Doha, in Qatar, onorando Mazen Fuqaha, capo del braccio armato dell'organizzazione che secondo il movimento è stato assassinato da Israele durante il fine settimana. "Se Israele cambia le regole del gioco, noi accetteremo la sfida", ha dichiarato Mashaal, spiegando che anche se l'organizzazione palestinese è divisa in più rami, tutti lavorano insieme per la stessa causa. "Non ci interessa se esiste uno squilibrio di potere; la nostra volontà è più potente della loro forza. La nostra volontà e le convinzioni sono più potenti delle loro armi", ha aggiunto Mashaal. Il prossimo anno Hamas dovrebbe pubblicare un nuovo documento programmatico che dovrebbe affrontare la questione dell'antisemitismo, presente nello statuto originale del movimento, risalente al 1988. Mashaal ha precisato a questo proposito che la resistenza armata rimarrà una strategia fondamentale del movimento.

(Agenzia Nova, 28 marzo 2017)


L'insostenibile leggerezza dello stato palestinese

Se l'economia della Cisgiordania non si integrerà con quella della Giordania, o con quella di Israele, non potrà mai sostenere la propria popolazione.

Gli abitanti di Gaza e di Cisgiordania hanno un Pil lordo pro capite di 2.867 dollari annui e un'aspettativa media di vita di 74 anni: condizioni molto simili a quelle dei cittadini della Giordania e dell'Egitto e molto superiori a quelle dei cittadini dell'India, per non parlare di molti paesi africani. I 95 milioni di cittadini eritrei, ad esempio, hanno un Pil annuo pro capite di soli 500 dollari.
Tutto bene? No, perché il reddito medio è garantito non dal funzionamento dell'economia, ma dai sussidi internazionali. Gli abitanti della Cisgiordania sono anche più ricchi di quelli di Gaza perché circa 150.000 fra loro lavorano in Israele, con remunerazioni pari a quelle degli israeliani....

(israele.net, 28 marzo 2017)


Arriva l'ambasciatore di Israele, volantini antisemiti a Pordenone

Spiegamento di forze dell'ordine e manifestini con la svastica. Poi avviate importanti relazioni per l'economia locale

 
PORDENONE - Cani antiesplosivo, pattuglie in divisa e in borghese in tutto il centro storico. Appuntamento in un clima di massima allerta quello che si è svolto ieri in camera di Commercio a Pordenone. Protagonista l'ambasciatore di Israele Ofer Sachs, accolto da qualche ignoto provocatore con volantini - rimossi prima del suo arrivo - che ritraevano la svastica.
Al di là di questo, la visita di Sachs, accompagnato dal senatore Lodovico Sonego che ha fatto da "ambasciatore" del territorio, si è svolta senza intoppi. Prima dell'appuntamento curato dall'associazione Norberto Bobbio, l'ambasciatore ha incontrato le categorie economiche delineando scenari possibili e interessanti per le imprese del territorio.
Il range di interessi commerciali tra il Pordenonese e Israele può rapidamente ampliarsi, come ha spiegato Sachs al presidente della Camera, Giovanni Pavan e gli omologhi delle associazioni di categoria, Michelangelo Agrusti (Unindustria, che ha coorganizzato e patrocinato questa fase della visita), Silvano Pascolo (Confartigianato Pordenone) e Cesare Bertoia (Coldiretti Pordenone).
Le similitudini tra la capacità dell'economia israeliana di crescere attorno alle newco - è infatti al primo posto nel mondo per percentuale di incremento delle nuove imprese - e l'effervescenza di start-up e di iniziative a esse correlate che negli ultimi anni hanno caratterizzato il Pordenonese e l'intera regione, sono uno dei punti di partenza. Sachs, giovane ambasciatore, già a capo dell'equivalente israeliano del nostro Istituto per il commercio estero (Ice), indica in quella del colloquio e del contatto la migliore strada per rendere appetibili agli investitori israeliani idee o hardware locali.
«Se avete un buon progetto o un buon prodotto da proporre - ha detto l'ambasciatore - siate certi che da noi troverete un investitore pronto ad aiutarvi». I numeri raccontati da Sachs lo testimoniano: «Israele è un paese con un tasso di crescita assestatosi stabilmente tra il 3 e il 4 per cento, tranne l'inevitabile flessione del 2008 durata poco, a dir la verità».
Le tre direttrici di crescita individuate per i prossimi anni in Israele avranno percentuali in doppia cifra: «Cybertech biomedicale e servizi». Se questo è il contesto, Pordenone disponde di tecnologie (ha ricordato Pavan), un sistema fieristico (ha aggiunto Agrusti) e di strumenti di investimento come Finest (ha concluso Sonego) che renderanno più facile la ricerca di intese.

(Messaggero Veneto, 28 marzo 2017)


Ministro israeliano elogia il coordinamento con la Russia sulla Siria

Il meccanismo di coordinamento sulla Siria tra Israele e la Russia ha funzionato bene, secondo il Ministro dell'Intelligence israeliana Yisrael Katz in un'intervista con l'agenzia russa TASS.
"Il meccanismo per il coordinamento delle attività militari al fine di evitare conflitti tra la Russia e Israele in Siria ha funzionato bene", secondo il ministro dell'Intelligence israeliana, Ysrael Katz, in un'intervista concessa all'Agenzia russa TASS.
Katz ha aggiunto che "Israele non interferisce nella guerra civile in Siria, ma sono state create alcune" linee rosse "per quanto riguarda la consegna di armi attraverso la Siria per i combattenti di Hezbollah con sede in Libano, così come qualsiasi tipo di attacchi dal territorio siriano sulle alture del Golan." Ed ha spiegato: "La Russia sa di queste 'linee rosse' di Israele e per quanto ne sappiamo, la Russia non ha mai dichiarato che la fornitura di armi dalla Siria al movimento Hezbollah libanese sia legittima.

(l’Antidiplomatico, 28 marzo 2017)


Netanyahu: "Noi impegnati con gli Usa per far avanzare processo di pace"

GERUSALEMME - Lo Stato ebraico è impegnato a lavorare con l'amministrazione del presidente Usa Donald Trump per far avanzare il processo di pace in Medio Oriente con i palestinesi e gli altri paesi vicini. Lo ha detto oggi il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, in collegamento via satellite con la conferenza annuale dell'American Israel Public Affairs Committee (Aipac), che si sta svolgendo a Washington. L'Aipac è un'organizzazione bipartisan di cittadini statunitensi che si occupa della promozione delle relazioni Usa-Israele. Nel quadro della ripresa dei negoziati per il processo di pace israelo-palestinese, nelle scorse settimane l'inviato speciale per i negoziati internazionali, Jason Greenblatt, si è recato in Israele e nei Territori palestinesi per incontrare le leadership dei due paesi. Alla conferenza Aipac è intervenuto anche il vicepresidente Usa, Mike Pence, che ha parlato dello spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. "Dopo decenni di semplici discussioni, il presidente Usa sta prendendo in seria considerazione lo spostamento dell'ambasciata", ha affermato Pence. Il tema del trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme ha incontrato una forte opposizione da parte dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina, che ha minacciato di revocare il riconoscimento dello Stato ebraico.

(Agenzia Nova, 28 marzo 2017)


La comunità ebraica di Biella

La sinagoga di Biella
Secondo il racconto evangelico, così come riferito da Matteo, Marco e Luca, Gesù uscì dal Secondo Tempio di Gerusalemme e i suoi apostoli gli si avvicinarono lodando la magnificenza di tale luogo di culto, ma lui rispose pronunciando l' inquietante Profezia della distruzione del Tempio: «Vedete tutte queste cose? In verità vi dico che non rimarrà pietra su pietra che non venga diroccata ».
  Indipendentemente dall'autenticità storica o meno dell' affermazione, alcuni studiosi infatti la reputano un'aggiunta successiva ai fatti storici a cui è riferita, nell' anno 66 la Giudea, da lungo tempo provincia di Roma, fu teatro di una rivolta estremamente violenta che due validi comandanti militari, Vespasiano e Tito, padre e figlio, sedarono con asprezza espugnando e distruggendo completamente Gerusalemme, Tempio compreso, del quale lasciarono in piedi il solo Muro Occidentale, l'attuale Muro del Pianto, come perenne ricordo del grande potere militare e politico romano, facendo poi della Città Santa una colonia, Aelia Capitolina, che vietarono ai giudei, molti dei quali furono resi schiavi o cacciati via: ebbe inizio la Diaspora, la grande dispersione del popolo israelita verso l' Europa e l' Africa settentrionale, ove si suddivise in comunità di varie dimensioni, importanza e prosperità.
  Oltre alla Palestina e alle terre confinanti, l'Italia è il solo Paese con una lunga e ininterrotta connessione con gli ebrei: le comunità italiane, oggi circa venti, sono le più antiche in Occidente, ma anche tra le più piccole, infatti gli ebrei italiani sono appena venticinquemila. Anche la nostra Biella vide nascere una sua comunità israelitica. Sorta nella seconda metà del Trecento, inizialmente si componeva di appena sei o sette famiglie tra cui spiccavano gli Jona, originari di Ivrea e divenuti influenti con l' acquisizione di un banco di prestito, e i Vitale di Alessandria.
  Sul finire del Cinquecento la comunità popolava prevalentemente il Piazzo, la parte alta della città, ove è tuttora riconoscibile nei pressi del vicolo del Bellone il grande edificio d' angolo che ospitava le famiglie residenti, e la piccola sinagoga settecentesca, con il suo interno in stile tradizionale, diversamente dall' esterno, così disadorno da non rendere affatto l' idea della presenza di un luogo di culto.
  Nel 1723, in ottemperanza ai princìpi ispirati dalla bolla «Cum nimis absurdum» emanata il 14 luglio 1555 da papa Paolo IV, il Regno di Sardegna adottò un decreto costituzionale che impose l' istituzione dei ghetti, a cui il consiglio cittadino di Biella ottemperò sfruttando la posizione isolata del quartiere del Bellone dal centro abitato per confinarvi gli ebrei locali, in tutto una ventina divisi in sei famiglie. A seguito del fallimento generale dei moti rivoluzionari borghesi del 1848, re Carlo Alberto di Savoia concesse lo Statuto Albertino, che prevedeva diritti e doveri per l' intera sudditanza, compresa quella ebraica, che veniva emancipata: la comunità biellese, ora composta da undici famiglie per un totale di cinquantanove persone, affisse riconoscente sul muro della sinagoga un ringraziamento al sovrano, che finalmente permetteva indistintamente agli ebrei di accedere alle libere professioni, alla proprietà terriera e all'istruzione universitaria, e seppe presto cogliere le nuove opportunità acquisendo grandi benefici, adattandosi con praticità allo spirito modernizzante del tempo, tanto che le imprese dei Vitale e dei Morelli, dedite al commercio di tessuti fin dalla fine del Settecento, si svilupparono grandemente assumendo importanza nazionale, dando un contributo notevole allo sviluppo industriale della città.
  Agli inizi del Novecento, tuttavia, la popolazione ebraica di Biella calò in numero, pur restando significativa e integrata in città, continuando a svolgere professioni importanti, legate non soltanto al tessile, e annoverando personalità di rilievo come l' ingegnere elettrotecnico Emanuele Jona e il docente universitario Giacomo Debenedetti. Pur non rinunciando ai valori tradizionali dell' ebraismo, essa si avviò peraltro a un' esistenza laica, come dimostrato ad esempio dall' impiego delle fotografie dei defunti sulla maggior parte delle tombe del cimitero giudaico in via dei Tigli, cosa non permessa dai dettami dell' Halakhah, il sistema complessivo delle leggi religiose.
  In occasione dell' introduzione delle leggi razziali fasciste, nel 1938, gli ebrei biellesi ne subirono immediatamente le penose restrizioni, perdendo il lavoro, il diritto di andare a scuola, di possedere radio e telefono, di ricevere aiuti domestici e, in generale, di trascorrere una vita tranquilla. Nel 1943, con l' istituzione della Repubblica Sociale Italiana, in territorio italiano fu esportata l' Endlösung der Judenfrage, la «soluzione finale della questione ebraica» promossa dal Terzo Reich: così come in altre zone dell' Italia del nord, nel Biellese ebbe inizio una caccia spietata, tuttavia contrastata dalla solidarietà e dal coraggio dei biellesi, che prestarono aiuti preziosi e costanti agli ebrei.
  La famiglia Segre, ad esempio, si nascose nel convento di Graglia e grazie al rettore scampò alla perquisizione dell'intero edificio da parte degli ufficiali nazisti, venendo poi ospitata alla casa di cura per malattie mentali Villa Turina Amione di San Maurizio Canavese, diretta da Carlo Angela, padre di Piero, futuro conduttore televisivo. Altre famiglie, unite ad alcune di provenienza torinese, trovarono rifugio in Svizzera. Tuttavia la sorte non fu altrettanto benevola con Giuseppe Weinberg, nato il 17 agosto 1905 a Biella, ove fu arrestato, e deportato nel campo di sterminio di Auschwitz, ove morì. Dopo il 1945, la comunità biellese si ridusse progressivamente, sia per migrazioni che per un calo delle nascite, cosa che la indusse a confluire nella comunità vercellese.

(NewsBiella.it, 28 marzo 2017)


"La vittoria di Allah è molto vicina. Gli occidentali si preparino a un'onda di sharia e di islam"

 
I musulmani rappresentano un quarto dei residenti e i demografi credono che, nel giro di soli vent'anni, diventeranno la maggioranza assoluta. Il più acceso tra i gruppi musulmani del Paese è Sharia4Belgium (La Sharia per il Belgio) che recentemente minacciato in tv alcuni islamici moderati che si erano prestati a un dibattito. "Gli occidentali si preparino a un'ondata di sharia e islam", avverte il leader di Sharia4Belgium, Fouad Belkacem alias Abu Imran, ai microfoni di Cbn News.
   "Noi crediamo che la sharia avrà il dominio e verrà adottata in tutto il mondo - dice Fouad Belkacem al giornalista della Cbn News - dobbiamo essere chiari. Non c'è alcuna differenza tra l'islam e la sharia. È solo una questione di nome. La democrazia è l'opposto della sharia e dell'islam. Noi crediamo che il legislatore è Allah. Allah fa leggi ed è lui che ci dice cosa è permesso e cosa è proibito". Per il leader di Sharia4Belgium è "bizzarro" sentire qualcuno che dice: "Ho parlato con un musulmano democratico". E spiega: "È come dire di aver parlato con un cristiano ebreo o con un ebreo musulmano. Come puoi incontrare un ebreo musulmano o un musulmano ebreo? Un musulmano che dice di essere contro la sharia non è musulmano. Questa non è una cosa possibile".
   In Belgio i musulmani radicalizzati hanno iniziato a mostrare i muscoli. Sono state assalite ragazze in bikini. Simboli cristiani ed ebraici sono stati colpiti da atti vandalici. E, in alcuni quartieri a maggioraza musulmana, è già stata instaurata la sharia. L'idea di Fouad Belkacem e dei seguaci di Sharia4Belgium è rimpiazzare le leggi del Belgio con la sharia, incluse le amputazioni per i ladri, la lapidazione delle donne per adulterio e la condanna a morte per gli omosessuali. "Qui quando qualcuno parla della Sharia, immediatamente inizia questa storia delle amputazioni, della lapidazione e delle esecuzioni - spiega - ma questo è un millesimo della Sharia. Lei lo sa che in oltre mille e trecento anni di stati islamici, con la sharia in vigore, ci sono state, forse, sessanta mani amputate. Quindi: in oltre mille e trecento anni, sessanta mani. È veramente un numero per il quale uno possa dire, oh, c'è veramente da avere paura? Tra l'altro, se non sei un criminale, perché mai devi avere paura della sharia?".
   Da quattro anni Mohammed è il nome più comune per i bambini che nascono a Bruxelles. Fouad Belkacem è certo che sia solo una questione di tempo prima che i musulmani abbiano la maggiornza. Nella città di Anthworp già ora più del 40% dei bambini nelle scuole sono musulmani. "Quindi - si vanta Fouad Belkacem - è solo una questione di tempo. Non c'è problema. Non avremo alcun problema". Quindi offre un consiglio ai belgi: "Se vogliono fermarci e ricacciarci indietro, potrebbero iniziare ad avere quattro mogli e avere un sacco di bambini. Se fanno una cosa del genere, forse avrebbero una possibilità. Ma non credo che accadrà". Quindi la minaccia finale: "La vittoria di Allah è molto vicina. Quindi penso che gli occidentali si debbano preparare a un'onda di sharia e di islam".

(MGinvestment, 28 marzo 2017)


La sharia non è altro che l'imitazione islamica del biblico Regno messianico prossimo venturo. Prima che questo sia realizzato, è possibilissimo, come già avvenuto in precedenza e descritto nella Bibbia, che il Signore faccia precedere la venuta del suo Regno da qualcosa che serva a fare “il lavoro sporco”, come si dice in politica. Nella storia d’Israele i re malvagi e idolatri venivano puniti attraverso i loro successori, altrettanto malvagi e idolatri e tuttavia inviati da Dio per il compimento dei suoi piani. L'odierna società occidentale, che dice di essere giudaico-cristiana e poi approva il matrimonio omossessuale, legalizza l’aborto, favorisce l’eutanasia, si vanta del suo libertinismo sessuale come di una superiore forma di libertà e disprezza i “bacchettoni” che se ne distanziano, non prova alcun timore davanti al Dio “giudaico-cristiano”, e quindi adesso prova terrore davanti all’Allah islamico. Che non è affatto la stessa cosa, come vorrebbe il cattolicissimo papa, ma può servire a far tornare i conti. E i conti in effetti tornano. M.C.


In Israele il parco giochi più cool ed educativo del pianeta

 
 
Yossi De Levie è l'ideatore di ABA SciencePlay , il primo parco giochi nato dalla fusione delle attività all'aperto con scienza, ingegneria e giochi, per stimolare e insegnare ai bambini - e ai loro genitori - qualsiasi cosa, dal riciclaggio all'astronomia, passando per la fisica.
I bambini possono fare un giro sulla cabina di guida per conoscere il design di un elicottero, creare la forza centrifuga, posizione specchi cattura sole nel modo giusto per fare volare aerei in miniatura e tantissimo altro.
Queste e altre attività scientifiche sensoriali sono integrate nelle apparecchiature per il parco giochi. Ogni pezzo è dotato di un pulsante da premere per ascoltare la narrazione di ciò che si sta vivendo. Ed è tutto alimentato da generatore di energia cinetica, solare ed eolica.
ABA SciencePlay ha iniziato le vendite in Israele durante il 2016. Il suo kit è installato in diversi parchi comunali in Israele per rendere la scienza accessibile al pubblico. Alcuni dei prodotti si trovano anche in due musei scientifici israeliani, Technoda a Hadera e MadaTech a Haifa.
Dopo l'approvazione della CE, le vendite stanno iniziando anche in Europa. Entro la metà del 2017, l'azienda si aspetta di ricevere la certificazione internazionale per le attrezzature da gioco Manufacturers Association (IPEMA) che permetterà le vendite negli Stati Uniti.
"Si tratta di un apprendimento collaborativo attraverso sfide mentali e fisiche", ha spiegato l'inventore.
ABA SciencePlay è parte della Microdel, incubatore privato di Tel Aviv, che De Levie ha fondato nel 2004 per promuovere startup israeliane in acquacoltura, dispositivi medici, casa, salute e sicurezza dei prodotti di consumo.
Le strutture sono fatte principalmente di materiali metallici, progettate per durare in qualsiasi condizione meteorologica e di resistere a tentativi di atti di vandalismo. L'apparecchiatura copre fino a 600 metri quadrati.

(SiliconWadi, 13 marzo 2017)


Essere antisionista equivale a negare a uno Stato ebraico di esistere

Non è antisemitismo questo?

di Paolo Salom

Dialogo in una terra lontana dall'Italia (e anche da Israele): "Qual è la tua posizione sul conflitto con i palestinesi?". Risposta diplomatica: "No comment". "Dai, parliamone perché, vedi, io sono anti sionista".
   Surreale? Tutt'altro: letterale. La persona che ha pronunciato queste parole esiste, è di buona cultura e conosce il mondo. Quando si riferisce ai territori occupati parla di "Palestina", come se ci fosse davvero un'entità con quel nome. E, ovviamente, l'idea che se ne trae è che il termine indicherebbe tutto lo spazio tra il Giordano e il mare, come nella propaganda di arabi e odiatori del lontano Occidente. Ma l'espressione che più colpisce (tramortisce?) è: "Io sono anti sionista", detta così, come la cosa più naturale del mondo.
   Tramortisce perché non lascia spazio a compromessi. Non significa: "Sono per la soluzione a due Stati". Ma molto più semplicemente: "Israele non deve esistere, al suo posto deve nascere uno Stato arabo palestinese". Che una persona non ebrea si definisca anti sionista non può avere altra accezione che questa e dimostra che il termine è un modo politicamente corretto per definirsi antisemita. Perché? Perché non lascia alcuno spazio a compromessi. In un istante definisce la posizione dell'interlocutore su una questione complessa e stratificata - un portato della Storia! - azzerando i diritti nazionali di un popolo, gli ebrei, a favore di un altro popolo, gli arabi che si definiscono palestinesi, senza alcuna considerazione della realtà dei fatti. Che significa altrimenti desiderare la sparizione di una nazione intera?
   Non è antisemitismo forse? E cosa allora? Come si può dialogare quando le premesse sono queste? Soltanto assicurando l'interlocutore che, in quanto ebrei, si condivide l'idea che Israele non abbia diritto di esistere, sia un "errore" da riparare attraverso la cessione del potere ai "veri" detentori dei diritti nazionali su quella terra, la "Palestina". Ecco, ma questa condizione non lascia scampo, e riporta ai tempi in cui agli ebrei veniva chiesto di rinnegare la propria fede, la propria lingua, la propria identità.
   E non ditemi che sarebbe sufficiente risolvere il conflitto con i palestinesi per azzerare una simile visione. Perché anche senza Israele ci sarebbe comunque chi vorrebbe metterci in un angolo della Storia. Questi sono i fatti, la realtà che ci sta attorno. Non si tratta di farcela piacere. Ma di comprenderla: e contrastarla.

(Mosaico, 27 marzo 2017)


"Eravamo Ebrei": Alberto Mieli e la forza di raccontare la crudeltà e la malvagità

Commovente lezione a Unisannio

di Nietta Nives Panella

 
"Eravamo ebrei: Questa la nostra unica colpa" (Marsilio Editori), scritto da Alberto Mieli assieme alla nipote Ester Mieli, è stato presentato oggi nel Dipartimento DEMM dell'Università degli studi del Sannio, nell'ambito del progetto "Unisannio Cultura". Ne hanno parlato il pro rettore Massimo Squillante e il docente Carlo Di Cristo, dopo i saluti istituzionali del rettore Filippo De Rossi e del vicesindaco di Benevento Erminia Mazzoni, presente il prefetto Paola Galeone. La giornalista Enza Nunziato ha poi condotto il dialogo con l'autore, uno degli ultimi italiani sopravvissuti ai campi di concentramento in Germania durante la seconda guerra mondiale. Unisannio ha omaggiato l'autore con una targa ricordo.
   La narrazione è stata appassionante e le diverse testimonianze fornite hanno fortemente coinvolto il pubblico. Mieli aveva solo 17 anni quando, a Roma venne arrestato e portato al carcere Regina Coeli con altri antifascisti. Vittima di brutali pestaggi fu successivamente deportato, prima nel Campo di Fossoli, poi ad Auschwitz Birkenau e infine a Mauthausen. E ancora oggi ricorda perfettamente l'odore acre di quell'aria che, all'inizio, dai deportati appena internati, veniva attribuito a delle fabbriche chimiche. Proveniva in realtà dai forni crematori, costantemente in funzione.
   All'attenta platea oggi ha raccontato le estenuanti sofferenze psicologiche e fisiche, le angherie, le umiliazioni, le torture che lui e i suoi compagni, uomini e donne, hanno dovuto subire. Non sono mancati i momenti di commozione da parte del protagonista e del pubblico. Mieli ha mostrato coraggiosamente i segni che ancora porta sulla pelle, a cominciare dal numero di ingresso ai campi, l'unica forma di individuazione dei prigionieri: il 180060. Ed è riuscito a trasmettere pienamente il dolore provato in quelle "perfette macchine d'orrore che annullavano la dignità dell'uomo" e a evocare la disumanità degli aguzzini.
   E comunque dalle sue parole è risultato chiaro come non serbi odio o rancore, né brami vendetta. Mieli oggi nutre invece un grande amore, soprattutto per la libertà e ha ribadito che mai nessuno deve esserne privato. Insomma è emersa tutta la forza di cui si armò per resistere allora e che oggi, a 91 anni, usa per informare, per far sì che sia noto a tutti a cosa possano portare pessime ideologie come il nazismo, quella che inizialmente era un'idea isolata. Concetto approfondito da Di Cristo che ha parlato dell'origine del razzismo, dell'eugenetica e che ha spiegato come poi Hitler e i nazisti si siano appropriati di questa corrente di pensiero tramutandola in pregiudizio e violenza.
   Il docente ha quindi sottolineato l'importanza e la bellezza della diversità affermando che "siamo nati per essere diversi, in natura la diversità è normalità", un messaggio antirazzista su cui poi hanno insistito anche Massimo Squillante ed Enza Nunziato. Al termine della presentazione, il musicista Giovanni Alvino si è esibito in un'esecuzione al pianoforte di Ballata n.1 op.23 in sol minore di Fryderyk Chopin. Hanno collaborato alla iniziativa odierna Pietro Loconte, direttore artistico dell'associazione culturale musicale "Nuova Diapason", e Maria Incoronata Fredella, presidente dell'associazione culturale "Log01".
   Precedentemente, in mattinata, Mieli ha avuto la possibilità incontrare gli studenti di Benevento, durante una lezione di Squillante nella quale sono stati toccati temi come l'amore, il rispetto, la dignità e la libertà di scegliere e di non rinunciare ai diritti fondamentali. Alberto Mieli ha ricevuto una laurea honoris causa dall'Università di Foggia e una lettera di ringraziamento da Steven Spielberg per il contributo da lui fornito alle informazioni sulla Shoah.

(Il Vaglio, 27 marzo 2017)


Al via il primo aprile "Cinema Italia" in Israele

TEL AVIV - Torna per la quarta edizione "Cinema Italia", la rassegna cinematografica con il meglio delle pellicole del Belpaese. In programma, 73 proiezioni e 14 classici italiani, compresa una retrospettiva in omaggio a Roberto Rossellini. L'iniziativa prendera' il via il 1 aprile a Tel Aviv e continuera' per tutto il mese in varie localita' del Paese, da Gerusalemme, a Tel Aviv, Haifa, Holon, Rosh Pina e Sderot.
Il festival, nato dalla collaborazione tra Adamas Italia-Israele e gli Istituti italiani di cultura di Tel Aviv, Haifa, Istituto Luce Cinecitta', il comune di Haifa e Tel Aviv-Yaffo e le sale cinematografiche d'Israele, con il patrocinio dell'ambasciata italiana.
L'iniziativa e' divisa in due: la prima dedicata ai film piu' recenti usciti nelle sale italiane - da 'Veloce come il vento' di Matteo Rovere, ospite della kermesse, a Fuocoammare - mentre la seconda riguarda i classici, compreso l'omaggio a Rossellini con 5 pellicole del famoso regista. Sara' anche l'occasione per proiettare una versione restaurata di 'Kaos' dei fratelli Taviani per celebrare il 150esimo anniversario della nascita di Luigi Pirandello con un'opera che si ispira alle sue 'Novelle per un anno'.

(AGI, 28 marzo 2017)


Napoli, se la città di pace sfida Israele

di Dan Haezrachy*

Napoli si è definita città della pace e della giustizia, ma quando si tratta di Israele sembra più che altro un teatro di guerra ideologica. Che a Napoli si organizzino eventi anti- israeliani non è una novità, ma il consiglio comunale sembra ora intraprendere una vera e propria battaglia anti-israeliana. Il convegno «A Napoli il Mondo: recepire il diritto internazionale umanitario nella quotidiana pratica amministrativa», svoltosi il 16marzo, ha tracciato un'agenda anti-israeliana che ripropone la stessa retorica rigettata dagli Stati e dai tribunali di mezzo mondo. Si propone di redigere una lista di «ditte che non violano il diritto internazionale», di escludere dagli appalti pubblici quelle che lo violano e di istituire un osservatorio a tal fine.
   Un'iniziativa apparentemente encomiabile per chi ha tanto a cuore la pace e la giustizia nel mondo. Ma chi sarà a decidere chi è una ditta «buona» e una ditta «cattiva»? Sarà forse Alessandro Fucito, presidente del consiglio comunale che già l'anno scorso ha partecipato a un evento sponsorizzato dal Comune per l'esclusione dagli appalti pubblici di aziende italiane che operano in Israele? Oppure il consigliere Mario
 
La consigliera Eleonora de Majo
Coppeto, trai promotori della contestata iniziativa di conferire la cittadinanza onoraria a Bilal Kayed, lungi dall'esser un uomo di pace? Sarà forse la consigliera Eleonora de Majo a decidere chi sono le ditte buone e chi quelle cattive, dopo un lungo curriculum di affermazioni violentemente anti-israeliane - prima per aver dato dei «porci negazionisti» agli israeliani, poi per aver equiparato Netanyahu a Hitler, sostenendo che gli israeliani perpetrerebbero politiche di genocidio. Al convegno è intervenuta anche l'attivista Miriam Abu Samra che ritiene la lotta palestinese un problema legato al presunto colonialismo israeliano, definisce i palestinesi come popolazione indigena e critica la dirigenza palestinese per non difendere a sufficienza il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.
   Si dimentica però che paradossalmente proprio per Israele i palestinesi sono arrivati ad avere un'indipendenza che nemmeno rivendicavano sotto occupazione giordana. L'ossessione del diritto al ritorno è un altro chiaro elemento ideologico di rifiuto dell'esistenza di Israele, che cancella parte della storia: se di profughi si parla, allora anche i profughi ebrei cacciati dai Paesi arabi dopo la costituzione dello Stato di Israele devono essere parte del dibattito politico.
   Si parla di pace, quindi, oppure di un obiettivo politico anti-israeliano? Hanno partecipato all'evento anche il gruppo Bds-Campania, parte del movimento Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni che promuove la discriminazione di Israele, dei cittadini israeliani e di chiunque collabori con loro. Con la pace e diritti umani si vuole però imporre a Napoli un'ideologia che vede Israele come un paria che si macchia di terribili crimini come le violazioni del diritto internazionale umanitario.
   Napoli, però, arriva tardi. In Spagna, per esempio, alcuni comuni avevano adottato politiche anti-israeliane, mascherate da lotta per la giustizia, poi cassate perché chi ha la competenza di imporre sanzioni è solo lo Stato, che decide di politica estera. Iniziative di boicottaggio sono finite nei tribunali di Francia, Canada e Stati Uniti, e i giudici hanno sempre deciso nel senso dell'illegalità di tali iniziative. Tanto più se si parla di diritto internazionale umanitario, che gestisce le regole della guerra, quindi rivolto agli Stati e ai gruppi armati. In una causa in Francia addirittura i promotori sono stati condannati per incitamento alla discriminazione.
   Una proposta di politica di «sanzioni» che il Comune di Napoli dovrebbe adottare non solo non rientrerebbe nelle competenze del Comune, ma è principalmente una questione politica. Il Comune di Napoli vorrebbe essere città della pace e della giustizia, ma dimostra una certa propensione per campagne ed eventi che fomentano il sentimento anti-israeliano e incitano alla discriminazione contro Israele. Una propensione che rispecchia le ideologie che guardano con fascino alla cosiddetta «resistenza palestinese», giustificando il terrorismo e la retorica belligerante dei palestinesi (come dimostra la proposta di cittadinanza onoraria aBilal Kayed).
   Israele è messa alla gogna da un'ignoranza ideologica, che fa dello Stato ebraico un mostro (come ama definirlo quell'attivista il cui film antisemita «Israele il Cancro» è stato proiettato anche a Napoli) da dover cancellare per rendere giustizia ai palestinesi e al mondo. Sono queste la pace e la giustizia di cui Napoli vuol farsi bandiera? Chiamiamole con il loro nome: né pace né giustizia, ma iniziative anti-israeliane.
   Perché Napoli sia una vera città della pace, si dovrebbe intraprendere la strada del dialogo, del confronto, per promuovere la diversità di opinioni, il pluralismo culturale e l'accettazione dell'altro. Napoli può essere una città della pace e della giustizia, ma per esserlo dovrà liberarsi da morse ideologiche e adottare vere politiche di pace. Come aveva detto il profeta Zaccaria: «Giudicate nelle vostre città secondo verità, giustizia e pace». La verità è imprescindibile per la giustizia e la pace.
* Vice ambasciatore d'Israele in Italia

(Il Mattino, 27 marzo 2017)


“Queste sono le cose che dovete fare: dite la verità ciascuno al suo prossimo; fate giustizia alle vostre porte, secondo verità e per la pace” (Zaccaria 8:16).
Sulla bandiera dell’ideologia antisionista sta scritto: “giustizia e pace”. E sul manico: “menzogna”. Molti non lo vedono, ma è perché non hanno nessuna voglia di vederlo. M.C.


Manifesti anti-Israele con immagini shock

BRINDISI- Manifesti con foto raccapriccianti di bambini feriti e frasi contro Israele che erano stati affissi sulle facciate del Banco di Napoli, al centro della città, sono stati fatti rimuovere su segnalazione dei vigili urbani e della Digos. Su fondo bianco, con una vernice rossa erano scritte frasi come: "Israele banda terrorista", "Palestina-Ucraina fermate il massacro" e ancora "Boicotta Israele". Al momento i promotori dell'iniziativa sono ignoti. Non c'è infatti nessuna firma su quei fogli recanti foto di resti di bimbi morti abbracciati dai fratellini e dai congiunti, che documentano gli orrori del conflitto.

(Telerama News, 27 marzo 2017)


Il fascino violento dell'islam di Francia

Un terzo dei giovani musulmani è fondamentalista

da il Figaro (22/3)

Un sondaggio Cnrs con settemila studenti dimostra che una minoranza di giovani musulmani di Francia aderisce al "fondamentalismo". Un terzo. E' uno studio che parte dall'invito del presidente dell'istituto a presentare proposte di ricerca nel novembre 2015, dopo gli attacchi terroristici. A quattordici-sedici anni, il momento chiave della costruzione dell'identità, qual è il grado di aderenza a queste idee islamiche radicali? Il 32 per cento, ad esempio, non ha condannato completamente gli attacchi contro Charlie Hebdo e Hypercacher a Parigi. Tra gli studenti delle scuole superiori, il 70 per cento non condanna gli autori dei due attacchi. Il 44 per cento pensa che sia accettabile "in alcuni casi, nella società attuale", "combattere con le armi in mano per la propria religione". Un quadro poco rassicurante della radicalizzazione islamica nella società francese, specie perché arriva a ridosso delle elezioni presidenziali.
A settembre era uscito un altro sondaggio simile. Il 28 per cento dei musulmani in Francia sono "fondamentalisti" e vorrebbero sostituire la legge con la sharia. Ma la percentuale sale al cinquanta per cento se si considerano i giovani. Quel sondaggio venne condotto da Ifop per il think tank Institut Montaigne.

(Il Foglio, 27 marzo 2017)


Israele: la Terra Promessa

La realtà economica dell'unica democrazia medio-orientale, ha raggiunto livelli di crescita davvero notevoli, anche in campo sociale, che hanno portato il Pil al livello del 6,2%, nonostante le insidiose incertezze politiche che continuano a palesarsi all'orizzonte dello stato israeliano.

di Gianpiero Micheli

In tempo di avvicinamento alla Pasqua, quale idea migliore se non quella di farsi un viaggio nella terra d'Israele, luogo di indubbio fascino ma sicuramente zona molto turbolenta dal punto di vista geopolitico che però non ha minato la costante crescita di una Paese ad oggi fra i più moderni e sviluppati.
   La realtà economica dell'unica democrazia medio-orientale, ha raggiunto livelli di crescita davvero notevoli, anche in campo sociale, che hanno portato il Pil al livello del 6,2%, nonostante le insidiose incertezze politiche che continuano a palesarsi all'orizzonte dello stato israeliano.
 
   La crescita interna è stata favorita da importanti investimenti ed innovazioni nel campo elettronico e dell'informatica, di cui Israele sta diventando uno dei principali leader a livello mondiale e che sta attraendo molti investitori dall'estero, compresi i nostri imprenditori italiani.
   Israele è riuscito ad aumentare la sua crescita economica oltre cinquanta volte negli ultimi sessant'anni, diventando un centro propulsore dell'high-tech e contando oggi più start-up pro capite della Silicon Valley.
   In un paese così piccolo è molto importante che esistano realtà come i Meetup che richiamano investitori da ogni parte del mondo e di grosso calibro, distribuendoli fra diversi settori, dall'high-tech alla moda, dall'empowerment femminile al fin-tech, fino ad arrivare al food ed ai viaggi.
   D'altronde l'economia di Israele si basa molto sull'export, non potendo contare su risorse naturali particolari, ma facendo leva sul settore agricolo ed industriale per far fronte ai propri bisogni ed distinguendosi in chiave esportazioni per frutta, verdura, farmaceutici, software, chimici, tecnologia militare e diamanti. Inoltre Israele è un leader mondiale per la conservazione di acqua ed energia geotermica.
   Oggi possiamo dire che l'immagine di questo Paese sia costruita sull'importanza di far girare l'economia accorciando i gradi di separazione fra le persone. Innovazione, ispirazione ed esplorazione sono gli ingredienti fondamentali per fare networking 24 ore su 24 in un contesto dove fare business diventa sempre più interessante, giorno dopo giorno.
   Il presidente Netanyahu è anche molto attivo a stringere nuovi accordi commerciali fra il suo paese e l'estero e di recente la famosissima lntel, azienda americana quotata nel Nasdaq, ha raggiunto un accordo con l'israeliana Mobileye, fondata a Gerusalemme nel 1999 e specializzata nelle tecnologie per auto senza guidatore, target molto all'avanguardia per il prossimo futuro.
   Un affare da 15,3 miliardi di dollari giudicato un onore dall'attuale leader israeliano e che si aggiunge ai recenti accordi stipulati con il presidente cinese Xi Jinping per la costruzione di centri di ricerca congiunti sull'intelligenza artificiale, scambi di studi universitari e trasferimenti di tecnologie per la protezione delle risorse idriche e la lotta all'inquinamento.
   Ma non solo, perché nell'accordi sono previsti anche scambi di know-how nei settori agricoli e della medicina d'urgenza più una serie di negoziati per il libero commercio in modo da contrastare il boicottaggio dei prodotti israeliani in Europa e le recenti tensioni con la precedente amministrazione americana.
   Tutto questo si traduce in un'interessante evoluzione del cambio monetario Usdlls, il confronto fra il dollaro americano ed il nuovo sheqel israeliano, la valuta locale.
   La situazione grafica che analizziamo su time frame settimanale, ci mostra che nell'ultimo anno la forte salita del dollaro si sia arrestata ed abbiamo avuto una netta ripresa della divisa israeliana, dopo una fase di stabilizzazione culminata in un trend di canale che si è sviluppato nella classica maniera laterale fra massimi e minimi prestabiliti.
   La recente accelerazione al ribasso ha portato il cambio ad oltrepassare il livello 61,8 di Fibonacci che potrebbe far pensare ad un consolidamento della forza dello Sheqel.
   Le media mobili a 200 e 350 periodi sono state nettamente superate e l'incertezza delle politiche di Trump, contrastato dal Congresso americano già a partire dal suo cavallo di battaglia della riforma sanitaria, conferma il rafforzamento della valuta israeliana.
   Attualmente il cambio quota a 3,6344 e nel breve potremmo avere un eventuale ritest del livello bucato dei 3,7442 per poi scendere ancora più giù in area 3,5512 con possibili ulteriori ribassi.
   Questa visione potrebbe essere annullata solo dalle riforme fiscali di Trump che potrebbero dare nuova energia al dollaro americano ma al momento personalmente mi mantengo ribassista come previsione nel breve termine.

(Commodities Trading, 27 marzo 2017)


"Restituite il corpo di Eli Cohen". Gerusalemme chiede aiuto a Mosca

La leggendaria storia del cosiddetto "uomo degli eucalipti", l'agente segreto infiltrato in Siria che consentì a Israele di vincere la guerra dei Sei Giorni, torna di cronaca.

di Alfredo Mantici

Eli Cohen
Il 27 marzo il quotidiano israeliano Haaretz ha dato notizia di un passo diplomatico segreto dei massimi livelli da parte di Gerusalemme verso il Cremlino. Il presidente dello Stato di Israele, Reuven Rivlin, e il premier Benjamin Netanyahu si sono rivolti direttamente a Vladimir Putin chiedendo una sua intercessione presso il governo di Damasco per ottenere la restituzione del corpo di uno dei più famosi agenti del Mossad, Eli Cohen, impiccato in Siria nel lontano 18 maggio del 1965. Da quel giorno Israele - che si vanta di riportare sempre in patria i corpi dei suoi cittadini, militari e non caduti all'estero - ha infatti tentato più volte con rischiose operazioni clandestine di riportare a casa le spoglie del suo agente segreto, ma senza successo.
  Non dandosi mai per vinto, ora tenta la carta della mediazione russa pur di riportare in patria un uomo che nel mondo dell'intelligence è diventato una leggenda. Prima di parlare di Eli Cohen occorre premettere che, nonostante i racconti dei romanzieri e le finzioni cinematografiche, la professione dell'agente segreto in Occidente non è particolarmente pericolosa e lo è certamente meno di quella del poliziotto. Generalmente, il funzionario operativo dell'intelligence recluta e gestisce fonti che danno informazioni e individui che accettano di infiltrarsi nel campo avversario per finalità di spionaggio. Solo questi ultimi, quando vengono scoperti, rischiano la vita.
  Normalmente, l'agente segreto quando opera all'estero è protetto dall'immunità diplomatica e quindi, se viene scoperto, rischia al massimo l'espulsione. La musica cambia quando un funzionario d'intelligence viene infiltrato direttamente in organizzazioni o istituzioni del "nemico". In questi casi, se scoperto, l'agente può essere condannato a lunghe pene detentive o a morte. È quello che è successo a Cohen.

 La storia di Eli Cohen
  Nato nel 1924 ad Alessandria d'Egitto da una famiglia di ebrei siriani emigrati da Aleppo in Egitto nel 1914, Eli Cohen cresce con una conoscenza perfetta della lingua araba e dei suoi dialetti siriano ed egiziano, nonché dei costumi dei grandi nemici di Israele. Negli anni Cinquanta, mentre frequenta la scuola di elettronica, Eli inizia ad aiutare clandestinamente delle organizzazioni sioniste impegnate a creare problemi in Egitto, per ordine di Israele. Dopo essere stato scoperto, due membri del suo gruppo vengono messi a morte, mentre il giovane Cohen viene espulso dall'Egitto e si trasferisce in Israele nel 1957.
  Cohen, che oltre all'arabo parla correntemente inglese e francese, viene immediatamente assunto come traduttore dall'esercito di Israele e in breve tempo attira l'attenzione del Mossad, il servizio segreto esterno. Di carnagione olivastra, con due baffoni nerissimi come gli occhi, viene messo sotto addestramento intensivo dall'intelligence israeliana per costruirgli intorno una minuziosa storia di copertura, che lo trasformi in Kamal Amin Ta'abet, membro di un clan di emigrati siriani in Argentina.
  Sotto la nuova identità di ricco uomo d'affari di origini siriane, nel 1961 Cohen viene trasferito a Buenos Aires, dove spende un anno intero a coltivare amicizie influenti all'interno della comunità siriana emigrata. Grazie a questi contatti e fornito di ottime credenziali, nel 1962 "torna" a Damasco dove diviene membro influente e accreditato della comunità degli affari locale. Così, inizia a costruire un'eccellente rete di relazioni con esponenti del partito Baath, del quale diviene membro con la promessa di divenire un esempio vivente della lotta della nazione araba.
  L'influenza di Cohen cresce ancora di più quando, nel febbraio del 1961, il partito Baath va al potere con un colpo di stato che farà di Hafez Assad (padre di Bashar) il presidente-dittatore. Grazie alla sua affiliazione, nel 1963 Cohen viene invitato a partecipare ai lavori del VI Congresso del partito, anche perché membro del "Commando Rivoluzionario Nazionale Siriano". La sua capacità informativa diventa strabiliante, e lui un personaggio leggendario.

 L'intraprendenza e l'imprudenza
  Ma, come tutte le spie di successo, Cohen comincia a sentirsi invincibile e imprendibile, e a mancare di prudenza nelle comunicazioni. Uno dei suoi capi a Tel Aviv, Aaron Yariv, dirà in seguito: «Era un agente troppo in gamba, e come tale troppo esposto». Secondo un altro dei suoi colleghi, altro veterano storico del Mossad, Rafi Eitan, invece era un vero e proprio «incosciente […] gli facevamo una richiesta al mattino e nel pomeriggio avevamo già la risposta via radio».
  Tra il 1962 e il 1965 Cohen riesce nell'azione più sofisticata per un agente infiltrato: non solo carpire notizie segrete, ma influenzare direttamente il processo decisionale dell'avversario. Durante alcune visite sulle alture del Golan, alla frontiera con Israele, suggerisce ai responsabili del Ministero della Difesa siriano di piantare in postazioni strategiche su tutto l'altopiano dei boschetti di eucalipti, che sul fertile terreno vulcanico sarebbero cresciuti in pochissimi anni e avrebbero permesso alle brigate corazzate siriane di mimetizzarsi in caso di attacco di Israele.
 
L'annuncio dell'impiccagione di Eli Cohen
  Alla fine del 1964, Cohen inizia a diventare troppo imprudente e a trasmettere via radio decine di messaggi alla settimana, talvolta sin troppo lunghi. Anche se nessuno sospetta di lui, i controlli di routine compiuti dal servizio di sicurezza siriano con le nuove apparecchiature di rilevazione a distanza delle onde elettromagnetiche (fornite dai sovietici) consentono la localizzazione della sua radio e portano al suo arresto quasi casuale all'alba del 18 gennaio del 1965.
  Il successivo 18 maggio Eli Cohen, dopo un processo spettacolare viene impiccato al centro di Damasco, davanti a una folla di 10mila persone. "L'uomo degli eucalipti" tuttavia si prenderà la sua vendetta postuma durante la Guerra dei Sei Giorni quando, due anni dopo la sua impiccagione, Israele infliggerà una sconfitta storica alla Siria e ai suoi alleati egiziani e giordani grazie anche alle notizie da lui fornite.
  Infatti, la mattina dell'8 giugno 1967, prima di lanciare un'offensiva contro le linee difensive siriane sull'altipiano del Golan, per quattro ore l'aviazione israeliana bombarderà tutti i boschetti di eucalipti piantati nell'area su suggerimento di Cohen dove si nascondevano le forze corazzate siriane, distruggendone l'80% e spianando così la strada alla sconfitta di Damasco. Il corpo di Eli Cohen non è mai stato trovato e ora Israele, che forse con la guerra civile è venuto a conoscenza di nuove informazioni, chiede aiuto alla Russia per riaverlo.

(LookOut, 27 marzo 2017)


Hamas riapre parzialmente il valico Erez dopo l'assassinio del leader delle Brigate al Qassam

GERUSALEMME - Ieri, 26 marzo, il movimento di Hamas aveva chiuso "a tempo indeterminato" il valico di Erez per svolgere le indagini sull'uccisione di Mazen Faqha, 38 anni, considerato il responsabile dell'ala militare di Hamas (Brigate al Qassam) in Cisgiordania, ucciso venerdì scorso 24 marzo da ignoti nell'enclave palestinese. Hamas ha accusato i servizi segreti israeliani dell'omicidio. Israele, da parte sua, non ha commentato la chiusura del valico né l'uccisione del funzionario palestinese. Faqha era stato arrestato e condannato al carcere per presunta complicità negli attacchi suicidi che hanno ucciso diversi cittadini israeliani durante la seconda intifada tra il 2000 e il 2005. L'uomo è stato liberato nel 2011 insieme a migliaia di prigionieri palestinesi in cambio del militare israeliano Gilad Shalit, detenuto da Hamas per cinque anni. Erez, nel nord della Striscia, è l'unico punto d'ingresso e di uscita per le persone tra l'enclave palestinese e Israele. Un altro valico, Kerem Shalom, è riservato solo al passaggio delle merci.

(Agenzia Nova, 27 marzo 2017)


Chi voleva morto Mazen Fuqaha?

Il comandante di Hamas tornato al terrorismo dopo essere stato scarcerato da Israele aveva parecchi nemici, alcuni anche molto vicini

L'uccisione venerdì sera del capo terrorista di Hamas Mazen Fuqaha vicino alla sua casa, nella parte sud ovest della città di Gaza, è stata opera di professionisti. I killer hanno agito con calma sparando quattro proiettili a bruciapelo con armi dotate di silenziatore, per poi dileguarsi senza lasciare alcuna traccia, almeno a quanto risulta finora.
Hamas ha immediatamente accusato Israele e i suoi servizi di sicurezza, ricordando fra l'altro l'uccisione lo scorso dicembre in Tunisia di un ingegnere che aveva contribuito a sviluppare per Hamas dei droni e un mini-sommergibile. E certamente Israele avrebbe avuto ottimi motivi per voler eliminare Fuqaha. Ma la lista dei possibili autori dell'uccisione è piuttosto lunga e comprende perlomeno gli islamisti salafiti, l'Autorità Palestinese e la stessa Hamas....

(israele.net, 27 marzo 2017)


Israele: 1000 ingegneri sviluppano realtà aumentata per il nuovo iPhone

Apple Israel, secondo indiscrezioni, sta lavorando allo sviluppo di una nuova tecnologia della realtà aumentata per il prossimo iPhone.
Secondo alcune fonti del settore, la società avrebbe a disposizione più di 1.000 ingegneri che stanno lavorando duramente a questo progetto, legato alla realtà aumentata.
La realtà aumentata (AR) permette agli utenti di interagire con l'ambiente e le persone intorno (basti pensare al successo di Pokemon Go). Apple ha acquisito diverse aziende israeliane che potrebbero essere coinvolte nel progetto, tra cui:
  • PrimeSense: azienda specializzata nello sviluppo di hardware e software in grado di rilevare il movimento in 3 dimensioni;

  • RealFace: azienda che ha sviluppato un software di riconoscimento facciale che offre agli utenti un accesso biometrico intelligente. In questo modo le password utilizzate per accedere a dispositivi mobili o PC saranno superflue.
Indiscrezioni anonime recenti hanno affermato che vi sono numerosi ricercatori israeliani che stanno segretamente sviluppando il nuovo iPhone8 presso gli uffici Apple a Herzliya.
Queste le parole di Tim Cook, CEO di Apple:
Apple Israel è il secondo più grande ufficio di ricerca e sviluppo della società in tutto il mondo.
(SiliconWadi, 27 marzo 2017)


Potenziale "molto elevato" del triangolo energetico Israele-Cipro-Egitto

ROMA - Il potenziale del triangolo energetico offshore Israele-Cipro-Egitto sembra essere "molto elevato". Lo ha detto ad "Agenzia Nova" il ministro dell'Energia e delle risorse idriche israeliano, Yuval Steinitz, interrogato sul ruolo delle risorse energetiche del Mediterraneo orientale verso il mercato europeo. Attualmente le stime parlano di riserve "comprese fra 8mila e 12mila miliardi di metri cubi", ha affermato il ministro Steinitz. Il gasdotto sottomarino East-Med sarà il più esteso e più profondo al mondo: lungo 2.200 chilometri e profondo 3 chilometri, ha ricordato il ministro. Il costo previsto dell'infrastruttura è di circa 6-7 miliardi di dollari, ha aggiunto Steinitz.

(Agenzia Nova, 26 marzo 2017)


I palestinesi si sentono israeliani

Sempre più richieste di cittadinanza da parte degli arabi, ma Gerusalemme diffida

di Ilaria Pedrali

Sempre più palestinesi, a Gerusalemme Est, vogliono diventare israeliani. Ma Israele temporeggia.
Stando ai dati del ministero degli Interni israeliano, nel 2016 ben 1081 famiglie residenti a Gerusalemme Est hanno fatto richiesta della cittadinanza israeliana. Nel 2003 erano solo 69.
   Un po' per desiderio di normalità, perché avere la cittadinanza permette una libertà di movimento che la sola carta d'identità di Gerusalemme non rende possibile, e poi perché ormai la fiducia nell'Autorità Nazionale Palestinese è ridotta a un lumicino. Soprattutto perché l'Anp, che già poco fa in Cisgiordania, ancora meno fa a Gerusalemme Est dal momento che ha il divieto di operare nella Città Santa.
   Benché abbiano la strada sbarrata, i funzionari palestinesi sostengono che essendo Gerusalemme Est un territorio occupato, una volta che Gerusalemme sarà liberata le cittadinanze israeliane degli arabi saranno nulle.
   I palestinesi a Gerusalemme Est sono circa 330mila, pari al 37% della popolazione totale della città, e la stragrande maggioranza di loro ha una semplice carta d'identità, senza risultare cittadino di alcun Paese. Hanno un passaporto giordano, ma non la cittadinanza. Per viaggiare ali' estero hanno bisogno di visti temporanei rilasciati da Israele o dalla Giordania. Molti di loro considerano uno stigma avere un passaporto israeliano perché questo significa l'accettazione implicita del fatto che Gerusalemme Est dal 1967 è unificata al resto della città e non che invece sia sotto occupazione militare israeliana. Ma oggi, che il processo di pace è congelato e un accordo di pace duraturo è sempre più lontano, agli arabi di Gerusalemme Est che già pagano le tasse ma non possono votare alle elezioni nazionali, un passaporto israeliano fa più che comodo. E, difronte ai benefici pratici che questo comporta, il senso patriottico passa in secondo piano. Ormai, sembra che a difendere la Palestina siano rimasti solo gli stranieri.
   Israele, però, prende tempo e prima di accettare un nuovo cittadino di etnia araba ci pensa bene. I documenti richiesti sono molti: bisogna dimostrare di aver vissuto stabilmente in città per almeno tre anni, bisogna presentare le ricevute delle tasse pagate. E poi bisogna dimostrare una conoscenza approfondita e fluente dell'ebraico. In media ogni domanda viene analizzata per un periodo di circa tre anni prima di ottenere una risposta.
   Negli ultimi 13 anni si conta siano circa 15mila le domande a Israele, ma i passaporti concessi sono meno di 6mila. C'è chi ritiene che il motivo di tale lungaggine sia dovuto al fatto che Israele non voglia annettere troppi arabi nel suo stato, visto che mediamente fanno più figli degli israeliani e quindi contribuiscono non poco all'incremento demografico. Già oggi gli arabi costituiscono più di un quinto della popolazione di Israele, che in totale conta oltre 8,5 milioni di persone.
   E poi c'è il problema degli arabi con diritto di voto, che sicuramente ci si aspetta votino per partiti arabi. Tuttavia il ministero dell'Interno fa sapere che non c'è alcun tentativo di scoraggiare gli arabi a chiedere la cittadinanza, solo che le richieste sono talmente tante che il lavoro per loro è di molto aumentato.
   Israele, inoltre, vuole essere sicuro prima di accettare potenziali soggetti pericolosi che potrebbero minare alla sua sicurezza. Basta infatti, una segnalazione dello Shin Bet, l'intelligence interna di Israele, per vedersi negare la cittadinanza, anche senza alcuna motivazione. Inoltre, dal 1967 a oggi, si conta che siano decine di migliaia le persone arabe che si sono viste rifiutare il diritto di residenza a Gerusalemme. Molti palestinesi temono di trovarsi da un giorno ali' altro senza permesso.

(Libero, 26 marzo 2017)


I Papi e quei silenzi. Calimani, storia degli ebrei di Roma

di Fabio Bozzato

 
Nel novembre 2000 la Commissione storica internazionale cattolico-ebraica consegnava un rapporto preliminare con una fitta serie di domande e molte risposte inevase sul ruolo del papa Pio XII nelle vicende della Shoah. Nessun rapporto finale è mai stato scritto, perché i sei storici della Commissione non sono mai riusciti ad accedere agli archivi vaticani e ai documenti datati tra gli anni '20 e '50 del Novecento.
   Finisce così, con tutti quei dubbi, assieme alla lista dei 1022 ebrei romani deportati nell'ottobre '43 e dei 16 sopravvissuti, l'ultimo saggio di Riccardo Calimani. Dopo il monumentale lavoro sull'ebraismo italiano e la meticolosa ricostruzione della Venezia ebraica e del suo Ghetto, Calimani si cimenta ora con l'altra comunità paradigmatica italiana: Storia degli ebrei di Roma. Dall'emancipazione ai giorni nostri, edito da Mondadori, ripercorre in 828 pagine gli avvenimenti di una presenza secolare che ha resistito ed è fiorita nonostante ogni avversità.
   Una storia incistata nella capitale della cristianità e che non può essere raccontata se non in quell'intreccio intimo e drammatico. Il che «la rende unica rispetto a qualunque altra comunità - racconta Calimani - Perché ogni giorno faceva i conti con tutto il peso del potere papale». Altra storia ad esempio rispetto alla Serenissima, dove il potere civile manovrava pragmatico e cinico sul fronte religioso e costruiva la sua vitalità economica con l'Oriente.
   A Roma invece gli ebrei avrebbero vissuto fisicamente l'ossessione dei Papi nei confronti di una minoranza religiosa impaurita e isolata e di una comunità povera e vessata. «Si sentivano così schiacciati da dover negoziare ogni volta qualunque restrizione o possibilità di vita», racconta Calimani. Introiettata l'impossibilità della rivolta, «preferivano andarsene, magari ad Ancona o nelle piccole e più protette comunità toscane». E così fanno tenerezza episodi come quelli del 15 febbraio 1789 quando, proclamata la Repubblica di Roma e col Papa in fuga, «gli ebrei si appuntarono sul petto la coccarda tricolore. Le porte furono bruciate, il ghetto fu illuminato e fu alzato un albero della libertà».

(Corriere del Veneto, 26 marzo 2017)


Così Mossad e francesi hanno strappato i segreti sulle armi chimiche di Assad

Un ingegnere siriano il bersaglio dell'«Operazione Ratafia»

di Paolo Levi

PARIGI - Nome in codice: Ratafia. Un'operazione congiunta dei servizi segreti di Israele e Francia ha consentito, già prima del 2011, quando cominciò la guerra in Siria, di strappare preziose informazioni sul programma di armi chimiche del presidente siriano Bashar Al-Assad. Un lavoro di fino, con risvolti psicologici, che supera la fantasia anche del più talentuoso degli sceneggiatori cinematografici. Per anni, un ingegnere siriano responsabile del programma chimico di Damasco si è fatto ingannare da un folto gruppo di 007 franco-israeliani in nome di una priorità ritenuta «vitale» in entrambi i Paesi: la lotta alla proliferazione e all'uso di armi chimiche. Rivelata da Le Monde la notizia consente anche di valutare ciò che gli occidentali sapevano realmente delle armi di Assad tre anni prima dei massacri del 2013.
   Tutto comincia nel 2008. A Damasco, una talpa del Mossad riesce ad «identificare» e poi «agganciare» l'ingegnere siriano coinvolto nel programma chimico. All'epoca, il progetto di armamenti della Siria, con circa 10.000 dipendenti, è un obiettivo prioritario del Mossad. Lo scopo non è eliminare i responsabili ma intercettare, appunto, fonti siriane affidabili per raccogliere informazioni sui legami con gli alleati iraniani, russi o nord coreani e identificare le filiere di approvvigionamento. A Damasco la talpa viene incaricata di convincere l'ingegnere ad uscire dalla Siria per poi essere «avvicinato» dal Mossad. Lui lo seduce con l'idea di viaggi a Parigi, dove potrà preparare il lancio di una futura società di import-export. Descritto come romantico e sognatore, l'ingegnere si lascia convincere. Nella capitale francese, posa le valigie in un albergo, un imprenditore dal cognome italiano di cui fa rapidamente conoscenza diventa suo confidente e consigliere. Insieme, frequentano i bar di grandi alberghi come il Georges V, assistono a spettacoli e music-hall, anche se il siriano rifiuterà un invito al Crazy Horse. Alle ballerine sexy dice di preferire il popolarissimo music-hall «Mamma mia!». L'amico gli mette anche a disposizione l'auto con autista. Per l'ingegnere difficile non appassionarsi a questa nuova vita, piena di divertimenti e prospettive professionali, nello scintillio della Ville Lumière. In realtà, però il nuovo amico è una spia come, del resto, tanti suoi interlocutori parigini, tra imprenditori, chauffeur, intermediari: tutti agenti del Mossad.
   Delle intercettazioni in auto, albergo, computer dell'ingegnere siriano, si occupano invece i servizi francesi. È l'inizio dell'operazione «Ratafia» che durerà per anni. Anche perché lui, a quanto pare, è molto simpatico, ma prima di sbottonarsi sui segreti dell'arsenale di Assad ci vorrà tempo. Nel 2011, le informazioni raccolte porteranno, tra l'altro, l'Unione europea a congelare i beni del Centro Siriano per gli studi e la ricerca scientifica (Cers) pilastro del programma chimico di Damasco.

(La Stampa, 26 marzo 2017)


E se la Crusca potesse emanare leggi? Lo strano caso dell'Accademia della Lingua Ebraica

Dal '53 lo Stato di Israele accorda a un'autorità accademica il potere di emanare atti con forza di legge sulla lingua che gli enti pubblici devono usare.

di Giorgio Moretti

Nella scritta: "L'Accademia per la lingua ebraica"
Non si deve pensare che l'ebraico, cent'anni fa, fosse una lingua unica e omogenea. Certo, c'erano tradizioni linguistiche consolidate come l'ebraico biblico o l'yiddish, ma i parlanti erano sparsi in mezzo mondo, e subivano forti influenze linguistiche da parte di idiomi come il russo, il tedesco, il francese. Anche perché, ad esempio, l'ebraico biblico manca di molti termini che invece già alla fine dell'Ottocento erano essenziali (di equatore, telegrafo e grammofono i patriarchi abramitici non hanno mai parlato).
Quando nel 1948 fu fondato lo Stato d'Israele, venne stabilito che le lingue ufficiali fossero l'arabo e l'ebraico. Ma a ben vedere l'ebraico era ancora molto nebuloso: adunati in Israele, gli ebrei si erano portati dietro una Babele di lingue. Perciò, nel 1953, fondarono l'Accademia della Lingua Ebraica.
Come la fenice, quest'Accademia nasce dalle ceneri del "Comitato della lingua ebraica", fondato dal linguista Eliezer Ben Yehuda (in attività dal 1905) per dare unità all'ebraico, adattando quello biblico alle necessità moderne.
Scopo della nuova Accademia è "guidare lo sviluppo della lingua Ebraica". Ma come, in che senso? E con che autorità? Ebbene, secondo la legge che la istituì, "le decisioni dell'Istituto in materia di grammatica, terminologia o trascrizione […] saranno vincolanti per le istituzioni dell'educazione e della scienza, per il governo, i suoi dipartimenti e istituzioni, e per le autorità locali."
In sostanza, nel Reshumot (la Gazzetta Ufficiale israeliana, in cui vengono pubblicate le leggi) c'è una sezione con le decisioni dell'Accademia in materia linguistica, che devono essere seguite dagli enti pubblici, fra cui anche l'IBA, la televisione pubblica.
Ciò nonostante l'azione dell'Accademia della Lingua Ebraica è molto discreta. Limita le sue prescrizioni ai discorsi formali e allo scritto. E non solo: non opera sistematicamente per una sostituzione di tutti i termini stranieri con termini ebraici di nuovo conio. Valuta caso per caso se il forestierismo è radicato, se è facilmente pronunciabile, se è un fenomeno culturale, se è così fertile da generare altre parole. Nel caso in cui un'alternativa ebraica sia "conveniente, orecchiabile e appropriata", allora la crea.
In altre parole, usa il notevole potere di cui è investita (un'Accademia linguistica che incide direttamente sul diritto di uno Stato!) in maniera equilibrata, procedendo sul crinale che separa nazionalismo e globalismo. Non a caso chi sente il richiamo di una vocazione internazionale considera certe decisioni dell'Accademia di retroguardia, mentre non mancano voci dei media e della politica che le vedono come troppo progressiste e troppo poco incisive.
Dopotutto, quando il sapere dell'alta accademia percorre la virtù che sta nel mezzo, c'è sempre qualcuno pronto a tacciarlo di mollezza.
E se all'Accademia della Crusca fosse attribuito un simile potere?

(fanpage.it, 25 marzo 2017)


In fondo all’articolo sono stati aggiunti questi commenti:
- Molto interessante. E davvero, non sarebbe cattiva idea, forse avremmo un burocratese più accettabile.
- Opportuno contro inutili anglicismi usati dai politici per esibizionismo...
- Magari, la Crusca avesse questo potere! Ho letto di recente (l'Espresso 19.3.2017) questo inciso: "… una community per il carpooling aziendale, Jojob, ideata da una startup …". Questa è lingua italiana?


Gerusalemme. L'allarme degli esperti: Santo Sepolcro a rischio crollo

 
La Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme
La Basilica del Santo Sepolcro rischia di crollare, se non ci saranno interventi adeguati per consolidare le sue fondamenta instabili. L'allarme giunge dallo stesso team di archeologi e esperti che hanno appena terminato con successo il restauro dell'Edicola (la struttura che, all'interno del Santuario, racchiude i resti di una grotta venerata almeno dal IV secolo dopo Cristo come la tomba di Gesù).
   L'intero complesso del Santo Sepolcro - ha dichiarato al National Geographic l'archeologa greca Antonia Moropoulou, docente alla National Technical University di Atene (NTUA) e coordinatore scientifico del progetto di restauro appena concluso - potrebbe essere minacciato da "un significativo cedimento strutturale". E se l'eventualità dovesse realizzarsi - ha aggiunto l'archeologa greca "non sarebbe un processo lento, ma catastrofico".
   Le allarmanti ipotesi sono hanno preso forma proprio durante gli studi e i sondaggi condotto sul Santo Sepolcro dalla squadra di esperti incaricata del restauro dell'Edicola. Al termine dei lavori, le ricerche compiute da quell'equipe, e riferite da National Geographic, hanno messo in luce che l'intero complesso, la cui ultima risistemazione risale al XIX secolo, sembra essere in gran parte costruito su una base instabile di resti malfermi di strutture precedenti, con un sottosuolo attraversato da gallerie e canali.
   Il santuario fatto costruire dall'Imperatore Costantino, costruito sui resti di un precedente tempio romano intorno a quella che veniva venerata come la tomba di Gesù, era stato parzialmente distrutto dagli invasori persiani nel VII secolo, e poi dai Fatimidi nel 1009. La chiesa fu ricostruita alla metà dell'XI secolo.
   I dettagli tecnici del dossier, raccolti anche grazie all'uso di georadar e telecamere robotizzate, descrivono una situazione allarmante riguardo alla stabilità del luogo santo, visitato ogni anno da milioni di pellegrini e turisti: molti dei pilastri da 22 tonnellate che reggono la cupola risultano essere poggiati su un metro e venti di macerie non consolidate.
   I restauri appena conclusi intorno all'edicola, e celebrati mercoledì 22 marzo durante una cerimonia ecumenica, che ha visto anche la partecipazione del Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I - hanno registrato la cooperazione tra le tre compagini ecclesiali che condividono la responsabilità della Basilica (Patriarcato greco ortodosso di Gerusalemme, Patriarcato armeno apostolico di Gerusalemme e Chiesa cattolica, attraverso la Custodia francescana di Terrasanta). All'inizio dei lavori, il progetto aveva un costo programmato di circa 3,3 milioni di dollari. Al finanziamento dei lavori hanno contribuito anche il Re di Giordania Abdallah II - che nell'aprile 2016 aveva fatto pervenire sottoforma di "beneficienza reale" (Makruma) una consistente donazione personale a favore del progetto - e anche il Presidente palestinese Mahmud Abbas, con un "contributo personale" reso noto lo scorso ottobre.
   Adesso, l'equipe greca che, dopo la conclusione dei lavori di restauro dell'edicola, ha lanciato l'allarme sulle condizioni di debolezza strutturale dell'intero complesso, ha stimato a almeno sei milioni di euro la cifra da stanziare per i lavori necessari ha mettere in sicurezza la Basilica. Sabato 18 marzo, un comunicato diffuso dalla Custodia di Terrasanta ha riferito che "la Santa Sede ha stanziato 500mila dollari come contributo alla nuova fase dei lavori di consolidamento e restauro da avviare presso il Santo Sepolcro. Tale contributo "sarà erogato dopo che le comunità titolari dello Status Quo avranno costituito di comune accordo un apposito Comitato".

(News Italia, 25 marzo 2017)


A Torino l'asta benefica "Il mio cuore batte per Israele"

di Riccardo Ghezzi

Per celebrare il cinquantesimo anniversario della riunificazione di Gerusalemme, a Torino sarà organizzata un'asta di beneficenza. "Il mio cuore batte per Israele", questo il nome dell'evento, è un'asta di opere d'arte donate da tanti artisti che hanno sposato la causa di Israele. I proventi dell'asta, organizzata in collaborazione con Sotheby's e a cura di Ermanno Tedeschi, andranno al'Associazione Italia-Israele.
Le opere sono esposte a partire da oggi, 24 marzo, alle ore 14 fino a domenica 26 marzo con orario fisso 14-18 presso la Fondazione Camis De Fonseca, in via Pietro Micca 15 (scala A, primo piano) a Torino.
Nella stessa sede, lunedì 27 marzo si terrà il cocktail di benvenuto. A seguire l'asta.

(L'informale, 24 marzo 2017)


Israele come terra internazionale

di Georgia Casanova

Come un disguido può diventare un'opportunità? L'ho scoperto negli ultimi giorni di Haifa. Durante il Purim, il carnevale ebraico, su un bus smarrisco il borsello che contiene il passaporto, i miei pen drivers, le carte di credito. In pratica smarrisco me stessa, per poi scoprire che era solo per poi ritrovarsi.
   L'evento, inutile negarlo, ha contribuito al groviglio emotivo contrastante di quei giorni. Dopo un primo momento di smarrimento, in realtà ciò ha dato seguito a una serie di occasioni per entrare ancor di più in quello che è oggi Israele, e il significato del vivere quotidiano.
   Intanto è venerdì quando succede e pomeriggio, il tramonto si avvicina, il tempo è scaduto: inizia lo Shabat e tutto si ferma. Si perché lo Shabat non la nostra domenica, è onorare il riposo, dove fare qualsiasi cosa è interdetta: non si guida, non si compie l'atto di accendere le luci (ma basta lasciarle
 
Haifa
accese da prima dell'inizio della festa), non si risponde al telefono (ma si chiede a qualcuno soprattutto se non ebreo di rispondere al proprio posto). Uffici, supermercati e servizi di linea degli autobus sono tutti fermi, impossibile quindi pensare di fare nulla per risolvere la questione borsello. Chiamo comunque l'ambasciata italiana, il numero di emergenza, una voce maschile calma mi tranquillizza e mi dice che posso fare facilmente un documento d'emergenza per tornare in Italia, sento pur non vedendolo il suo sorriso di comprensione che mi rasserena. Vinco così una gita straordinaria a Tel Aviv, obiettivo ambasciata italiana, colgo l'occasione per fissare un incontro per la ricerca, ma ovviamente se ne parla la settimana successiva, ora è tempo di Shabat. Una mia collega è pronta ad aiutarmi con viveri e contanti per il quotidiano, ma ovviamente solo l'indomani nel pomeriggio dopo il tramonto mi raggiungerà per vedere "il da farsi". Mentre passeggio nel silenzio dei viali alberati del dormitorio universitario, l'irritazione per il non poter agire viene sovrastata dal rispetto, non tanto di un dogma religioso, quanto per il valore assegnato al riposo. Penso all'Italia dove ormai il riposo assume una connotazione negativa e avere il turno di riposo lavorativo è una conquista personale più che sociale.
   Il giorno successivo decido di fare la turista pur sapendo di essere senza budget vado ai Giardini Baha'hi. Mi avvicino all'entrata sperando costi poco, scopro anche un po' sorpresa, che la visita è gratuita, come in tutte le attrazioni sia religiose che turistiche che ho incontrato sul mio cammino in Terra Santa. Penso come in Italia spesso le risorse artistiche siano poco rispettate e vissute come risorsa della e per la gente, quando c'è così tanto da poter valorizzare. La voce della guida aspra ma calda che parla in ebraico
 
Tel Aviv
mi accompagna tra i viali ordinati delle diciannove terrazze fiorite tra monti e mare, espressione di una religione orientale che stimola alla meditazione sull'unità religiosa e di pace. Mi sento pronta ad affrontare la prosecuzione del mio viaggio.
   La gita a Tel Aviv si rivela una vero tesoro nascosto tra le falde della società locale e del vivere in Israele. Entro nell'ambasciata italiana, mi dà una sensazione strana sapere di essere in territorio nazionale e vedere il golfo di Tel Aviv e il colore del mare e del cielo si fondono sullo sfondo. Un carabiniere mi dice di accomodarmi e attendere, attorno a me noto una famiglia che parla la lingua locale, li osservo madre, padre e quattro figli, sono in attesa del passaporto, hanno doppia nazionalità ovviamente, sullo sfondo del corridoio un'altra coppia più giovane, lui ha il passaporto italiano in mano. Mi viene spontaneo chiedermi cosa possa voler dire essere straniero europeo qui. Al mio fianco una ragazza legge, è in attesa di documenti per sposarsi a Cipro con il suo compagno israeliano. La osservo e mi faccio coraggio, mi presento e le chiedo brevemente la sua storia se ha voglia di raccontarmela. Lei mi racconta che è otto anni che vive in Israele, Lei originaria di Firenze, e non poteva che essere così guardandola, ha finito gli studi di biologia qui, ha proseguito il dottorato e che ora può ottenere finalmente la residenza, grazie al fatto di avere due figli il cui padre è israeliano. Le sorrido in Italia sarebbe giovane per avere due figli, di cui uno di sei anni, lei ricambia il sorriso. Continua il racconto dicendomi che si vive bene ma che non è semplice. Entrare nella società israeliana non è cosi immediato, ad oggi se succedesse qualche cosa al suo compagno lei perderebbe il diritto di stare a Tel Aviv. Perché sposarsi a Cipro? Perché qui non è possibile, non ci sono le convezioni internazionali. Colgo la fatica del sentirsi "profugo" tra le pieghe dei suoi occhi che mi sorridono. La saluto e mi avvio all'uscita. Salgo sul bus, scambio due parole con l'autista e mi racconta che lavora tanto ma guadagna bene, faccio i calcoli circa tremila euro al mese, prosegue raccontandomi che tanti sono andati in pensione e non c'è il ricambio generazionale dei lavoratori. Mi sovviene l'epoca del grande pensionamento degli anni ottanta in Italia. Chissà se gli effetti saranno gli stessi qui. Le prime zone grigie della società si intravedono.
   Affondo i piedi nella sabbia chiara e fine del lungo mare, l'acqua fredda mi sfiora le dita: sono pronta per Gerusalemme.

(The Martian, 25 marzo 2017)


OPINIONI A CONFRONTO

Il mensile "Shalom" ha chiesto a due ebrei della diaspora di esprimere il loro parere sulla situazione attuale di Israele.

Il futuro di Israele si gioca nella Diaspora. Quale ruolo per gli ebrei della Golà?

di Tobia Zevi

 
Tobia Zevi
«Shalom» mi chiede un'opinione sulla legge approvata recentemente dalla Knesset, il parlamento israeliano, che condona le costruzioni di ebrei su proprietà palestinesi. Potrei cavarmela con una riga: non sono d'accordo, penso che questa misura non aiuti lo Stato d'Israele e rappresenti, se non altro sul piano simbolico, l'ennesima pietra tombale sul processo di pace già moribondo. Siccome però sono circa due anni che non apro bocca su Israele, Palestina e Medioriente, convinto che il gioco (esprimere un'opinione irrilevante) non valga la candela (litigare con altri ebrei), provo ad andare fuori tema.
Nel romanzo "Eccomi" Jonathan Safran Foer, scrittore ebreo americano, immagina che lo Stato d'Israele sia colpito da un violento terremoto. Le conseguenze sono devastanti: moltissime costruzioni crollano e tanti muoiono, mentre dilagano epidemie e atti fondamentalistici sia di ebrei sia di musulmani. Per gestire l'emergenza il governo conduce operazioni militari e sceglie di curare i propri cittadini invece degli arabi nei paesi circostanti, colpiti in maniera altrettanto drammatica e decisamente meno attrezzati. Tali opzioni inducono vari stati arabo-musulmani a dichiarare guerra a Israele. La situazione è talmente tragica che il Primo Ministro si rivolge in diretta tv agli ebrei nel mondo, invitando chiunque sia in età da soldato a recarsi in Israele per dare una mano. Obiettivo: un milione di ebrei dalla Diaspora. Mancato. Alla fine soltanto trentacinque mila ebrei nel mondo combatteranno per la Terra promessa.
Israele sopravvive ma, nota giustamente il protagonista, il rapporto tra lo Stato e gli ebrei americani non potrà più essere lo stesso.
Questa pagina di letteratura recente ci aiuta a scindere quelle che in effetti sono due domande collegate: cosa pensiamo della politica del governo di Israele e del suo futuro? Quale rapporto esiste e quale contributo possiamo dare noi ebrei della Diaspora a Israele e al suo futuro?
L'attuale governo di Israele non considera credibili - con molte ragioni - i leader palestinesi, e siccome qualunque contratto ha bisogno di parti che si riconoscano, non ritiene di poter avanzare nel processo di pace. La maggioranza degli israeliani vuole la pace ma vede la prospettiva sempre più lontana, dunque si concentra sulla propria prosperità e sicurezza. Il mondo cambia - gli Stati Uniti guidati da Barack Obama sono percepiti come un fratello maggiore ostile, l'Arabia Saudita che ha foraggiato il fondamentalismo islamico diventa interlocutore privilegiato ancorché implicito in chiave anti-iraniana - e i segnali sono contraddittori: Donald Trump annuncia di voler spostare l'ambasciata a Gerusalemme ma definisce gli insediamenti un ostacolo alla pace; il parlamento israeliano vota la legge sugli insediamenti, ma Benjamin Netanyahu non arriva in tempo per il voto e metà dei parlamentari confessano di confidare nella bocciatura della Corte Suprema; il mondo disapprova ma è soprattutto disattento, concentrato su scenari più rilevanti dal lato economico e geopolitico. A tutti pare mancare una visione e un'idea di futuro.
La sinistra è il convitato di pietra. Quella israeliana non è credibile per gli elettori, quella ebraica è minoritaria e debole senza una vera sponda in Israele, quella occidentale incapace di superare la vieta ripetizione dello slogan dei "Due popoli, due stati". Per paradossale che possa sembrare, il dibattito sulla pace è più interno alla destra che non alla sinistra, sebbene le proposte stentino comunque a emergere o a divenire concrete.
In questo scenario, cosa possiamo fare noi ebrei della Diaspora? Le comunità nel mondo si dividono in due gruppi: chi ritiene di sostenere Israele a prescindere, spesso la parte più attiva e militante; quelli che invece preferiscono un sostegno critico, spesso più numerosi ma meno legati alle strutture comunitarie. Il legame affettivo con lo Stato d'Israele è profondo per tutti, ma non si vuole riconoscerlo in chi la pensa diversamente. In concreto, ognuno cerca di fare il suo, con un piccolo senso di colpa per non aver fatto l'Alyah ("salita" in Israele): vacanze a Tel Aviv, corsi d'ebraico, chi può acquista un appartamento, alcuni fanno impresa, si mantengono relazioni con i parenti israeliani e ci si rende attivi in organizzazioni internazionali. Augurando a noi stessi di non essere mai travolti dal dilemma minacciato da Safran Foer.
Una parte di verità sta in entrambe le posizioni, anche perché il destino di Israele non è del tutto sovrapponibile a quello delle comunità. Ci sentiamo più tranquilli sapendo di avere un porto sicuro in caso di bisogno, ma ci è chiaro che la percezione degli ebrei si trasforma anche in funzione delle scelte, giuste o sbagliate, dello Stato d'Israele. Sappiamo di voler sostenere le ragioni del sionismo, ma ci rendiamo conto che una posizione troppo sbilanciata o unilaterale può non essere proficua nel contesto delle società in cui viviamo. Sosteniamo economicamente Israele, e questo ci dà in parte il diritto di discutere le sue scelte, ma siamo anche consapevoli che la generosità non ci mette sullo stesso piano dei nostri fratelli israeliani, che corrono rischi quotidiani, che combattono per la loro sicurezza e che se fanno errori lo fanno nel pieno rispetto delle procedure democratiche che hanno determinato.
In questo scenario i dubbi prevalgono sulle certezze, e il primo impegno per ogni ebreo della Diaspora dovrebbe essere innanzitutto creativo: anziché litigare tra di noi e perdere tempo, come dare un contributo innovativo, utile, realistico a Israele, al suo futuro e alla sua pace?
La Knesset
(Shalom, marzo 2017)
  Il problema è il rifiuto palestinese di riconoscere lo Stato ebraico

di Riccardo Pacifici

Riccardo Pacifici
Ricordo ancora ogni istante dei giorni passati ad Itamar, pochi giorni dopo la strage che colpì con feroce violenza la famiglia Fogel nel sonno dello Shabbat. I due genitori e alcuni dei loro figli. Solo due si salveranno: una figlia che aveva trascorso la cena dello Shabbat con i suoi coetanei 13enni e ed un piccolo di pochi anni che dormiva nel lettone dei genitori e che si salvò dalla furia dei terroristi che non si accorsero di lui mentre sgozzavano tutta la sua famiglia.
Non era ancora finita la Shiva (il settimo) ed il villaggio accolse la missione di solidarietà, che mi onorai di guidare, della nostra comunità, con i suoni della chitarra e canti. Un'emozione che ancora mi fa venire i brividi, anche ricordando come in quei giorni nessuno fra gli abitanti del villaggio abbia proferito parole di odio o di vendetta. Solo parole di pace e speranza. Soprattutto fiducia in H ..
Questa cartolina da Itamar si contrappone all'immaginario collettivo di "coloni" (così vengono definiti dai nostri nemici e loro fans, compresi alcuni nelle comunità ebraiche!), descritti come assetati di terre e di odio verso gli arabi ed i palestinesi.
Ricordo anche una lunga visita che facemmo a Yerushalaim, intorno e dentro la città con una guida d'eccezione, Nir Barkat sindaco della Capitale d'Israele, il quale spiegava ai leader di tutto il mondo dell'Israeli Jewish Congress, di come fossero ridicole alcune risoluzioni dell'Onu contro quelle che venivano definite azioni illegali di espansione e sottrazione di terre ai palestinesi. Nir Barkat dopo averci fatto visitare una delle scuole gestite dai palestinesi ed accolti con cordialità dai loro insegnanti e studenti (tra cui alcuni con disegni eloquenti in cui Israele secondo questi bambini non era disegnata sulle mappe), ci illustrò come in qualunque altra parte del mondo si autorizzi a costruire nuove cubature; è una risposta normale davanti alla sempre maggiore richiesta di abitazioni per una popolazione israeliana costituita sempre più da famiglie con molti figli che hanno bisogno di abitazioni più grandi e alle quali viene quindi concesso il diritto (pagando oneri concessori) di fare più stanze, nel rispetto di un piano regolatore molto chiaro e rigoroso che non si sottrae al rispetto dei diritti per i palestinesi, ai quali viene riservato lo stesso diritto, magari con i benefit di avere una tassazione agevolata. Così ancora oggi Israele si ritrova sotto processo nonostante che, l'ultima legge votata alla Knesset, parli con estrema chiarezza di compensazione maggiorata del 125% sul valore delle proprietà che necessariamente servono ad armonizzare uno sviluppo cittadino che coniughi la sicurezza di quegli ebrei che nei "Territori" hanno deciso di vivere.
Negli ultimi due anni il conflitto israelo/palestinese è profondamente cambiato: la nascita di uno Stato Palestinese a fianco di quello israeliano (soluzione alla quale non sono ostile) è però diventata una formula obsoleta, di una vecchia visione dello scacchiere mediorientale che non tiene conto dei cambiamenti intervenuti, come nel caso dell'Isis che combatte per la creazione di un'unica nazione arabo/islamica, dal Marocco alla Siria senza confini interni, e all'interno della quale lo Stato Palestinese non avrebbe più ragione di esistere, come ha brillantemente illustrato Maurizio Molinari in una delle sue ultime pubblicazioni sul tema. Non si può ignorare che l'Isis giorno per giorno si sta sostituendo alla leadership di Hamas a Gaza e minaccia la precaria stabilità del regno hascemita di Giordania e la stessa leadership palestinese a Ramallah. E' uno scenario complesso, che si aggrava ulteriormente con la concreta possibilità - grazie all'amministrazione Obama e alla complicità dell'Ue - che l'Iran possa dotarsi di armi di distruzione di massa che se usate, potrebbero radere al suolo in pochi minuti lo Stato d'Israele.
La visione ed il sogno di Ariel Sharon di azzerare ogni contenzioso territoriale con i vicini palestinesi con il ritiro unilaterale da Gaza, dove secondo le stesse risoluzioni antisemite dell'Onu non vi è disputa di un solo centimetro quadrato, ha avuto invece come risposta al gesto di pace, il terribile e lungo rapimento di Gilad Shalit, e l'intensificarsi del lancio di missili non solo nel sud d'Israele ma persino su Tel Aviv. Anche alla luce di questa esperienza, ritengo perciò ridicola ogni discussione sul ruolo degli insediamenti, perché Israele - soprattutto con governi di centro destra - ha dimostrato di saper compiere gesti coraggiosi di pace. "Pace in cambio Pace" è ciò che ripeteva Menachem Begin z.l., leader storico del Likud, e su quella formula ha costruito l'unico vero accordo con il vicino Egitto restituendogli successivamente l'intera penisola del Sinai conquistata nel '67.
Infine un ultima considerazione. Perché, a cominciare dalle sinistre ebraiche, lo scenario di pace futura con i palestinesi deve prevedere la nascita di uno Stato Palestinese con la garanzia che sia "pulito etnicamente", ovvero privo della presenza ebraica? In Israele nessuno può contestare e mai contesterebbe il diritto di risiedere e di vivere ai cittadini di origine palestinese, come di fatto avviene in una parte di Yerushalayim, di Tel Aviv, Yaffo, Haifa, Nazareth ed Afula.
Non sarebbe forse utile rispolverare la formula di pace di Itzhak Shamir? Egli offrì a Yasser Arafat, alla vigilia dell'Intifada al Aqsa nel 2000, pace con contestuale compensazione di terreni, oggi di fatto ad alta densità Palestinese, come l'area di Nazareth, scambiandoli con quelli oltre la "linea verde", oggi ad alta densità ebraica.
Se vi è lo spirito di convivenza, coniugata a pragmatismo, forse si dovrebbe avere coraggio di scioglier questo nodo. A meno che ci si voglia affidare all'Onu che, se non ci fossero stati i veti degli USA, pur di compiacere il voto del blocco arabo/terzomondista, da molto tempo avrebbe cancellato il diritto d'Israele di vivere fra le nazioni.
La verità è che non vi è organizzazione palestinese che voglia un Stato palestinese a fianco di quello ebraico, ma solo cancellare lo Stato d'Israele e sostituirsi ad esso. Se queste sono le condizioni per giungere alla "Pace" dobbiamo continuare a sostenere la democrazia israeliana e portare rispetto alle sue leggi. Anche quelle che dalle nostre comode case possono apparire inopportune, come l'ultimo voto alla Knesset.



La famiglia del medico ebreo molto amata dagli ovadesi

Breve storia degli ebrei nella nostra provincia

Una presenza ebraica è attestata, nel 1386, da un documento che menziona tale Giovanni, come medico e barbiere di Ovada.
Da un documento del 1567 risulta che all'incirca nel 1512, gli huomini et comunita di Ovada avevano stipulato una condotta con il medico Giovanni de Treves perché si stabilisse con la famiglia nella località per curare i malati ed esercitare l'attività feneratizia. Dopo essere stato costretto ad andarsene per le orribili guerre che correvano a quel tempo, il Treves era tornato, verso il 1547, alle stesse condizioni stipulate in precedenza.
Un documento del 1550 riferisce che il Senato doveva consultare i Procuratori, prima di giungere ad una decisione circa gli ebrei di Ovada, per motivi che non vengono chiaramente specificati, ma che sono da porsi in relazione al decreto di espulsione. Pochi giorni dopo, un altro documento riporta la richiesta del Podestà di Ovada di concedere a Mastro Jo (Giovanni Treves) l'autorizzazione di rimanere per curare i malati locali, posto che la cittadina aveva stipulato con lui dei patti per un periodo di tempo che non era ancora spirato: le autorità genovesi concessero al medico di restare con la sua famiglia sino allo scadere dei patti.

 Gli ovadesi a favore della famiglia Treves
  Quattro anni più tardi, la popolazione di Ovada pregò il Doge e i Governatori di Genova di fare il possibile per assicurare un indennizzo alla famiglia dell'esimio dottore di medicina mastro [Jo] De Treve, assassinato da gente di Castelnuovo nel Monferrato.
Nel 1567 una lettera fu scritta dal Podestà al Doge e ai Governatori riguardo al figlio del medico Giovanni, Giuseppe che, dopo la morte del padre, aveva continuato a vivere a Ovada senza autorizzazione.
Il Podestà stesso, tuttavia, perorò la causa di Giuseppe, informando che era molto benvoluto e che si guadagnava da vivere commerciando in granaglie e castagne ed esercitando l'attività feneratizia con gli abitanti, secondo un interesse ridotto della metà rispetto a quello richiesto ai forestieri. La popolazione locale, molto povera, ricorreva a lui per prestiti con e senza pegni "a' tal che per quanto mi vien rifferito se non facesse tali comodi bisognarebbe che i poveri impegnassero a'i richi le possessioni con loro interesse".

 Ancora una petizione degli ovadesi a favore dei Treves
  Poco dopo, il Podestà comunicò alle autorità genovesi di aver detto a Giuseppe Treves e alla moglie Ricca di dover lasciare la località e la Repubblica entro tre mesi: tuttavia, il giorno successivo una petizione fu indirizzata al Doge dalla popolazione e dalla comunità di Ovada, chiedendo (e ottenendo) che Giuseppe non fosse espulso, visto che era di grande utilità per la popolazione indigente che, qualora se ne fosse andato, avrebbe dovuto vendere sottocosto i beni che, invece, poteva impegnare presso di lui.
L'anno successivo, il Treves si appellò alle autorità genovesi, dato che il Podestà, dietro loro ordine, lo aveva costretto ad esercitare l'attività feneratizia nel chiuso della sua casa, proibendogli ogni altro contatto e ogni commercio con la popolazione: il Duce ed i Governatori replicarono, pertanto, al Podestà che "dove egli non giochi, mangi, balli e conversi, se non in quei modi che è espediente per conto de negocii, non li diate altro fastidio".

 La verginità di Maria
  Nel 1570 il vescovo di Acqui si rivolse agli Eccellentissimi Signori della Repubblica Genovese, chiedendo di prendere misure contro l'ebreo di Ovada, che, a suo dire, non aveva mai voluto vestire e vivere secondo le disposizioni del Concilio di Trento e del Concilio di Milano e che, recentemente, aveva avuto l'ardire di disputare con un cristiano sulla verginità di Maria: data la gravità del caso, il vescovo era disposto, se del caso, a recarsi personalmente a Ovada per incontrarvi un consigliere genovese e sistemare il caso, specificando di voler esercitare il suo potere nelle cose solamente spirituali in quella terra. Pochi mesi dopo, il vescovo tornò alla carica per raccogliere prove contro Giuseppe (Gioseffe), informando Genova che se anche l'Inquisitore fosse stato concorde, ognuno separatamente avrebbe potuto procedere contro l'ebreo. In caso le autorità genovesi fossero state contrarie alla sua iniziativa, si dichiarava disposto a discutere. La missiva si chiudeva con la preghiera di ordinare all'ebreo di "portare la berretta come gl'altri hebrei, non parli di nostra fede in modo alcuno, ne balli, mangi o giochi con Cristiani, ne si serva di loro e, soprattutto, di non chiedere un tasso di interesse troppo alto".

 I Poggetto da Ovada a Novi
  Una quindicina di anni dopo, il Senato chiese al podestà di Ovada informazioni sul comportamento di Vita Poggetto, autorizzato dal 1582 a vivere, insieme alla famiglia, e a commerciare a Novi, Gavi e Ovada
Due anni più tardi (1587), il Doge e i Procuratori di Genova inviarono ai Giurisdicenti dell'Oltegiogo lettere patenti, con cui si ordinava agli ebrei di portare il segno distintivo, pena l'espulsione entro due mesi.
Nel 1591 il vescovo di Acqui fece confiscare i beni di Abraham e Leone Alfa di Ovada, in quanto Abraham era stato trovato in possesso di libri proibiti (due tomi del Talmud Babilonese): la Repubblica di Genova, dopo aver scritto al vescovo deprecandone il provvedimento, si rivolse, con successo, al cardinale Filippo Spinola di Roma, chiedendogli di intercedere presso il Papa per risolvere la questione.
Sempre in quest'anno il cardinale Enrico Caetani, Camerlengo pontificio, concesse a Vita Poggetto i privilegi dei banchieri ebrei dentro e fuori dei stati della Chiesa.

 Alfa, Artom e Poggetto
  L'anno successivo Abraham Alfa (Alpha), ancora a Ovada, si assunse, insieme a Vita Poggetto di Asti e ad Abraham Artom di Novi, l'obbligazione in solido di restituire a tale Bartolomeo Sauli una cifra di denaro presa a prestito dagli ultimi due. Alcuni giorni dopo, l'Alfa e l'Artom si obbligarono in solido e ratificarono, di conseguenza, il documento, con cui Vita Poggetto si impegnava a dare all'Ufficio di Abbondanza di Genova la fornitura di cento mine di grano.
Quattro mesi più tardi, il Senato indirizzò al podestà di una serie di località, tra cui Ovada, l'ordine di intimare agli ebrei di andarsene dal Dominio entro tre mesi, pena la prigione e la confisca dei beni. L'anno seguente, dietro supplica del sindaco di Ovada, la Repubblica concesse agli israeliti e, in particolare, a Vita Poggetto e ai suoi agenti di rimanere nella località, per continuare a far fronte alle necessità finanziarie della popolazione. Trascorsi alcuni mesi, il podestà rese noto di aver ordinato ad Abraham Alfa di esibire i privilegi tenuti dal suo principale, Vita Poggetto, cui erano stati concessi.
Nel 1595 Abraham Alfa fu nuovamente preso di mira dal vescovo di Acqui, per una controversia da regolare presso la corte civile, causata da circostanze di cui non ci sono pervenute ulteriori informazioni: il Doge e i Governatori raccomandarono al podestà di Ovada di agire con la debita circospezione.
All'inizio di gennaio del 1598, fu ricevuto ad Ovada l'ordine di espulsione degli ebrei, decretato a Genova. Al termine dello stesso mese, il Senato, dopo aver ricevuto informazioni positive dal podestà locale circa Abraham Alfa, gli concesse di rimanere per ulteriori due anni, allo scopo di riscuotere i crediti e di sistemare gli affari.
Dalla lettera del podestà a Genova si apprende che l'Alfa, la cui attività creditizia era di vitale importanza per gli indigenti di Ovada, non aveva acquistato beni immobili, teneva i libri contabili in italiano e prestava all'interesse consentito, cioè 16 denari per scudo.

 Commercianti ebrei
  Oltre all'Alfa, agente di Vita Poggetto, e altri ebrei non meglio specificati, dalle dichiarazioni del Podestà risultava vivere a Ovada tale Angelo, che non esercitava l'attività feneratizia, ma vendeva stoffe e, lungi dall'acquistare beni immobili, "viveva miseramente co' quello poco guadagno che cava dal pano".
Un ulteriore accenno al gruppo ebraico locale si trova, un cinquantennio più tardi, quando il podestà informava le autorità genovesi che Jona Clava di Casale distribuiva grano alla popolazione, posto che il suo agente rifiutava di mettersi d'accordo con la popolazione sul prezzo: poco dopo risulta che gli ebrei avessero cominciato a vendere grano destinato alle truppe francesi, non ancora giunte.
L'ultima attestazione di una temporanea presenza ebraica risale al 1751, quando i Collegi appoggiarono la richiesta di tre mercanti ebrei (non menzionati con i loro nominativi) di commerciare in generi vari alla fiera di Ovada, ad onta degli ostacoli posti loro da mercanti (evidentemente non ebrei), intenzionati ad avere il monopolio della fiera stessa.

(Alessandria Oggi, 25 marzo 2017)


Rischia di prendere fuoco il confine marittimo fra Israele e Libano

La recente escalation di tensione sulle zone di sfruttamento off-shore è probabilmente una manovra deliberata da parte di Hezbollah.

Un conflitto militare tra Israele e uno dei suoi vicini per il controllo di aree marine sta diventando uno scenario probabile dal momento che tende a surriscaldarsi la controversia tra Israele e Libano circa il confine marittimo fra i due paesi.
La recente escalation di tensione rappresenta probabilmente una manovra deliberata da parte di Hezbollah, che vuole trasformare la disputa sul limite delle zone di sfruttamento marino una sorta di riedizione della questione delle Fattorie Shebaa, il termine con cui in Libano indicano l'area di Har Dov che Hezbollah rivendica come appartenente al Libano.
    «Nel maggio 2000 Israele completa il ritiro dal Libano attestandosi sul confine internazionale, ritiro ufficialmente riconosciuto dal Consiglio di Sicurezza. Da allora, pur di giustificare la presenza al confine dei jihadisti libanesi filo-iraniani Hezbollah e le loro minacce contro Israele, Beirut e Damasco sostengono che l'occupazione israeliana non è finita perché, secondo loro, una decina di fattorie abbandonate che Israele ha conquistato alla Siria durante la guerra dei sei giorni del 1967 sarebbero invece libanesi. Non è uno scherzo: in tutta serietà, autorità e milizie arabe sostengono che lo stato di guerra fra Israele e Libano deve continuare, che bisogna continuare ad ammazzarsi perché un fazzoletto di terra disabitato e di dubbia sovranità langue sotto il giogo dell'occupazione israeliana.» (Da: "Nostalgia dell'occupazione", israele.net, luglio 2006)
Sarà questa la scintilla per la prima guerra del gas naturale, in questo martoriato angolo del Medio Oriente?
Il confine marittimo è formalmente diverso da un confine terrestre, perché non confina con il territorio israeliano: confina con un'area in cui Israele rivendica diritti di sfruttamento economico.
In effetti, navi militari israeliane pattugliano già il confine marittimo, probabilmente affiancate da sottomarini.
Israele ha tracciato il confine marittimo di propria autorità dopo che le Forze di Difesa israeliane si sono ritirate dalla fascia meridionale del Libano nel maggio 2000. Nel quadro di quel ritiro, venne tracciato e sancito a livello internazionale il confine di terra tra Israele e Libano (la Linea Blu), ma tale linea non venne estesa in mare. L'ufficio legale del Ministero degli esteri israeliano ha tracciato la linea marittima in conformità con i principi del diritto internazionale.
Si è poi scoperto che il Libano aveva disegnato una linea con un angolo diverso, creando un triangolo marino conteso di 850 kmq con il vertice a Rosh Hanikra e la base sul confine marittimo sud-orientale delle acque di pertinenza economica di Cipro.
Questa differenza è diventata un problema dopo che Israele e Cipro hanno firmato, nel 2010, un accordo per la delimitazione delle acque di rispettiva competenza. Gli sforzi di mediazione delle Nazioni Unite sono stati interrotti tre anni fa a causa dell'impossibilità di arrivare a un compromesso fra le parti.
Inutili si sono rivelati anche analoghi tentativi di mediazione da parte degli Stati Uniti.
Nel frattempo i due paesi cessavano le rispettive attività nell'area contesa.
Israele ha sospeso la gara d'appalto per la licenza di esplorazione per petrolio e gas in quello che considera il suo settore più settentrionale (Alon D).
Il Libano ha sospeso la distribuzione delle licenze a seguito di una lunga crisi di governo a Beirut.
Di recente, però, la nascita di un nuovo governo libanese ha completamente cambiato la situazione.
Hezbollah, attraverso i partiti politici libanesi ad esso associati, ha ottenuto che la distribuzione dei diritti per la zona marina meridionale, quella vicina al confine con Israele, cadesse sotto il suo controllo.
Secondo le stime geologiche, è molto probabile che si scopra un giacimento di gas naturale delle dimensioni di quello di Tamar in un'area la cui parte meridionale si trova nella zona contesa: un giacimento di gas che garantirebbe agli islamisti sciiti filo-iraniani di Hezbollah una grande forza economica per molti anni.
Se non fosse che Israele non intende permettere che questo accada.
Nessuna azienda occidentale sarebbe disposta a compiere esplorazioni di gas nella zona mentre navi da guerra israeliane pattugliano nelle vicinanze.
Ma una società russa potrebbe farlo, e una società iraniana lo farebbe certamente.
E' così che il gas naturale altamente infiammabile rischia di incendiare l'intera regione.

(Debug Lies News, 25 marzo 2017)


La provocazione della Spagna alla Fifa: "Date il cartellino rosso ad Israele"

di Michelangelo Freda

 
Le Nazionali riservano sempre qualche sorpresa, dentro e fuori dal campo. Gijon è la prima città della Spagna ad aver firmato e sostenuto la campagna internazionale volta a boicottare Israele dichiarando il proprio territorio "Spazio libero da Apartheid israeliano".
Le Nazionali riservano sempre qualche sorpresa, dentro e fuori dal campo. In particolare modo l'attenzione è volta al match fra Spagna ed Israele, terminato 4-1, match valevole per le qualificazione al mondiale di Russia 2018. Il match si è disputato nella città di Gijon, porto marittimo della Spagna nordoccidentale.
Fin qui tutto regolare. Due nazionali che si affrontano per il dominio del girone G, ma Gijon per Israele è una città calda.
Nonostante la distanza chilometrica, Gijon è la prima città dello stato iberico ad aver firmato e sostenuto la campagna internazionale volta a boicottare Israele, considerando la situazione in Palestina insostenibile, dichiarando il proprio territorio "Spazio libero da Apartheid israeliano".
La delibera comunale, emanata nel gennaio 2016, approvata con l'astensione del sindaco, Carmen Moriyon, prevedeva un sistema di boicottaggio nei confronti dello stato israeliano.
La Giunta Comunale commentò la loro decisione, in parte criticata da Israele, affermando che: "La situazione che si vive nei territori palestinesi occupati da Israele desta preoccupazione e indignazione. Gran parte della popolazione palestinese soffre le conseguenze della politica dei governi israeliani, i quali ignorano le risoluzioni di organismi internazionali causando grandi sofferenze tra la popolazione civile. "
La polemica è andata avanti per lungo tempo fino alla decisione del passo indietro, firmando il 10 marzo 2017 un testo di revoca della dichiarazione emanata nel gennaio 2016. Tuttavia, nonostante questa revoca, molti cittadini hanno aderito, in vista del match che si disputerà alle 21, alla campagna "cartellino rosso ad Israele" volta a richiedere un intervento duro da parte della FIFA, esigendo l'espulsione della federcalcio israeliana da tutte le competizioni, fin quando non lo stato israeliano rispetteranno le leggi e le imposizioni volute anche dall'Onu.
Ennesima dimostrazione di intolleranza verso la gestione israeliana della popolazione palestinese. Un clima sempre più caldo, intorno ad Israele, anche nel mondo dello sport, un clima divenuto rovente mesi fa con la risoluzione Onu che dichiarò vari team israeliani di calcio illegali, in quanto sorti in territorio palestinese.

(SportAvellino.it, 25 marzo 2017)



L'Onu è illegale

 


Striscia di Gaza, ucciso in un attentato un leader di Hamas

Mazen Faqha
Mazen Faqha, un dirigente di Hamas liberato da Israele nel 2011 in seguito ad un scambio di prigionieri, è stato ucciso in un attentato avvenuto nella Striscia di Gaza: lo ha reso noto il Ministero degli Interni del Territorio costiero. Faqha è stato colpito da un gruppo di uomini armati nel quartiere di Tell al-Hama: le autorità della Striscia hanno aperto un'inchiesta.

(TGCOM24, 25 marzo 2017)


"Il confine fra occidente e islam è crollato"

Intervista a Pierre Lellouche

"E' una guerra senza fine e l'islam rischia di travolgere l'occidente" "Non mi rassegno a mettere la croce tombale sul giudeo-cristianesimo"

di Giulio Meotti

ROMA - "Nel libro sulle 'Conséquences politiques de la paix' del 1920, Jacques Bainville racconta una favola araba: un viaggiatore getta nel deserto i noccioli dei datteri consumati, uno di questi entra nell'occhio di un altro, uccidendolo, e il viaggiatore deve rimborsare la famiglia. Noi oggi paghiamo il prezzo delle pietre gettate nel vento della storia da quarant'anni". Nato in Tunisia, autore del nuovo libro "Une guerre sans fin", già sottosegretario al Commercio di Christine Lagarde, Pierre Lellouche usa questa fiaba per spiegare il prezzo che le democrazie stanno pagando al terrorismo islamico. "Il terrorismo è una minaccia meno esistenziale per l'Europa occidentale dell'islamizzazione della società", dice al Foglio Lellouche, uno dei pochissimi difensori della guerra in Iraq del 2003 in Francia. "Gli islamisti arrivano in un continente che sta demograficamente collassando, l'Italia è a pezzi per la natalità. Il mio approccio è l'esatto opposto di quello di Michel Onfray nel libro 'Décadence'. Io non ce la faccio a mettere la croce tombale sulla civiltà giudaico-cristiana. Una massa di persone entra in una Europa che si sta demograficamente suicidando, in cui la secolarizzazione sta uccidendo il cristianesimo. Le chiese sono vuote. In Francia ci sono ottanta nuovi sacerdoti ogni anno. Cinque, sei villaggi devono raggrupparsi per costituire una parrocchia. Gli islamisti ci lanciano intanto la loro sfida: trasformare la società secondo la sharia e l'halal, nei caffè, nel cibo, nel vestiario, nell'idea di società. Non sono fuori legge, ma vivono secondo un'altra legge".
  "Una guerra con flussi e riflussi", scrive Eric Delbecque sul Figaro nel commentare il nuovo libro di Pierre Lellouche, "Une guerre sans fin". "E' la terza offensiva dell'islam in Europa, dopo quella seguita alla rivelazione di Maometto nel VII secolo e dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, che ha portato i turchi alle porte di Vienna. Una guerra all'incrocio tra storia e demografia. Nel 1914, il mondo arabo aveva da 35 a 40 milioni di persone. Nel 2015, 378 milioni. In Africa, la popolazione di 950 milioni raddoppierà entro il 2050. In particolare nel Sahel francofono. Durante questo periodo, l'Europa avrà perso 7,5 milioni di abitanti".
  "Stiamo vivendo una nuova fase nei quindici secoli di rapporti fra l'occidente e l'islam", continua Lellouche al Foglio. "A differenza della narrativa irenista diffusa, le relazioni tra Europa e islam da quindici secoli sono tutt'altro che 'il dialogo di civiltà' e la fratellanza pacifica. Inizia con Maometto, quando creò questa religione in Arabia Saudita nel VII secolo. L'islam è da subito una religione ma anche un sistema politico. Si espande da secoli, sui due lati del Mediterraneo, andando dall'India alle due sponde del Mediterraneo, e su fino all'Ucraina. E' un movimento che va avanti e indietro fra occidente e islam. Nel Settimo secolo sono arrivati alla Spagna e al sud della Francia, dove vennero fermati a Poitiers. E poi in Sicilia, occupando parte dell'Italia. Le crociate non furono una espansione della cristianità in medio oriente, ma un movimento di autodifesa per liberare le terre che erano cristiane e che erano state occupate dall'islam. Poi gli Ottomani hanno conquistato la Turchia, che era completamente cristiana, e poi su fino alla Russia, dove Georgia e Armenia sopravvissero come oasi cristiane in un mare islamico. Dopo Vienna questa espansione si è fermata. Negli ultimi cento anni, avevamo creato un 'limes', un confine fra occidente e islam. I due campi sono rimasti isolati, con l'occidente che ha costruito la sua supremazia sulla superiorità militare e tecnologica. E l'intesa di Sykes Picot, la creazione del moderno medio oriente". E oggi? "Il limes è crollato, ma avevamo avuto un assaggio con il crollo della Yugoslavia. E' una dislocazione storica epica. Le persone oggi non vogliono vedere o sentir parlare di questa tensione violenta. Jacques Bainville, il grande storico, nel suo libro dopo il trattato di Versailles previde l'ascesa del nazismo, ma anche che la distruzione della Turchia avrebbe aperto all'islam". Quello cui assistiamo oggi è iniziato quarant'anni fa. "Il 99 per cento del terrorismo oggi nel mondo è di matrice islamica. Negli anni Settanta, ci fu la creazione dell'Iran khomeinista e negli stessi anni, con l'invasione russa dell'Afghanistan, la nascita dell'estremismo islamico sunnita. Oggi persino nel Sahel c'è una grande influenza wahabita, sono arrivati a esportare il loro credo ovunque nel mondo. E' in corso un grande processo di reislamizzazione del mondo musulmano. Il fallimento del mondo arabo nei confronti della modernità è una delle chiavi per capire l'islamizzazione oggi in corso. L'Europa intanto apriva i confini all'immigrazione di massa, che l'islam politico ha visto come una forma di 'conquista pacifica'. Nel 1976 in Francia ci fu la legge per la 'riunificazione familiare', che divenne legge in tutta Europa. In quarant'anni il numero di musulmani in Francia è arrivato a sei milioni. Questi paesi hanno chiuso volontariamente i propri occhi". E domani?
  "La demografia in Africa raddoppierà, i paesi del Sahel, come Ciad e Mali e Burkina Faso, passeranno a duecento milioni. E questa massa di persone, che vive in un deserto senza niente, si sposterà a nord. E lì l'islam radicale sta crescendo. Lascio a lei immaginare cosa sarà l'Europa. Stanno cambiando già le nostre società, hanno eliminato Theo van Gogh, Charlie Hebdo, così che oggi nessuno dice più niente sul Profeta dell'islam. Significa essere condannati a morte. Rushdie vive ancora sotto una fatwa. I giornali hanno adottato l'autocensura. L'ultima persona condannata a morte per blasfemia fu un ragazzo che si rifiutò di togliersi il cappello di fronte al re duecento anni fa. E oggi abbiamo i morti di Charlie uccisi per blasfemia. Gli islamisti usano le nostre libertà per distruggerle. In tutta Europa ci sono società parallele, come una sorta di Kosovo.Nel nostro sistema penale ci sono strumenti antiterrorismo, ma non li usiamo per paura di una rivolta islamica nel paese. Non stiamo combattendo seriamente. Stiamo dicendo alla gente, 'imparate a vivere con il terrorismo'. La mia paura per il futuro è una guerra civile di bassa intensità con attacchi e riorganizzazioni. L'Europa occidentale è il ventre molle dell'occidente, spicca il Belgio, stato debole, fallito. Ci sono molti intellettuali francesi islamogoscisti che dicono che dobbiamo chiedere scusa per ciò che siamo. Il ministro dell'Istruzione Belkacem ha iniziato un programma per cancellare la storia medievale dai manuali scolastici. Le radici cristiane della Francia sono scomparse. E ha preso la decisione di insegnare arabo nelle scuole elementari. Lo storico Mare Bloch nel 1940 scrisse su come c'era stato un crollo intellettuale, non solo militare, all'origine della sconfitta. Bloch capì che le élite francesi del tempo non volevano vedere cosa stava succedendo. Oggi è lo stesso. Oggi un musulmano francese entra in una scuola ebraica e uccide dei bambini ebrei guardandoli negli occhi. Questo è quello che ha fatto Mohammed Merah a Tolosa. Domenica ho incontrato ebrei che stanno comprando case in Israele. C'è sentimento di irreversibilità".
  Stiamo perdendo o vincendo la "guerre sans fin"? "Non stiamo vincendo, stiamo imparando a resistere al terrorismo, stiamo affrontando un processo di islamizzazione che è una minaccia esistenziale alla civiltà occidentale. Quando scrivemmo la Costituzione europea ci fu la discussione se inserire le radici giudeo-cristiane e Jacques Chirac fece in modo che non venissero citate. Noi abbiamo contribuito a questo crollo".

(Il Foglio, 25 marzo 2017)


“...
molti intellettuali francesi islamogoscisti dicono che dobbiamo chiedere scusa per ciò che siamo”. Comincino loro a chiedere scusa per ciò che sono, gli intellettuali islamogoscisti francesi, e non. E comunque l’islam non dominerà il mondo. M.C.


Verona - Vino e cinema, le nuove iniziative dell'Associazione Italia-Israele

di Giuseppe Crimaldi

Una minirassegna cinematografica e una serata interamente dedicata alla scoperta dei vini israeliani. Sono le due nuove iniziative proposte dall'Associazione Italia Israele di Verona. Si comincia il 30 marzo, presso i locali della Comunità ebraica della città scaligera di via Portici 3: due film in rassegna: "Felice nel Box", storia fantastica e divertente basata sulla vicenda reale della lapide tombale dell'ebreo sabbionetano Felice Leon Foà; a seguire il primo episodio di "Fauda", serie televisiva israeliana creata da Avi Issacharoff.
Il 6 aprile alle 20,45 - presso il Circolo unificato dell'Esercito in corso Castelvecchio 4 - serata interamente dedicata all'enologia. Si comincia con un intervento del professor Aaron Fait su "La vinicoltura nel deserto come nuova frontiera", e si proseguirà con degustazioni guidate di vini israeliani delle cantine "Recanati", "Teperberg" e "Montefiore": ingresso libero fino ad esaurimento posti, prenotarsi entro il 3 aprile contattando l'Associazione veronese Italia-Israele.

(Italia Israele Today, 24 marzo 2017)


La splendida contraddizione d'Israele: una stampa libera e una censura militare

L'intervento di controllo si attiva solo e unicamente su argomenti sensibili per la sicurezza nazionale e per l'incolumità degli ebrei che vivono in paesi nemici.

di Mario Del Monte

Nonostante la ONG 'Reporter senza frontiere' abbia definito Israele "il paese con maggiore libertà per i giornalisti in Medio Oriente", a causa del perdurante stato di guerra con i paesi confinanti e del conflitto con i palestinesi esistono alcuni casi in cui l'esercito può richiedere la censura di determinati contenuti o la revisione degli stessi prima della pubblicazione.
   Le basi legali della procedura di controllo sui media sono tratte da una legge promulgata dagli inglesi nel 1945 che agisce anche sul piano internazionale vietando l'ingresso ai trasgressori stranieri o non concedendo l'accredito giornalistico, necessario per esercitare la professione nel paese. Nulla a che fare però con la censura di film, fiction e programmi televisivi che invece viene gestita dalla Israeli Film Ratings Board solo nei rari casi di oscenità, razzismo e incitamento alla violenza: la censura militare viene effettuata direttamente da una apposita unità dell'esercito e riguarda argomenti sensibili per la sicurezza nazionale come le armi nucleari, di cui ad oggi non è mai stata confermata l'esistenza da parte dello Stato Ebraico, e altri temi concordati con il Comitato degli Editori, una rappresentanza di tutti i media israeliani, di cui potrebbe beneficiare il nemico o che potrebbero addirittura mettere in pericolo l'esistenza dello Stato. Inoltre possono essere censurate notizie riguardanti il rapimento di soldati dell'IDF e l'immigrazione di cittadini ebrei da paesi ostili a Israele o che non hanno relazioni diplomatiche con Gerusalemme. La libertà di espressione su temi politici e morali resta garantita a meno che non vengano rivelati segreti di Stato o informazioni classificate. La violazione di queste norme è punita con il carcere e in alcuni casi la censura può addirittura richiedere la chiusura del giornale ma misure così estreme raramente sono state utilizzate dalle autorità. Inoltre la Corte Suprema ha il potere di rovesciare le decisioni dei militari o di rinforzarle nei casi di incitamento all'odio razziale e supporto a organizzazioni terroristiche o illegali. La stessa Corte Suprema ha stabilito, con una sentenza emanata dall'ex presidente Aharon Barak, che in caso di guerra l'opinione pubblica deve essere opportunamente informata sulla natura dei problemi in modo da garantire che questa possa esprimersi con cognizione nel dibattito politico nazionale.
   Con la moderna moltiplicazione delle fonti d'informazione la presenza della censura militare si è fatta sempre meno ingombrante ma i giornalisti israeliani hanno trovato lo stesso una strada per bypassare il controllo nei casi limite. Il metodo più comune consiste nel passare documenti a organi di stampa stranieri, su cui Israele non può direttamente intervenire, e citare la notizia una volta che è stata diffusa. E' il caso, ad esempio, del raid aereo al reattore siriano di Osirak del 2007 che viene tutt'oggi citato con la formula "secondo fonti estere" dai media israeliani.
   Per quanto riguarda i socia! media, divenuti oggi vere e proprie fonti d'informazione a volte addirittura preferite a quelle tradizionali, lo scorso anno la censura militare ha contattato circa trenta fra blogger e proprietari di famose pagine Facebook richiedendo, legittimamente e con forza di legge secondo la Corte Suprema, che qualsiasi post contenente dettagli relativi all'esercito o alla sicurezza nazionale fosse inviato per una revisione prima della pubblicazione.

(Shalom, marzo 2017)


Israele - In autunno un'esercitazione aeronautica congiunta tra sette paesi, tra cui Italia

GERUSALEMME - Si svolgerà il prossimo autunno in Israele un'esercitazione congiunta tra le aeronautiche di Italia, Francia, Germania, India, Grecia, Polonia e Stati Uniti. Lo riferisce il capo del dipartimento Affari internazionali dell'Aeronautica israeliana, il colonnello Richard Hecht. L'ufficiale ha definito l'esercitazione del prossimo autunno come la "più grande" che si effettuerà nei cieli dello Stato ebraico. L'esercitazione durerà due settimane e vedrà coinvolti circa 100 velivoli e diverse centinaia di piloti. Si tratta della terza operazione di questo tipo, le altre due si sono svolte nel 2013 e nel 2015. Sono previste simulazioni di scontri aria-aria, attacchi da terra diretti ad obiettivi fissi e mobili, e minacce provenienti da missili terra-aria, riferisce la fonte.

(Agenzia Nova, 24 marzo 2017)


Gli Ebrei in Sicilia

Tema svolto in una classe delle Medie Inferiori dell'Istituto Comprensivo di Montessori (CT)

 
Palazzo della Giudecca - Trapani
La presenza ebraica è costante in Sicilia, probabilmente fin dall'età tardoantica, anche se documentazione sicura ci giunge solo a partire dall'età di papa Gregorio Magno. Con il termine "diaspora" si indica la condizione di dispersione forzata, nella quale si trovarono a vivere gli ebrei nel periodo compreso tra il 70 d.C. e il 1948 (anno di fondazione dello stato ebraico), per più di 1800 anni furono privati di un centro politico e religioso e dovettero adattarsi a vivere in paesi stranieri. I giudei di Sicilia venivano ritenuti dalle autorità politiche in uno stato di servile condizione; nei documenti ufficiali venivano spesso chiamati "servi regiae camerae". Essi avevano piena autonomia all'interno delle loro giudaiche; erano però obbligati ad esaudire ogni minima richiesta della "regia camera" e vivevano in completa dipendenza della volontà politica. I giudei potevano liberamente svolgere le loro professioni quali ad esempio la medicina e le varie arti manuali. Nei confronti degli ebrei è sicuramente eccessivo pensare che, in pieno Medioevo, non vi furono contrasti con le popolazioni cristiane, sebbene nei documenti si può rilevare che in Sicilia non vi furono mai quei quartieri cittadini costruiti proprio per i giudei chiamati "ghetti". Infatti è vero che in Sicilia vi fosse in ogni città abitata dagli ebrei, un quartiere che univa la popolazione della stessa legge religiosa, ma è anche vero che non era raro trovare all'interno di una giudaica, abitanti cristiani o chiese cattoliche. La giudecca era istituzionalmente riconosciuta, infatti aveva i suoi amministratori, teneva la sua contabilità, aveva un suo archivio e curava il servizio anagrafico delle nascite, morti e matrimoni; svolgeva i vari servizi essenziali come la scuola, il notariato, l'ospedale, l'assistenza ai poveri e garantiva il culto religioso. In Sicilia l'originario interesse commerciale nell'Oriente per il corallo, vede come protagonisti gli ebrei che, intuendone il forte potenziale economico, lo trasformarono in "nobil materia" grazie alla loro abilità nella lavorazione. La Sicilia offriva le migliori condizioni per produrre "il grande affare del corallo" nell'economia e nell'arte trapanese e siciliana. Gli ebrei non ebbero alcun ruolo particolare nella pesca, ma detennero il monopolio della lavorazione del corallo e si occuparono molto del commercio. Nel XIV secolo a Caltagirone viveva una piccola e fiorente comunità ebraica stabilitasi in una zona vicino al quartiere San Giuliano che oggi prende il nome di "Via Iudeca" o "zona miracoli". Si ipotizza che la comunità, nel 1470, doveva aver superato il numero di venti famiglie (numero necessario per l'istituzione della sinagoga locale). La giudecca di Caltagirone intratteneva rapporti con le altre comunità ebraiche di Catania, Siracusa e Modica, non soltanto rapporti culturali e religiosi, ma anche commerciali. Il re Alfonso V emanò un decreto il 5 febbraio 1428 che diceva agli israeliti di considerare il ghetto come la loro abitazione. Li obbligò inoltre a portare un segno distintivo: un pezzo di stoffa rossa sotto il collo o nel petto. Gli ebrei erano contro le conversioni forzate. A Caltagirone nel 1480 veniva accordato loro il diritto di non essere cacciati violentemente dalle proprie case a causa di debiti. Nel 1492 la dominazione spagnola decretò la scomparsa degli ebrei in Sicilia con il cosiddetto decreto di Alhambra indetto dal re Ferdinando il Cattolico. La data di partenza di ogni ebreo siciliano venne fissata il 12 gennaio 1493. Lasciando la Sicilia un ebreo poteva portare con sé solo un vestito, un materasso, una coperta di lana e due paia di lenzuola. Caltagirone fu duramente colpita nella sua vita economica e culturale. Le sinagoghe siciliane, dopo la cacciata degli ebrei, furono convertite in chiese; quella di Caltagirone, invece, fu completamente distrutta.

(la Repubblica, 24 marzo 2017)


Diciamolo in ebraico "Beteavòn!" ovvero, buon appetito!

La prima cucina sociale kasher in Italia compie tre anni. Un progetto encomiabile che va oltre le distinzioni sociali e religiose.

di Marta Pietroboni

Spesso idee semplici danno vita a progetti ottimi. Per questo, sfidando la pioggia e il freddo invernale, siamo andati a trovare il Rabbino Igal Hazan, direttore della Scuola Ebraica di Milano Merkos.
Appena superato il portone dell'Istituto, storia, tradizioni e cultura millenarie rivelano la loro forza. Sembra di trovarsi improvvisamente altrove, lontani, nel tempo e nello spazio, avvolti dai canti e dal vociare leggero dei bambini, da una vitalità contagiosa, tutto all'interno di un ordine perfetto.
In questo luogo, 3 anni fa, con l'idea di ottimizzare le risorse e l'attività della cucina della Scuola, ha preso forma, con il nome Beteavòn (termine ebraico per "buon appetito"), la prima cucina sociale kasher in Italia, che prepara e distribuisce pasti a chiunque si trovi in una situazione di necessità, gratuitamente e senza distinzioni religiose o sociali.

 I primi passi
  Rabbi Igal Hazan racconta: "Come prima cosa, avuta l'idea, abbiamo contattato diverse realtà del no-profit già molto attive sul territorio, la Comunità di Sant'Egidio, la Caritas, la Comunità Ebraica, lo stesso Comune di Milano, e abbiamo comunicato loro la nostra intenzione di mettere a disposizione di altre realtà le cucine della Scuola. La risposta è stata ottima. In particolare, senza immaginarlo, abbiamo scoperto che la Comunità di Sant'Egidio, eccezionale nella sua attività di aiuto al prossimo, era sprovvista di cucina e quindi, insieme, avremmo potuto portare pasti caldi a tutte le persone senza fissa dimora che fino ad allora ricevevano solo assistenza".

 Lo staff
  Tantissimi volontari, regolati da calendari precisi, popolano le cucine della Scuola, quando non sono utilizzate per preparare i pranzi degli studenti, e cucinano insieme, confezionando gli ottimi pasti da asporto Beteavòn. Lo staff si divide in due gruppi: quello in forza alla scuola, che viene per così dire "prestato" per l'occasione (cuoca e addetta agli acquisti), e quello di volontari esterni.
Le comunità di appartenenza sono tante: libanese, egiziana, persiana. Questo elemento si traduce nella varietà dei piatti proposti. La dieta dettata dalla religione, reinterpretata in base alle risorse disponibili nei diversi Paesi, si rivela, pur nella creazione di piatti tipici, motivo di unicità culturale.

 Pasti buoni per i bisognosi
  Una parte dei pasti cucinati, grazie alla Comunità di Sant'Egidio, viene consegnata ai molti amici di strada bisognosi; un'altra, grazie alla collaborazione attivata con Caritas e Comune di Milano, viene recapitata nei pick up point (punti di raccolta, ndr) istituiti apposta e gestiti da queste due realtà.
«A un costo abbastanza ridotto, perché si tratta semplicemente di aumentare il numero dei pasti della refezione scolastica - ci racconta Rabbi Igal Hazan - siamo in grado di aiutare tante persone. Prepariamo circa 1.200 pasti al mese».
Il progetto è un grandissimo sostegno per tutte le persone che fanno fatica ad arrivare a fine mese e cercano una dieta kasher. I volontari Beteavòn insieme alla Comunità Ebraica di Milano hanno realizzato un progetto nel progetto: consegnare i pasti dello Shabbat (la Festa del riposo, osservata ogni sabato) agli individui e alle famiglie in difficoltà per condividere con loro non solo il cibo, ma anche il calore del giorno di festa.

 A proposito di kasher
  La dieta kasher esclude alcune carni (per esempio maiale, cavallo, coniglio…), alcuni pesci (quelli senza squame e pinne o che, pur avendole, non sono facili da rimuovere, come pesce spada, anguilla…) e frutti di mare, proibisce la commistione di latticini e carni e richiede un'attenzione meticolosa al procedimento. Ortaggi e insalate devono essere esaminati uno a uno, perché deve essere evitata anche una minima contaminazione di insetti. In un certo senso, si potrebbe sostenere che la cucina kasher è la prima fonte di certificazione alimentare nella storia…
L'approvvigionamento richiede quindi una particolare attenzione.
Solo alcuni prodotti non lavorati o poco lavorati, come l'olio Extra Vergine d'Oliva, la farina, lo zucchero, il riso e la pasta, vengono considerati alimenti kasher pur non essendo certificati.
Tutti gli altri prodotti richiedono un'attestazione kasher.
"Da questo punto di vista - ci spiega Rabbi Igal Hazan - non c'è problema. Sono centinaia in Italia le aziende i cui prodotti sono certificati ed è facile fare acquisti. Solo per la carne abbiamo un rapporto di fiducia: infatti non solo deve essere macellata, salata e lavata in un modo particolare, ma a monte la bestia deve subire un controllo molto accurato per risultare sana. Per questo abbiamo nostri fornitori, che spesso diventano anche nostri sponsor… nel senso che ci regalano i prodotti in scadenza!
Ultima eccezione, il pane, che è un lavorato fresco. La challah, il pane a treccia tradizionale del sabato, viene infornato fresco dalle nostre volontarie.
Per avere un'idea dei quantitativi, a settimana compriamo 15 litri di olio, 80-90 kg di pasta, 30 kg di riso".

 L'approvvigionamento della carne
  Essendo la carne molto costosa, e quella kasher in particolare, la comunità ebraica di Milano ha fatto un accordo qualche anno fa per ricevere, prevalentemente dall'Inghilterra, della carne surgelata a prezzi calmierati.

Ecco un esempio di menu per lo Shabbat
  • Antipasto
    Polpette di tonno o salmone, oppure un cholent (tipica preparazione askenazita, cioè dei Paesi dell'Est europeo) che consiste in un insieme di patate, fagioli, carote e pochissimi pezzetti di carne, tradizionalmente messo sui fuochi o infilato nel forno il giovedi o il venerdì, per cuocere 24 ore. Un vero e proprio stracotto, perfetto per lo Shabbat, dal momento che durante la giornata di festa non è permesso accendere luci o accendere fuochi.
  • Primo
    Di solito riso, perché si conserva bene, soprattutto d'inverno quando lo Shabbat comincia presto, perché la prima stella in cielo appare già nel tardo pomeriggio.
  • Dessert
    Quello classico è un dolce molto simile alla nostra "torta margherita", ma senza latte e burro, e con l'arancia o il cioccolato.
(CIBi, 24 marzo 2017)


Donna musulmana all'Ambasciata israeliana

Rasha Uthmani
L’israeliana Rasha Uthmani, 31 anni, originaria dalla città settentrionale di Baqa al-Gharbiyye, è la prima donna musulmana ad essere accettata nel corso cadetti del Ministero degli esteri israeliano. In precedenza Uthmani aveva già rappresentato Israele in una delegazione al Consiglio Onu dei diritti umani. È già accaduto in passato che cittadini arabi israeliani, cristiani e musulmani, entrassero a far parte del corpo diplomatico e alcuni cittadini musulmani hanno anche ricoperto la carica di ambasciatore, ma questa è la prima volta per una donna musulmana. Uthmani, laureata in psicologia presso l'Università di Gerusalemme, entrerà nello staff dell'ambasciata israeliana in Turchia nella posizione di portavoce.

(Avanti!, 24 marzo 2017)


Quel sistema "inventato" dai palestinesi

di Fiamma Nirenstein

La tragedia di Londra ha costretto a uscire almeno momentaneamente dal solito bozzolo di eufemismi e bugie. Sì, è terrorismo; sì, è islamico; è l'ora di svegliarsi perché i combattenti dell'Isis tornano a un certo punto alla casa che li ha nutriti, e là diventano lupi solitari, o indottrinano altri perché lo diventino.
  Fin qui ci siamo. Dove l'analisi diventa invece monca e quindi inutile è quando si tratta di capire fino in fondo dove è nato e si è sviluppato fino a diventare globale questo terrorismo delle auto lanciate contro i passanti innocenti, dei coltelli sguainati e subito intrisi di sangue di donne e bambini... Perché questo, anche se si opera su una censura orribile, è successo non solo in tutte le città elencate in ogni telegiornale che si rispetti, che ha dedicato ore, giustamente, all'evento di Londra, e su tutti i quotidiani in cui l'elenco non manca, e di tutto ci si duole: Parigi, Bruxelles, Berlino, NIzza...
  E' successo di nuovo e di nuovo, e là è stato inventato, a Gerusalemme, e la censura ha qualcosa di davvero perverso se si pensa che gli attacchi con veicoli nella capitale di Israele e altre città sono stati 55 dall'inizio di questa Intifada nel settembre 2015, e 171 quelli col coltello, 620 complessivi.
  L'ultimo qualcuno se n'è dimenticato? Era contro una gita di soldati di leva, ragazzi e ragazze di 18 anni sul marciapiede di fronte al panorama di Gerusalemme: il camion ha ucciso quattro ragazzi e ne ha feriti 20, poi è andato a marcia avanti e indietro sui loro corpi... Era un attacco terroristico? O no? E perché nessuno lo cita con cordoglio come gli altri attentati?
  C'è chi sostiene che gli attentati in Israele non siano come quelli che avvengono altrove: non sarebbero islamisti, ma dettati da richieste territoriali.
  Non è vero. Sin dalla partizione ogni soluzione territoriale è stata costantemente respinta dai palestinesi.
  Si desidera eliminare il nemico ebreo perché occupa terra ritenuta "Ummah islamica". Non c'è niente che si possa trattare: "Gli ebrei sono sporcizia, profanano e contaminano Gerusalemme" ha detto Abu Mazen, anche se la lectio vulgaris propone che sullo sfondo esista la possibilità di un accordo, per altro respinto a ogni occasione. Come Arafat ha rifiutato ogni trattativa con Ehud Barak a Camp David, così Abu Mazen ha respinto quella di Annapolis con Ehud Olmert. Quanto ad Hamas, il loro intento è genocida come è scritto nella "Carta", e lo ripetono a ogni passo.
  Il terrorismo contro gli ebrei è il libro di testo di tutto il resto del terrore mondiale, la gestione economica che paga ad ogni famiglia di "martire" un alto vitalizio: bucare questa fondamentale verità è mancare la genesi strategica, l'esempio stesso della psicologia del terrore. Essa consiste nello sconcertare, criminalizzare, tentare spargendo il panico di battere un nemico più forte militarmente.
  Il terrore contemporaneo è ispirato dal terrorismo stragista e suicida che vede la vita non come un valore, ma come uno strumento da usare verso la santa morte in nome di Allah: 25 bambini uccisi a Maalot (1974), il massacro degli atleti a Monaco ('72) il sequestro di tanti voli, come della Air France del '76 con la vicenda di Entebbe, gli attacchi di Fiumicino nel '73 e '85, il sequestro di Gilad Shalit e altri, l'eliminazione di neonati fatti a pezzi nei loro letti, la seconda Intifada con quasi 2000 morti di terrore sucida, e ora gli attacchi con camion e i coltelli domestici. La lista è molto lunga, fino a totalizzare migliaia di morti e decine di migliaia di feriti mentre il terrorismo si sviluppa, cambia, si aggiusta... E Israele di fatto è diventato il modello di come affrontarlo mentre lo si ignora.
  Non c'è nessuna richiesta territoriale che possa essere trattata con questi terroristi, da quando Haj Amin Al Husseini già negli anni '30, ha aperto la grande scuola islamista del terrorismo internazionale, che tende all'annichilimento e alla cancellazione del nemico non islamico, esclude qualsiasi trattativa (quando Israele ha sgombrato Gaza subito Hamas ne ha fatto una base per lanciare missili e attentati), associa allo stragismo politiche totalitarie di persecuzione delle donne, degli omosessuali, dei dissidenti.
  Davvero viene da pensare a volte che per il mondo il sangue degli ebrei sia meno rosso di quello di tutti gli altri. Il Papa, il segretario dell'Onu, i capi di Stato europei, i giornalisti lo dimostrano col loro atteggiamento cinico e spietato.

(Il Giornale, 24 marzo 2017)


In Israele hanno trovato dei reperti che potrebbero dirci qualcosa sulla vita al tempo di Gesù

Sono stati rinvenuti durante dei lavori per un'autostrada vicino a Gerusalemme: potrebbero darci indicazioni su come vivevano i suoi seguaci.

di Ruth Eglash - The Washington Post

 
Il posto dove sono stati fatti gli scavi ad Abu Ghosh, vicino a Gerusalemme
 
L'archeologa dell'Autorità per le antichità d'Israele Annette Landes-Nagar mostra le monete di epoca bizantina ritrovate
 
Monete ritrovate
 
Un ossario con la scritta in lettere ebraiche formanti la parola "Yeshua" è custodito in un archivio della Antiquities Authority di Israele, a Beit Shemesh
Nei prossimi mesi un'autostrada che attraversa Gerusalemme riaprirà dopo una ristrutturazione, l'ultimo rinnovamento di una strada usata da secoli dai viaggiatori che visitano la Terra Santa. I trattori e i macchinari che hanno sgombrato la strada per la costruzione di un nuovo tunnel che fa parte del progetto hanno portato alla luce un villaggio cristiano che offriva rifugio ai pellegrini esausti che arrivavano a Gerusalemme oltre duemila anni fa. Alcuni archeologi israeliani hanno annunciato che nel sito sono state scoperte anche alcune rare monete risalenti all'era bizantina, che erano rimaste nascoste per circa 1400 anni all'interno delle mura di pietra di un vecchio edificio nel villaggio dissotterrato, che secondo gli archeologi si chiamava Einbikumakube.
   In un'epoca in cui la presenza dei cristiani in Medio Oriente è in calo e i credenti sono spesso perseguitati, gli archeologi in Israele dicono che oltre un terzo dei circa 40mila reperti che vengono trovati nel paese ogni anno sono in qualche modo legati alla cristianità. È un argomento efficace, che dimostra il legame del cristianesimo - a fianco del giudaismo e dell'islam - con la Terra Santa e il Medio Oriente.
   Domenica l'Autorità per le antichità d'Israele ha permesso ai giornalisti di osservare le monete da vicino, durante uno dei rari tour organizzati nel suo magazzino centrale, nascosto in una tranquilla zona industriale nella città di Bet Shemesh, a circa 40 minuti a ovest di Gerusalemme. Nel sito sono conservate decine di migliaia di reperti trovati in Israele dalla sua fondazione nel 1948 (mentre altri ancora vengono esposti nei musei israeliani). Molti dei reperti risalgono al periodo in cui si crede fosse vissuto Gesù, o sono prove dell'esistenza dei suoi seguaci nei secoli successivi.
   Secondo gli archeologi, gli oggetti rinvenuti potrebbero offrire delle indicazioni sul modo in cui Gesù visse duemila anni fa, ma non sono prove fisiche della sua esistenza. «All'epoca qui viveva oltre un milione di persone e Gesù fu un normale ebreo che grazie alle sue idee originali riuscì ad attirare un seguito», ha detto Gideon Avni, responsabile dell'archeologia dell'Autorità per le antichità d'Israele, «la sua fama iniziò davvero solo dopo la sua morte». Avni ha detto che è difficile, se non impossibile, trovare prove dell'esistenza di una persona comune vissuta migliaia di anni fa. Grazie ai ritrovamenti fatti in centinaia di scavi archeologici, però, Avni crede che gli archeologi siano in grado di ricostruire con precisione la vita di Gesù dalla Basilica della Natività, il sito venerato come il suo luogo di nascita, fino alla Basilica del Santo Sepolcro, dove si ritiene sia stato sepolto dopo la crocifissione. Eugenio Alliata, un professore di archeologia cristiana della Scuola biblica francescana di Gerusalemme, ha detto che i reperti ritrovati finora rafforzano le ricostruzioni bibliche sulla vita di Gesù, inserendo la sua esistenza in un contesto reale. «Non abbiamo trovato prove dell'esistenza di Gesù, ma abbiamo scoperto diverse cose sull'epoca in cui visse, come il tipo di popolazione e gli oggetti che si sono diffusi grazie a lui», ha detto Alliata.
   Alcuni reperti conservati nel magazzino dell'Autorità per le antichità d'Israele offrono anche maggiori informazioni sulle persone che diventarono seguaci di Gesù dopo la sua morte. La prova più antica dell'esistenza del cristianesimo come movimento risale alla fine del primo secolo, ha raccontato Avni. Successivamente, durante il periodo bizantino e le crociate, i pellegrini cristiani si mettevano regolarmente in viaggio verso Nazareth, Betlemme e Gerusalemme. Gli archeologi stanno usando oggetti di tutti i giorni e le rare comodità risalenti all'epoca per studiare la vita e gli insegnamenti di Gesù.
   Tra questi ritrovamenti preziosi ci sono le nove monete bizantine. «Queste monete ci danno la rara possibilità di indagare a fondo questo antico mondo cristiano», ha detto l'archeologa Annette Landes-Nagar, secondo cui le monete furono coniate tra il 604 e il 609 in quanto ritraggono il volto degli imperatori bizantini dell'epoca. Probabilmente le monete furono messe all'interno delle mura della casa intorno al 614, verso fine del periodo in cui gli eserciti bizantini invasero la Terra Santa, distruggendo chiese e comunità cristiane, poco prima dell'ascesa dell'islam. «Le monete sono stata rinvenute tra grandi pietre che erano crollate durante la costruzione. Pare che durante un periodo di grave pericolo il proprietario abbia sistemato le monete in una borsa di stoffa che ha poi nascosto all'interno di una nicchia nel muro», ha detto, «probabilmente sperava di tornare a prendersele, ma oggi sappiamo che non c'è riuscito».

(il Post, 24 marzo 2017)


La Mecca sul Tamigi

È il "Londonistan", il sogno di tutti i fondamentalisti islamici. Dalla Common Law ai media ossequiosi, i fanatici stanno sottomettendo le famose libertà del Regno Unito.

di Giulio Meotti

ROMA - "Londra è più islamica di tanti paesi musulmani messi assieme". Questa frase non l'ha pronunciata un estremista di destra, ma Maulana Syed Raza Rizvi, uno dei predicatori che oggi guidano il "Londonistan", come la capitale inglese è stata definita nel bestseller di Melanie Phillips. Il premio Nobel per la Letteratura Wole Soyinka è stato meno generoso, definendo Londra "una fogna per islamisti". "Cesspit", inequivocabile sta per cloaca. "I terroristi non sopportano il multiculturalismo londinese", ha detto oggi il sindaco Sadiq Khan. E' vero il contrario: la chiamata alla preghiera dei musulmani radicali sale sui tetti delle periferie industriali inglesi e il fondamentalismo islamico si nutre di multikulti. Esso nutre anche i tremila inglesi monitorati notte e giorno e considerati "potenziali terroristi". Non rientrava fra questi Khalid Masood, l'inglese del Kent autore dell'attentato al Parlamento e che era giudicato "meno pericoloso".
  Il Londonistan si nutre di welfare. Terri Nicholson, vicecomandante dell'unità antiterrorismo della polizia di Londra, ha detto al Telegraph che il denaro dei contribuenti viene abitualmente utilizzato dai jihadisti. Anjem Choudary, l'imam radicale che si fa mantenere dallo stato, ha esortato i seguaci a lasciare il lavoro e a chiedere la disoccupazione per pianificare la guerra agli "infedeli". I contribuenti pagano l'affitto a Hani al Sibai, il "mentore" di Mohammed Emwazi (Jihadi John). Abu Hamza, il predicatore egiziano, è costato 338 mila sterline in benefit; l'imam palestinese Abu Qatada 500 mila sterline e Omar Bakri, il siriano, ha ottenuto benefit per 300 mila sterline prima di essere esiliato in Libano. Il Londonistan, con le sue 423 moschee (dati da muslimbritain.org), è poi costruito sulle tristi rovine del cristianesimo inglese.
  Il quotidiano inglese Daily Mail ha pubblicato le fotografie appaiate di una chiesa e una moschea a pochi metri l'una dall'altra nel cuore di Londra. Una mostra la chiesa di San Giorgio a Cannon Street Road: dodici
La Grande Londra è al 12 per cento islamica, con Manchester (15), Birmingham (21) e Bradford (24). Chiese vuote e moschee piene
persone riunite per celebrare la messa, seppur progettata per ospitarne 1.230. I numeri sono simili nella chiesa di Santa Maria a Cable Street. Venti fedeli. La vicina moschea Brune Street Estate ha un problema diverso: il sovraffollamento. E' una piccola stanza in un centro sociale e può contenere solo cento fedeli musulmani. Ma il venerdì i numeri si gonfiano fino a tre, quattro volte e i fedeli devono riversarsi per strada a pregare. Le immagini suggeriscono che, stando alle tendenze attuali, il cristianesimo in Inghilterra sta diventando un relitto, mentre è l'islam la religione del futuro. La chiesa di San Pietro su Waterloo Road, a Birmingham, per citarne una, è diventata la moschea Madina.
  Mentre quasi la metà dei musulmani britannici ha meno di venticinque anni, un quarto dei cristiani ne ha più di sessantacinque. "In vent'anni, i musulmani praticanti saranno più dei cristiani praticanti", ha detto Keith Porteous Wood, direttore della National Secular Society. In quindici anni, cinquecento chiese di Londra di tutte le confessioni sono state trasformate in abitazioni private. Tra il 2012 e il 2014, la percentuale di britannici che si identificano come anglicani è scesa dal 21 al 17 per cento, una diminuzione di 1,7 milioni di persone. Nello stesso periodo, il numero dei musulmani è cresciuto di quasi un milione, secondo un sondaggio condotto dal rispettato NatCen Social Research Institute. Lo studio "Religious Trends" parla invece del fatto che i frequentatori di chiese anglicane, cattoliche o di altre denominazioni cristiane, stanno diminuendo a una tale velocità che entro una generazione il loro numero sarà "tre volte inferiore a quello dei musulmani che vanno regolarmente in moschea di venerdì".

 Metà delle moschee ai fondamentalisti
  Demograficamente, il Londonistan ha sempre più un volto islamico e ne fanno parte Birmingham, Bradford, Derby, Dewsbury, Leeds, Leicester, Liverpool, Luton, Manchester, Sheffield, Waltham Forest a nord di Londra e Tower Hamlets nella parte orientale della capitale. Nel 2015 una analisi del nome più comune in Inghilterra e Galles ha rivelato che al primo posto ci sono le variazioni di Maometto: Mohammed, Mohammad e Muhammad. In media, i musulmani rappresentano il cinque per cento della popolazione nazionale, ma nella regione della Grande Londra sono il 12,4 per cento, preceduta da Manchester (15,8), Birmingham (21,8) e Bradford (24,7). A Birmingham, dove oggi sono stati effettuati raid per smantellare la cellula terroristica che ha colpito Westminster, un bambino ha più probabilità di nascere in una famiglia islamica che cristiana. A Bradford, metà dei bambini è musulmana, come a Leicester.
  Secondo il database di British Islam, soltanto due delle 1.700 moschee che ci sono oggi in Inghilterra seguono l'interpretazione modernista dell'islam, rispetto al 56 per cento negli Stati Uniti. I wahabiti controllano il sei per cento delle moschee inglesi, mentre i fondamentalisti deobandi fino al 45 per cento. Un terzo dei musulmani del Regno Unito non si sente "parte della cultura britannica", secondo un sondaggio dello Knowledge Centre.
  La mappa del Londonistan è costellata di corti della sharia. Sono oltre cento solo quelle ufficiali. In Inghilterra l'avvento di questo sistema giudiziario parallelo "alieno" è stato reso possibile grazie a un codice del British Arbitration Act e dell'Alternative Dispute Resolution, che classifica le corti che fanno riferimento alla sharia come "tribunali arbitrali musulmani". Sono corti che si fondano sul rifiuto del principio di inviolabilità dei diritti umani, dei valori di libertà e di uguaglianza che sono alla base della democrazia inglese e della Common Law. Tribunali islamici sorgono a Londra, Birmingham, Bradford, Manchester e Nuneaton, nei cuori vivi della grande comunità islamica inglese. Il primo di questi tribunali venne istituito nel 1982 a Londra con il nome di "Consiglio della sharia islamica". Queste corti formalizzano
Dall'autocensura dei giornali su Charlie Hebdo ai teatri, passan- do per la Bbc: la cultura ingle- se è la più islamofila d'Europa
spesso il "talaq", il ripudio della moglie da parte del marito. Numerose personalità inglesi hanno aperto all'introduzione della sharia. "La cristianità non influenza più il sistema legale, quindi le corti devono servire una comunità multiculturale", ha detto uno dei più alti in grado fra i giudici britannici, Sir James Munby. Già Rowan Williams, ex arcivescovo di Canterbury, e il presidente della Corte suprema, Lord Phillips, avevano auspicato che il diritto inglese "inglobasse" elementi della sharia. La legge islamica avanza nelle università di Londra. Le linee guida delle università, "External speakers in higher education institutions", prevedono che "gruppi religiosi ortodossi" possano separare uomini e donne durante gli eventi. Così alla Queen Mary University di Londra le donne hanno dovuto usare un ingresso separato e sono state costrette a sedersi in uno spazio in fondo alla sala, senza poter porre domande o alzare la mano, come a Riad o Teheran. La Società islamica alla London School of Economics ha tenuto una serata di gala, in cui donne e uomini erano separati da un pannello di sette metri. I due gruppi non dovevano neppure vedersi. Un mare di denaro islamico arriva agli atenei londinesi. La London School of Economics, ad esempio, ha ricevuto nove milioni di sterline dagli Emirati Arabi, sei dal Kuwait e tre dalla Turchia. A Luton e altrove ci sono piscine che per "ragioni culturali" tengono corsi separati per donne e uomini. Li chiamano "Alhamdulillahswimming". La King Fahd Academy di Londra, con i suoi cinquecento allievi, è la più prestigiosa accademia islamica del Regno Unito. Ma è stata travolta da uno scandalo, quando si è scoperto che nella scuola si usano manuali in cui gli ebrei sono definiti "figli di maiali e scimmie".
  La fascinazione inglese per l'islamismo è penetrata anche nei grandi media. La Bbc, attraverso il responsabile del servizio arabo Tarik Kafala, ha stabilito che i terroristi non si devono più chiamare "terroristi". "Cerchiamo di evitare di dipingere chicchessia come un terrorista o un'azione come in sé terroristica", ha dichiarato Kafala. "Ciò che cerchiamo di fare è dire che 'due uomini hanno ucciso dodici persone nell'attacco alla redazione di una rivista satirica'. Questo basta, sappiamo ciò che significa e ciò che è". Il riferimento è alla strage di Charlie Hebdo.

 L'imam Choudary diventa Gandhi sulla Bbc
  Due giorni prima, la Bbc aveva mostrato i chioschi parigini che si preparavano a vendere la rivista, il personale di Charlie al lavoro, i sopravvissuti e la copertina della nuova edizione, il Maometto con una lacrima all'occhio. Solo una descrizione, però: la Bbc si è rifiutata di mostrare la vignetta. Accadde già nel 2005, dopo le bombe di Londra, quando si decise di chiamare i kamikaze "artefici dell'attacco" o "attentators". Mark Easton, direttore per gli interni della Bbc, ha paragonato l'islamista Choudary al Mahatma Gandhi e a Nelson Mandela. "La Bbc sembra ossessionata dall'idea di dare più visibilità televisiva possibile ai predicatori d'odio", ha detto il deputato tory Michael Ellis. Lo show Free Speech della Bbc, dedicato alla libertà di parola, ha eliminato una parte del programma in cui si affrontava il tema dell'omosessualità nel mondo islamico su pressioni e minacce della Birmingham Central Mosque. L'intervista al vignettista danese Kurt Westergaard è stata prima realizzata e poi cancellata, per paura di scatenare la reazione islamista.
  La Bbc ha deciso che si possono continuare a fare battute, anche irriverenti, sul Vaticano e gli ebrei, ma non sull'islam. Lo ha stabilito Mark Thompson, direttore del servizio pubblico. La motivazione? I musulmani "sono più suscettibili". Un musulmano, Aaqil Ahmed, è stato nominato nuovo responsabile della programmazione religiosa della Bbc, scatenando le proteste dell'allora arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams. Dopo la strage di Charlie Hebdo, non un solo grande media anglosassone ha ripubblicato le vignette su Maometto. Il peggiore fu il Financial Times con Tony Barber che diede di "stupidi" ai vignettisti francesi, mentre Sky News solerte interrompeva il collegamento pur di non mostrare il Maometto che piange, passando per tutti i quotidiani, dal sinistrorso Independent e al destrorso Telegraph, dove l'islam è stato giudicato "intoccabile".
  Neanche nei teatri di Londra è possibile più parlare di islam. Il regista Richard Bean è stato costretto a censurare un adattamento di Aristofane e della commedia "Lisistrata", dove le vergini islamiche scioperano per fermare gli attentatori suicidi. Il Royal Court Theatre di Londra ha chiesto che il registra stralciasse l'opera. E il "Tamerlano" di Cristopher Marlowe è stato censurato al Teatro Barbican sotto la regia di David Farr. I versi su Maometto che "non merita d'essere venerato" sono spariti, come la scena in cui il protagonista brucia il Corano. Dopo l'attacco a Charlie Hebdo, pure il capo dell'Mi6, Sir John Sawers, raccomandò l'autocensura, avvertendo i britannici di non offendere l'islam se volevano evitare che i terroristi islamici lanciassero attacchi nel paese: "Se si mostra mancanza di rispetto per i valori fondamentali degli altri, allora si sta per provocare una reazione arrabbiata. Noi in occidente dobbiamo essere moderati".
  Oppure si può fare direttamente come l'ambasciatore inglese in Arabia Saudita, Simon Collis. Si è convertito all'islam e ha appena compiuto l'haji, il pellegrinaggio alla Mecca. Ora si fa chiamare Haji Collis. Il prossimo passo quale sarà, invitare l'imam Anjem Choudary a tenere una prolusione sull'amicizia fra i popoli alla Camera dei Lords?

(Il Foglio, 24 marzo 2017)


Calcio - Spagna Israele

Info streaming video e diretta tv

di Mauro Mantegazza

 
Lo stadio El Molinon di Gijon
Spagna Israele, diretta dall'arbitro inglese Oliver, si gioca allo stadio El Molinon di Gijon alle ore 20.45 per il girone G delle qualificazioni mondiali, quello che comprende pure l'Italia. La partita è molto importante: infatti la Spagna è al comando della classifica con 10 punti alla pari degli azzurri, ma al terzo posto a quota 9 c'è proprio Israele, che dunque è staccato di una sola lunghezza dalle due squadre di riferimento del gruppo. La Spagna è comunque la logica favorita e con una vittoria allontanerebbe il rischio di inserimenti a sorpresa, mentre se Israele dovesse tornare da Gijon con un risultato utile ecco che le gerarchie potrebbero cambiare in modo imprevedibile - e gradito all'Italia.
Da segnalare purtroppo anche una polemica politica: il 13 gennaio il Comune di Gijon ha invitato al boicottaggio di prodotti e servizi israeliani, che la giunta della città accusa di "apartheid" contro i palestinesi. Una campagna che altrove in Spagna non ha avuto successo, ma la Federcalcio ha deciso di giocare contro Israele proprio a Gijon, dove nei giorni scorsi attorno allo stadio sono apparse scritte contro Israele. Il c.t. Lopetegui ieri ha cercato di rasserenare gli animi ricordando l'ottima esperienza da allenatore dell'Under 21 agli Europei del 2013 organizzati proprio in Israele e vinti dalla Spagna in finale contro l'Italia: basterà per portare la calma?
Tornando alle questioni di campo, diamo uno sguardo alle probabili formazioni. La Spagna dovrebbe schierarsi con il modulo 4-2-3-1 che prevede De Gea in porta, Piquè-Sergio Ramos coppia difensiva centrale, Carvajal terzino destro e Jordi Alba a sinistra. Proseguendo, ecco poi in mediana la coppia formata da Busquets e Koke che David Silva, Iniesta in posizione centrale e Vitolo, tutti alle spalle di Diego Costa che sarà il centravanti. Per Israele ecco il modulo 4-3-3 con Marciano in porta, linea difensiva composta da Casa, Tzedek, Tibi e Gershon, a centrocampo Micha, Natkho e Cohen, mentre il tridente d'attacco sarà composto da Ben Chaim, la stella Zahavi in posizione di attaccante centrale e Refaelov.
Spagna-Israele sarà trasmessa in diretta tv su Sky Calcio 1, canale numero 251 della piattaforma satellitare Sky; di conseguenza sarà visibile anche in diretta streaming video tramite l'applicazione Sky Go per gli abbonati.

(ilsussidiario.net, 24 marzo 2017)


Il Walled Off Hotel conferma che la "Palestina" è una patacca

Continua la buffa vicenda dell'albergo voluto e finanziato da Bansky a Betlemme, fra l'entusiasmo iniziale e la cautela successiva dei filopalestinesi. Su Facebook e qui su Blogspot abbiamo immediatamente segnalato come il costoso albergo dell'eccentrico artista, costituiva un clamoroso autogol per la "causa". Non a caso nei forum antiisraeliani si leggono parole di fuoco all'indirizzo della struttura ricettiva; l'ennesima, peraltro, nei territori palestinesi. Il recente resoconto fotografico di Daily Beast aggiunge ulteriore benzina sul fuoco, rivelando testimonianze visive che abbiamo già avuto modo di apprezzare negli anni passati; è solo che non era mai capitato di scorgere, nel museo di una istituzione sulla carta filopalestinese, una chiara prova della presenza millenaria del popolo ebraico in quella che oggi i benpensanti chiamano "Palestina"....

(Il Borghesino, 24 marzo 2017)


Mentre ti diverte, ti cura. È la realtà virtuale

di Fabiana Magrì

EyeControl. La società sta testando un sofisticato sistema di comunicazione basato sui movimenti oculari: è progettato per chi soffre di gravi limitazioni dei movimenti
Dal trattamento dell'attenzione alla lotta contro la Sla: idee che diventano start-up, soluzioni creative e sempre meno invasive per accelerare le diagnosi e migliorare la qualità della vita dei pazienti. È l'obiettivo di università, aziende e start-up israeliane, in prima linea nell'innovazione nei settori della medicina e della salute.
  Al centro una serie di rivoluzioni che si sono svelate a Tel Aviv, con i due appuntamenti di «BrainTech» e «MedInIsrael», punti di attrazione di una realtà in forte espansione: sono oltre 1300 le aziende attive nelle scienze della vita e sono più di 500 gli esportatori di dispositivi medici, con un volume d'affari di 8.5 miliardi di dollari.
  Presa in prestito dalla «gaming industry», la realtà virtuale fa leva sulla capacità di «entertainment» per coinvolgere pazienti di tutte le età. E si presta a soluzioni creative. Per esempio permette di diagnosticare - primo strumento al mondo con questa tecnologia - i deficit di attenzione e l'iperattività, patologie in continuo aumento, sia tra i bambini sia tra gli adulti. L'ideatore è EyeMind, che ha vinto la competizione per start-up di «BrainTech»: i suoi occhiali propongono una serie di ambienti virtuali, che si trasformano a seconda dell'età.
  Durante ogni proiezione, grazie al tracciamento oculare, si registrano le informazioni relative ai movimenti dello sguardo, mentre un algoritmo elabora le informazioni, fornendo allo specialista un rapporto dettagliato: così si formula una diagnosi precisa della sindrome da Adhd e, in futuro, dell'autismo.
  Immergendo il paziente in un ambiente virtuale che riproduce i movimenti necessari per una riabilitazione motoria, invece, VRPhysio trasforma i noiosi esercizi di fisioterapia in un piacevole passatempo, da svolgere in ambulatorio o a casa. In questo caso gli occhialoni per la realtà virtuale sono collegati a una piattaforma controllata dal fisioterapista che, in tempo reale, conferma o modifica l'esperienza di gioco a seconda delle esigenze terapeutiche e dei progressi del paziente.
  Chi, poi, ha bisogno di una diagnosi dei propri disturbi del sonno, come l'apnea ostruttiva (anche questa patologia è in crescita), potrà dire addio alla fastidiosa necessità di riposare con una serie di sensori che collegano il suo corpo alla macchina che ne registra i dati. All'Università Ben Gurion e al centro Soroka di Be'er Sheva si sta sviluppando un sistema che, attraverso una app per smartphone, analizza i dati necessari alla diagnosi in soggetti svegli e senza sensori. La tecnologia si basa sulla registrazione dei suoni emessi dal paziente durante il giorno, utilizzando microfoni ambientali o quello del telefonino: i ricercatori hanno scoperto che, anche in chi è sveglio, la respirazione fornisce dati preziosi sui parametri del sonno: un test su 350 soggetti ha dato riscontri positivi sull'attendibilità delle diagnosi.
  Nel campo del «wearable technology», le tecnologie indossabili, EyeControl sta creando un sofisticato sistema di comunicazione basato sui movimenti oculari, progettato per chi soffre di gravi limitazioni della mobilità dovute a malattie o lesioni. L'idea nasce dall'esperienza del fondatore, Shay Rishoni, ex colonnello dell'esercito, pilota, atleta e vittima della Sla: ha quindi deciso di trasformare la lotta con la malattia in un'opportunità per accelerare la ricerca sulla sclerosi laterale amiotrofica. Il dispositivo di EyeControl consiste in una micro-telecamera a infrarossi, inserita in un paio di «smart glass» e puntata verso lo sguardo del paziente.
  La persona compone quindi parole e frasi, osservando le lettere di una tastiera virtuale sulle lenti. Un microcomputer riceve le informazioni e le processa in suoni, trasmessi agli auricolari: se le parole vengono confermate, sono trasferite al microfono che le pronuncia. Portabilità e accessibilità economica - spiegano i progettisti di EyeControl - consentono un utilizzo diffuso. Ovunque.

(La Stampa, 24 marzo 2017)


Tel Aviv-Londra, rabbia e dolore. "Insieme contro il terrorismo"

L'ambasciatore presso delle Nazioni Unite Danny Danon ha espresso il sostegno di Israele all'ambasciatore britannico Matthew Rycroft. "Israele si pone tutt'uno con il popolo britannico: questa drammatico avvenimento farà in modo che lavoreremo sempre di più tutti insieme per sconfiggere il flagello del terrorismo. Mandiamo le nostre condoglianze e auguriamo una pronta guarigione a tutti i feriti." "Israele esprime - ha dichiarato il vice ministro degli Esteri Tzipi Hotovely -
"Israele esprime - ha dichiarato il vice ministro degli Esteri Tzipi Hotovely - il suo profondo turbamento all'attacco terroristico avvenuto a Londra ed esprime la sua solidarietà con le vittime, la popolazione e il governo della Gran Bretagna. Il terrorismo è terrorismo ovunque si manifesti e noi lo combatteremo senza sosta."
Michael Oren ex ambasciatore negli Stati Uniti ha detto sul suo account Twitter che la solidarietà di Israele con il Regno Unito proviene da un obiettivo comune di difendere la libertà.
"I miei pensieri e simpatia sono con Londra e le vittime e le loro famiglie", ha detto. "Israele sta con voi nella lotta contro il terrorismo e difendere la libertà." Tzipi Livni (sionista Union) ha scritto su Twitter: "I nostri cuori sono oggi con il popolo britannico. Il mondo libero deve unirsi per sconfiggere il terrorismo."
In una lettera ai membri della Camera dei Comuni, Sharren Haskel (Likud) ha detto che, come un israeliano, capisce profondamente "il dolore e la sofferenza causata da attacchi insensati da estremisti contro civili innocenti. Non dobbiamo perdere la speranza né cedere alle richieste di coloro che cercano di distruggere tutto ciò che è a noi caro, come la democrazia, la libertà, la libertà di religione e della tolleranza. Siamo risoluti nel nostro impegno a continuare i nostri sforzi in questa lotta contro le forze che vogliono farci del male."

(Italia Israele Today, 23 marzo 2017)


Arrestato il presunto responsabile delle minacce alle comunità ebraiche degli Stati Uniti

È comparso davanti al giudice, il diciannovenne israeliano arrestato dalla polizia ad Ashkelon (Ascalona), a sud di Tel Aviv. Il giovane con doppia nazionalità israeliana e statunitense è accusato di aver ripetutamente creato il panico lanciando falsi allarmi telefonici sulla presenza di bombe in luoghi pubblici, centri sociali di Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda.
"Si tratta di un giovane - spiega Galit Bash, il suo legale - che, date le sue gravi condizioni mediche, non ha prestato servizio nell'esercito, non è andato alle scuole superiori né alle elementari. Questa è una delle cose su cui il giudice ha chiesto alla polizia di indagare, di parlare ai dottori, di avere più documenti e di controllare la sua situazione medica".
Secondo le autorità israeliane e statunitensi il ragazzo sarebbe il responsabile dell'ondata di allarmi bomba in diversi Jewish Community Center negli Stati Uniti. La polizia cibernetica avrebbe trovato nel suo appartamento almeno cinque computer, tutti collegati fra loro, che servivano per mascherare la voce e per nascondere la provenienza delle chiamate. Arrestato anche il padre del diciannovenne. I due rimarranno in custodia cautelare fino al 30 marzo, quando compariranno nuovamente in tribunale.

(euronews, 23 marzo 2017)


Gerusalemme preparata a sgomberare migliaia di persone nel nord del paese

GERUSALEMME - L'Home Front Command israeliano ha sviluppato un piano di emergenza per sgomberare centinaia di migliaia di abitanti dalle aree del paese confinanti con il Libano in caso di guerra: lo ha dichiarato un ufficiale superiore dell'Esercito al quotidiano "Jerusalem Post". Quasi un milione di israeliani vive nelle aree settentrionali del paese, e circa un quarto potrebbe essere allontanato nel caso si scatenasse un conflitto militare con il movimento sciita libanese Hezbollah. "In passato non abbiamo preso in considerazione l'ipotesi di dover sgomberare intere comunità, ma ora ci rendiamo conto che dovremo allontanare centinaia di migliaia di persone", ha detto l'alto ufficiale. Le capacità tecnologiche di Hezbollah e l'esperienza delle sue milizie sono aumentate grazie al suo impegno militare a fianco del governo siriano del presidente Bashar al Assad. L'Home Front Command, ha spiegato l'ufficiale, reputa attendibili le minacce del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e ritiene che l'allontanamento dei civili dalla prima linea di un eventuale combattimento sia ad oggi una necessità.

(Agenzia Nova, 23 marzo 2017)


Israele e Cina, nuova alleanza hi-tech su ospedali e lotta all'inquinamento

La geopolitica della tecnologia

di Ariel David

 
TEL AVIV - Costruzione di centri di ricerca congiunti sull'intelligenza artificiale, scambi di ricercatori universitari, trasferimenti di tecnologie per la lotta all'inquinamento e la protezione delle risorse idriche. Sono solo alcuni dei punti di un vasto accordo di cooperazione sull'innovazione e l'alta tecnologia siglato martedì a Pechino dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e dal presidente cinese Xi Jinping.
  Sono previsti scambi di «know-how» anche nei campi della medicina d'urgenza, dell'istruzione e dell'agricoltura, mentre proseguono i negoziati per un accordo di libero commercio sullo sfondo di un interscambio che vent'anni fa era irrisorio e oggi rasenta i 10 miliardi di dollari l'anno. La visita di Netanyahu, giunto a Pechino per celebrare i 25 anni dall'allacciamento delle relazioni diplomatiche fra Cina e Israele, fa parte di un più ampio disegno geopolitico portato avanti dallo Stato ebraico nell'ultimo decennio. Israele cerca nuove alleanze in Asia, dai giganti come la Cina e l'India alle «tigri» come la Sud Corea e il Vietnam, e usa il settore hi-tech, per rafforzare la cooperazione economica e trovare nuovi mercati per le sue start-up.
  La strategia israeliana è in parte frutto delle campagne per il boicottaggio contro i prodotti israeliani in Europa e dei rapporti tesi tra il governo Netanyahu e la precedente amministrazione americana, spiega Yoram Evron, esperto di relazioni Cina-Israele presso il dipartimento di studi asiatici dell'Università di Haifa.
  «Ma soprattutto c'è la consapevolezza che l'economia globale non è più incentrata sull'Occidente, quindi per un Paese come Israele, la cui economia dipende dalle esportazioni, è vitale cercare nuove relazioni», afferma Evron. Dall'altro lato, la Cina e altri giganti industriali orientali sanno di dover fare un salto di qualità tecnologico per modernizzare le economie e tenere il passo della concorrenza. Perciò suscita grande interesse il modello israeliano, che ha trasformato il piccolo Stato ebraico in uno dei maggiori poli globali della ricerca e dell'innovazione.
  Cooperare su questi settori permette anche di tenersi alla larga da argomenti più sensibili, spiega Evron. Da una parte, scambi di tecnologie militari potrebbero suscitare l'ira di Washington, che rimane comunque l'alleato principale d'Israele, mentre una diplomazia mirata a intese politiche si scontrerebbe con la tradizionale impostazione filo-araba di Pechino. «Se si parte dalla cooperazione economica, si finisce per migliorare anche i rapporti politici», spiega Matan Vilnai, ambasciatore in Cina dal 2012 al 2016. «Questo è il sistema cinese: non hanno problemi a cooperare con tutti su diversi fronti». L'offensiva diplomatica israeliana in Estremo oriente sembra aver subito un'accelerazione negli ultimi mesi. Mentre Netanyahu incontrava Xi a Pechino, il presidente israeliano Reuven Rivlin, reduce anche da una recente visita in India, si trovava in Vietnam per firmare accordi per costruire ospedali e impianti di energia rinnovabile.

(La Stampa, 23 marzo 2017)


Gli ebrei lasciano la Francia

Non si sentono più sicuri dopo attentati e minacce. In soli cinque anni ben 300 famiglie hanno lasciato Tolosa per trasferirsi in Israele.

di Ettore Bianchi

Negli ultimi cinque anni, già trecento famiglie ebree di Tolosa hanno lasciato la città francese per trasferirsi in Israele perché non si sentono più sicuri dopo aver ricevuto insulti e minacce. Un cambio di vita deciso per molti di loro dopo l'attentato alla scuola ebraica Ozar Hatorah di Tolosa per mano del terrorista Mohamed Merah che il 19 marzo 2012, alle 8 del mattino, uccise tre bambini e un rabbino. Un massacro che è stato uno shock per Jean-Michel Cohen, dentista di 49 anni, che quella mattina aveva accompagnato il figlio a scuola, come d'abitudine. Dopo due anni e mezzo dall'attentato, Jean-Michel Cohen ha lasciato Tolosa per Tel Aviv con la famiglia come ha raccontato a Le Figaro. Spiega che da molto tempo lui e la moglie avevano il progetto di fare la loro Alya recandosi in Israele e l'attentato ha accelerato la decisione. «La situazione era diventata insopportabile e avevo paura per i miei parenti», ha detto, «qui è il paradiso e siamo in sicurezza».
   Tolosa è stata la città francese più toccata da questa migrazione degli ebrei (ce ne sono 12-15 mila, secondo il consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif). A Tel Aviv, Jean -Michel Cohen non può esercitare perché il suo titolo non è equivalente ma è in arrivo una legge al riguardo. Così dà lezioni di tennis e partecipa ai tornei internazionali. La coppia ammette di aver ritrovato una certa serenità. «I miei bambini vanno a scuola a piedi senza preoccupazioni e sono più liberi che in Francia», ha affermato, «qui le persone sono nazionaliste, amano il proprio paese e lo rispettano. Niente graffiti sui muri, in autobus si alzano per cedere il posto a un anziano, tutti rispettano la legge, e il punto di forza è la collaborazione. In Francia una buona parte di questi valori si è persa», lamenta Cohen che condivide questo sentire con Laurent Mardoukh, 47 anni, che quattro anni fa ha lasciato Tolosa per Netanya.
   «Dopo l'attentato alla scuola abbiamo ricevuto insulti antisemiti e minacce di morte. In questa situazione mi era impossibile immaginare un avvenire a Tolosa per la inia famiglia», ha sostenuto su Le Figaro. E infatti dieci mesi dopo l'attentato Laurent è partito con moglie e tre bambini (uno dei quali aveva frequentato la scuola ebraica dove è avvenuto l'attentato). Entrambi lavorano: la moglie nel dipartimento educazione del comune e lui nell'immobiliare, dopo un periodo di osservazione. I figli hanno imparato la lingua in pochi mesi e adesso sono bilingue. Grazie a un sistema educativo orientato all'infanzia hanno appreso molte cose come la Torah, lo sviluppo artistico e più genericamente la propria realizzazione personale. «Abbiamo impiegato troppo tempo a decidere di partire e il solo luogo dove un ebreo può sentirsi sicuro è Israele. Incoraggiamo altre famiglie a fare altrettanto», si legge sul quotidiano francese che racconta anche la storia di Audrey, docente di francese e storia, che nel 2014 si è trasferita a Hadera con marito (che a Tolosa insegnava nella scuola dell'attentato) e quattro figli.
   Dice di essere partita per esasperazione. «Non potevo più sentire che Mohamed Merah è un eroe, un martire». Certo, spiega a Le Figaro, è difficile lasciare un paese dove si è vissuto quarant'anni e ricostruire una rete sociale; amici e famiglia ci mancano; mio marito ha dovuto cambiare parecchi lavori, ma una cosa è certa: ci sentiamo meglio qui e i miei figli portano la kippah senza problemi, e questo è importante. «Imparare la lingua è stato difficile, e abbiamo potuto contare sull'aiuto della comunità francese, che è numerosa in Israele».

(ItaliaOggi, 23 marzo 2017)



Parashà della settimana: Va'Jakel - Pecudè (Convocò - Inventario)

Esodo 35:1-38:20, 38:21-40:38

 - Le due parashot Va-jakel (convocò l'assemblea) e Pecudè (inventario del Santuario) che chiudono il libro dell'Esodo, sono consacrate alla realizzazione del Tabernacolo. Dopo aver dato il programma per la sua costruzione nelle parashot di Terumà e Tezavè, la Torah ritorna sui dettagli per completarne l'opera. Bisogna notare che tra queste parashot si inserisce la parashà di Ki-Tissà con l'episodio del vitello d'oro. Per riparare questo peccato di idolatria, secondo Rashì, D-o ordina a Moshè di continuare la costruzione del Santuario e di osservare il giorno del sabato. "Per sei giorni lavorerai, ma il settimo giorno sarà per voi giorno di riposo, sabato consacrato al Signore" (Es. 35.2).
Quale è il legame tra il Tabernacolo e il sabato? Il primo è la santificazione dello spazio mentre il secondo è la santificazione del tempo. Le due dimensioni della Creazione a cui si aggiunge quella dell'Essere, che tramite la sua opera, malgrado la sua caduta per il peccato, può continuare nella realizzazione del processo di Redenzione mediante l'osservanza del sabato. Rabbi Eliezer sostiene che per merito dello shabat ogni peccatore viene salvato dal gheinnom (inferno). Il Bet Halevì sostiene che il ricordo e l'osservanza del sabato permettono la teshuvà (pentimento) e il perdono. Il tempo sacro del sabato deve essere usato dall'uomo per conoscere l'amore di D-o verso le sue creature come scritto: "Signore misericordioso, tardivo nella collera, pieno di bontà e di verità" (Es. 34.6).
Da questa ottica la costruzione del Santuario può essere considerata come la costruzione della casa "nuziale" dove i novelli sposi sono uniti con amore e fedeltà. Ma dopo il peccato di idolatria, la sposa adultera è terrorizzata dal pensiero che lo sposo possa abbandonarla, cosa questa che non accade. Lo sposo le offre la possibilità di riparare con il dono del sabato che più di ogni altro giorno, esprime il perdono Divino.

La costruzione del Tabernacolo
"Tutti gli uomini saggi di cuore tra di voi, verranno e faranno quello che il Signore ha ordinato" (Es. 35.10). L'espressione "saggi di cuore" è ripetuta per ben quattro volte nella nostra parashà. Quale è il significato di questa ripetizione? L'opinione comune è che la saggezza risieda nella mente dell'uomo e non sia legata al suo cuore che invece ne determina il suo comportamento. Difatti un uomo può essere un grande saggio, ma nella realtà si comporta senza etica. La Torah con questo vuole insegnarci che colui che costruisce la Casa di D-o deve essere un uomo saggio di cuore nel senso che non vi sia contrasto tra la sua saggezza e il suo comportamento.

Le offerte
"I principi delle tribù recano pietre d'onice e pietre da incastonare per il dorsale e il pettorale del gran Sacerdote" (Es. 35.27). Un commento alla Torah (il kelì yacar) fa notare che la parola "principi" è scritta senza la lettera Yod ed interpreta questa omissione come una punizione per costoro. Difatti i principi delle tribù dicono: "Aspettiamo che il popolo abbia finito di offrire e poi quello che manca verrà offerto da noi". Questo atteggiamento di orgoglio nell'ostentare la propria ricchezza, è stato punito dal Signore, togliendo il suo Nome (lettera Yod) dal contesto.
Con le ultime parashot sulla costruzione del Tabernacolo si chiude il libro dell'Esodo. A questo punto un ebreo, osservante della Torah, deve domandarsi: "Cosa vengono ad insegnarci e in come possono cambiare la nostra vita?" In Pecudè è scritto: "Questi sono gli inventari del Tabernacolo, il Tabernacolo della testimonianza" (Es. 38.21). Perché la parola Tabernacolo è ripetuta due volte? La Torah, spiegano i nostri Saggi, fa allusione ai due Santuari che in Gerusalemme verranno distrutti. Questa profezia sembra contraddire i fondamenti della morale sulla libertà dell'uomo nelle sue scelte. In realtà gli avvenimenti previsti nella Storia dalla profezia, sono inevitabili, ma saranno gli uomini a determinarne i processi con le loro azioni.
Il libro dell'Esodo, per terminare, è il libro della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù d'Egitto e si chiude con la parashà di Pecudè. La storia del popolo ebraico, fatta di ombre e di luce, ha inizio per raggiungere la sua meta finale (Redenzione) con la costruzione del terzo Tempio in Gerusalemme, che sarà una "Casa di preghiera per tutti i popoli della terra" (Isaia 56.7). F.C.

*

 - Riprendiamo il commento da dove siamo rimasti la volta scorsa.
La terribile crisi del Sinai
Con il suo intervento Mosè è riuscito a far recedere Dio dal suo proposito di sterminare il popolo. Ma la questione resta ancora tutta aperta. Adesso Mosè ha capito la gravità di quanto è accaduto, che non è una semplice disubbidienza, ma la rottura di un patto solennemente concluso poco prima. Al popolo dice: "... ora salirò all'Eterno; forse potrò fare espiazione (cafar, כפר) per il vostro peccato" (Es. 32:30, Nuova Diodati). Molte traduzioni usano qui il verbo "perdonare", ma espiare non è la stessa cosa di perdonare, quindi è meglio tradurre alla lettera.
E' importante il termine "forse", da cui si capisce che in questo momento è ancora tutto in gioco. Mosè adesso deve intraprendere un difficile tentativo di riconciliazione con Dio. Secondo alcune traduzioni, Mosè dice al Signore: "... nondimeno, perdona ora il loro peccato" (Es. 32:32), ma anche questo non è esatto. Mosè non chiede in modo diretto di perdonare, ma presenta al Signore due "se": "SE tu perdoni (lett. sopporti) il loro peccato... (sottinteso: bene), SE NO, cancellami dal tuo libro" . La cosa insomma è messa in forma di aut aut. Il Signore naturalmente lo capisce, ma non si sottopone al dilemma. La sua risposta comunque è enigmatica, aperta a molte interpretazioni. Non cancella Mosè dal libro della vita, perché non è lui che ha peccato, ma quanto al popolo si riserva di decidere quando sarà il momento di punirlo per il suo peccato. In che modo? Non è detto, ma certamente non si può pensare che sia lo sterminio dei tremila idolatri gozzovigliatori avvenuto poco prima: quello è soltanto un segno dell'ira di Dio che incombe su tutto il popolo.

"Andate pure, ma io non vengo"
Nel drammatico confronto fra Dio e Mosè che ha come posta in gioco il destino di Israele, Mosè adesso assume decisamente la parte del popolo. Parte pericolosa, perché un errore nella scelta delle parole potrebbe renderlo complice del popolo, e quindi partecipe della relativa condanna.
Il Signore potrebbe aver detto a Mosè qualcosa del genere: "Tu mi hai ricordato che ho promesso ad Abramo di dare alla sua progenie un paese; va bene, allora va', prendi il popolo che hai tratto dal paese d'Egitto e conducilo nel paese che ho promesso di dargli. Non ti preoccupare, manderò davanti a te un angelo come guida e sconfiggerò i nemici che ti verranno contro, ma io non salirò in mezzo a te". E dicendo "te", il Signore identifica Mosè con il popolo.
Il resto delle parole potrebbe essere immaginato così: "Quindi puoi anche risparmiarti la fatica di costruire il tabernacolo, che doveva servire a far sì che Io potessi abitare in mezzo a te, perché tanto non ci verrò". Dio dunque non cancella il popolo, come Mosè gli aveva chiesto, ma cancella tutto quello che aveva detto a Mosè in quei quaranta giorni e quaranta notti. Tabula rasa. Si riparte da zero.
Mosè riferisce queste parole al popolo e intorno a lui si spande il terrore. L'Eterno però non si commuove, anzi insiste, e incarica Mosè di dire ancora una volta al popolo che è di collo duro, e che devono essere contenti se Lui non va' con loro, perché se lo facesse, dovrebbe distruggerli.
Ma allora, adesso, che succederà? E' certamente il pensiero del popolo. Il Signore risponde con una frase sibillina: "Conosco io quello che ti farò" (Es. 33:59). Parole certamente non rassicuranti.
La situazione è tesissima, drammatica, col rischio di finire in tragedia. Mosè però non molla. Non vuole lasciare così le cose. Vuole tentare il tutto per tutto; vuole verificare, come si direbbe oggi, se esiste ancora "uno spazio per il dialogo". Allora, visto che il Signore non vuole avvicinarsi al popolo e non vuole che il popolo si avvicini a Lui, di sua propria iniziativa monta una tenda fuori dell'accampamento e la chiama "Tenda d'incontro". Incontro tra Dio e Mosè, naturalmente, perché in questo momento il popolo è completamente tagliato fuori. Il Signore accetta il dialogo, e in quella tenda s'intrattiene con Mosè parlando con lui "faccia a faccia", come si fa tra uomini. Il popolo osserva in silenzio, timoroso. A distanza segue le severe istruzioni ricevute: alzarsi in piedi quando vedono Mosè andare verso il luogo d'incontro, seguirlo con lo sguardo e non avvicinarsi mai alla tenda. Non è riportato quello che i due si sono detti in quella tenda, ma tutti capiscono che è dall'esito di quei colloqui che dipende la salvezza del popolo.

I secondi quaranta giorni e quaranta notti
Sappiamo dal resoconto del Deuteronomio che Mosè passò altri quaranta giorni e quaranta notti sul monte Sinai, a digiuno, a parlare animatamente col Signore. E' in questo tempo che probabilmente si svolse il colloquio riportato sinteticamente in Esodo 33:12-16. E' un colloquio d'importanza eccezionale: si può dire che proprio qui avviene la svolta decisiva che determinerà il futuro d'Israele.
All'inizio della vicenda storica d'Israele, quando il popolo si trovava ancora sotto il giogo del Faraone, si vede Dio che chiama Mosè dal roveto ardente e fa pressioni su di lui affinché accetti di tornare in Egitto per liberare il suo popolo dalla schiavitù e portarglielo al Sinai, dove stringerà con lui un patto di unione. Adesso invece è Mosè che fa pressioni su Dio, cercando argomenti per convincerlo a non staccarsi da quel popolo che ora si trova davanti a Lui.
L’incipit del suo discorso è straordinario. "Vedi, - inizia Mosè con il tono affettuoso di chi vuole portare qualcuno, con grande pazienza, a rendersi conto di quello che in fondo già conosce - tu mi dici: Fa' salire questo popolo". Magistralmente Mosè conduce l'attenzione del Signore non sul popolo, non su se stesso, non su qualche principio di morale universale, ma su quello che Dio stesso ha detto. Questo è di importanza fondamentale nel rapporto dell'uomo con il Dio vivente e vero; con gli idoli invece è tutto un altro discorso. Quando Dio aveva manifestato la volontà distruggere Israele, Mosè gli aveva ricordato quello che aveva detto ad Abramo; adesso, quando Dio minaccia di non voler salire in mezzo al popolo, Mosè gli ricorda quello che ha detto a lui.
In tutto il suo argomentare le parole chiave sono due: "conoscere" (yada, ידע) e "grazia" (khen, חן), che in soli cinque versetti compaiono entrambe quattro volte. Fino a questo momento, il Signore, come diremmo noi oggi, "non aveva ancora scoperto le sue carte". Con l'ermetica frase: "Conosco io quello che ti farò", si era riservato di procedere a modo suo su tutta la faccenda. L’obiettivo di Mosè adesso è di arrivare a conoscere quello che Dio vorrà, e naturalmente di indirizzarlo verso quello che desidera. Cerchiamo allora di immaginare quello che Mosè può aver detto a Dio.
"Tu dici che mi conosci per nome, ma non mi fai conoscere chi verrà con me". La domanda inespressa è: verrai o non verrai? Poi aggiunge: "Tu dici che mi conosci per nome e che ho trovato grazia agli occhi tuoi, ma come farò io a conoscere che ho trovato grazia agli occhi tuoi se tu non mi fai conoscere le tue intenzioni". E aggiunge: "E considera che questa nazione è popolo tuo".
Dio gli risponde come se pensasse che Mosè sia preoccupato del suo destino personale e gli dice di stare tranquillo: "La mia presenza (lett. faccia) verrà, e io ti darò riposo". La frase non è chiara: Mosè può pensare che Dio voglia rassicurarlo personalmente, senza sbilanciarsi su quello che farà del popolo. Allora si fa ardito e lo mette un'altra volta davanti a una specie di aut aut, in cui accosta sempre "io" e "il tuo popolo":
"Mosè gli disse: «Se la tua presenza non viene, non ci far partire di qui. Perché come si farà a conoscere che ho trovato grazia agli occhi tuoi, io e il tuo popolo, se tu non vieni con noi? Questo fatto distinguerà me e il tuo popolo da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra» (Es. 33:15-16).

Un segno di pace
Il Signore acconsente alla richiesta fattagli, con una motivazione che è sempre e soltanto legata alla persona di Mosè: "... perché tu hai trovato grazia agli occhi miei e ti conosco per nome" (Es. 33:17).
A questo punto Mosè diventa ancora più ardito e chiede a Dio di dargli un segno di pace, qualcosa che lo possa rassicurare, che gli dia la certezza che tutto è tornato come prima: gli chiede di farsi vedere nella sua gloria, come era accaduto quando si trovavano gioiosamente insieme con i settanta anziani sul monte Sinai, dopo la firma del patto. Lo chiede umilmente, con timore. Nel testo infatti compare l’interiezione na (נא) che alcune traduzioni tralasciano, altre rendono con un “ti prego”, altre ancora con un antiquato ma più espressivo “Deh!” Una traduzione efficace potrebbe essere: “Su, fammi vedere la tua gloria!” che Mosè pronuncia in tono di supplica, perché questa volta teme di non poter essere esaudito. Ed è così. Il Signore risponde che nella stessa forma di prima non è possibile: adesso, dopo quello che è accaduto, neppure Mosè può vedere la faccia di Dio e vivere: la morte è entrata nella storia del popolo. E tuttavia, per dare un segnale che Dio stesso si incaricherà di risolvere il problema di vita o di morte presente nel popolo, acconsente a farsi vedere da dietro.
Questo però non avverrà subito: prima Dio dovrà dare a Mosè nuove istruzioni.

Le nuove tavole
Dio ordina a Mosè di tagliare due tavole di pietra, come quelle di prima, e di portargliele sul monte il giorno dopo, di buon mattino, assolutamente solo (Es. 34:1-4). Su queste tavole Dio scriverà le stesse dieci parole che aveva scritto nelle prime, ma è chiaro che la situazione ora è diversa. Adesso c'è la mano dell'uomo. Questo è qualcosa di meno, rispetto alla volontà originaria di Dio espressa nelle prime tavole, ma è qualcosa di più, rispetto al peccato del popolo, il quale, se non fosse stato per l'opera mediatrice di quell'uomo che ha tagliato le tavole, sarebbe scomparso dalla faccia della terra.
Dopo averle prese in mano, il Signore acconsente alla richiesta di Mosè e si fa vedere da dietro nella sua gloria (Es. 34:5-9). Quello che Mosè sente sono parole di misericordia, benignità, fedeltà di Dio, ma anche di peccato, iniquità, trasgressioni del popolo. E minacce e punizioni. Non è lo stesso linguaggio del primo patto.
Subito dopo Mosè s'inchina a terra, adora e chiede a Dio tre cose: 1) "Venga il Signore in mezzo a noi; 2) "Perdona la nostra iniquità e il nostro peccato"; 3) "Prendici come tua eredità" (Es. 34:8-9).
Possiamo ritenere che il Signore abbia esaudito tutte queste richieste, ma il compimento di questi esaudimenti avverrà lungo un decorso storico secolare. Si discute sui tempi e sui modi in cui questi esaudimenti sono avvenuti o devono ancora avvenire, ma in ogni caso continua ad essere presente nei secoli il segno indiscutibile di un fatto che Mosè è riuscito ad ottenere da Dio: il popolo d'Israele vive.

Un altro patto
"L'Eterno rispose: 'Ecco, io faccio un patto: farò dinanzi a tutto il tuo popolo meraviglie..." (Es. 34:10). Prima di questo versetto, alcune Bibbie scrivono come soprattitolo: "Il patto rinnovato (o confermato)". Questo secondo patto però non è un rinnovo o una conferma del primo, così come il patto con Noè non è un rinnovo o una conferma del patto con Adamo. Questo secondo patto, come il patto con Noè, è conseguenza della rottura di un patto precedente. In entrambi i casi si può parlare di un patto di conservazione dell'esistente in vista di una redenzione futura. In questo "esistente" ci sono segni visibili del peccato avvenuto, ma solo per allusioni e accenni si possono intravedere segni della futura redenzione.
Se si fosse trattato di un rinnovo, non ci sarebbe stato bisogno di riscriverlo; invece, dopo aver ripetuto in forma diversa solo alcune disposizioni del precedente patto, Dio dice a Mosè: "Scrivi queste parole, perché sul fondamento di queste parole, io ho contratto alleanza con te e con Israele" (Es. 34:27). Il popolo qui non parla, a lui non si chiede di prendere impegni, a lui non si chiede neppure di formulare una chiara richiesta di perdono; qui è solo Dio che parla, in risposta alla preghiera di Mosè, sentendosi impegnato soltanto dalla Sua sovrana volontà. Resta dunque valido quello che Dio aveva annunciato al popolo subito dopo la sua rovinosa caduta: "Conosco io quello che ti farò" (Es. 33:5). Anche il popolo lo conoscerà, ma solo dopo che Dio avrà fatto tutto quello che aveva deciso di fare.

La storia continua
Dopo la mediazione di Mosè, il rapporto tra Dio e il popolo si ristabilisce, ma il passato non si cancella e non smette di pesare sulle sorti di Israele. Il tabernacolo sarà ricostruito e Dio verrà ad abitarci, ma sarà un'abitazione sempre pericolante, sempre a rischio di crollare da un momento all'altro, come poi è accaduto. La violazione di quel patto di sangue che richiedeva la morte del trasgressore ha fatto gravare sul popolo un debito di sangue che il Signore non ha cancellato immediatamente, ma di cui ha rinviato il momento in cui potrà essere estinto. Questo momento arriverà alla venuta del Messia. Anzi, è già arrivato. M.C.

  (Notizie su Israele, 23 marzo 2017)


Solo i musulmani possono fermare i fanatici

Con la prossima sconfitta del Califfato in Siria le cose peggioreranno: i miliziani più agguerriti arriveranno qua

di Carlo Panella

Un'automobile, un coltello, un obbiettivo clamoroso, Westminster, simbolo della democrazia moderna e il risultato raggiunto è clamoroso: in diretta mondovisione ( ma non sulle tre reti Rai) centinaia di milioni di spettatori assistono all' impresa dell'ennesimo kamikazeshaid. È il «contagio palestinese» della Intifada dei Coltelli, solo che qui non ci sono Territori occupati, ci sono ignari e innocenti passanti uccisi dalla stessa ideologia islamista e jihadista. A dimostrazione che Israele è dappertutto, che il terrorismo non nasce né per sue responsabilità, né per sue presunte - e razziste - colpe. Nasce da quella ideologia di morte islamista, da quel culto per la «bella Morte» cercata e agognata, fondata dall'ayatollah Khomeini, che Umberto Eco definiva «il nuovo fascismo». È sbalorditivo il rapporto tra la quotidianità degli strumenti di morte impiegati e il risultato ottenuto. Oltre al pesante bilancio delle vittime, basta pensare all'effetto devastante sulla platea televisiva mondiale dell'immagine, dei parlamentari inglesi fatti sdraiare per terra, della premier May costretta a fuggire da una porta secondaria su una Jaguar blindata. Un successone. Purtroppo.
   Ma, da Londra viene anche una indicazione confortante: abbiamo ancora di fronte un jihadismo «spontaneo». L'Isis o al Qaeda non hanno ancora deciso di inviare in Occidente, in Europa quei clamorosi suoi miliziani che da sei anni si sono fatti le ossa nella guerra urbana siriana - la più lunga della storia - vere e proprie macchine di morte capaci di stragi spaventose. Ancora li tengono a combattere a Mosul e in Siria, dove stanno dando prova di una incredibile, elevatissima capacità militare di tenuta, a fronte di forze numericamente sovrastanti e di bombardamenti aerei a tappeto.
   Ma è certo: verrà un giorno, forse non lontano, forse dopo la caduta di Mosul, nel quale jihadisti ad altissima professionalità bellica verranno inviati a attuare stragi di massa in Occidente, in Europa. Non viaggeranno sui barconi, ma in first class, non compreranno armi ed esplosivi da bande di trafficanti di quartiere (come a Molenbeeck), ma da grandi circuiti della criminalità organizzata o dalla Mafia cecena. Quel giorno, la guerra di civiltà che loro, non noi, hanno dichiarato, subirà un'escalation e finalmente si capirà in Europa che si deve vivere come in Israele, per le stesse ragioni per cui Israele è colpito. E non si vedrà la fine del tunnel se non quando sarà il pigro e distratto - quando non complice - islam a darsi il compito primario - e non solo a facili parole - di contrastarlo. Anche in Europa.
   Infine, due parole sul contesto in cui si celebrerà sabato a Roma il sessantesimo anniversario dei patti per l'Europa: l'imponente apparato di sicurezza messo in campo da Marco Minniti verrà sicuramente e giustamente ancora potenziato. Ma non è poi detto che quella scadenza verrà scelta dai jihadisti per un attentato. Il jihadismo è come il cancro: non puoi prevedere se lo avrai, puoi solo sapere, dopo, maledettamente dopo, che ti ha attaccato. E come il cancro il jihadismo permette solo statistiche ex post. Bene, quelle statistiche sul passato ci dicono che mai, mai un evento internazionale, iper protetto è stato considerato un target jihadista. Un auspicio.

(Libero, 23 marzo 2017)


Evento Kesher: ebrei e scacchi, un rapporto antico

di Nathan Greppi

 
Da sinistra: Daniel Fishman, Stefano Bartezzaghi, rav Roberto Della Rocca e Giacomo Sassun
MILANO - Martedì 21 Marzo, alla Scuola Ebraica, si è tenuto un interessante dibattito intitolato Il gioco nell'ebraismo, organizzato da Kesher e avente come tema il legame tra il mondo ebraico e giochi come gli scacchi, il bridge e il backgammon.
La serata è stata introdotta da Rav Roberto Della Rocca, il quale ha spiegato come nella Torah la parola "lesachek" (giocare) viene spesso confusa con "letzahek" (scherzare), tanto che persino il nome Itzhak vuol dire "colui che ride", il che è un paradosso perché è uno dei personaggi che hanno più sofferto nella Bibbia, il personaggio più disgraziato è anche colui che ci farà giocare; ciò è un messaggio per dirci che non dobbiamo prenderci troppo sul serio. Noi possiamo prenderci gioco degli altri purché non lo facciamo con intenti negativi. Ha inoltre affermato che oggi la psicanalisi ha confermato che il gioco per i bambini può essere terapeutico. Infine, ha citato un passo del Talmud secondo cui alla fine dei tempi "Dio giocherà con il Leviatano", persino Dio è un giocatore.
Dopodiché ha passato la parola a Daniel Fishman, autore e scacchista, il quale ha affermato che gli scacchi sono presenti nel mondo ebraico da molto tempo: infatti, sin dal Medioevo essi erano dapprima malvisti, soprattutto dai rabbini poiché si pensava che distraessero le persone dal lavoro e attirassero scommesse, ma più tardi vennero concessi. Secondo Fishman, gli ebrei hanno sviluppato una forma mentale simile a quella degli scacchisti, tanto che il fondatore dei Lubavitch, Shneur Zalman, fece una riflessione sull'argomento: "Il re per lui è Dio, la regina è la Malkuth, un suo attributo, le pedine forti (torri, cavalli, alfieri) gli angeli, e i pedoni sono gli uomini. Tuttavia, è indicativo il fatto che il pedone che arriva in fondo possa trasformarsi in altro, come l'uomo che può innalzarsi". Il capo dei Lubavitch ne trasse la conclusione per dire che, così come negli scacchi, tutto ha un senso nel mondo.
Fishman continua spiegando che tra le ragioni per cui ci sono tanti campioni di scacchi ebrei (7 dei 13 più grandi campioni lo sono) ci sono le seguenti:
  • Gli ebrei si sono spesso dovuti confrontare con altri popoli in posizioni svantaggiate, ma vincono in un gioco dove sono in condizioni di parità;
  • Un giocatore di scacchi ha varie prassi prese da partite che ha giocato precedentemente;
  • A volte gli ebrei dovevano prendere decisioni rapide, ad esempio quando gli ebrei dei paesi arabi dovevano decidere in fretta dove emigrare;
  • Ogni pezzo, anche il più piccolo, ha una relazione con gli altri, vi è un disegno intelligente;
  • Contano molto l'abilità matematica e spaziale;
  • È un gioco leale in cui vi è un forte confronto psicologico senza contatti fisici; infatti, dato che alcune partite possono durare anche ore o più di un giorno, si crea quasi un legame tra i due giocatori.
Secondo Fishman, gli ebrei hanno un modo di giocare iconoclasta, non seguono la logica comune ma scombinano le regole: a tal proposito, fa l'esempio di Mojsze Mendel Najdorf, campione di scacchi polacco che andò in Argentina per le Olimpiadi di scacchi nel '39, proprio allo scoppio della Guerra. Lui decise di rimanere in Argentina, ma dato che la sua famiglia era rimasta in Europa decise di mandare loro un segnale vincendo numerose partite alla cieca. Tuttavia, la storia non ebbe lieto fine, poiché tutti i suoi cari furono uccisi.
Dopo di lui è venuto il turno di Giacomo Sassun, docente della Scuola Ebraica e autore del libro Giocosa Mente, il quale è stato accolto dagli applausi dei suoi studenti ma ha detto scherzando che sono venuti per non essere interrogati il giorno dopo. Ha raccontato che spesso dà lezioni in più ad alunni disabili, e che da qualche tempo ha dato il via a una serie di giochi logici ed enigmistici per potenziare le loro capacità deduttive. Ha affermato che spesso molti ragazzi hanno difficoltà nell'apprendimento anche a causa di un'educazione mancata da parte dei genitori,che non gli fanno fare giochi logici e non li preparano a ciò che li aspetta, tanto che ha visto molti ragazzi pensare che 72 fosse uguale a 14. Molte difficoltà sono dovute a:
  • Scarsa attenzione ai dettagli;
  • Capire quali elementi valorizzare e quali eliminare;
  • Interpretare correttamente un testo;
  • Capire da dove partire e qual è l'obiettivo del problema;
  • Agire per modelli.
In seguito ha descritto vari giochi che aiutano a sviluppare le capacità logiche, quali il rebus, il sudoku e sentinelle, tanto che anche il titolo del suo libro è l'anagramma di "Giacomo sente."
Infine è intervenuto il giornalista ed enigmista Stefano Bartezzaghi, il quale ha raccontato la storia di Roger Caillois, intellettuale francese che fuggì in Argentina alla fine degli anni '30, entrando in circoli letterari importanti tanto che tradusse in francese le opere di Jorge Luis Borges, e in più diede diffusione al libro Homo Ludens, il primo vero libro sul gioco, scritto dall'autore olandese Johan Huizinga che però morì in prigione poco prima che finisse la guerra. Intorno al libro si sviluppò un intenso dibattito filosofico, tanto che Caillois ne trasse ispirazione per il suo I giochi e gli uomini, dove sostiene che il gioco è alimentato da quattro impulsi: agonismo, caos, simulazione e vertigine. Ha raccontato che anche Primo Levi ha parlato del gioco per gli ebrei, mettendolo in relazione al rapporto padre-figlio: lui aveva ricevuto una scacchiera dal padre e a sua volta ci giocava con il figlio, che però lo stava già superando. L'anno prima di morire, Levi parlò anonimamente (anche se tutti sapevano che era lui) della sua passione per i rebus con il giornalista della Stampa ed esperto di giochi Giampaolo Dossena, raccontando di essere riuscito a crearne uno con uno dei primi computer perché, non essendo bravo a disegnare, prima non ci riusciva, creare rebus era la sua gmurà, termine piemontese che vuol dire sia "dimora" che "divertimento". Venne fuori un disegno comunque brutto, che Dossena pubblicò sulla Stampa. Il paradosso del gioco, secondo Bartezzaghi, è che non sempre un modo per eludere la realtà, per i bambini è il modo per interagire con la realtà.
Un problema che oggi ha tolto fascino agli scacchi è che molti computer oggi sono capaci di battere anche i più grandi campioni di scacchi. Ma non per questo è meno importante: Sassun infatti ha aggiunto che il gioco aiuta i bambini a integrarsi, quelli che si confrontano di più con altri attraverso il gioco sono anche quelli che emergono di più.

(Mosaico, 22 marzo 2017)


Raid israeliani in Siria, l'obiettivo erano i missili di Assad

Colpita una base e un deposito nel Monte Qasioun, sopra Damasco

di Giordano Stabile

BEIRUT - Continuano a emergere dettagli sui raid israeliane dello scorso venerdì in Siria. Secondo fonti siriane riportate da media israeliani, l'obiettivo principale era un deposito di missili nascosto nel Monte Qasioun, l'altura che domina Damasco, al centro dell'apparato di sicurezza del regime di Bashar al-Assad.

 Attacco al cuore
  Le fonti non specificano se i missili erano diretti a Hezbollah. In ogni caso si è trattato un attacco al cuore del sistema militare siriano, il che spiegherebbe la reazione di Damasco, che per la prima volta ha usato i sistemi anti-aerei S200 contro gli F-16 israeliani. In precedenza Israele aveva effettuato almeno una dozzina di raid in Siria contro Hezbollah e solo una volta c'era stata una reazione dell'antiaerea, molto più limitata.

 Ammissione pubblica
  La reazione siriana, con un missile Sam entrato nello spazio aereo israeliano e neutralizzato dal sistema Arrows-3, ha costretto le forze armate israeliane ad ammettere pubblicamente i raid. Il premier Benjamin Netanyahu e il Capo di Stato maggiore Gadi Eseinkot hanno riferito ieri e spiegato le linea strategiche riguardo la guerra civile siriana: evitare di essere trascinati nel conflitto; prevenire il trasferimento di armi a Hezbollah.

 Obiettivi strategici
  I due obiettivi sono stati per ora raggiunti, almeno parzialmente. Hezbollah ha rafforzato in questi anni il suo arsenale missilistico, si parla di "100 mila" vettori, ma il trasferimento di armi più sofisticate e potenti, come gli Scud-D, sembra sia stato impedito. Israele però deve ora fare i conti con il dispiegamento russo in Siria. Eseinkot ha spiegato che esiste "un coordinamento" per evitare incidenti fra aerei israeliani e jet e sistemi missilistici russi.

 L'Iran "alla frontiera"
  Fonti siriane vicine al governo hanno però rivelato che le proteste russe dopo il raid sono state causate dal fatto che nelle basi colpite c'erano soldati russi. Mosca ha appena fornito a Damasco il potente sistema S300, secondo indiscrezioni gestito direttamente dagli specialisti militari russi. Secondo il quotidiano Haaretz, però, il governo Netanyahu è disposto anche a "irritare" la Russia pur di raggiungere un terzo obiettivo, non dichiarato: impedire che si installi al confine con il Golan una potente milizia sciita a guida iraniana, ed evitare di avere "l'Iran alla frontiera".

(La Stampa, 22 marzo 2017)


BMT Napoli, per Israele importante la domanda turistica centrosud

ROMA - L'ufficio Nazionale Israeliano del Turismo - IGTO - partecipa all'edizione 2017 della BMT, Borsa Mediterranea del Turismo, dal 24 al 26 marzo presso la Borsa d'Oltremare di Napoli. A riconferma dell'importanza che la domanda turistica del Centro-Sud riveste per Israele, l'ufficio del turismo segnala come il Paese sia sempre più facilmente raggiungibile dall'utenza meridionale. I collegamenti operati verso Tel Aviv da Roma contano 21 voli alla settimana operati da Alitalia, 11 operati dalla compagnia nazionale israeliana EL AL e dal prossimo 7 aprile i collegamenti bisettimanali EL AL direttamente da Napoli. Si moltiplicano quindi le opportunità per i viaggiatori del Centro e Sud Italia di arrivare in Israele con comodità, anche per un city break primaverile, in occasione per esempio dei prossimi ponti di primaverili o per realizzare una più tradizionale vacanza di 8 giorni. E per questo Israele riparte con la sua campagna di comunicazione dedicata al mondo del city break, più facile da realizzare anche da Napoli. Una grande attrattiva di Israele che i viaggiatori potranno programmare di vivere nei prossimi giorni, segnala l'ufficio, è l'appuntamento con la Pasqua. Per la Pasqua cattolica e quella ortodossa (16 - 17 aprile), e per la festa di Pesach, la Pasqua ebraica (10 - 18 aprile), sono attesi centinaia di turisti che visiteranno Gerusalemme e tutti i luoghi della tradizione. Molte delle celebrazioni previste per la Pasqua saranno precedute dal nuovo Custode Francesco Patton.

(askanews, 22 marzo 2017)


Energia - Ministro Steinitz: Israele e Cipro fonti affidabili per le forniture a Italia e Grecia

 
Il ministro israeliano Yuval Steinitz
ROMA - Israele e Cipro possono diventare una fonte affidabile per l'approvvigionamento energetico in particolare di Italia e Grecia, ma anche per tutta l'Europa. Lo ha detto il ministro dell'Energia e delle risorse idriche israeliano, Yuval Steinitz, intervistato oggi da "Agenzia Nova", sottolineando come il progetto del gasdotto East-Med (che dovrebbe collegare i giacimenti offshore israeliani e ciprioti a Italia e Grecia) possa avere un forte impatto geopolitico. Nei paesi europei vi è un "sentire comune", secondo il ministro, riguardo ad una "maggiore" affidabilità di Israele e Cipro rispetto a fornitori dei paesi dell'Africa e in particolare del Nord Africa. Il responsabile del dicastero dell'Energia e delle risorse idriche israeliano ha definito la cooperazione tra Roma, Gerusalemme, Ankara e Nicosia "molto positiva" per il Mediterraneo. Le risorse attuali di gas di Cipro ed Israele, che complessivamente sono pari a circa 500-600 miliardi di metri cubi, giustificano la costruzione di un gasdotto verso l'Europa, ha affermato il ministro Steinitz. Israele vanta circa 350 miliardi di metri cubi di gas nel bacino del Leviathan, mentre il giacimento cipriota di Afrodite ne ha circa 150 miliardi. In vista di ulteriori scoperte nei prossimi due-tre anni, "non vi è ragione per non costruire due gasdotti", ha spiegato il ministro, riferendosi ad un altro progetto per esportare gas da Israele verso la Turchia.
  Steinitz ha spiegato che il Mediterraneo orientale sarà una fonte di approvvigionamento energetico per l'Europa che rimpiazzerà in parte le risorse attualmente provenienti dal Mare del Nord. La decisione finale sulla costruzione del progetto East-Med spetta all'Unione europea. L'incontro avvenuto a Bruxelles lo scorso gennaio fra i funzionari dei quattro paesi coinvolti nel progetto East-Med e rappresentanti dell'Ue è stato "molto positivo", ha affermato il responsabile del dicastero dell'Energia israeliano. L'approvazione definitiva per la costruzione del gasdotto potrebbe essere motivata dalla necessità di soddisfare la domanda energetica dei paesi europei, considerando che "fra cinque o sei anni le riserve del Mare del Nord diminuiranno in modo consistente", secondo le stime, ha chiarito il ministro Steinitz. Il gasdotto sottomarino East-Med sarà il più esteso e più profondo al mondo: lungo 2.200 chilometri e profondo 3 chilometri, ha ricordato il ministro. Il costo previsto dell'infrastruttura è di circa 6-7 miliardi di dollari. Il gasdotto East-Med "credo che possa essere costruito entro i prossimi cinque o sei anni", ha aggiunto Steinitz. "L'idea generale è che il gas di Israele e Cipro abbia come principali consumatori Grecia ed Italia, ma anche i paesi balcanici", ha spiegato Steinitz. Si tratta di un progetto "grande ed importante", ha ribadito il responsabile del dicastero dell'Energia e delle risorse idriche israeliano.
  Lo studio di fattibilità del gasdotto East-Med che porterebbe gas dai giacimenti di Israele e Cipro a Grecia e Italia è "incoraggiante", ha spiegato Steinitz. Lo studio di fattibilità condotto per conto dell'Ue ha rivelato che si tratta di un progetto "tecnologicamente possibile". Il costo previsto dell'infrastruttura è di circa 6-7 miliardi di dollari, ha aggiunto Steinitz. Il gasdotto East-Med sarà costruito anche grazie a capitali privati, con l'aiuto dell'Unione europea, ha affermato il ministro. Steinitz ha chiarito che non è stato ancora stabilito un meccanismo per stabilire la gestione della costruzione del gasdotto, che sarà uno dei temi al centro dei colloqui futuri fra i responsabili dei quattro governi. Il responsabile dell'Energia israeliano ha spiegato che durante la sua recente visita negli Usa, banche d'investimento con sede fiscale oltreoceano hanno espresso interesse nei progetti per la costruzione dell'infrastruttura.
  Fra i prossimi incontri in cui si discuterà del gasdotto East-Med quello all'inizio di aprile in Israele fra il ministro dello Sviluppo economico italiano, Carlo Calenda, e l'omologo Steinitz. I colloqui si concentreranno sull'avanzamento delle trattative per la costruzione dell'infrastruttura sottomarina per il trasporto di gas più lunga al mondo. L'incontro fra Calenda e Steinitz è atteso per il prossimo 3 aprile in Israele, ha affermato il ministro israeliano. Ricordando il precedente incontro con l'omologo italiano avvenuto all'inizio di questo mese a Roma, Steinitz ha espresso soddisfazione, definendolo "molto buono". Il responsabile del dicastero dell'Energia e delle risorse idriche israeliano ha precisato che "prima di tutto bisogna raggiungere delle intese tra gli esecutivi di Israele, Italia, Cipro e Grecia, sostenute dall'Ue". L'accordo intergovernativo consentirà alle compagnie di costruire il gasdotto, ha aggiunto Steinitz.
  Nel corso del suo intervento, il ministro Steinitz ha posto l'accento sul potenziale "molto elevato" del triangolo energetico offshore Israele-Cipro-Egitto. Attualmente le stime parlano di riserve potenziali finali "comprese fra 8 mila e 12 mila miliardi di metri cubi", ha affermato il ministro Steinitz, ricordando che nei prossimi due-tre anni potrebbero esserne fatte ulteriori. Sul possibile inserimento delle risorse energetiche libanesi nel "triangolo" Israele-Cipro-Egitto, Steinitz ha ricordato che vi è una disputa su 7 chilometri di acque territoriali che potrebbe essere "risolto con il dialogo e la mediazione". Negli ultimi anni sono stati fatti alcuni tentativi con la mediazione degli Stati Uniti, ma il problema non è stato risolto, ha chiarito il ministro.
  Nel corso dell'intervista a "Nova", Steinitz ha affermato che Israele potrebbe avviare le forniture di gas alla Turchia tra la fine del 2019 e l'inizio del 2020, dopo il raggiungimento di un accordo intergovernativo fra Gerusalemme ed Ankara. "L'auspicio comune è quello di creare un gasdotto con la Turchia, operativo nei prossimi tre anni", ha detto Steinitz citando l'incontro dello scorso ottobre 2016 con l'omologo turco Berat Albayrak, dopo il ripristino delle relazioni diplomatiche a giugno dell'anno scorso. "Finora vi sono stati tre round negoziali molto positivi ed amichevoli", ha precisato il titolare del dicastero dell'Energia israeliano. Rispondendo ad una domanda sulle fasi successive dei negoziati, il ministro Steinitz ha dichiarato: "Speriamo di concludere i colloqui con un accordo fra i governi o un memorandum d'intesa che apra la strada alla costruzione dell'infrastruttura da parte delle compagnie private e che consentirà di trasportare il gas israeliano verso la Turchia".
  Il gasdotto dovrebbe collegare il bacino energetico del Leviathan alle coste turche attraverso una conduttura sottomarina di circa 500 chilometri. Il costo complessivo dell'infrastruttura è di poco inferiore ai due miliardi di dollari, ha concluso il ministro. Per quanto riguarda l'impatto della questione cipriota sulla fattibilità del gasdotto Israele-Turchia, Steinitz ha dichiarato che non vi sono "problemi significativi" che possono ostacolare la creazione di un gasdotto fra i due paesi. L'infrastruttura "non passerà attraverso le acque territoriali cipriote, ma soltanto in parti della Zona economica esclusiva di Cipro". La posa della condotta sottomarina, lunga circa 500 chilometri, avverrà "in accordo con il diritto internazionale", ha chiarito il ministro. Pertanto "non vedo alcun problema significativo", ha affermato il ministro, interrogato sull'eventuale ostacolo posto dalla questione cipriota alla costruzione del gasdotto fra il giacimento Leviathan e la Turchia.

(Agenzia Nova, 22 marzo 2017)


Convegno sull'occupazione della Palestina. La Comunità Ebraica non gradisce, il Comune spiega

Il Comune concede il patrocinio a un'iniziativa culturale organizzata da associazioni locali sul tema dell'occupazione israeliana. Critiche da parte delle Comunità ebraiche per la presenza dell'associazione BDS.

"Abbiamo appreso che il giorno martedi 28 marzo, alle 20.30, si terrà presso l'Istituto Storico di Modena un convegno dal tema: 'Legalizzazione delle colonie israeliane nei territori palestinesi'. Si tratta di un convegno che vede tra i suoi principali organizzatori il Bds, movimento di boicottaggio che spicca da tempo per le sue violente posizioni di rancore anti-israeliano e anti-ebraico, e con grande amarezza e dispiacere apprendiamo che il Comune ha accordato a questa iniziativa il proprio patrocinio. Le chiediamo signor sindaco di voler ritirare ogni forma di sostegno concessa ad una simile iniziativa, nella certezza che trattasi di un involontario errore, e che lei condivida massimamente il danno che simili iniziative possano generare, diffondendo ulteriore odio nella più vasta popolazione cittadina".
Questo il contenuto della lettera che Noemi Di Segni, Presidente delle Comunità Ebraiche Italiane, e di Tiziana Ferrari, Presidente Comunità ebraica di Modena, hanno inviato all'amministrazione comunale di Modena, sottolineando la propria contrarietà all'evento della prossima settimana.
La replica non si è fatta attendere. "Il Comune non è né organizzatore, né co-organizzatore. L'iniziativa è stata ideata ed organizzata da associazioni che non da oggi, né da ieri, dialogano fruttuosamente col Comune a vario titolo: da Cgil e Nexus ad Associazione Modena incontra Jenin, Overseas, Pax Christi, Gavci ed altre ancora - spiega il Comune - Sono associazioni ben note, di diversa provenienza, che si occupano da decenni di pace, sviluppo, cooperazione internazionale e gestiscono progetti didattici ed umanitari.
"Aggiungiamo - prosegue il Comune - che l'associazione cui fanno riferimento i due firmatari della lettera indirizzata al Comune, a Modena non ha né sedi né altri legami, e pur figurando nell'ampio elenco dei soggetti organizzatori, non è previsto l'intervento di suoi esponenti in quella serata. Il patrocinio, a titolo non oneroso, è quindi stato accordato ad un evento che parla di un tema rilevante e con ospiti di qualità come Fausto Gianelli e Moni Ovadia: non è un giudizio di merito su quelle che saranno le tesi e le opinioni dei relatori, ma è palese che quel convegno sarà un momento di discussione in cui - come doveroso - non troveranno posto idee antiebraiche, religione anzi professata da una parte dei relatori".

(ModenaToday, 22 marzo 2017)


Le chiediamo signor sindaco di voler ritirare ogni forma di sostegno concessa ad una simile iniziativa...” Ma a quale titolo si fa una simile richiesta ad un’autorità comunale? Si è riconosciuta un’illegalità? Si dica qual è e la si denunci con chiarezza. “... nella certezza che trattasi di un involontario errore”. Il motivo dunque è questo: venire in aiuto a uno sprovveduto sindaco che non si è accorto di aver commesso "un involontario errore". Così si ottiene soltanto di irritare (comprensibilmente) le persone senza ottenere nulla di veramente positivo. Questo continuo bacchettare le autorità civili da parte delle autorità ebraiche non è di buon auspicio. Si spera che qualcuno se ne accorga. M.C.


Israele vuole tenere lontano l'Iran dai propri confini, anche a costo di provocare Mosca

GERUSALEMME - L'episodio del missile anti-aereo siriano intercettato nello spazio aereo israeliano dal sistema di difesa "Arrow" ha costretto Tel Aviv a mutare i protocolli d'informazione in merito ai raid della sua Aviazione in Siria, sottolinea un'analisi del quotidiano israeliano "Haaretz". In precedenza, i leader israeliani avevano sempre affrontato la questione in termini generali, denunciando i trasferimenti di armi dalla Siria a Hezbollah, senza però commentare nello specifico i resoconti di raid israeliani contro i convogli di armi diffusi dai media arabi. Il grave episodio dello scorso fine settimana, col lancio di missili anti-aerei contro velivoli israeliani, ha spinto il governo a dare la prima conferma ufficiale di questo genere di operazioni. Sia il primo ministro Benjamin Netanyahu, sia il capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane, Gadi Eisenkot, hanno parlato dell'accaduto. Netanyahu, durante i colloqui con i giornalisti che lo hanno accompagnato in Cina, ha detto di aver riferito al presidente russo Vladimir Putin che Israele continuerà ad attaccare i convogli d'armi, aggiungendo che Mosca non ha mutato la sua politica in merito agli attacchi israeliani. Il premier israeliano ha poi definito invariati gli obiettivi politici di Israele rispetto a quelli di cinque anni fa, poco dopo l'inizio della guerra civile siriana: evitare un coinvolgimento diretto di Israele nel conflitto, ma impedire il trasferimento di armi alle milizie libanesi di Hezbollah.
  Il governo israeliano, inoltre, non intende tollerare la presenza di ufficiali della Guardia della rivoluzione iraniana nel Golan siriano. Negli ultimi anni, le milizie siriane ribelli hanno assunto il controllo dell'area, ma dopo la controffensiva e la riconquista di Aleppo, il governo di Damasco sta ammassando le proprie forze proprio sul Golan settentrionale, e ha già costretto alcuni villaggi che hanno collaborato con i ribelli a firmare un cessate il fuoco. Israele, scrive "Haaretz", sospetta che gli agenti di Hezbollah abbiano già ripreso le operazioni vicino alla frontiera.
  La notte tra il 16 e il 17 marzo si è verificato l'episodio più grave fra Siria e Israele dallo scoppio della guerra civile siriana, sei anni fa. Secondo quanto riferito in un primo momento dai media israeliani e in seguito anche dalle autorità gli aerei dell'Aeronautica militare israeliana hanno colpito diversi obiettivi in Siria e in risposta, le forze del presidente siriano Bashar Al Assad hanno utilizzato i sistemi di difesa aerea, lanciando un numero imprecisato di missili verso i caccia israeliani. Nessuno dei missili ha colpito l'obiettivo, ma uno di essi era stato intercettato dal sistema antimissilistico Arrow, a nord di Gerusalemme. L'esercito israeliano ha dichiarato che il razzo contro Israele non era tra i più avanzati e che l'incidente è stato il primo ad aver azionato il sistema Arrow - diretto a contrastare la minaccia dei missili balistici - pur essendo in attività dalla fine degli anni Novanta. Non ci sono state vittime e l'ufficio del portavoce del militare israeliano ha confermato che sono stati colpiti obiettivi in Siria. E' la prima volta che Israele conferma di aver colpito obiettivi siriani da quando è iniziato il conflitto civile nel paese vicino. In passato infatti erano state diffuse notizie su raid israeliani contro convogli di armi diretti in Libano e destinati al movimento Hezbollah, ma la difesa di Gerusalemme non le aveva mai confermate.
  Parlando ai giornalisti lo scorso 20 marzo, il generale dell'Aeronautica israeliana, Zvi Haimovich ha dichiarato che "Israele non ha avuto alcuna esitazione nell'abbattere il missile siriano lanciato la scorsa settimana". "Si trattava di una minaccia balistica allo Stato d'Israele", ha detto Haimovich. "Le direttive, la politica e gli ordini sono molto chiari: neutralizzare e intercettare qualsiasi minaccia che mette in pericolo i residenti dello Stato d'Israele, e questo è anche quello che abbiamo fatto la scorsa settimana", ha aggiunto il generale. Il sistema Arrow, progettato per intercettare missili balistici, ha neutralizzato a nord di Gerusalemme uno dei missili siriani lanciati da batterie S-200 contro i velivoli delle Forze di difesa che avevano distrutto un convoglio di armi destinato ad Hezbollah.

(Agenzia Nova, 22 marzo 2017)


Gaza, fondi umanitari provenienti dalla Turchia dirottati nelle casse di Hamas per azioni militari

Lo ha denunciato il servizio di sicurezza interna di Israele, lo Shin Bet, attraverso il giornale on line Israel Project. Muhammad Murtaja, il coordinatore di Gaza per la Cooperazione e lo Sviluppo dell'Agenzia turca (Tika), è stato arrestato mentre tentava di viaggiare da Gaza alla Turchia.

Muhammad Murtaja
ROMA - Due palestinesi sono stati accusati di incanalare i fondi da enti di beneficenza turchi, stanziati per la ricostruzione di Gaza, al gruppo terroristico di Hamas. Lo ha denunciato il servizio di sicurezza interna di Israele, attraverso il giornale on line Israel Project. Lo Shin Bet - l'agenzia di intelligence per gli affari interni dello stato di Israele - ha riferito che Muhammad Murtaja, il coordinatore di Gaza per la Cooperazione e lo Sviluppo dell'Agenzia turca (Tika), è stato arrestato a febbraio - come ha scritto il Times di Israele - mentre tentava di viaggiare da Gaza alla Turchia. Un altro sospetto, Mehmet Kaya, capo della Fondazione turca per gli aiuti umanitari (IHH), non è ancora stato arrestato.

 Il dirottamento dei fondi
  "L'organizzazione terroristica Hamas - ha detto il generale Yoav Mordechai, coordinatore delle attività di governo nei territori - ha derubato i fondi che erano stati erogati per i bisognosi di Gaza, da parte delle organizzazioni internazionali. Hamas prospera a spese dei residenti della Striscia e utilizza le donazioni destinate per loro di finanziare il terrorismo". Secondo lo Shin Bet, Hamas ha reclutato Murtaja nel 2008 per raccogliere fondi di beneficenza destinati a "progetti umanitari significativi". "Lui - sostiene lo Shin Bet - ha fatto credere di aver deviato milioni di shekel in aiuti, invece ha dirottato quelle risorse ad Hamas, per equipaggiamenti militari".

 La formazione di militari
  Murtaja, sempre secondo quanto afferma Israel Project, avrebbe effettuato l'appropriazione indebita, consapevole la leadership di Hamas, "con Ismail Haniyeh a capo", ha precisato lo Shin Bet. A seguito della sua assunzione, Murtaja avrebbe anche partecipato alla "formazione e alle esercitazioni militari, alla produzione di ordigni esplosivi improvvisati, scavando tunnel", ha aggiunto il giornale on line, citando l'agenzia di intelligence. Durante il suo interrogatorio, Murtaja ha dato allo Shin Bet "informazioni operative" sulla rete di Hamas, a proposito di tunnel usati dai terroristi, e suoi futuri piani di guerra.

 La povertà che dilaga
  Il 59% dei palestinesi nella Striscia di Gaza vive, secondo statistiche recenti, in situazioni di estrema povertà: il 66% delle famiglie tira a campare con gli incentivi statali e l'81% riceve aiuti del ministero degli Affari Sociali. Inoltre, i capifamiglia del 4,5% delle famiglie sarebbero donne. Soltanto il 22% ha il minimo necessario per sopravvivere per più di due mesi, per la scarsità delle risorse. Dal ministero degli Affari Sociali si apprende poi che 122 nuclei famigliari sono interessati da gravi problemi di depressione e frustrazione.

(la Repubblica, 22 marzo 2017)


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Rubava i soldi ai bambini di Gaza per darli all'ala militare di Hamas

La vergogna del terrorista della Ong

di Pierluigi Battista

Di mattina era un importante manager che coordinava un programma di assistenza umanitaria gestito dal governo della Turchia, di sera era un uomo importante e determinante dell'ala militare di Hamas dove, tra l'altro, aveva il compito di sovraintendere all'addestramento militare e alle esercitazioni, nonché alla fabbricazione di ordigni esplosivi ed alla realizzazione degli scavi delle gallerie del terrore.
   
Muhammad Murtaja, 40 anni, è stato accertato dallo Shin Bet che da dieci anni lavorava per l'organizzazione terroristica, ricoprendo ruoli sempre di primo piano e molto importanti. Murtaja, infatti, non era un uomo soltanto d'azione ( a casa sua rinvenuto un vero e proprio piccolo arsenale, con bombe e fucili) anzi il suo apporto più importante è stato un altro. Da un lato aveva il compito di acquisire informazioni utili per la precisione dei razzi di Hamas in fase di lancio contro Israele e dall'altro fornire risorse finanziarie per Hamas.
   Ed è questo l'aspetto ancora più spregevole ed infamante dell'attività di Murtaja che lavorava per Tika, una ong del governo turco che aveva il compito di realizzare "progetti umanitari" nella Striscia di Gaza. Molti di questi progetti per i bambini di Gaza. Per alleviare la sofferenza di piccoli innocenti.
   
Ebbene, dall'inchiesta è emerso però che Murtaja ha ingannato l'organizzazione turca distraendo i fondi previsti (da destinare secondo i dettati "istituzionali" in alimenti, medicine, abiti ed altre esigenze di prima necessità soprattutto per i bambini) per i progetti umanitari nella Striscia di Gaza all'ala militare di Hamas in collusione con gli alti ranghi dell'organizzazione terroristica guidata da Ismail Haniyeh.
   
E l'indagine ha anche scoperto come veniva perpetrata questa truffa schifosa ai danni dei bambini. Murtaja forniva ai suoi superiori di Tika un elenco di bambini e residenti poveri della Striscia di Gaza che erano candidati a ricevere aiuti finanziari. Nomi fasulli. In realtà, quei denari finivano nelle tasche di Hamas o dei loro familiari. In questo modo, per mesi, soldi destinati ai bambini, agli indigenti sono invece andati ai leader del terrorismo palestinese.
   
Muhammad Murtaja, è stato accertato, ha così dirottato milioni di shekelim ai membri dell'ala militare di Hamas.
   Così come è stato inoltre accertato che la Fondazione turca Ihh nata anche per aiuti umanitari non ha fatto altro che finanziare l'ala militare di Hamas così come già dal 2008 aveva denunciato Israele. L'indagine ha scoperto che Mehmet Kaya, il coordinatore dell'ufficio di Gaza di Ihh, ha finanziato il leader di Hamas Ismail Haniyeh e Raad Saad. Il denaro trasferito dalla Ihh è stato utilizzato, tra l'altro, per la costruzione di un impianto per addestrare le forze marittime di Hamas, così come per l'acquisto di attrezzature e armi.

(Italia Israele Today, 21 marzo 2017)


Roma - Riaffiora a Trastevere la necropoli degli Ebrei

Durante gli scavi per la nuova sede di Adir spuntano 38 sepolture dell'antica comunità. Dal cantiere riemergono anche le concerie di Settimio Severo al servizio dell'esercito

Le tombe sono datate tra XIV e XVII secolo tra i semplici corredi trovati anche due anelli d'oro e una bilancia di ferro L'archeologa Rossi: «Ad una profondità di 8 metri si estende la fabbrica imperiale». L'area museo sarà visitabile su richiesta

di Laura Larcan

 La scoperta
 
  Uno scavo arrivato ad una profondità di otto metri dal livello stradale, e una storia inedita che si riscrive strato dopo strato. Trastevere si racconta nella vertigine di un viaggio a ritroso nel tempo, che intercetta capitoli di un Medioevo noto solo sulle carte d'archivio, per toccare l'epopea imperiale di Settimio Severo, fino ad ora evocata solo dalle fonti. Siamo a via delle Mura Portuensi, nel cantiere monumentale di Palazzo Leonori per la ristrutturazione della nuova sede delle Assicurazioni di Roma. È qui che è tornato alla luce il sepolcreto medievale della comunità ebraica di Roma, il cosiddetto Campus Iudeorum. Si tratta di una parte importante che ha restituito trentotto sepolture ( ciascuna con gli scheletri integri) databili tra la metà del XIV secolo e la metà del XVII secolo: momento chiave, il '600, quando il cimitero ebraico venne trasferito all'Aventino nell'area dell'attuale Roseto Comunale (come ricordano le aiuole che disegnano oggi la Menorah).
  Ed è sempre nelle fasi di scavo più profondo che per la prima volta sono stati identificati i resti di due edifici monumentali della grande conceria di Settimio Severo, il famoso impianto artigianale di proprietà statale voluto dall'imperatore per la lavorazione delle pelli al servizio principalmente dell'esercito, noto dalle fonti come i "Coraria Septimiana", risalente al III secolo d.C. Un lavoro durato quattro anni (si è scavato sotto e intorno a Palazzo Leonori), portato avanti dall'archeologa Daniela Rossi e dalla sua équipe della Soprintendenza statale (formata da ceramologi, numismatici, antropologi, archeozoologi, restauratori, chimici e biologi), e che solo oggi rende noto il tesoro del sottosuolo.

 Le prove archeologiche
  Partiamo dal Campus Iudeorum, noto solo sulle cartografie, e oggi dotato di prove archeologiche. «Le sepolture erano quasi tutte prive di oggetti di corredo, così come previsto dal rito ebraico - racconta Daniela Rossi - e l'unica epigrafe rinvenuta in ebraico, frammentaria, proviene da uno strato di obliterazione del sepolcreto: ciò senza dubbio fu il risultato anche dei decreti emanati da papa Urbano VIII Barberini nell'ottobre del 1625, che vietavano di apporre lapidi sulle sepolture degli Ebrei nello Stato Pontificio e imponevano di rimuovere e distruggere quelle esistenti». Trastevere era il quartiere ebraico per eccellenza. Qui le sepolture compaiono dal 1363 nello Statuto cittadino e durano fino alla metà del '600, quando la Compagnia della Morte ottiene l'area sulle pendici dell'Aventino. «Tra i 38 scheletri abbiamo constatato la predominanza di uomini adulti rispetto alle donne, e pochissimi bambini rispetto alla percentuale di minori riscontrati nelle necropoli romane di questo periodo», spiega l'archeologa Marzia Di Mento. «Dalle analisi autoptiche - continua Di Mento - emergono condizioni igienico-sanitarie molto critiche, segno che fosse una popolazione sofferente, con un'alimentazione incompleta e carente di proteine». In origine, i corpi erano stati deposti in casse di legno, testimoniate dal rinvenimento di chiodi e frammenti lignei.

 Le sorprese
  Non sono mancate le sorprese: due scheletri di donne hanno svelato anellini d'oro alle dita, mentre un uomo è stato sepolto con una bilancia di ferro: «Forse ad evocarne un'attività commerciale in vita, oppure simbolo di un uomo giusto», riflette Daniela Rossi. Quanto ai Coraria di Settimio Severo, tanti sono stati i dettagli sorprendenti: «Abbiamo identificato residui della calce utilizzata per i bagni in cui venivano immerse le pelli da trattare - avverte Rossi - oggetti metallici e frammenti delle anfore utilizzate per il trasporto dell'allume, il minerale impiegato per la concia vera e propria, oltre a numerosi frammenti di ossa animali». Il bello dell'operazione è che avrà anche la sua vetrina per il pubblico (su richiesta): il cortile museo, illuminato da un lucernaio, svelerà reperti e pannelli didattici. Tra le opere, un mosaico, e una bizzarra impronta di piedi (forse l'insegna di un calzolaio o un ex-voto).

(Il Messaggero, 22 marzo 2017)


Sempre contro Israele. L'Onu è ormai a maggioranza islamica

Lettera al Giornale

Le Monde scrive: «Sous la pression, l'Onu enterre le rapport accusant Israél d'apartheid» e sorge la domanda: ma l'Onu, con tutti i problemi causati dagli attriti fra Stati musulmani perché si occupa sempre di Israele che nei fatti è l'unica democrazia della regione? Evidentemente l'Onu, creato per difendere il diritto, si è allargato troppo con l'adesione di tante nazioni canaglia che negano la democrazia in casa propria e cercano di soffocarla in casa altrui. Solo qualche giorno fa qui a Parigi un musulmano gridando Allah è grande ha sgozzato il padre e il fratello e un altro ha ferito una poliziotta ad un posto di blocco dirigendosi verso Orly disarmando un'altra donna soldato prima che un altro militare lo uccidesse sul posto. Visto come l'Onu si comporta c'è da temere che intervenga in favore della minoranza musulmana nella nostra disunita Unione accusandoci di praticare a nostra volta l'apartheid per i campi profughi che da noi che sono sorti ovunque.
Nerio Fornasier Suresnes-Nanterre (Ile de France)


(il Giornale, 22 marzo 2017)


«Black-list anti-boicottaggio». La proposta che divide Israele

Il ministro Erdan vuole un database con i nominativi di tutti i cittadini israeliani e stranieri che partecipano al movimento di protesta. Anche raccogliendo dati sui social. L'avvocato dello Stato: «Così si mina il diritto alla privacy».

di Federica Zoja

 
Il ministro israeliano Gilad Erdan
Un database contenente i nominativi di cittadini israeliani e stranieri coinvolti nella promozione e nel sostegno del Movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele e gli insediamenti (Bds: Boycott, Divestment, Sanctions).
   È questa la proposta del ministro degli Affari strategici israeliano, Gilad Erdan, anche ministro della Pubblica sicurezza e dell'Informazione, incaricato dal governo di Benjamin Netanyahu di coordinare una risposta alla campagna internazionale Bds. A tale progetto, svelato dal quotidiano israeliano Haaretz, si oppone però l'Avvocato generale dello Stato, Avi Licht, secondo cui Erdan non ha il potere per stabilire questo precedente. Secondo il giornale, inoltre, il ministro (membro del partito Likud) sta cercando da mesi di far avanzare la sua iniziativa anche grazie a un'unità dei servizi segreti che sta raccogliendo informazioni non solo su attivisti stranieri del Bds, ma anche su israeliani coinvolti. A tale scopo, gli agenti stanno scandagliando fonti pubbliche come media, Internet e social network. Ed è su questo aspetto che l'Avvocatura di Stato ha molto da ridire: l'unica istituzione autorizzata ad attività di questo genere è lo ShinBet, il servizio di Sicurezza interno. Organizzare una struttura come quella pensata dal ministro Erdan per raccogliere materiale su cittadini israeliani «mina il diritto alla privacy di questi ultimi», riferisce Haaretz riportando le parole di Licht. Il caso, ricostruito con dovizia di particolari dal quotidiano, riporta sotto i riflettori il braccio di ferro in corso fra le autorità israeliane e il Movimento Bds (nato in Palestina, ma poi sviluppatosi su scala globale), che intende promuovere «scelte di consumo critico dei cittadini e di non collaborazione economica di istituzioni nazionali e locali con aziende ed enti implicati nell'occupazione israeliana della Cisgiordania e nelle pratiche che violano i diritti umani dei Palestinesi». Un movimento pacifico
         PACIFICO ?!?
, ma la cui crescita ha indubbie ripercussioni negative, di tipo economico e politico, su istituzioni e imprese israeliane.
   La mossa allo studio dell'esecutivo israeliano, per la verità, segue analoghe disposizioni già messe a punto da altri Stati: in particolare, Francia, Regno Unito, Canada e alcuni legislatori nazionali negli Stati Uniti hanno adottato norme e varato decreti esecutivi per mettere fuori legge e, in alcuni casi, sanzionare il sostegno a Bds, sia che esso provenga da singoli individui, aziende o istituzioni, pubbliche e private.
   Altri Stati, come Svezia, Olanda e Irlanda, invece, non aderiscono al boicottaggio di Israele, ma considerano il sostegno al Bds un legittimo esercizio della libertà di espressione. In gennaio (un mese dopo una risoluzione Onu che condannava gli insediamenti israeliani) un appello è stato sottoscritto da oltre 200 giuristi e docenti di diritto internazionale contro i provvedimenti adottati da diversi Stati per sanzionare il movimento. Il ministero degli Affari strategici di Israele, hanno riferito fonti vicine al dossier, sta cercando di coinvolgere nel progetto anche quello della Giustizia, dopo aver sensibilizzato nei mesi scorsi quello delle Finanze. Il contrasto al Bds sarebbe stato oggetto di una riunione di Gabinetto specifica, poiché a preoccupare il ministro Erdan è il numero di cittadini israeliani - in significativo aumento - che appoggiano Bds.

(Avvenire, 22 marzo 2017)


Leader di Hezbollah Badreddine morto a causa di una faida interna

GERUSALEMME - Ad uccidere il responsabile militare del movimento sciita libanese Hezbollah, Mustafa Badreddine, lo scorso anno in Siria sono stati componenti della milizia a cui apparteneva. Lo ha detto il capo di Stato maggiore israeliano, Gadi Eisenkot, parlando ad una conferenza sulla sicurezza. Sono state le informazioni raccolte dall'intelligence che hanno permesso ad Eisenkot ed al suo entourage di giungere a questa conclusione. Il responsabile militare di Hezbollah Badreddine, che era nella lista nera del terrorismo Usa, è stato ucciso in un'esplosione il 10 maggio 2016 nei pressi dell'aeroporto internazionale di Damasco. Hezbollah aveva accusato ''i radicali sunniti islamici'' dell'uccisione di Badreddine. Nelle settimane successive alla morte di Badreddine, i media israeliani avevano detto che era stato vittima di una faida interna al suo partito. Lo scorso 16 maggio 2016, il sito israeliano "Debkafile" legato all'intelligence, ha rivelato che "Badreddine Amine stava facendo rientrare le milizie di Hezbollah dalla Siria al Libano avendo adottato la linea di uscire dalla guerra siriana e questo non è stato accettato dal regime di Damasco e dalla Russia". Inoltre prima di morire, egli avrebbe avuto un incontro con il generale Qassem Suleimani, il quale aveva invitato Badreddine Amine a non ritirare i suoi uomini. Secondo gli analisti, la sua morte sarebbe stato un segnale di Siria e Russia ad Hezbollah per dire al movimento che "è impossibile uscire dalla guerra".

(Agenzia Nova, 22 marzo 2017)


Ebrei via da Tolosa

Nella città della strage le mura della scuola sono state alzate e i vetri oscurati. La metà ha fatto le valigie. "E se vince Marine Le Pen, in 300 mila abbandoneranno la Francia".

di Giulio Meotti

La scuola ebraica Ozar Hatorah di Tolosa
ROMA - Due giorni fa il Corriere della Sera ci ha addotto sul "viaggio" della tolleranza che ha intrapreso il fratello di Abdelghani Merah, l'attentatore che, il 19 marzo 2012, uccise una bambina, un rabbino e due suoi figli alla scuola ebraica Ozar Hatorah di Tolosa. Quella strage fu la prima di una lunga serie di attentati alla comunità ebraica culminata al supermercato Hyper Kasher di Parigi. Il Figaro ha parlato di un altro "viaggio": trecento famiglie della comunità ebraica di Tolosa hanno fatto le valigie e abbandonato la città. Il giornale francese parla apertamente di "esilio".
   Jean-Michel Cohen fu fra i primi ad accorrere sul luogo della strage alla scuola di Tolosa, dove persero la vita Jonathan Sandler, i suoi due figli Gabriel e Arieh, e Myriam Monsonego di sette anni. Dentista di cinquant'anni, Jean-Michel Cohen, che aveva goduto di una situazione "molto confortevole" in Francia, ha lasciato Tolosa dopo due anni e mezzo. "La situazione è diventata insopportabile e ho avuto paura per la mia famiglia", dichiara oggi da Israele Cohen. Come loro, trecento famiglie hanno lasciato Tolosa per fare l'aliyah dal 2012.
   "Tolosa è la città francese più colpita dalle partenze", dice Mare Fridman, vicepresidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche in Francia dei Pirenei. "E' un paradiso per noi", dice Cohen da Tel Aviv. "Qui noi siamo al sicuro. I miei figli vanno a scuola a piedi. Non abbiamo alcuna preoccupazione per loro. Sono più liberi che in Francia". Sua moglie ora lavora nel campo dell'istruzione nella città di Netanya, la "Riviera francese" come la chiamano gli israeliani per l'altissimo numero di immigrati dalla Francia. Mare Fridman parla di "un terribile senso di isolamento e frustrazione dopo il 2012. "Solo diecimila persone hanno partecipato alla marcia per la scuola Ozar Hatorah".
   La comunità ebraica di Tolosa contava fino a ventimila persone. Oggi sono rimasti in diecimila. Un altro attentato e potrebbe essere la fine per una delle culle dell'ebraismo francese. Jéròme ha lasciato la periferia di Tolosa per stabilirsi nella periferia di Tel Aviv con la moglie e i due figli di dieci anni. "Gli eventi alla Ozar Hatorah hanno influenzato da vicino i miei figli", ha detto Jéròme al Parisien. "Il clima era diventato insopportabile. Non era più la Francia dove sono nato. Un giorno mi sono chiesto quale futuro volevo dare ai miei figli e ho deciso di andare in Israele". Nonostante la minaccia delle bombe e l'ostilità dei paesi vicini, Jéròme si sente più sicuro in Israele che in Francia. "Ci si abitua a convivere con le sirene e i rifugi".
   In una classe della scuola di Tolosa presa di mira dagli islamisti, su sedici studenti all'ultimo anno, tredici pensano di andare a vivere in Israele. Nella sinagoga liberale a Tolosa, nel quartiere di Saint-Cyprien, le finestre che si affacciano sul cortile, lato strada, sono chiuse. Non a causa del sole, ma per non consentire all'esterno di vedere cosa accade dentro. "Ci si abitua a queste condizioni, ma non si può parlare di normalità quando si porta un bambino a una scuola dove i muri sono stati alzati a quattro metri di altezza, con filo spinato e protezione militare notte e giorno", dice Mare Fridman, che è portavoce del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche della regione e il cui figlio frequenta la scuola in Orh Torah, che ha cambiato nome dopo la strage. Per evitare di vivere con la paura costante, alcuni genitori hanno iscritto i loro figli in altre istituzioni private. Pesa sul futuro della comunità ebraica di Francia l'ombra delle elezioni presidenziali.
   E se accadesse l'impensabile, la vittoria di Marine Le Pen? Secondo l'ex deputato al Parlamento israeliano, Shmuel Flato Sharon, sarebbe la fine della comunità ebraica. "Israele ne trarrebbe vantaggio perché gli ebrei emigreranno. Ci sono seicentomila ebrei in Francia. Se Le Pen vince posso garantirle che entro un anno, trecentomila di loro saranno qui".

(Il Foglio, 22 marzo 2017)


Mantova - Cimitero ebraico, dopo due anni ancora nulla

REVERE - Un monumento storico di grande importanza, che purtroppo giace in stato di abbandono per una concatenazione di cause di fronte alla quale, al momento, non sembra esserci soluzione; per lo meno in tempio brevi: a quasi due anni dall'intervento di bonifica dell'eternit nell'ex stabilimento Bormioli di Revere, non si muove foglia per il cimitero ebraico situato all'interno dell'ormai ex sito produttivo e, stante la situazione, tutto rischia di restare in stallo per molto tempo. Colloqui telefonici con il sindaco di Revere Sergio Faioni e con il presidente della comunità ebraica di Mantova (proprietaria del piccolo cimitero) Emanuele Colorni hanno confermato che gli ultimi contatti tra i due soggetti succitati risalgono ad oltre un anno fa mentre l'ultima azione concreta della Bormioli risale a quasi due anni fa quando l'azienda investì circa 150mila euro per bonificare dall'eternit i tetti dell'ex stabilimento. Da allora più nulla e situazione in stallo.

(la Voce di Mantova, 21 marzo 2017)


Roma - Il Ghetto diventa «zona rossa». Arriva il rabbino capo d'Israele

A chi vuole passare per il quartiere verrà chiesto un documento per il timore di attentati.

Misure di sicurezza eccezionali per gli incontri di oltre 200 capi religiosi Spiegamento di agenti alla Sinagoga per la prima volta di Yosef in città

di Alessia Marani

Banco di prova per l'imponente security messa in campo da Questura e prefettura per i sessant'anni dei Trattati di Roma che si celebreranno sabato sarà la visita del rabbino capo d'Israele Yitzhak Yosef oggi in Sinagoga, a cui prenderanno parte i rabbini d'Italia. Il ghetto è super-blindato. Polizia, carabinieri e guardia di finanza presidiano l'area raddoppiando le normali misure di sicurezza rafforzando le operazioni di "access control" al Tempio Maggiore dal lungotevere fino al dedalo di vie e vicoli che si snodano fino a largo di Torre Argentina e al Teatro Marcello. Bonifiche in atto nella zona. GU agenti chiederanno di mostrare i documenti di residenza o di dimostrare di lavorare nell'area per potere entrare. Misure di sicurezza speciali in occasione della tre giorni di incontri, a porte chiuse, tra circa duecento rabbini convocati dalla European JewishAssoctation e dal Rabbinical Centre of Europe, che si concluderà domani pomeriggio in una location alle porte della Capitale. Occasione che ha richiamato anche Yitzhak Yosef.

 Il programma
  Oggi, dunque. l'evento clou in Sinagoga, finora i duecento "maestri" invece si erano incontrati per discutere di «crescita dei nazionalismi e della minaccia del terrorismo islamico», due facce della stessa medaglia che minano la stabilità europea. Tra le 15 e le 19 il rabbino capo sefardita d'Israele si intratterrà in colloqui privati, tra gli altri, con l'omologo della comunità romana Riccardo Di Segni e il presidente Ruth Dureghello. Nel suo discorso al Tempio Maggiore, dopo la preghiera delle 18, sottolineerà i punti più significativi delle sfide da affrontare. come individui e come comunità. Si tratta della prima volta nella Capitale per Yitzhak Yosef.

 I controlli
  Già all'indomani degli attentati jihadisti a Parigi del gennaio 2015 i controlli attorno alla Sinagoga erano stati rafforzati, la prefettura stabili d'imperio la chìusura al traffico di via del Tempio e di via Catalana, strade comunali. Duemila, invece. le donne e gli uomini delle forze dell'ordine che saranno sguinzagliati in città, sabato, quando quaranta leader mondiali e quattro cortei (oltre a un sit-in) sfileranno per il centro. Ma la macchina della sicurezza scalderà i motori fin da giovedì. Cento nuove telecamere saranno posizionate nelle due zone di massima sicurezza e lungo i percorsi dei cortei in aggiunta agli occhi elettronici della videosorveglianza cittadina: serviranno per aiutare i poliziotti a identificare gli eventuali responsabili di scontri e disordini ma, soprattutto. saranno utilizzate come strumento di prevenzione. In queste ore, infatti, la Digos sta valutando i profili di black bloc, antagonisti e frange violente anti-europeiste in collaborazione con le polizie europee e l'intelligence.

 I timori
  L'apprensione maggiore è che a Roma possano diventare nuovamente protagonisti i violenti che due settimane fa scatenarono la guerriglia contro le forze dell'ordine a Napoli durante il corteo anti-Salvini. Sono loro i supersorvegliati di questi giorni insieme con No Tav ed elementi di galassie dell'ultradestra e dell'ultrasinistra in arrivo dal Nordest. Ad alcuni no-global tedeschi e greci, infine, sarebbe già stato intimato di non lasciare i propri Paesi.
  A ciò si aggiunge la minaccia terroristica internazionale per cui la guardia non è mai stata abbassata.

(Il Messaggero, 21 marzo 2017)


Israele, maternità a cinque stelle con i boutique hotel per bebè

Da Tel Aviv a Gerusalemme, il fenomeno degli alberghi per neo genitori. La direttrice: "Insegniamo a muovere i primi passi con il neonato".

di Rossella Tercatin

 
La nursery - L'asilo per neonati del Baby Lis di Tel Aviv è sempre aperto per lasciare riposare le neo mamme. L'hotel, che è associato a un ospedale, tanto che quando la donna arriva in reparto con le doglie viene subito avvisato, organizza lezioni di allattamento al seno e insegna «trucchi» per prendersi cura del bambino, mentre lo staff dell'ospedale è sempre a disposizlone.

TEL AVIV - Grande andirivieni e un lieve profumo di borotalco. Sono queste le sensazioni che accolgono il visitatore alla reception del Baby Lis Hotel di Tel Aviv. Ci sono medici, infermiere, amici e parenti che si aggirano con palloncini rosa o azzurri. Ma soprattutto ci sono loro, mamme e papà che trasportano i bebè nelle culline di plastica per andare a bere un caffè al bar, incontrare il dottore nella nursery o partecipare al corso per imparare a fare il bagnetto.
  Ventisei camere a cinque stelle, pasti e pensione completa, più una serie di extra speciali. «Il nostro obiettivo è trasformare la maternità in un'esperienza da principessa» sottolinea Natalie Hurwits, energica quarantenne madre di tre figli e direttrice dell'albergo.
  Oltre a quello gestito da lei, in Israele, che è il Paese con il più alto numero di figli per donna dell'area Ocse (3,1), esistono altri tre baby hotel, Baby Assaf e Sheba Baby nei dintorni di Tel Aviv, e Hadassa Baby a Gerusalemme. A renderli unici è il fatto di essere parte degli ospedali cui sono associati, garantendo alle clienti la loro assistenza medica. Il Baby Lis, il solo completamente privato, si trova nello stesso complesso dell'Ichilov, eccellenza nel cuore della città. Le future mamme possono prenotare 60 giorni prima del parto. Quando arrivano in ospedale con le doglie, avvertono anche l'hotel, che rimane in costante contatto con i medici. Il trasferimento può avvenire già otto/dieci ore dopo la nascita.

 Nursery sempre aperta
  Hurwits spiega che l'impossibilità di programmare con precisione accettazione e partenza dei clienti è una grande sfida. La preoccupazione principale è però quella di garantire benessere totale. «Come madre so quanto le prime ore siano difficili, i dolori, le ansie, le emozioni. Per questo tutto deve essere perfetto».
  Così Baby Lis offre alle ospiti una nursery sempre operativa per lasciarle riposare e organizza lezioni di allattamento al seno e di trucchi fondamentali per prendersi cura di un neonato, mentre lo staff è a disposizione per ogni evenienza, come conferma Miry, ventiseienne italiana da qualche anno in Israele, in albergo con il marito David e la nuova arrivata Libby. «Abbiamo scelto l'ospedale Ichilov apposta per venire qui» spiega ricevendoci nella sua stanza, in cui si notano una poltrona con cuscini per rendere confortevole l'allattamento, un pulsante per le emergenze sopra il letto, e un fasciatoio ricoperto di piccoli omaggi, pannolini, ciuccio, biberon, salviette. «Dopo aver partorito ho passato una notte in ospedale, eravamo in quattro nella stessa camera, riposarsi era davvero difficile. Qui invece è fantastico. Abbiamo fatto tutti i corsi possibili e finalmente sono riuscita a dormire».

 Costi e assicurazione
  Certo, se il servizio è a cinque stelle, anche i prezzi non scherzano: una camera costa circa quattrocento euro al giorno, 450 se si aggiunge il papà. A coprirli è però spesso l'assicurazione sanitaria: in Israele l'assistenza di base è gratuita, e molti scelgono di pagare un extra tra i 10 e i 30 euro al mese per accedere a ulteriori servizi, tra cui i baby hotel.

 Dall'Asia all'Europa
  Popolari in Asia e soprattutto in Cina, dove la tradizione vorrebbe che dopo il parto la donna si ritirasse a riposare per un mese, gli alberghi di lusso per neomamme sono invece poco diffusi in Europa. «Ogni tanto vengono a chiedermi consigli su come riprodurre il business e sono sempre felice di darli - conclude Hurwits -. Per me questo posto è un po' come un quarto bambino, ci metto tutta la passione che ho. Vedere i genitori che escono da qui sereni e pronti per affrontare la loro nuova vita è una soddisfazione senza pari».

(La Stampa, 21 marzo 2017)


Prepariamoci all'invasione di robot con le ruote

Gli scenari futuri dopo che Intel ha acquistato per 15,3 miliardi di dollari la "Mobileye", società considerata tra le maggiori specialiste del settore. La visione di Shay Agassi, ingegnere ed imprenditore israeliano.

di Maurilio Rigo

L'ingegnere israeliano Shay Agassi
Gli analisti economici specializzati l'avevano previsto già da tempo: il business dei prossimi anni nel settore automotive si giocherà sulla partita dei veicoli a guida autonoma. Un trend sottolineato anche dalle alleanze strategiche sottoscritte dalla varie case automobilistiche con società leader nelle tecnologie elettroniche. Ecco quindi i grandi big scendere in campo per accaparrarsi le migliori soluzioni in questo mercato emergente, da Google a Uber, da General Motors a Fca, è partita la corsa alla conquista delle tecnologie per le auto a guida autonoma sulla scia del successo ottenuto dalla californiana Tesla di Elon Musk.
   L'ultimo colpo da maestro l'ha messo a segno la Intel che ha pagato 15,3 miliardi di dollari per la "Mobileye", società israeliana considerata tra le maggiori specialiste del settore che già aveva avviato collaborazioni importanti per l'autonomous drive con Volkswagen e Bmw.
   L'importo sborsato dal colosso informatico di Santa Clara è ben più cospicuo dei cinque miliardi pagati dalla Cisco per Nds e agli 1,2 di Google per Waze, a cui si aggiunge il miliardo di dollari pagato da General Motors lo scorso anno per Cruise Automation con l'obiettivo di accelerare il suo programma di auto autonome, mentre Uber nei mesi scorsi per 680 milioni di dollari ha rilevato Otto, società fondata da Anthony Levandowski, ex manager di Google. Senza dimenticare che nella corsa all'auto con guida autonoma c'è anche Fca, che ha siglato un accordo di collaborazione con Google per il minivan Pacifica.
L'acquisizione di Mobileye da parte di Intel è stata decisamente "strategica", poiché la società con sede a Gerusalemme fondata nel 1999 dall'attuale Ceo, Ziv Aviram, e dal professor Amnon Shashua della Hebrew University of Jerusalem, è nota per i suoi sofisticati sistemi "Advanced Driver Assistance Systems" basati su telecamere e sensori in grado di rendere la guida più sicura (sono disponibili anche sul nostro mercato in after market a circa 800 euro), e possiede tutto il know-how necessario per la realizzazione dei più avanzati dispositivi per la guida autonoma.
   Ecco quindi che si rafforzano le varie anticipazioni delle case automobilistiche pronte a immettere sul mercato entro un paio di anni questo tipo di veicoli, una volta superate le preventive fasi burocratico-amministrative.
   Già, perché se da un punto di vista tecnologico siamo praticamente pronti c'è da mettere a punto il "contorno" come evidenziato anche da Shay Agassi, ingegnere israeliano molto apprezzato in patria per le sue idee avanzate: "La prossima tappa - ha spiegato Agassi - è quella delle società di assicurazione. Una volta che esse approveranno gli algoritmi usati da Mobileye, ovvero accetteranno di assicurare le automobili autonome, si entrerà in una nuova era".
   La visione futuristica dell'ingegnere israeliano che precedentemente cercò di produrre in massa automobili elettriche va decisamente oltre:
    “Ma il concetto stesso di automobile privata è destinato a scomparire - prosegue Agassi. L'automobile diventerà un bene utilizzabile come la corrente elettrica o l'acqua dei rubinetti: utilizzabile soltanto quando serve, magari schiacciando un bottone. Poi se ne andrà al servizio di altri fruitori, alla stregua dei taxi delle metropoli. Le città del futuro non avranno più le strade intasate da automobili parcheggiate lungo i marciapiedi, perché non saranno più necessarie. I municipi gestiranno le automobili autonome, probabilmente elettriche: allora ci sarà meno inquinamento, e meno necessità di petrolio a livello mondiale. E gli incidenti stradali, causati in grande maggioranza da errori umani, diventeranno un ricordo del passato".
Insomma, il futuro dell'auto che si guida da sola non è più fantascienza, prepariamoci allora ad assistere all'invasione di questi robot con le ruote, e a dire addio al "piacere di guida".

(la Repubblica, 20 marzo 2017)


Insospettabili amici lontani
      Articolo OTTIMO


Nei paesi dove imperversano davvero oppressione e miseria è più facile che la discussione sia esente dal terzomondismo che domina fra i privilegiati, intrappolati nei di sensi di colpa.

Oreste era un insegnante in una scuola privata, quando ancora ne esistevano. Ora lavora presso l'Hotel Nacional, a L'Avana, offrendo ai turisti come me acqua, caffè e occasionalmente qualche prezioso consiglio. Durante una di queste chiacchierate, vede la Stella di David che porto al collo e mi chiede se vengo da Israele. Alla mia prudente risposta "sì, in un certo senso", estrae un tovagliolino di carta e inizia a disegnare qualcosa, invitandomi a guardare: "Questa è Gaza, giusto? E questo è Israele". Oreste indica il tovagliolino e io non dico niente, sapendo per esperienza che questo genere di conversazioni possono finire in molti modi. Così si china in avanti e aggiunge con entusiasmo, rimarcando ogni parola: "Guarda, lo so che, a causa della politica, il mio governo dice che Israele è il male e la Palestina è il bene, ma io ero un insegnante e ho letto molto. So tutto di Fatah e Hamas, e so esattamente quanto Gaza sia vicina a Israele. E so che se sei un civile e vivi qui, e Hamas lancia razzi su di voi, il vostro paese deve difendersi"....

(israele.net, 21 marzo 2017)


Chagall: omaggio a uno dei geni dell'arte ebraica

In attesa della conferenza al Beth Shlomo su "Arte e ebraismo"

di Roberto Zadik

 
Marc Chagall, "La passeggiata"
MILANO - Stavolta non parlo di registi o di cantanti, ma passo alla pittura ebraica e a uno dei suoi esponenti più espressivi e longevi come Moshe Segal meglio conosciuto come Marc Chagall, vissuto 98 anni e nato 130 anni fa il 6 luglio 1887 (Cancro ascendente Scorpione). Ebreo bielorusso di famiglia osservante e chassidica ha attraversato il Novecento e tutte le sue contraddizioni restituendo al mondo l'universo perduto e distrutto per sempre degli Shtetl, villaggi ebraici resi noti da film come "Il violinista sul tetto" e da tanta letteratura ebraica, da Shalom Aleichem a Singer.
   Chagall è stato assieme a Camille Pisarro e a Amedeo Modigliani uno dei pittori ebrei più importanti e ne parlerò mercoledi 22 marzo dalle 20.30 alla sinagoga Beth Shlomo nella serata "Ebraismo, arte e fumetti. Dalla Torah a Chagall, da Modigliani a Superman".
   Ma che tipo era Chagall e come mai i suoi quadri sono tanto importanti? Artista molto celebre fra le vecchie generazioni e un po' dimenticato, e scusate se dico sempre quello che penso, dai giovani - e lo dico da ex appartenente a questa illustre categoria -, Chagall si contraddistingue per la personalità sognante, misteriosa e combattiva e per la profonda vena onirica, nostalgica e autobiografica che caratterizza le sue tele. Sposato due volte e rimasto vedovo alla fine della Seconda Guerra Mondiale - ha ritratto spesso e volentieri sua moglie Bella, seppur trasfigurata dalla fantasia, in quadri come "La passeggiata" o ne "Il compleanno" -, questo artista ha vissuto un'esistenza lunga e piena di soddisfazioni ma anche di difficoltà. Vissuto in vari Paesi, dalla nativa Bielorussia alla Francia, dove strinse amicizia con Picasso, Braque e il poeta Apollinaire, a Israele, Chagall rappresentò la tipica condizione ebraica novecentesca pre e post Shoah di apolide e sradicato e al tempo stesso molto legato alla sua terra, come accadde a diversi artisti e scrittori del mondo ebraico ahskenazita e italiano che non persero mai il legame con le loro origini pur vivendo a chilometri di distanza dal luogo natio.
   Come ebreo fra la fine dell'ottocento e la Shoah subì varie persecuzioni, il villaggio natale di Vitebsk venne incendiato dalle truppe dello zar e dovette lasciare la sua casa assieme alla famiglia e così fu costretto a abbandonare la bellissima Parigi Belle epoque invasa dai nazisti nascondendosi a Marsiglia. Nonostante drammi e sofferenze di vario tipo, devastato dalla scomparsa della moglie Bella Rosenfeld, si risposò nel 1952 con Valentina Brodsky, anche lei ebrea russa. Assieme andarono nell'appena nato Israele dedicandosi a dipingere opere come le vetrate dell'Ospedale Hadassah e poi del Parlamento, la Knesset. Pur con momenti di assimilazione e di confusione, Chagall mantenne sempre molto forte la propria identità ebraica ispirandosi costantemente alla Torah e alle sue radici ebreo russe, come ben si vede in tele come "L'ebreo in rosa", "Mosè che riceve le tavole della legge" e "La sinagoga di Vilna" con tele scintillanti di colori, di sogni e di emozioni ma sempre delicate e eleganti, lontane dalla malizia decadente e anch'essa di grande livello di Modigliani. Pur assorbendo influssi cubisti, fauvisti e avanguardisti, Chagall restò sempre coerente con lo stile fiabesco sfuggendo, come gli imponeva la sua natura riservata e anticonformista a qualsiasi etichetta o definizione, assorbendo e rielaborando qualunque genere ma senza appartenere a nessun genere o filone predefinito.
   Molto attivo fra gli anni 20' e gli anni 50' e sempre meno, ormai molto anziano, dagli anni '80 in poi, Chagall ha vissuto pienamente il 20esimo secolo spegnendosi nel 1985 nella sua amata Francia e è sempre stato colto e poliglotta parlando perfettamente russo, yiddish e francese che divenne la sua seconda lingua come nel caso dello scrittore Elie Wiesel e dei due intellettuali romeni, Ionesco e Cioran.

(Mosaico, 20 marzo 2017)


Calcio - Da Gerusalemme a Roma, dialogo a tinte giallorosse

È da sempre un punto di riferimento per progetti sportivi nel segno del dialogo, del reciproco rispetto, dell'incontro tra diversi. Il Roma Club Gerusalemme, realtà che da molti anni opera per avvicinare ebrei e musulmani sul campo da calcio, è arrivato in queste ore in Italia con una nutrita delegazione di dirigenti e atleti.
Una settimana ricca di appuntamenti per il Club, accolto questa mattina in Parlamento e atteso nei prossimi giorni da diverse iniziative. Partite amichevoli con rappresentative locali, ma anche incontri con rappresentanti dello sport e del calcio italiano. La sfida, sempre quella: condividere un messaggio profondo, che va oltre l'agonismo.

(moked, 20 marzo 2017)


Gaza: un clown fa sorridere bimbi malati

Curato da bambino in Israele, restituisce gioia a chi soffre

Nella disastrata Gaza, dove la povertà è di casa e dove negli ospedali si respira sconforto, c'è un giovane che malgrado tutto crede fermamente nella terapia del sorriso. Si chiama Abdallah Abushaban, ha 23 anni, si è appena laureato in giornalismo, ma a causa della disoccupazione dilagante si adatta a svolgere lavori occasionali. Lo si può dunque incontrare nelle corsie dell'ospedale Rantisi, 'armato' di una fisarmonica, di un ombrello, di palloncini colorati e di fischietti. Tutto per strappare un sorriso ai bambini più malati.
Il suo obiettivo è diventare clown professionista: ma nella Striscia nessuno gli sa insegnare quel mestiere così insolito.
Allora Abdallah si è messo in spalla lo zainetto (dove conserva i trucchi del mestiere) ed è andato in Israele a incontrare i colleghi che si danno da fare per far ridere i bambini gravemente ammalati. Anche Abdallah da bambino era stato ricoverato in Israele per un tumore che gli impediva di respirare. Operato, riacquistò la gioia di vivere.

(ANSA, 20 marzo 2017)


A Roma il rabbino capo di Israele che incontrerà nella Capitale, altri duecento rabbini

Yitzhak Yosef, rabbino capo sefardita d'Israele
Martedì pomeriggio è prevista in Sinagoga una riunione con la partecipazione del rabbino capo d'Israele Yitzhak Yosef. L'iniziativa, a quanto si è appreso, si inserisce nell'ambito di una tre giorni di incontri, a porte chiuse, tra circa duecento rabbini. Una tre giorni in corso da oggi fino a mercoledì alle 14 e che prevede per la sola giornata di martedì l'evento in Sinagoga. Le altre giornate si terranno in un'altra location. In Sinagoga tra le 15 e le 19 di martedì il rabbino capo d'Israele avrà colloqui privati tra gli altri con l'omologo della comunità romana Riccardo Di Segni e il presidente Ruth Dureghello. In serata poi l'incontro con la comunità ebraica capitolina.

 E' la prima volta di Yitzhak Yosef nella Capitale
  Si tratta della prima volta nella capitale per il rabbino capo Yitzhak Yosef. Domani quindi ad essere blindata sarà la zona attorno al Tempio Maggiore per la visita del rabbino capo seferdita d'Israele. Per quanto concerne sabato, invece, le aree di sicurezza "blue zone" e "green zone", in funzione di "controllo", saranno attive sin dal 23: è stato infatti messo a punto il sistema di acquisizione delle immagini dei partecipanti alle manifestazioni, utilizzando il sistema di video sorveglianza cittadina, implementato da postazioni, palesi e nascoste, lungo i percorsi.

(Fonte: Jobsnews.it, 20 marzo 2017)


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Duecento rabbini si incontrano a Roma: "Il nostro impegno contro l'odio"

La crescita dei nazionalismi da una parte, la minaccia del terrorismo islamico dall'altra. Due facce dell'odio che sempre più intensamente minaccia la stabilità e l'unità d'Europa.
Nei giorni in cui gli occhi del mondo sono puntati su Roma, dove il 25 marzo si celebrerà il 60esimo anniversario della firma dei Trattati alla presenza dei diversi capi di Stato dei paesi coinvolti, numerosi rabbini si danno appuntamento nella Capitale per una riflessione il più possibile esaustiva in tal senso.
Convocata dalla European Jewish Association e dal Rabbinical Centre of Europe, la tre giorni di riflessione ha preso avvio nelle scorse ore, in una località alle porte di Roma.
Oltre duecento i Maestri, giunti da tutto il mondo, che ne sono protagonisti. Con ospite d'onore il rabbino capo sefardita d'Israele, rav Yitzchak Yosef, atteso domani sera da un pubblico intervento nel Tempio Maggiore di Roma in cui sottolineerà i punti più significativi da affrontare, come singoli individui, ma anche come Comunità.
Insieme al rav Yosef interverranno tra gli altri anche il rabbino capo d'Olanda rav Binyomin Jacobs, il presidente dell'Assemblea rabbinica italiana Alfonso Arbib, il rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni, il direttore generale della European Jewish Association rav Menachem Margolin.

(moked, 20 marzo 2017)


Li Keqiang accoglie la visita di Netanyahu in Cina

Il pomeriggio del 20 marzo, il Premier del Consiglio di Stato cinese Li Keqiang ha tenuto una cerimonia per dare il benvenuto al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu in visita in Cina. I due leader si sono trovati d'accordo a sviluppare il partenariato innovativo completo, ad accelerare i negoziati sulla zona di libero scambio sino-israeliana, a rafforzare la cooperazione e gli scambi bilaterali negli affari internazionali e regionali per impegnarsi a tutelare la pace e la stabilità, e a promuovere lo sviluppo e la prosperità.

(CRI, 20 marzo 2017)


Israele non è causa dell'antisemitismo

Alan Dershowitz le suona a Lord Roderick Balfour e gli ricorda del trisavolo

da Jerusalem Posi (7/3)

In una recente lettera al New York Times, l'attuale conte di Balfour, Roderick Balfour, ha sostenuto che "l'aumento dell'antisemitismo in tutto il mondo" è colpa di Israele. Roderick Balfour, che è un discendente di Arthur Balfour, il ministro degli Esteri britannico che cento anni fa promulgò la Dichiarazione Balfour, ha scritto: "La crescente incapacità d'Israele di affrontare la condizione dei palestinesi e l'espansione degli insediamenti ebraici in territorio arabo sono i principali fattori di crescita dell'antisemitismo in tutto il mondo". Balfour sostiene inoltre che il primo ministro israeliano Netanyahu "deve una soluzione del conflitto israelo-palestinese ai milioni di ebrei in tutto il mondo" che subiscono l'antisemitismo.
   Commenta Alan Dershowitz, grande avvocato liberal e difensore dello stato ebraico: "Questa opinione, magari animata da buone intenzioni ma totalmente miope, appare particolarmente paradossale alla luce del fatto che la Dichiarazione Balfour del 1917 aveva, tra i suoi scopi principali, quello di porre termine all'antisemitismo in tutto il mondo (e ai suoi pretesti) attraverso la creazione di una patria per il popolo ebraico. Ma ora il rampollo di Lord Arthur Balfour ci dice che è proprio Israele la causa dell'antisemitismo. Chi odia gli ebrei 'in tutto il mondo' perché non condivide la politica di Israele sarebbe pronto a odiare gli ebrei in base a ogni altro possibile pretesto".
   Gli antisemiti moderni, prosegue Dershowitz, "a differenza dei loro antenati, hanno bisogno di trovare delle scuse per giustificare il loro odio, e l'antisionismo è diventato la scusa del giorno. Per verificarlo basta considerare altri paesi. Forse che c'è stata un'esplosione di sentimenti anticinesi in giro per il mondo a causa dell'occupazione cinese del Tibet? Si è forse registrata un'ondata di odio per gli americani di origine turca a causa della indisponibilità della Turchia a porre fine all'occupazione di Cipro? Forse che gli europei di origine russa subiscono forme di fanatica intolleranza a causa dell'invasione russa della Crimea? La risposta è un chiaro e netto no. Se gli ebrei sono l'unico gruppo che soffre a causa delle controverse politiche del governo israeliano, la responsabilità ricade tutta sugli antisemiti e non sullo stato nazionale del popolo ebraico. L'antisemitismo, il più antico odio pregiudiziale, continuerà a esistere grazie anche agli apologeti come Balfour che lo giustificano. Anche se Balfour non lo dice esplicitamente, il senso di tutta la lettera è che l'odio contro gli ebrei è per lo meno comprensibile alla luce delle politiche di Israele".
   Dershowitz: conclude con un auspicio: "Che le celebrazioni per la Dichiarazione Balfour vadano avanti senza la partecipazione di Roderick Balfour e che i palestinesi si siedano al tavolo dei negoziati e riconoscano Israele come lo stato nazionale del popolo ebraico così come intendeva la Dichiarazione Balfour".

(Il Foglio, 20 marzo 2017)


Iran, Hezbollah e Hamas nel mirino di Israele sullo sfondo del conflitto tra musulmani

di Eric Salern

 
Su un punto concordano tutti: la guerra civile siriana è il conflitto più devastante dalla fine della Seconda guerra mondiale. In termine di vittime civili, di numero di profughi, di distruzione di uno stato progredito seppure non del cosiddetto primo mondo.
Sei anni dopo l'inizio della pacifica rivolta popolare contro il regime di al-Asad è sempre più chiaro che la Siria e il suo popolo stanno pagando il prezzo di tensioni religiose, gelosie politiche e sociali, contrasti geopolitici che vanno ben oltre le frontiere dello stato nato, come molti altri in Medio Oriente, dal colonialismo britannico e francese. E che ci vorrà ancora tempo perché possa consolidarsi una realtà nuova.
   Le frontiere della Siria sono già cambiate, seppure non ufficialmente, e subiranno altre modifiche man mano che le forze interne alla regione e quelle che manovrano da fuori, cercheranno di consolidare le loro egemonie. Cambieranno, ugualmente, le frontiere dell'Iraq, altra nazione devastata dai giochi della superpotenza americana ancora oggi incapace di comprendere le complessità della regione che calpesta senza troppo riflettere lasciandosi manovrare dai suoi alleati locali o dal vecchio mondo colonialista europeo.
   Nessuno poteva prevedere dove sarebbe arrivata la protesta cominciata il 15 marzo 2011 a Damasco ed esplosa a Daraa dove le forze di sicurezza siriane avevano arrestato un gruppo di ragazzi per aver imbrattato le mura con graffiti. Come sottolinea il collega Alberto Negri, inviato del Sole-24 Ore, nel suo ottimo "Il musulmano errante" (ed. Rosenberg e Sellier) appena pubblicato, "la cronaca di questo conflitto, con notizie difficili da verificare anche stando sul posto, è contrastante". Meno incerti, spiega, sono le sue origini religiose, settarie. "Gli alauiti, coloro che... furono per secoli perseguitati, oggi sono in Siria l'unica minoranza al potere nel mondo musulmano".
   Per dare un'etichetta all'assalto dei terroristi alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono a Washington qualcuno coniò l'espressione dubbiosa "scontro di civiltà". Quello che sta accadendo in Medio Oriente è, invece, uno scontro all'interno della medesima religione, l'Islam che, come è avvenuto per altri mondi e altri religioni, viene sfruttato nell'ambito di giochi di potere molto più terrestri.
   La religione è al governo in Iran come in Arabia saudita e i rispettivi leader cercano di consolidare e allargare le loro sfere d'influenza sfruttando la rinnovata contrapposizione tra le superpotenze e le acrobazie delle vecchie potenze coloniali.
Con un certo successo finora, Putin sta portando la Russia a occupare spazi che l'Urss ricopriva e dalle quali fu estromessa. Washington con Trump è incerta ma sembra interessata a un nuovo equilibrio regionale. I terroristi dell'Isis sono quasi sconfitti, dicono gli esperti militari, ma le tensioni stanno crescendo.
   Il vero problema ora, dicono i leader politici e militari in Israele sostenuti dalla stampa tutta, "resta l'Iran, Hezbollah e a Gaza, Hamas". E fanno capire che forse sarebbe meglio un attacco preventivo contro il massiccio arsenale missilistico degli sciiti in Libano o dei palestinesi (sunniti) a Gaza e forse addirittura contro l'Iran.
   Anche per Israele sono cambiati gli equilibri. La famiglia del dittatore Assad è alauita. Come minoranza si era alleata con altre minoranze etniche e religiose siriane e con l'Iran in quanto costola seppure dubbiosa del mondo sciita. E tutto sommato si era alleata con Israele in una logica mafiosa.
   Nonostante Damasco volesse indietro le alture del Golan conquistate da Israele nel 1967 dalla Siria non erano mai partiti attacchi contro il paese nemico. Tanto che Netanyahu esortò l'amministrazione americana a non intervenire contro Assad. L'alauita nemico degli arabi sunniti faceva comodo a Israele. Oggi quel nemico è nell'orbita iraniana e altri giocatori come Mosca e Ankara stanno guadagnando terreno e si apprestano a cogliere o determinare i bottini dei nuovi probabili conflitti. E ridisegnare la mappa della regione.

(L'Huffington Post, 20 marzo 2017)


Mantova - I rabbini americani a Gentiloni: "Salva l'antico cimitero ebraico"

In ballo 18 milioni per riqualificare l'area. La surreale vicenda del cimitero e di un'area da riqualificare con al centro l'antico cimitero che fu venduto agli austriaci e poi allo Stato. Il suo destino si incunea nella mega riqualificazione dell'area progettata dall'architetto Boeri. I rabbini italiani disponibili, gli ortodossi di Usa e Canada non ci stanno e chiedono di fermare le ruspe

di Emanuele Salvato

Il cimitero ebraico di Mantova
Un antico cimitero ebraico, risalente al 1442, si trova nel bel mezzo dell'area interessata a un progetto di riqualificazione urbana per il quale il Comune di Mantova ha già ottenuto un finanziamento pubblico di 18 milioni di euro, all'interno del cosiddetto 'Bando Periferie' emanato direttamente dalla Presidenza del Consiglio. Un'idea di rigenerazione urbana basata su un masterplan dell'architetto Stefano Boeri che coinvolgerà un'area di 25mila metri quadrati e che promette di trasformare una zona in forte stato di degrado e insicurezza nel fiore all'occhiello della città. In particolare, per l'area che comprende il cimitero ebraico, il progetto prevede una 'Piazza della Terra' con un centro di ricerca ambientale, uno spazio dedicato all'agricoltura e ai prodotti tipici locali e un settore riservato al reinserimento di persone svantaggiate.
  Ma il progetto non piace ad alcuni influenti rabbini ortodossi, rappresentanti delle comunità ebraiche statunitensi, canadesi e israeliane che vorrebbero una tutela diversa per il cimitero di San Nicolò dove sono sepolti eminenti cabalisti della tradizione ebraica come Azariah Da Fano e Rabbi Moshé Zacuto. Il potente congresso Rabbinico Centrale di Stati Uniti e Canada, nel febbraio scorso, ha anche inviato una lettera al presidente del consiglio Paolo Gentiloni per scongiurarlo di fermare il piano poiché, a dir loro, equivarrebbe a una profanazione di un luogo sacro. La lettera è l'ultimo atto di una diatriba che sta coinvolgendo anche l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, la Comunità Ebraica locale e, ovviamente, il Comune di Mantova.
  Tutto inizia nel dicembre scorso quando Rav Shmaya Levi, influente rabbino ortodosso israeliano e studioso della storia dell'ebraismo, viene a sapere che il Comune di Mantova ha approvato un maxi piano di riqualificazione urbana su un'area all'interno della quale sorge l'antico cimitero ebraico di San Nicolò autorizzato da Francesco Gonzaga nel 1442 e chiuso da Giuseppe II nel 1786. Il cimitero era stato venduto dalla Comunità ebraica al genio militare austriaco nel 1852 ma, come riportato da alcuni documenti storici presenti nell'Archivio di Stato, il contratto di vendita riportava alcune clausole come quella che il terreno dovesse rimanere libero da costruzioni e a disposizione della Comunità ebraica per nuove sepolture. Nel corso degli anni su una parte dell'area sono stati costruiti cinque capannoni militari e una polveriera napoleonica e nel corso della Seconda Guerra mondiale la caserma è stata trasformata in campo di concentramento per i militari italiani. In questi mesi si sta concludendo il passaggio di proprietà dal Demanio al Comune. Il rabbino israeliano, nonostante tutte queste trasformazioni subite dall'area che è divenuta oramai una selva incolta, ritiene che il piano di recupero del Comune non sia consono e chiede di incontrare il sindaco.
  "Nel corso di quell'incontro - spiega l'assessore all'ambiente Andrea Murari - l'amministrazione comunale diede la massima disponibilità a trovare un punto di incontro con i rabbini che prevedesse un'idea progettuale condivisa di tutela del cimitero ebraico. Ma allo stesso tempo siamo stati chiari nel dire che non potevamo fermare tutto e rinunciare a 18 milioni di euro di finanziamenti pubblici". Nel frattempo il primo cittadino di Mantova chiede e ottiene di incontrare Noemi Di Segni, presidente dell'Ucei. L'incontro avviene a gennaio del 2017 nella sede comunale di Mantova e sono presenti anche il presidente della Comunità ebraica locale, il sovrintendente ai beni paesaggistici e architettonici e i rappresentanti degli ebrei ortodossi. "In quell'occasione - spiega ancora Murari al fattoquotidiano.it - abbiamo gettato le basi per una collaborazione operativa prevedendo il coinvolgimento dei rappresentanti della Comunità ebraica nel momento in cui si sarebbe arrivati a pensare e progettare una 'Casa della Memoria' nell'area. All'Ucei e alla Comunità ebraica locale abbiamo assicurato che sarà riservata la massima attenzione all'area e che gli interventi saranno rispettosi e non invasivi. Si è anche stabilito che, prima di definire nei dettagli le modalità di tutela, si sarebbero attivati interventi di indagine sotterranea utili a stabilire cosa ancora fosse presente nel sottosuolo. Il tutto a carico del Comune".
  Dall'incontro escono tutti soddisfatti, come conferma anche Noemi Di Segni: "Con l'amministrazione comunale si è convenuto di lavorare nella direzione della tutela dell'area cimiteriale attraverso una serie di passaggi che prevedono il coinvolgimento dei rappresentati della nostra comunità. Alle Comunità ebraiche estere deve essere chiaro che il soggetto istituzionale di riferimento in casi come questo è l'Ucei. In Italia ci sono delle leggi e dei percorsi istituzionali da seguire e siamo noi, come Ucei, che dobbiamo confrontarci con il Comune di Mantova per assicurare che l'area del cimitero di San Nicolò sia adeguatamente tutelata e valorizzata all'interno di un progetto di riqualificazione che non deve essere fermato". Sulla stessa lunghezza d'onda anche Emanuele Colorni, presidente della Comunità ebraica di Mantova che non esita a definire "assurde" le richieste dei rabbini ortodossi. "La Comunità ebraica di Mantova- precisa Colorni - è estranea alla vicenda, poiché se ne deve occupare l'Ucei. Ma gli ebrei americani e canadesi avanzano pretese che non condivido".
  Ma, a quanto pare, il Congresso Rabbinico Centrale di Stati Uniti e Canada intende continuare a fare di testa propria e, come detto, nei giorni scorsi ha inviato una lettera al presidente Gentiloni. Nella missiva chiede al premier di attivarsi per salvare il cimitero ebraico e impedire che il piano pensato dal Comune di Mantova vada avanti. "Si tratta di un'iniziativa privata dei rabbini stranieri - precisa Noemi Di Segni - e so che non è l'unica. Hanno scritto anche alla Farnesina e alle ambasciate israeliane, statunitensi e canadesi in Italia. Ma l'Ucei vuole dare l'immagine di un ebraismo che si integra e interagisce con la comunità in cui vive. Noi non pensiamo in maniera meno religiosa dei rabbini stranieri, ma dobbiamo rispettare i percorsi istituzionali italiani e per la parte più strettamente spirituale ci avvarremo della consulenza del consiglio dei rabbini italiani. Se non rispettiamo le regole corriamo il rischio che ogni giorno un'associazione diversa vada in pellegrinaggio in Comune a Mantova per avanzar le proprie pretese sull'antico cimitero di San Nicolò e questo non è accettabile".

(il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2017)


Caccia israeliani nel mirino dei siriani. Israele minaccia i sistemi di difesa aerea

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha minacciato oggi di distruggere i sistemi di difesa aerea della Siria dopo che caccia israeliani sono stati presi di mira da missili terra-aria durante un'operazione in territorio siriano. "La prossima volta che i siriani useranno i loro sistemi di difesa aerea contro i nostri velivoli li distruggeremo senza la minima esitazione", ha detto Lieberman alla radio pubblica israeliana. Venerdì scorso caccia israeliani hanno colpito diversi obiettivi in Siria, a cui il governo di Damasco ha risposto con il lancio di missili. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che i raid hanno preso di mira armi dirette all'organizzazione libanese Hezbollah. In un comunicato, l'esercito israeliano ha quindi riferito di "diversi missili anti-aereo" lanciati dopo il raid. Uno di questi è stato intercettato dal sistema di difesa aereo israeliano Arrow.
   Si tratta del più grave incidente avvenuto tra Siria e Israele dall'inizio della guerra civile siriana, sei anni fa. Siria e Israele sono ancora tecnicamente in stato di guerra, a seguito del conflitto del 1967 e dell'annessione da parte israeliana delle Alture del Golan. Ma la tensione è salita perchè Damasco è sostenuto dal movimento sciita libanese Hezbollah e dall'Iran. Pur non essendo mai entrato direttamente nel conflitto, Israele ha ripetutamente colpito in territorio siriano, confermando raramente tali incursioni. Ad aprile 2016 Netanyahu aveva ammesso che Israele aveva attaccato un convoglio di armi destinato a Hezbollah in Siria. Israele ha anche ripetutamente attaccato le posizioni siriane sulle alture del Golan. "Ogni volta che sapremo di trasferimenti di armi dalla Siria in Libano noi interverremo per impedirli. Su questo non ci sarà alcun compromesso - ha aggiunto il ministro della Difesa israeliano - i siriani devono capire che sono ritenuti responsabili di tali trasferimenti di armi a Hezbollah e che fino a quando continueranno a permetterli noi faremo quello che dobbiamo fare". "Ripeto - ha concluso Lieberman - che noi non vogliamo interferire nella guerra civile in Siria nè provocare uno scontro con i russi, ma la sicurezza di Israele viene prima di tutto".

(askanews, 19 marzo 2017)


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Attacco israeliano uccide un esponente della Difesa aerea siriana

di Giordano Stabile

BEIRUT - Dopo la battaglia dei cieli nella notte fra venerdì e sabato, oggi un drone israeliano ha colpito e ucciso nella sua auto Yasser Assayed. Secondo fonti dell'opposizione siriana era un alto ufficiale delle sistema anti-aereo di Damasco, «l'uomo che ha dato l'ordine» di attivare i sistemi S200 e dare la caccia ai jet con la Stella di David. Secondo altri fonti, Assayed era un esponente di spicco di Hezbollah. Proprio forniture di missili ad Hezbollah, forse Scud-D provenienti dall'Iraq, erano l'obiettivo degli F-16 israeliani, poi presi di mira dai sistemi anti-aerei S200 di Damasco.

 L'avvertimento di Lieberman
  Sullo scontro è tornato anche il ministro della Difesa, il falco Avigdor Lieberman, che ha avvertito: la prossima volta che Damasco usa i missili «distruggeremo i suoi sistemi anti-aerei». La Siria dispone da alcuni mesi anche degli avanzati S300 forniti dalla Russia. Mosca ha protestato con l'ambasciato israeliano per i raid in territorio siriano, dove schiera migliaia di militari e decine di cacciabombardieri ed elicotteri d'assalto.

(La Stampa, 20 marzo 2017)


Netanyahu partito per una missione in Cina

Il premier israeliano Benyamin Netanyahu e' partito la scorsa notte per una visita ufficiale in Cina su invito del presidente Xi Jinping per celebrare assieme il 25.mo anniversario dell'allacciamento delle relazioni diplomatiche. Netanyahu si incontrerà inoltre col suo omologo cinese, Li Keqiang.
Questa visita - afferma un comunicato ufficiale israeliano - giunge a sottolineare il continuo rafforzamento della cooperazione economica, che si esprimerà anche con la firma di nuovi accordi. Netanyahu e' accompagnato da una delegazione di importanti uomini d'affari e da alcuni ministri che si occupano fra l'altro di economia, industria, agricoltura, tecnologia e ricerca spaziale.
Il primo ministro si assenterà da Israele per quattro giorni che potrebbero rivelarsi critici perché alla Knesset alcuni partiti stanno prendendo oggi prime iniziative dopo che lo stesso Netanyahu ha evocato la possibilità di uno scioglimento anticipato della legislatura.

(ANSAmed, 19 marzo 2017)


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Netanyahu è giunto a Pechino per rafforzare la cooperazione economica

Netanyahu arriva in Cina
GERUSALEMME - A maggio del 2016, è stata divulgata la notizia che la Netafim Israele, azienda leader a livello mondiale nel settore dell'irrigazione intelligente, aveva inaugurato la sua prima azienda di produzione in Cina, nella regione autonoma del Ningxia, nel nord-ovest del paese. L'inaugurazione testimonia che gli scambi tra Cina ed Israele si intensificano e abbracciano nuovi settori che vanno dall'investimento di capitali, allo sviluppo tecnologico e comprendono anche quello dell'ambiente, delle energie rinnovabili e dell'agricoltura. L'azienda si trova esattamente nella capitale della regione, Yinchuan. L'azienda utilizzerà le ultime tecnologie brevettate da Netafim per produrre linee di gocciolamento altamente sofisticate e sistemi d'irrigazione completi.

(Agenzia Nova, 19 marzo 2017)


Audience e Torà

Esiste in Israele un ebraismo ortodosso che utilizza i mezzi di comunicazione post-moderni, dai siti internet alle radio, ma sempre nel rispetto dell'halakà.

di Pierpaolo P. Punturello

Il 26% per cento di coloro che in Israele navigano in internet ed ascoltano la radio e guardano programmi televisivi o semplicemente film, sono ragazzi tra i tredici ed i diciassette anni. E' anche interessante notare che tra gli intervistati compresi in questa percentuale il 37% si definisce religioso, il 33% tradizionalista ed il 21 % laico. Basterebbe solo questo dato per comprendere l'esistenza dei nuovi mezzi di comunicazione con i quali viene diffusa l'educazione religiosa e la cultura della Torà all'interno della società israeliana. Lì dove i nostri maestri hanno parlato di "settanta volti ha la Torà" in Israele si dovrebbe dire che settanta e più siti ha la Torà, settanta e più canali televisivi via cavo ha la Torà, settanta e più radio ha la Torà.
   La modernità non ha mai spaventato l'ebraismo, anzi, i moderni mezzi di comunicazione più tentacolari possono essere i veicoli più interessanti per portare avanti i messaggi millenari della tradizione ebraica. Via cavo e via internet abbiamo due interessanti canali che sono rispettivamente l'Arutz Meir e l'Hidabrut, il primo legato fortemente all'istituto Machon Meir, una yeshivà e luogo di studio famoso e ben considerato a Gerusalemme. I siti internet, i link, i canali video, le lezioni e gli spunti di riflessioni offerti da questi due canali di svago e studio, sono innumerevoli. I temi trattati sono tra i più diversi, ma tutti ben connessi alla Torà ed alla cultura religiosa con particolare attenzione all'espressione della religiosità e dell'osservanza in Israele. Molto spazio è dedicato a storie di persone che, partendo da vite non osservanti, hanno poi compiuto un percorso di "teshuvà", divenendo osservanti a tutti gli effetti ma continuando ad essere parte attiva della società israeliana. Non è raro imbattersi in storie di cantanti, attori o altri personaggi conosciuti dalla società di Israele che raccontano del loro ritorno all'osservanza dei precetti. Esistono, poi, una serie di lezioni di Torà con messaggi attuali e moderni sulla fede, sul ricordo e resistenza spirituale durante la Shoà, riflessioni sul ghiur. Nello specifico l'Arutz Meir è caratterizzato da colori giovani, accattivanti, canali YouTube, musica e sincera autenticità comunicativa. L'ebraico non è la sola lingua con la quale vengono offerti i servizi del sito e del canale, ma anche il francese, l'inglese, lo spagnolo ed il russo. Il sito di Hidabrut, pur ovviamente condividendo il messaggio osservante e biblico dell'Arutz Meir, tende ad essere più definito nei messaggi e verso il pubblico al quale si rivolge. Tra le diverse lezioni ed i diversi relatori offerti dal sito figurano anche "star" del mondo rabbinico israeliano come i famosi Rav Shalom Arush e Rav Zamir Cohen, oltre alla presenza dei rabbini capo di Israele e rabbini della Diaspora che compaiono in molti dei canali video del sito stesso. Rabbaniot israeliane famose, come la rabbanit Yemima, sono di casa su entrambi i canali, così come molte altre donne religiose, presentatrici, insegnanti e speaker in genere.
   Su Hidabrut, a differenza di Arutz Meir, esistono anche molti video, molte lezioni, storie e testimonianze reali incentrati sul tema dell'aborto e sulla necessità di evitarlo con ogni mezzo ed in ogni modo. La presenza di un canale come questo su di un sito tecnicamente rivolto ad un pubblico religioso, dimostra che questi canali sono anche visitati da una platea non religiosa e ad essa si rivolge senza censure, cosa che dimostra la volontà di creare un messaggio che non sia solo ad uso di una sola e specifica realtà religiosa. Elemento tipico della società d'Israele è poi la forte presenza dell'uso dei programmi radio da parte degli israeliani. Se, forse, nelle altre società occidentali i programmi radio non hanno più una così ampia e quotidiana diffusione, in Israele, sin dalla fondazione dello Stato, la radio ha sempre occupato un luogo centrale come mezzo di comunicazione, di diffusione della cultura, di insegnamento dell'ebraico ai nuovi immigrati, di creazione di codici comuni e condivisi per una nuova società nascente, così come di mezzo di informazione anche nei drammatici momenti di emergenza che lo Stato di Israele si è trovato e si trova ad affrontare.
   In questo mondo di trasmissioni radiofoniche non potevano certo mancare trasmissioni o intere stazioni radio totalmente dedicate alla Torà ed all'ebraismo tradizionale. Dal 1950 ad oggi, le radio israeliane hanno ospitato rabbini che commentavano la Torà, studiosi che insegnavano Ghemarà, programmi di riflessione tradizionale e religiosa. Per esempio, la stazione Kol Israel, tra il 1976 ed il 1982 ospitò settimanalmente il professor Yeshaiau Leibovitz per commentare la parashà. In Israele la radio è decisamente un mezzo di comunicazione che gode di una indiscussa popolarità e diffusione anche grazie alla moderna combinazione delle stazioni radio con i siti internet e le pagine online ad esse legate. Certamente non è casuale il fatto che tutte le radio, per così dire, religiose hanno una loro pagina internet, un sito on line di riferimento, canali YouTube di diffusione alternativa, accanto alla normale programmazione della stazione radio. Comprendiamo quindi che le pagine online delle stazioni radio sono l'elemento di attrazione per le nuove generazioni ed il segno di una continuità di contatto con gli ascoltatori al di là della semplice programmazione radiofonica. Trasmissione e radio a tema religioso sono, tra le tante: radio Yahadut, radio Arutz 2000, Kol HaEmet, radio HaGheula, con forte connotazione legata al mondo Chabad, da non confondersi con radio Gheula che trasmette generalmente musica ebraica religiosa di ogni colore e ritmo che va dal rock religioso, al pop, all'orientale rivisitato in chiave moderna sino al klezmer, lì dove ovviamente tutte le note sono al servizio di Dio e della Torà.
   Esistono poi radio Kol Chai e Kol Barama, due radio dall'identità più charedì, ultraortodossa, la prima con origine più chassidica ed ashkenazita, la seconda sefardita e quindi più politicamente segnata dal legame con il mondo di Shas e di Eli Ishai, la prima fondata nel 1996 e la seconda nel 2009. E' straordinario pensare ad un mondo così tradizionalista che però veleggia senza difficoltà con i mezzi postmoderni che la nostra generazione è chiamata ad usare, senza scendere mai a compromesso con essi: su Kol Chai, per esempio, non sono mai trasmesse voci di donne che cantano.

(Shalom, marzo 2017)


L'arabo Ghattas si dimette dalla Knesset per andare in galera

Il deputato era accusato di aver dato cellulari ad alcuni detenuti palestinesi. Lui si era difeso: ragioni umanitarie

 
Bassel Ghattas
Accade in Israele, che è una democrazia ma pur sempre una democrazia in "affanno" per tante ragioni storiche e di contingenza politica: il deputato Bassel Ghattas della Lista araba unita (terzo partito in ordine di grandezza alla Knesset con 13 deputati su 120) ha oggi formalmente rassegnato le dimissioni nel contesto di un patteggiamento raggiunto con la magistratura che prevede anche la sua reclusione per due anni.
L'anno scorso Ghattas fu colto mentre passava alcuni telefoni cellulari a palestinesi reclusi in Israele per atti di violenza: un gesto che, secondo la magistratura, rischiava di alimentare altre violenze.
In una conferenza stampa Ghattas ha detto di aver agito per ragioni umanitarie e ha denunciato di essere stato successivamente vittima di una campagna mediatica di odio. In parlamento sara' sostituito da un esponente della comunità beduina del Neghev.

(globalist, 19 marzo 2017)


Israele: rischio di elezioni anticipate

GERUSALEMME - La riforma del sistema radiotelevisivo israeliano potrebbe portare ad una crisi di governo e ad elezioni anticipate. Lo riferisce la stampa israeliana, sottolineando le divergenze all'interno della coalizione di maggioranza della Knesset, che potrebbe anticipare le elezioni legislative attualmente previste per il 2019. Nel corso della seduta di ieri sera, infatti, il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha fatto marcia indietro sulla possibilità di creare una nuova autorità per la gestione delle emittenti televisive, posizione non condivisa dal ministro delle Finanze, Moshe Kahlon, esponente del partito Kulanu. I due avrebbero riferito di voler andare ad elezioni anticipate, non trovando un accordo. La questione riguarda la chiusura dell'Autorità per le telecomunicazioni (Iba), prevista il prossima 30 aprile, e la creazione di un nuovo organismo, la Public Broadcasting Corporation (Pbc). L'obiettivo di questa proposta è dare vigore al sistema delle telecomunicazioni, riconquistando una parte del mercato in mano alle emittenti private. "Il governo si basa su un accordo di coalizione, ed uno di questi afferma chiaramente che tutti i partiti (che ne fanno parte) sono sottomessi alle decisioni del Likud (il partito leader della coalizione di governo), a meno che non vi siano problemi di bilancio", ha detto Netanyahu. Il capo del governo ha affermato che la Iba non ha alcun tipo di problema di bilancio che giustifichi la creazione di un nuovo organismo che si occupa di telecomunicazioni. Fonti stampa hanno riferito che Kahlon avrebbe contattato il leader dell'opposizione, Isaac Herzog, per votare una mozione di sfiducia contro l'attuale governo.

(Agenzia Nova, 19 marzo 2017)


Così l'arte israeliana racconta l'identità di Cristo

di Luca Toschi

Adi Nes, Untitled (1999) - Il miracolo del popolo risorto e mai più subalterno. Quattordici soldati dell'esercito israeliano nelle ore che precedono la battaglia. La conversazione dei gruppuscoli si muove da un estremo all'altro della mensa spartana.
E' un incubo lungo molti secoli quello da cui fugge L'ebreo errante di Samuel Hirszenberg, il cielo oscuro strozzato da una selva di croci e una corsa attonita fra l'ecatombe dei corpi. La figura di Cristo è un prisma che rimanda luci e ombre della relazione viscerale intrattenuta da ebrei e israeliani con la storia e le sue declinazioni di sofferenza, redenzione e colpa. Amitai Mendhelson ne ha riassunto contraddizioni e sfumature curando Behold the Man: Jesus in Israeli art, mostra ospitata dall'Israel Museum di Gerusalemme e aperta fino a 22 aprile: 150 opere di 40 artisti per un percorso che in una sequenza eterogenea di forme e materia attraversa il '900 e approda alla contemporaneità.
   L'infernale nemesi di Hirszenberg diventa cronaca romantica in Cristo davanti ai giudici di MaurycyGottlieb, consegnato ai romani fra l'indignazione, lo scherno e l'indifferenza. La prigione europea s'illumina nei colori chiari e spogli di Reuven Rubin, restituito alla terra promessa negli ultimi anni dell'impero ottomano e interprete dello smarrimento intrecciato alle più politiche intenzioni del flusso migratorio sionista.
   La Crocefissione in giallo di Chagall è l'apocalisse della Shoah, le tinte accese e oniriche raccontano di un'identificazione plasmata nell'incendio della storia, che rischiara in una Crocefissione successiva (1944) la notte di un piccolo villaggio, innevato, deserto e sconvolto come dal passaggio di un angelo della morte. «Ora so che Gesù ha avuto un'influenza enorme sull'esistenza ebraica» ha affermato Mendhelson, la cui lunga ricerca è passata per il Museo Nazionale di Varsavia, il Centro Pompidou a Parigi e le collezioni pubbliche e private in Israele. La memoria iconografica europea è onnipresente fra le opere, raccolte in un'ala della modernissima e asettica struttura di Gerusalemme ovest: Mantegna, Raffaello, Velasquez, Michelangelo. Una scolaresca s'interroga su Agnus dei, concrezione di bronzo, acciaio e teschi di cane di Igael Tumarkin, che cita l' omonima tela di Rembrandt. I tardi anni '60 sono una sfida esasperata che solo dieci anni dopo, nello stesso autore, diventano messaggio politico. In Crocefissione beduina, Tumarkin compone le stoffe, i legni e la juta in una denuncia dell'evoluzione dominatrice di Israele, che occupa i territori palestinesi e oblitera la cultura delle società desertiche.
È lo stesso capovolgimento rappresentato da Micha Kirshner con la Pietà, immagine scattata nel campo profughi di Khan Younis, Gaza, nel 1988. La donna ritratta partorì il figlio in prigione, nei primi mesi dell'Intifada. Adagiato sul grembo e avvolto in un tallit l'infante dorme in un luogo che già si approssima alla morte.
   Così il miracolo del popolo risorto e mai più subalterno, fiero, è nella mascolina gaiezza di Adi Nes, che ordina in Untitled (1999) quattordici soldati dell'esercito israeliano nelle ore che precedono la battaglia. La conversazione dei gruppuscoli si muove da un estremo all'altro della mensa spartana. Solo un soldato, al centro dello scatto, fuma con lo sguardo perso nel vuoto, inchiodato al dubbio. Alle sue spalle, fuori dalla finestra, i sassi, gli sterpi e il manto arido di Eretz Israel, deserto trasformato in giardino dove l'ebreo errante sembra aver messo fine alla sua fuga.

(Avvenire, 19 marzo 2017)


Non cala la tensione tra Siria e Israele

Dopo il raid per colpire Hezbollah e la risposta delle forze di Damasco

Israele continuerà a colpire le postazioni di Hezbollah. Questo il messaggio lanciato ieri dal premier israeliano, Benjamin Netanyahu, dopo il raid compiuto dai caccia dello stato ebraico in territorio siriano la scorsa notte con la conseguente replica da parte delle forze di Damasco. «Quando noi rileviamo tentativi di inviare armi sofisticate agli Hezbollah e quando abbiamo l'intelligence e la disponibilità operativa, agiamo per impedirlo. Questo è avvenuto e questo è quanto avverrà» ha spiegato il leader del Likud.
   Stando quindi alle ricostruzioni dell'intelligence israeliana, all'origine del raid ci sarebbe stato il tentativo di far passare attraverso la Siria un carico di armi al movimento sciita, partito di governo in Libano. Già nell'aprile 2016 Israele aveva ammesso di aver effettuato raid aerei per fermare diversi convogli di armi destinati a Hezbollah. E Netanyahu, ieri, ha confermato questa posizione: «Continueremo ad agire in questo modo: siamo determinati, tutti devono tenere conto di questo».
   Per Damasco quanto è accaduto ha rappresentato una violazione dello spazio areo siriano. «Quattro aerei israeliani - si legge in un comunicato diffuso dal governo - sono penetrati nel nostro spazio aereo provenendo dal territorio libanese e hanno colpito un obiettivo militare nell'area di Palmira. La nostra difesa aerea li ha intercettati e ha ingaggiato uno scontro: un aereo è stato abbattuto, un altro è rimasto colpito e il resto della flotta è dovuto fuggire». Israele ha smentito questa versione affermando che «in nessun momento la sicurezza dei civili e degli aerei israeliani è mai stata minacciata», precisando che nessun aereo è stato abbattuto.
   Tuttavia la risposta siriana - come sottolinea la France Presse - potrebbe essere il segno di un cambiamento di strategia del governo di Assad nei confronti di Israele. Siria e Israele sono formalmente in guerra dal conflitto del Kippur nel 1973.
In Siria, intanto, le violenze non conoscono tregua. Il Pentagono ha negato ieri che nel corso di un raid contro Al Qaeda nel nord della Siria, nella provincia di Aleppo, i suoi caccia abbiano colpito una moschea causando decine di morti. L'obiettivo - ha spiegato il portavoce del dipartimento alla difesa Jeff Davis - «era un meeting dei jihadisti». Nell'operazione «decine di miliziani sono rimasti uccisi». Al momento - ha aggiunto - «non si registrerebbero vittime civili». Come ha chiarito il colonnello John J. Thomas, portavoce di Centcom, il comando delle forze americane in Medio oriente, «non abbiamo colpito la moschea che è ancora in piedi, ma un edificio che si trovava a quindici metri di distanza. Questo edificio era il nostro bersaglio in quanto si trovava lì un gruppo di terroristi».
   Diversa la versione del Cremlino: a detta del portavoce del ministero della difesa russo, Igor Konashenkov, una fotografia mostra frammenti di un missile statunitense nella moschea colpita. Si sarebbe dunque trattato di un «tragico incidente» ha detto il portavoce.

(L'Osservatore Romano, 19 marzo 2017)


E se il BDS stesse fallendo?

Nonostante la campagna di delegittimazione l'economia israeliana è in continua crescita

di Luca Spizzichino

Molti personaggi di spicco, dagli accademici come Ste-phen Hawking, fino ad arrivare a rockstar mondiali come Roger Waters, bassista dei Pink Floyd, in questi anni si sono rifiutati di partecipare ad eventi in Isra-ele. Dal punto di vista economico-finanziario, anche molte società di caratura internazionale si sono rifiutate di investire in società israeliane. Dal 2005 è nato un movimento chiamato Boicotta, Disinvesti e Sanziona (BDS), fondato da un gruppo di palestinesi con l'intento di isolare lo Stato d'Israele, sotto qualsiasi punto di vista, sia accademico che economico. Tra le vittorie di questo movimento c'è la chiusura della fabbrica di Sodastream, nell'ottobre del 2014 a causa delle pressioni mediatiche, poiché si trovava a Mishor Adumim, un insediamento israeliano nella West Bank. Tra gli altri obiettivi raggiunti, c'è il boicottaggio da parte di fondi di investimento internazionali, tra tutti il fondo sovrano della Norve-gia da 860 miliardi di dollari, che ha escluso dal suo portafoglio la società israeliana Africa Israel Investments, e il fondo pensione dell'Unione della Chiesa Metodista, che ha messo sulla propria lista nera le più grandi banche israeliane.
   Ma nonostante ciò, secondo i dati riportati da un'inchiesta di Bloomberg, la pressione del BDS non sta creando danni all'economia israeliana, anzi ha l'effetto opposto. Tra i dati più impressionanti che si possono riscontrare c'è quello sugli investimenti dall'estero, che sono triplicati dal 2005. Tra i tanti motivi per cui l'economia israeliana è cresciuta in maniera così esponenziale negli ultimi decenni, ci sono i forti investimenti nella Ricerca e Sviluppo, che hanno facilitato la continua nascita di startups e la propensione al rischio da parte degli imprenditori. Lo scorso anno in questo settore sono stati investiti 3,76 miliardi di dollari, la somma più alta dell'ultimo decennio, e di questi quasi il 50 percento proviene dall'estero.
   Un altro dato molto interessante è lo studio fatto su nove compagnie israeliane che hanno legami con gli insediamenti: si può notare che le partecipazioni estere, nonostante le pressioni del BDS, siano aumentate o rimaste le stesse negli ultimi tre anni. Per esempio dal dicembre del 2013 al maggio 2016, le partecipazioni estere nella Elbit Systems, società specializzata in sistemi di dife-sa, sono cresciute dal 9.44% al 15.43%.
   Nonostante questi dati incoraggianti gli esperti non siedono sugli allori, il BDS è pur sempre una minaccia: il movimento ha molto sèguito in numerosi campus universitari americani ed inglesi, e visto che molti studenti potranno diventare manager di fondi di investimento, il problema ritornerà e l'economia israeliana dovrà essere pronta a fronteggiarlo.

(Shalom, marzo 2017)


La tribù sciita minaccia gli sceicchi

La guerra in Yemen

di Maurizio Molinari

A due anni dal suo inizio la guerra civile in Yemen minaccia di sconfinare in Arabia Saudita, avvicinando il conflitto fra sciiti e sunniti alla città santa di Mecca, luogo di nascita del Profeta Maometto. Con la battaglia dell'aeroporto di Aden fra le forze del presidente Abdu Rabu Mansour Hadi e i ribelli Houthi, sostenuti dall'Iran, iniziò il 19 marzo 2015 lo scontro militare che vede oggi lo Yemen diviso in tre: 9 dei 21 governatorati, inclusa la capitale Sana'a, in mano agli insorti, 6 controllati dalle truppe lealiste ed altri 6 contesi creando delle enclaves dove Al Qaeda riesce a insediarsi, costruendo basi e campi di addestramento.
Devastazioni e sofferenze della popolazione civile sono imponenti: su poco più di 25 milioni di abitanti l'Onu stima che 18,8 milioni abbiano bisogno di assistenza umanitaria e 10 milioni siano minacciati dalla carestia oltre al fatto che 10 mila sono stati uccisi, 40 mila feriti e 3,2 milioni hanno lasciato le proprie case. Il feroce conflitto è uno specchio delle lacerazioni interne all'Islam perché il presidente Hadi è sostenuto da un contingente pansunnita guidato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti mentre gli Houthi, di origine sciita, ricevono aiuti finanziari e militari dall'Iran degli ayatollah.
   Se questa guerra civile è stata al centro del recente colloquio nello Studio Ovale fra il presidente americano Donald Trump e il vice principe ereditario saudita, nonché ministro della Difesa di Riad, Mohammed bin Sultan, è perché rischia di uscire dai confini yemeniti coinvolgendo Paesi vicini.
   L'escalation è iniziata alla fine del 2016 quando gli Houthi, davanti all'intervento pansunnita, si sono arroccati nelle regioni del Nord - da cui in gran parte provengono - iniziando a bersagliare il territorio dell'Arabia Saudita.
   Sono tre le tipologie di attacchi dei ribelli sciiti yemeniti condotti oltre-confine. Primo: incursioni terrestri nelle province di Jizan, Asir e Najran con uso di mortai contro centri civili e basi militari causando un totale stimato di almeno 200 vittime. Secondo: lanci di razzi a corto raggio contro le città più vicine come ad esempio Najran, colpita negli ultimi 24 mesi da migliaia di esplosioni. Terzo: attacchi con missili di medio e lungo raggio di produzione iraniana come i «Burkan-l» - gittata 800 km - che sono stati lanciati in direzione delle grandi città di Taif, Gedda ed anche Mecca. In ogni occasione sono state le batterie anti-missile americane ad abbattere i «Burkan-1», ma l'impatto strategico è stato significativo perché la monarchia di Riad si sente adesso aggredita sul proprio territorio. Se a ciò aggiungiamo gli attacchi portati dagli Houthi con missili antinave e barchini kamikaze contro unità saudite, emiratine e statunitensi poco a largo della costa sull'Oceano Arabico, non è difficile dedurre la preoccupazione di Washington e delle capitali arabo-sunnite per quanto sta avvenendo. Il governo di Teheran smentisce ogni coinvolgimento diretto e nega anche le forniture di armi agli Houthi, ma Riad, con il vice capo di Stato Maggiore Nasser Al-Tahri, ritiene che senza il sostegno dei Guardiani della rivoluzione iraniana gli Houthi sarebbero incapaci di usare armi come i missili «Zelzal 2» e «Zelzal 3». Tanto più che la tattica adoperata dagli Houthi contro le province saudite oltre frontiera ricorda da vicino quella degli Hezbollah libanesi, anch'essi formati ed addestrati dall'Iran, contro il Nord di Israele: incursioni di terra, pioggia di razzi e lanci di missili. La decisione del Pakistan di inviare propri battaglioni di truppe sul lato saudita della frontiera per contrastare gli attacchi sciiti yemeniti ben descrive le difficoltà di Riad nel fronteggiare un'escalation militare accompagnata da una raffica di accordi di tregua e negoziati puntualmente falliti. Ecco perché la guerra d'attrito nel deserto d'Arabia, dove l'Islam ebbe origine, ripropone la violenza tribale del conflitto sunnita-sciita che insanguina la Siria.

(La Stampa, 19 marzo 2017)


Un giorno nella vita del Cern di Ginevra

Se c'è un luogo al mondo dove l'ideale dell'Unione funziona è questo. E infatti persino il professore iraniano dice: "Siamo europei, il mio migliore amico è un israeliano. Può accadere solo qui". E nell'asilo-nido del centro i bambini arrivano a parlare quattro lingue.

di Brunella Giovara

 
La sede del Cern a Ginevra
Alla mensa del Cern si mangiano pizza, chili e patate alla panna, si parla di protoni e di figli, che peraltro giocano sereni tra i piedi dei loro genitori, che parlano molte lingue, più o meno bene, e una su tutte, quella della fisica. E ci sono pure un paio di uccellini, anche questi di nazionalità dubbia, forse francesi, forse svizzeri, ospiti fissi della mensa ma gratis. Il Paese di provenienza non è importante, lo è quello che si fa qua dentro, nella cittadella del più potente acceleratore di particelle del mondo, macedonia di nazioni e culture, religioni, abitudini, cucine, dove le idee volano e la parola Europa appare quasi antica, persino superata dai fatti. Un esperimento di umanesimo realizzato e di grandi risultati. Fosse vivo, Edoardo Amaldi, che alla fine della guerra ebbe l'idea del Cern, sarebbe qui a pranzo con la tribù dei suoi discendenti, Fabiola Gianotti che dirige il centro, Carlo Rubbia, il Nobel, e un tizio del Michigan in pantaloni corti, una ragazza appena arrivata da Bangalore, i passerotti.
  «Siamo europei, lavoriamo per un unico obiettivo, e ogni Paese ci mette le sue risorse» , dice Shahram Rahatlou, professore associato alla Sapienza (Fisica delle particelle elementari) e responsabile scientifico di "Cms", uno dei quattro grandi esperimenti che si svolgono attorno all'acceleratore. Rahatlou ha quarantatré anni ed è iraniano, laureato a Roma, dottorato a San Diego, California. Moglie italiana. Migliore amico israeliano, «cosa difficile da pensare in un altro posto del pianeta». Un tipico esemplare di europeo cerniano, dove l'Europa è un concetto largo, e si allunga come un elastico fino alla Persia.
  Al professor Rahatlou non bisogna parlare di fuga di cervelli. «I cervelli non scappano, semmai si spostano. Ai miei studenti dico: volete sopravvivere? Andate fuori e fatevi valere». La generazione successiva di scienziati che lavorano al Cern è di quelli che hanno preso il cervello e l'hanno spostato davvero, come Barbara Storaci, trentatré anni, project leader di uno dei rivelatori dell'esperimento LHCb. «Ero milanese, abitavo in zona Maciachini. Ho deciso di diventare fisica delle particelle a undici anni, quando l'insegnante di scienze ci ha spiegato il neutrone. Però non mi tornava con quello che sapevo del quark». Barbara approfondisce. A ventitré anni prepara la tesi di laurea qui, «e ci sono rimasta a lavorare. Sono sposata con un tedesco di madre belga e padre russo. Viviamo in Francia, le mie due figlie parlano italiano, tedesco e francese. All'asilo del Cern ci sono bambini bi-tri e quadrilingue. Bello, vero?»,
  Per Storaci «la nazionalità ormai è relativa. Da bambina ero italiana, ora posso dire che sono europea, e anche che faccio parte del genere umano. La cosa bella di questo posto è l'apertura mentale, le idee che girano. È un fattore fondamentale. In questo lavoro, poi». Quando le piccole Camille e Justine saranno al liceo, «probabilmente il Cern avrà cambiato nome», dice Gabriella Pugliese, docente a Bari e qui «responsabile delle camere a muoni RPC per l'esperimento "Cms", perché dal 1954, con i dodici Paesi fondatori, poi si è passati a ventuno, e poi sono arrivati i Paesi amici e collaboratori, e ora l'India, il Pakistan, la Cina. «Visto che la missione Europa qui è realizzata, ora andiamo verso il mondo unito. C'è un messaggio positivo di pace perché c'è un gioco di rispetto, l'uno verso l'altro, che funziona».
  Dan Johnson, ventotto anni, arriva dal Cumbria, contea a nord dell'Inghilterra. Laurea e PhD a Oxford, lavora all'esperimento "Alice": «La cosa più importante è il progetto di ricerca, che per forza di cose ha bisogno di interazione tra molte persone. L'idea fondamentale è quella di un team che lavora senza confini, indipendentemente dal linguaggio che si parla». E per fortuna la terminologia è uguale per tutti, anche se capita di lavorare, racconta Nicola Turini dell'esperimento "Totem", nelle condizioni delle barzellette di una volta: «Ci sono un fisico americano, un fisico cinese, eccetera. Ecco, questa mattina eravamo sul sito di Jura io e altri due italiani, un bielorusso e un russo, più un ucraino, un tedesco e un finlandese. Ok, si parla inglese, ma ciascuno lo parla a modo suo. lo parlo americano perché l'ho imparato a Chicago quando ero al Fermilab. L'inglese vero però non lo capisce nessuno, così stamane, per fortuna di tutti, c'era anche un collega venezuelano che traduceva dal russo, e abbiamo fatto quel che dovevamo fare». E l'Europa? «Siamo oltre. L' Asia c'è, ora mancano Africa e Sudamerica. E a me, che sono livornese, manca il mare, ma per quello non si può fare niente».
  Per tutto il resto si fanno miracoli, non solo di traduzione. L'entusiasmo non manca, le migliaia di scienziati che lavorano a Ginevra la scritta Cern non ce l'hanno solo sul badge, ma anche nell'anima, «si lavora per un obiettivo comune, e questo metodo può essere esportato anche in altri settori, no? Nella politica, io spero», dice Rosy Nicolaidou, greca, del centro di ricerca francese Cea, analista di dati sul progetto "Atlas". E Chiara Zampolli, cerniana originaria di Mantova, ora ad "Alice" come esperta di calibrazione del detector: «La politica fa parte della nostra vita, ma il dato politico qui non è influente. Il mio capo è croato, lavoro con bulgari, rumeni e spagnoli. E certo che parliamo di cosa succede nel mondo». Da studentessa voleva «essere proiettata in Europa. Ora sono nel mondo, con i piedi tra Svizzera e Francia, e un aereo low cost che mi porta dove voglio».
  «Si lavora molto in teleconferenza», spiega Gabriella Pugliese. «La mattina si parla con gli asiatici, il pomeriggio con gli americani. Il mondo è unito. Le barriere politiche e culturali? lo non le sento. E pensi che sono nata a Canosa di Puglia». Le idee circolano fluide e disinvolte, dentro e soprattutto fuori grazie al web (inventato qui, nel 1989, qualcosa vorrà dire). Pochi smartphone e molti laptop, sui vialetti di Meyrin, e la ragazza egiziana e velata, contratto da technical student, alla domanda classica "da dove vieni" risponde sicura «da qui». In effetti ha ragione, in un posto dove non si fa profitto ma solo ricerca, dove il fattore nazionalità è indifferente, la lingua un dettaglio, l'unica cosa importante il cervello, basta usarlo.
  «Questo è uno spazio neutro, dove noi possiamo venire a lavorare, proprio al centro della fisica mondiale». Leticia Cunqueiro, trentacinque anni, si è laureata a Santiago de Compostela, poi post doc a Frascati, all'Istituto Nazionale di Fisica nucleare, infine qui, ricercatrice per l'università di Munster, Germania. È un'esperta di fisica deijets (come i muoni, sono cose da esperti), studia la materia nucleare sottoposta ad alte temperature, «pochi secondi dopo il big bang». Leticia pensa non solo che questo è un posto internazionale, come sanno bene anche i bambini dell'asilo cerniano, ma che «le idee stesse sono internazionali», e in quanto apolidi e vagabonde capaci «di superare ogni muro», aggiunge.
  Il concetto è ancora più chiaro parlando con Marco Delmastro, torinese dipendente del Cnr francese e basato al Cern per "Atlas" («a noi piacciono molti gli acronimì.;.»). Il fisico filosofo Delmastro ha alcune semplici verità da esporre: il corollario è «tutto il resto è trascurabile». «La scienza, come tentativo di comprensione del mondo, è un meccanismo unificante». Infine: «Capire come funziona il mondo, questo nessuno può farlo a casa sua». E l'Europa? «Un grosso Paese, pieno di nativi europei, a partire da mia figlia, nata qui. Da grande saprà da sola che le nazioni non sono importanti, in termini professionali. Le idee sì».

(Repubblica Robinson, 19 marzo 2017)


"Duello nel Ghetto" di Maurizio Molinari

La presentazione del recente libro di Maurizio Molinari "Duello del Ghetto", organizzata ieri dall'Associazione Italia-Israele di Firenze presso il Museo Novecento, è andata molto bene. C'era un buon pubblico, un pubblico fortemente coinvolto dalle vicende narrate da Molinari e dai personaggi che via via emergevano. Alla fine un buon numero di persone è intervenuto per porre domande a Molinari e per approfondire alcuni punti. Anche la formula della presentazione che avevamo concordato con Molinari - una sorta di colloqio nel quale io ponevo le domande e lui approfondiva gli argomenti - si è rivelata efficace.
Domani a Empoli, nuova iniziativa promossa dall'Associazione Italia-Israele di Firenze. Yoram Gutgeld parlerà su "Ricerca e innovazione alla base del successo dell'economia israeliana".

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 19 marzo 2017)


Google non toglie i video antisemiti. Da Bbc a Audi pubblicità ritirata

Le inserzioni sospese anche dal governo britannico. La difesa: «Solo opinioni». A far scoppiare lo scandalo un'inchiesta del Times su centinaia di filmati contro gli ebrei.

di Luigi Ippolito

LONDRA - Dopo la polemica sulle fake news, le notizie false disseminate su Internet, sono ora giganti del web come Google e la sua controllata YouTube, la piattaforma video, a finire direttamente nel mirino: ma questa volta le accuse sono ancora più gravi, perché riguardano la pubblicità postata accanto a video dal contenuto estremista e spesso antisemita. Soprattutto perché parte del ricavato di quelle inserzioni finisce direttamente nelle tasche dei predicatori d'odio.
   La conseguenza è che investitori importanti, dal governo britannico alla Bbc, da Audi a L'Oreal, hanno ritirato le loro inserzioni da Google e YouTube. «Abbiamo imposto una restrizione temporanea alla nostra pubblicità su YouTube in attesa di assicurazioni da parte di Google che i messaggi del governo possano essere presentati in maniera sicura e appropriata», ha detto un portavoce dell'esecutivo britannico. Venerdì i rappresentanti di Google sono stati convocati dalle autorità, che hanno lanciato un avvertimento molto chiaro: «E del tutto inaccettabile che pubblicità pagata dai contribuenti appaia accanto a contenuti inappropriati».
   Sulla scia di queste decisioni anche la Havas, una delle più grandi agenzie di marketing del mondo, che rappresenta clienti come Hyundai, Edf e Royal Mail, ha ritirato tutte le sue inserzioni da Google in Gran Bretagna e sta considerando un bando globale. Havas spende circa 200 milioni di euro l'anno in pubblicità online nel Regno Unito, di cui una quarantina vanno a Google. Il tentativo di trovare un accordo è fallito perché, secondo Havas, il gigante di Mountain View «è stato incapace di provvedere specifiche assicurazioni e garanzie».
   Lo scandalo è scoppiato dopo che un'inchiesta del Times ha rivelato la presenza di centinaia di video antisemiti su YouTube. Queste clip inneggiano al nazismo, negano l'Olocausto e propagandano l'idea che gli ebrei siano dietro banche, giornali e politici. Uno di questi video, poi rimosso, sosteneva che gli ebrei uccidono bambini cristiani a Pasqua per venderne la carne a McDonald's che ne farebbe hamburger. Il Times ha segnalato alcuni di questi video a Google, ma sono stati rimossi solo dopo varie insistenze.
   Programmi della Bbc venivano pubblicizzati su clip postate da ex membri del Ku Klux Klan o da predicatori islamici banditi dal Regno Unito. Gli spot della Audi apparivano accanto a video di un predicatore omofobo anch'egli messo al bando. La dozzina di estremisti denunciati dal Times potrebbero aver guadagnato fino a 300 mila euro dalle pubblicità che comparivano assieme ai loro odiosi contenuti, anche se Google ha negato queste cifre.
   Il gigante del web ha cercato di difendersi, sostenendo di credere «nel diritto di esprimere opinioni che noi e molti altri troviamo abominevoli», ma allo stesso tempo di «non tollerare i discorsi d'odio». Come si può immaginare, è una linea molto sottile. Google sostiene di fare affidamento sul pubblico per scovare contenuti offensivi perché non può controllare tutto, data la quantità di materiale che ospita: «Abbiamo politiche chiare contro l'incitamento alla violenza o all'odio e rimuoviamo contenuti illegali o che violano le nostre regole quando ne siamo messi a conoscenza».
L'anno scorso Google aveva firmato un codice di condotta europeo con cui si impegnava a esaminare contenuti segnala ti come offensivi entro 24 ore dalla notifica ed eventualmente rimuoverli.

(Corriere della Sera, 19 marzo 2017)


Un Ben Gurion mai visto si racconta

Documentario sul padre della patria

Il padre della patria come non si è mai visto: a più di 40 anni dalla morte arriva sugli schermi israeliani un David Ben Gurion inedito. Un'intervista-confessione del 1968 - balzata fuori dagli Archivi di Gerusalemme dopo annose ricerche ovunque - quando lo statista 82enne aveva lasciato il potere da tempo e si era ritirato lontano da tutti nel suo rifugio di Sde Boker, un kibbutz nel deserto del Negev che tanto amava. 'Ben Gurion Epilogue' di Yariv Mozer (prodotto da Yael Perlov) non è solo un fortunoso esempio di archeologia cinematografica ma soprattutto una straordinaria testimonianza di un uomo artefice della storia del secolo scorso che stupisce per la sua semplicità.
   A intervistare Ben Gurion in una doppia tornata, ognuna di due ore, in tre giorni a Sde Boker fu Clinton Bailey. Orientalista americano e studioso di beduini, appena emigrato in Israele in quegli anni, aveva conosciuto in precedenza a Tel Aviv Paula, la moglie dell''Old Man' come era soprannominato lo statista. L'adattamento di Mozer dell'intervista è inframmezzato di spezzoni della storia umana e politica di Ben Gurion, ma sono le sue parole ad avere il sopravvento smontando molti dei clichè che lo hanno accompagnato. "Ha guidato Israele", domanda Bailey come a voler riassumere il destino di una figura che ha forgiato lo stato ebraico. "No - risponde Ben Gurion avvolto in un maglione chiaro di lana a collo alto che lo fa ancora più piccolo di quello che era - Io ho guidato solo me stesso".

(ANSA, 18 marzo 2017)


Israeli fashion

La settimana della moda a Tel Aviv e una scuola che è fabbrica di talenti. C'era una volta il sarto ebreo: l'archetipo si è evoluto.

Nelle piccole boutique che gli stilisti aprono si trovano capi mera- vigliosi, realizzati grazie alla tecnica del riciclo e del ricamo Si cercano atelier di preferenza a Jaffa, il quartiere arabo di Tel Aviv, dove la multi- culturalità è valore aggiunto Lo Shenkar College, un corpo d'eccellenza della creatività trasversale. Cresce la spinta verso l'interna- zionalizzazione Le idee non mancano, manca chi sappia trasformarle in un modello riproducibile. Il mall della famiglia Gindi: trecento negozi

di Fabiana Giacomotti

 
Tel Aviv Fashion Week 2017
Dieci anni fa, Victor Bellaish lasciò la direzione creativa di Roberto Cavalli, all'epoca al vertice del glamour internazionale, per tornare in Israele. Laureato dello Shenkar College, era arrivato in Europa cinque anni prima da vincitore del concorso Mittelmoda ed era già talmente disgustato del mondo della moda da non volervi più avere a che fare. Anticipando una lunghissima serie di abbandoni di cui l'ultimo è stato quello di Rodolfo Paglialunga da Jil Sander, due giorni fa, dichiarò di volersi dedicare alla pittura e alla scultura, e a nord del Mediterraneo nessuno sentì più parlare di lui. Il 12 marzo 2017 Victor, per gli amici "Vivi" secondo la stessa tecnica di sillabazione affettuosa e snob in uso in Israele per la quale un primo ministro si fa chiamare universalmente Bibi e che noi milanesi comprendiamo benissimo, ha aperto con una piccola ed eccellente collezione sartoriale le sfilate della quinta fashion week di Tel Aviv. La moda è tornata a piacergli, purché in dimensione umana: ha un piccolo atelier dalle parti della grande sinagoga di Allenby, due sarte di origine russa, qualche stagista; tinge, invecchia e rielabora i tessuti che trova, perché da queste parti approvvigionarsi di stoffe di alta qualità a prezzo accettabile è difficilissimo, e dunque nelle piccole boutique che quasi tutti gli stilisti anche alle prime armi aprono si trovano capi meravigliosi perché realizzati grazie alla tecnica del riciclo, del ricamo, della scomposizione e della rielaborazione, quando non grazie all'invenzione vera e propria di nuovi filati e mescole. Gli stilisti meno bravi, o che puntano a una produzione più commerciale e di prezzo abbordabile, cioè non di couture, producono in Turchia. Qualcuno nella striscia di Gaza, dove esistono dichiaratamente laboratori di alta qualità e, soprattutto, programmi governativi ed europei volti a favorirne lo sviluppo, nell'ovvia ottica della pacificazione.
  Argomento delicato: la moda è tornata a essere un argomento di interesse generale da quando la barriera fra Israele e la striscia di Gaza è stata rafforzata e il rischio di attentati è drasticamente diminuito, ma i nuovi stilisti cercano spazi e atelier di preferenza a Jaffa, il vecchio quartiere arabo, dove la multiculturalità è diventata valore aggiunto. Fra pochi giorni, vi aprirà la prima boutique la coppia di giovani, lei deliziosa e già in attesa del primo figlio, che sta lanciando la linea di casualwear Holyland Civilians e che ha entusiasmato giornalisti e compratori internazionali arrivati a Tel Aviv per la settimana della moda. Dividono gli spazi e le spese con una creatrice di gioielli: producono poco in Israele, molto in Turchia. Realizzano tutti i prototipi con le proprie mani. Arrivano, anche loro e va da sé, dalla disciplina dello Shenkar. "We are good out of deprivation": siamo bravi per necessità, dice Leah Perez Recanati, una storica dell'arte dagli occhi verdissimi e la risata squillante che è tornata a capo del dipartimento di moda dello Shenkar College e in Israele una decina di anni fa, dopo un periodo in Colombia come moglie dell'ambasciatore Yair Recanati, e che in un periodo relativamente breve lo ha portato ai vertici della classifica accademica mondiale.
  Se nelle università italiane l'interdisciplinarietà significa affiancare storia della moda ed economia aziendale nel programma di studi dello stesso corso senza che nessuno dei due docenti incaricati miri a prevaricare sull'altro e gli studenti si facciano un'idea di come giri il mondo fuori dalle aule, allo Shenkar la trasversalità prevede che il docente di fisica sperimenti l'effetto della trasmissione dell'elettricità corporea sui tessuti insieme con gli studenti di moda senza sentirsi offeso nell'amor proprio, e una mattina mi sono trovata a fare la catena umana con quattro ragazzi al fine di verificarlo. Fra i corridoi e gli spazi comuni vi sono cucine e spazi per il riposo, che può anche svolgersi in classe quando si avvicina il momento della sfilata di fine anno e il tempo per cucire, tagliare, rifinire, dipingere sembra non bastare mai: "Una sera Al ber Elbaz, uno dei migliori fra i nostri studenti di tutti i tempi (per oltre un decennio ha guidato il rilancio di Lanvin, nda), mi disse che, al di là della didattica e della motivazione, avrei dovuto far sognare i miei studenti. Tornata in università a tarda notte, li trovai che dormivano tutti nei sacchi a pelo. Gli mandai la foto: "Hai visto che li faccio sognare?". Alla fashion week, questo corpo d'eccellenza della creatività trasversale e disciplinatissima ha portato un piccolo saggio, comprensivo di una camicia maschile stampata centinaia di volte, ironicamente, rabbiosamente, con il versetto più controverso della preghiera del mattino per questi nostri tempi sessualmente interlocutori: "Benedetto tu o Signore Nostro D. re del mondo che non mi hai fatto donna". In Israele, o per meglio dire a Tel Aviv, il tema della trasversalità di genere è guardato quasi più con interesse sociologico che di passerelle, e le polemiche attualmente in corso sull'accesso delle donne alle cariche religiose e sulla percentuale in aumento di studiosi delle yeshivot ketanot mantenuti dallo stato si sentono relativamente poco. Quello che si sente moltissimo è piuttosto la spinta verso l'internazionalizzazione. Israele punta a qualificarsi come meta turistica d'eccellenza, aperta e senza pregiudizi razziali o di orientamento sessuale: sulla prima parte sta lavorando. Sulla seconda e la terza è già una star con una sua icona, il capitano della Israel Air Force Adir Gabbai, scelto dallo stato come testimonial del Family Day insieme con il marito Dean. La moda ne è il link perfetto, sebbene sia ancora in rodaggio e non potrebbe essere altrimenti, nonostante la fama internazionale del produttore della Fashion Week, l'ex modello Motty Reif. Cinque anni sono pochissimi per affermarsi in un mercato competitivo come quello dello stile, e nonostante il sarto ebreo sia un archetipo, prima ancora che una figura letteraria, in Israele non è ancora ipotizzabile che la scomparsa di un nome dell'alta sartoria ottenga intere pagine sui quotidiani come è accaduto la settimana scorsa in Italia per Enrico Isaia, maestro di eleganza maschile e di scuola sartoriale, il cui atelier alle porte di Napoli, nonostante le dimensioni ben diverse di fatturato e di riconoscibilità nel mondo da un secolo, ricorda tuttora questi ragazzi chini a rifilare un orlo o a rifinire un occhiello con il sorriso orgoglioso sulle labbra.
  La Gindi Fashion Week, con i suoi tre giorni di sfilate e presentazioni, non ha dunque ancora superato la fase sperimentale, e la mancanza di una filiera produttiva di supporto è più che evidente. Le idee non mancano; manca chi sappia trasformarle in un modello riproducibile. I dati sulle esportazioni italiane in Israele forniti da Massimiliano Guido dall'ufficio dell'Ice di Tel Aviv evidenziano la portata della questione: su due miliardi e mezzo di export italiano nel paese nel 2016, in leggera crescita rispetto all'anno precedente, abbigliamento e articoli in pelle hanno fatto un balzo in avanti dell'8,7 per cento, a quasi centosette milioni di euro. La moda inizia a piacere, ma piace prodotta e targata altrove. Due anni fa, Missoni sfilò alla Fashion Week e Tel Aviv ne parlò per settimane. Quello di Motty Reif è dunque il volenteroso tentativo di dare una dimensione e un'attrazione internazionale a una nazione che manda nel mondo alcuni fra i migliori talenti creativi perché non ha più una produzione in grado di sostenerli adeguatamente in patria. Ognuno ha la quota di cervelli in fuga che gli spetta, e se i bioingegneri faticano a trovare adeguata occupazione in Italia, qui sono i sarti a sperare in un futuro migliore.
  Per accedere al programma di sfilate e presentazioni, gli stilisti invitati alla Fashion Week investono una cifra davvero modesta per gli standard occidentali, circa diecimila euro, ma talvolta nemmeno uno shekel, grazie al supporto di una serie di sponsor come la famiglia Gindi, un pezzo da novanta del retail mondiale da oltre un secolo (avete presente la catena americana Century21 divenuta simbolo della ricostruzione post 11 settembre?), che vi investe 2 milioni di euro all'anno e ne regola tempi, modi e impostazione con piglio autocratico. Quest'ultima edizione, che avrebbe dovuto tenersi a settembre, è stata infatti spostata due volte per farla coincidere con l'apertura del progetto immobiliare dei Gindi, un fashion mail circolare da trecento negozi ispirato al Westfield di Londra, comprensivo di museo e centro sportivo, circondato da quattro torri residenziali da quarantotto piani e undici palazzi con altrettanti asili per bambini oltre a uffici, scuole, piscine, giardini pensili e un numero imprecisato di altre attività sulle quali Ori Levy, marito di un'erede Gindi e partner della Gindi Investment, mi ha intrattenuta per un'ora con un piglio tale che mi è sembrato educato chiederne il prezzo al metro quadro e scoprire che, dai cinquemila euro circa al metro delle prime vendite, ancora sulla carta, cinque anni fa, il prezzo ha raggiunto i dodicimila e che in pratica non c'è più un centimetro libero nemmeno fra i garage, a loro volta realizzati in un numero spropositato e subito andati a ruba perché, fra i tanti paragoni possibili fra Italia e Israele, quello della mancanza di parcheggio nei centri cittadini non è certamente l'ultimo. Per perimetro e investimento (la sola asta per il terreno ha comportato un esborso di oltre novecento milioni di shekels, oltre duecentocinquanta milioni di euro), il progetto dei Gindi è assimilabile a quello di Hines a Porta Nuova, a Milano, non fosse che in questo caso la municipalità di Tel Aviv, dopo aver dato del filo da torcere alla cordata familiare sull'offerta pubblica, ha tenuto per sé una quota del venticinque per cento imponendo la costruzione di teatri, sale da concerto e soprattutto asili. La soluzione, naturalmente, ai Gindi va benissimo perché un nucleo familiare gravitante attorno a uno shopping mall ventiquattr'ore su ventiquattro sarebbe sembrato un sogno eccessivo se non fossero arrivate le istituzioni a renderlo, forse loro malgrado, una realtà.
  Alla serata di apertura della fashion week - in passerella modelle dai diciassette ai settantacinque anni per festeggiare il sessantesimo anniversario del brand di costumi Gottex, e accidenti come si tengono queste signore che corrono sulla spiaggia tutte le mattine - insieme con Sara Netanyahu e i Gindi e Galit Gutman, che a quarantaquattro anni è ancora nell'olimpo delle ubermodel, è apparso il sindaco Ron Huldai e si è detto molto orgoglioso che Israele possa diventare un "fashion hub" e che dunque verranno incluse attività di promozione della moda per le celebrazioni dei settant'anni di Israele, nel maggio del 2018. La moda non serve a nessuno fino a quando ci si accorge che è perfetta per vendere ogni altra cosa. In Israele sarebbe una potenza come accade in altri campi, vedi il software engeneering grazie al quale crediamo di pagare i servizi in Corea a Samsung e invece ne lasciamo una piccola ma consistente parte qui, sulla spiaggia di Tel Aviv, se negli ultimi vent'anni non si fosse giocata quella filiera che, ancora una volta su scala ben diversa, è alla base delle fortune della moda italiana e della sua tenuta sulla fascia di alta gamma nonostante la concorrenza di Cina, Corea, Taiwan e di tutte le perle del Far East che sgraniamo come un rosario ogni volta che parliamo di delocalizzazione e con lo stesso tono sommesso.
  Una delle principali catene di moda low cost locale, Castro, fondata quarant'anni fa da un sefardita di origine greca e oggi quotata alla Borsa di Tel Aviv (il business dei tessuti è sefardita per antonomasia fin dal Medioevo, cercate anche negli archivi italiani e troverete documenti risalenti al Quattrocento con nomi ebraici di cui molti nell'area geografica che va da Prato a Bologna, torneremo sul tema a breve) ha etichette che rivelano la stessa origine dei capi reperibili da H&M, Terranova, Forever21 e la stessa noncuranza estetica e produttiva. Montagne di t shirt che non tengono la forma, di gonne senza un perché, di lingerie che al tocco sfrigola come una sogliola, di bomber in seta sintetica di terza imitazione del modello Gucci originale e di scarpe chiuse allacciate, con una particolare punta tonda un po' rialzata, che invece si trova solo in questo paese e che se a noi modaioli d'occidente piacciono molto è perché negli ultimi due anni ci siamo fatti sedurre dalla moda post sovietica di Gosha Rubchinskiy, del direttore creativo di Balenciaga e del collettivo Vetements, Demna Gvasalia, ma della quale riconosciamo le origini e la filosofia, collocandola senza ombra di dubbio fra Mosca e Kiev dopo la Rivoluzione di ottobre. Se la moda occidentale, e in particolare quella di origine cattolica, sconta tuttora la riprovazione morale della vanitas, quella di origine giudaico-sionista paga invece lo scotto, doppio, che incrocia Antico Testamento e matrice comunista della propria fondazione, avrete certamente presenti i ritratti di Ben Gurion scravattato in mezzo ai leader mondiali azzimati e impettiti. La moda è utile ma fino ad ora non è stata materia di primo interesse per gli spiriti eletti. Mentre le cose vanno cambiando, lo Shenkar College si è dunque guardato attorno e, un premio dopo l'altro, è diventato un marchio desiderabile in sé.
  Qualche mese fa, il sindaco di Prato Matteo Biffoni è venuto a Tel Aviv per offrire a Leah Perez Recanati di aprire una succursale del suo dipartimento in città. La signora ci sta pensando. Quando si verrà a sapere, per molte delle scuole di moda italiane spuntate dal nulla negli ultimi anni, sarà un colpo durissimo.

(Il Foglio, 18 marzo 2017)


Prete da Assisi a Gerusalemme per la maratona con il motto "Vi benedico la vita"

A portare a termine la missione è stato Federico Claure, argentino, 40 anni.

Un messaggio di fratellanza, pace e solidarietà. Semplicemente correndo. Partendo da Assisi ed arrivando a Gerusalemme. A portare a termine la missione è stato Federico Claure, argentino, 40 anni da compiere il prossimo 29 giugno, che ha preso parte alla Maratona di Gerusalemme, in quello che è stato un venerdì di grande festa lungo le strade di tutta la città, portando a termine la fatica sui 42 km con il tempo di quattro ore e 32 minuti.
Sacerdote diocesano, già impegnato con incarichi ricevuti da parte del vescovo di Assisi Domenico Sorrentino, è tesserato per la squadra dei L'Unatici Ellera Corciano (ambizioso e vivace sodalizio nato all'inizio di quest'anno dalla fusione tra la Podistica Corciano e il gruppo podistico L'Unanuova di Ellera) con la voglia sia di coltivare la propria passione per la corsa ed anche per far conoscere la solidarietà di Assisi nel mondo. Ad accompagnarlo in questa avventura a Gerusalemme c'erano sia Tiziana Nandesi, presidente della stessa società di Ellera e Corciano, che ha preso parte alla mezza maratona sui 21 km (visto che appena lo scorso 5 marzo aveva portato a termine la fatica dei 58 chilometri della Strasimeno), e Tiziano Severi Pierini, 47 anni, cannarese, anche lui tesserato per la stessa squadra, che ha invece accompagnato Federico Claure per tutto il percorso della maratona, chiudendo con lo stesso tempo cronometrico.
Quella dei L'Unatici è stata un'iniziativa che a Gerusalemme ha riscosso grande attenzione, anche perché lo stesso Federico ed anche Tiziano hanno gareggiato con la maglia ufficiale della squadra e con i suoi sponsor, ma con l'aggiunta della scritta sulle spalle "I bless you life", ovvero "Vi benedico la vita". Una scelta che è stata quanto mai apprezzata dal pubblico presente sia lungo il percorso anche in zona partenza ed arrivo della gara, ma come pure dagli altri podisti, giunti di fatto da ogni parte del mondo.
Tra l'altro, Federico è conosciuto a Gerusalemme, visto che oltre ad essere sacerdote sta inoltre portando avanti nella scuola del posto il ciclo di studi, facendo appunto la spola con l'Umbria. Più che mai felice è stata la scelta della L'Unatici Ellera Corciano, squadra affiliata sia con la Fidal ed anche con l'Endas Umbria, di puntare proprio sulla Maratona di Gerusalemme per portare avanti un messaggio di benedizione della vita. La stessa società, che ha il sostegno dell'associazione l'Unanuova di Ellera guidata dal presidente Paolo Tramontana, dell'Avis di Corciano e di alcune aziende, sta tuttavia già pensando ad altre iniziative sia in Umbria, in Italia e nel mondo, che vedranno protagonista non solo lo stesso Federico, ma anche altri tra la cinquantina di tesserati.

(Libero, 18 marzo 2017)


Battaglia aerea tra Israele e Siria. Nel mirino i depositi di Hezbollah

Raid dei caccia di Gerusalemme, Damasco risponde con i missili.

di Giordano Stabile

BEIRUT - Un duello fra cacciabombardieri israeliani e missili siriani sotto gli occhi attenti della Russia. La battaglia dei cieli dell'altra notte apre una nuova fase della guerra civile siriana. Con l'Isis in ritirata, e i ribelli circondati dalle truppe governative in poche città che si arrendono una dopo l'altra, le potenze regionali guardano agli equilibri futuri. E per Israele è vitale ridimensionare la presenza iraniana e dell'alleato libanese Hezbollah, che ora controlla i confini a Sud-Ovest della Siria. Per questo nelle primissime ore di ieri ha lanciato il più massiccio attacco aereo contro depositi di armi e convogli diretto ai miliziani nell'area attorno a Damasco e forse anche più in profondità. Almeno «sei raid» secondo fonti siriane.
   Non era la prima volta che accadeva. Una mezza dozzina di raid di questo tipo sono stati lanciati negli ultimi tre anni. Questa volta però la reazione siriana è stata molto più decisa e la battaglia è stata confermata anche dalle forze armate israeliane che di solito «non commentano». I cacciabombardieri, sei F-16 a quanto pare, sono stati puntati dai sistemi anti-aerei S200 attorno alla capitale.
   La risposta è arrivata in ritardo, quando i jet erano già rientrati nello spazio aereo israeliano, ma i missili, in codice Nato SA-5 Gammon, con una portata di oltre 200 chilometri, li hanno inseguiti oltre la frontiera. A quel punto non erano in grado di raggiungere gli aerei né rappresentavano un pericolo a terra, ma a scanso di equivoci è intervenuto il sistema anti-missile israeliano Arrow 3, al suo battesimo del fuoco. Un missile siriano è stato centrato e i frammenti sono caduti lungo la valle del Giordano, anche in Giordania.
   Il bilancio mostra la superiorità degli armamenti israeliani, ma va detto che Damasco ha usato la «vecchia contraerea» risalente agli Anni Settanta. Da pochi mesi ha a disposizione i molto più potenti S300, che avrebbero messo in serio pericolo i jet israeliani. Il sistema fornito dalla Russia è però sotto la «supervisione» di Mosca, che ha schierato a difesa delle sue basi nelle province di Tartus e Lattakia gli ancor più micidiali S400. Il sistema radar installato dai russi è in grado di osservare tutti i movimenti dell'aviazione con la Stella di David «fin nelle basi del Negev», secondo fonti militari riportate da media israeliani.
   Lo schieramento militare russo preoccupa Israele, in combinazione con il rafforzamento di Hezbollah sia in Siria che in Libano. Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha avvertito che in caso di una nuova guerra con il movimento sciita, il Libano potrebbe «tornare all'età della pietra», perché il Partito di Dio è sempre più inserito nelle istituzioni dello Stato e il nuovo presidente Michel Aoun gli ha riconosciuto il ruolo di difesa del territorio nazionale, in particolare al Sud, come fosse parte delle forze armate.
   Anche l'ultimo viaggio del premier Benjamin Netanyahu a Mosca aveva fra gli obiettivi far pressione sul presidente Vladimir Putin perché limitasse il ruolo iraniano e di Hezbollah in Siria. Con il collasso dell'Isis l'apertura di un «corridoio sciita» da Baghdad a Beirut è sempre più realistica. Secondo fonti siriane, i raid israeliani hanno colpito postazioni di Hezbollah anche vicino a Palmira e ucciso il comandante militare per la Siria, Badie Hamya. Circostanza che però è stata smentita dallo stesso Hezbollah.

(La Stampa, 18 marzo 2017)


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Israele attacca Hezbollah in Siria e manda un messaggio a Mosca

L'aviazione israeliana sconfina a Palmira e bombarda un convoglio di armi impiegando per la prima volta il sistema missilistico Arrow. Con buona pace di Putin.

di Luca Gambardella

Antimissile israeliano Arrow
ROMA - Venerdì l'aviazione militare israeliana ha ammesso di avere bombardato diversi obiettivi in Siria e di avere impiegato, per la prima volta, il suo nuovo sistema antimissilistico Arrow 3 per respingere un contrattacco siriano. E' raro che Israele renda note le sue azioni militari e gli sconfinamenti nello spazio aereo siriano, che tuttavia sono stati abbastanza frequenti dall'inizio della guerra a oggi. Stavolta Israele ha fatto un'eccezione e ha colto l'occasione per pubblicizzare l'impiego del sistema antimissilistico Arrow 3, sviluppato con la collaborazione degli Stati Uniti.
   Secondo le informazioni diffuse dall'aviazione militare israeliana, dopo avere bombardato un convoglio di armi di Hezbollah nei pressi di Palmira, l'esercito siriano ha lanciato dei missili terra-aria, regolarmente intercettati e distrutti da Arrow. Sui social è stata condivisa molte volte una foto che mostra alcuni resti di un missile precipitati in Giordania (anche se non è chiaro se si tratti di un missile siriano o israeliano). Secondo l'aviazione di Gerusalemme, il missile è stato distrutto senza che abbia provocato alcun danno, anche se il governo siriano, che ha confermato l'incursione, dichiara di avere abbattuto un aereo nemico.
   Il comunicato ufficiale diffuso dall'aviazione militare israeliana potrebbe segnare una escalation tra Siria e Israele, in particolare nei confronti di Hezbollah, il movimento armato sciita sostenuto da Iran e Russia che dal 2006 è in guerra contro Israele e che ora sostiene il presidente siriano Bashar el Assad contro i ribelli.
   Solo 10 giorni fa il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva incontrato a Mosca il presidente russo Vladimir Putin, a dimostrazione di una relazione sempre più stretta tra i due paesi. Netanyahu e Putin si sono incontrati più volte nell'ultimo anno, proprio mentre la Russia si muoveva con sempre maggiore decisione in Siria in difesa di Assad. Israele in realtà resta pressoché indifferente al futuro del presidente siriano ma è allarmata dal rafforzamento dell'alleato che i russi hanno scelto nella loro campagna siriana: Hezbollah. Al di là dell'apprezzamento più rituale che sostanziale espresso da Netanyahu nei confronti dell'offensiva russa contro lo Stato islamico, l'incontro di Mosca era servito a Israele proprio per mettere in chiaro al Cremlino le sue preoccupazioni principali: la messa in sicurezza dei confini e il ridimensionamento dell'arsenale di Hezbollah. Nel primo caso, Netanyahu teme che miliziani vicini allo Stato islamico - come per esempio la Brigata dei martiri di Yarmuk - sconfinino dalla Siria in Israele; nel secondo, il primo ministro ha chiesto alla Russia che qualunque piano di pace futuro non permetta a Hezbollah di avvicinarsi troppo alle zone di confine e soprattutto ha espresso preoccupazione per il riarmo delle truppe sciite sostenuto proprio dalla Russia e dall'Iran. Una polemica che Putin ha ridimensionato: "Non giudichiamo l'Iran per quello che è successo nel V secolo a.C. Oggi viviamo in un mondo diverso", è stato il commento gelido del presidente russo in occasione della conferenza stampa congiunta con Netanyahu.
   Anche per via della titubanza con cui Mosca affronta la questione, Israele ha deciso oggi di uscire allo scoperto e di rendere ufficiali le sue missioni aeree in Siria, dirette in particolare contro convogli o magazzini dove Hezbollah custodisce il proprio arsenale. Così, l'annuncio del raid aereo in Siria ha l'aria di essere un messaggio indirizzato a Mosca: anche se non volete ascoltarci, Israele sa difendersi da solo.

(Il Foglio, 17 marzo 2017)


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L'Iran tenta di "accerchiare" Israele, l'ONU dorme e UNIFIL?

Quello che sta accadendo in queste ore lungo il confine tra Israele e Siria dovrebbe far allarmare i tutti i governi europei visto che il segretario generale dell'ONU António Guterres, successore di quel distratto e troppo affancendato a riscaldare la sedia, Ban Ki Moon, non proferisce parola.
Invece, l'Europa rimane silente, paurosa e titubante, a dimostrazione che ognuno pensa per se cercando di non inimicarsi il nuovo amico iraniano sdoganato da con un accordo truffaldino da Obama Hussein Barack, caduto (?) nel trappolone degli Ayatollah.
Ora l'Iran, con il suo braccio armato Hezbollah che in Libano sotto l'occhio distratto di UNIFIL a comando italiano, ha realizzato uno stato nello stato con organizzazione strutturale complessa e forze armate pesantemente equipaggiate proprio da Teheran, e la Brigata Sciita di Liberazione del Golan, sta cercando di "accerchiare" Israele proprio con le milizie sciite e cercando di far arrivare al gruppo terroristico armi di ultima generazione.
Da qui, la reazione di Gerusalemme che ha attaccato diversi obiettivi di Hezbollah lungo il confine israeliano e distrutto una colonna che trasportava verso il confine libanese controllato dalle milizie, armi e munizioni.
L'IDF ha ammesso l'attacco e malgrado la Siria avesse ha attivato la sua contraerea con missili, tutti gli obiettivi sono stati neutralizzati e gli aerei sono ritornati indenni alla base.
Damasco e Beiruth protestano minacciando dure conseguenze. Minacce esternate più per propaganda che per convinzione.
Damasco ha ben altri problemi che pensare a Israele e sa anche che qualsiasi atto ostile sarebbe devastante per Assad, e sa bene che Hezbollah in Siria è una forza da guardare con attenzione in vista di quella che potrebbe essere la Siria del domani che, nella intenzioni non tante segrete della Russia, potrebbe essere federale. E le parti in Siria oggi sono tante e variegate.
Il Libano invece, stato a sovranità limitata, dovrebbe trovare la forza di ritornare ad essere uno stato vero con sovranità politica e militare su tutto il territorio e non accettare passivamente che l'Iran realizzi il suo stato satellite a sud del Fiume Litani. Ma l'establishment libanese non sembra avere né la forza né tanto meno la capacità politico militare di ritornare ad uno stato sovrano.
E l'ONU? L'ONU sta dimostrando ancora una volta la sua inutilità. Come ha chiaramente detto il neo presidente USA Donald Trump, è un ente dove tutti vanno a scaldare le sedie e bere thè per chiacchierare. Rimane passivo con l'UNIFIL in Libano, la forza multinazionale a guida italiana, che si è ben guardata di far attuare le disposizioni che prevedono la smilitarizzazione dell'area sotto il suo controllo (sic), il disarmo di tutti i gruppi armati, e il ripristino della sovranità libanese a sud del Litani.
La cosa grave per le popolazioni dove interviene l'ONU, è il fatto che dove arriva, il problema non si risolve, si cancrenizza.
La soluzione delle crisi metterebbe in "crisi" la vita stessa di un enorme apparato che ha perso ogni sua credibilità internazionale.
Basta leggere le note su l'UNWRA ….

(Osservatorio Sicilia, 18 marzo 2017)


Israele riceve assicurazioni dagli USA per gli armamenti

di Stefano Peverati

Il Governo di Tel Aviv
sta valutando nuove acquisizioni nell'ambito della difesa. Queste sono possibili grazie agli ingenti aiuti economici sanciti nel Memorandum of Understanding. Questo accordo, riguardante l'arco temporale 2019-2028, è stato firmato nel settembre 2016 e prevede che Washington verserà ogni anno ad Israele 3.8 miliardi di dollari per una cifra complessiva di 38 miliardi. I fondi verranno utilizzati per acquisire nuova tecnologia militare, in particolare da aziende americane. Inoltre una parte di questi verranno investiti in programmi di ricerca e innovazione in collaborazione con gli Stati Uniti.
   L'utilizzo principale di questi fondi sarà volto all'aggiornamento della componente aerea. La Heyl Ha Avir con l'arrivo del moderno F 35I Adir, versione dotata di tecnologia locale rispetto al famoso e contestato F 35 Lightning II, ha deciso di radiare i modelli più vecchi dello storico F 16. La volontà del Paese di Davide è acquisire almeno 75 esemplari del nuovo caccia. Nel numero è compresa la versione B in grado di atterrare verticalmente. Con l'F 35 si vuole sostituire interamente la flotta dei cacciabombardieri sopracitati e avere due reparti di volo operativi entro il 2022. L'Adir è considerata l'arma privilegiata per compiere un eventuale azione offensiva nei confronti dell'Iran. Imitando i fatti del 1981 quando Israele distrusse il reattore nucleare di Osirak, in Iraq.
   L'obiettivo principale di Israele è mantenere la supremazia nella regione mediorientale. In virtù di ciò, a seguito delle recenti acquisizioni da parte di Arabia Saudita e Qatar delle ultime versioni dell'invincibile aereo americano F 15 Eagle. Gerusalemme
Era scritto Tel Aviv. L'abbiamo sostituito con Gerusalemme, anche nel seguito.
ha deciso così di prendere contatto con la costruttrice Boeing per aggiornare gli esemplari presenti in organico. Per i monoposto si valuta di portarli alla versione 2040C, proposta anche alla United States Air Force. I modelli biposto verranno sottoposti all'upgrade Advanced, studiato appositamente per il cliente. Inoltre a Gerusalemme è stato proposto di acquistare la versione F 15SE Silent Eagle dotata di capacità stealth. Sulla base di queste scelte verrà completamente ammodernata la linea volo di questo aereo che permetterà alla forza aerea di mantenere immutato il primato tecnologico, militare nella regione e di rispondere efficacemente alle sfide che verranno poste nel futuro.
   Attualmente le Forze Aeree Israeliane sono impegnate in missioni di attacco al suolo contro obiettivi specifici nel territorio siriano. In particolare queste azioni sono rivolte contro le unità di Hezbollah. Questi è uno storico nemico di Gerusalemme e opera a fianco dell'Esercito regolare siriano. La notte del 17 marzo, secondo le autorità siriane i loro sistemi di protezione antiaerea presenti nella zona di Palmyra avrebbero abbattuto un aereo israeliano e danneggiato un secondo. La notizia è stata prontamente smentita da Gerusalemme che non ha aggiunto altro.
   Queste missioni recenti sono dettate anche dal peggioramento dell'intesa con Mosca. Il recente incontro tra Netanyahu e Putin avvenuto il 9 marzo scorso, in cui il tema principale era la presenza dell'Iran in Siria. Teheran a livello di consiglieri militari combatte contro i gruppi terroristi takfiri apertamente appoggiati da Israele. In quella sede il premier russo aveva avvisato il suo omologo che eventuali operazioni israeliane rivolte contro la Siria (o Hezbollah) avrebbero trovato risposta da parte di quello che è conosciuto come Asse della Resistenza.

(Secolo Trentino, 18 marzo 2017)


La Torah a Savoca dopo 500 anni. E al Bar Vitelli spunta un reperto ebraico

Ritrovato durante alcuni lavori: 'Una scoperta che potrebbe riscrivere la storia'

di Andrea Rifatto

Piperno, Fittaiolo e Arman con la Torah. Nel riquadro il reperto
"Questa scoperta potrebbe portare a riscrivere la storia di Savoca e della provincia di Messina, ma forse anche dell'intera Sicilia". Non nasconde lo stupore, seppur con le dovute cautele, il responsabile del museo storico etnoantropologico di Savoca, Santo Lombardo, dopo il ritrovamento di un reperto ebraico su cui saranno necessari maggiori accertamenti. A venire alla luce è stata una stele di pietra, su cui è riportata un'incisione, rinvenuta all'interno del Bar Vitelli, location del celebre film "Il Padrino". "Stavamo dismettendo dei vecchi muri - spiega l'ingegnere Lorenzo Motta, proprietario del palazzo e del bar - e abbiamo trovato questa pietra con delle incisioni". Il reperto, delle dimensioni di circa 20 cm in lunghezza e 15 in larghezza, con uno spessore all'incirca di 10 cm, è stato visionato da un giovane ricercatore israeliano di Tel Aviv: "Era in vacanza da queste parti - aggiunge Motta - è ha decifrato il testo affermando che sulla stele vi è riportata la scritta 'Grazie a Dio' in aramaico". Ciò potrebbe far retrodatare la presenza degli ebrei a Savoca già a partire dal 70 dopo Cristo, ossia molto prima rispetto al periodo di cui si ha testimonianza grazie ai documenti sulla comunità ebraica savocese, che risalgono alla seconda metà del 1400. Il reperto è stato visionato ieri anche dal rabbino di Roma Gadi Piperno, rappresentante dell'Unione Comunità Ebraiche Italiane, e da Gabriele Spagna, segretario della Comunità Ebraica di Siracusa, che però non hanno fornito ulteriori delucidazioni a quanto sin qui scoperto.
   Ieri Savoca ha fatto un balzo indietro nei secoli con "Il ritorno della Torah", manifestazione svoltasi al Centro Filarmonico su iniziativa dell'associazione "I Marinoti" di S. Teresa, allo scopo di rievocare le tracce della presenza ebraica nel borgo. Dopo i saluti dell'assessore alla Cultura Enrico Salemi, sono intervenuti Anna Rita Fittaiolo, docente di Storia e relatrice dell'incontro; il rabbino Gadi Piperno, che si è soffermato sui contenuti della Torah, una delle tre parti della Bibbia ebraica, il Pentateuco, cioè i primi cinque libri Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio; il parroco padre Agostino Giacalone, che ha evidenziato i punti di contatto tra Cristianesimo ed Ebraismo tra Vecchio e Nuovo Testamento; Santo Lombardo, che ha ripercorso la storia dei giudei di Savoca basandosi su documenti come quello del 20 agosto 1470 sulla costruzione della sinagoga. Ospite d'onore Miriam Jaskierowicz Arman di Tiberiade (Israele), figlia di sopravvissuti all'Olocausto, che ha ripercorso tra la commozione la storia della sua vita con una toccante testimonianza con la quale ha esortato i giovani a non consentire più simili genocidi. Sul palco una copia della Torah redatta interamente a mano, tornata a Savoca dopo oltre 500 anni dalla cacciata degli ebrei del 1492. "Questo testo sacro è qui in memoria del mio popolo e della mia famiglia sterminata nei campi di concentramento - ha detto - perché dentro di me porto cinquemila anni di storia del mio popolo". All'evento hanno preso parte anche gli studenti del Liceo classico e dell'Istituto comprensivo di S. Teresa, mentre la Libera Accademia Ensemble ha curato un intermezzo musicale. Presenti inoltre l'assessore alla Pubblica Istruzione di Savoca, Maria Carmela Miuccio; il vicesindaco di S. Teresa Danilo Lo Giudice con l'assessore Annalisa Miano; la dirigente dell'Istituto comprensivo Enza Interdonato; il professor Ignazio
Vecchio, docente all'Università di Catania e segretario della Federazione delle Comunità Ebraiche del Mediterraneo; la professoressa Cristina Tornali, presidente dell'AIN Onlus-Associazione Italiana Neurodisabili, che ospita gli Uffici di Rappresentanza Ebraica U.R.E. Shalom" di Catania e Giardini Naxos, Ziva Fischer Modiano, presidente nazionale della Adei Wizo, Associazione donne ebree d'Italia e l'architetto taorminese Piero Arrigo, storico ricercatore di Storia e Cultura ebraica siciliana.
Dopo l'incontro tappa obbligata dinanzi alla sinagoga, dove è stata portata dal museo comunale la stele con incisa la Stella di David, rinvenuta nell'agosto 2014 proprio tra le mura del luogo di culto ebraico: qui il rabbino ha intonato una preghiera in ricordo dei defunti suonando lo shofar, corno di montone utilizzato come strumento musicale durante alcune funzioni religiose ebraiche. L'architetto Arrigo ha segnalato le condizioni critiche della sinagoga al rabbino Piperno, che si è fatto carico di evidenziare la presenza del luogo sacro di Savoca all'Unione Comunità Ebraiche Italiane e alla collegata Fondazione per i Beni culturali per valutare se è possibile fornire un aiuto per il recupero del sito.

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(SikilyNews, 17 marzo 2017)


L’Alta corte israeliana riconosce legami "speciali" a palestinesi nati a Gerusalemme

GERUSALEMME - L'Alta corte israeliana ha riconosciuto i legami "speciali" dei palestinesi nati a Gerusalemme. Una sentenza dell'Alta corte, emessa da tre giudici nei giorni scorsi, ha ordinato alle autorità di ridare la residenza ad un palestinese nato a Gerusalemme, tornato in patria dopo aver vissuto per anni negli Stati Uniti. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Yediot Ahronot". Nella sentenza, i giudici definiscono il palestinese come "residente per nascita". L'avvocato Adi Lustigman ha dichiarato che si tratta del primo episodio in cui la Corte riconosce i legami speciali dei palestinesi con loro città di nascita. La normativa dello Stato prevede che un palestinese perda lo status di residente permanente quando si reca all'estero.

(Agenzia Nova, 17 marzo 2017)


Il mondo corre a Gerusalemme: 30mila atleti da 60 Paesi per la maratona

Misure di sicurezza eccezionali per l'evento sportivo che si ripete ogni anno. Tensioni con gli ebrei ultraortodossi, che hanno cercato di ostacolare la corsa per protestare contro l'obbligo di leva.

di Barbara Uglietti

 
Israeliani e arabi, ebrei e musulmani e cristiani, tutti di corsa, nella stessa direzione. Trentamila atleti da 60 Paesi hanno partecipato alla Maratona di Gerusalemme, evento sportivo che si ripete ogni anno nella Citta Santa.
La polizia israeliana ha predisposto ingenti misure di sicurezza, volte soprattutto a contenere una manifestazione degli ebrei ultraortodossi: un influente rabbino aveva chiesto che venisse ostacolata la corsa per protestare contro l'arresto di un suo discepolo renitente alla leva (sin dalla fondazione dello Stato ebraico, gli ultraortodossi sono stati esentati dal servizio militare, ma nel 2014 la Knesset, il Parlamento israeliano, tra molte contestazioni, ha approvato una legge che lo rende obbligatorio anche per loro, con misurate eccezioni).
Le autorità hanno bloccato preventivamente decine di ultraortodossi e tre autobus che cercavano di raggiungere la città. Il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, ha precisato che sono arrivati complessivamente 3.500 stranieri, una cifra superiore a quella di anni passati Ha vinto il keniano Shadrack Kipkogey. Decimo l'italiano Giorgio Calcaterra, tre volte campione del mondo nella 100 chilometri.

(Avvenire, 17 marzo 2017)


Israele vede come una "minaccia" la presenza militare russa in Siria

di Luciano Lago

Mosca programma di rimanere per un lungo tempo nelle vicinanze di Israele, afferma il capo di Stato maggiore della marina el regime di Tel Aviv, Dror Friedman.
"Quando vedi le loro attività sul terreno, vedi che stanno gettando le radici, e quando vedi le loro attività nel porto di Tartous (ovest della Siria), ti rendi conto che non sono quelle di chi ha in mente di fare le valige e andarsene domani mattina",

La portaerei russa Almirante Kuznetsov
ha detto Friedman oggi, mercoledì in una intervista con Army Radio.
I russi, ha aggiunto il responsabile israeliano, hanno schierato una grande quantità di equipaggiamento militare ed hanno costruito varie basi militari nel paese arabo, attività che a suo giudizio dimostrano che i russi pensano di mantenere la loro presenza per lungo tempo.
Il funzionario israeliano ha sottolineato che la presenza della Russia ha cambiato il modo in cui le forze navali di Israele operano nella zona.
Di seguito, Friedman ha avvisato che lo spiegamento nelle vicinanze della costa siriana della Almirante Kuznetsov, una portaerei con un poderoso arsenale di missili, già ha mostrato che il regime di Tel Aviv dovrebbe tenere in conto la presenza della nave.
"Quando c'è una tale forza qui presente, la nostra condotta cambia", ha segnalato il capo di stato maggiore della marina israeliana.
Mosca ha sottolineato in ripetute occasioni che la sua accumulazone di mezzi militari nel territoro siriano ha per obiettivo la lotta contro i terroristi e gli estremisti appoggiati dall'esterno della Siria.
Dall'apparizione del terrorismo nel paese arabo, il regime di Tel Aviv
, denunciato dalla Siria come uno dei patrocinatori di questo flagello in Medio Oriente, non ha risparmiato sforzi per spianare la strada per il rovesciamento del presidente Bashar al-Assad.
Per ottenere tale obiettivo, Israele ha adottato un gran numero di strategie, senza avere dubbi nell'armare i terroristi, assisterli nei loro ospedali i combattenti dei vari gruppi ed attaccare le posizioni delle Forze Armate.
Secondo vari analisti israeliani, la Russia ed Israele si stanno incamminando verso una guerra. Questo è dovuto alla presenza consolidata di una grande armata russa in Siria che impedisce ad Israele di avere le mani libere per gli interventi della sua aviazione in Siria, che avvenivano con molta frequenza.
Questa presenza russa preoccupa le autorità militari israeliane in quanto, oltre alle forze militari, la Russia ha schierato la sua intelligence e un sistema missilistico possente, con gli SS-300 e SS-400 che possono colpire qualsiasi aereo che violi il cielo del paese arabo.
L'equilibrio delle forze è cambiato nella regione ed Israele non dispone più della supremazia militare nella regione a cui era abituata. Questo spiega le "preoccupazioni" del regime di Tel Aviv
.

(Realtà o fantasia?, 17 marzo 2017)


Roma - Ospedale Israelitico, «Rinvio a giudizio per 16»

Nei guai dirigenti medici e l' ex dg Mastrapasqua. Truffa per i rimborsi sulle prestazioni al servizio sanitario.

di Davide M. Ruffolo

Sono accusati di aver messo in piedi una maxi truffa da 7,5 milioni di euro, consumata ai danni del Servizio Sanitario Nazionale, i sedici destinatari della richiesta di rinvio a giudizio effettuata ieri dalla Procuradi Roma.
Tra loro spicca il nome dell'ex direttore generale dell'ospedale israelitico di Roma Antonio Mastrapasqua che, per questa vicenda, il 21 ottobre del 2015, era finito agli arresti domiciliari (in seguito revocati). Lo stesso dirigente, travolto dall'inchiesta giudiziaria, aveva immediatamente rassegnato le proprie dimissioni. Oltre a lui rischiano di finire sotto processo, come richiesto dai pubblici ministeri Corrado Fasanelli e Maria Cristina Palaia, anche 15 persone tra dirigenti, medici e operatori.
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, la truffa al Servizio Sanitario Nazionale consisteva principalmente nel far passare semplici operazioni ambulatoriali per complessi interventi di chirurgia.
Così, ad esempio, una banale operazione ai denti per l'otturazione di una carie diventava un delicato intervento di chirurgia maxillo facciale. Poi, al fine di ottenere rimborsi gonfiati dalla Regione Lazio, venivano prodotte false attestazioni.
Non solo, per l'accusa gli indagati riuscivano a sapere in anticipo le ispezioni e, di conseguenza riuscivano a mascherare lo svolgimento di attività irregolari e l'erogazione parziale, in carenza di autorizzazione, dei servizi di assistenza domiciliare.
Dalle indagini è stato certificato che l'ospedale israelitico è risultato estraneo ai fatti.

(Leggo, Roma, 17 marzo 2017)



Il primo comandamento: una questione di vita o di morte

di Marcello Cicchese

«Non avere altri dei nel mio cospetto» (Esodo 20:3).

Davanti al tempo che passa, alle situazioni che cambiano, alle ideologie che si susseguono, ai valori morali che si modificano, ogni uomo ha la segreta nostalgia di un punto fisso, l'aspirazione a qualcosa di assoluto, di cui non si possa dire che oggi c'è e domani no, che non debba continuamente essere messo in discussione, che non abbia l'aspetto della provvisorietà e dell'incertezza.
  Qualcosa di questo genere esiste: la morte. In qualunque periodo si viva, qualunque posizione si occupi, qualunque cosa si pensi, tutti muoiono. Questo fatto non cambia. Su questo non si discute. Non potrebbe allora essere proprio questo l'assoluto che è alla base di tutta la realtà?
  L'uomo normale rifiuta questa ipotesi. Egli avverte istintivamente che la morte è un buco nero in cui precipita tutto ciò che esiste, ma che non è, non può essere il fondamento di ciò che esiste. La morte, che interrompe un rapporto d'amore tra due persone separandole dolorosamente l'una dall'altra, non può essere il fondamento di quell'amore. No, non si può vivere per la morte: nessuno potrebbe sopportare una così atroce lacerazione.
  Si cercano allora altri punti fissi: qualcosa o qualcuno che costituisca il fondamento stesso della vita, qualcosa per cui valga la pena e sia giusto vivere.
  Questo qualcuno esiste: è l'Eterno, colui che ha nome «lo sono». La Scrittura dice che soltanto Lui è il fondamento di tutto ciò che è. Egli occupa interamente lo spazio in cui si muove tutto ciò che ha vita.
    «Difatti, in lui viviamo, ci moviamo e siamo» (Atti 17:28).
  Egli è e crea. Egli è il creatore degli uomini e di tutte le cose. Quindi non ci sono, non ci possono essere altri dei da mettere a confronto con Lui. Egli è unico. È l'unico vero punto di riferimento di tutto ciò che vive. Chi cerca un altro assoluto, trova soltanto la morte. Ogni altro dio che pretenda di confrontarsi con l'Eterno non può essere che una manifestazione della morte.
  Ma come si può conoscere questo Dio «nel quale viviamo, ci moviamo e siamo»?
    «lo sono l'Eterno, l'Iddio tuo, che ti ho tratto dal paese d'Egitto, dalla casa di servitù» (Esodo 20:2).
  L'Eterno è un Dio che parla e agisce. Più precisamente: libera. Da che cosa? «Dalla legge del peccato e della morte» (Romani 8:2). La liberazione di Israele dalla schiavitù di Egitto è un'anticipazione della liberazione dalla schiavitù della morte a cui soggiace tutta la creazione in conseguenza del peccato dell'uomo. Adamo ha cercato un punto di riferimento diverso da Dio, e l'ha trovato: la morte. Nello stesso modo, chi si pone alle dipendenze di dei stranieri non trova prosperità e pace, ma soltanto la morte.
    «Ma se avvenga che tu dimentichi il tuo Dio, l'Eterno, e vada dietro ad altri dei e li serva e ti prostri davanti a loro, io vi dichiaro quest'oggi solennemente che certo perirete» (Deuteronomio 8:19).
  Risuonano in questo avvertimento le solenni parole di Dio ad Adamo: «Nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai» (Genesi 2:17).
  Ecco perché il primo comandamento è così tremendamente importante: si tratta di una questione di vita o di morte.
    «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io ti comando oggi d'amare l'Eterno, il tuo Dio» (Deuteronomio 30:15).
  L'Eterno è un Dio geloso perché sa che dietro l'idolo c'è la morte. E Dio non vuole che l'uomo muoia: per questo non si stanca di mettere in guardia il suo popolo dai rischi che corre ad andare dietro ad altri dei.
  Si dice talvolta che la gelosia di Dio sottolinea la sua sovranità, la sua maestosa regalità. Ma con ciò non si dice tutto, anzi, si dice molto poco. Se un padre deve attraversare con suo figlio un fiume in piena, passando su un ponticello stretto e privo di protezione, e per il pericolo che vede continua a ripetere minacciosamente a suo figlio di non allontanarsi da lui nemmeno per un attimo, chi direbbe che quel padre sta insegnando al figlio l'ubbidienza e il rispetto assoluto dell'autorità paterna?
  Dio ci ama di un amore appassionato, tenero, sviscerato, e non può sopportare l'idea che l'uomo si perda. Per questo non si stanca di dirci e di ripeterci che bisogna guardarsi dagli idoli, perché con gli idoli non si scherza. All'idolo si dà il cuore, cioè tutto sé stessi, e quindi l'idolo ci possiede e ci tiene in schiavitù fino a che non ci consegna alla morte.
  Si potrebbe obiettare che l'idolo non è niente, perché è soltanto una costruzione umana, come descrive il profeta Isaia (44:9 ss.). Ma bisogna fare attenzione: l'idolo non è nulla nei confronti di Dio, ma non nei confronti dell'uomo; esattamente come la morte non ha alcun potere su Dio, ma un potere reale sull'uomo. L'idolo, come la morte, non ha quindi alcun potere sull'uomo che confida nell'Eterno; ma, come la morte, ha un potere reale e devastante sull'uomo che si è allontanato dal suo Creatore e Signore.
  L'idolo non è nulla, perché non può salvare; ma è qualcosa, perché può uccidere.
  La continua tendenza dell'uomo all'idolatria fa capire che, per natura, l'uomo non può essere indipendente. Egli è nato per dipendere da qualcuno. I fatti fondamentali della sua esistenza, la vita e la morte, non sono in suo potere. Egli può, a dire il vero, darsi la morte, ma non può né darsi la vita né impedire che questa gli sfugga. E questo dimostra, ancora una volta, che l'unico potere autonomo dell'uomo è quello dell'autodistruzione. La libertà dell'uomo senza Dio è la possibilità di scegliere per sé la morte.
  L'uomo è un essere dipendente, e quindi se non ha un Dio è costretto a farselo.

Ai piedi del monte Sinai il popolo d'Israele stava aspettando da molti giorni che Mosè tornasse, portando disposizioni da parte di Dio. Ma di Mosè non c'era più traccia e Dio non dava segni di sé. E se tutto fosse rimasto così per sempre? Poteva un intero popolo rimanere a bivaccare nel deserto per tutta la vita? Bisognava agire, muoversi. Ma si può attraversare un lungo e ignoto deserto senza avere un dio che si ponga alla guida del popolo? No, non è possibile, non c'è neppure da pensarci. Se non si ha un dio, bisogna farselo.
    «Or il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dal monte, si radunò intorno ad Aaronne, e gli disse: "Orsù, facci un dio che ci vada dinanzi, poiché quanto a Mosè, a quest'uomo che ci ha tratto dal paese d'Egitto, non sappiamo che ne sia stato"» (Esodo 32: 1).
  Il popolo d'Israele non ebbe la pazienza di aspettare, e la sua impazienza nei confronti dei tempi di Dio lo condusse all'idolatria.
  L'uomo che non accetta l'Eterno come Dio, deve dunque costruirsi un altro dio. Un dio che non solo non salva, ma non resta neppure inerte. Il feticcio che l'uomo si costruisce comincia presto a sprigionare una misteriosa forza d'attrazione, una specie di risucchio che attira l'anima del costruttore in un vortice senza via d'uscita. Dal momento che la creazione di un idolo fa uscire l'uomo dalla dipendenza del Dio vivente, e poiché l'unica possibilità autonoma dell'uomo è quella di scegliere la morte, l'idolo che egli si costruisce cade nelle mani della morte e diventa uno strumento per la sua distruzione.
  L'uomo dunque non può in alcun modo fabbricare un Dio che lo libera e lo salva; ma può fabbricare un mostro che lo rende schiavo e l'uccide.
    «Ascolta Israele: l'Eterno, l'Iddio nostro, è l'unico Eterno. Tu amerai dunque l'Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze» (Deuteronomio 6:4-5).
  Con queste parole comincia la famosa preghiera «Sh'ma Israel» (Ascolta, Israele), tratta dal libro del Deuteronomio, che l'ebreo pio recita tutti i giorni. Con questa ripetuta recitazione il pio israelita ricorda continuamente a sé stesso l'importanza del primo comandamento. Il famoso «gran comandamento» dell'amore che Gesù cita in risposta alla domanda dello scriba (Marco 12:29-30) non è dunque una specie di undicesimo comandamento, ma una formulazione del primo, il quale vieta solennemente all'uomo di dividere il suo cuore, la sua anima, la sua mente, le sue forze tra diversi dei. L'Eterno, e soltanto l'Eterno, deve essere amato.
  Questo primo comandamento era ben presente nella mente di Gesù. Uno dei pochi passi del vangelo in cui vediamo Gesù citare esplicitamente i comandamenti è quello del giovane ricco. A questo giovane pio e di buona reputazione, che vuole avere buoni consigli per ottenere la vita eterna, Gesù risponde di osservare i comandamenti. Ma è da notare che i comandamenti citati da Gesù sono quelli che riguardano i rapporti con il prossimo. I racconti dei vangeli non danno alcun motivo di pensare che Gesù non abbia creduto alle parole del giovane. Ma quando questi chiede: «Che cosa mi manca?» Gesù in sostanza risponde: Ti manca di osservare il primo comandamento, il quale esclude che ci possano essere altri dei da tenere accanto all'unico vero Dio. Quindi va', sbarazzati del tuo idolo, e rendi onore a Dio ubbidendo alla sua parola che oggi ti chiama a seguirlo.
  Liberarsi di un idolo può essere qualcosa di incredibilmente difficile. Anzi, come dice Gesù, agli uomini è impossibile. Impossibile come liberarsi da soli dal potere della morte. Come l'uomo non può decidere di sciogliersi da solo dai lacci della morte per entrare di sua volontà nella vita, così non può liberarsi da solo da quella espressione del potere della morte che è I'idolo. L'unica possibilità per lui è di cogliere il momento in cui Dio stesso lo chiama ad uscire dalla schiavitù della morte per entrare nella libertà della vita eterna. Il giovane ricco ha rifiutato di essere liberato dall'idolo e quindi è rimasto sotto il suo potere, sotto il potere della morte, perché in questo modo non ha potuto ereditare quella vita eterna che Gesù gli aveva offerto.
  Gli idoli che minacciano oggi la nostra vita possono essere di diversa natura. Che si tratti dei soldi o del potere o del prestigio o della droga o di un'ideologia o di qualcosa di molto semplice e innocuo, l'idolo è sempre una potenza a cui consegniamo la nostra vita, a cui restiamo legati da una dipendenza vitale. Gli idoli che condizionano la vita di un uomo possono anche essere più di uno; in tal caso il cuore si divide e l'uomo cade nella paura di dover indovinare ogni volta quello giusto da invocare e da ingraziarsi.
  Un segno inequivocabile di dipendenza dagli idoli è la paura persistente. Le spiegazioni psicologiche che caso per caso si possono dare non sono in grado di arrivare alla radice del male. Le banalizzazioni supportate da argomentazioni «scientifiche» non servono. Va detto e ripetuto che con gli idoli non si scherza. Essi hanno a che fare con la morte: per questo non possono che generare paura, instabilità, insicurezza.
  Il primo comandamento doveva servire a mettere minacciosamente in guardia il popolo, perché il pericolo che correva ad abbandonare il suo Dio, o a permettere che accanto a Lui ci fossero divinità straniere, era mortale. Questo minaccioso avvertimento vale anche per noi. Dio ci ama teneramente, ci conosce per nome; ciascuno di noi esprime un suo pensiero, un suo particolare progetto. Per questo Dio non può tollerare che la sua creatura si consegni a padroni spietati che sembrano promettere chi sa quali soddisfazioni ma non mantengono mai le loro promesse, e alla fine, quando ormai è troppo tardi, fanno cadere la maschera e rivelano il loro vero volto, che è il volto macabro della morte. Per questo Dio avverte, minaccia, richiama, riprende, castiga, colpisce: Egli vuole che rimaniamo in una posizione di totale e continua dipendenza da Lui, e non per dare sfogo al suo dispotismo, ma perché ci ama. Soltanto Lui, che ci ha creati per amore, e ci mantiene in vita per amore, e per amore ci fa rinascere in Gesù Cristo, è in grado di darci «la vita e il bene»; gli idoli invece non possono che darci «la morte e il male».
  Il primo comandamento esprime dunque l'invito teneramente imperioso di Dio a rispondere senza alcuna riserva a questo amore, perché soltanto in questa risposta incondizionata l'uomo può trovare la sua vera vita e la liberazione da ogni paura della morte. Perché «Dio è amore» (I Giovanni 4:8) e «nell'amore non c'è paura» (I Giovanni 4: 18).
    «lo prendo oggi a testimoni contro a voi il cielo e la terra, che io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, onde tu viva, tu e la tua progenie, amando l'Eterno, il tuo Dio, ubbidendo alla sua voce e tenendoti stretto a lui (poiché egli è la tua vita e colui che prolunga i tuoi giorni), affinché tu possa abitare sul suolo che l'Eterno giurò di dare ai tuoi padri Abrahamo, Isacco e Giacobbe» (Deuteronomio 30:19-20).


 


30 mila alla maratona di Gerusalemme. Polizia in allerta

Bloccati ebrei ortodossi che volevano dimostrare

Trentamila atleti da 60 Paesi partecipano oggi alla Maratona di Gerusalemme fra ingenti misure di sicurezza approntate dalla polizia israeliana per impedire che l'evento sia disturbato da ebrei ultraortodossi. Ieri un influente rabbino ha chiesto che venga ostacolato l'evento sportivo, in protesta per l'arresto di un suo discepolo renitente alla leva. La polizia di Gerusalemme ha bloccato preventivamente decine di ebrei ultraortodossi e tre pullman che cercavano di raggiungere la città.
Il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat ha precisato che a Gerusalemme sono arrivati complessivamente 3.500 stranieri, una cifra superiore a quella di anni passati, per partecipare alla Maratona. Ha vinto un maratoneta kenyano.

(ANSAmed, 17 marzo 2017)


Costacurta ambasciatore di pace, visita all'Hapoel Katamon Jerusalem

Qualche minuto di relax, prima di un impegno importante.

GERUSALEMME, 16 mar. - A Gerusalemme per correre la mezza maratona, Alessandro Costacurta ha incontrato giovedì pomeriggio gli allievi della scuola calcio dell'Hapoel Katamon Jerusalem, in cui giocano sotto la stessa bandiera bambini arabi palestinesi ed ebrei. Billy si è intrattenuto con loro per una mezzoretta, scattando decine di foto, è stato un incontro molto piacevole, emozionante e rilassante, in attesa della prova più dura: la mezza maratona di domani mattina che a Gerusalemme parte, per consuetudine, molto molto presto: alle 6.45.

(Sky.it, 16 marzo 2017)


Israele: migliorare la gestione delle entrate si può con le riforme

A indicare una accelerazione del processo di trasformazione è il Fondo monetario internazionale nel nuovo Report

di Claudia Scardino

Il Fondo monetario internazionale ha recentemente pubblicato un Report sulla situazione economica e finanziaria di Israele. Secondo il Fondo, il Paese sta vivendo una crescita economica solida con un basso tasso di disoccupazione e questo è un momento particolarmente favorevole per intraprendere riforme che contribuiscano a sostenere una crescita forte e inclusiva. La politica monetaria dovrebbe continuare a sostenere il ritorno dell'inflazione alla fascia prestabilita.
  Il report aggiunge anche che Israele può ottenere notevoli guadagni di produttività attraverso riforme ben progettate, tra cui misure per garantire che la regolamentazione consenta di conseguire i suoi obiettivi di politica pubblica a costi inferiori. Le prospettive economiche del Paese a breve termine sono positive, ma le sfide aumenteranno nel corso del tempo. Si prevede una crescita moderata della domanda interna, ma una stabilità delle esportazioni contribuirà a mantenere la crescita reale del Pil a circa il 3% nel 2017. L'inflazione dovrebbe aumentare gradualmente, ma ci sono incertezze intorno alla tempistica di questo aumento.

 La politica fiscale del Paese
  Nel 2016 Israele ha esteso il suo record di riduzione del debito pubblico. Il deficit del governo centrale si attesta al 2,1% del Pil, ben al di sotto dell'obiettivo del 2,9%, mentre la spesa è stata mantenuta nel rispetto del budget e dei ricavi e ha superato le proiezioni, in parte a causa di vendite eccezionalmente elevate di veicoli e automobili. Il debito pubblico è diminuito di quasi 2 punti percentuali, arrivando al 62 % del Pil, grazie al basso deficit e ad una forte crescita del Pil nominale. Tuttavia, nonostante solide prospettive economiche, il bilancio del biennio 2017-18 consente ancora alti deficit e un debito gradualmente crescente.
  Gli obiettivi centrali del disavanzo pubblico sia per il 2017 e il 2018 sono stati elevati al 2,9% del PIL, dal 2½ e 2¼ per cento rispettivamente. Alcune delle nuove misure di spesa contenute nel bilancio sono positive, gli investimenti invece crescono poco. La politica di bilancio dovrebbe sostenere di più il potenziale di crescita di Israele. Le riforme di istruzione e formazione professionale, sostenute da risorse aggiuntive, potrebbero ridurre l'ampio divario registrato nei risultati educativi, rafforzare le competenze di quelli già in opera, e aiutare le donne arabe e gli uomini ad entrare nel mondo del lavoro.

 Entrate fiscali
  Secondo il report, le entrate fiscali del Paese possono essere significativamente migliorate grazie ad una riorganizzazione dei benefici fiscali (per un totale pari al 5% del Pil), in sostituzione della completa esenzione Iva e attraverso misure mirate per migliorare la gestione delle entrate. Complessivamente, la politica fiscale dovrebbe mirare a mantenere il deficit di circa il 2% del Pil in media nell'arco del ciclo. Un deficit del governo centrale su questa scala (pari al 3% del Pil per le amministrazioni pubbliche sulla base delle statistiche sulla finanza pubblica) genererebbe un graduale declino del debito in tempi normali, ricostruendo lo spazio fiscale dopo le recessioni che si traducono in deficit e debito.

 Un Paese ad alto tasso di innovazione tecnologica
  Israele, inoltre, è tra i maggiori poli mondiali dell'innovazione e della ricerca. Infatti, vanta attualmente il più alto numero di aziende high tech per abitante: quasi cinquemila per otto milioni di persone. Una ogni milleseicento. Questi, alcuni dei dati emersi durante il Festival dell'Innovazione digitale tenutosi a Tel Aviv lo scorso settembre. Le strategie adottate dal governo hanno collocato Israele al primo posto tra i Paesi che investono di più in ricerca e sviluppo, superando Stati come Svezia, Finlandia e Giappone, con incentivi alla ricerca e sviluppo che rappresentano il 4,1% del Pil.
  L'ecosistema in cui operano le start-up locali, facilita, inoltre, le possibilità di fundraising da parte di venture capital locali ed esteri. Israele è considerato, infatti, leader mondiale per quanto concerne investimenti venture capital per capital; negli ultimi anni un numero sempre maggiore di investitori internazionali ha maturato la convinzione che lo stato dell'economia israeliana possa essere valutato indipendentemente dalle preoccupazioni sulla stabilità geopolitica regionale.

(Fisco Oggi, 16 marzo 2017)


Ritrovati reperti di una famiglia ebraica di duemila anni fa

di Roberto Zadik

Il professor Philipp Esler
Fin dai tempi della Torah, la famiglia e l'educazione per la tradizione ebraica sono da sempre valori di fondamentale importanza e questo si vede anche nei tanti libri che da Singer, a Roth, da Nathalia Ginzburg, a Giorgio Bassani fino a Eliette Abecassis, nella narrativa ebraica italiana e internazionale hanno da sempre riflettuto su atmosfere, quotidianità e problematiche tipiche di qualsiasi nucleo famigliare. Ebbene recentemente come sostiene il sito francese JForum sono stati ritrovati dei reperti archeologici nella grotta di Qumran, ai piedi del Mar Morto, appartenenti a una famiglia ebraica, particolarmente antica e risalente a più di duemila anni fa.
   Questa incredibile scoperta è avvenuta grazie al contributo di un professore universitario australiano Philipp Esler esperto di Bibbia all'Università di Gloucestershire. Nei suoi studi egli ha esaminato scrupolosamente quattro papiri ritrovati nella caverna ricostruendo una storia davvero molto singolare. Protagonista della vicenda è un certo Shimon Ben Menahem che ai tempi avrebbe acquistato un boschetto di palme da dattero sulla sponda meridionale. Il terreno sarebbe stato acquistato da Ben Menachem da una donna del luogo poco tempo dopo un altro tentativo di compravendita dello stesso bosco da parte di un alto funzionario governativo della zona. Poi la terra è stata ceduta da Ben Menachem alla figlia Babatha che ha custodito questi quattro papiri e li ha nascosti nella grotta di Qumran assieme a altri 30 documenti quando era in fuga assieme ad altri ebrei durante le persecuzioni romane per sfuggire alla morte, o alla vendita come schiave durante la rivolta ebraica ebraica del 135 Ante Era Volgare. Come ha sottolineato il professor Esler "raccontare la storia di Shimon e di Babatha significa compiere un viaggio nel tempo studiando il modo di vivere dei villaggi della Giudea e della Nabatea alla fine del primo secolo" e questo è l'argomento del suo libro "Il boschetto di Babetha". "A quel tempo" ha aggiunto lo studioso "le donne detenevano importanti cariche sociali e economiche e detenevano pieni diritti e gli ebrei e i Nabateni andavano molto d'accordo fra di loro. I romani hanno sicuramente catturato Babatha ma i suoi atti giuridici sono sopravvissuti finora. Raccontando questa storia intendo onorare la memoria di due persone straordinarie: Babatha e suo padre Shimon".

(Mosaico, 16 marzo 2017)


Russia-Israele - Putin: i due paesi sono impegnati nella ricerca di una pace duratura

MOSCA - Le relazioni della Russia con Israele si basano su costruttivi contatti mantenuti periodicamente nel tempo. Lo ha detto oggi il presidente russo Vladimir Putin, che ha ricevuto al Cremlino le credenziali dal nuovo ambasciatore israeliano a Mosca, Gary Koren. Nel recente incontro con il premier Benjamin Netanyahu a Mosca si è discusso dell'architettura delle relazioni internazionali e della sicurezza in Medio Oriente, ha ricordato Putin. "I rapporti con Israele sono davvero intensi e sfaccettati. Con il primo ministro Netanyahu negli ultimi mesi ci siamo riuniti tre volte. Più di recente abbiamo tenuto colloqui costruttivi a Mosca. Mi auguro che l'accordo raggiunto contribuirà ad aumentare la cooperazione nel commercio e nell'economia, nell'agricoltura, nell'alta tecnologia", ha dichiarato Putin. "Come è noto, si è concordato di proseguire il dialogo sulle questioni regionali e globali, ci si è concentrati sulla creazione di una pace giusta, globale e duratura in Medio Oriente", ha concluso Putin.

(Agenzia Nova, 16 marzo 2017)


Biotecnologie, prospettive ed eccellenze

di Domenico Letizia

 
Israele resta uno dei paesi che più investe e sperimenta nel campo scientifico e tecnologico. Particolarmente interessante è lo stato della ricerca in ambito biotecnologico.
   Molte delle tecnologie più innovative e promettenti del mondo, escono dalle università e dagli ospedali israeliani. Con un aumento costante del numero di brevetti depositati e il numero di startup in questo settore, la biotecnologia israeliana sta cavalcando la cresta dell'onda.
   L'importanza delle biotecnologie si estende ben oltre il potenziale economico, poiché riguarda anche la vita quotidiana degli esseri umani. Il settore biotecnologico israeliano gode di altissime prospettive di successo, tuttavia, si tratta di un settore complesso che merita attenzione da parte della comunità internazionale e uno sguardo che sia privo di pregiudizio politico.
   Recentemente l'Università della California (USA) ha firmato un nuovo accordo di cooperazione con Israele volto a promuovere l'innovazione tecnologica e la ricerca e sviluppo. In una dichiarazione la presidente dell'ateneo Janet Napolitano ha affermato di essere "felice" di poter lavorare con l'Israel's National Technological Innovation Authority (IIA) come partner internazionale al fine di poter "incentivare le scoperte e le innovazioni dei nostri campus, laboratori e centri medici".
   L'accordo si concentra sul rafforzamento dei legami economici, culturali e accademici, sottolineando l'importanza della ricerca nel campo della conservazione delle acque, cyber-sicurezza, energie alternative, educazione, tecnologia agricola, salute e biotecnologia.
   Israele, secondo un recente studio, è considerato "il partner preferito per la collaborazione con ricercatori statunitensi", con un numero crescente di università americane di alto livello che collaborano con le istituzioni israeliane. Nel periodo oscillante dal 2006 al 2015 sono state più di 5000 le pubblicazioni provenienti dal mondo scientifico israeliano.
   Solo il Massachusetts Institute of Technology vanta 1835 pubblicazioni scritte con gli autori, esperti e scienziati affiliati alla Tel Aviv University, l'Università Ebraica, il Technion, l'Istituto Weizmann e il Ben-Gurion University. Al secondo posto, invece, ritroviamo la UC Berkeley con 1697 pubblicazioni, seguita dalla Columbia, con 1596. Un lavoro di ricerca abnorme e importantissimo per la comunità scientifica internazionale.
   Lo stato di Israele è pioniere nel costruire quello che oggi è il modello più diffuso di trasferimento di tecnologia (TT) e intellectual property dall'accademia all'industria. Nel 1952 il Technion di Haifa crea la prima società di commercializzazione di brevetti ed innovazioni derivati dagli studi degli scienziati.
   Nel 1959, l'Istituto Weizmann costituisce la propria società di Technology Transfer, cui seguiranno quelle delle Università di Tel Aviv e di Gerusalemme. Alla metà degli anni '60, quindi, Israele ha costituito un sistema nazionale di TT, che verrà replicato negli Stati Uniti solo negli anni '80 e in Europa e Giappone negli anni '90. Israele è anche tra i pionieri nel promuovere l'immigrazione di scienziati e tecnici, culminata nell'assorbimento di più di 160000 fra scienziati, ingegneri, medici, insegnanti e tecnici.
   Prima della nascita dello Stato d'Israele, e fino a tutti gli anni '80, gran parte dei finanziamenti vengono dedicati a due settori cruciali per lo Stato ebraico: la difesa e l'agricoltura. Ciò rende il paese estremamente attrattivo per la ricerca biotecnologica e per gli investimenti in generale.
   L'eco-sistema locale è caratterizzato da una dinamica alla quale partecipano la ricerca accademica, il sostegno del governo e una disponibilità concreta di fondi, (investimenti nella R&S di circa 5% del PIL) professionisti altamente specializzati con una solida cultura imprenditoriale, spirito innovativo e tecnologie avanzate.
   Tale settore, che rappresenta circa il 50% delle attività di ricerca, può contare su numerose strutture quali università (es. Hebrew University, Technion, Tel Aviv University, ecc.), Istituti di ricerca (es. Yeda - Weizman Institute, The Alexander Silberman Institute of Life Science, ecc.) e poli ospedalieri e centri medicali (es. Rambam Medical Center, Sheba, Hadassa, ecc.) Israele gode di una delle più alte concentrazioni al mondo di scienziati pro-capite (145 ogni 10000 abitanti) di cui il 33% è proprio specializzato nel comparto della scienza della vita.
   Gli investimenti di venture capital nelle imprese israeliane delle biotecnologie, sono cresciuti in modo significativo dalla fine degli anni 90 e il numero delle operazioni ha mantenuto negli ultimi anni un trend di crescita positivo. Le imprese israeliane di tecnologia avanzata hanno raccolto nel 2015 finanziamenti per 4.43 miliardi di USD, dato che rappresenta il livello di finanziamenti più alto registrato in Israele nell'ultimo decennio.
   Di questi finanziamenti il 21% è stato destinato al settore della Life Science. Ribadiamo il diritto alla conoscenza e tutta la comunità scientifica mondiale dovrebbe conoscere l'assoluta serietà e innovazione della ricerca scientifica in questo piccolo ma grande paese.

(Perqasje, 16 marzo 2017)


"Diritto alla Nazione e Stato ebraico"

Conferenza a Castromediano

CAVALLINO (Lecce) - L'Associazione Italia-Israele di Lecce, con il patrocinio dell'Amministrazione Comunale di Cavallino, organizza per sabato 18 marzo 2017 alle ore 19 nella Sala Conferenze "Mario Paone" del complesso polifunzionale (ex Campo Bisanti) a Castromediano, la conferenza dal titolo "Diritto alla Nazione e Stato ebraico". Relatore sarà il professor Luigi Compagna, ordinario di Storia delle Dottrine Politiche presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss "Guido Carli" di Roma.
Saggista e studioso di storia delle idee e delle istituzioni liberali, condirettore della Rivista "Libro Aperto" fondata da Giovanni Malagodi. Fa parte della Delegazione italiana dell'Assemblea Parlamentare dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). E' Presidente del Comitato Italia-Israele dell'Unione Interparlamentare.
Presenta il professor Antonio Donno, Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Lecce. Ad aprire l'incontro saranno i saluti del Sindaco della Città di Cavallino avvocato Bruno Ciccarese Gorgoni.

(Corriere Salentino, 16 marzo 2017)


Palestinesi perplessi per l'hotel di Bansky a Betlemme

La notizia dell'apertura di un albergo a Betlemme da parte del celebre graffitista Bansky ha fatto il giro del mondo nei giorni scorsi. Un'idea che non tutti applaudono.

L'edificio sede del Walled Off Hotel a Betlemme
L'ormai celebre albergo del graffitista Bansky a Betlemme, presentato alla stampa il 3 marzo scorso, ha aperto le porte al pubblico il giorno 11. Come hanno reagito i palestinesi a questa operazione tanto pubblicizzata? Gli abitanti delle case vicine, che hanno costantemente davanti agli occhi «la peggiore vista del mondo» - come recita lo slogan pubblicitario dell'albergo alludendo all'alto muro di separazione israeliano -, sembrano non apprezzare il nuovo Walled Off Hotel, di proprietà dell'artista dalla fama internazionale.
Bansky dipinge in Palestina da molto tempo: più volte ha realizzato graffiti sui muri che circondano la Cisgiordania e Gaza. L'hotel si trova non lontano dalla sua celebre «colomba della pace al centro del mirino». Grazie alle sue immagini dalla connotazione politica, l'artista a più riprese ha richiamato l'attenzione sulla realtà dell'occupazione. Ma l'uomo, la cui vera identità resta tuttora misteriosa, era riuscito a tener segreto il progetto dell'albergo. Il mondo ha scoperto con sorpresa la sua nuova creazione, che era passata inosservata fino ai primi del mese nonostante i lavori durati un anno. L'edificio, situato ai piedi del muro che racchiude la Tomba di Rachele a Betlemme, ha le finestre affacciate sulla barriera di cemento che divide Israele e Palestina.
L'apertura del Walled Off, gioco di parole che rimanda alla catena di hotel di lusso Waldorf, ha suscitato reazioni contrastanti. Da una parte ci sono i fan di Bansky che non vedono l'ora di trascorrere una notte nei suoi spazi tra i graffiti. Il sito Internet dell'albergo dichiara che «lo scopo del Walled Off è soprattutto raccontare la storia del muro, dandovi la possibilità di scoprirla. I giovani israeliani saranno i benvenuti». Sull'altro versante ci sono i palestinesi che hanno la sensazione di aver a che fare con uno sfruttamento piuttosto malsano della sofferenza.
Una famiglia palestinese aveva già aperto una Pensione Bansky a Betlemme una decina d'anni fa. Il proprietario aveva visto il misterioso graffitista intento a dipingere il muro accanto al proprio stabile e gli aveva chiesto di poter utilizzare il suo nome d'arte - Bansky - per la pensione. L'albergo appena inaugurato va però ben oltre.
Secondo l'artista palestinese Ayed Arafah «le persone vengono qui per fotografare i graffiti. Questo angolo diventa una specie di Disneyland; è come si abitassimo in uno zoo…». Non pochi pensano che questa sia semplicemente un'operazione di marketing «sulle spalle dei palestinesi che vivono sotto occupazione». Il muro non dovrebbe diventare un'attrazione turistica. Osserva Karim Kattan, che lavora al progetto della rete culturale palestinese el-Atlal: «Siamo colonizzati anche dentro le nostre teste. Stiamo celebrando un artista che approfitta della situazione di occupazione di un Paese in cui l'industria turistica, con i suoi numerosi alberghi, è già in crisi».
Insomma, a Betlemme l'albergo di Bansky sembra avere il sapore di un progetto per borghesi anticonformisti.

(Terrasanta.net, 16 marzo 2017)


Yoram Gutgeld parla dello stato d'Israele

Introduce l'onorevole Dario Parrini

EMPOLI - Quando i media occidentali si occupano dello Stato d'Israele, lo fanno quasi sempre in riferimento al conflitto con i palestinesi e agli attentati che avvengono sul suo territorio. Sono assai pochi i giornalisti capaci di guardare alla realtà economica e sociale di questo piccolo ma straordinario Paese, l'unica democrazia del Medio Oriente, che nel giro di pochi anni ha raggiunto uno straordinario tasso di crescita, nonostante le permanenti difficoltà politiche che lo condizionano. 6,2% è un numero che dovrebbe essere tenuto ben presente: è il tasso di crescita del PIL israeliano nel 2016, un tasso che sarebbe già elevato per un Paese in via di sviluppo ma che è assolutamente straordinario per un'economia matura come quella israeliana, un tasso non solo superiore di molte volte a quello dei Paesi europei ma anche a quello degli Stati Uniti. Questo grande balzo in avanti è stato dovuto soprattutto a una serie di scelte coraggiose che hanno privilegiato la ricerca e l'innovazione, soprattutto in settori come quelli dell'elettronica e dell'informatica, campi nei quali Israele sta conquistando il primato nel mondo. E' un esempio al quale guardano con attenzione anche gli imprenditori italiani.
Di questi aspetti dell'economia dello Stato d'Israele parlerà lunedì 20 marzo a Empoli Yoram Gutgeld, dirigente d'azienda di origine israeliana ma da tempo cittadino italiano, dal 2013 deputato del Partito Democratico e dal 2015 commissario per la revisione della spesa pubblica, nominato dal Governo Renzi e confermato dal Governo Gentiloni.
L'incontro verrà introdotto dall'on. Dario Parrini, segretario regionale del PD, ed è stato promosso congiuntamente dall'Associazione Italia-Israele di Firenze e dal Partito Democratico.
Ricerca e innovazione alla base del successo dell'economia israeliana
Lunedì 20 marzo 2017, ore 17.30
Asev - Agenzia per lo sviluppo Empolese Valdelsa, Via delle Fiascaie 12, Empoli.

(gonews.it, 16 marzo 2017)


Alfano in Israele: mai piu errori come all'Unesco

Viaggio lampo di Angelino Alfano in Israele e Cisgiordania. Al ministro degli Esteri è servito per dire al governo di Gerusalemme e ai leader dell'entità palestinese che l'Italia resta ancorata alla soluzione dei due Stati per il conflitto ìsraelo-palestinese, la cui risoluzione non può che passare attraverso «trattative dirette» tra le parti. Alfano ha incontrato, a Gerusalemme, il premier Benjamin Netanyahu e il presidente Reuven Rivlin e, a Ramallah, il presidente Abu Mazen e il responsabile della politica estera palestinese, Riad al Maliki. Soprattutto, esortato dal premier israeliano, Alfano ha assicurato che, se all'Unesco dovessero essere presentate mozioni come quella dello scorso ottobre, che negava ogni legame tra il Monte del tempio di Gerusalemme e l'ebraismo, l'Italia voterà contro. L'altra volta non andò così: ministro degli Esteri era ancora Paolo Gentiloni e l'Italia si astenne. Matteo Renzi, allora premier, definì la scelta di astenersi «incomprensibile e sbagliata». Sia a Rivlin sia a Netanyahu, Alfano ha detto che Israele è «una meravigliosa risorsa di democrazia nell'area mediorientale».

(Libero, 16 marzo 2017)


Da notare, con soddisfazione, che si dica “governo di Gerusalemme” e “entità palestinese”.


Washington sigilla l'intesa Israele-Riad

L'israeliano Dore Gold spiega i nuovi equilibri dopo l'era Obama.

di Rolla Scolari

 
Donald Trump e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman
Il presidente Usa Donald Trump ha incontrato martedì il vice principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. La visita arriva dopo un periodo di tensioni tra Riad e la precedente amministrazione. Trump ha cercato d'arruolare l'Arabia Saudita in uno sforzo regionale per trovare soluzione al conflitto israelo-palestinese. A Salman, il presidente ha detto d'avere «un grande desiderio» di raggiungere un accordo. Benché l'Arabia non riconosca Israele, nel 2002 Riad fu alla testa di una naufragata iniziativa araba di pace, che coinvolgeva i Paesi sunniti. «È cambiato molto nella regione da allora - ha detto a "La Stampa" Dore Gold, ex ambasciatore israeliano negli Usa e già direttore del ministero degli Esteri-, ma è importante incorporare gli Stati arabi in qualsiasi accordo».
   Nel 2015, aveva fatto rumore l'apparizione a una conferenza a Washington di Gold vicino all'ex generale saudita Anwar Esky, che nel 2016, in un'inedita visita a Gerusalemme, ha detto che la nascita di uno Stato palestinese arginerebbe un'ascesa iraniana Tra Israele e Arabia Saudita c'è un interesse comune, spiega Gold: bloccare quelle che i due Paesi ritengono mire espansionistiche dell'Iran. Su questo, l'arrivo di Trump è percepito dai rivali su carta come un buon auspicio. «Sotto Obama c'è stato un tentativo di spostare l'asse strategico verso l'Iran. Con Trump questo approccio sembra chiuso». Se sotto Obama alleati storici, dai Paesi sunniti a Israele, hanno percepito un disimpegno dell'America dalla regione, «la volontà di Trump di rafforzare il budget militare invia un segnale - dice Gold -. La scelta di un segretario della Difesa come James Mattis, ex comandante del Centcom, dimostrerebbe come l'Amministrazione sia conscia degli interessi comuni con i partner della regione».
   Per Gold, gli interessi strategici attraversano il Mediterraneo. «Tatticamente e strategicamente gli europei possono imparare dall'esperienza israeliana nella lotta al terrorismo», spiega l'ambasciatore che è tra gli autori della ricerca «Lessons from Israel's Response to Terror», edita dal think tank che presiede, il Jerusalem Center for Public Affairs. Il volume, a cura di Fiamma Nirenstein, è stato presentato ieri alla Camera dei Deputati. «Per alcuni in Europa il problema che Israele affronta è politico, legato al conflitto con i palestinesi. Non è vero: il tipo di minaccia è lo stesso: è esistenziale», dice Gold.

(La Stampa, 16 marzo 2017)


Commissione dell'Onu accusa Israele di «apartheid»

Una nuova bufera diplomatica è all'orizzonte nei già difficili rapporti tra il governo israeliano e le Nazioni Unite, dopo quella con l'Unesco dell'autunno scorso. Una commissione dell'Onu composta da soli Paesi arabi e dall'Autorità palestinese ha infatti presentato un rapporto in cui accusa Israele di «apartheid» contro i palestinesi e invita tutti i governi ad adottare le iniziative della campagna internazionale per «il boicottaggio, i disinvestimenti e le sanzioni» contro lo stesso Israele. Il rapporto potrebbe provocare nuove dure reazioni da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu, che in ottobre decise la sospensione di ogni rapporto con l'Unesco.
Il rapporto è stato presentato a Beirut dall'Escwa, la Commissione economica e sociale dell'Onu per l'Asia occidentale che equivale in pratica ad un feudo arabo: è infatti composta da 17 Paesi arabi. Il portavoce del ministero israeliano degli Esteri, Emmanul Nachshon ha definito le accuse «nauseabonde».

(Avvenire, 16 marzo 2017)


Sorpresa, gli ebrei francesi votano Marine

Gli attentati hanno trasformato la Le Pen nel baluardo contro il jihadismo. Ma attorno a lei restano parecchi antisemiti.

di Leonardo Martinelli

Michel Thooris
PARIGI - Cranio liscio e fisico robusto. Michel Thooris, poliziotto di 36 anni, è ebreo. Ed è uno dei più strenui sostenitori di Marine Le Pen: «Oggi è lei a proporre il progetto più solido contro l'islam radicale, che è all'origine di un antisemitismo crescente in Francia». Per Thooris, «la preferenza nazionale di cui parla la Le Pen si applica a tutti i francesi, anche ai musulmani, ai gay. Sì, pure agli ebrei». Ma non hanno sempre votato a sinistra? «È un falso mito» continua. «L'élite ebraica in Francia vota la gauche. Ma la maggioranza è di destra».
   Ripensando al negazionismo sfrontato di Jean Marie Le Pene ai suoi insulti contro gli ebrei durante i comizi, sembra impossibile. Ma è così: Marine guadagna sempre più terreno nella comunità ebraica di Francia, che conta 475 mila persone, la più grande fuori Israele, dopo gli Stati Uniti. Già nel 2011 la leader populista ha definito «i campi di concentramento nazisti il massimo della barbarie». Nel 2012 ha cacciato dal partito il padre dopo che aveva definito le camere a gas naziste «un dettaglio della storia».
   D'altra parte, alle presidenziali del 2012 la Le Pen aveva già ottenuto il voto del 13 per cento degli ebrei, contro la media globale del 17, 9: un risultato oltre ogni aspettativa. Poi ci sono stati gli attentati jihadisti, che hanno spinto, solo nel 2016, 5 mila ebrei francesi a emigrare in Israele. Louis Aliot, compagno di vita di Marine e vicepresidente del Front National, è il suo trait d'union con la comunità dato che il nonno materno era ebreo. Pur di origini semplici, Louis ha in tasca un dottorato di diritto pubblico e una allure da «gentleman farmer». Insomma, è presentabilissimo.
   Ma siamo proprio sicuri della sincerità della Le Pen? «Su di lei non ci sono dubbi» risponde Thooris. «Il partito è un'altra cosa. Lì ci sono ancora degli antisemiti, ma come in tutta la società francese». Nel 2011 Thooris ha preso la tessera e un anno fa ha creato l'Unione dei patrioti francesi ebrei, vicina al Fn. In effetti, intorno alla Le Pen, che cerca di conciliare vecchi e nuovi elettori, gravitano ancora strani personaggi. Come Frédéric Chatillon, una vecchia conoscenza dell'università: era leader del Gud (Groupe union défense), studenti di estrema destra e picchiatori. Oggi con le sue società fornisce servizi al partito per la propaganda ed è amico dell'ideologo Alain Soral e dell'umorista Dieudonné, entrambi accusati di antisemitismo. E nei meeting importanti, con i suoi quasi due metri d'altezza, è sempre ben visibile accanto alla «capa»

(Panorama, 16 marzo 2017)



Parashà della settimana: Ki Tissà (Quando farai il conto)

Esodo 30:11-34:35

 - Ki Tissà sono le due prime parole della nostra parashà che letteralmente si può tradurre"quando tu eleverai" ma il suo significato è" quando tu conterai". Chiunque fa parte delle persone censite darà il contributo al Signore di un mezzo siclo. Il ricco non darà di più né il povero darà di meno. E' un contributo obbligatorio per la costruzione dell'altare (mizbeah) e delle basi (adanim) del Tempio.
Quale è il significato del mezzo siclo? Secondo la tradizione ogni ebreo senza un altro ebreo è incompleto. Da questa prospettiva si apprende che il tutto non è il risultato della somma delle parti, bensì unità negli intenti, simbolo questo della presenza di D-o Benedetto in mezzo al popolo d'Israele.
Rashì spiega che la mitzvà del censimento è stata data a Moshè dopo il peccato del vitello d'oro, che è il tema centrale della nostra parashà, peccato che può apparire incomprensibile. Difatti come può un popolo che ha visto con i suoi stessi occhi miracoli e prodigi compiuti da D-o, rinnegarLo? Per rispondere a questa domanda bisogna analizzare in profondità il suo significato. "Il popolo si accorse che Moshè tardava a scendere dalla montagna, si radunò intorno ad Aronne e gli dissero: Orsù facci degli dei (eloqim) che marciano dinanzi a noi perché dell'uomo Moshè, che ci fece uscire dalla terra d'Egitto, non sappiamo più nulla" (Es. 32.1).
La paura della perdita del capo condusse il popolo a fare qualcosa che D-o non aveva "comandato" cioè la costruzione del vitello d'oro, ritenuto un mezzo per comunicare con D-o. Aronne, sotto la pressione del popolo non ha opposto alcuna resistenza. Egli cercava di guadagnare tempo nella speranza che Moshè scendesse dal monte nell'accampamento. Ma perché Aronne ha contribuito a fare con le proprie mani questo idolo del vitello? Forse era in gioco la sua stessa vita per cui egli eresse un altare di fronte al vitello e gridò: "Domani è festa solenne in onore del Signore. Il mattino seguente offrirono sacrifici e dopo il popolo si mise a mangiare e bere e si dette ai divertimenti" (Es. 32.6).
Il peccato inizia sempre con dei pretesti. Prima con la paura, poi con dei sacrifici per mascherarne il vero significato ed infine l'istinto del male mostra il suo volto: il popolo si dette ai divertimenti (lezahek). Questa espressione nella Torah viene usata quando Ismaele "giocava" con Isacco (facendo idolatria) e quando Avimelek osservava Isacco "giocare" con sua moglie (rapporti proibiti).
Moshè di fronte a questa tremenda visione ruppe le tavole della Legge e disse ad Aronne: "Cosa ti ha fatto questo popolo per cui hai tollerato una così grave colpa?" (Es. 32.21). Aronne non sminuisce il suo peccato, ma aggiunge: "Tu stesso conosci come questo popolo sia incline al male". Il peccato del vitello d'oro contiene il segreto della storia d'Israele, che malgrado questo incidente di percorso, mediante una sincera teshuvà (pentimento) continua a credere nella Torah di Moshè e non al vitello d'oro delle diverse ideologie e religioni, che predicano l'idolatria rivestita di santità.

Le seconde tavole
Possiamo domandarci per quale ragione le "seconde tavole" sono state presentate subito dopo il peccato e il perdono di D-o, senza un intervallo di prova per la riabilitazione del popolo. La risposta probabile è che la rivolta accaduta in occasione del vitello d'oro sul piano umano può avere interpretazioni e conseguenze differenti. Nella storia delle Nazioni della terra alle rivolte di popolo spesso seguono nelle società cambiamenti di leggi e costumi. Per Israele questo non si verifica essendo la sua storia "sacra". Nessun peccato o ribellione cambierà la legge Divina. Il Signore difatti non muterà i Suoi piani verso Israele. Dopo la riconciliazione il primo gesto che compie, è quello di ripresentare al popolo le stesse Tavole dicendo a Moshè: "Taglia tu due tavole di pietra uguali alle precedenti" (Es.34.1). Le prime tavole erano state date direttamente da D-o mentre nelle seconde è presente anche la mano dell'uomo, che è pronto a riparare (tikun) per quanto accaduto. F.C.

*

 - "Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio" (Es. 31:18).
Con queste parole si concludono i primi quaranta giorni e quaranta notti trascorsi da Mosè con l'Eterno sul monte Sinai. Il verbo originale qui tradotto con "finire" (calah, כלה) è usato per la prima volta nella Genesi: "Così furono portati a compimento (calah) il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Dio, nel settimo giorno portò a compimento (calah) il lavoro che aveva fatto" (Gen. 2:1-2). Quindi il testo dell'Esodo potrebbe essere reso in questo modo: "Quando l'Eterno ebbe portato a compimento il suo parlare a Mosè ecc.".
Le parole che Dio dice a Mosè sul Sinai costituiscono dunque un discorso compiuto, in sé perfetto, a cui non c'è nulla da aggiungere, così come non c'è nulla da aggiungere alle parole con cui Dio ha creato il cielo e la terra. Alla fine del suo discorso Dio consegna a Mosè due tavole di pietra, da Lui stesso tagliate, su cui ha scritto col suo dito le "dieci parole" (Deut. 4:13). Sono dette "tavole della testimonianza" perché la pietra di cui sono formate avrà il compito di essere un testimone muto del patto stipulato tra Dio e il popolo. Qualcosa di simile avvenne nel patto di non aggressione che stipularono Labano e Giacobbe prima di separarsi. "Giacobbe prese una pietra, e la eresse in monumento. E Giacobbe disse ai suoi fratelli: 'Raccogliete delle pietre'. Ed essi presero delle pietre, ne fecero un mucchio... E Labano disse: 'Questo mucchio è oggi testimonio fra me e te'" (Gen. 31:45-55).

Qual è il dono?
Se si vuol parlare di "dono della Legge", si deve dire che il dono che Dio fa al popolo è proprio questo: le due tavole di pietra, tagliate e lavorate dalle Sue mani, scritte col Suo dito, insieme alle parole che le hanno accompagnate.
Ma il vero dono che Dio fa al popolo non è questo, così come il vero dono che uno sposo fa alla sposa non è l'anello che le infila al dito il giorno delle nozze: quello è soltanto un testimonio muto del dono di sé che l'uomo fa alla donna, ricevendone a sua volta un dono simile, in un legame d'amore che in quanto tale è pensato e dichiarato infrangibile. È nella prima notte di matrimonio che comincia ad esprimersi questo dono, quando ciascuno dei due si mostra all'altro senza gli abiti di copertura che servono a proteggere dai pericolosi sguardi di chi non ama.
Questo dono di Sé al popolo il Signore l'ha fatto quando sulle pendici del monte Sinai si è fatto vedere nella sua gloria dai settanta anziani d'Israele (Es. 24:9-11), senza "stendere la mano" contro di loro, perché poco prima si era collegato al popolo in un patto di sangue che era un vincolo d'amore.

Segni distintivi
Questo dono di Sé, unico in tutta la storia dell'Antico Testamento, è un fatto di grandezza eccezionale; la sua importanza è molto sottovalutata dai commentatori. Qui abbiamo uno dei segni che rendono unico il popolo ebraico, perché nella sua storia ha visto qualcosa che nessun altro popolo ha mai visto. E' un segno indelebile, perché il fatto di aver visto non può essere cancellato da quello che avviene dopo.
Un altro segno che rende unico il popolo ebraico è descritto in questa parashà: nessun popolo ha commesso un atto di idolatria così grave come quello compiuto da Israele all'inizio della sua storia d'amore col Signore. Nei commenti ebraici si cerca in vari modi di diminuirne la gravità, ma non è assolutamente possibile. Come avvenne nel giardino di Eden, nel silenzio di Dio, l'uomo ha preso l'iniziativa e con la sua azione ha infranto il patto su cui si fondava il suo rapporto d'amore col Signore.
Dio allora comunica a Mosè la sua intenzione di distruggere il popolo; ma alla fine non lo fa. Se si giudica coi nostri metri, qualcuno potrebbe dire che il Signore ha un carattere emotivamente instabile: prima dice di voler fare di questo popolo il suo tesoro particolare, poi dice di volerlo distruggere, poi ci ripensa e non lo fa. Dio certamente ha emozioni, ma le esprime sempre nei limiti della sua giustizia. Il rapporto con gli uomini è sempre, in primo luogo, di carattere giuridico. L'accordo fatto con Israele era un patto di sangue, dunque il trasgressore doveva morire. Indipendentemente dalle emozioni, Dio manifesta il proposito di dar corso a questa forma di giustizia. Ma a questo punto interviene un "cavillo giuridico" di cui deve tener conto: è Mosè a presentarglielo.

L'intervento di Mosè
Mosè è parte del popolo, ma non ha partecipato al peccato. Che fare? Dio fa a Mosè questa proposta: staccati dal popolo, lascia che io lo distrugga e "io farò di te una grande nazione" (Es. 32:10). Proposta allettante, ma era la stessa che Dio aveva fatto ad Abramo. Mosè glielo fa tornare alla memoria: "Ricordati di Abraamo, di Isacco e di Israele..." (Es. 32:12), e lo invita a pentirsi dei suoi propositi. Risultato: "L'Eterno si pentì del male che aveva detto di fare al suo popolo" (Es. 32:14).
Apparentemente, Dio si è rimangiato la parola. Ma anche nell'Eden era successo qualcosa di simile; Dio aveva detto all'uomo: "Nel giorno che ne mangerai, certamente morrai" (Gen. 2:17); eppure l'uomo ne mangiò e in quel giorno non morì. Ma in quel giorno, come dice l'apostolo Paolo, entrò nel mondo la morte: "... per mezzo d'un sol uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato v'è entrata la morte, e in questo modo la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" (Rom. 5:12).
In modo simile, l'adorazione idolatrica del vitello d'oro, all'inizio del rapporto d'amore con Dio, ha fatto entrare la morte nella storia del popolo ebraico. Non è forse questo un carattere peculiare di questo popolo: dare l'impressione di essere sempre sul punto di morire; far nascere in molti il pensiero che sia degno di morire, e in altri la voglia stessa di vederlo morire? Ma questo non è avvenuto; e non avverrà, perché questo popolo porta in sé un altro segno distintivo: quello della risurrezione dai morti.
Tornando alla figura di Mosè, si può osservare che in lui giocano due parti, una divina e una umana: rappresenta Dio davanti al popolo e rappresenta il popolo davanti a Dio. Sul monte Sinai Mosè gioca la parte del popolo e chiede a Dio di desistere dalle sue intenzioni genocide. Quando poi scende in pianura e vede il popolo gozzovigliare nell'idolatria, si mette dalla parte di Dio e rompe clamorosamente le tavole della testimonianza. Le tavole adesso sono rotte, ma continuano ad essere tavole di testimonianza; solo che invece di testimoniare di un patto concluso, adesso testimoniano di un patto rotto. E' in questo momento che Mosè prende coscienza dell'ira di Dio e se ne rende partecipe: ordina di colpire con la spada tutti coloro che sono coinvolti attivamente nell'orgia idolatrica.

Un peccato perdonato?
Il giorno dopo Mosè torna dall'Eterno, ma stavolta non per rimproverarlo. Ora capisce la gravità di quello che il popolo ha fatto; capisce le ragioni dell'ira di Dio e semplicemente, umilmente, chiede a Dio di concedere al popolo il suo perdono. Mosè dunque si mette di nuovo dalla parte del popolo, senza coinvolgersi nel suo peccato. Ai suoi fratelli dice: "... forse otterrò che il VOSTRO peccato sia perdonato" (Es. 32:30); a Dio dice: "... perdona ora il LORO peccato" (Es. 32:32). Mosè dunque sottolinea di non avere peccato, e tuttavia non prende le distanze dal popolo, ma è pronto a seguirne le sorti: "... altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto" (Es. 32:32).
Prima Mosè aveva posto al Signore una questione di coerenza, ricordandogli il patto con Abramo, ora gli pone una questione di giustizia: può Dio cancellare, insieme al popolo peccatore, un uomo che fa parte del popolo ma non è stato partecipe del suo peccato?
Il Signore prende in considerazione l'istanza di Mosè e gli concede di non sterminare il popolo. Ma non dice che perdonerà. Alle suppliche di Mosè, Dio risponde con una concessione, non con il perdono: "Ora va', conduci il popolo dove ti ho detto. Ecco, il mio angelo andrà davanti a te; ma nel giorno che verrò a punire, io li punirò del loro peccato" (Es. 32:34).
In nessuna parte dell'Antico Testamento si dice che Dio abbia perdonato al popolo il peccato del vitello d'oro. Potrebbe essere questo il "peccato originale" di Israele, che il mondo cerca continuamente e molti dicono di aver trovato, chi qui chi là? Forse, ma se è così, è un peccato contro Dio, non contro gli uomini. Ed è un peccato a cui Dio stesso si è preoccupato di porre rimedio. Quale? Per capirlo bisogna aspettare il seguito. Fino alla venuta del Messia. M.C.

  (Notizie su Israele, 16 marzo 2017)


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