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Notizie 16-31 ottobre 2023


I nemici di Israele non sono a destra, ma a sinistra!

di Umberto Baldo

Il termine Sionismo (da Sion, antico nome di Gerusalemme) è stato coniato alla fine del XIX secolo per indicare l’ideologia politica ed il movimento nazionalista  che intendeva restituire una terra e una patria agli ebrei della diaspora. 
   Quindi dal punto di vista letterale sionismo non è la stessa cosa dell’odio antiebraico (antisemitismo), che vuole distruggere il popolo ebraico, cancellandolo dalla faccia della terra. 
   In teoria si potrebbe essere antisionisti senza per questo essere antisemiti. 
   Tuttavia, oggi, sempre più spesso, non siamo di fronte alla legittima critica alla politica di Israele, ma ad uno scivolamento verso i cliché antisemiti del passato.
   Ho iniziato con questa distinzione di tipo semantico, perché la guerra in corso, conseguente al proditorio attacco di Hamas del 7 ottobre, e le reazioni che ne stanno seguendo, riportano drammaticamente di attualità il tema del millenario odio verso gli ebrei (meglio esser precisi, perché anche gli arabi sono semiti).
   Il problema è che, guardando alle piazze in Europa, negli Usa, in Australia, in Asia, le manifestazioni di questi giorni sono formalmente “per la pace”, ma una pace declinata in cartelli e slogan del tipo “Hamas Hamas gli ebrei nei forni a gas”.
   E così negli imponenti cortei di Londra si invocava la sparizione di Israele; a Barcellona, un albergo di un ebreo israeliano è stato assaltato durante le proteste; a Parigi una coppia di ebrei ha visto bruciata la porta della propria casa, su cui era esposta la tradizionale mezuzah; in Polonia, i cartelli raffiguravano un cestino della spazzatura contenente la stella di Davide, buttata via per “tenere pulito il mondo”; a Berlino, è stata lanciata una molotov contro una sinagoga e stelle di Davide sono state disegnate con lo spray sulle case di alcuni ebrei, come facevano i nazisti per i loro bersagli; a Mosca, in modo simile è stato segnato un ristorante; a Vienna, raduni davanti alla sinagoga con tentativi di strappare la bandiera israeliana.
   Guardando a queste che io considero nefandezze dettate da ignoranza e stupidità mi sono chiesto: possibile che in tutto il mondo si stiano contemporaneamente affermando posizioni tipiche della destra nazista?
   La risposta l’ho trovata osservando bene coloro che in Italia partecipano alle manifestazioni  spesso spacciate “ a favore della pace”, ma in realtà pro-Palestina ed anti-Israele (e mi dispiace per i cattolici che, mi auguro in buona fede, si prestano a questa mistificazione nelle piazze antisemite).  
   E constatando che non si tratta del popolo della destra!
   Perché, a parte qualche ineliminabile gruppuscolo minoritario, ma di fatto del tutto isolato, la destra italiana bene o male i conti con il passato razzista ed antisemita li ha fatti.
   Un processo cominciato già dai tempi di Giorgio Almirante, molto criticato per questo da Julius Evola, per arrivare nel 1995 alla cosiddetta “svolta di Fiuggi” (quella che decretò la fine del Msi e la nascita di Alleanza Nazionale), il congresso  che terminò con un documento nel quale si fissava nero su bianco la “condanna esplicita, definitiva e senza appello verso ogni forma di antisemitismo e di antiebraismo, anche qualora siano camuffati con la patina propagandistica dell’anti-sionismo e della polemica anti-israeliana”.
   Tale svolta fu definitivamente suggellata nel 2003 dal viaggio penitenziale di Gianfranco Fini a Gerusalemme, con la visita allo Yad Vashem.
   Ho ripercorso questo processo per puro amore di verità, perché è inutile girarci attorno, la minaccia per gli ebrei oggi viene da sinistra, le cui punte di diamante sono i gruppuscoli della gauche radicale. 
   Il motivo a mio avviso è che nelle sinistre, non solo italiane in verità, non è mai stato fatto un lavoro culturale approfondito, ed una riflessione articolata, sulle cause lontane della crisi mediorientale. 
   A meno che non si ricorra, come molti ancora fanno, ai cliché dell’antisionismo e della cancellazione dello Stato di Israele.
   Di conseguenza a mio avviso risultano non solo antistoriche, ma addirittura patetiche, le posizioni di chi afferma: “io non sono contro gli ebrei, sono contro lo stato ebraico ed il sionismo!”.
   E’ forse comodo negarlo, ma è evidente che il sionismo non può essere disgiunto dell’ebraismo, perché fin dai tempi di Ben Gurion e di Golda Meir il sionismo non ha mai avuto alcun carattere capitalista od imperialista, ma era l’estrinsecazione del desiderio, ed io direi del diritto dopo la Shoah, del popolo ebraico di avere una propria terra dopo due millenni di persecuzioni e pogrom. 
   Non è un mistero che a sinistra non si annoverino particolari simpatie verso il governo di Tel Aviv sia che governi il conservatore Likud, sia che al potere vi siano forze di sinistra, come non è mistero che diversi leader della sinistra contemporanea abbiano in passato, anche da posizioni di governo, manifestato vicinanza ad Organizzazioni  terroristiche come Hezbollah o Hamas.
   E ogni anno confesso che mi indigno nel sentire i fischi che i gruppi di sinistra muniti di bandiere palestinesi indirizzano alla Brigata Ebraica durante le parate del 25 aprile.
   E mi fa ancora più male che, a parte qualche frase di circostanza, non ho mai sentito condanne serie e definitive da parte dei leader della sinistra contro questi fischi ignobili. 
   Uno dei problemi è che a partire dagli anni 80, la memoria collettiva della Shoah si è progressivamente affievolita, generando quello che gli studiosi definiscono come l’antisemitismo secondario, in base al quale si arriva a paragonare il sionismo al nazismo, e a descriverlo come “colonialismo combinato con furti e omicidi”.
   Dato il sentiment filo palestinese presente in molte componenti della sinistra, soprattutto in quella cosiddetta antagonista, va senz’altro apprezzata la netta scelta di Elly Schlein (e non era scontata!) di posizionare il  Pd  dalla parte di Israele, che “ha tutto il diritto di difendersi”, ribadendo che il punto è “isolare Hamas” e distinguere “tra palestinesi e terroristi”, avvertendo proprio per questo di “evitare una strage a Gaza”.
   Non ho capito quindi il perché del suo dissenso sull’astensione dell’Italia all’Onu, visto che il documento proposto e votato dall’Assemblea non citava neppure per inciso l’eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre.
   Se qualcuno di voi sta pensando che io sia “di destra”, si sbaglia di grosso, perché in realtà io sono sulle stesse posizioni di molti intellettuali israeliani ed ebrei progressisti, che hanno denunciato il loro dolore per la “mancanza di solidarietà ed empatia” dimostrata dalla sinistra globale. 
   Parliamo di lettere scritte da personaggi della caratura di David Grossman e Michael Walzer,  oltre che dal leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid  che ha chiesto alla “sinistra radicale globale”:  “Quanti ebrei devono morire prima che smettiate di incolparci per tutto ciò che accade? In quel terribile sabato di due settimane fa ne sono stati assassinati 1400. Quanti ve ne servono? Diecimila? Sei milioni? …”
   Vi riporto un passaggio di una di queste lettere aperte:  “Noi, accademici, leader di pensiero e attivisti progressisti con sede in Israele e impegnati per la pace, l’uguaglianza, la giustizia e i diritti umani, siamo profondamente rattristati e scioccati dai recenti eventi nella nostra regione. Siamo anche profondamente preoccupati per la risposta inappropriata di alcuni progressisti americani ed europei riguardo agli attacchi contro i civili israeliani da parte di Hamas, una risposta che riflette una tendenza preoccupante nella cultura politica della sinistra globale”.
   E’ chiaro che la sinistra israeliana ha ora toccato con mano di non poter contare sulla solidarietà e sulla comprensione dei “compagni”  europei ed americani.
   Ma io ritengo che ciò non sia un male, perché  spero che questa volta il velo dell’ipocrisia e dei distinguo pelosi sia destinato a cadere per sempre. 
   E così, proprio dopo aver visto quelle manifestazioni e quelle piazze, e aver sentito quei tanti “Si, ma….” in bocca a gente che si dichiara di sinistra,  sono molti  gli ebrei e gli israeliani che sono ormai consci di non avere mai realmente avuto degli amici,  e che si stanno rendendo conto che lo Stato di Israele è oggi più che mai una necessità, visto che forse lo slogan “never again” non ha mai avuto alcun valore.

(TWIWEB, 31 ottobre 2023)

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Spade di ferro - giorno 23 - L’avanzata e gli ostaggi

di Ugo Volli

La situazione degli ostaggi
  Hamas ha ripreso ieri il suo cinico uso del terrorismo psicologico sulla pelle delle persone che ha rapito: ha fatto girare un filmato in cui si vedono tre delle donne sequestrate, le quali danno la colpa della loro condizione al primo ministro Bibi Netanyahu e chiedono di interrompere l’offensiva per liberarle in cambio di tutti i detenuti nelle prigioni israeliane. E’ impossibile dire se queste parole siano state estorte con la violenza o con l’inganno o se riflettano la disperazione di persone che sono state sottratte alla loro casa con la violenza più bestiale, in mezzo a scene inenarrabili di morte e torture e sono in prigionia da quasi un mese, probabilmente senza notizie e in condizioni di grave disagio fisico. In ogni caso esse non hanno nessuna responsabilità e le loro dichiarazioni mostrano solo l’inumanità dei terroristi, il tentativo disperato di Hamas di salvarsi provocando divisioni nel campo israeliano e magari di ottenere una sponda da altri stati nel loro sforzo di fermare l’avanzata israeliana, giocando sul fatto che alcuni dei rapiti hanno un secondo passaporto. Hamas, per esempio, ha promesso alla Russia, che sempre più si presenta come la loro potenza protettrice, di trovare e liberare otto cittadini russi che sarebbero presenti fra gli ostaggi, distinguendoli dagli altri, come già facevano certe volte i nazisti con gli ebrei. L’uso dei rapiti come pedine contro Israele è un gioco sordido che non ha avuto nessun successo; ma è probabile che sarà ripetuto e variato, cercando di contrapporre la liberazione degli ostaggi alla distruzione di Hamas, che invece fanno entrambi parte dei compiti non negoziabili di Israele. La prova è la liberazione, avvenuta ieri sera, da parte dei militari israeliani di una soldatessa che era stata rapita il 7 ottobre, Ori Megidish, che è stata recuperata in buone condizioni, grazie all’azione dell’esercito e dei servizi. Al contrario purtroppo, è stato accertato che una ragazza tedesca di 22 anni, Shani Louk di cui esisteva un filmato dove la si vedeva rapita al rave party, ferita e umiliata, ma si pensava fosse viva fra gli ostaggi, era stata invece decapitata dai suoi rapitori dentro Gaza.

L’avanzata
  L’operazione di terra delle truppe israeliane a Gaza procede, allargandosi progressivamente. Il portavoce dell’esercito ha dichiarato: “Nelle ultime 24 ore, le nostre forze hanno ampliato la propria area di operazione nella Striscia di Gaza. Ciò include nuovi reparti di fanteria, carri armati, artiglieria e truppe del genio. Decine di terroristi, rintanati negli edifici, hanno tentato di attaccare le truppe israeliane in arrivo. Stiamo effettuando attacchi aerei contro di loro, ma ci sono anche scontri diretti tra le nostre unità di fanteria e i terroristi di Hamas.” Il portavoce usa molta vaghezza sui dettagli dell’operazione e non dice quasi nulla su dove e con quali forze Israele operi a Gaza, certamente per non aiutare il nemico con le sue informazioni. Si sa che sono state inflitte forte perdite ai terroristi in questa zona e che un riservista israeliano vi è mancato per il rovesciamento di un carro. Fonti palestinesi hanno pubblicato un video in cui si vede che i carri armati israeliani sono già all’incrocio di Natzarim, a circa un terzo da nord dell'autostrada Salah al-Din, la principale via di comunicazione che percorre per il lungo tutta la Striscia, in una posizione a metà strada fra la barriera di sicurezza e il mare. Il piano israeliano sembrerebbe ora quello di isolare, utilizzando uno spazio agricolo senza ostacoli né gallerie, la parte urbanizzata a nord della Striscia, dove l’esercito era già entrato dal confine di Eretz, in modo da ripulirla prima di entrare nel centro di Gaza City ed eliminare anche lì i terroristi. I combattimenti urbani sono la parte più difficile e pericolosa del lavoro, per cui non bisogna farsi eccessivi ottimismi: i combattimenti andranno avanti ancora a lungo.

I combattimenti
  Negli altri teatri di guerra, gli scontri sono continuati come nei giorni scorsi. Al nord sono continuati gli scambi di colpi di bassa intensità con Hezbollah e forze siriane. A Gaza l’aviazione israeliana è riuscita a liquidare alcuni comandanti terroristi ed è intervenuta anche a Jenin, dove c’è stato uno scontro con un gruppo di terroristi. C’è stato un tentativo di attentato nella periferia di Gerusalemme concluso con la liquidazione del terrorista. Insomma, nonostante manifestazioni e veri e proprio pogrom in alcuni paesi (fra cui soprattutto la Russia, non solo in Daghestan), intorno a Hamas non si è saldato un vero e proprio fronte di guerra, certamente per decisione dei dirigenti dell’Iran, che hanno deciso di attendere un momento più opportuno e dunque di lasciare che lo sforzo bellico israeliano si concentrasse su Hamas. I terroristi se ne sono apertamente lamentati: dopo i ripetuti appelli alla guerra dei giorni scorsi, ieri è girato un filmato con dichiarazioni di un dirigente di Hamas che critica pesantemente l’Autorità Palestinese, Hezbollah e perfino i loro padroni iraniani per non fare abbastanza al loro fianco. E’ un segnale di disperazione che merita di essere notato.

(Shalom, 31 ottobre 2023)

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Come Israele ha ingannato Hamas (questa volta)

di Paola P. Goldberger

La guerra moderna non si combatte solo con carri armati e con gli aeroplani, la guerra moderna è una guerra cibernetica, una guerra psicologica e una guerra dell’informazione. A sostenerlo è Amos Yadlin, ex capo dell’intelligence militare israeliana.
Questo spiega il velo di segretezza iniziato nel tardo pomeriggio di venerdì, quando Israele ha bloccato le reti Internet e di telecomunicazioni di Gaza impedendo agli abitanti e ai militanti di condividere ciò che stavano vedendo.
Subito dopo, l’aviazione ha bombardato Gaza City con una massiccia raffica di missili, destinati a spingere i combattenti di Hamas nella loro rete di tunnel.
Poi, poco dopo le 18.00, una vasta falange di carri armati, veicoli blindati, bulldozer, fanti e ingegneri da combattimento è entrata nel nord di Gaza, senza essere vista e senza essere riportata. Un’altra colonna è entrata nel centro di Gaza, avvicinandosi a Gaza City da sud.
Con le comunicazioni interrotte, è stato difficile per Hamas comprendere appieno ciò che stava accadendo o preparare una risposta. Anche i civili palestinesi sono stati presi dal terrore e dall’incertezza, incapaci di mettersi in contatto tra loro per sapere cosa stesse accadendo.
Anche all’interno dello stesso Israele, militari e funzionari israeliani hanno lavorato per distogliere l’attenzione dall’invasione.
Addirittura alle squadre mediche è stato detto di tenere una grande esercitazione per prepararsi a gestire il rilascio di decine di ostaggi presi da Hamas il 7 ottobre. Per alcuni, ciò ha favorito l’impressione che Israele fosse sul punto di compiere un importante passo avanti nei negoziati per la liberazione degli ostaggi, quando invece stava preparando l’operazione a Gaza.
Una volta iniziata l’operazione, i portavoce dell’esercito hanno smesso di rispondere al telefono. A quel punto il blackout informativo era totale.
Sono passate tre ore prima che l’esercito annunciasse ambiguamente che stava “espandendo l’attività di terra” e sei ore prima che un portavoce militare confermasse che le truppe erano all’interno di Gaza.
Sabato, i militari evitavano ancora di descrivere la loro avanzata come un’invasione, limitandosi a notare che le truppe rimanevano all’interno del territorio. Solo la sera stessa il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato formalmente la “seconda fase” della guerra, 24 ore dopo il suo inizio.
“Le truppe hanno ucciso decine di terroristi che si erano barricati in edifici e tunnel”, si legge in un annuncio dell’esercito israeliano.
Secondo un esperto militare l’esercito israeliano sta stringendo Gaza city in una tenaglia assicurandosi che nessuno esca dalla città. Tuttavia i combattimenti veri e propri non sarebbero ancora cominciati.
Le immagini satellitari hanno mostrato un gruppo di carri armati israeliani vicino alla città di Beit Hanoun, a circa quattro miglia a nord-est di Gaza City. Altre immagini hanno mostrato altri veicoli israeliani blindati raggruppati a circa due miglia a nord di Gaza City.
A sud, sono stati visti carri armati stazionare vicino a un’importante autostrada che collega Gaza City con le zone meridionali dell’enclave.
Gli esperti militari israeliani considerano l’invasione come graduale e progressiva.
“Non è una guerra lampo, non è il tipo di guerra che abbiamo visto nella Seconda Guerra Mondiale”, ha detto il generale Yadlin. “È un movimento molto lento per assicurarci di uccidere tutti i terroristi, di liberare tutti i tunnel e di proteggere le nostre forze. Muoversi velocemente non è una buona idea”.

(Rights Reporter, 31 ottobre 2023)

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I clown medici israeliani e la medicina del sorriso in tempo di guerra

di Pietro Baragiola

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Tra le numerose unità d’emergenza scese in campo per aiutare i civili e i soldati feriti dagli attacchi di Hamas, c’è un gruppo che ogni anno si dedica a portare gioia a più di 200.000 pazienti ospedalizzati: sono i Dream Doctors, i clown medici professionisti.
   Fondata nel 2002, questa organizzazione no-profit è composta da 121 volontari che operano in 32 ospedali israeliani, affiancandosi ai team medici in più di 40 diversi tipi di procedure.
   “Il nostro scopo non è far ridere ma giocare con bambini e adulti per aiutarli a sconfiggere i loro traumi” ha affermato Iris Lia Sofer che, nel ruolo del clownOlive Emla”, si considera la fiera leader del “Commando del naso rosso” del Centro Medico Sheba, vicino a Tel Aviv.
   In un’intervista rilasciata a The Times of Israel, Sofer ha spiegato che quando le persone sono ricoverate in ospedale spesso si sentono come se perdessero il controllo su tutto e i Dream Doctors glielo fanno recuperare, permettendo ai pazienti di esprimere le emozioni che non possono o non sanno esprimere verbalmente. “Lo fanno interagendo con me e guardandomi mentre rifletto i loro sentimenti”.
   Armata della sua fedele borsa piena di giochi, Sofer cerca di distrarre anche solo per un secondo i diversi reparti dell’ospedale dal dolore causato dalla guerra contro Hamas. “Sono stato un clown medico per decenni. Ho lavorato durante la pandemia COVID, operazioni militari e altre guerre, ma questo è diverso” ha dichiarato David Barashi (in arte “Dush”), uno dei colleghi clown di Sofer. “L’intera società è traumatizzata: non solo coloro che ricevono le cure ma anche quelli che le prestano”.
   Il presidente dei Dream Doctors Tsour Shriqui ha vissuto sulla sua pelle i traumi del conflitto, essendo stato costretto ad abbandonare la propria casa perché troppo vicina alla Striscia di Gaza. Shriqui, capendo subito il contributo importante che i suoi clown medici potevano portare alle migliaia di civili traumatizzati, ha deciso di mobilitare l’operazione Healing Hearts per mandare ogni giorno nuove coppie di Dream Doctors nei centri medici che ne hanno più bisogno. “Con la nostra estesa esperienza ci dedichiamo a raggiungere il maggior numero di persone nel modo più rapido possibile, creando momenti di pace e serenità in questo clima allarmante”.

• La storia dei Dream Doctors
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L’organizzazione è stata fondata dall’israeliano Jacob Shriqui (padre di Tsour) che lavorò per diversi anni a Ginevra nel campo dell’assistenza sanitaria. Un giorno, vagando tra i reparti del suo ospedale, Jacob vide un giovane paziente che rideva insieme ad un dottore vestito da pagliaccio e rimase talmente commosso da quella scena insolita (ai tempi i clown medici non esistevano ancora nel suo Paese) che decise di usare i suoi contatti a Ginevra per raccogliere i fondi sufficienti a lanciare l’iniziativa “Dream Doctors” in Israele.
   Nel settembre 2001 l’organizzazione contava appena 3 clown mentre oggi sono 121 diffusi su tutto il territorio. “Sono tutt’ora stupito dall’apertura con cui gli staff medici israeliani hanno accolto l’idea di mio padre integrando i clown nei loro team” ha affermato Tsour, spiegando che l’unico problema iniziale era convincere dottori e infermiere dei benefici che poteva portare la presenza di un pagliaccio durante i prelievi del sangue: il bambino non piange perché il clown è lì a giocare con lui.
   Dalla sua fondazione la missione principale di Dream Doctors è stata quella di promuovere il medical clowning come un’ufficiale professione paramedica, parte integrante dello staff medico ospedaliero, in modo che ogni paziente piccolo o grande possa trarne beneficio.
   Grazie all’immenso contributo che l’iniziativa ha portato negli anni nelle diverse aree disastrate di Israele, nel 2016 l’IDF ha riconosciuto ufficialmente i clown medici di Dream Doctors come riservisti nelle loro missioni di supporto umanitario.
   “Il nostro è un linguaggio universale che si adatta ad ogni età, razza, religione, cultura e contesto socio-economico, rispettando i valori ebraici fondamentali della vita, della dignità umana e di un sano senso dell’umorismo” ha affermato Tsour, orgoglioso.

•  Curando i pazienti
  Sono 20 anni che Nimrod Max Eisenberg si è unito ai Dream Doctors come membro dei clown medici del Tel Aviv Sourasky Medical Center e l’iniziativa continua a regalargli ricordi unici.
   Eisenberg ha raccontato come, lo scorso 9 ottobre, una famiglia di cinque del Kibbutz Nit Oz è stata trasferita nel suo centro per ricoverare il figlio di 14 anni rimasto ferito negli attacchi di Hamas. “L’intera famiglia voleva restare con lui perché non avevano più una casa dove stare, visto che la loro era stata bruciata dai miliziani” ha spiegato Eisenberg.
   Appena arrivarono i clown, la più piccola della famiglia (una bambina di 8 anni) chiese loro di andare via. “Andarcene via quanto velocemente?” rispose Eisenberg e, insieme al suo team, iniziò a correre in giro frenetico, sbattendo contro le pareti della stanza fino a far scoppiare a ridere la bambina. “La sorella di 16anni era più restia tanto che, quando le chiesi il suo nome, lei rispose ‘il mio nome non è importante’. Così decisi di giocare su questo dicendo: ‘Piacere di conoscerti il mio nome non è importante.’ Nel giro di 30 minuti eravamo riusciti a far ridere tutta la famiglia”.
   Questo tipo di slapstick humor è una delle armi più efficaci dei clown medici perché, secondo Eisenberg, “bypassa l’intelletto umano e fa scoppiare automaticamente a ridere”.
   Con i soldati invece l’approccio è diverso. Eisenberg ha raccontato che nello stesso ospedale era stato ricoverato un militare che aveva perso una gamba nei combattimenti e i suoi famigliari erano visibilmente devastati. Così il team di clown medici decise di entrare nella stanza con grande rispetto e rivolgere le loro battute ad un’anziana signora nel campo visivo della famiglia, iniziando a parlare e scherzare con lei.
   “Hey se ti accompagniamo a casa cosa ci cucini di buono? Facciamo festa usciti da qui?”: non solo questi termini goliardici riuscirono a far divertire l’anziana ma a poco a poco anche la famiglia del soldato, sentendo quella bizzarra conversazione, iniziò a sorridere.
   “Questa è una tecnica che usiamo spesso: se qualcuno ha bisogno di noi ma non si vuole aprire ci occupiamo di qualcuno lì vicino” ha spiegato Eisenberg, raccontando emozionato il fatto che la famiglia del soldato arrivò persino ad abbracciare il suo team, ringraziando lui e gli altri clown del senso di serenità che avevano portato nella stanza.
   Anche Sofer ha visitato diversi soldati feriti nella sua carriera da clown medico. “Le basi sono le stesse tra soldati e bambini: l’obiettivo è sempre quello di vedere e toccare l’anima del paziente”. Sofer ha ammesso di usare un repertorio tutto suo in queste situazioni: fingendosi il chirurgo curante e chiedendo ai soldati se sono single, ironizzando sul fatto che lei è disponibile, o inventando storie divertenti nel tentativo di distrarli anche solo per un attimo dalla loro situazione attuale.
   I Dream Doctors sono presenti non solo per i pazienti ma anche per il personale medico degli ospedali, abbracciandoli e rincuorandoli con attività personalizzate: nel reparto pediatrico del centro medico Sheba i clown hanno organizzato un “matrimonio a sorpresa” per un’infermiera e il suo compagno che avevano dovuto cancellare il loro giorno speciale a causa della guerra.
   Persino gli stessi volontari non sono immuni dai traumi portati dal conflitto. Sofer, infatti, ha ammesso di aver avuto momenti di grande sconforto in cui, entrando in ospedale, aveva iniziato a piangere. “Ma quando mi sono cambiata e sono diventata ‘Olive’ tutto è cambiato” ha affermato la giovane donna. “È un personaggio completamente diverso e fa per me quello che io faccio per gli altri: sta curando la mia anima”.

(Bet Magazine Mosaico, 31 ottobre 2023)

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I palestinesi chiedono compassione e diffondono odio

A Gaza, nei campus americani o sulle pagine del New York Times, non riescono a capire perché la loro guerra contro Israele non viene sostenuta.

di Jonathan S. Tobin

Palestinesi protestano a sostegno dei palestinesi di Gaza nella città cisgiordana di Nablus il 26 ottobre 2023
GERUSALEMME - Dalle atrocità del 7 ottobre e dall'inizio della guerra contro Israele lanciata da Hamas, le voci degli arabi palestinesi non sono mai state così forti. Le sentiamo nei video e nelle interviste realizzate a Gaza, nelle strade delle città americane ed europee e nelle università degli Stati Uniti. E naturalmente la loro situazione è sulle pagine dei giornali più prestigiosi come il New York Times, dove sono sostenuti da ebrei antisionisti che lamentano il loro crudele destino a Gaza. È una narrazione dalla quale non si discostano mai: I palestinesi continuano a essere oppressi e uccisi da israeliani senza cuore e ignorati e respinti da americani altrettanto senza cuore che sostengono sconsideratamente lo Stato sionista che ha causato loro tanta sofferenza.

• Una cultura del lamento
  Queste voci palestinesi hanno molto da dirci. Sebbene le loro argomentazioni siano principalmente incentrate su un senso di amarezza nei confronti di Israele, del sionismo e degli ebrei - e su un risentimento bruciante per ciò che ci si aspetta da loro - si tratta anche di una questione di diritto. Credono di avere diritto alla nostra simpatia e non riescono mai a capire perché non ne ricevano di più. Al centro di ogni manifesto palestinese o di ogni protesta pubblicata o trasmessa dai media liberali c'è lo stupore per il fatto che qualcuno possa mettere in discussione il loro status di vittime. Lo stesso vale per l'idea che qualcuno imponga loro di rinnegare coloro che pretendono, a ragione, di parlare per loro mentre commettono crimini indicibili e rifiutano la pace.
   È questo mix tossico di amarezza e diritto che sta dietro ai video di coloro che abbattono i manifesti con i volti degli israeliani presi in ostaggio da Hamas. Allo stesso modo, questo mix è alla base dei video sui social media che mostrano il senso di gioia e di sollievo che tanti palestinesi e i loro sostenitori hanno provato quando hanno appreso la notizia degli attacchi del 7 ottobre. Il numero di morti ebrei e le sofferenze causate da questi terroristi nei loro pogrom hanno fatto gioire molte persone.
   Lo si può vedere anche nei video che mostrano la sofferenza reale a Gaza quando le forze israeliane attaccano gli obiettivi di Hamas nell'area. Questo territorio è governato da Hamas solo di nome come Stato palestinese indipendente. Non sembrano capire perché il mondo intero non sia più indignato per la loro situazione. Anzi, trovano un insulto intollerabile che gli si chieda se condannano i crimini commessi in loro nome o se i loro leader o la causa che hanno sostenuto hanno anche solo una minima parte di responsabilità per la situazione in cui si trovano ora.
   L'aspetto davvero sorprendente dello sconcerto dei palestinesi è la loro incapacità di riconoscere che sono i beniamini della diplomazia internazionale, della stampa, del mondo accademico e dell'élite di opinione.
   Con grande stupore di ebrei e israeliani, gli indicibili crimini contro uomini, donne e bambini ebrei, tra cui l'assassinio di 1.400 persone, il ferimento di migliaia e il rapimento di oltre 200 persone il 7 ottobre, hanno effettivamente dato alla causa palestinese l'impulso che i terroristi di Hamas speravano. Questo è vero soprattutto nel mondo arabo, dove, come riporta il New York Times, la violenza ha "riacceso la passione per la causa palestinese".
   È vero anche in Occidente, dove le richieste palestinesi più estreme sono cantate da studenti universitari che probabilmente non si rendono conto che gridando "dal fiume al mare, la Palestina sarà libera" chiedono l'eliminazione di Israele e il genocidio dei suoi 7 milioni di cittadini ebrei. Le manifestazioni nelle principali città ripetono questo appello, deridendo la miseria che Hamas ha inflitto agli ebrei e ignorando il fatto che la responsabilità delle vittime palestinesi a Gaza è di chi ha iniziato questa guerra, non di chi vuole punire i criminali.
   Pochi hanno espresso questa cultura del lamento meglio di Hana Alyan, poetessa e psicologa palestinese-americana, che questa settimana sul Times ha espresso il suo disappunto per la mancanza di empatia nei confronti dei palestinesi, anche se il mondo ha risposto alla guerra scatenata dalle atrocità palestinesi con un'ondata di sostegno nei loro confronti. L'autrice trova terribile che ai palestinesi venga sempre chiesto di dimostrare la loro innocenza dal terrorismo o di condannare coloro che commettono atti di terrorismo in nome del nazionalismo palestinese. Questo nonostante il fatto che ai loro "portavoce" non venga quasi mai chiesto cosa pensino della barbarie di Hamas o della Jihad islamica palestinese, o se pensino che la dittatura islamista a Gaza sia una cosa buona. Lo stesso vale per i palestinesi stessi.
   Scrive: "Non esito un secondo a condannare l'uccisione di un bambino, un massacro di civili. È la questione più semplice del mondo", e chiede che tali condanne siano estese a tutte le vittime. Ma nel suo testo non c'è scritto da nessuna parte di condannare l'uccisione di un bambino, un massacro di civili. E anche se lei e altri invocano lo spettro dell'islamofobia come una piaga che affligge l'America, non si rende conto che gli arabi e i musulmani sono diventati le principali fonti di antisemitismo, come hanno reso evidente le marce e i canti a favore di Hamas.
   Invece, rafforza sottilmente la narrativa della Nakba sul vittimismo arabo, invocando la loro "catastrofica" espropriazione senza riconoscere che anche gli ebrei sono diventati rifugiati nei Paesi mediorientali che chiamavano casa nel 1948 e negli anni successivi. Sono solo gli arabi a essere trattati come vittime e quindi a dover essere risarciti per le loro difficoltà con la distruzione di Israele.
   Un altro palestinese a cui è stato dato spazio nelle pagine delle opinioni del Times, Fadi Abu Shammalah, descritto come un attivista della comunità di Gaza, ha detto di provare compassione per le vittime israeliane, ma poi ha spiegato le atrocità del 7 ottobre come il risultato inevitabile delle politiche emanate da Gerusalemme. Ha affermato che i "militanti" che hanno massacrato intere famiglie e violentato, torturato e profanato i corpi dei vivi e degli uccisi erano solo bambini cresciuti sotto l'"occupazione". La verità è che questi assassini hanno trascorso l'infanzia, l'adolescenza e la giovane età adulta in una Striscia di Gaza senza ebrei e governata da Hamas, non da Israele.
   Gli arabi palestinesi hanno avuto un periodo difficile nell'ultimo secolo. Hanno avuto la sfortuna di vivere in una terra a cui un altro popolo - gli ebrei - è associato da migliaia di anni. A differenza di quasi tutte le altre civiltà antiche, gli ebrei si sono ostinatamente rifiutati di scomparire e di morire. La loro presenza in questa terra non è mai scomparsa del tutto durante i due millenni di esilio, ma è iniziata alla fine del XIX secolo. Nel XX secolo il sionismo - il movimento di liberazione nazionale degli ebrei - ha conosciuto il suo trionfo, con grande sgomento del mondo arabo e musulmano.
   Gli arabi, che non avevano mai formato una propria identità o una propria nazione, si organizzarono come reazione al crescente sionismo. Ma, a differenza di altri movimenti nazionalisti della fine del XIX e dell'inizio del XX secolo, non c'era molto da alimentare i loro sforzi se non il desiderio di negare la terra agli ebrei. Traditi da leader venali, intransigenti e odiosi - e ideologicamente contrari a qualsiasi compromesso con gli ebrei che avrebbe permesso loro di dividere o spartire pacificamente la terra - gli arabi nel 1947/48 preferirono la guerra all'accettazione del piano di spartizione delle Nazioni Unite che avrebbe concesso loro un proprio Stato accanto a quello degli ebrei.
   Lo statista israeliano Abba Eban descrisse questa decisione e il successivo rifiuto delle offerte di pace come la prova che "i palestinesi non perdono mai l'occasione di perdere un'opportunità", ma in parte si sbagliava. I palestinesi non hanno mai preso in considerazione nessuna di queste opportunità per un proprio Stato o per la pace. Continuano a considerare qualsiasi cosa che non porti a riportare indietro l'orologio di un secolo e a cancellare l'esistenza di Israele come un'ulteriore prova della loro oppressione e del loro vittimismo.

• Il rifiuto di guardarsi dentro
  Eppure continuano a ricevere sostegno per questa falsa narrazione dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite. E poiché anche alcuni di coloro che si dichiarano sostenitori di Israele appoggiano gli sforzi per consentire il rifornimento di Gaza, controllata da Hamas, durante il conflitto, sono anche esenti dalle conseguenze delle loro decisioni. Come spiegare altrimenti la diffusa simpatia per persone che iniziano una guerra attraversando i confini e uccidendo giovani e anziani, e poi gridano quando la nazione che attaccano cerca di impedire loro di ripetere tali crimini?
   I palestinesi soffrono. Ma i responsabili dei loro problemi restano i leader, i gruppi e i sostenitori che a Gaza, in Giudea e Samaria o all'estero sostengono la loro scelta suicida di un conflitto infinito e senza via d'uscita. Se a questo si aggiunge il loro ricorso al terrorismo piuttosto che ammettere la sconfitta nella loro lunga guerra contro il sionismo e vivere in pace accanto allo Stato ebraico, si ottiene una formula di disperazione, ma non un caso da confondere con qualcosa di simile alla giustizia.
   Ciò che manca in tutte queste sessioni di lutto palestinese non è tanto la volontà di scusarsi per il 7 ottobre. Né Israele né il mondo hanno bisogno del loro rinnovamento spirituale o del loro pentimento.
   Ciò che serve è la volontà di guardarsi dentro e riconoscere che non sono gli ebrei "crudeli" o un mondo indifferente ad averli messi in questa posizione, ma il loro stesso impegno verso un'identità nazionale che cerca di negare l'umanità e i diritti degli ebrei. Finché non sarà così, continueranno senza dubbio ad alimentare il loro risentimento. Ma finché lo faranno, la loro sofferenza, e quella di coloro che cadono preda dell'ideologia islamista omicida che continua a essere la loro principale espressione nazionale, continuerà. È una situazione che merita la nostra pietà, ma non certo la nostra compassione.

(Israel Heute, 31 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Davide doveva farsi uccidere da Golia, quelli che stanno con Israele

di Davide FacilePenna

In Italia, la nazione della “politica dei due forni”, del “né con lo Stato né con le BR”, chi prende parte a viso aperto in questioni dolorose e difficili fa sempre opera meritoria.
Chi non si nasconde dietro equidistanze (che a volte nascondono invece vicinanza all’orrore) fa, per come la vedo io, un atto di chiarezza e va lodato per il coraggio. Chi prende parte e non si cela dietro la supponenza della “complessità” fa, inoltre, un grosso favore a tutti, compresi i confusi e quelli che la vedono in modo differente. Soprattutto complimenti se chi lo fa, lo fa nella sonnacchiosa e indifferente provincia pontina.
Ieri al Circolo Sante Palumbo di Latina si è tenuto un incontro, molto partecipato, sul tema, purtroppo, del momento, il conflitto israelo-palestinese. Incontro che è stato pubblicizzato con il titolo ironico ma evocativo “Davide doveva farsi uccidere da Golia” .
Non è stato un dibattito né un convegno di storia politica con tesi contrapposte. Lo precisa nei saluti iniziali, il moderatore, Lidano Grassucci: “Non vogliamo convincere nessuno. Non abbiamo verità da rivelare. Siamo qui per esprimere la posizione della parte che abbiamo scelto, Israele, in una realtà informativa in cui sono spariti i morti del 7 ottobre e rimane solo un “cattivo”, quello che non ha accettato di essere vittima silenziosa”.
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Devo dare atto che di chiarezza sulla scelta di parte ce ne è stata tanta ed espressa sia con pacati ragionamenti sia con toni decisi e duri, ma senza esaltazioni fanatiche. Magari molti altri, furbescamente, si sarebbero tolti il peso di una presa di posizione che porta il rischio di farti passare per cattivo, infilandosi negli italici distinguo o dietro mal compresi diritti internazionali.
In questo caso ci hanno evitato la retorica buonista e buon pro gli faccia. Anche perché facile è stare con Israele nel momento in cui gli altri scannano bambini e stuprano donne, più difficile quando Israele si difende con la guerra e tutte le conseguenze che questa può portare in termini di morti tra i civili.
Sono intervenuti, oltre a Grassucci, l’ex Sindaco di Formia Sandro Bartolomeo, Alessandro Paletta (coordinatore provinciale Udc) Stefano Cardillo (coordinatore comunale Forza Italia) , Maurizio  Guercio(ha ricordato la Destra che stava con  Israele), Giusi Pesce (liberisti Italiani) , Toni Ortoleva (Direttore di Latina Oggi), Dario Petti (editore), David Petronio e Daniel Sermoneta in rappresentanza del mondo ebraico.
L’incontro è stato organizzato dal Fatto a Latina con le associazioni Atidya e Anima Latina ed hanno aderito alcune organizzazioni politiche (Udc provinciale Latina, Forza Italia comune Latina,  Liberisti Italiani).
Sono gli stessi che hanno promosso, qualche settimana fa, una raccolta di firme in difesa di Israele poi consegnate ufficialmente al Sindaco Celentano insieme alla bandiera con la Stella di David (perché però non è stata esposta fuori dal Comune?).
In ogni caso, pure in provincia, qualcuno non è “indifferente”.

(Fatto a Latina, 31 ottobre 2023)

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Se le piazze rifiutano le ragioni di Israele

di Elena Loewenthal

“Palestina libera!” non è un messaggio di pace: invocando il riscatto dal cosiddetto occupante “dal Mediterraneo al Giordano” nega a Israele il diritto all’esistenza e presuppone la necessità di una guerra totale in quell’area. Ma lo stato ebraico non nasce da un sopruso, anzi, per universale consenso: il 29 novembre del 1947, infatti, le Nazioni Unite votano a maggioranza una risoluzione che prevede alla fine del governo mandatario provvisorio inglese la nascita di due Stati palestinesi. Uno ebraico e uno arabo. Il fronte ebraico ha accolto la risoluzione e dato vita a uno dei due stati palestinesi, quello d’Israele. Il fronte arabo l’ha da allora tenacemente e costantemente respinta. “Liberare” la Palestina dal Giordano al Mediterraneo significherebbe cancellare uno Stato legittimo, e prima ancora distruggerlo con le armi. Altro che “stop a tutte le guerre”... Senza contare che ridurre gli arabi palestinesi al ruolo di vittime immacolate prive di ogni colpa e responsabilità fa un torto prima di tutto a loro, li rende l’oggetto passivo di un colonialismo politico e intellettuale che è il contrario della liberazione.
   Il conflitto mediorientale è terribilmente complesso, ricco – se così si può dire – di sfumature e di nessi sotterranei. Ma il rifiuto arabo di settantasei anni fa ne è il peccato originale (con tutto il beneficio d’inventario della metafora teologica), che ha avuto per conseguenza la negazione esistenziale prima ancora che politica del nemico – cioè dello Stato ebraico. È questo che ancora oggi chiede la piazza, quando grida “Palestina libera”: non la convivenza, non la critica a un governo piuttosto che un altro. Niente di tutto questo, ma l’eliminazione totale di quel nemico che sbaglia in quanto esiste.
   Eppure, ed è una fra le tante cose dolorosissime di questi giorni, il fronte della sinistra preferisce adagiarsi su mezze parole, mezzi silenzi e silenzi totali, pur di non ripensare al proprio rapporto con quel conflitto. “Alla sinistra internazionale non ho altro da dire che: vai all’inferno”, scrive Lilach Volach sulle pagine di Haaretz, quotidiano israeliano non propriamente guerrafondaio. Possibile che all’indomani di un attentato sanguinoso – supposto che sia logico fare questa conta, le proporzioni del 7 ottobre sono molto più terrificanti di quelle dell’11 settembre e di tutta la storia del terrorismo – la “sinistra si sia premurata immediatamente di legittimarlo come parte della rivolta civile palestinese?”, si domanda. Pensare che quel dannato 7 ottobre poteva essere l’occasione di una seria riflessione per la sinistra, che dal 1967 in poi ha rinnegato con dogmatico rigore le ragioni d’Israele. Quel 7 ottobre poteva e doveva portare con sé degli interrogativi, la consapevolezza che schierarsi in modo aprioristico non aiuta nessuno. Poteva e doveva spingere a una condanna del terrorismo che non fosse, come è stato, una formula sterile, di quelle fatte apposta per essere dimenticate.
   Con i bisbigli incerti della sua classe dirigente, anche la sinistra italiana ha preferito assecondare la piazza e gli slogan su una “Palestina libera” che dovremmo aiutare a liberarsi di Hamas, del terrorismo, dei proclami demagogici di stati canaglia cui la sorte dei palestinesi non interessa affatto. Ha preferito evocare un pacifismo che tale non è, invece di provare a ragionare su quel che è successo negli ultimi settantacinque anni. Così lo sdegno, seppure c’è stato, si è subito riempito di “se” e di “ma” ed è durato lo spazio di una notte, dopo di che è stato così facile ritrovare la confortante equazione fra Israele e nazismo, che mette il cuore in pace perché con un’etichetta così non c’è più bisogno di ragionare, basta stare da una parte e non dall’altra.

(La Stampa, 30 ottobre 2023)
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- In realtà il rifiuto arabo alla spartizione della Palestina mandataria non inizia nel 1947, ma, come minimo, nel 1937 quando venne rifiutata la decisione della Commissione Peel, in precedenza gli arabi (allora i palestinesi erano gli ebrei) dimostrarono il loro rifiuto alla costituenda spartizione con pogrom in molte città.
- La sinistra Israeliana si è accorta di quanto la solidarietà della sinistra occidentale fosse infida e in questi giorni lo reclama a gran voce. Emanuel Segre Amar

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Terrore all’aeroporto. In Daghestan tentativo di linciaggio di ebrei e israeliani prosegue per ore

di Anna Balestrieri

Diverse centinaia di persone si sono radunate, domenica 29 ottobre, all’aeroporto di Makhachkala, capitale della repubblica del Daghestan a maggioranza musulmana, per linciare i passeggeri di un volo proveniente da Tel Aviv. La notizia dell’arrivo di un volo Red Wings da Tel Aviv con rifugiati da Israele in scalo in Daghestan, riferiscono i canali Telegram locali, ha portato all’afflusso di centinaia di persone all’aeroporto, alcune con bandiere palestinesi.
  Una cinquantina di dimostranti ha pattugliato con un blocco delle auto l’uscita dell’aeroporto, fermando i passeggeri e chiedendo loro di dimostrare la propria nazionalità. Scene di concitazione con incitamenti al linciaggio degli ebrei al suono dello slogan “Allah hu Akhbar” e  si sono susseguite per diverse ore all’aeroporto, con una caccia all’uomo stanza per stanza che si è riversata sulla pista dell’atterraggio di Makhachkala, impedendo le consuete operazioni di volo. Un dimostrante portava il cartello: “Gli assassini di bambini non hanno posto in Daghestan”. Le forze dell’ordine impotenti di fronte alla violenza dei pogromchiki. I cittadini israeliani che si trovavano nell’aeroporto sono stati isolati e messi in sicurezza.
   Nei giorni recenti, i mezzi di comunicazione russi hanno riportato il moltiplicarsi delle proteste contro Israele nel Caucaso russo, grazie anche all’aperto appoggio del presidente ceceno Kadyrov alla causa di Hamas. Secondo informazioni provenienti da canali Telegram locali e pubblicate dal sito indipendente Meduza, sabato scorso si è svolta una manifestazione di fronte all’hotel Flamingo nella città di Khasavyurt, in Daghestan. Durante la protesta, i manifestanti hanno urlato lo slogan “espellere gli ebrei”, a seguito della circolazione di voci riguardo alla presenza di rifugiati israeliani presso l’hotel. A un gruppo di dimostranti è stato concesso l’accesso all’hotel al fine di verificare la presenza di ebrei nell’edificio ed è stato affisso un cartello sulla porta d’entrata recante la scritta: “È vietato l’ingresso ai cittadini israeliani (ebrei)”. Un evento simile (l’apposizione di un cartello di divieto d’entrata agli ebrei) in un negozio in Turchia ha comportato il richiamo dell’ambasciatore israeliano sul posto.
   L’Agenzia federale russa per il trasporto aereo ha annunciato la chiusura dell’aeroporto fino al 6 di novembre. Secondo il canale telegram Mash Gor, i dipendenti dell’aeroporto di Makhachkala hanno invitato la folla a selezionare una pattuglia di tre persone per salire a bordo degli aerei e testimoniare con le telecamere l’assenza di ebrei a bordo. Le forze di polizia locali non hanno inizialmente reagito, se non chiedendo alla folla di evitare atti vandalici e il blocco delle strade. Hanno al contrario espresso comprensione per i manifestanti, dichiarandosi pronti ad “alzarsi e cantare” insieme a loro. Le forze speciali sono intervenute solo quando i manifestanti hanno invaso la pista. Il ministro delle Politiche nazionali del Daghestan, Enrik Muslimov, e il ministro degli Affari giovanili, Kamil Saidov, sono giunti all’aeroporto e hanno avviato trattative con i presenti. Sono stati fermati 210 manifestanti.
   L’ufficio del primo ministro e il ministero degli Esteri israeliani insieme al Consiglio di sicurezza nazionale hanno dichiarato di seguire attentamente gli sviluppi della situazione. Lo stato di sicurezza di ebrei e connazionali in Russia ed in tutto il mondo è fonte di crescente preoccupazione.

(Bet Magazine Mosaico, 30 ottobre 2023)

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Morta Shani Louk, la ragazza tedesco-israeliana rapita da Hamas al rave. “Torturata e fatta sfilare per Gaza”

L’annuncio della madre ai media tedeschi. E il ministero degli Esteri israeliano diffonde alcuni particolari delle ultime ore della giovane

Shani Louk
GERUSALEMME – “ Torturata, fatta sfilare per Gaza e decapitata”. Queste sarebbero state, secondo le autorità di Israele, le ultime ore di Shani Louk, la cittadina tedesco-israeliana rapita da Hamas durante l’attacco al rave nel Deserto del Negev il 7 ottobre scorso. L’informazione della morte della giovane è stata diffusa dalla madre Ricarda: “Purtroppo ieri abbiamo ricevuto la notizia che mia figlia non è più in vita”, ha dichiarato la donna a RTL/NTV. La certezza del decesso è stata data dal rinvenimento di un osso cranico che, dopo le analisi del DNA, si è scoperto appartenere alla 22enne dopo che i famigliari avevano fornito dei campioni biologici nei giorni scorsi.
   Il giorno del massacro, Hamas aveva condiviso un video che ritraeva Louk immobile e seminuda sul retro di una jeep, mentre i miliziani le sputavano addosso. Nei giorni successivi si è diffusa l’informazione per cui la giovane fosse in vita ma “gravemente ferita” in un ospedale di Gaza. La famiglia aveva richiesto l’intervento del governo tedesco per liberarla. Poche ore dopo l’annuncio della morte, il cancelliere tedesco Scholz ha definito l’atto come una dimostrazione “della barbarie che sta dietro all’attacco di Hamas”: “È una cosa che come persone possiamo solo disprezzare”, ha commentato durante una visita in Nigeria. 
   Shani Louk era nata il 7 febbraio 2001 negli Stati Uniti, da padre israeliano e madre tedesca. Ha vissuto i primi anni della sua vita in Oregon, per poi trasferirsi a Tel Aviv, dove era residente al momento della morte. Tatuatrice freelance, il 7 ottobre stava partecipando insieme al suo fidanzato – di nazionalità messicana – al festival musicale Supernova Sukkot Gathering, che si stava tenendo a cinque chilometri dal confine con la Striscia di Gaza. Durante l’attacco, Shani ha avuto modo di telefonare alla madre, raccontandole quanto stava accadendo e di non sapere dove nascondersi.

(Quotidiano Nazionale, 30 ottobre 2023)

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Basta con gli scrupoli!

Vi prego di non arrabbiarvi con me se in questi giorni provo meno compassione per i nostri nemici. Posso ben immaginare che molti cristiani pretendano da Israele più che da altri popoli della regione. Più considerazione per i palestinesi, soprattutto per la popolazione civile e ancor più per i bambini. Ma questo non è possibile in questo tempo. Se mostri come Hamas non risparmiano i propri fratelli e sorelle e si nascondono dietro donne e bambini, perché dovremmo trattarli con amore? L'amore per i nemici è un altro argomento e non ha nulla a che fare con questo.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Sono passate tre settimane e il bilancio delle vittime è in aumento, soprattutto da parte palestinese. I dati ufficiali del Ministero della Sanità palestinese parlano di 7.500 morti e 18.500 feriti nella Striscia di Gaza. Secondo l'UNICEF, 2.360 bambini palestinesi sono stati uccisi e 5.364 feriti nei primi 18 giorni di guerra. 400 bambini vengono uccisi o feriti ogni giorno, secondo i rapporti delle Nazioni Unite. Questi bambini non sono stati deliberatamente sparati, bombardati, né tantomeno massacrati e bruciati solo perché sono palestinesi, no. Si sono trovati nel mezzo. Dubito dei numeri palestinesi perché, in base all'esperienza di precedenti operazioni, rivolte e guerre, questi numeri non sono mai stati corretti. In secondo luogo, devo chiedermi in tutta onestà se ho ancora la stessa compassione di un tempo. Credo che il mio livello di compassione si sia un po' abbassato. Nessuno può accusarmi di odiare gli arabi o i palestinesi. Al contrario, ho molti arabi, palestinesi e beduini come amici, ma in questi giorni ho meno compassione per i civili dell'altra parte che vogliono solo una cosa: spazzare via Israele.
   Dopo il barbaro assalto al sud di Israele, una terribile rabbia è esplosa tra la gente, con la determinazione di distruggere il regime di Hamas a Gaza una volta per tutte. Ciò che i terroristi di Hamas hanno fatto a Israele equivale a un olocausto, ed è per questo che Hamas viene equiparato ai jihadisti dell'ISIS e ai nazisti. Per capire di cosa sto parlando, basta guardare un video dell'IDF. La prova di come i barbari musulmani abbiano massacrato intere famiglie, abusato, bruciato e decapitato bambini durante lo Shabbat nero nei kibbutzim. Questo è stato fatto di proposito. Questi bambini e queste famiglie non si trovavano lì per caso. Chiunque abbia visto questo video e tutti gli altri filmati delle prime ore dello Shabbat non può credere ai propri occhi. Sono tutti filmati ripresi dalle telecamere GoPro sulle teste dei terroristi o dalle telecamere di sicurezza dei kibbutzim. Questi nazisti e mostri palestinesi hanno invaso le nostre case e hanno sparato e massacrato tutti solo perché erano ebrei, israeliani o sionisti. Questi mostri hanno preso d'assalto un festival musicale e hanno sparato all'impazzata su giovani israeliani. Amalechiti.
   La folla palestinese, la plebaglia o la feccia, in qualsiasi modo vogliate chiamare queste persone, ha fatto irruzione in Israele in ciabatte e ha massacrato ogni israeliano sul suo cammino nella seconda ondata di attacchi. A Gaza i terroristi di Hamas sono stati acclamati. Ai bambini palestinesi viene fatto un lavaggio del cervello radicale per odiare gli ebrei e Israele fin dal primo respiro. Vengono educati in questo modo e dobbiamo lentamente accettare che forse solo una minoranza di loro vuole vivere con Israele. Gli stessi leader di Hamas dicono 24 ore su 24, 7 giorni su 7, quanto la giovane generazione sia motivata a uccidere gli ebrei. Questo viene insegnato ai bambini negli asili, e Israele se ne è lamentato per anni, ma l'Occidente non ha voluto ascoltare. In fondo, è stato ampiamente finanziato dall'Occidente. Ora questi bambini sono cresciuti e hanno massacrato il sud di Israele. E non vedo una svolta positiva nella prossima generazione. Anche se mi dispiace per i bambini, devo comunque ammettere che la mia compassione si è raffreddata. E questo non ha nulla a che fare con la carità. Punto e basta! Ma questo è un altro argomento.
   Una cosa ho imparato da questo fallimento: smettere di essere troppo premuroso nei confronti dei nostri nemici. Né la Giordania né l'Egitto, né la Siria né il Libano hanno mai mostrato considerazione per i palestinesi. Né la Giordania né l'Egitto vogliono accogliere i rifugiati palestinesi dalla Striscia di Gaza. La Siria ha ucciso decine di migliaia di palestinesi nella sua guerra civile, per un totale di 500.000 siriani in undici anni di guerra civile. Il regime di Hamas tratta la propria popolazione a Gaza in modo altrettanto orribile. Perché dobbiamo sempre essere noi gli angeli quando Israele è dannato all'inferno in ogni caso?
   Nonostante la rabbia della popolazione, Israele sta cercando di avvertire i civili palestinesi dei bombardamenti e sta dando ai civili una scadenza per fuggire a sud per salvarsi la vita. Ma Hamas tiene prigioniera parte della popolazione palestinese nel nord della Striscia, con la forza o per scelta, come scudi umani. Sappiamo da anni che Hamas ha il suo quartier generale del terrore sotto gli ospedali, perché ogni terrorista sa che Israele non spara deliberatamente sugli ospedali. Sono i migliori bunker per questi terroristi. Se vengono uccisi palestinesi innocenti, non è colpa di Israele.
   Ci siamo illusi che la maggioranza dei palestinesi voglia vivere in coesistenza con noi. Era una fantasia, un desiderio. Oggi dico: sparate agli ospedali per distruggere finalmente il quartier generale sotterraneo del terrore. Chi non vuole essere avvertito deve poi lamentarsi con Hamas. In ogni caso, alla fine Israele sarà incolpato e maledetto. Viviamo in Medio Oriente, qui mangiamo hummus, ma ci piace il sushi. Nelle ultime tre settimane abbiamo sentito ripetere più volte che dobbiamo comportarci come gli arabi o non sopravviveremo. Ciò significa che dobbiamo parlare in arabo con i nostri nemici, perché è l'unica lingua che capiscono. Il nostro ebraico e i nostri modi occidentali sono diventati una barzelletta.
   È vero che negli ultimi decenni l'Occidente ha messo Israele in un angolo politico e gli ha legato le mani dietro la schiena. Ma credo che in questi giorni ogni israeliano - o la maggior parte di loro - capisca molto bene che abbiamo urgentemente bisogno di ripensarci e di avere considerazione prima di tutto per noi, per il popolo di Israele. Non c'è più riguardo, nessuno nel sud ha alcun riguardo per i civili israeliani. “la gloria di Israele non mente", si legge in 1 Samuele 15. Per mantenere viva questa gloria, questa volta Israele deve distruggere il nemico, altrimenti sarà lui a distruggere noi - altrimenti la gloria avrà mentito a Israele. Spero che abbiate capito non il mio punto di vista, ma la situazione di Israele. Basta con gli scrupoli!

(Israel Heute, 30 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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‘’Hamas è una leadership corrotta che sta uccidendo la nostra gente’’

di Sarah Tagliacozzo

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Mosab Hassan Yousef, il figlio maggiore del cofondatore di Hamas Hassan Yousef, da giorni utilizza i social media per esprimere il suo dissenso nei confronti dell’organizzazione terroristica di cui lui stesso aveva fatto parte in passato prima di lavorare come copertura per circa dieci anni per lo Shin Beth, l’agenzia di intelligence per gli affari interni israeliana. Giovedì è anche stato ospite del talk show inglese di Piers Morgan “Uncensored” dove ha detto di non essere sorpreso della brutalità dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, ma della sua portata.
   Mosab Hassan Yousef, 45 anni, è anche noto come “il principe verde”, un soprannome derivato dal titolo di un documentario sulla sua vita. È autore del libro autobiografico “Il figlio di Hamas” (2010), in cui ha raccontato la sua vita a Ramallah, denunciando gli orrori commessi da Hamas, e parlando della sua attività di informatore per Israele.
   Durante il talk show, Yousef ha spiegato che Hamas ha voluto mettere alla prova «un Paese con un enorme trauma del passato, con la memoria della Shoah e di tutto ciò che i nazisti hanno fatto nello scorso secolo. Hanno aperto le porte dell’inferno sul popolo palestinese».
   Yousef è intervenuto nel talk show in qualità di ospite palestinese con un’opinione diversa sul conflitto: «Dalla sua fondazione, Hamas ha un solo obiettivo in mente: annientare lo Stato di Israele. Non è un segreto che Hamas voglia distruggere Israele e non possono accettare Israele o il diritto di Israele ad esistere».
   Già negli ultimi giorni, il figlio del cofondatore di Hamas, che ha lavorato come agente israeliano tra il 1997 ed il 2007, ha spiegato ai media che «Hamas è un movimento religioso che non crede nei confini politici. Vogliono fondare uno stato islamico sulle ceneri dello Stato di Israele». Yousef ha anche previsto che una volta che Israele avrà rimosso Hamas dal potere nella Striscia di Gaza, i palestinesi festeggeranno e ringrazieranno Israele per la fine dell’oppressione di Hamas.
   «Basta Hamas. Ne abbiamo abbastanza di questa leadership corrotta che sta uccidendo la nostra gente» ha detto con fermezza ‘il principe verde’ secondo cui «chiunque prenda la parte di Hamas oggi, in questo momento di confusione, pensando che sia uno scherzo, vorrei dire loro che se ne pentirà. Si pentirà di aver preso la parte di quei criminali che stanno uccidendo i palestinesi stessi».

(Shalom, 30 ottobre 2023)
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Non è male sottolineare che il "figlio di Hamas" è diventato un "figlio di Gesù": "Perché il figlio di un leader di Hamas si è convertito al cristianesimo".

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La sfida della disabilità sotto i missili

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“Avere un figlio con disabilità è una sfida in circostanze normali. In tempi di crisi come adesso è inimmaginabile”. Alessandro Viterbo lo racconta a Pagine Ebraiche da Gerusalemme. Alessandro è una delle colonne dell’organizzazione Tsad Kadima (Un passo avanti), che si occupa di dare assistenza a bimbi e ragazzi cerebrolesi con un metodo educativo incentrato proprio sulla personalità del bambino: sono oltre 400 i giovani assistiti in tutto Israele, da Or Akiva a Eilat, da Rishon LeZion a Beer Sheva.
   Dal 7 ottobre scorso, Tsad Kadima ha dovuto sospendere vari servizi né, considerata la situazione, è chiaro quando potranno ripartire. “I più penalizzati sono i più piccoli: sono all’inizio di un percorso e avrebbero bisogno urgente di fisioterapia e idroterapia. Ma ad oggi, con gli allarmi che risuonano in modo costante nei cieli d’Israele, ci sono troppi rischi per attività esterne come quelle in piscina. Il tempo per arrivare in un rifugio non sarebbe sufficiente”, spiega Viterbo. Nella capitale, il centro Tsad Kadima è stato chiuso perché nel rifugio, in caso di emergenza, non ci sarebbe abbastanza spazio per tutti, assistiti e personale (è comunque possibile che riapra mercoledì in un’altra struttura più attrezzata). Ad Eilat invece, vista la minore esposizione al fuoco di Hamas, “tutto funziona in modo più o meno regolare e nei giorni scorsi sono stati accolti dei ragazzi provenienti dalle città e dai kibbutz evacuati”.
   La situazione è comunque in divenire: “Le cose cambiano ogni giorno, con sempre nuove indicazioni da accogliere”. Dove Tsad Kadima ha dovuto sospendere la propria offerta, la sfida è stata quella di sopperire con attività alternative a distanza, anche via Zoom. Lo staff è comunque impegnato “con visite a domicilio, almeno una volta alla settimana”. Tra gli assistiti c’è anche Yoel Viterbo, il figlio di Alessandro. Dice il padre: “È sempre stato abituato a vivere in società: ci sono quindi alcune cose che gli mancano, anche se affronta tutto con relativa calma. Gestisce bene le sue emozioni e vuole essere aggiornato in modo costante. Segue ad esempio in televisione suo cugino, che è un giornalista per il canale 12. Sette miei nipoti sono ora arruolati e in prima linea”. La comunità di Tsad Kadima ha pianto da poco il barbaro assassinio di un bambino di cinque anni, il piccolo Eitan, che frequentava il centro di Beer Sheva costruito grazie anche a donazioni italiane. Lui, sua sorella e i suoi genitori sono stati uccisi dai terroristi mentre tornavano a casa da un picnic nel Negev.

(moked, 30 ottobre 2023)

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Le piazze per il cessate il fuoco sono le piazze dei guerrafondai

Le cose giuste spesso non sono compassionevoli. A dispetto delle folle che gridano Not In My Name, bisogna snidare i killer dell’islamismo politico e colpire i terroristi dove si nascondono per conseguire l’obiettivo della sicurezza e della pace

di Giuliano Ferrara

Se la Grand Central Station di New York e la piazza di regime a Istanbul, agli ordini di Erdogan, si riempiono nello stesso giorno di folle che gridano Not In My Name, questo che cosa significa? Significa che virtù e conoscenza scompaiono, che viviamo come bruti, come struzzi. Dennis Ross, uomo di governo del mondo democratico americano, conoscitore per esperienza diretta del medio oriente, ha scritto un articolo magistrale sul New York Times per dire l’ovvio: Hamas non può e non deve cavarsela, sarebbe la vittoria del terrorismo e dell’Iran che assembla una vasta alleanza sicaria per annientare Israele, e l’unico modo per impedire la vittoria di quelli del pogrom del 7 ottobre, l’unico modo per respingere l’attentato alla pace di ogni giorno costituito dall’offensiva dell’islam politico-terroristico è che Tsahal entri a Gaza e snidi e elimini gli uomini e le strutture e infrastrutture di comando operazionale di Hamas. Per Ross l’appello al cessate il fuoco, adesso, e la richiesta di tregua, sono parole d’ordine di guerra e di vittoria per chi la vuole, la organizza e le dà il sinistro aspetto di un generalizzato pogrom contro gli ebrei di Israele. 
   Per accettare questa cosa che era chiara da subito, e che solleva obiezioni di principio e umanitarie in ogni ambiente, e anche tra amici veri di Israele e partigiani della sua esistenza, anche per chi crede nella convivenza possibile con uno stato palestinese una volta che siano riunite le condizioni politiche per realizzarla, gente da non confondere con antisemiti e turbolenti adepti del nichilismo terroristico islamico, per accettarla bisogna fare dei passi che fanno orrore alle coscienze brutalmente umanitarie oggi in palchetto, il cui simbolo potrebbe essere Greta Thunberg. E’ molto facile pensare con compassione al derelitto destino delle popolazioni a Gaza, l’immagine disperante di donne e bambini colpiti dalla reazione bellica di Tsahal, di giovani e uomini e vecchi che vestono abiti civili e in qualche misura sono estranei o anche lontani dalla follia di chi li governa da tanti anni, di chi scava tra loro i cunicoli della morte e della prigionia degli ostaggi razziati, di chi si ripara dietro le scuole, gli ospedali e altri luoghi teoricamente neutrali, secondo il diritto di guerra, per ottenere gli scopi di morte e distruzione che si sa. Le bombe e i tiri di artiglieria, la guerra urbana che mette tutti in pericolo e si presenta come un teatro di tragedia, tutto questo Not In My Name. 
   Ma il mondo è fatto così, che le cose giuste spesso non sono compassionevoli. Snidare i killer dell’islamismo politico, colpire i terroristi dove si nascondono e contrattaccano dopo aver fatto quello che hanno fatto a gente inerme, mettere in pericolo centinaia di migliaia di riservisti, il fiore del tuo paese, e la tua economia, il tuo benessere, cercare con tutti i rischi di una campagna sul terreno di risparmiare le vite dei civili e la vita degli ostaggi, per conseguire l’obiettivo della sicurezza e della pace, per costruire il famoso e celebratissimo “mai più”, ecco che questo non può essere fatto In My Name. Si nasconde la testa sotto la sabbia, ci si inoltra nei tunnel dei predoni, incuranti della vittoria della morte travestita da umanitarismo, si sceglie di gridare in piazza, sapendolo coscientemente o no, “ancora e sempre”. Le piazze per il cessate il fuoco sono le piazze dei guerrafondai.

Il Foglio, 29 ottobre 2023)

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Gli eroi di Be'eri: "Noi vivi tra i cadaveri"

I sopravvissuti del kibbutz della strage del 7 ottobre: "Abbiamo combattuto, ricostruiremo"

di Fiamma Nirenstein

Di fronte all'entrata di marmi e palme di plastica dell'hotel David di fronte al Mar Morto, fra le dune gialle e le rocce saline, si accalcano i sopravvissuti del kibbutz Be'eri. Come in un film di Fellini arriva una fila di Porsche, di lucide Alfa Romeo, macchine di lusso: vengono a prendere i bambini orfani, dispersi, scioccati, privi di casa e di bussola psicologica per farli sorridere un minuto: è una fila di volontari che ha rastrellato le auto rombanti. Stasera viene la famosa cantante Yardena Rasi. I doni invadono l'hotel, pollo arrosto, humus e pita, torte fatte in casa. Vestiti nuovi per tutti, dottori, psicologi. Si aggirano offrendo aiuto alla folla di profughi che affolla la hall. A gruppi si abbracciano, si riconoscono, ringraziano. Non c'è libro che possa contenere tutte le storie di questi cittadini dignitosi e quieti, eroi, parenti di gente fatta a pezzi, di figli di rapiti, scampati per caso alla mattanza di Be'eri. Quei bambini che corrono in molti hanno visto uccidere un fratello, i genitori. Il kibbutz contava 1.200 persone, agricoltori, una tipografia orgoglio del kibbutz pacifista. 350 morti sono stati trovati fra le sue rovine fra cui molti terroristi. Be'eri sa combattere. Le case sono bruciate, le finestre sfondate, le porte a pezzi, la mobilia e gli oggetti i terroristi li hanno polverizzati mentre la loro corte saccheggiava. Ma la storia dell'assalto comincia con un eroe, Ari Kraunik, capo della sicurezza, che corse verso i terroristi appena gli fu segnalato che entravano al kibbutz, riuscì a fermarne sette, e poi fu ucciso a spari. Le storie da non dimenticare mai adesso, all'hotel, sono qui con noi.
  Doron Tzemach è un piccolo uomo calmo e dignitoso, ha perduto Shahar, suo figlio. La sua resistenza durata ore ha salvato la vita a tanti altri membri del Kibbutz. Shahar parte della sicurezza, ha capito fra i primi cosa stava succedendo. «Alle 6,30, fra gli scoppi dei missili troppo veloci, insoliti, ricevette il messaggio di allarme. Subito ha preso l'arma, ha mandato Ella di 4 anni e mezzo e Annetta di 2 e mezzo con Ofri, la moglie nel rifugio. E lui è uscito a salvare la gente, uno contro cento. Shahar aveva 37 anni, fiore d'Israele, attivista della pace, nella tradizione del kibbutz e della famiglia. I terroristi cercano le prede. Shahar è corso alla clinica dentistica, da dove veniva una richiesta di aiuto. Nella stanza c'è il medico, l'infermiera Nirit e la stagista Amit. Da là mentre cominciano a arrivare in forza i terroristi fra le case, sparano e appiccano il fuoco, Shahar raccoglie un ferito grave, fino in fondo conduce una battaglia a fuoco mentre le persone intorno a lui vengono ferite. Resiste a lungo. Scorge i terroristi al giardino degli scivoli e vede un elicottero militare: «Sparate», chiede. Gli rispondono che non hanno il permesso. I gruppi delle belve compiono le loro mostruosità, alla fine assediano Shahar. «Fino alle 2 del pomeriggio è riuscito a ucciderne almeno 5, credo», dice il padre. A Efri scrive di continuo mentre finisce le pallottole: «Non vi preoccupate, arriva l'esercito, metti il frigo davanti alla porta». Il kibbutz non riesce a serrare i rifugi, i terroristi arrostiscono gli assediati. Uno dei feriti nella clinica muore, al secondo morente Shahar mentre spara ripete «sei forte, resta con me, parlami, va tutto bene». Gli uomini di Hamas gettano contro la porta bombe a mano e sfondano. Nirit, l'infermiera, resterà immobile due ore dentro l'armadio. Shahar e il suo compagno Eitan si battono fino alla fine, un altro salvato seguiterà ore a fingersi morto. IL meraviglioso figlio di Doron, Shahar lascia per sempre le sue due bambine piccole e il padre, che solo per un attimo piange fra le mie braccia.
  Avida Bachar su una sedia a rotelle mi guarda fisso coi suoi occhi neri, preciso sfida la realtà. La gamba destra è saltata via. Il braccio sinistro ferito. Alle 7,30 Avida si rifugia con la famiglia, sicuro che fra poco arriverà l'esercito. Lui, la moglie Dana, Hadar, di 13 anni, e Carmel di 15. I terroristi invadono la casa, cercano di entrare spaccando tutto nel rifugio Al mattino del 7, Dana e figli fanno pipì nelle pentole, e con questo unico liquido, bagneranno gli stracci per coprirsi il viso quando i terroristi col fuoco dalla porta e dalla finestra del rifugio li soffocano. L'arabo dice «ftach el bab» apri la porta, lui risponde «Ruch», «vattene». «Ci sparano, a Carmel portano via un braccio, a me poco dopo una gamba. È un lago di sangue. Ho resistito cosciente fino a non averne più un goccio. Ci tirano tre bombe a mano. Hadar scrive senza mai smettere su whatsapp. Sangue ovunque. Dico a Dana che la gamba è chiusa nei jeans, cerchiamo di legare il braccio di Carmel con una federa. Cado all'indietro, soffochiamo, i terroristi sparano due colpi, tac tac. Dana dice ahi, respiro male, e io dico ai ragazzi, la mamma sta bene adesso, state tranquilli, nessuno può farle più male. Allora Carmel mi ha detto: babbo seppelliscimi col mio skateboard, ha tirato gli ultimi due respiri e se n'è andato. Siamo rimasti noi due, ho detto a Hadar. Non ti preoccupare per me ha detto, sto bene. Quando sono arrivati a prenderci mi ha fatto caricare sul tank e poi sull'ambulanza, e mi ha salvato».
  I genitori e i figli dei rapiti hanno il volto contratto, la loro voce ti interroga. Così Ella di 23 anni, che dormiva col suo compagno, e ha rivisto, bruciata la casa dei suoi genitori, Ras e Ohad Ben Ami, rapiti. «I messaggi di mio padre raccontano tutta la storia: sono entrati, rompono tutto, entrano nel rifugio. Poi 5 giorni fa ho visto mio padre, in un video, buttato sotto una tenda. La mamma è molto malata, ha bisogno delle medicine. Aspettiamo disperati». Nir Shani ha quattro bambini, Micha di 18, Amit di 16, Emma di 12, Rani di 9. Ma Amit è stato rapito, non se ne sa più nulla. Nir sorride, Amit è un grande tifoso della Juventus. «L'anno prossimo lo porto in Italia». Nir ha resistito chiuso nel rifugio mentre quelli erano per ogni dove nella sua casa, spaccavano, urlavano Allah hu akbar, davano fuoco. «Mi sono fatto una maschera con una federa, e mi dicevo, mentre telefonavo a mia figlia: così si muore? Che strana cosa. La porta era bollente, ero al buio, poi mi hanno portato semisoffocato all'ospedale, e allora mia moglie mi ha detto che hanno preso Amit alle 12 circa. Cercava una conferma nel mio sguardo: Amit è saggio, saprà come cavarsela».
  Golan Abitbul sa un po' di italiano, 44 anni. Ha chiuso la sua famiglia con quattro bambini dentro il rifugio e poi ha deciso di rischiare la vita armato solo di una Smith e Wesson, andando di casa in casa a cercare di tirare fuori dai piani alti la gente che bruciava viva. «Prima tre, poi sei di Hamas armati di RPG, io però dovevo andare a prendere tutta la famiglia di mio fratello con i due piccoli, e portare anche loro da noi. Dopo ho chiamato via via varie famiglie la cui casa era in fiamme: vi prendo io, correte fuori o morirete bruciati. Aiutavo a scappare e mettersi in salvo. Quando sono arrivati i soldati coi tank, ci hanno detto: «Andiamo, tappate gli occhi ai bambini che non vedano lo strazio. E così coi bambini siamo andati fra i cadaveri, i pezzi di corpo, le case bruciate». «Ricostruiremo», mi promette. Ci credo, sono un gruppo di eroi.

(la Repubblica, 29 ottobre 2023)

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Riapre la tipografia del kibbutz Be’eri, devastato dall’attacco di Hamas

di Sarah Tagliacozzo

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Il kibbutz Be’eri è stato uno dei luoghi più duramente colpiti durante l’attentato terroristico nel sud di Israele del 7 ottobre, con un centinaio di abitanti che hanno perso la vita. Be’eri è noto in quanto ospita la sede di una importante tipografia israeliana, che è da poco tornata operativa dopo aver cessato la sua attività per 10 giorni. La storia della tipografia affonda le sue radici nel 1925, quando Levi Zrodinski (conosciuto anche come Zorea) fece l’Aliyah, trasferendosi in Israele dall’Ucraina ed aprendo una tipografia a Haifa. Suo figlio Lazar Zorea, appena diciottenne, fu tra i fondatori del kibbutz Be’eri. Lazar aveva lavorato a lungo con il padre e aveva acquisito una conosceva approfondita dei segreti della tipografia. Decise quindi di fondare una tipografia nel nuovo kibbutz, con il sostegno del padre e dell’Agenzia Ebraica.
   Fu una scelta non convenzionale ma positiva. Yigal, figlio di Lazar Zorea, ha raccontato che inizialmente la tipografia era una casa costruita con pietre. Al suo interno vi era una sola macchina tipografica. Inizialmente si stampavano moduli e documenti molto semplici per il nuovo Stato.
   Negli anni successivi, il kibbutz ha mantenuto viva la tipografia trasformandola in un’attività fiorente che offre servizi a società e organizzazioni in tutto Israele. La passione per la tipografia è rimasta nella loro famiglia e Yigal dopo il servizio militare ha studiato al Bezalel diventando un designer.
   La tipografia di Be’eri è diventata una delle principali tipografie israeliane. Ancora oggi è un piccolo grande punto di riferimento in Israele. È lì che vengono stampate tutte le patenti di guida, le carte di credito e le buste ufficiali dello Stato.
   A distanza di una decina di giorni dall’attentato di sabato 7 ottobre che ha devastato il kibbutz, Ben Suchman di Be’eri Printers, insieme a i suoi colleghi, ha preso la decisione di riaprire la tipografia. Un gesto di resilienza e di preservazione di una parte significativa della storia del Paese.

(Shalom, 29 ottobre 2023)

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Matrimonio all'ombra della guerra

Il "save the date" per nostro figlio Tomer e la sua sposa Ester era il 27 ottobre. La data del matrimonio era già stata fissata sei mesi fa, nessuno pensava allora allo Shabbat nero e allo scoppio della guerra che ha sconvolto tutta la nostra vita 20 giorni prima del matrimonio previsto.

di Anat Schneider

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GERUSALEMME - Si dice che una volta fissata la data del matrimonio, bisogna mantenerla, anche nei momenti difficili. Così nostro figlio Tomer e la sua sposa Ester hanno deciso di celebrare il matrimonio nel nostro giardino. Tuttavia, tutto era incerto, perché tutti i nostri figli sono stati in servizio di riserva per tre settimane. Nessuno di loro poteva prometterci che sarebbero stati rilasciati dalla riserva. Forse anche Tomer non sarebbe potuto venire. Ci aspettavamo di tutto. Ma credevamo fermamente che la chuppah avrebbe avuto luogo.
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Due giorni prima, Ester aveva organizzato una cerimonia a casa dei suoi genitori solo per le donne delle due famiglie. Una cerimonia spirituale, in cui si esprimeva la forza della fede e della gioia, e ci si diceva quali comandamenti biblici spettano alle donne. E in questo contesto vorrei spendere qualche parola sulla gioia, soprattutto in questo momento. Che cos'è la vera gioia e come si può motivare alla gioia?
   Una volta che la gioia nasce dentro di noi, si irradia verso l'esterno e colpisce coloro che ci circondano. In questa riunione di donne, non sapevamo ancora chi dei nostri ragazzi sarebbe venuto. Tutto era avvolto nella nebbia, ma eravamo piene di fede. E abbiamo iniziato a lodare e onorare la gioia decidendo di rendere felice la sposa quella sera. Con le lodi e la musica, la riunione intorno a Ester divenne una grande gioia.
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La sera stessa abbiamo ricevuto la notizia della convocazione dei nostri ragazzi. Tomer ottiene il congedo, ma deve tornare la mattina dopo. Wow, abbiamo già lo sposo. Elad ci ha detto che tornerà dal nord dopo mezzanotte. E anche Moran ci ha informato improvvisamente che tornerà a casa. Durante il viaggio dal nord ha portato in macchina anche il migliore amico di Tomer (anche lui si chiama Tomer), anche lui nella riserva. Ariel, nostro genero, è stato rilasciato dal sud all'ultimo momento. Anche la nostra seconda Eden, la fidanzata di Moran, è riuscita ad essere presente.
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Solo giovedì abbiamo iniziato a preparare il giardino per il matrimonio. Sono state coinvolte molte mani. Tavoli, sedie e ombrelloni sono stati portati durante il giorno. Il moshav dove viviamo ci ha aiutato. Poi ci è stata portata una semplice chuppa. La chuppa è un baldacchino di stoffa bianca sostenuto da quattro pali riccamente decorati. Intorno al baldacchino si svolge la cerimonia nuziale. Quattro uomini reggono i pali durante la cerimonia nuziale. Una chuppah molto semplice, ma che rendeva tutto ancora più suggestivo. Il matrimonio era previsto per venerdì a mezzogiorno. La mattina presto, tutte noi donne ci siamo fatte belle, truccate e acconciate. Una giovane truccatrice è venuta da noi per questo. Alle nove Tomer ci raggiunse. Un'ora dopo è arrivata Ester con i suoi genitori da Maale Adumim. E alle undici, uno dopo l'altro, hanno cominciato ad arrivare i nostri ospiti. Solo parenti e amici intimi, circa 80 ospiti. Non è stato possibile fare di più, anche a causa degli allarmi dei razzi.
Nel nostro gruppo WhatsApp nel moshav, ho annunciato che avremmo avuto un matrimonio a casa nostra e mi sono scusato per il rumore fin dall'inizio. "Rumore? Fai più rumore! Abbiamo bisogno del rumore della gioia per non sentire il rumore di razzi, aerei ed esplosioni a cui ci siamo abituati", hanno detto i miei vicini. I nostri festeggiamenti hanno fatto bene a tutto il moshav". Un altro vicino ha detto: "È una grande mitzvah rendere felici gli sposi proprio in questo momento". Ha cancellato un servizio funebre da un'altra parte per questo.
Dopo aver pronunciato le sette benedizioni, il rabbino ha dato a Tomer la possibilità di dire qualcosa che di solito non viene detto. Nostro figlio voleva dire qualcosa. Ci ha ringraziato per essere venuti. Poi è rimasto in silenzio per qualche istante. C'era silenzio, tutti aspettavano che dicesse qualcosa. "Vorrei ricordare Dekel Swissa, caduto il 7 ottobre", ha detto Tomer. Silenzio. Le lacrime gli strozzano la gola. "Dekel era un ufficiale del Golani. Ha dato la sua vita per noi. Questo è importante e simbolico. Il nostro matrimonio di oggi è nel testamento di Dekel". Tra gli invitati non è rimasto un occhio asciutto. "Dekel viveva a poche case da noi. Siamo felici e andiamo avanti".
Per concludere, Tomer ha detto "Am Israel Chai", ricordandoci che abbiamo il dovere di gioire, perché se non lo facciamo, i nostri nemici hanno vinto". Che incoraggiamento e che momento di prudenza e di pace in questo momento di follia della terra.
  Questa gioia è pura e ferma. E questa gioia è molto vicina alla tristezza, le appartiene. E la tristezza è dolorosa e faticosa. La tristezza non ha fine. Ma quando si sceglie di essere felici, qualcosa cambia. Questa gioia ci aiuta ad affrontare la tristezza e impedisce che si impadronisca della nostra anima. La gioia apre la grazia di Dio in cielo. "Se mi dimentico di te, Gerusalemme, la mia mano destra si secchi. La mia lingua si attacchi al palato della mia bocca se ti dimentico, se non innalzo Gerusalemme alla mia più grande gioia". Ogni sposo sotto il baldacchino pronuncia questo versetto del Salmo 137.
   Dio è un Dio benevolo, vuole renderci gioiosi e continuare a costruire la casa d'Israele. Il mattino seguente i ragazzi sono ripartiti alla volta dei confini di Israele.
Am Israel Chai!

(Israel Heute, 29 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele e gli adoratori della morte

Ieri, dal suo rifugio dorato a Doha, Ismael Haniyeh, il capo politico di Hamas, ha invitato, in puro spirito jihadista, al martirio, allo spargimento di sangue di uomini, donne e bambini.
   «Abbiamo bisogno del sangue di donne, bambini e anziani palestinesi» ha proclamato. «Abbiamo bisogno di questo sangue per risvegliare dentro di noi lo spirito rivoluzionario, per risvegliare in noi la sfida, per spingerci avanti».
   Nulla di inedito per chi conosce Hamas e sa che il gruppo salafita integralista islamico che controlla la Striscia dal 2007, ha fatto del culto della morte una sua prerogativa in ossequio all’impostazione programmatica della Fratellanza Musulmana da cui discende.
   Lo Statuto di Hamas del 1988, documento mai abrogato, recita all’Articolo 8, “Allah è l’obiettivo, il profeta è il suo modello, il Corano la sua costituzione, il jihad è la sua strada e la morte per l’amore di Allah è il più nobile dei suoi desideri”, parole che riecheggiano la canzone cantata dai Fratelli Musulmani all’epoca in cui marciavano per le strade del Cairo: “Non abbiamo paura della morte ma la desideriamo…Come è splendida la morte…Apprestiamoci a morire per la redenzione dei musulmani…il jihad è la nostra linea di azione…e la morte per la causa di Dio il nostro desiderio più prezioso”.
   La tanatofilia è intrinseca a Hamas ed è un portato decisivo del suo culto. L’ardore esaltato per la morte è però sostanzialmente delegato alle manovalanze così come il disprezzo per la vita altrui è rivolto anche alla stessa popolazione di Gaza, usata cinicamente come carne da macello. I capibastone si guardano bene dal mettere a repentaglio la loro preziosa vita.
   Hamas sa che più morti si avranno tra i civili della Striscia, più, su Israele, si rovescerà la riprovazione e l’odio. Si tratta di una tecnica collaudata tutte le volte che lo Stato ebraico è dovuto intervenire nella Striscia con dei bombardamenti, ed è quello che puntualmente si sta verificando.
   Ieri sera, nel suo discorso alla nazione, Benjamin Netanyahu ha esplicitato chiaramente che questa guerra ha per Israele una valenza esistenziale. Non si tratta, infatti, di sconfiggere una organizzazione criminale tra le più efferate del pianeta, si tratta di ripristinare l’immagine compromessa dell’unico baluardo presente in Medio Oriente contro il fanatismo islamico.
   Senza sanarla di nuovo con forza e determinazione, senza rialzarsi in piedi completamente dopo la tragedia indelebile del 7 ottobre scorso, Israele perderebbe la sua ragione d’essere e la darebbe vinta agli adoratori della morte.

(L'informale, 29 ottobre 2023)

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I pensieri del cuore

Dalla Sacra Scrittura

EBREI 4:12
La parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l'anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore.

MATTEO 15:18-19
Ma quel che esce dalla bocca viene dal cuore, ed è quello che contamina l'uomo. 19 Poiché dal cuore vengono pensieri malvagi, omicidî, adulterî, fornicazioni, furti, false testimonianze, diffamazioni.

LUCA 1:51-52
Egli ha operato potentemente con il suo braccio; ha disperso quelli che erano superbi nei pensieri del loro cuore;

MATTEO 9:3-4
Ed ecco alcuni scribi pensarono dentro di sé: «Costui bestemmia». Ma Gesù, conosciuti i loro pensieri, disse: «Perché pensate cose malvagie nei vostri cuori?

LUCA 9:46-48
Poi cominciarono a discutere su chi di loro fosse il più grande. Ma Gesù, conosciuto il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo pose accanto e disse loro: «Chi riceve questo bambino nel nome mio, riceve me; e chi riceve me, riceve Colui che mi ha mandato. Perché chi è il più piccolo tra di voi, quello è grande».

MARCO 6:51-52
E montò nella barca con loro, e il vento s'acquetò; ed essi più che mai sbigottirono in loro stessi, perché non avean capito il fatto dei pani, anzi il cuor loro era indurito.

MARCO 8:15-17
Egli li ammoniva dicendo: «Guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode!» Ed essi si dicevano gli uni agli altri: «È perché non abbiamo pane». Gesù se ne accorse e disse loro: «Perché state a discutere del non aver pane? Non riflettete e non capite ancora? Avete il cuore indurito?

MATTEO 13:15
perché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile: sono diventati duri d'orecchi e hanno chiuso gli occhi, per non rischiare di vedere con gli occhi e di udire con gli orecchi, e di comprendere con il cuore

ATTI 8:21
Tu, in questo, non hai parte né sorte alcuna; perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio.

ROMANI 1:21
... perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato come Dio, né lo hanno ringraziato; ma si sono dati a vani ragionamenti e il loro cuore privo d'intelligenza si è ottenebrato.

LUCA 2:34-35
E Simeone li benedisse, dicendo a Maria, madre di lui: «Ecco, egli è posto a caduta e a rialzamento di molti in Israele, come segno di contraddizione (e a te stessa una spada trafiggerà l'anima), affinché i pensieri di molti cuori siano svelati».

1 CORINZI 4:5
Perciò non giudicate nulla prima del tempo, finché sia venuto il Signore, il quale metterà in luce quello che è nascosto nelle tenebre e manifesterà i pensieri dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio.

2 CORINZI 10:5
... e tutto ciò che si eleva orgogliosamente contro la conoscenza di Dio, facendo prigioniero ogni pensiero fino a renderlo ubbidiente a Cristo;

PROVERBI 28:9
Se uno volge altrove gli orecchi per non udire la legge, la sua stessa preghiera è un abominio.

LUCA 24:36-38
Ora, mentre essi parlavano di queste cose, Gesù stesso comparve in mezzo a loro, e disse: «Pace a voi!» Ma essi, sconvolti e atterriti, pensavano di vedere uno spirito. Ed egli disse loro: «Perché siete turbati? E perché sorgono dubbi nel vostro cuore?

FILIPPESI 4:6-8
Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. Quindi, fratelli, tutte le cose vere, tutte le cose onorevoli, tutte le cose giuste, tutte le cose pure, tutte le cose amabili, tutte le cose di buona fama, quelle in cui è qualche virtù e qualche lode, siano oggetto dei vostri pensieri.

PREDICAZIONE

Marcello Cicchese
luglio 2007




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Al confine col Libano, nel kibbutz della paura

"Andiamo a raccogliere nei campi con la pistola. Ma non ci arrendiamo"

di Fausto Biloslavo

Servizio di guardia all'ingresso del kibbutz Sasa vicino al confine libanese.
La colonna di fumo grigio si espande verso il cielo salendo dietro una collina verde a un chilometro e mezzo in linea d’aria davanti a noi, dopo che l’artiglieria israeliana ha colpito una postazione di Hezbollah in territorio libanese. I giannizzeri di Teheran hanno lanciato un missile anti carro, una delle «scaramucce», sempre più intense, del fronte nord.
«Benvenuti sulla prima linea al confine con il Libano». Angelica Edna Calo Livne ci accoglie così sul terrazzo della sua casa nel kibbutz di Sasa, che domina uno splendido panorama verso la terra dei cedri.
   «Israele arriva fino alla zona verde di quella collina. Nella terra brulla, subito oltre, c’è Hezbollah», spiega la madre di tre figli in prima linea, di origine italiana, che sul terrazzo ha esposto una bandiera israeliana. Suo marito Yehuda è il capo dell’unità di difesa del kibbutz, volontari in divisa verde oliva armati come i soldati israeliani. «Qualche giorno fa hanno tirato i razzi su quelle casette bianche di un altro kibbutz proprio a ridosso del confine», indica con la mano Angelica, che è una delle poche donne rimaste nell’insediamento a due chilometri dal Libano. Adesso a presidiare l’area ci sono i possenti carri armati Merkava riparati sotto gli alberi per non farsi individuare dai droni di Hezbollah. Le altre donne del kibbutz con i figli e gli anziani sono stati evacuati verso il centro di Israele.
   Di notte i colpi sordi dell’artiglieria israeliana si mescolano al rombo dei caccia bombardieri e al ronzìo dei droni. Idf, le forze armate con la stella di Davide, hanno colpito più volte postazioni di Hezbollah, i giannizzeri libanesi dell’Iran, e intercettato cellule palestinesi della Jihad islamica che cercano di infiltrarsi verso gli storici insediamenti di confine per ripetere la strage del 7 ottobre al Sud (808 civili e 309 soldati israeliani morti identificati fino a ora).
Yeuda e Angelica la moglie di origini italiane nel kibbutz Sasa con il Libano sullo sfondo
Il kibbutz di Sasa solitamente ospita 500 anime e si estende per due chilometri e mezzo su una collina circondata da alberi di mele e filari di kiwi. «Siamo nella stagione della raccolta e vado ogni giorno nei campi - racconta Angelica quasi con un groppo in gola -. L’altra mattina mi sono chiesta: e se arrivasse Hezbollah, come ha fatto Hamas, per ammazzarci tutti? Per la prima volta, io, una pacifista, mi sono portata dietro una pistola». L’ingresso del kibbutz è sprangato da un cancellone in ferro dipinto di giallo presidiato da guardie armate. I blindati dell’esercito servono in caso di emergenza. Cesare, con al collo il simbolo della Roma, squadra del cuore, e fucile mitragliatore a tracolla spiega che «dormiamo poco da giorni. Suonano le sirene per i lanci dei razzi di Hezbollah, che usano anche armi anti carro». Al polso ha un laccetto tricolore e l’accento romano è inconfondibile: «Posso solo dirti che da queste parti non si arrende nessuno. È la nostra casa e non ci muoviamo».
   I timori di tutti è che un’operazione terrestre a Gaza scateni la reazione di Hezbollah, partito armato sciita ben più organizzato e armato di Hamas, con un arsenale di almeno 130mila missili. «Hanno scavato un gruviera di tunnel, che sono stati pure scoperti in alcuni casi - osserva Luciano Assin -. Pianificano di invaderci spuntando da sottoterra».
   Il milanese di nascita ci porta a casa per farci vedere la stanza blindata. «Quando lanciano i razzi mi chiudo dentro e blocco la maniglia se i terroristi riuscissero a infiltrasi dentro il kibbutz. Questa ventola particolare serve per filtrare l’aria in caso di attacco batteriologico», spiega come se fosse normale mettere nel conto le armi di distruzione di massa. Poi tira fuori il cellulare per farci vedere la mappa del rischio, con vari colori, di tutta Israele. «Il nord, nell’area di confine, è zona rossa osserva -. Significa che quando suona la sirena abbiamo praticamente zero secondi per metterci in salvo. I lanci di Hezbollah sono troppo vicini».

(il Giornale, 28 ottobre 2023)

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Israele-Hamas: l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite vota per una "tregua umanitaria"

La risoluzione non vincolante è stata accolta a New York con 120 voti a favore, 14 contrari (tra cui Israele e Stati Uniti) e 45 astensioni. La collera di Israele

Venerdì scorso, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiesto a larga maggioranza una "tregua umanitaria immediata", nel 21° giorno di guerra tra Hamas e Israele, il quale ha denunciato questa "infamia”, espressa nel momento in cui il suo esercito ha annunciato di "estendere" le operazioni di terra a Gaza. Dopo quattro fallimenti in dieci giorni da parte del Consiglio di Sicurezza, l'Assemblea Generale ha raccolto il testimone su questo tema, che ha evidenziato delle divisioni, in particolare tra gli occidentali.
   "Mentre siamo testimoni di un'invasione di terra di Israele e in assenza di un'azione decisa da parte del Consiglio di Sicurezza, la risoluzione ha un obiettivo semplice ma vitale, in linea con la ragion d'essere delle Nazioni Unite: la pace", ha dichiarato l'ambasciatore giordano Mahmoud Daifallah Hmoud, il cui Paese ha redatto il testo a nome del gruppo di 22 Paesi arabi.
   La risoluzione, non vincolante, "chiede una tregua umanitaria immediata, duratura e sostenuta, che porti alla cessazione delle ostilità", ed è stata approvata a New York con 120 voti a favore, 14 contrari (tra cui Israele e Stati Uniti) e 45 astensioni, su 193 membri delle Nazioni Unite. L'ambasciatore palestinese Riyad Mansour ha espresso la sua gioia, ringraziando l'Assemblea Generale per il suo "coraggio" nel dire "basta, questa guerra deve finire, la carneficina contro il nostro popolo deve cessare". Accogliendo con favore la risoluzione, Hamas ha rilasciato una dichiarazione in cui chiede "la sua immediata attuazione in modo che i civili possano essere riforniti di carburante e di aiuti umanitari".
   "L'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan ha definito la risoluzione "vergognosa".
   "Questo è un giorno buio per le Nazioni Unite e per l'umanità", ha aggiunto, promettendo che Israele continuerà a usare "tutti i mezzi" a sua disposizione per "liberare il mondo dal male che Hamas rappresenta".
   Gli Stati Uniti, che avevano criticato l'assenza delle parole "Hamas" e "ostaggi" nel testo, hanno votato contro. Il Regno Unito si è astenuto.
   Un emendamento canadese che condannava "categoricamente gli attacchi terroristici di Hamas" del 7 ottobre e chiedeva il "rilascio immediato e incondizionato" degli ostaggi è stato respinto, nonostante abbia ricevuto 88 voti a favore, 55 contrari e 23 astensioni (per passare erano necessari i due terzi dei voti espressi).
   La Francia ha riconosciuto che "alcuni elementi essenziali mancano nel testo", ma ha comunque approvato la risoluzione giordana. "Perché nulla può giustificare la sofferenza dei civili", ha insistito l'ambasciatore francese Nicolas de Rivière.
   Ma mentre Francia, Spagna e Belgio hanno votato a favore del testo, Germania, Italia e Finlandia si sono astenute, mentre Austria, Repubblica Ceca e Ungheria hanno votato contro. "Un disastro per gli sforzi dell'UE di proiettare una posizione comune alle Nazioni Unite", ha commentato Richard Gowan dell'International Crisis Group.

(i24, 28 ottobre 2023)
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"Nulla può giustificare la sofferenza dei civili" dice l'ambasciatore francese, ed evidentemente intende quella dei civili palestinesi, perché quella degli israeliani le Nazioni Unite riescono a sopportarla benissimo. Per non dire che molte ci godono. M.C.

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Soldati e tank di Israele dentro la Striscia di Gaza: «Hamas ha commesso crimini contro l'umanità e sentirà la nostra ira»

La notte tra il 27 e il 28 ottobre l'esercito israeliano ha intensificato i bombardamenti sulla Striscia di Gaza, che stanno continuando in queste ore. Blackout delle linee di comunicazione e prime incursioni via terra

di Alessia Arcolaci

Israele ha intensificato l'attacco sulla Striscia di Gaza. Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre l'esercito israeliano ha colpito senza sosta Gaza anche con le prime incursioni via terra a Nord, secondo quanto riferiscono i terroristi di Hamas. Sempre nelle stesse ore è stato difficilissimo (e continua ad esserlo) entrare in contatto con la popolazione civile a Gaza perché le linee di comunicazione sono state tutte interrotte e Gaza isolata.
   Come ha raccontato al New York Times il fotografo freelance palestinese Belal Khaled: «Le persone hanno paura e si sentono in un limbo. Non sanno cosa succede intorno a loro». I civili raggiunti da Haaretz hanno descritto la notte che si è appena conclusa come «la più buia dall'inizio della guerra», che oggi ha raggiunto il suo ventunesimo giorno. Intanto, su X, l'Aeronautica Militare Israeliana fa sapere di avere ucciso la notte scorsa «il capo della formazione aerea dell’organizzazione terroristica Hamas, Ezzam Abu Raffa. Era responsabile della gestione degli apparati Uav, dei droni, del rilevamento aereo, dei deltaplani e della difesa aerea dell’organizzazione Hamas. Nell'ambito del suo incarico, ha preso parte alla pianificazione e all’esecuzione del massacro omicida negli insediamenti intorno a Gaza il 7 ottobre».
   Prima Hamas, poi Israele stesso hanno confermato le incursioni via terra nella zona nord di Gaza ma non ci sono conferme circa l'inizio di una estesa operazione di terra. «Hamas ha commesso crimini contro l'umanità e sentirà la nostra ira stanotte, la vendetta inizia stanotte», ha detto Mark Regev, consigliere politico senior del premier israeliano Benyamin Netanyahu, in un'intervista a Msnbc. «Le nostre forze di terra si trovano ancora sul terreno e portano avanti la guerra», ha fatto sapere il portavoce militare Daniel Hagari. «La notte scorsa sono entrate nel nord della Striscia e hanno esteso le attività di terra. A questa operazione partecipano unità di fanteria, dei carristi, del genio e dell’artiglieria, sostenuti da un forte volume di fuoco».
   La guerra potrebbe spostarsi adesso nei tunnel sotterranei di Hamas a Gaza. Secondo le forze israeliane sarebbero cinque quelli già distrutti durante i bombardamenti. «L'aviazione sta colpendo obiettivi che si trovano nei sotterranei in maniera molto significativa», ha dichiarato il portavoce delle forze armate israeliane, il contrammiraglio Daniel Hagari. «In aggiunta agli attacchi condotti negli ultimi giorni, forze di terra stanno espandendo la loro attività. La difesa israeliana sta agendo con grande forza per raggiungere gli obiettivi di guerra».
   Sono 150, al momento gli obiettivi che l'esercito israeliano ha confermato di avere colpito. Intanto la situazione umanitaria è al collasso e le Nazioni Unite chiedono una «tregua immediata», con una risoluzione approvata dall'Assemblea Generale. «Abbiamo perso i contatti con i nostri colleghi di Gaza», ha dicharato Catherine Russell, Direttore generale dell’Unicef. «Sono estremamente preoccupata per la loro sicurezza e per un’altra notte di orrore indicibile per un milione di bambini a Gaza. Tutti gli umanitari, i bambini e le famiglie devono essere protetti».

(Vanity Fair, 28 ottobre 2023)

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Con la task force che identifica le vittime di Hamas e cerca le parole per informare le famiglie

Quasi mille nuclei familiari sparsi sul territorio nazionale e a volte anche all’estero stanno ancora aspettando notizie sui loro cari. Siamo stati dai Pikud HaOref per capire come in Israele si recapita la notizia più dura: tuo figlio non è ostaggio, è morto.

di Fabiana Magrì 

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RAMLA - Nel pieno del trauma collettivo nazionale che Israele sta attraversando dal giorno del massacro di Hamas del 7 ottobre, ogni anello della catena, militare e civile, impegnata a reagire, gestire e rispondere all’emergenza, si trova ad affrontare sfide mai sostenute prima. Una delle frasi ricorrenti è “non ho mai visto qualcosa di simile, non l’avrei nemmeno immaginato”. L’ha pronunciata, in un briefing a cui ha partecipato il Foglio, anche un alto ufficiale in servizio come riservista al Pikud HaOref, o Home Front Command, la protezione civile israeliana, la più giovane sezione dell’esercito con quartier generale in una base militare a Ramla. “Siamo di fatto – spiega il militare in pensione da due anni, che ha parlato in condizione di anonimato – il risultato della più importante lezione imparata nella guerra del Golfo. Quando, nella prospettiva israeliana, i conflitti non sono più stati quelli di prima e i civili sono diventati obiettivi, entrando a far parte del fronte di guerra a tutti gli effetti”. 

• L’Home Front, appunto
  Il Pikud HaOref è una protezione civile potenziata, si potrebbe dire. Il suo comandante risponde a due vertici, il capo di stato maggiore e il ministro della difesa. Protezione, allerte tempestive, linee guida per il comportamento della popolazione, ricerca e salvataggio di civili ma anche assicurare che il paese non si paralizzi in una situazione di emergenza, sono le sue principali missioni. Nelle circostanze attuali, la presenza di milioni di cittadini evacuati dalle loro case e distribuiti nelle aree ritenute più sicure rappresenta una sfida ulteriore. 
E poi ci sono i morti e gli ostaggi. E le loro famiglie da informare. Tempestivamente, professionalmente, con tatto e compassione. Quasi mille nuclei familiari sparsi sul territorio nazionale e a volte anche all’estero. Da raggiungere quanto prima con notizie certe sui loro cari. Quando migliaia di terroristi di Hamas si sono infiltrati in Israele via terra, mare e aria in più di 20 località nel sud di Israele più vicine a Gaza, hanno ammazzato oltre 1.400 persone e ne hanno rapite, secondo gli ultimi dati dell’esercito, 224. Che ancora adesso sono tenuti in cattività dentro la Striscia.
   Nella base militare di Shura – non distante dal quartier generale del Pikud HaOref – e al Centro di Medicina forense a Tel Aviv, i medici hanno lavorato 24 ore su 24 per identificare le vittime dai loro resti e dal Dna. In alcuni casi da minuscoli frammenti carbonizzati e inceneriti. Un impegno dovuto allo straordinario numero delle vittime. Ma anche dalla natura e dall’efferatezza degli omicidi, che ha rappresentato una sfida immane per l’identificazione di cadaveri accoltellati, bruciati, decapitati, smembrati. Brutalizzati. Al termine del processo di identificazione, entra in campo il Pikud HaOref. Che per affrontare l’impresa, ha aperto un centro nazionale operativo insieme con la polizia, gli uffici governativi e i rappresentanti delle autorità locali. “Abbiamo già dato notizia a più di 800 famiglie. E sappiamo che ci sono cento famiglie di vittime non ancora identificate a cui dovremo portare loro notizie. Sono i casi più difficili e complicati”, racconta il colonnello Hai Rekah, capo del distretto centrale Dan per l’Home Front Command. Nella task force sono stati arruolati 20 funzionari che lavorano su turni per coprire le 24 ore, 7 giorni su 7. Quando il personale riceve la notifica di identificazione del cadavere, “iniziamo a lavorare di intelligence su ciascuna vittima, per capire la sua storia”, spiega il colonnello. Si parte dall’albero genealogico. “Abbiamo un muro intero coperto di alberi genealogici – continua – di cui dobbiamo riempire i buchi, con le informazioni complete sul destino di ogni componente della famiglia. Perché magari inizialmente una persona si pensava rapita ma poi se ne identifica il cadavere. Così da limitare le visite, possibilmente a una sola. In altri casi, a essere stati sterminati sono interi nuclei familiari”.  I dilemmi sono molti. Per  esempio, a chi recapitare la visita e la notizia. Il coniuge o il genitore? Uno solo dei figli o tutti insieme? Senza contare che i primi funzionari non erano pronti per questo compito, “non sapevano quali parole usare ma non c’era tempo per fare formazione specifica”, racconta Rekah. “Nelle prime 48 ore – ammette – l’unica cosa che abbiamo potuto fare è stata piangere assieme alle famiglie”.

Il Foglio, 28 ottobre 2023)

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Eroi non celebrati: Soldati solitari contro Hamas

D. e L. sono membri dell'unità speciale Sayeret Haruv dell'IDF che hanno combattuto per liberare il Kibbutz Be'eri dai terroristi di Hamas.

D. e L., membri di un corpo speciale dell'IDF
GERUSALEMME - Quando siamo arrivati lì, i terroristi di Hamas erano ancora vivi, alcuni morti... molti soldati feriti, soldati morti, civili morti, corpi ovunque".
Queste sono le parole di D., membro dell'unità speciale Sayeret Haruv delle Forze di Difesa israeliane, inviato il 7 ottobre a Kibbutz Be'eri, una delle tante città israeliane invase dai terroristi di Hamas. Si stima che 130 residenti siano stati uccisi e che circa 50 siano stati presi in ostaggio a Gaza.
   Lunedì, D. stava prendendo un caffè con un altro membro dell'unità, L., in un bar di Agrippas Street, nel centro di Gerusalemme, di fronte al famoso mercato Mahane Yehuda. Entrambi avevano 12 ore di permesso. Indossavano ancora le loro uniformi da combattimento ed era facile capire che erano stati recentemente in azione contro Hamas.
   L'identità delle forze speciali dell'IDF, come quella dei piloti da combattimento, è segreta. Un aspetto dell'identità dei due soldati che può essere rivelato, tuttavia, è che sono entrambi americani venuti in Israele per servire nell'IDF. Sono quelli che in Israele vengono chiamati "soldati solitari", cioè persone che prestano servizio nell'esercito e non hanno famiglia nel Paese.
   Il soldato D. aveva 18 anni quando si è arruolato. È nato in Israele, ma la sua famiglia si è trasferita negli Stati Uniti. È tornato per prestare servizio nell'IDF.
   Il soldato L. è cresciuto a Scarsdale, New York, e aveva già 23 anni quando ha iniziato il servizio militare. Non è un compito facile per chi entra in una delle forze speciali israeliane. I cinque anni in più fanno una differenza significativa; è difficile tenere il passo con i diciottenni.
   Da sabato sera a domenica, per tutta la notte, è stata praticamente una battaglia di 14 ore", ha raccontato L. "Fuoco di armi automatiche, mitragliatrici, e anche esplosioni quando Hamas ha sparato razzi contro il kibbutz". La battaglia per Be'eri è durata fino a domenica, e poi siamo rimasti lì per qualche altro giorno".
   "Quando siamo arrivati sul posto, abbiamo aiutato ad evacuare i civili e ZAKA ha aiutato a recuperare i corpi", ha aggiunto. ZAKA è l'organizzazione israeliana che si occupa dei resti umani dopo incidenti e attacchi terroristici.
   I soldati sono entrambi religiosi e si erano assentati dal lavoro il 7 ottobre per la festività di Simchat Torah. Sono tornati alla base alle 14:00.

(Israel Heute, 27 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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“Israele e l'occidente non saranno più gli stessi dopo il 7 ottobre”. Parla Fridman

di Giulio Meotti

“Siamo in uno spartiacque storico, come un nuovo 1948, dopo il quale non sarà lo stesso paese”. Così al Foglio Matti Fridman, nato a Toronto, immigrato in Israele a diciassette anni, dove ha servito nel Libano del sud con l’esercito, prima di dedicarsi alla carriera giornalistica, prima all’Associated Press, poi come editorialista per il New York Times e altre testate e autore di libri fortunati, come “Il codice di Aleppo” e una biografia di Leonard Cohen e il suo periodo in Israele. 
  “Amir Tibon, un collega del quotidiano Haaretz, rimasto intrappolato con la moglie e i figli nella loro casa a Nahal Oz mentre i soldati di Hamas cercavano di irrompere e ucciderli, ha scritto che la difesa del kibbutz da parte di un pugno di soldati era ‘come nel 1948’. Dunque un momento esistenziale per la sicurezza  e neanche coloro che speravano in un esito moderato del conflitto e che avevano visto attentati suicidi e missili pensavano di assistere a una cosa simile. E questa barbarie avrà conseguenze. E non abbiamo ancora assorbito questo trauma”.
  Ci vorranno mesi, forse anni, continua Matti Fridman al Foglio, per metabolizzare il 7 ottobre. “In Israele non possiamo tornare a quello che eravamo prima. Ma non sappiamo come evolverà”. Dopo venti giorni, Hamas è ancora in grado di infliggere violenza a Israele, con i missili e con gli ostaggi. “Non stiamo vincendo ancora dopo la più grande sconfitta militare nella storia d’Israele” dice Fridman. “Qualcuno ha evocato la sorpresa dello Yom Kippur, ma erano soldati, qui parliamo di più di mille civili uccisi. Shimrit Meir, uno dei più acuti osservatori israeliani del mondo arabo, ha commentato che l’operazione di Hamas è stata accolta a Gaza con ‘un’euforia senza precedenti’ per ‘la più grande svolta palestinese dal 1948’. Vinceremo certo, l’esercito almeno nel breve termine prevarrà, ma abbiamo bisogno di una nuova leadership e modo di pensare se vogliamo ancora prosperare. Una settimana fa sembrava imminente l’invasione, anche da amici che sono nella riserva. Poi è entrata in una pausa, per le macchinazioni internazionali: gli americani stanno dicendo a Israele quando intervenire, perché ora riguarda anche Cina, Russia, Iran e altri attori. Stiamo indebolendo intanto Hamas. L’economia intanto è in  pausa, per questo la riserva dovrà essere usata”.
  Quando abbiamo chiamato Fridman era di ritorno dal confine con Gaza. “L’agricoltura è in uno stato di abbandono. Molti lavoratori tailandesi sono stati uccisi, molti se ne sono andati, molti sono rapiti e i kibbutz e i moshav al confine con Gaza hanno adesso campi che non vengono coltivati e raccolti che non vengono lavorati. Per cui sono andato a sud a dare una mano con migliaia di altri israeliani che si sono offerti. Oggi ho raccolto l’insalata al confine con Gaza. La società israeliana è molto forte e ha risposto”. 
  Difficile spiegare il mistero dell’opinione pubblica in maggioranza contro Israele. “Psicologicamente è affascinante che un massacro di ebrei abbia scatenato una protesta di massa contro gli ebrei e mi dice qualcosa sul perché ci sia stato l’Olocausto, cosa che non ho mai davvero capito” ci dice Fridman. “C’è qualcosa di profondo. Questo è spaventoso per le comunità ebraiche in Europa, ma anche per i non ebrei. A Londra vedi migliaia di persone che marciano per Hamas. Avrei molta paura se fossi al governo in Inghilterra o anche in Italia. Israele e l’Europa hanno un problema in comune. C’è qualcosa all’opera che va al di là di Israele. Il mio paese deve fare di più per l’opinione pubblica occidentale, che sta diventando sempre più polarizzata. E si rivolterà contro di noi. Viviamo in tempi folli, il crollo dell’ordine mondiale, quasi un momento di decivilizzazione. Non so se a Roma o a Parigi e Londra, ma per Israele la posta in gioco è proprio questa: la civiltà”. 
Intanto il fronte del consenso per Hamas prende forma nei campus americani. Neanche la Brandeis University – fondata come università ebraica – è riuscita ad approvare una mozione di condanna di Hamas, mentre sulla facciata della George Washington University hanno scritto: “Gloria ai nostri martiri”. 
  “Negli ultimi 15 anni le istituzioni accademiche americane sono state sequestrate dal woke, gender immigrazione diritti umani etc..” conclude Fridman. “Da qui l’idea che Israele incarni tutto quello che odia la sinistra: razzismo, colonialismo, militarismo. E la stampa ha dato la volata a queste idee. Il Guardian e anche il New York Times. Il campus è l’origine di questa ideologia ostile. In molte ideologie occidentali gli ebrei, anche nel comunismo, erano indicati come il male. E così oggi l’antirazzismo. Karl Marx diceva che gli ebrei erano il capitalismo. Non avevamo mai visto nulla di simile. Un fenomeno psicologico unico”.  E così le vittime del più grande progetto razziale della storia sono oggi attaccate in nome dell’antirazzismo. Puro Orwell.  

Il Foglio, 27 ottobre 2023)

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“Né con Hamas, né con Israele”, l’equidistanza che non esiste

di David Spagnoletto

“Né con Hamas, né con Israele” è uno degli slogan del momento.
   Slogan sposato da Uri Davis, l’accademico britannico nato a Gerusalemme che il leader egiziano dei palestinesi Yasser Arafat volle al suo fianco dentro Fatah, di cui oggi è vicecommissario agli Affari Politici, nonché uno degli intellettuali più vicini al presidente Abu Mazen.
   Slogan sposato anche dalla Chiesa Cattolica, che in nome di quella ecumenicità con cui si mostra al mondo, chiede un cessato il fuoco.
   “Né con Hamas, né con Israele” è uno slogan che vuole apparire equidistante, ma in realtà cela ben altro. A essere sbagliato è il presupposto, perché il gruppo terroristico palestinese di Hamas non può esser paragonato a Israele, uno stato democratico imperfetto, che ha commesso errori, come tutti gli stati democratici di questo mondo.
   Slogan sposato anche da diversi manifestanti che in Italia sono scesi o scenderanno in piazza per chiedere la pace. Una richiesta astratta che arriva, guarda caso, proprio quando Israele sta preparando l’incursione terrestre di Gaza. Una richiesta che non è arrivata l’8 ottobre, il giorno dopo la mattanza di Hamas contro i civili israeliani.
   Nelle ore immediatamente successive al pogrom palestinese contro gli ebrei si adducevano considerazioni storiche per giustificare il massacro di Hamas. “70 anni di occupazione, normale che ci sia una reazione”, è stata la sintesi di quello che siamo stati costretti a legge e ascoltare a poche ore dal pogrom palestinese contro i civili israeliani.
   1973, 1967, 1948, mandato britannico sulla Palestina, dichiarazione Balfour e chi ne ha più metta, in diversi hanno provato a legittimare la sete di morte ebraica voluta da Hamas.
   Un voler tornare indietro anacronistico dopo il 7 ottobre, giorno in cui il conflitto israelopalestinese è cambiato per sempre.
   Ci prestiamo, però, al gioco e torniamo ancora più indietro tra il 7 a.C. e l’1 a.C, nascita di Gesù, in aramaico: יֵשׁוּעַ (Yēšūa’). Gesù è nato ebreo e morto ebreo in Palestina. Quella terra che più di qualcuno vuole estrapolare dalla storia del popolo ebraico.
   Cancellare la storia del popolo ebraico dalla Palestina equivale a cancellare Gesù dalla Palestina e stravolgere il Cristianesimo.
   Siete sicuri di essere pronti a farlo?

(Progetto Dreyfus, 27 ottobre 2023)

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Il manuale dei terroristi di Hamas per il massacro contro Israele del 7 ottobre

Un manuale segreto agghiacciante è stato trovato nelle tasche dei terroristi di Hamas, che lo scorso 7 ottobre hanno massacrato i civili israeliani. È l’ennesima dimostrazione di una minuziosa pianificazione del gruppo terroristico palestinese, che ha dato precise indicazioni ai suoi macellai, che qualcuno considera meritevoli di sedersi al tavolo della pace con Israele.
   “Uccidete i problematici o chi pone una minaccia”, usateli come “carne da cannone, assicurandovi che siano chiaramente visibili”.
   E ancora, bendate gli ostaggi, legandogli i polsi e le caviglie, donne e bambini devono essere separati dagli uomini.
   Non solo, perché nei manuali della morte del gruppo terroristico palestinese Hamas era scritto di creare confusione con granate stordenti e armi da fuoco, incendiare più luoghi possibili per scatenare il panico, nonché minacciare torture e uccisioni.
   E poi l’indicazione di filmare gli orrori commessi, postarli sui social, senza “sprecare la batteria” degli smartphone, il che prova la volontà di Hamas di rimanere nel sud di Israele e prendere controllo della zona. Non un’azione “mordi e fuggi”.

Nelle tasche di un terrorista palestinese di Hamas anche una pennetta USB al cui interno è stato ritrovato un documento di Al Qaeda su come decapitare i neonati e creare dispositivi improvvisati per diffondere cianuro.
Come decapitare i neonati”, non un atto terroristico, ma un’azione brutale e intrisa d’odio nei confronti degli ebrei, che qualche bontempone e frequentatore dei salotti televisivi italiani cerca di negare.
Eh sì, perché è difficile andare in tv e perorare la causa di Hamas se questi ha decapitato i neonati. E allora, anziché provare a guardare la situazione con occhi diversi, meglio negare. Meglio negare che i bambini non siano stati uccisi privandoli della testa.
  Per la serie: lontano dagli occhi, vicini all’odio.
   Quell’odio presente nelle parole di docenti universitari, presunti influencer, opinionisti con un’unica opinione, che vorrebbero convincere gli italiani della bontà del massacro di Hamas contro i civili israeliani.
   Senza dimenticare quei politici nostrani che ancora invocano la fine del conflitto voluto da Hamas, riproponendo per l’ennesima volta la stantia soluzione “due stati per due popoli”, facendo finta di non sapere che il gruppo terroristico palestinese al potere nella Striscia di Gaza dal 2007, non vuole la pace, non vuole uno Stato ebraico, vuole esclusivamente la cancellazione di Israele dalla cartina geografica.

(Progetto Dreyfus, 24 ottobre 2023)

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I complici di Hamas

di David Elber

A distanza di quasi tre settimane dal massacro del 7 ottobre compiuto dai palestinesi di Hamas, e costato la vita ad oltre 1.400 persone, si possono tratteggiare le figure dei complici di questa organizzazione criminale islamo-nazista. La schiera dei complici è molto articolata e presente a molteplici livelli.
   In prima fila ci sono l’Iran e il Qatar, che sostengono militarmente (l’Iran) e finanziariamente (entrambe) l’organizzazione criminale. Da numerosi anni fanno pervenire armi di ogni genere a Gaza (con la compiacenza dell’Egitto) e pagano lautamente i suoi membri sia nella Striscia che all’estero. Il Qatar, inoltre, tramite la sua emittente televisiva Al Jazeera fornisce un formidabile strumento di propaganda e copertura mediatica, indispensabile per accusare Israele di crimini di ogni genere ogni qual volta si difende dagli attacchi palestinesi. Poco sotto a questi due Stati, ci sono la totalità degli Stati islamici, ad iniziare dalla Turchia, fintamente amici di Israele o apertamente nemici, che finanziano Hamas tramite una rete capillare di organizzazioni caritatevoli islamiche o di ONG che raccolgono fondi da svariati milioni di dollari all’anno.
   Non da meno di questo universo islamico, si inseriscono gli USA (tranne la presidenza Trump che pose un argine ai copiosi finanziamenti americani) e gli Stati europei (compresa la Russia) e asiatici (Cina in primis) che finanziano a loro volta Hamas con milioni di dollari annui anche se in modo indiretto e più subdolo. Il finanziamento avviene tramite varie agenzie ONU (UNWRA in testa) e numerosissime ONG “umanitarie” presenti a Gaza che permettono di fatto a Hamas di governare indisturbato offrendogli anche la struttura scolastica per coltivare tra i bambini palestinesi odio anti-ebraico fin dalla tenera età.
   Le ONG e le organizzazioni ONU forniscono anche il materiale (cemento, ferro ecc.) per costruire i tunnel e i centri di comando sotterranei poiché tutto ciò che entra a Gaza è controllato da Hamas, il quale sottrae gran parte dei materiali che servono a scopo civile, per i propri scopi bellici. Oltre a questo le ONG e le agenzie ONU si prestano sempre a essere delle casse di risonanza di Hamas, inventandosi crisi umanitarie inesistenti (basta leggersi i dati sulla crescita demografica) al fine di obbligare Israele a permettere il transito di quantità sempre maggiori di materiali di ogni genere. Inoltre, Israele, sempre a causa di pressioni politiche fomentate da queste organizzazioni, è costretto a fornire elettricità e acqua ai suoi aguzzini. Una consuetudine che non ha uguali al mondo.
   A questo scenario vanno aggiunte le costanti e umilianti pressioni politiche che tutto l’Occidente esercita nei confronti di Israele quando Hamas compie azioni terroristiche o eccidi come quello del 7 ottobre, affinché lo Stato ebraico non si difenda in modo adeguato. Esse avvengono per mezzo delle dichiarazioni di presidenti, ministri, alti rappresentanti della UE o delle Nazioni Unite, in merito alla risposta militare di Israele, giudicata immancabilmente come “sproporzionata”, o alla fittizia affermazione che Hamas non rappresenterebbe il popolo palestinese. Entriamo nel dettaglio. 
   Quando i politici all’unisono paventano presunte violazioni del diritto internazionale da parte di Israele tutte le volte in cui si difende, si esprimono in assoluta malafede. Israele non ha mai violato norme internazionali ma chi lo fa sistematicamente è Hamas che usa i civili come scudi umani. Porre sempre e unicamente Israele sotto il torchio delle pressioni politiche ha lo scopo di indebolirlo  e di delegittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica. Nei media la sola presunzione di reato equivale alla condanna definitiva. Gli stessi politici che agiscono in questo modo non lo  fanno mai nei confronti di Hamas, al massimo si assiste, da parte loro, a condanne generiche senza alcun costrutto. Perché, invece, non vengono sospesi i copiosi aiuti finanziari anziché limitarsi a condanne inutili e ipocrite tutte le volte che hanno luogo attentati o stragi? Perché non viene mai messa in luce la sistematica violazione dei diritti umani compiuta da Hamas nei riguardi della propria popolazione oltre che nei confronti degli ebrei?
   L’altra faccia di questa strategia è l’assioma “Hamas non rappresenta il popolo palestinese”, e chi rappresenterebbe allora? Sono affermazioni paragonabili a chi sostiene che “i nazisti non rappresentavano il popolo tedesco”. Sicuramente il 100% dei tedeschi non erano nazisti, ma essi godevano di largo seguito,  esattamente come Hamas. Quando furono sconfitti, la popolazione civile tedesca fu coinvolta pesantemente nella guerra, ma nessuno a questo proposito considera le azioni degli alleati come rappresaglie o le considera esempi di uso “sproporzionato della forza”. Questi criteri valgono sempre e solo per Israele, con il chiaro intento di delegittimarlo.
   Il fatto che Hamas non rappresenti tutto il popolo palestinese è un’ovvietà, ma nel 2006 alle ultime elezioni amministrative svolte a Gaza, surclassò i rivali dell’Autorità Palestinese. Le elezioni, quindi furono annullate. Oggi, se si andasse a votare nei territori amministrati dai palestinesi, secondo tutti i sondaggi, Hamas vincerebbe con un ampio margine e per questo motivo non si sono più tenute nell’indifferenza della comunità internazionale.
   I politici di tutto il mondo fingono di non vedere questo scenario e vogliono convincere l’opinione pubblica che Hamas non rappresenti nessuno se non se stesso.
   Agendo in questo modo la classe politica occidentale è complice di Hamas perché nei fatti ne accetta il ruolo, lo sovvenziona e provvede a proteggerlo politicamente, mentre, al contempo, mette sotto accusa unicamente Israele per ogni presunta violazione. 
   Affinché  questo accada è indispensabile l’appoggio e la complicità dei giornalisti, soprattutto delle testate internazionali più prestigiose, a cominciare dalla BBC. Il lavoro che svolgono in questo senso offre uno scampolo ideale di fenomenologia della disinformazione.
   Per prima cosa si propongono come cassa di risonanza per la propaganda che Hamas attiva ad ogni conflitto. Non verificano mai la correttezza di quanto viene affermato, ben sapendo che Hamas non è attendibile come dimostrano anni di falsità sempre puntualmente smentite. Quando i fatti smentiscono le menzogne le rettifiche non finiscono mai in prima pagina ma sono relegate a striminziti comunicati in fondo ai notiziari (quando avvengono).
   A questa opera di propaganda vanno aggiunte consolidate “tecniche” di disinformazione utilizzate solamente per Israele. La prima è la consolidata tecnica di mettere sempre in primo piano la reazione di Israele rispetto agli attacchi che subisce. Molte volte si arriva a dare notizie dove si parla solo di reazione (che diventa rappresaglia) senza neanche menzionare il perché Israele si difenda. In questo modo la percezione dello spettatore o del lettore è che Israele aggredisce i palestinesi. Segue poi l’utilizzo distorto di termini come: “rappresaglia”, “occupazione illegale”, “uso sproporzionato della forza” e via dicendo. In questo modo l’opinione pubblica è portata a pensare che Israele sia ontologicamente criminale. Mai un accenno, invece, all’utilizzo dei civili da parte di Hamas come scudi umani, oppure del suo sprezzo totale per i più elementari diritti civili e politici, o del fatto che si sia arricchito con gli aiuti internazionali mentre la popolazione è tenuta volontariamente in povertà per farne il suo braccio armato. Viene offerto in questo modo un totale sostegno al vittimismo palestinese che porta l’opinione pubblica a giustificare le azioni più aberranti come quella compiuta il 7 ottobre.
   Un’altra costante dei mass media è quella di enumerare le vittime civili delle due parti per far credere che chi subisce più vittime civili è dalla parte della ragione. In tal senso, nella stampa, non vi è mai una spiegazione accurata del fatto che Israele fa di tutto per proteggere i propri civili e quelli palestinesi, mentre Hamas fa di tutto per esporli ai pericoli della guerra. In questo modo i palestinesi sono sempre le vittime e gli israeliani sempre i carnefici o gli oppressori.
   Quanto descritto vale, ormai, anche per il conflitto in corso, dove si mostrano i danni causati a Gaza dalle azioni militari israeliane ma non viene detto che questa guerra è stata causata, ancora una volta, dai palestinesi. Il colpevole, per i media, è Hamas (nella sua accezione astratta) ma non i palestinesi che ora subiscono la “ritorsione” di Israele, in questo modo Israele è sempre messo sul banco degli imputati.
   Tale metodo è utilizzato, anche, per la scelta degli “esperti” o degli intellettuali ospitati nei talkshow o intervistati sui giornali. Si ha, nella stragrande maggioranza dei casi, una visione criminale di Israele che lascia senza fiato. Ma perché vengono scelti certi “esperti” e non altri? Semplice. Perché i media sanno già cosa diranno e vogliono sentirsi dire proprio le cose che udiranno.
   L’ultimo anello di questa complicità è rappresentato dalla gente comune che utilizza i social media per diffondere notizie false, immagini di edifici distrutti (molte volte anche di conflitti vecchi) o di palestinesi disperati che hanno perso tutto, acriticamente senza neanche capire che così si trasformano a loro volta in strumenti della propaganda palestinese di Hamas.
   Prendiamo solo l’ultimo caso, quello dell’ospedale colpito per errore a Gaza. Nel giro di poche ore sono stati inondati i social con le immagini dell’ospedale in fiamme corredandole con la pesante accusa che fosse stato Israele a colpirlo. Si parlava di 500 morti, una strage che veniva comparata a quella fatta da Hamas. Israele, per fortuna, ci ha messo poche ore a dimostrare che non aveva nulla a che fare con la tragedia. Poi si è scoperto che l’ospedale era stato colpito solo marginalmente da un razzo lanciato da Hamas dall’interno della Striscia. Il razzo palestinese aveva colpito il parcheggio dell’ospedale causando un decimo delle vittime dichiarate.
   Si tratta degli stessi organi di stampa che non hanno mai pubblicato le foto delle vittime israeliane o degli ostaggi. Perché questa differenza? Semplicemente perché tantissime persone sono così condizionate dal giudizio negativo che i media danno di Israele che tutto ciò che può, in qualche modo, combaciare con l’idea preconcetta che Israele è un paese criminale, viene accettato supinamente. Questo è il risultato di anni di deformazione della realtà  di una vasta rete di complicità diffusa di cui abbiamo dato conto.    

(L'informale, 26 ottobre 2023)

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Hamas gode di un ampio sostegno nella Striscia di Gaza

Tutte le informazioni disponibili indicano che circa il 60% della popolazione della Striscia di Gaza sostiene Hamas e la sua lotta armata contro Israele

di Yishai Armoni 

Una manifestazione di Hamas a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, il 27 ottobre 2022. foto di Abed Rahim Khatib/Flash90.
   Sebbene si sostenga che la maggioranza della popolazione di Gaza voglia la pace e sia prigioniera di Hamas, i dati e le prove raccolte negli ultimi due decenni dimostrano costantemente il contrario. Hamas gode di un ampio sostegno tra la popolazione civile di Gaza, che l'ha votato al potere e probabilmente lo rifarebbe. Questo sostegno si riflette non solo nei sondaggi di opinione, ma anche nella partecipazione attiva agli attacchi di Hamas.
   Nelle elezioni parlamentari palestinesi del 2006, le ultime tenutesi anche a Gaza, Hamas ha conquistato 76 dei 132 seggi del Consiglio legislativo palestinese. Dei 24 seggi che si sono tenuti a Gaza, Hamas ne ha conquistati 15 (62%). Dopo il rifiuto di Fatah di riconoscere i risultati di queste elezioni, Hamas ha preso con la forza il controllo di Gaza nel 2007, dove da allora non si sono più tenute elezioni generali. Tuttavia, i sondaggi d'opinione condotti negli ultimi anni mostrano che la popolazione di Gaza continua a sostenere Hamas.
   In media, nei sondaggi condotti dal Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR) nel 2022, circa il 60% dei residenti di Gaza ha sostenuto la "lotta armata" (cioè gli attacchi terroristici) contro Israele, rispetto a circa il 40-50% dei residenti della Cisgiordania. Nel marzo 2023, il sostegno alla lotta armata tra i residenti di Gaza è salito al 68%.
   Lo stesso sondaggio ha rilevato che in un'ipotetica elezione tra il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas e il leader di Hamas Ismail Haniyeh, il 61% dei residenti di Gaza sosterrebbe Haniyeh, mentre solo il 35% voterebbe per Abbas. In un'ipotetica elezione parlamentare, il 45% voterebbe per Hamas, il 32% per Fatah di Abbas e il resto per altri partiti.
   In un sondaggio del PCPSR del giugno 2023, il sostegno a Haniyeh è salito al 65% rispetto al 30% di Abbas, mentre il sostegno alla lotta armata si è attestato al 64%. In questo sondaggio, il 38% degli abitanti di Gaza riteneva che l'ascesa di movimenti islamici armati come Hamas e la Jihad islamica palestinese e la loro lotta armata contro Israele fosse la cosa migliore accaduta al popolo palestinese negli ultimi 75 anni (rispetto al 16% della cosiddetta Cisgiordania, cioè più del doppio).
   Dopo il massacro del 7 ottobre, ondate di civili da Gaza sono entrate in Israele e hanno partecipato al pogrom. Le riprese di una telecamera di sorveglianza del kibbutz Be'eri mostrano una folla di civili di Gaza che entra nel kibbutz e lo saccheggia. I civili di Gaza sono stati coinvolti anche nella seconda ondata di rapimenti di civili israeliani nella Striscia di Gaza. L'alto dirigente di Hamas Saleh al-Arouri ha affermato in un'intervista ad Al Jazeera del 12 ottobre che le persone che hanno rapito donne e bambini a Gaza non erano agenti di Hamas ma "normali civili di Gaza".
   I giornalisti locali a Gaza riferiscono di un ampio sostegno pubblico ai massacri di Hamas. Hind Khoudary, un giornalista di Gaza, ha dichiarato a The Christian Science Monitor: "Sarà anche contro il diritto internazionale, ma per la prima volta i palestinesi qui a Gaza non si sentono impotenti". Anche il giornalista Ahmed Dremly ha descritto un "senso di euforia" dopo gli eventi.
   Tutte le informazioni disponibili indicano che circa il 60% della popolazione di Gaza sostiene Hamas e la sua lotta armata contro Israele. Questo sostegno si esprime sia nei sondaggi che nella partecipazione attiva alle azioni terroristiche dell'organizzazione. Si può concludere che l'affermazione secondo cui esisterebbe una chiara demarcazione ideologica o politica tra la maggioranza dei residenti di Gaza e Hamas è completamente infondata.
   Quanto sopra non intende accomunare i civili di Gaza non coinvolti con i terroristi di Hamas, indipendentemente dal fatto che tali civili sostengano o meno Hamas nel contesto della guerra in corso da parte di Israele contro il gruppo terroristico. Il diritto internazionale fa una chiara distinzione tra i civili non coinvolti e quelli che partecipano alle attività militari. Tuttavia, sia per quanto riguarda le decisioni sull'azione militare sia per quanto riguarda gli accordi post-bellici a Gaza, è importante avere un quadro preciso della situazione.

(Israel Heute, 27 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Parashà di Lekh Lekhà: Benedetti o innestati?

di Donato Grosser

La parashà  inizia con queste parole: “L’Eterno disse ad Avraham: Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò; e io farò di te una grande nazione e ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione;  e benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà e in te saranno benedette (ve-nivrekhù bekhà) tutte le famiglie della terra” (Bereshìt, 12: 1-3) .
            R. Joseph Pacifici (Firenze, 1928-2021, Modiin Illit) in Hearòt ve-He’aròt (P. 11) commenta che paese, parentado e casa paterna sono le tre cose dalle quali è più difficili separarsi. Tuttavia qualche volta è necessario farlo al fine di progredire con la Torà e le mitzvòt.  
            R. Gedalià Schorr (Polonia, 1910-1979, Brooklyn) in Or Gedalyahu (p. 21) cita un Midràsh  dove è detto che da quello che è scritto nella Torà alla fine della parashà di Noach, che Terach, il padre di Avraham, morì a Charàn, si impara che Avraham divenne una creazione nuova, indipendente da suo padre. Questa nuova esistenza ebbe inizio quando Avraham, a seguito della sua ribellione contro l’idolatria imperante in Babilonia, fu condannato dal re Nimrod a morire in una fornace dalla quale uscì miracolosamente vivo. Da quel momento Avraham divenne una creatura nuova senza più legami con il suo passato.
            R. Schorr cita i maestri nel Talmud (Chaghigà, 3a) che insegnano che Avraham fu l’inizio dei gherìm (proseliti). E questo, afferma r. Schorr, non è un semplice racconto storico. Quello che i maestri intendono insegnare è che il proselitismo (gherùt) fu un’innovazione di Avraham. È la forza di sradicarsi dalla propria origine genealogica e di farsi parte del popolo Israele. Così infatti dissero i maestri: un proselita è come un neonato che non ha più nessun legame con il suo passato. Avraham con il suo esempio diede forza a tutte le generazioni che lo seguirono. Così ognuno di noi ha la capacità di iniziare una nuova vita, diversa dal passato. 
            R. Schorr cita Rashbam (Francia, c1085- dopo l’anno 1158) cioè r. Shemuel ben Meir, nipote di Rashì, che commenta il versetto in cui è scritto: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra”. Nel testo “e saranno benedette” è scritto: ve-nivrekhù dalla radice brkh, benedire. Rashbam fa notare che questa radice è comune al verbo “lehavrìkh” che significa innestare, come si fa con gli alberi ai quali si innesta una ramo di un altro albero più giovane. Questo significa che in questo modo venne data la possibilità a tutte le famiglie della terra  di innestarsi nell’albero genealogico del nostro patriarca Avraham. Per questo anche i gherìm quando recitano la tefillà dicono “Dio di Avraham”, perché derivano da lui. 
            R. Schorr cita anche r. Yitzchak Meir Rotenberg-Alter (Polonia, 1799-1866), il primo rebbe della dinastia chassidica di Gur. Alle parole “Io farò di te una grande nazione” usando il verbo “fare”, il rebbe commentò che Avraham fu fatto a nuovo. Da lui sarebbe venuto un grande popolo e, grazie a lui,  ogni individuo israelita ha una parte del nostro patriarca Avraham. Questa parte, questa “nekudà”  (punto) non può essere mai rovinata. Per questo nella prima benedizione della ‘amidà, concludiamo con le parole “scudo di Avraham”. Questo “punto” di Avraham che è in ognuno di noi ci da’ la forza di resistere ad ogni prova.   

(Shalom, 27 ottobre 2023)
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Parashà della settimana: Lech Lechà (Va')

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Questa terra è la mia terra

In questi tempi di drammatica contesa intorno alla terra che Dio ha destinato al popolo ebraico, ripresentiamo un prezioso libretto tradotto e stampato da EDIPI più di dieci anni fa. Riportiamo le parole di presentazione del sito dell’associazione e le presentazioni che si trovano sul libro. NsI

Questo prezioso libretto, scritto da Elie E. Hertz, proprietario e curatore di Myths and Fact, è molto importante per una corretta informazione sul Medio Oriente e, in primo luogo, sul conflitto arabo/israeliano/palestinese.
L’opera, tradotta in italiano da Eunice Randall Diprose e pubblicata da EDIPI - Associazione Evangelici d’Italia per Israele – spiega, in modo esaustivo e con linguaggio chiaro, il legame degli Ebrei con la loro Terra di origine, le motivazioni non solo storico-religiose, ma anche giuridiche sulle quali si fonda la legittimazione dello Stato ebraico.
Come ha spiegato il prof. Marcello Cicchese durante la presentazione avvenuta il 22 settembre 2011 al Palazzo della Cultura Ebraica in Roma, questo testo in italiano è particolarmente rilevante perché:

  1. chiarisce che il problema mediorientale trova la sua base negli avvenimenti successivi alla Prima Guerra Mondiale: Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 e successiva Risoluzione di San Remo del 1920 (“Conferenza di pace” che si svolse dal 19 al 26 aprile di quell’anno) nella quale si decise di conferire alla Gran Bretagna il Mandato per la Palestina, con il preciso compito di dare esecuzione a quella Dichiarazione di circa tre anni prima, con cui la Gran Bretagna si era dichiarata favorevole alla costituzione in Palestina di una national home per gli Ebrei. La Risoluzione adottata fu, in seguito, ratificata dalla Lega delle Nazioni nel 1922 e può essere dunque considerata come il primo riconoscimento ufficiale del costituendo Stato di Israele
  2. pone l’accento, come detto, sugli aspetti giuridici – e non solo politici e religiosi - del problema poiché esamina i fondamenti di Diritto internazionale sui quali sono state adottate le decisioni fondamentali
  3. vede la luce in un momento in cui, oltre a ciò che ho scritto in apertura, è in corso da troppo tempo una campagna internazionale di delegittimazione, ad ogni livello, dello Stato di Israele.

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PRESENTAZIONE
di Ivan Basana
Presidente di Evangelici d'Italia per Israele

Giusto un anno fa presi l'impegno di pubblicare in italiano questo libro di Eli Hertz come primo risultato di un ravvedimento nazionale conseguente alla richiesta di perdono a Dio per un patto non mantenuto.
La rimozione del contenzioso spirituale e il proposito di riparazione che ne è emerso ci ha reso consapevoli del mandato affidatoci (Ester 4:14).
Il mancato adempimento della Prima Dichiarazione di Sanremo verso una risoluzione chiaramente e dettagliatamente indicata conferma il giudizio divino sulle nazioni coinvolte:
“… le chiamerò in giudizio a proposito della mia eredità, il popolo d'lsraele, che esse hanno disperso tra le nazioni, e del mio paese, che hanno spartito fra di loro” (Gioele 3:2).
A titolo di riparazione la Seconda Dichiarazione di Sanremo del 25 Aprile 2010 opera per garantire la piena attuazione della Risoluzione di Sanremo del 25 Aprile 1920 come stabilisce la legge internazionale.
La massima diffusione di questa pubblicazione è finalizzata al conseguimento di questo obiettivo.
Padova 25 aprile 2011

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INTRODUZIONE
di Eli E. Hertz

Vi siete mai chiesti perché durante il trentennio fra il 1917 e il 1947 migliaia di ebrei in tutto il mondo si svegliarono una mattina e decisero di lasciare le proprie abitazioni per andarsene in Palestina? La maggior parte lo fece perché aveva sentito dire che in Palestina si stava per fondare una Patria Nazionale per il popolo ebraico, sulla base di un obbligo imposto dalla Società delle Nazioni nel documento Mandato per la Palestina.
Il Mandato per la Palestina, un documento storico della Società delle Nazioni, affermava il diritto legale degli ebrei di stanziarsi in qualunque parte della Palestina occidentale, fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, un diritto che rimane inalterato nel diritto internazionale.
Il Mandato per la Palestina non costituiva un'ingenua concezione abbracciata per un breve lasso di tempo dalla comunità internazionale. I cinquantuno paesi membro, cioè tutta la Società delle Nazioni, dichiarò all'unanimità il 24 Luglio 1922:
"Poiché è stato dato riconoscimento al legame storico del popolo ebraico con la Palestina e ai presupposti per ricostituire la loro patria nazionale in quel paese."
È importante sottolineare che la stessa Società delle Nazioni garantiva i diritti politici all'auto-determinazione come popolo agli Arabi in altri quattro mandati - in Libano e in Siria (il Mandato Francese), in Iraq, e successivamente nella Transgiordania (il Mandato Britannico).
Qualsiasi tentativo di negare il diritto del popolo ebraico alla Palestina - Eretz-lsrael, e negargli l'accesso e il controllo nell'area destinatagli dalla Società delle Nazioni, costituisce una grave violazione del diritto internazionale.
La visione della Road Map, come le continue pressioni del Quartetto (Stati Uniti, Unione Europea, ONU e Russia) a rinunciare a parti Di Eretz Israel, sono contrarie al diritto internazionale che invita fermamente a  incoraggiare… lo stanziamento concentrato degli ebrei sul territorio, compresi i territori demaniali e le aree incolte non richieste per scopi pubblici. Il mandatario aveva neanche l’obbligo di controllare che nessun territorio palestinese venga ceduto o affittato, o in alcun modo posto sotto il controllo del governo di alcuna potenza straniera.
Nel tentativo di stabilire la pace fra lo stato ebraico e i suoi vicini arabi, le nazioni del mondo dovrebbero ricordare chi ha la legittima sovranità su questo territorio con i suoi diritti ancorati al diritto internazionale, validi ancora oggi: la Nazione Ebraica.
E in sostegno del popolo ebraico, mi sono seduto e ho scritto questo volumetto.

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PREFAZIONE
di Ugo Volli

Uno dei maggiori paradossi di Israele è questo: non esiste stato al mondo che sia nato sulla base di riconoscimenti giuridici altrettanto validi e cogenti; non esiste popolazione che abbia una pretesa statale più antica sul suo territorio, basata su una continuità culturale, linguistica e religiosa, anche lontanamente paragonabile alla sua. Ma non esiste stato nel mondo contemporaneo la cui esistenza sia stata altrettanto negata, il cui diritto alla vita sia stato così minacciato, altrettanto boicottato, attaccato, e rifiutato, non solo sul piano militare, economico e politico ma anche su quello legale e diplomatico.
   Per questa ragione è necessario continuare a spiegare le ragioni del buon diritto di Israele sulla sua terra.
   Questo buon diritto ha molti aspetti.
   E' un dato storico e antropologico, basato sulla storia antica del popolo di Israele, che tremila anni fa ha fondato il primo stato unitario e autonomo nella terra fra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, l'ha retta per più di mille anni sia pur fra invasioni, esili imposti, sottomissioni agli imperi che si sono succeduti nella regione, e vi è rimasto attaccato culturalmente e nei limiti del possibile anche come residenza nei secoli che sono succeduti alla distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani, senza perdere mai il senso della sua appartenenza a quelle terre.
   E' un dato politico e militare, perché lo stato di Israele è stato ininterrottamente attaccato con le armi degli eserciti e del terrorismo per tutti i settantun anni della sua esistenza e anche prima, quando era solo un insediamento.
   E' un dato morale e ancora politico, perché esso deriva dal diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico, sottoposto da secoli alle persecuzioni tanto in Europa che nel mondo musulmano. Solo l'esistenza di uno stato può garantire il diritto alla sopravvivenza degli ebrei, ancora oggetto di odio antisemita anche nei paesi dove già sono stati oggetto di pogrom, espulsioni e genocidi.
   Per molti può essere un dato teologico, radicato nel patto della Bibbia. Ma è anche un dato giuridico, ben radicato nel diritto internazionale.
   Il merito principale di questo testo è di esporre con chiarezza i termini del percorso legale che costituisce il fondamento del diritto di Israele alla propria statualità.
   Di solito si pensa che questo fondamento sia costituito dalla deliberazione 181/II dell'Assemblea della Nazioni Unite che il 29 novembre 1947 approvò la spartizione del mandato britannico di Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo.
   Come è noto, l'Agenzia Ebraica, che fungeva da organo rappresentativo del popolo ebraico insediato nel Mandato, insieme all'Organizzazione Sionistica Internazionale che comprendeva anche gli ebrei della diaspora, accettò questo piano di spartizione, nonostante l'evidente svantaggio delle mappe stabilite dalla commissione UNSCOP dell'Onu, La Lega Araba e gli Stati che la costituivano invece la rifiutarono e iniziarono subito delle operazioni belliche che divennero una guerra vera e propria al momento della proclamazione dello stato di Israele, il 14 maggio 1948. La guerra di cinque eserciti arabi ben armati e organizzati (Egitto, Siria, Irak, Giordania, Libano) contro un popolo molto meno numeroso che doveva ancora costituire i propri organi statali fu all'inizio estremamente difficile, ma poi si concluse a luglio 1949 con una chiara vittoria israeliana, che riuscì a liberare un territorio più vasto di quello inizialmente attribuito. Non ci fu un trattato di pace, ma solo degli accordi armistiziali, che esplicitamente negavano il riconoscimento cli confini internazionali a quelle linee di armistizio (che poi sarebbero state definite impropriamente i confini del '67).
   Israele comunque trae la legittimità del suo territorio non solo dalla deliberazione dell'Onu ma dall'averlo ottenuto resistendo all’aggressione genocida di questa guerra e di quelle che vennero in seguito.
   Ma questa legittimazione, che pure è più forte di quella di quasi tutti gli altri stati esistenti, non è quella originaria che giustifica l'esistenza dello Stato di Israele. Ce n'è una di trent'anni più vecchia, che è il vero fondamento del diritto del popolo ebraico a costituire il suo stato sul territorio dell'antico regno di Giudea. Si tratta del processo delle decisioni internazionali che portarono alla costituzione del mandato britannico nella regione geografica che nella terminologia europea del tempo (non in quella araba o turca) era chiamata Palestina.
   Si tratta di una delle numerose decisioni che accompagnarono la fine della Prima Guerra Mondiale, con il crollo di antichi stati multinazionali come l'impero asburgico, quello russo e quello ottomano. Un'immensa area, piena di intricate mescolanze etniche e culturali, doveva essere sistemata in stati nazionali.
   Nacquero o rinacquero allora l'Ungheria, la Cecoslovacchia , ma anche la Finlandia, l'Arabia, per una breve stagione l'Armenia e si sistemarono anche le carte dei mandati che definirono i futuri stati arabi come Siria, Libano, Iraq. Furono fatte divisioni certamente arbitrarie e influenzate dagli interessi coloniali di Francia e Gran Bretagna, ma le alternative non erano per nulla evidenti né facili da attuare, che si trattasse di altri stati e confini, di un impero arabo che certamente si sarebbe presto frammentato per l'assenza di una forza egemone, o di federazioni di tribù. In questo gigantesco rimescolamento di carte si decise di accettare la richiesta del popolo ebraico della ricostituzione della sua patria. Non era una richiesta astratta o solo politica e neppure solo motivata dalle sofferenze inflitte dall'antisemitismo agli ebrei del vecchio impero russo.
   Alla fine della prima guerra mondiale, ai vecchi residenti di Gerusalemme si era già aggiunta progressivamente a partire da oltre cinquant'anni un'immigrazione che aveva comprato e risanato terre, rinnovato l'agricoltura, restaurato la lingua ebraica, fondato un sistema scolastico che presto avrebbe raggiunto il livello universitario, costruito città, sviluppato istituzioni.
   A questo mondo dinamico e determinato la Gran Bretagna nel 1917 con la dichiarazione Balfour promise la costituzione di una national bome, cioè di una patria, di qualcosa che doveva trasformarsi in uno stato. Questa promessa fu recepita nei trattati del dopoguerra, prima con la Conferenza di San Remo (19-26 aprile 1920), tenuta dalla potenze vincitrici per definire l'asseto della regione e poi soprattutto dalla delibera della Società delle Nazioni (l'ONU dell'epoca) approvata all'unanimità da 51 paesi il 24 luglio 1922 che istituiva il mandato britannico di Palestina con lo scopo preciso di favorire l'immigrazione e l'insediamento ebraico nel mandato, con il fine cioè di costituire una patria per il popolo ebraico. Il territorio coinvolto era quello dell'attuale Israele (inclusa Giudea e Samaria) più ciò che oggi è la Giordania.
   Il governo inglese tradì poi il suo impegno, convincendosi progressivamente di avere la convenienza a favorire l'antisemitismo arabo. Per esempio separò il territorio a Est del Giordano, facendone uno stato a parte per la popolazione araba e poi cercò di suddividere ciò che restava o di assegnare tutto agli arabi. Ma questo non modificò affatto la scelta giuridica compiuta a Sanremo e poi alla Società delle Nazioni, nel momento fondativo della geopolitica del mondo moderno, di consentire al popolo ebraico la ricostruzione della sua patria.
   Questo impegno è stato ripreso legalmente dall'Articolo 80 della carta fondativa delle Nazioni Unite ed è ancora pienamente in vigore, dando a Israele una legittimità che nessun altro stato al mondo può rivendicare.
   Tutti questi sviluppi sono ignorati dal giornalismo e dalla politica progressista, che attribuisce alla Palestina (intesa impropriamente e antìstoricamente come entità araba) un diritto alla statualità che contrasta totalmente con i deliberati che ho citato e con il diritto, sulla base di una scelta politica storicamente e giuridicamente ingiustificata, come quella fatta dalla Gran Bretagna, al costo per esempio di sacrificare milioni di ebrei europei alla ferocia nazista, impedendo loro l'immigrazione nel mandato, che pure era stato costituito proprio per favorirla.
   Per questo il libro di Eli Hertz, chiarissimo e ben documentato, è importante e andrebbe diffuso: perché rimette la questione del conflitto fra Israele e i gruppi arabi che lo combattono nei suoi giusti termini politici e legali.
   E di questo c'è moltissimo bisogno.

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PREFAZIONE
di Rinaldo Diprose

Il genere di libro a cui appartiene Questa terra è la mia terra, è tanto raro quanto necessario, nel tempo in cui viviamo. Si fa presto ad esprimere la propria opinione, anche su questioni di portata epocale, ma quando un'opinione è senza fondamento nei fatti, ciò che viene propagandato è un mito, non un fatto. Purtroppo perfino in un ambito come l'ONU si tende a dare credito a chi riesce a far valere la propria opinione o pregiudizio, a prescindere dalla fondatezza di ciò che si afferma.
   Scrivere nella maniera che Eli Hertz fa in questo libro richiede fatica e una disciplina ferrea. L'autore non solo fa un ampio uso di documenti ufficiali, mette in appendice il testo completo di quelli principali di modo che il lettore possa controllare l'esattezza del quadro che ne emerge. La sua sobrietà è evidente anche nella scarsità di commento: sono i fatti che parlano.
   Il motto di Hertz, in tutte le pubblicazioni della collana Miti e Fatti è:
   Sebbene la verità non vinca sempre, la verità è sempre giusta. Aggiungerei che ciò che non è vero contribuirà inevitabilmente alla rovina dell'umanità. Facendo ricorso alla documentazione ufficiale del caso, in particolare a quanto è stato sancito dalla legge internazionale, Hertz fa parlare i fatti. Secondo questi fatti, lo stato di Israele ha lo stesso diritto di esistere, in un territorio che va dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, che hanno la Giordania, la Siria, l'Iraq e l'Iran.
   La questione affrontata in questo volumetto è di un'attualità impressionante. Nabil Shaarh, capo del dipartimento degli Affari Esteri di Farah, il partito di maggioranza dell'Autorità Palestinese, afferma che, nel caso che Israele non cessi ogni attività di costruzione in quelli che egli chiama i territori occupati, l'Autorità Palestinese cercherà l'appoggio dell'ONU perché venga riconosciuto uno stato Palestinese in Settembre di quest'anno. Anche la diplomazia internazionale sembra contemplare una tale azione unilaterale, senza aspettare il consenso di Israele. Se ciò avvenisse, agli occhi di un mondo poco propenso ad accertarsi dei fatti, ogni attività di Israele in Samaria, Giudea nonché in Gerusalemme Est, risulterebbe illegale, nonostante gli organi internazionali abbiano assegnato tutti questi territori a Israele in modo definitivo.
   Anche se l'avvallo dell'ONU non ha valore vincolante quando esso diverge dalla legge internazionale, questa prospettiva dovrebbe preoccupare chi ha a cuore la stabilità delle nazioni e il futuro della giustizia. Per chi ritiene vincolante il patto che Dio fece con Abraamo, Isacco e Giacobbe (si veda Salmo 105:7-11), la posta in gioco appare ben più importante.
   Quindi raccomando caldamente un'ampia diffusione di questo libro documento.

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PREAMBOLO
di Marcello Cicchese

Il lavoro di questo libro si svolge in un quadro interamente laico. Non ci sono riferimenti biblici, se non indirettamente, nel fatto che vuole portare argomenti a sostegno della verità. E la discussione sulla verità, quando ha come oggetto Israele, diventa sempre di interesse biblico. Sarà bene allora che nel leggere questo libro, chi crede nella Bibbia come Parola di Dio tenga presenti i collegamenti che si possono trovare tra questo lavoro e il testo biblico.
   Si può cominciare dalla distruzione del primo Tempio di Gerusalemme, che non è soltanto un increscioso incidente di percorso nella storia del popolo di Dio, ma ha il valore di una cesura epocale. Da quel momento cessa infatti il regime teocratico centrato su Israele e cominciano i tempi dei gentili, durante i quali Dio continua a prendersi cura del suo popolo e a proteggerne l'esistenza, ma lo fa in maniera diversa da prima. Non ordina più guerre sante e non cerca un nuovo Mosè a cui affidare il compito della riconquista del paese, ma desta lo spirito di un monarca pagano, Ciro re di Persia. A lui, non a un membro del suo popolo, il Signore si rivolge con un ordine preciso: gli ordina di edificargli una casa a Gerusalemme. Strano ordine per un ignorante pagano. Lo sprovveduto re non può far altro che spingere gli esiliati ebrei del suo impero ad eseguire il compito che il Signore aveva affidato a lui: riedificare il Tempio di Gerusalemme. Ed emette a questo scopo il ben noto editto di Ciro:

    Così dice Ciro, redi Persia: L’Eterno, il Dio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra, ed egli mi ha comandato di edificargli una casa a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque tra voi è del suo popolo, sia il suo Dio con lui, e salga a Gerusalemme, che è in Giuda, ed edifichi la casa dell'Eterno, dell'Iddio d'Israele, del Dio che è a Gerusalemme (Esdra 2:2-3).

I giudei cominciarono dunque a riedificare la casa di Dio a Gerusalemme, ma ben presto il lavoro trovò forti ostacoli negli abitanti della zona, che la Bibbia chiama i nemici di Giuda (Esdra 4: 1). Così il lavoro fu interrotto per diversi anni e non fu portato a compimento sotto il regno di Ciro. Ma durante il regno del suo successore, Dario re di Persia, i giudei, sospinti dai profeti Aggeo e Zaccaria, ripresero i lavori di edificazione della casa di Dio. A questo punto però i nemici di Giuda sollevarono una questione giuridica portando obiezioni di carattere legale: dicevano che le autorità persiane non avevano mai autorizzato la riedificazione di quella costruzione e quindi i giudei stavano operando contro il diritto internazionale di quel tempo. E minacciosamente pretesero di avere i nomi dei responsabili per poterli denunciare davanti alle autorità. I giudei invece sostenevano di essere nel loro pieno diritto, perché anni prima avevano ricevuto una specifica autorizzazione dal re Ciro attraverso la promulgazione del famoso editto. I nemici di Giuda però non erano convinti e inviarono una lettera al re Dario chiedendo che si facessero ricerche per accertare se fosse proprio vero che era stato dato un simile ordine. Ottennero quello che chiedevano, ma col risultato opposto a quello che speravano.

    Allora il re Dario ordinò che si facessero delle ricerche negli archivi, dove erano conservati i tesori a Babilonia; e nel castello di Ameta, situato nella provincia di Media, si trovò un rotolo, nel quale stava scritto così: "Memoria. - Il primo anno del re Ciro, il re Ciro ha pubblicato questo editto, concernente la casa di Dio a Gerusalemme: La casa sia ricostruita per essere un luogo dove si offrono sacrifici; e le fondamenta che verranno poste, siano solide …” (Esdra 6:1-3).

Il lavoro dunque fu ripreso nella piena osservanza del diritto internazionale allora vigente. E i giudei ringraziarono il Signore che aveva piegato in loro favore il cuore del re d'Assiria (Esdra 6:22).
   Si possono fare interessanti paragoni tra questi fatti storici presentati nella Bibbia e la situazione odierna.
   Nel VI secolo a.C. la terra d'Israele era occupata dall'Impero Babilonese e gli ebrei erano in dispersione. Dio operò a favore del suo popolo facendo sconfiggere Babilonia dalla Persia e destando lo spirito (2 Cronache 36:22) del suo re, che promulgò un editto in cui invitava coloro che erano del suo popolo a salire a Gerusalemme e a ricostruirvi la casa di Dio.
   Nel XX secolo d.C. la terra d'Israele era occupata dall'Impero ottomano e gli ebrei erano in dispersione. Dio ha operato in favore del suo popolo facendo sconfiggere il sultano ottomano da un nuovo re di Persia rappresentato dalle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale.
   Il corrispondente dell'editto di Ciro può essere visto nel cosiddetto “Mandato per la Palestina”, elaborato nella Risoluzione cli Sanremo del 1920 e successivamente approvato all'unanimità dal Consiglio della Società delle Nazioni nella riunione del 1922.
   Nel testo che dispone questo Mandato si trova scritto:

... le principali Potenze Alleate si sono anche accordate che il Mandatario debba essere responsabile per dare effetto alla dichiarazione originalmente fatta il 2 Novembre 1917 dal Governo di Sua Maestà Britannica e adottata dalle dette potenze, in favore della costituzione in Palestina di una nazione per il popolo ebraico ...

E a giustificazione di questa decisione viene aggiunto:
... con ciò è stato dato riconoscimento alla connessione storica del popolo ebraico con la Palestina e alle basi per ricostituire la loro nazione in quel paese ...
Queste parole sono di importanza capitale, perché per nessun'altra nazione nata in Medio Oriente dopo la Grande Guerra si possono dire le stesse cose. Come a suo tempo fece il re di Persia dopo la vittoria sull'Impero babilonese, così hanno fatto nel secolo scorso le Potenze Alleate dopo la vittoria sull'Impero ottomano: hanno riconosciuto la connessione storica tra il popolo ebraico e quella particolare terra con centro in Gerusalemme. Nel caso attuale, questo significa che la connessione storica precede i fatti avvenuti nella Prima Guerra Mondiale, e non è stata determinata, ma soltanto riconosciuta dalle nazioni.
   La nazione ebraica non è dunque un'invenzione delle Potenze Alleate, tanto meno una concessione delle Nazioni Unite, ma è stata riconosciuta dalle nazioni vincitrici come appartenente storicamente, su quella terra, al popolo ebraico.
   Molto interessante è anche un particolare articolo di questo Mandato:

    Articolo 6 - L’Amministrazione della Palestina [ ... ] faciliterà l'immigrazione ebrea sotto condizioni appropriate e incoraggerà, in cooperazione con l'agenzia ebraica indicata nell'Articolo 4, la prossima sistemazione degli ebrei sulla terra ...

Gli ebrei dunque dovevano essere incoraggiati e aiutati dal Mandatario a sistemarsi su quella terra. Questo può essere paragonato all'invito, sopra ricordato, che fece la potenza vincitrice persiana agli ebrei di quel tempo:

    Chiunque tra voi è del suo popolo, sia il suo Dio con lui, e salga a Gerusalemme, che è in Giuda, ed edifichi la casa dell'Eterno.

Nel caso attuale vediamo le Potenze Alleate vincitrici della Prima Guerra mondiale invitare gli ebrei a trasferirsi in Israele per costruirvi la nazione ebraica.
   Il paragone può essere spinto più avanti. Come allora i nemici di Giuda, così oggi i nemici di Israele continuano a sollevare obiezioni di carattere giuridico: Voi ebrei non avete alcun diritto di stabilire la vostra nazione in questo paese - dicono - i vostri insediamenti sono illegali; state edificando su territori occupati. Tutto questo è falso. Lo Stato d'Israele ha tutti i diritti legali internazionali per risiedere su quella terra; ed è soltanto per colpevole ignoranza o voluta mistificazione che questa realtà continua ad essere ignorata o negata.
   La stesura di questo libro può dunque essere paragonata allo svolgimento del compito ordinato dal re Dario quando i nemici di Giuda misero in dubbio la legalità del lavoro di ricostruzione della casa di Dio a Gerusalemme. E' una ricerca attenta, analitica ed esauriente dei documenti che attestano la piena legalità, sul piano del diritto internazionale, della presenza dello Stato ebraico su quella terra.
   Tutto questo è di grandissima utilità, perché le accuse più gravi e insistenti che si rivolgono a Israele sono di carattere giuridico. E' dunque su questo piano che deve essere svolta la sua principale difesa, più che su generici moralismi o considerazioni di sicurezza o convenienze politiche. Ed è appunto su questo piano che si svolge la puntuale e meticolosa opera di documentazione di Eli Hertz.
   In conclusione, questo libro dovrebbe essere letto, studiato e commentato non solo per interessi storici, ma anche per un preciso dovere biblico. Considera l'opera di Dio ammonisce l'Ecclesiaste (7:13): questo significa che ignorare, trascurare, non considerare l'opera che Dio compie nella storia di Israele può essere, per chi potrebbe e dovrebbe farlo, una colpevole ignoranza.
   Un grazie di cuore vada dunque all'aurore di questo libro, insieme a chi si è occupato di farne la traduzione e a diffonderlo, per averci dato la possibilità di colmare lacune che col passar del tempo diventano sempre meno giustificabili.

(Notizie su Israele, 26 ottobre 2023)
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Nella rubrica Approfondimenti si possono trovare altri articoli in appoggio al diritto giuridico di Israele sulla sua terra. Si avverte però che nell'articolo "Alle origini dell'imbroglio britannico" si trova anche una motivata confutazione di una frase di Winston Churchill (riportata sulla quarta pagina di copertina del libro) che viene comunemente intesa come appoggio alla creazione dello stato di Israele, mentre non è che una citazione del famigerato "Libro bianco" con cui a guerra finita il Regno Unito tentò di impedire l'arrivo di profughi ebrei in Palestina. Nell'articolo sono anche riportate le parole con cui l'ex Presidente David Lloyd George si dissociò pubblicamente da quella decisione in un discorso alla radio. M.C.

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L'idea mistificante di un popolo e di una nazione mai esistiti

di Howard Grief

La più grave minaccia ai diritti legali e al titolo di sovranità sulla Terra d'Israele proviene sempre dalla stessa fonte che ha combattuto il ritorno degli ebrei nella loro patria, cioè l'insieme dei gentili di lingua araba che abitano accanto agli ebrei. Adesso non dicono più di essere arabi o siriani, ma "palestinesi". E questo ha prodotto un cambiamento di identità nazionale. Nel periodo del Mandato, come palestinesi si intendevano gli ebrei, ma gli arabi adottarono questo nome dopo che gli ebrei costituirono lo Stato d'Israele e cominciarono a chiamarsi israeliani. L'uso del nome "palestinesi" per intendere gli arabi non prese piede fino al 1969, quando le Nazioni Unite riconobbero l'esistenza di questa presunta nuova nazione, e successivamente cominciarono ad approvare risoluzioni dichiaranti la sua legittimità e gli inalienabili diritti della Palestina. L'intera idea che una tale nazione esista è la più grande mistificazione del ventesimo secolo, che continua immutata anche nel ventunesimo. Che si tratti di una mistificazione, può essere visto facilmente dal fatto che i "palestinesi" non hanno né una storia, né una lingua, né una cultura proprie, e in senso etnologico non sono essenzialmente diversi dagli arabi che vivono nei paesi confinanti di Siria, Giordania, Libano e Iraq. Il nome specifico della supposta nazione non è arabo in origine e deriva da radici di lettere ebraiche. Gli arabi di Palestina non hanno nessun collegamento o relazione con gli antichi Filistei da cui hanno preso il loro nuovo nome.
    E' un fatto della massima ironia e sbalordimento che la cosiddetta nazione palestinese ha ricevuto il suo più grande incremento proprio da Israele, quando questi ha consentito ad una amministrazione "palestinese" di impiantarsi nelle zone di Giudea, Samaria e Gaza sotto la direzione di Yasser Arafat.
    Il fatto che gli arabi di Palestina e della Terra d'Israele rivendichino gli stessi diritti legali del popolo ebraico viola il diritto internazionale creato in origine con la Risoluzione di Sanremo, il Mandato e la Convenzione franco-britannica del 1920. Fa parte della follia mondiale sopraggiunta dopo il 1969, quando il "popolo palestinese" ricevette il primo riconoscimento internazionale e l'autentico diritto internazionale è stato rimpiazzato da una legge internazionale sostitutiva costituita da illegali Risoluzioni ONU. La Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e le Regole di Hague del 1907 sono atti di autentico diritto internazionale, ma non hanno diretta applicazione o rilevanza per lo status legale di Giudea, Samaria e Gaza, che sono territori integranti della Sede Nazionale Ebraica e della Terra d'Israele sotto la sovranità dello Stato d'Israele. Questi atti dovrebbero essere applicati soltanto all'occupazione araba di territori ebraici, come è avvenuto tra il 1948 e il 1967, e non al caso del Governo israeliano sulla sua patria ebraica. La mistificazione del popolo palestinese e dei suoi pretesi diritti sulla Terra d'Israele, così come la farsa della citazione di uno pseudo-diritto internazionale a supporto della loro pre-costruita causa, deve essere denunciata e fatta cessare.
    Gli arabi della Terra d'Israele hanno attizzato una guerra terroristica contro Israele per ricuperare quella che considerano la loro patria occupata. Il loro obiettivo è una fantasia basata su un grosso mito e su una menzogna che non si possono compiacere, perché questo significherebbe la trasformazione della Terra d'Israele in un paese arabo. E' ora che il Governo d'Israele muova i necessari passi per rimediare quella che è diventata un'intollerabile situazione che minaccia di far perdere al popolo ebraico i suoi immutabili diritti alla sua propria e unica patria.

(Estratto da "A Journal of Politics and the Arts", Vol.2 / 2004 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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"E' ora che il Governo d'Israele muova i necessari passi per rimediare quella che è diventata un'intollerabile situazione...", diceva l'autore vent'anni fa. Ma Israele non si mosso, anzi, peggio ancora, si è mosso nella direzione contraria: ha cercato la pace col mondo a tutti i costi. E adesso si vedono i costi. M.C.

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Spade di ferro - Giorno 18: l’Onu contro Israele e il carburante

di Ugo Volli

Antisemitismo
  Dopo lo shock della strage terroristica del 7 ottobre, Israele e il mondo ebraico ne hanno ricevuto un altro, più lento e progressivo, ma altrettanto micidiale: l’emergere dell’antisemitismo nel mondo occidentale, ancor più che nel mondo musulmano, dove esso si è manifestato in maniera meno esplosiva di quel che si potesse temere. In Europa e negli Stati Uniti invece, vi è stata la sorpresa di un atteggiamento generale molto diverso da quel che si credeva. Vi sono stati cortei assai più numerosi in favore con gli assassini di Hamas (sotto il fragile velo della solidarietà con il popolo palestinese) di quanto fossero le manifestazioni per Israele, e spesso questi cortei erano animati da slogan minacciosi contro gli ebrei, immagini oltraggiose come quella di Anna Frank con la kefiah araba, cartelli che richiamavano il nazismo. Ma vi sono state, in realtà più da parte di giornalisti e “intellettuali” che di politici responsabili, espressioni di “comprensione” per il terrorismo, “distinzioni” delle responsabilità, o come si espresse a suo tempo Massimo d’Alema “equivicinanza” agli aggrediti e agli aggressori, alle vittime e agli assassini. Vi sono stati nei giorni scorsi anche atti di violenza, come le bombe molotov contro una sinagoga di Berlino o l’assassinio della presidente di una sinagoga di Detroit negli Usa. Tutto questo ha naturalmente molto allarmato gli ebrei europei e americani (almeno quella maggioranza, ma purtroppo non totalità fra loro, che in Usa si è schierata apertamente dalla parte di Israele), provocando un senso di insicurezza non solo sullo schieramento di diversi stati, ma anche sulle condizioni della vita delle comunità ebraiche, direttamente chiamate in causa dai sostenitori del terrorismo, Naturalmente non sono mancati atti di solidarietà diffusi ed importanti, ma la preoccupazione resta.

Guterres
  Il pulpito più alto da cui sono usciti dei discorsi di comprensione per i terroristi, e dunque di ostilità a Israele e agli ebrei è la segreteria delle Nazioni Unite, un’organizzazione del resto che è dominata da discorsi antisionisti almeno da mezzo secolo, con il culmine in quella risoluzione 3379 del 10 novembre 1975, in cui l’assemblea generale dell’Onu dichiarava a maggioranza che il sionismo è una forma di razzismo, salvo rimangiarsela qualche anno dopo, con un’altra risoluzione del 1991. Il lavoro di agenzie dell’Onu come l’Unesco per la cultura, la commissione per i diritti umani, l’UNRWA che si occupa esclusivamente dei “rifugiati palestinesi” e della stessa assemblea generale, si è spesso concentrato sulla condanna di Israele. Ma nessuno si aspettava che lo stesso segretario generale della Nazioni Unite, il socialista portoghese Antonio Guterres, osasse dichiarare che il massacro di Hamas “non nasce dal nulla”, è “il frutto di una lunga occupazione particolarmente opprimente” e che dunque in sostanza sì, è un atto non proprio raccomandabile, ma bisogna comprenderlo. Naturalmente Gaza non è affatto occupata, gli ultimi israeliani ne sono usciti quasi vent’anni fa e anche in Giudea e Samaria i palestinesi che vivono sotto la giurisdizione militare israeliana nei territori contesi sono decisamente pochi, perché oltre il novanta per cento circa è amministrato dall’Autorità Palestinese. Ma questo non interessa alla burocrazia dell’Onu, che ha sposato il punto di vista palestinista e in maniera più o meno scoperta vede il terrorismo alla stessa maniera dell’Iran o degli stessi terroristi, come “lotta di liberazione nazionale”, che certamente può commettere degli errori, ma la cui responsabilità è comunque “dell’occupante”. Il ministro degli Esteri di Israele Cohen ha chiesto le dimissioni di Guterres e ha annunciato il suo boicottaggio; ma è improbabile che questa richiesta sia accolta.

Sul terreno
  Israele continua la sua attività di questa fase, martellando con l’aviazione istallazioni e responsabili del terrorismo a Gaza e difendendosi con attento senso della misura al Nord. Oltre al fronte libanese, dove ci sono stati molti scambi di colpi con diversi miliziani di Hezbollah colpiti, è tornata attiva anche la frontiera nord-orientale con la Siria, con scambi di razzi e colpi di artiglieria e parecchi soldati siriani eliminati. L’impressione è che questi combattimenti limitati servano soprattutto al fronte filoterrorista guidato dall’Iran per creare una minaccia che dovrebbe impedire l’operazione di terra: se vi muovete a Gaza, sembra essere il messaggio, sappiate che abbiamo le forze per colpirvi al Nord. Come Israele gestirà questa minaccia, lo si potrà vedere solo dai fatti.

Il carburante per Gaza
  Per quanto riguarda la striscia, il braccio di ferro politico e diplomatico è soprattutto sul carburante. Hamas ha ottenuto, grazie all’influenza americana sul governo israeliano, che il blocco dei rifornimenti fosse interrotto e che ogni giorno dal valico di Rafah con l’Egitto passassero degli aiuti che consisterebbero in generi alimentari e medicinali. I responsabili israeliani hanno detto di essere in grado controllarli per impedire che in questa maniera passino rifornimenti militari. Ma ora Hamas vuole il carburante, indispensabile per far funzionare i generatori che danno luce ed energia per le comunicazioni, le pompe e le altre macchine che servono a tenere operativa la sua rete di tunnel d’assalto - ma che è necessario anche per garantire l’operatività di istituzioni civili come gli ospedali e gli impianti di panificazione. L’esercito israeliano ha documentato che Hamas mantiene ancora larghe scorte di carburante, circa mezzo milione di litri, che potrebbero soddisfare le esigenze degli impianti civili per diverse settimane; ma si rifiuta di usarle per il benessere della popolazione e le riserva ai suoi scopi militari. Per questo ha iniziato una campagna “di emergenza” per chiedere l’arrivo di nuovo carburante e ha condizionato ad esso la liberazione di cinquanta nuovi ostaggi, di cui si parla da tempo. Israele rifiuta, è in corso un braccio di ferro che coinvolge anche diversi stati e organizzazioni internazionali. Per ora il blocco regge, si vedrà nei prossimi giorni se Israele potrà mantenerlo.

(Shalom, 25 ottobre 2023)

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Perché non dobbiamo stupirci delle parole di Antonio Guterres?

di Maurizia De Groot Vos

Hanno destato molto scalpore e polemiche globali le parole pronunciate ieri da Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, contro Israele e di quasi giustificazione dell’eccidio di ebrei perpetrato dai nazisti islamici di Hamas.
   Eppure non ci sarebbe affatto da stupirsi. L’ONU è notoriamente anti-israeliano e antisemita. Faccio distinzione tra anti-israeliano e antisemita perché Israele è abitato da ebrei, cristiani e da musulmani i quali sono il 20% della popolazione e sono regolarmente rappresentati alla Knesset. Quindi chi è anti-israeliano è contro tutto il popolo di Israele.
   L’ONU è quello che si è inventato la UNRWA, ovvero l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente. Una vera e propria macchina da guerra creata unicamente per aumentare a dismisura il numero dei profughi palestinesi, gli unici al mondo che si tramandano lo status di rifugiato di padre in figlio, per alimentare odio anti-israeliano sin da piccoli con libri di testo antisemiti nelle scuole, o per garantire ad Hamas un luogo sicuro dove nascondere armi e terroristi.
   La UNRWA macina miliardi di dollari ogni anno, un business incredibile a cui nessuno vuole realmente rinunciare.
   E poi l’ONU ha creato la macchina antisemita per eccellenza, l’Alto Commissariato dell’ONU per i diritti umani (OHCHR), con sede a Ginevra, il quale in teoria dovrebbe incaricato di promuovere e coordinare le misure tese a garantire il rispetto dei diritti umani in seno al sistema ONU.
   Ebbene il 94% delle risoluzioni emesse da questo organismo sono contro Israele. ZERO risoluzioni contro l’Iran, ZERO contro l’Arabia Saudita, ZERO risoluzioni contro una qualsiasi delle tante dittature in giro per il mondo.
   La OHCHR è riuscita a mettere alla sua direzione l’Arabia Saudita o addirittura l’Iran al settore che si interessa dei Diritti delle donne. Ripeto per gli ottusi, l’Alto Commissariato dell’ONU per i diritti umani è sostanzialmente in mano delle maggiori dittature mondiali.
   Ora, qualcuno mi dovrebbe quindi spiegare perché mai ci dobbiamo stupire delle parole pronunciate da Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite che parla di “occupazione” quando Gaza non è più occupata dal 2005 mentre la Cisgiordania è amministrata dalla Autorità Palestinese entro i vincoli previsti dagli accordi di Oslo.
   Stupisce molto di più, e continua a stupire, come i media di tutto il mondo, compresi quelli italiani, abbiano scambiato l’ufficio stampa di Hamas per una agenzia stampa più autorevole della Reuters e continuino a rilanciare imperterriti ogni sciocchezza venga scritta da Hamas. Che poi qualcuno mi può spiegare come fa Hamas a dare giornalmente il numero esatto delle vittime, compreso la specifica dei bambini, quando in Israele a tre settimane dalla strage non sono ancora riusciti a stabilire il numero esatto delle vittime? Hamas dispone di tecnologie extraterrestri di cui non siamo a conoscenza, oppure i giornalisti di mezzo mondo sono semplicemente dei cialtroni che non si fanno alcune semplici domande prima di rilanciare le veline di Hamas?

(Rights Reporter, 25 ottobre 2023)

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“Ne ho uccisi dieci con le mie mani”

La telefonata di un terrorista del 7 ottobre ai suoi genitori

Martedì l’esercito ha pubblicato la registrazione di un terrorista di Hamas che ha preso parte all’assalto del 7 ottobre nel sud di Israele che si vanta al telefono con i suoi genitori di aver massacrato ebrei. Nella chiamata si sente l’uomo raccontare con entusiasmo ai suoi genitori che si trova a Mefalsim, un kibbutz vicino al confine di Gaza, e che da solo ha ucciso 10 ebrei.
“Guarda quanti ne ho uccisi con le mie stesse mani! Tuo figlio ha ucciso ebrei!” dice, secondo una traduzione inglese. Mamma, tuo figlio è un eroe”, aggiunge poi.
Si sentono i suoi genitori lodarlo durante la chiamata. Identificato da suo padre come Mahmoud, il terrorista afferma di chiamare la sua famiglia dal telefono di una donna ebrea che ha appena ucciso e implora di controllare i suoi messaggi WhatsApp per ulteriore documentazione.
“Vorrei essere con te”, dice la madre.
La diffusione dell’audio è avvenuta il giorno dopo che Israele ha proiettato per 200 membri della stampa straniera e locale circa 43 minuti di scene strazianti di omicidi, torture e decapitazioni attuate durante l’assalto di Hamas al sud di Israele il 7 ottobre.
Il filmato è stato raccolto da registrazioni di chiamate, telecamere di sicurezza, telecamere sul corpo dei terroristi di Hamas, telecamere sul cruscotto delle vittime, account sui social media di Hamas e delle vittime e video sui cellulari ripresi da terroristi, vittime e primi soccorritori. Oltre 1.000 persone sono state massacrate dai terroristi e almeno 224 rapite.
Il governo ha affermato di aver deciso di mostrare ai giornalisti parte della documentazione raccolta al fine di dissipare quello che un portavoce ha definito “un fenomeno simile alla negazione dell’Olocausto che avviene in tempo reale”, poiché in tutto il mondo sono stati sollevati dubbi su alcuni punti della più orribile delle atrocità commesse da Hamas.

(Bet Magazine Mosaico, 25 ottobre 2023)

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“Sciogliete le catene dell'IDF", chiede un attivista arabo cristiano.

Per sconfiggere Hamas, l'esercito israeliano deve "parlare la lingua del Medio Oriente", dice Yoseph Haddad.

di Ryan Jones

GERUSALEMME - Yoseph Haddad non è soltanto una delle poche voci arabe che parlano a sostegno di Israele, ma è anche una delle voci più chiare su ciò che è accaduto e su ciò che ora deve essere fatto.
   Da anni Haddad sostiene Israele all'estero, oltre a impegnarsi per incoraggiare un maggior numero di giovani arabi a offrirsi volontari per il servizio nell'IDF. E non si è mai riposato dall'inizio di questa guerra in quella maledetta mattina di Shabbat, il 7 ottobre 2023.
   Ma lunedì è stato un momento di svolta per Haddad. Il suo sangue ha raggiunto il punto di ebollizione dopo aver partecipato a un evento dell'IDF per i giornalisti stranieri. L’influencer arabo-israeliano, insieme a membri stranieri della stampa, ha partecipato a uno speciale briefing dell'IDF progettato per aiutare a confutare le bugie degli apologeti di Hamas che ora sostengono che molte delle atrocità nel sud di Israele non hanno mai avuto luogo.
   A questo scopo l'IDF ha mostrato i filmati delle telecamere GoPro indossate dagli uomini armati di Hamas, delle telecamere di sicurezza locali nei villaggi israeliani occupati e delle telecamere di sorveglianza degli automobilisti israeliani. Per rispetto alle famiglie delle vittime, l'IDF non ha permesso ai giornalisti di distribuire i filmati. Israele sperava, tuttavia, che la stampa estera raccogliesse quanto mostrato e confermasse la verità.
   Per Haddad, questo è stato un ulteriore campanello d'allarme che spera che il resto di Israele senta forte e chiaro. Parlando con Channel 14 News nel corso della giornata, Haddad ha detto di essere "un po' distrutto oggi", nonostante abbia avuto a che fare con le immagini delle atrocità per due settimane e mezzo. È stata una particolare sezione della proiezione a turbarlo:
   "La scena mostra due bambini di appena 10 anni che cercano di fuggire con il padre. Un terrorista di Hamas li insegue, uccide il padre davanti ai suoi due figli e trascina i bambini in casa. Entrambi i bambini sono feriti. E mentre questo maledetto terrorista apre il frigorifero per trovare qualcosa da bere, uno dei bambini implora: 'Uccidimi e basta, voglio morire'".
   Lottando contro le lacrime Haddad si chiede: "Com'è possibile che un bambino di 10 anni dica queste parole! Com'è possibile che un bambino di 10 anni implori di essere ucciso?" Dove siamo finiti? Cosa ci è successo?".
   Haddad ha continuato sottolineando che chiunque si trovi oggi in una posizione di autorità in Israele e abbia un'intenzione diversa da quella di distruggere Hamas deve dimettersi e tornare a casa.
   E chi resta deve capire che Israele deve sporcarsi le mani se vuole davvero sconfiggere Hamas.
   "Ci hanno spezzato. Ci hanno umiliato. È ora di umiliarli. È ora di spezzarli", ha sottolineato Haddad. L'IDF parli nella lingua del Medio Oriente, nella lingua degli arabi". Abbiamo i mezzi. Abbiamo bisogno di determinazione".
   Ha detto che se questa posizione lo rende un estremista, e allora sia così. È giunto il momento di difendere il popolo di Israele a tutti i costi.

(Israel Heute, 25 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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I nostri soldi alla Palestina rischiano di finire nelle mani dei terroristi

I finanziamenti statali in diversi casi passano per Ong vicine ad Hamas. Li hanno usati persino per addestrare bimbi a uccidere ebrei. E 100 milioni di prestiti risultano spariti.

di Camilla Conti

Un fiume di soldi grande come il Giordano. Quasi mezzo miliardo di euro. E’ il totale del denaro che dalla metà degli anni Ottanta è partito dall'Italia verso i territori palestinesi sotto forma di crediti, aiuti e finanziamenti. Il corso di questo grande fiume rischia però di creare due problemi. Il primo è che le somme raccolte per aiutare i civili palestinesi, senza gli adeguati controlli lungo la loro strada verso Gaza attraverso i passaggi dei vari intermediari locali, possono finire nelle mani dei terroristi. Il secondo problema è che ci sono anche un centinaio di milioni di euro dati in prestito che rischiamo di non recuperare. Non a caso nei ministeri interessati qualcuno in questi giorni ha alzato il telefono per fare il conto di quanto è stato dato e quanto potrebbe non tornare indietro.
   Partiamo dai numeri, che La Verità ha potuto visionare in esclusiva, e poi seguiamo il denaro. Come i milioni erogati dall'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, che fa capo al ministero degli Esteri e che è incaricata di svolgere le attività connesse alle iniziative di cooperazione internazionale. Ovvero di decidere a quali organizzazioni devono andare i soldi dell'Italia. I progetti finanziati attraverso l' Aics, a partire dal 2001, sono stati 218, per un totale impegnato di 227.176.690 euro e totale erogato di 188.166.303 euro. Su 218, ne risultano chiusi 129, ne sono in corso 55, in fase di finalizzazione 33 e uno è stato cancellato. Si tratta di progetti affidati a organismi della società civile nazionali (66), amministrazione centrali come la stessa Aics (65), organizzazioni multilaterali come quella Mondiale della sanità e l'Unesco (47), enti pubblici del Paese destinatario (18), enti territoriali come i Comuni (12), altri enti come le università (7) e a privati, ovvero ad aziende italiane (3). Il rischio, però, è che l'Aics- ignorando connessioni sospette, e facendo affidamento sull'autocertificazione dei destinatari - fornisca sovvenzioni a Ong italiane che poi trasferiscono parte dei fondi ai loro partner delle Ong palestinesi che poi li destinano a un altro tipo di attività assai meno solidale.
   Ai soldi partiti dall'Aics, vanno poi aggiunti anche i crediti a favore dei Territori autonomi palestinesi nell'ambito del Fondo rotativo per la cooperazione allo sviluppo gestito da Cdp. Al 30 settembre 2023, risultano in essere 6 crediti di aiuto utilizzati per finanziare progetti di cooperazione bilaterale per un importo originario complessivo di circa 103,6 milioni di cui 13,7 milioni ancora da erogare. In base a una corrispondenza interna visionata dalla Verità, a oggi risulta pendente una sola richiesta di esborso per 74.000 euro a favore di una società palestinese di costruzioni (la Arab Brothers Group) su cui sono in corso valutazioni relative alla documentazione antiriciclaggio. Non risulta, inoltre, presente lo stato finanziario di un progetto a credito di 16,2 milioni per la rete di distribuzione elettrica in Cisgiordania approvato nel luglio del 1999.
   Intanto, lo scorso 18 ottobre la trasmissione Fuori dal coro di Rete 4 ha sollevato il problema dei fondi che vengono raccolti per aiutare la Palestina ma che rischiano di finire indirettamente nelle mani dei terroristi. Per farlo, ha bussato anche alla porta dell'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo ed è partita dalle informazioni raccolte da Ngo Monitor. Quest'ultima si occupa di analizzare l'attività delle Organizzazioni non governative in Israele e nei Territori palestinesi svelando anche le connessioni tra alcune Ong e soggetti come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), considerato un'organizzazione terroristica dagli Usa, dalla Ue e dal Canada. Il 26 ottobre del 2022, Ngo Monitor ha acceso i riflettori proprio sull'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo che - si legge nel rapporto pubblicato sul sito - tra il 2015 e il 2021 ha erogato circa 23 milioni a 20 progetti in Israele, Cisgiordania e Gaza. Il capitolo più lungo del rapporto di Ngo è quello dedicato ai finanziamenti diretti a Ong politicizzate. Eccone alcuni.
   Nel 2022, l'Aics ha concesso 97.500 dollari al Ma'an Development Center tramite l'Ong italiana WeWorld. Ebbene, nel maggio 2018, il dipendente del Ma' an Development Center, Ahmad Abdallah Aladini, è stato ucciso durante scontri al confine con Gaza. Aladini era un «compagno» del Fronte popolare per la liberazione della Palestina e sulla sua pagina Facebook aveva pubblicato immagini di violenza e propaganda.
   Nel periodo 2018-2021, l'Aics ha concesso 1,8 milioni di euro ad Al- Haq e alla Onlus Cooperazione per lo sviluppo dei Paesi emergenti (Cospe), in partnership con l' Associazione comunità papa Giovanni XXIII: il 22 ottobre 2021 il ministero della Difesa israeliano ha dichiarato AlHaq «organizzazione terroristica» e il suo direttore, Shawan Jabarin, è stato collegato al Fronte popolare. L'Associazione comunità papa Giovanni XXIII in Italia sostiene anche la campagna Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni per i diritti del popolo palestinese).
   Nel 2018-2020, riporta ancora Ngo Monitor, l'Aics ha concesso 841.701 euro all'Ong italiana Associazione di cooperazione e solidarietà (Acs) per progetti con l'Unione dei comitati di lavoro agricolo (Uawc): l'Unione è identificata da Fatah come un «affiliato» ufficiale e come il « braccio agricolo» del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Il 22 ottobre 2021, il ministero della Difesa israeliano ha dichiarato l'Uawc «organizzazione terroristica» perché fa parte di «una rete» che opera «per conto del Fronte Popolare» ( e di recente il governo olandese ha stoppato i finanziamenti per l'Unione).
   Nel 2021-2022, l'Italia ha concesso 17.000 dollari a EducAid Onlus in collaborazione con Islamic relief Palestine (Irpal), Save the chìldren e Vento di Terra: il 19 giugno 2014, il ministro della Difesa israeliano ha dichiarato illegale Islamic relief worldwide, sulla base del suo presunto ruolo nell'incanalare denaro ad Hamas, e le ha vietato di operare in Israele e in Cisgiordania.
   Dal 2006, l'Irpal collabora inoltre con la Al-Falah society charitable, gestita da Ra madan Tanboura, che secondo Haaretz è una «nota figura di Hamas».
   E ancora: il 18 maggio 2018, Save the children e il Centro palestinese per la democrazia e la risoluzione dei conflitti hanno sponsorizzato un workshop presso l'asilo Dar al Huda sulla formazione degli insegnanti. Il 26 maggio 2018, lo stesso asilo di Gaza ha però tenuto una cerimonia di consegna dei diplomi che comprendeva una simulazione di uccisione e rapimento di israeliani da parte di bambini vestiti da combattenti. Con tanto di attrezzature sofisticate come droni, telecamere, tute militari, armature, mimetiche da cecchino e le fasce della jihad islamica palestinese indossate dai bambini.
   Il rapporto Ngo prosegue poi con i finanziamenti indiretti, anche attraverso le strutture delle Nazioni Unite. Un fiume di denaro. Che si sa da dove parte, ma non sempre dove finisce. E, nel caso dei prestiti, se torna indietro.

(La Verità, 25 ottobre 2023)

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Migliaia di uomini Haredi si offrono volontari per servire nell’esercito israeliano

Un segno di unità nazionale

Orthodox, Modern Orthodox, Secular, Lubavitch, Chabad, Conservative, Reform, Haredi… In questi gironi drammatici capita di imbattersi in una foto sul web che rappresenta parte della galassia ebraica con le sue diverse anime sparse in Israele e nel mondo; ebrei profondamente uniti e solidali nelle loro diversità in un momento drammatico in cui l’antisemitismo è in aumento. Ebrei, che nelle loro differenze, dimostrano una crescente unità nel difendere Israele, il proprio diritto alla libertà e alla sicurezza.
   Un esempio di questa solidarietà è l’azione di migliaia di Haredim (ultraortodossi) che si sono offerti volontari per prestare servizio nell’esercito israeliano in seguito all’attacco ormai tristemente storico di Hamas.
   Come riporta il Forward, inizialmente si prevedeva che ottobre sarebbe stato un mese controverso con divisioni all’interno della società israeliana riguardo all’ esenzione militare per  gli Haredim. Tuttavia, a seguito dell’attacco di Hamas, si è verificato un cambiamento senza precedenti, con un notevole numero di Haredim che ha scelto liberamente di arruolarsi nell’esercito, con un supporto e un desiderio di contribuire allo sforzo bellico e di identificarsi con l’identità israeliana.
   Le donne harediot stanno partecipando a loro volta attivamente all’assistenza al fronte interno, fornendo cibo, equipaggiamento e supporto durante i funerali. Sono stati anche raccolti fondi per fornire beni militari come corazze ed elmetti.
   Il portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, ha confermato che 120 dei 2.000 candidati che hanno manifestato il desiderio di arruolarsi immediatamente nelle IDF a causa della guerra in corso, inizieranno l’addestramento in vista dei prossimi eventi. Altri si arruoleranno come volontari. Israele, va ricordato, ha richiamato circa 360.000 riservisti a seguito all’attacco di Hamas.
   Gli studenti di Yeshiva e le donne Harediot di età inferiore ai 26 anni sono generalmente esentati dal servizio militare in base a un accordo decennale sullo status quo tra il Governo israeliano e i partiti Haredim, che hanno esercitato sempre più il controllo nelle coalizioni di Governo. La Corte Suprema ha annullato l’esenzione legale nel 2017 e ha incaricato il Governo di creare una nuova legge sulla coscrizione. Gli sforzi per riformare o consolidare le esenzioni sono stati ritardati negli ultimi anni a causa delle turbolenze politiche.
   L’IDF ha recentemente rivelato che solo una parte dei 12.000 potenziali candidati – 1.200 haredim – sono stati arruolati ogni anno negli anni 2019-2021.  Ma l’attacco di Hamas ha cambiato la dinamica. I servizi medici Haredi e i gruppi di pronto intervento – come United Hatzalah e ZAKA – hanno guidato gli sforzi di salvataggio e recupero. Altri si sono mobilitati per consegnare cibo e attrezzature essenziali ai riservisti e alle famiglie sfollate.
   Un sondaggio pubblicato sul Jerusalem Post ha inoltre mostrato che il 68% degli haredim sostiene l’arruolamento militare e il 60% sostiene il volontariato durante i tempi di guerra.
   Avigdor Lieberman, ex ministro delle Finanze e della Difesa e aspro critico della cultura Haredi, ha accolto favorevolmente la mossa. «Vedere così tanti giovani haredim, di tutte le età, chiedere di arruolarsi nell’IDF e di essere parte integrante di coloro che portano il peso, soprattutto in questi giorni difficili – ha scritto Lieberman, senza dubbio scalda il cuore e testimonia la forza della società israeliana».
   In segno di solidarietà e unità, gli ebrei in Israele e nella diaspora hanno aumentato la partecipazione alle sinagoghe e ad altri eventi della comunità ebraica, organizzato raduni e manifestazioni a sostegno di Israele e rilasciato dichiarazioni di sostegno da parte dei leader ebrei. Inoltre, c’è stato un aumento significativo delle donazioni a enti di beneficenza israeliani. Tutto ciò dimostra la forza della solidarietà e dell’unità tra gli ebrei in un momento di crisi.

(Bet Magazine Mosaico, 24 ottobre 2023)

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Reportage dal Kibbutz Be’eri. I sopravvissuti al pogrom del 7 ottobre: ‘’Cosa ne sarà di noi?’’

di Fabiana Magrì

Kibbutz Be’eri - “Era il più bel kibbutz di Israele. Un angolo di paradiso. Eravamo la mecca del riciclo”. Tutto questo non esiste più. Rami Gold, che a 70 anni ogni giorno torna tra le macerie di casa, non ha nemmeno iniziato a pensare “cosa ne sarà di noi”.
   “La sorella di mia moglie faceva parte di Women for Peace - un’organizzazione di donne israeliane e palestinesi che insieme lavorano sulla coesistenza, spiega -. Due volte alla settimana andavano al valico con Gaza per prendere i malati e portarli in auto negli ospedali israeliani per le cure. Ora è morta. Una donna di 70 anni. Per nessuna ragione”. Sul volto schiacciato tra il casco di protezione, mentre le sue parole sono interrotte dai botti dei colpi di artiglieria - “ma sono i nostri”, assicura - il sudore intorno agli occhi maschera le lacrime. “Il 7 ottobre sono stato svegliato dagli allarmi per i razzi mentre ero a letto con mia moglie. Come al solito ci siamo fiondati nel rifugio. Ma tutti quei razzi erano fuori dal comune”.
   Il ricordo è doloroso ma per Gold si è fatto missione e terapia. A 70 anni, nonostante sia un veterano della guerra del Kippur, è troppo vecchio per far parte della squadra della sicurezza del kibbutz. “Ma ho chiamato per sapere se potevo rendermi utile. Nessuna risposta. Dopo pochi minuti mi hanno chiamato loro. Sono uscito dal rifugio e mi sono reso conto che eravamo stati invasi da cento, duecento terroristi almeno”. Arrivati su convogli, “come l’Isis”, dice. Con fucili montati sui pick up, con cui sparavano a raffica mentre si facevano strada. “Ogni gruppo ha invaso una zona del kibbutz. Nell’asilo hanno allestito un posto di comando. Intanto - continua a ricordare Gold - entravano nelle case vuote, perché tutti erano corsi al riparo nei rifugi per l’allarme dei razzi. Bussavano alle porte dei mamad per fare uscire le persone. E di che quelli che restavano dentro, bruciavano le case”. Chi usciva per non soffocare tra le fiamme, invece, “veniva sottoposto a una selezione, chi doveva morire e chi vivere. Non c’era una logica. In ogni casa potevano ammazzare tutti o la metà, i giovani o gli anziani. Alcuni probabilmente sono stati portati a Gaza”, dice il sopravvissuto di Be’eri, sperando che siano ancora vivi.
   Dieci persone hanno provato a far fronte a un centinaio di terroristi di Hamas bene armati. E sono tutti morti. I superstiti hanno resistito 12 ore prima che l’esercito arrivasse e iniziasse a mettere l’area in sicurezza. “Non ci dormo la notte, al pensiero che avrei potuto fare qualcosa di diverso”, dice Gold nell’unico momento il cui abbassa lo sguardo. I sopravvissuti del 7 ottobre sono tutti in cura perché, spiega, “soffriamo di vergogna e senso di colpa per non aver fatto abbastanza, pur sapendo che non avremmo potuto fare di più”. Ma c’è una grande differenza tra quello che dice il cuore e quello che pensa il cervello. Ecco perché il 70enne Rami Gold, dopo il trauma, continua a ripercorrere i peggiori momenti della sua vita. “Ho ancora nelle orecchie le grida delle persone che stavano morendo e chiedevano aiuto”, racconta. Testimonianza, terapia, espiazione. “Parlare con i media - spiega - è un modo, adesso, per fare di più. Perché voi possiate raccontare che il grande popolo di Israele e di Be’eri hanno fatto del loro meglio per sopravvivere”.

(Shalom, 24 ottobre 2023)

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Biden convince Israele, rinviata l’invasione: si tratta sugli ostaggi

Il presidente Usa: “Il cessate il fuoco solo dopo la loro liberazione”. Obiettivo: dare tempo ai negoziati e potenziare le forze sul territorio per arginare l’Iran. Ue schierata a favore di una pausa umanitaria.

di Paolo Mastrolilli

NEW YORK — I media americani e la Radio militare israeliana confermano che lo Stato ebraico ha deciso di rimandare le operazioni di terra a Gaza, su richiesta degli Usa.
   Lo scopo è dare tempo ai negoziati per liberare altri ostaggi; potenziare le forze Usa nella regione, come deterrente all’intervento di Paesi come l’Iran; limitare le vittime civili ed evitare l’allargamento del conflitto; preparare meglio i piani per il governo di Gaza dopo l’invasione; e in generale prevenire i contraccolpi geopolitici che allontanerebbero ancora di più il Sud globale dall’Occidente, favorendo la Russia in Ucraina e la Cina nella sua sfida epocale contro le democrazie.
   L’Unione europea, a questo scopo, si schiera in favore di una pausa umanitaria delle operazioni militari, mentre la Casa Bianca non ammette di aver fatto pressioni sul premier Netanyahu, ma conferma di avere un dialogo aperto su modalità ed effetti del conflitto. Infatti proprio ieri Hamas ha rilasciato altri due ostaggi, seguendo una strategia del contagocce che probabilmente punta proprio ad ostacolare o rallentare l’attacco a Gaza.
   Cnn e New York Times erano stati i primi a riportare le pressioni Usa per ritardare l’offensiva, e il presidente Biden aveva dato risposte elusive a chi gli chiedeva se fosse vero: «Sto parlando con Israele». Ieri la Radio militare israeliana ha confermato il rinvio, perché Washington ha fatto sapere allo Stato ebraico che intende «schierare altre forze in Medio Oriente in vista dell’operazione di terra, a causa delle minacce dell’Iran». La ragione però non è solo questa, e infatti l’emittente cita la presenza nel nord della Striscia di 350 mila civili palestinesi, più i circa 600 cittadini americani intrappolati e gli ostaggi.
   Il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale John Kirby, parlando con i giornalisti, ha ribadito che le decisioni militari le prende Israele. Quindi ha detto che gli Usa sono contrari ad un vero cessate il fuoco, perché «beneficerebbe Hamas». Nello stesso tempo, però, Kirby ha aggiunto che Washington ha un dialogo aperto con lo Stato ebraico dall’inizio della crisi, sulle modalità della risposta, i mezzi di cui ha bisogno, e i piani per il dopo. Così ha quanto meno evitato di smentire le notizie dei media sul suggerimento di rimandare le operazioni di terra, probabilmente perché sono vere. Quindi ha ripetuto le accuse all’Iran di complicità con Hamas e coinvolgimento nei recenti attacchi contro le truppe Usa, ripetuti ieri in Siria, Iraq e Arabia. In questo quadro, «gli Usa hanno aumentato la presenza militare in Medio Oriente per mandare un segnale di deterrenza agli attori della regione». Biden ha detto che «dobbiamo prima avere gli ostaggi rilasciati, poi possiamo parlare».
   La Ue ha preso una posizione non troppo distante: «Il Consiglio europeo – si legge nella bozza delle conclusioni del vertice dei 27 in programma a Bruxelles giovedì e venerdì – sostiene l’appello del segretario generale Onu Guterres per una pausa umanitaria, al fine di consentire un accesso sicuro e l’arrivo degli aiuti. La Ue lavorerà a stretto contatto con i partner regionali per la protezione dei civili. Il Consiglio ribadisce il richiamo alla necessità di evitare una escalation e di coinvolgere i partner per questo, inclusa l’Autorità Nazionale Palestinese».
   Quindi il documento aggiunge: «Siamo pronti a contribuire a ravvivare il processo politico, sulla base della soluzione dei due Stati. Il Consiglio Europeo reitera la necessità di un immediato rilascio degli ostaggi senza alcuna precondizione». Al termine dei lavori di ieri, l’alto rappresentante della politica estera Ue Josep Borrell ha commentato così: «Posso dire che gli Stati membri hanno appoggiato l’idea di una pausa umanitaria a Gaza. I ministri preparano il Consiglio Europeo e credo che ci sia sufficiente consenso. Al Cairo si è parlato di una riduzione della violenza, più che di una pausa, ovvero di un obiettivo più ambizioso, perché la pausa significa l’interruzione di qualcosa che poi riprende, mentre un cessate il fuoco è un accordo più ampio fra le parti».
   Nonostante queste pressioni, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha detto ai marinai della base di Ashdod che l’offensiva verso Gaza sarà «un attacco letale e combinato da terra, mare e aria. Continuate a rimanere pronti per l’offensiva perché arriverà. Ci stiamo preparando a fondo».
   Gli Usa vogliono anche salvare il negoziato con l’Arabia per la normalizzazione dei rapporti con Israele, e temono che la guerra allontani ancora di più il Sud globale dall’Occidente. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi sarà a Washington venerdì, per preparare l’incontro tra Biden e Xi a San Francisco in novembre, che si spera diventi l’occasione per avviare un disgelo utile anche in Medio Oriente.

(La Stampa, 24 ottobre 2023)

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I fautori del cessate il fuoco sono gli utili idioti di Hamas

Gli oppositori di un'invasione di terra di Gaza con l'obiettivo di distruggere il gruppo terroristico invocano ragioni umanitarie. Questi appelli servono solo a preservare un regime criminale.

Gli israeliani non accetteranno alcun risultato diverso dalla vittoria su Hamas.
Sono passate più di due settimane da quando le atrocità del 7 ottobre hanno sconvolto il mondo con la crudeltà e la barbarie dei terroristi di Hamas nel condurre quello che è stato giustamente descritto come un pogrom in Israele. Il bilancio delle vittime del più grande omicidio di massa di ebrei - 1.400 in un solo giorno - dai tempi dell'Olocausto continua a salire man mano che vengono scoperti e identificati altri corpi. A questi si aggiungono le vittime non ancora identificate, gli oltre 4.000 feriti e le altre 200 persone che sono state portate a Gaza.
   Per la maggior parte del mondo, tuttavia, il quadro di questo conflitto è già cambiato. Le Forze di Difesa Israeliane continuano i loro attacchi aerei contro obiettivi di Hamas a Gaza. La maggior parte delle discussioni sul conflitto si concentra ora sulla condizione dei civili palestinesi e su come, nelle parole dell'editorialista del New York Times Nicholas Kristof, il desiderio di vendetta e la futile ricerca della sicurezza israeliana abbiano portato alla campagna "uccidere bambini a Gaza".
   L'opinione liberale illuminata, che rifiuta il terrorismo di Hamas e non vuole vedere Israele distrutto, fa ora causa comune con gli ideologi di sinistra che acclamano apertamente gli assassini nelle strade delle principali città del mondo e nei campus delle università americane. Entrambi sembrano essere d'accordo sul fatto che la priorità ora è costringere Israele ad accettare un cessate il fuoco con Hamas per evitare una crisi umanitaria nell'enclave costiera governata dagli islamisti.
   Tuttavia, dato il crescente numero di vittime palestinesi, una cosa deve essere chiara anche se le cifre citate provengono dalla macchina della propaganda di Hamas e molti, se non la maggior parte, delle vittime sono in realtà terroristi. Tutti coloro che ora si concentrano nell'impedire a Israele di effettuare un assalto militare decisivo a Gaza che ponga fine al regime di terrore che esiste come Stato palestinese indipendente dal 2007 condividono un obiettivo comune, nonostante le diverse opinioni: porre fine ai combattimenti per consentire ad Hamas di sopravvivere.

• Un’immorale coalizione
  In questo modo, i benpensanti e i critici del governo israeliano che tuttavia sostengono lo Stato ebraico sono essenzialmente dalla stessa parte della sinistra antisemita che ne chiede l'eliminazione.
   Devono essere tutti considerati utili idioti di Hamas.
   I prevedibili appelli unilaterali delle Nazioni Unite affinché Israele si limiti nei suoi sforzi per difendersi da Hamas sono facilmente liquidati dai sostenitori dello Stato ebraico che non capiscono come la comunità internazionale possa contribuire a minare lo Stato ebraico. Sono preoccupanti anche gli appelli al cessate il fuoco che provengono dagli studiosi di diritto americani, i professori che insegnano nelle scuole d'élite da cui usciranno i deputati e i giudici di domani, che considerano immorale qualsiasi azione israeliana di autodifesa.
   Anche coloro che non chiedono apertamente che Israele non faccia rappresaglie contro i terroristi avvertono che la prevista invasione di terra di Gaza è un errore che si ritorcerà contro Israele. Questa è la posizione del conduttore della CNN ed editorialista del Washington Post Fareed Zakaria, che rimane la fonte più accreditata per ogni saggezza convenzionale che viene diffusa dallo stesso establishment di politica estera che ha sbagliato su tutto in Medio Oriente per più di 30 anni.
   Anche l'editorialista del Times e inveterato critico di Israele Thomas L. Friedman, che sembra avere l'orecchio del Presidente Joe Biden, è tra coloro che pensano che un'invasione sia sbagliata. Egli ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero costringere Israele a promettere, prima di altri combattimenti sconsiderati,  di ritirarsi dalla Giudea e dalla Samaria una volta che le armi taceranno in modo da consentire la creazione di un altro Stato palestinese indipendente, oltre a quello che Hamas governa a Gaza dal 2006. Questa è la formula per un altro Stato terroristico islamico, non per la pace.
   Altri ancora - come lo storico israeliano Yuval Noah Harari, le cui banali osservazioni sul passato e sulla vita contemporanea gli hanno fatto guadagnare lo status di icona intellettuale - sono sconvolti dalla demonizzazione di Israele da parte della sinistra. Ma egli scrive sul Washington Post  che il consenso israeliano a spazzare via Hamas sia un’immagine speculare della visione assolutistica del mondo del gruppo terroristico stesso. A suo avviso, la ricerca di "giustizia" per i criminali del 7 ottobre non è diversa dalla visione apocalittica del mondo di Hamas. Egli ritiene che le misure israeliane che danno priorità alla sicurezza dei civili palestinesi, anche se questo significa lasciarli vivere all'interno di Israele, e anche se questo aiuta Hamas, saranno migliori per Israele nel lungo periodo.
   Persino Joe Biden, le cui dichiarazioni di palese sostegno a Israele e di condanna di Hamas hanno tanto incoraggiato gli ebrei di Israele e degli Stati Uniti, sembra fare tutto il possibile per ritardare l'offensiva su Gaza o per spingere a limitarla a tal punto che è difficile vedere come possa raggiungere l'obiettivo di spezzare il potere dei terroristi di Gaza. Anche gli aiuti militari statunitensi, essenziali per rifornire le forze israeliane e, si spera, per dissuadere l'Iran dall'espandere la guerra, sembrano essere accompagnati da condizioni e consigli volti a limitare la campagna. Parte di questo potrebbe essere legato agli sforzi americani per liberare alcuni degli ostaggi detenuti da Hamas, anche se, come sempre accade con questi accordi di riscatto, questo non farebbe che rafforzare i terroristi.
   È improbabile che la maggior parte degli israeliani comuni stia a sentire a queste persone. L'opinione pubblica israeliana e le sue istituzioni politiche, militari e di intelligence, profondamente scosse, hanno giustamente concluso che l'unico modo per prevenire ulteriori attacchi criminali di questo tipo è invadere Gaza e porre fine al dominio di Hamas una volta per tutte.
   La campagna per spazzare via Hamas promessa dal governo del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sarà difficile da realizzare. È possibile che ciò che Israele sta pianificando richieda settimane o addirittura mesi. Il numero di vittime da entrambe le parti potrebbe essere terribile. E più a lungo i propagandisti di Hamas e i loro complici nei media mainstream si prodigheranno a rendere minime le perdite palestinesi e a equiparare moralmente Israele ai criminali del 7 ottobre, più difficile sarà per Israele mantenere la rotta.
   Ma a differenza del relativismo morale di personaggi come Kristof, Zakaria, Friedman e Harari, l'opzione che Israele e il mondo si trovano ad affrontare a Gaza non può essere descritta come moralmente complessa o dove la verità si trova da qualche parte nella zona grigia tra le affermazioni assolutistiche dei palestinesi o degli israeliani.

• Una scelta semplice
  La scelta tra Hamas e Israele non è complicata. È una scelta tra una tirannia islamista e uno Stato democratico, tra un gruppo la cui ideologia non solo è estranea al pensiero occidentale, ma è intrisa di ciò che può essere descritto solo come il male. Il paragone tra Hamas e l'IS è azzeccato: entrambi sono movimenti nazisti moderni che condividono una mentalità di sterminio nei confronti degli ebrei e dello Stato ebraico.
   Distruggere il regime di Hamas non è solo una difficile opzione politica che provocherà critiche da parte degli umanitari occidentali e isteria nella "strada araba" e in tutto il mondo musulmano. È un imperativo morale e non dovrebbe essere trattato diversamente dall'implacabile determinazione dell'Occidente a distruggere il califfato dell'ISIS in Iraq e Siria, o dall'obiettivo degli Alleati di distruggere i regimi della Germania nazista e del Giappone imperiale durante la Seconda guerra mondiale.
   In nessuno di questi esempi il numero di vittime civili, per quanto tragico, è servito da deterrente all'obiettivo di sconfiggere queste potenze malvagie.
   Quando le forze irachene e alleate, sostenute dagli Stati Uniti, hanno riconquistato Mosul dall'ISIS nel 2017, fino a 11.000 civili sono stati uccisi nei combattimenti in città. E circa 800.000 civili tedeschi sono stati uccisi durante i bombardamenti alleati sulla Germania. Inoltre, circa 150.000 civili sono stati uccisi durante l'invasione della Germania del 1945 che, oltre ai combattimenti in altre zone, si è conclusa con una brutale battaglia casa per casa a Berlino.
   Sappiamo che in nessuno di questi casi coloro che cercavano di porre fine a questi regimi erano così attenti a evitare la morte di civili come lo è oggi Israele. Tuttavia, queste cifre di vittime non erano abbastanza orribili da rendere immorali le guerre per distruggere l'ISIS e la macchina di morte nazista di Adolf Hitler.
   Lo stesso calcolo morale deve essere applicato alla guerra di Gaza.
   Contrariamente allo spregevole tentativo di equivalenza morale di Kristof, Israele non sta cercando di uccidere bambini arabi per tenere al sicuro i bambini israeliani. Dovrebbe sapere che un regime che uccide e decapita neonati ebrei non può nascondersi dietro i bambini palestinesi che ha messo in pericolo con questa guerra. E coloro che permetterebbero che ciò accada non dimostrano né una saggezza né una moralità più elevata di coloro che giustamente chiedono l'eliminazione di Hamas.
   Pensatori occidentali che sono cresciuti con il relativismo morale e non riescono ad accettare il concetto che alcuni movimenti e governi sono malvagi e non solo fuorvianti o errati. Pertanto, una guerra che può terminare solo con la completa sconfitta di Hamas - a qualunque costo - va contro il loro modo di concepire come funziona il mondo.
   Ma la questione è molto più semplice. Se, nonostante la vostra condanna del terrorismo, sostenete politiche che permettono ad Hamas di uscire vivo e vegeto dalla sua furia omicida del 7 ottobre - che ha scatenato questa guerra - allora siete i suoi complici inconsapevoli e altrettanto riprovevoli di coloro che gridano nelle strade chiedendo che sia versato altro sangue ebraico.

(Israel Heute, 24 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Le vittime civili non sono tutte uguali

Un articolo in cui si esprimono in modo brutale i motivi per cui il superdemocratico occidente a guida americana appoggia Israele. NsI

di Andrea Cangini

Nella primavera del 1999, sotto il comando della Nato, ma senza il via libera dell’Onu, l’Italia mosse guerra alla Repubblica Federale Jugoslava di Serbia e Montenegro con l’obiettivo dichiarato di detronizzare il presidente Slobodan Milosevic. Capo del governo era il post comunista Massimo D’Alema, cui Francesco Cossiga non smise mai di ricordare che i bombardamenti italiani sulla città di Belgrado provocarono “535 morti civili tra vecchi, donne e bambini”. Non lo faceva solo per il gusto della provocazione, Cossiga. Lo faceva per ricondurre a verità l’ipocrisia di una guerra ribattezzata “operazione di difesa integrata”. Lo faceva per realismo, dunque. Per ricordare, cioè, che, al netto dei contorcimenti lessicali politicamente corretti, la guerra è uno strumento della politica e la politica ha a che fare con la vita e con la morte. Anche con la morte dei civili.
   Morti civili, in guerra, ci sono sempre stati. L’apice fu raggiunto nel 1945 con la distruzione della città tedesca di Dresda per mezzo di bombe al fosforo (135mila vittime) e con le atomiche sganciate sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki (250mila vittime). Morti civili, in guerra, ci sono sempre stati, ma con il progresso della civiltà il loro numero è vertiginosamente aumentato: le democrazie faticano a giustificare la morte dei propri soldati mandati a combattere sul campo, preferendo di conseguenza fiaccare il nemico decimandone dall’alto il morale e la popolazione possibilmente grazie all’uso di droni, che consentono di non mettere a repentaglio neanche la vita di un pilota.
   Danni collaterali, li chiamano spesso. E si tratta, chiaramente, di un’ipocrisia. Ipocrisia svelata, quando ci sono, dalle immagini video. La stessa ipocrisia che, come era solito denunciare ancora una volta Francesco Cossiga, ci induce da tempo a qualificare “operazioni di pace” quelle che a tutti gli effetti sono operazioni di guerra. Una questione di pudore, ma anche un grande equivoco: come se il fine della guerra fosse la guerra in sé piuttosto che la pace.
   E allora, questo o quello per noi pari sono? I bambini israeliani sgozzati dai carnefici di Hamas sono pari ai bambini palestinesi morti sotto i bombardamenti israeliani? No, no davvero. E negarlo non è ipocrisia, è semplicemente realismo; quel realismo caro a Francesco Cossiga. È realismo dire che i bambini sgozzati da Hamas sono un orrore di cui nessun soldato israeliano sarebbe capace. È realismo dire che semmai fossero stati scoperti fatti analoghi a parti invertite questo avrebbe rappresentato un’onta irreparabile per lo Stato (democratico) di Israele. È realismo dire che uccidendo i civili israeliani Hamas non può illudersi di battere Israele, mentre uccidendo civili palestinesi Israele può illudersi di battere Hamas. È realismo dire che i morti civili fanno tutti orrore, ma i morti per mano israeliana fanno meno orrore degli altri perché, parafrasando la celebre battuta del presidente statunitense Roosevelt riferita al dittatore nicaraguense Somoza, “può essere che Israele sia un bastardo, ma è il nostro bastardo”. Affermazione brutale, così traducibile: può darsi che Israele stia abusando della forza, ma Israele è una democrazia filo occidentale che uccide i civili per difendersi, mentre Hamas è un’organizzazione terroristica che uccide i civili per distruggere Israele e insidiare l’Occidente. Perciò noi, piaccia o non piaccia, non possiamo far altro che stare con Israele. È una questione di realismo, direbbe Cossiga.
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L'espressione usata da Roosevelt per Somoza nell'originale suona un po' più forte: «He may be a son of a bitch, but he's our son of a bitch». Applicata a Israele, la traduzione suona così: «Israele potrebbe essere un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». Per questo Israele va difeso, nonostante sia a son of a bitch, perché Israele è una democrazia filo occidentale. Significativa è anche la citazione di quello che l'occidentale Nato a guida americana ha fatto bombardando la Serbia di Belgrado nel 1995 con aerei anche italiani e provocando “535 morti civili tra vecchi, donne e bambini”. Stavamo difendendo qualche superiore valore etico occidentale o stavamo favorendo l'espansione della supremazia americana su territorio europeo in funzione antirussa? Quando i democratici occidentali dicono ad alta voce che "Israele siamo noi!" gli israeliani potrebbero avere qualche motivo di preoccupazione in più. M.C.

(Formiche.net, 23 ottobre 2023)

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Israele: serviamo la verità


(Ekklesia TV, 22 ottobre 2023)

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Israele luce per i popoli

Intervista a Angelica Edna Calò

di Claudia De Benedetti

Angelica Edna Calò Livnè, insegnante, educatrice, formatrice, regista, scrittrice, fondatrice e direttrice artistica della Fondazione Beresheet LaShalom - Un inizio per la pace - non ha lasciato il kibbuz di Sasa in Alta Galilea neppure nei giorni più terribili dell’assalto dei terroristi di Hamas. Delle 450 persone che risiedevano a Sasa solo in 50 sono rimasti a presidiare: i bambini e gli anziani sono stati evacuati al centro d’Israele, lontano dai missili.

- Come vedi Israele dal rifugio da cui ci parli? 
  Israele è stata trascinata in una guerra che non voleva. È stata trascinata in un trauma che sarà difficilissimo da superare, peggio della Shoah, perché nella Shoah eravamo in Europa, dove siamo sempre stati ospiti. In Israele eravamo a casa. Ci hanno massacrato nelle nostre case e l’hanno fatto nel modo più terribile che possa essere stato perpetrato. Ma nel corso dei secoli abbiamo sviluppato un senso di resilienza, siamo diventati veramente un’araba fenice. Ci sgretoliamo perché ci sgretolano ma ci ritiriamo su come per miracolo. Oggi non vogliamo vendicarci, vogliamo proteggere e difendere la nostra casa.

- Dove trovi l’energia per reagire?
  Il mio segreto è il segreto dei tre metalli: una salute di ferro, una volontà di acciaio e … un marito d’oro! Che anche in questi momenti riesce a darmi calma e sicurezza.

- Parlaci dei tuoi ragazzi
  In questo momento ho tre figli su quattro arruolati, due di loro sono ufficiali. Quando hanno terminato la Zavà, hanno lasciato la divisa e riconsegnato il fucile. Sono stati madrichim in tutti i nostri progetti. Sono cresciuti in una famiglia in cui il dialogo, la pace e l’educazione sono alla base di tutto, perché noi vogliamo educare non all’odio ma all’accoglienza e al dialogo.

- Come sarà Israele quando la guerra finirà?
  Personalmente non vedo l’ora di poter riabbracciare tutta la mia famiglia a Sasa: i miei figli, i miei nipoti. Spero che questa volta si riesca a sbarazzarsi dei capi di Hamas. Finché non verranno cancellati i capi di Hamas non staremo bene né noi né i palestinesi dall’altra parte perché loro sono gli scudi umani e noi, secondo loro, dobbiamo essere cancellati dalla faccia della terra. Stanno facendo di tutto per coinvolgere gli altri Paesi arabi, per far venire fuori tutto l’odio e tutto il veleno che hanno accumulato. Siamo un Paese straordinario, siamo fatti di una pasta straordinaria mentre i nostri vicini incitano alla morte e alla violenza. Non conosco il sentimento dell’odio, non riesco ad immaginarlo.
   Sto terminando di scrivere un libro con Silvia Guetta, si intitola ‘Laboratori e strategie di comunicazione attraverso le arti: sentieri verso la pace con noi stessi e con gli altri’. Nel libro dimostro l’importanza di uno dei pilastri dell’ebraismo, la ‘hemlà’, la compassione. La comprensione del dolore dell’altro. Quando diciamo: ‘Se potessimo con le lacrime delle madri lavare il sangue di tutte le vittime innocenti di questa guerra, risvegliamo l’empatia, il mondo si rende conto della nostra umanità, della nostra profonda volontà di pace.

- Il vostro spettacolo Beresheet racchiude un messaggio contro l’indifferenza?
  Credo profondamente che il nostro lavoro sia una dimostrazione di fiducia nell'avvenire, una vittoria del bene, della positività e della luce sul male e sulle tenebre. Il viaggio in giro per il mondo dei nostri ragazzi racconta che la realtà è fiducia nell'uomo in quanto tale, è solidarietà e partecipazione, coinvolgimento e lotta contro chi pretende di capovolgere i valori che danno anima alle nostre comunità. Erano in dieci e sono divenuti un gruppo affiatato che oramai raccoglie più di cinquecento ragazzi ebrei, cristiani, musulmani e drusi. Insieme raccontano danzando il bisogno profondo di pace di chi conosce la guerra in prima persona e della comprensione, unica arma contro l'odio razziale. Esprimono l'importanza e il valore immenso della differenza come fonte di ricchezza e di crescita, e non come motivo di conflitto. 

- Israele luce per i popoli, presidio per l’Occidente?
  Siamo descritti come mostri, la Shoah non è passata, ma noi siamo ‘or lagoym’ siamo luce per i popoli. Noi siamo qui per difendere Israele con tutti i suoi cittadini: ebrei, musulmani, drusi, cristiani siamo qui per proteggerlo. Israele è l’ultimo baluardo prima dell’invasione della pazzia di DAESH, dell’ISIS: non sia mai che succeda qualcosa In Israele, non c’è più un presidio per l’Occidente. Occorre mettere in guardia contro i terroristi. Noi mandiamo i nostri figli in guerra per difendere l’Occidente. Ora più di sempre dobbiamo ricordarci di rimanere uniti, religiosi e laici, destra, sinistra, Israele e golà. Dobbiamo rimanere quella meravigliosa scintilla che ci ha tenuto vivi, colmi di energia e positività nel corso di tutta la storia!

(Shalom, 22 ottobre 2023)

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Biden sostiene che Hamas non rappresenta i palestinesi. È vero?

I leader mondiali dovrebbero lasciare che i palestinesi parlino per se stessi, anche se la verità è scomoda o non "politicamente corretta".

di Ryan Jones

Palestinesi a Hebron manifestano a sostegno di Hamas e dei suoi crimini contro Israele
GERUSALEMME - Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden non è soltanto un sostenitore di Israele, ma è anche in prima linea in una campagna di politici e media occidentali per convincere tutti che Hamas non rappresenta l'opinione pubblica palestinese in generale. Biden e altri cercano di dipingere un'immagine di Hamas come una frangia isolata del movimento, in contrasto con le tendenze più "pacifiche" della maggioranza dei palestinesi.
   Ma è davvero così? Su quali prove Biden e altri basano questa valutazione? Certamente non sui sondaggi dell'opinione pubblica palestinese o su ciò che cantano le masse palestinesi che scendono in piazza. E se Biden arriva alla conclusione che le masse di israeliani che ogni settimana scendevano in piazza a Tel Aviv per protestare contro la riforma giudiziaria prima di questa guerra rappresentano l'opinione pubblica israeliana in generale, allora dobbiamo dire la stessa cosa per i palestinesi.
   Cosa ci dicono i palestinesi? Venerdì mattina, l'Autorità palestinese di Mahmoud Abbas, con cui Biden ha tentato di incontrarsi questa settimana, ha pubblicato un documento ufficiale del governo in cui si chiede alle moschee nella sua giurisdizione di smettere di tenere sermoni che invitano alla distruzione degli ebrei. Riferendosi alla guerra di Gaza, il documento ha sottolineato che "il nostro popolo palestinese non potrà alzare bandiera bianca finché l'occupazione [sic] non sarà rimossa e non sarà istituito uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme come capitale".
   Quando l'AP ha parlato di popolo palestinese che non può arrendersi, non ha fatto alcuna distinzione tra Hamas e il resto della società palestinese. Inoltre, il governo di Abbas ha incluso nel documento ufficiale il vecchio riferimento islamico antisemita (tratto dall'Hadith):
    "L'Ora non verrà finché i musulmani non combatteranno gli ebrei e i musulmani li uccideranno, finché l'ebreo non si nasconderà dietro una pietra o un albero e la pietra o l'albero non diranno: 'O musulmano, o servo di Allah, c'è un ebreo dietro di me, vieni e uccidilo'".
L'organizzazione israeliana Regavim ha definito il documento una chiara dichiarazione di guerra da parte dell'Autorità palestinese. Tuttavia, se Abbas e il suo regime speravano di guadagnare punti allineandosi con Hamas, i dati dei sondaggi mostrano che hanno fallito. L'opinione pubblica palestinese preferirebbe ancora essere governata da Hamas. Palestinian Media Watch ha riferito di grandi manifestazioni palestinesi mercoledì a Ramallah, Hebron e Nablus, con la folla che scandiva "Vogliamo Hamas!" e "Il popolo vuole rovesciare [Abbas]!". PMW sottolinea anche che le recenti elezioni dei sindacati studenteschi all'Università Birzeit di Ramallah e all'Università An-Najah di Nablus sono state entrambe vinte da Hamas.
   E un sondaggio di luglio del Forum FIKRA dell'Istituto di Washington per la Politica del Vicino Oriente ha rilevato che il 57% dei residenti di Gaza ha un'opinione almeno in parte favorevole di Hamas, così come percentuali simili di palestinesi in Cisgiordania (52%) e a Gerusalemme Est (64%).
   In altre parole: Se si tenessero oggi le elezioni, Hamas vincerebbe. Per questo motivo non si sono tenute elezioni dal 2006 e Abbas è ora al 18° anno del suo mandato quadriennale.
   L'ex primo ministro Naftali Bennett ha dichiarato giovedì che gli israeliani devono mantenere la lucidità, anche se la comunità internazionale preferisce chiudere gli occhi e le orecchie alla verità. Bennett ha twittato:
    “Bisogna dire la verità: la maggior parte dei gazesi sostiene Hamas, e molti di loro appoggiano con entusiasmo l'omicidio di ebrei innocenti. Ho sentito molte volte e di recente da vari leader mondiali l'affermazione che la maggior parte della popolazione di Gaza è tenuta prigioniera da Hamas ed è generalmente amante della pace. Questo non è vero. La maggioranza della popolazione di Gaza sostiene Hamas e la sua missione di distruggere Israele.
    Amici, Hamas dipende dall'ampio sostegno della popolazione di Gaza. Senza questo sostegno, Hamas non potrebbe esistere.Questa è l'amara realtà. Non dobbiamo dedurre da questo che Israele punterà a colpire i civili. Non è questo il nostro modo di agire. Ma non dobbiamo mentire a noi stessi. Dovete conoscere la verità".
È vero che Hamas non rappresenta tutti i palestinesi. Conosciamo personalmente alcuni arabi palestinesi che sono disgustati da Hamas e che non incolpano Israele ma il gruppo terroristico per tutti i loro problemi. Ma il fatto triste è che sono una minoranza. Hamas è popolare e potente perché l'opinione pubblica palestinese lo ha reso tale. Il gruppo islamista non sarebbe mai potuto diventare ciò che è oggi se non avesse trovato terreno fertile. Diciassette anni fa, l'opinione pubblica palestinese ha addirittura votato per Hamas e gli ha dato una solida maggioranza nel Parlamento palestinese. È vero che la metà dei palestinesi di oggi allora non era in vita o non poteva votare. Ma come dimostrano i dati dei sondaggi, le elezioni universitarie e le manifestazioni di massa sopra citate, la nuova generazione è più estremista dei loro genitori.
   Purtroppo, questo è un problema che probabilmente non potrà essere risolto nemmeno con la sconfitta militare di Hamas a Gaza. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le ideologie che alimentavano la campagna bellica dell'Asse dovevano essere sradicate a livello educativo, in modo che potessero emergere una nuova Germania e un nuovo Giappone. Questo non accadrà qui. Israele non cercherà di rieducare i palestinesi e di bandire l'ideologia islamista dalle loro scuole e moschee. E se ci provasse, il mondo non glielo permetterebbe.
   E così aspettiamo che emerga il prossimo ISIS e che scoppi la prossima guerra.

(Israel Heute, 23 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Gli Stati Uniti come difensori della civiltà occidentale, e quindi sostenitori di Israele come baluardo contro le orde barbariche dell'Islam. Gli israeliani farebbero bene a guardarsi da questa semplicistica narrazione consolatoria. Potrebbero rimanere "a bagno maria" per un tempo indefinito, come si trovano ora gli ucraini di Zelensky. Per gli israeliani potrebbe essere arrivato il momento di guardare più attentamente al loro vero problema: quello con Dio. Il problema ha cominciato a porsi in forma indiretta proprio in quella proposta di riforma giudiziaria ora accantonata, che in sostanza pone una domanda fondamentale: che rapporto c'è tra la Democrazia in Israele e il Dio di Israele? Ora per Israele il pericolo reale viene dall'oriente, e allora gli occhi si rivolgono speranzosi all'occidente. Come una volta. Il pericolo veniva dall'oriente di Assiria, e il popolo cercava aiuto nell'occidente di Egitto. Mentre il profeta Isaia ammoniva: "Guai a quelli che scendono in Egitto in cerca di soccorso e hanno fiducia nei cavalli, che confidano nei carri perché sono numerosi, e nei cavalieri perché molto potenti, ma non guardano al Santo d'Israele e non cercano l'Eterno!" (Isaia 31:1). E quando, dopo il disastro nel Regno del Nord, il pericolo arrivò dall'oriente di Babilonia, Israele cercò ancora soccorso nell'occidente di Egitto, rifiutandosi di ascoltare gli ammonimenti del Signore che arrivavano attraverso il profeta Geremia. E dopo che il disastro arrivò inevitabilmente anche nel Regno del Sud, il profeta stesso ricorda le parole con cui gli abitanti aspettavano la salvezza dall'occidente: "A noi si consumavano ancora gli occhi in cerca di un soccorso, aspettato invano; dai nostri posti di vedetta scrutavamo la venuta di una nazione che non poteva salvarci" (Lamentazioni 4:17). E nella Bibbia si legge come andò a finire. M.C.

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Degli ebrei e dell'ebraismo. Un dialogo

di Riccardo Calimani e Riccardo Di Segni

Dalla quarta pagina di copertina

Ed. Einaudi, Anno 2022
Chi sono gli ebrei? Che cos'è l'ebraismo? Per rispondere a queste e ad altre domande, due figure d'eccezione si intrattengono in un dialogo genuino e non di maniera. Da un lato Riccardo Calimani, saggista e studioso, certamente un ebreo "laico"; dall'altra Riccardo Di Segni, il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma. Entrambi, oltre alla conoscenza dell'ebraismo, portano con sé altri saperi. Calimani ha una laurea in ingegneria e in filosofia della scienza. Il rabbino Di Segni è anche un medico radiologo che ha esercitato a lungo. Forse anche grazie a questa molteplicità di saperi, i due autori, amici da sempre, riescono a comunicare la natura dell'ebraismo attraverso le molte sfumature e differenze dei punti di vista. Un libro necessario, se è vero che parte della malapianta dell'antisemitismo molto deve all'ignoranza.
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E’ un fatto: tutti gli esseri umani, in qualsiasi zona del mondo abitino, quali che siano gli usi e costumi che seguano e le convinzioni politiche o religiose che abbiano, prima o poi sono costretti a parlare di ebrei. E’ inevitabile, non perché ci sia qualche tiranno che lo imponga, ma perché sono i fatti a richiederlo. Fatti del passato o del presente o di un futuro più o meno prossimo. Già questo potrebbe spiegare l’antipatia con cui molti vedono gli ebrei. Non è un torvo sentimento di cattiveria verso un particolare tipo di genere umano, ma un semplice sentimento di noia verso un tipo di discorso. “Ma sempre questi ebrei! proprio non se ne può più!” Dopo di che, visto che sono costretti a farlo, cominciano anche loro a parlare di ebrei. E allora viene fuori di tutto. Non è detto che sia tutto cattivo, perché qualcosa di buono sugli ebrei si riesce quasi sempre a dire (così da non dover sembrare antisemiti) ma il guaio è che anche i particolari positivi che riescono a trovare molto spesso sono sbagliati, non colgono nel segno. E se questo avviene quando degli ebrei si parla bene, figuriamoci quando se ne parla male. Si può immaginare l’imbarazzo di un ebreo che si sente elogiato per motivi che sa non essere veri, che non corrispondono ai fatti. E’ da manuale la risposta che Woody Allen diede a una signora che lo lusingava: “Voi ebrei siete tutti intelligenti”; “Lei signora dice così perché non conosce mio cugino”, fu la risposta.
Allora, visto che degli ebrei in ogni caso alla fine si deve a parlare, se non altro per evitare di cadere in vistose sciocchezze vale la pena di leggere attentamente questo ottimo libro di Calimani e Di Segni. I due dialoganti sono indubbiamente persone di alto profilo culturale, che esprimono ragionate convinzioni sapendo ciò di cui parlano. Essendo entrambi ebrei convinti, hanno un sottofondo comune che permette loro di esprimersi con sincerità e chiarezza su modi diversi di intendere l’ebraismo senza timore che le proprie parole, anche quando non sono condivise, siano strumentalizzate polemicamente dall’altro. Così può avvenire che anche chi legge finisca per appassionarsi al dibattito e provi ogni tanto la voglia di inserirsi con qualche osservazione o domanda. Provare per credere.
Nel seguito, come assaggio, due scambi particolarmente significativi tra i dialoganti. NsI


• In che cosa credono gli ebrei?
RC - Questa mi pare una domanda difficile da sintetizzare in poche parole. Credo che alla base di tutto ci sia la fede monoteista in un Dio unico Signore del cielo e della terra e in un comportamento etico alla base del quale stanno i dieci comandamenti e le 613 mitzwòt. Da parte mia, che purtroppo non so pregare, credo che sia indispensabile cancellare ogni residuo di idolatria nelle nostre menti e che sia altrettanto indispensabile un buon comportamento etico: due condizioni necessarie, ma non sufficienti.
Credo inoltre che essere ebrei, eredi di una antica nobile tradizione religiosa e culturale, ci permetta di avere strumenti e sensibilità per capire meglio le terribili difficoltà che l'umanità deve affrontare nel nostro mondo di oggi.
RDS - Sono stati tanti i pensatori che hanno cercato di esporre in formule precise le basi della fede ebraica, cito per tutti Maimonide e i suoi tredici articoli. Senza alcuna pretesa provo a spiegare in sintesi. Gli ebrei credono, o dovrebbero credere, di essere stati chiamati a svolgere un compito speciale nell'umanità che comporta dei doveri precisi, di cui do qualche esempio: rispettando il Sabato, affermano che Dio è il creatore dell'universo, che ci ha dato da godere e governare con la nostra intelligenza, ma che non è nostro, e ce lo dobbiamo ricordare un giorno a settimana coltivando la parte spirituale che è in noi; rispettando le regole alimentari ci ricordiamo nuovamente che il mondo non è tutto nostro, che noi siamo fatti di carne e dobbiamo controllare la nostra condizione materiale e la sua crescita e non abusare delle altre creature; rispettando le regole sessuali dobbiamo controllare i nostri istinti e creare una relazione costruttiva di amore; con la preghiera sappiamo che dobbiamo rivolgerci soltanto a Lui per le nostre necessità collettive e individuali; non dobbiamo smettere mai di studiare, per crescere ogni giorno ascoltando la Sua voce che parla attraverso le scritture; dobbiamo impegnarci a instaurare una società giusta, libera e solidale.
Tutto questo comprende una visione etica del mondo, rende intolleranti alle ingiustizie, guida alla comprensione dei fatti e alla risoluzione dei problemi dell'umanità. Ma attenzione, a questo si arriva passando per i doveri da compiere, osservando la disciplina prescritta. Nei grandi movimenti sociali degli ultimi due secoli molti ebrei hanno avuto il ruolo di protagonisti, ma paradossalmente il loro anelito universale si accompagnava al distacco dalle regole. E questa disarmonia non è stata senza conseguenze, spesso drammatiche.

• I dieci comandamenti
RC - Sono sempre rimasto colpito dalla capacità di sintesi che i dieci comandamenti sanno esprimere in campo etico e giuridico e penso che Mosè sia stato un eccellente legislatore. Non penso che Kadosc Barukh hu lo abbia aiutato e non credo che si siano incontrati in cima al monte Sinai.
RDS - Puoi pensare quello che ti pare, ma il messaggio che dà la tradizione è tutt'altro. La Torà, di cui i dieci comandamenti sono una delle sintesi normative più efficaci, è un patrimonio sacro, non è un prodotto meramente umano, ma un testo scritto su ispirazione e dettatura divina; il testo della Torà precede non solo la sua scrittura o la nascita del popolo ebraico, ma la creazione stessa, di cui rappresenta il progetto e la finalità. È un documento che vive prima, durante e dopo il tempo. L'uomo può arrivare da solo a scoprire Dio e mettersi in comunicazione con Lui, come fece Abramo, ma la comunicazione stabilita serve per ricevere un messaggio dall'Alto; l'uomo lo può mettere in discussione, questo messaggio, avrebbe anche il dovere di farlo, come appunto fece Abramo quando cercò di evitare la distruzione di Sodoma, ma il messaggio è altro da lui; è un'infusione di vita. Torà significa comunicazione con il sacro, a tanti diversi livelli possibili; possono stabilirla anche i bambini che leggono qualche riga del testo, possono averla maestri eruditi che passano anni a studiarla; e la stabilì Mosè, di cui però si dice che riuscì ad avvicinarsi a Dio ove nessun altro essere umano era mai arrivato e mai arriverà. Posso comprendere uno scetticismo come il tuo, ma devi renderti conto che stai banalizzando in modi semplicistici un sistema complesso, l'idea stessa della comunicazione tra uomo e Dio e il ruolo di Israele. La Torà che con i suoi comandamenti tu consideri una bella sintesi di Mosè, è l'anima di Israele. Come scriveva Avraham Joshua Heschel, senza anima Israele è un corpo senza vita; e la Torà senza Israele è solo un libro più o meno interessante. Forse non te ne rendi conto, ma se sopravvivi come ebreo è perché ci sono degli ebrei che credono nella Torà.

(Notizie su Israele, 22 ottobre 2023)

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«Soldato morto per il vaccino». La sentenza: nessun colpevole

Il paradosso a Catania: il giudice stabilisce un nesso diretto tra il decesso del militare Stefano Paternò e una dose di Astrazeneca. Ma assolve sia i medici che l'hanno somministrata sia i vertici della casa farmaceutica.

di Maurizio Belpietro

Non è stato nessuno. Alla fine, il caso di un soldato morto a Catania dopo essere stato vaccinato e che, secondo una sentenza del tribunale locale, è deceduto a seguito dell'iniezione anti Covid, non ha alcun responsabile. Sì, il poveretto non aveva patologie in grado di spiegare il repentino decesso e la sola correlazione possibile è quella dell'inoculazione del siero anti pandemico. Però il giudice non se l'è sentita di buttare la croce addosso ai sanitari che hanno inserito l'ago nel braccio della vittima. E nemmeno e riuscito a trovare altri colpevoli. Dunque, alla fine, sebbene sia accertato che l'uomo è morto a causa del vaccino, il magistrato non ha condannato né i sanitari che avevano vaccinato la vittima, né i vertici del ministero che hanno preordinato le iniezioni. Tutti assolti, dunque, per non aver commesso il fatto. Ma il fatto esiste, ed è quel corpo che giudici e medici hanno davanti agli occhi, ma che rifiutano di vedere. E che invece andrebbe visto, fino alle indagini sulle cause del decesso e sulle estreme conseguenze avvenute per un forcing vaccinale che sarebbe poi diventato obbligo, imposto al fine di consentire di lavorare e viaggiare. Già, forse qualcuno dimentica che l'Italia è stato il solo Paese democratico a imporre l'obbligo di offrire il braccio alla patria, pena essere privati del diritto al lavoro e della libertà di salire su un mezzo pubblico. Nel caso della vittima, l'uomo aveva già contratto il Covid, ma avere un alto numero di anticorpi naturali non era comunque considerato un lascia passare sufficiente per poter esercitare i diritti sanciti dalla Costituzione. Dunque, si sottopose all'iniezione e, come previsto per poter ricevere il vaccino, fu costretto a sottoscrivere una liberatoria in cui si assunse tutti i rischi delle conseguenze collaterali, morte compresa. Così, sgravata la coscienza e la responsabilità dei sanitari e pure quelle delle autorità che disposero l'obbligo di farsi inoculare il siero, la colpa del decesso cade in capo alla vittima, che firmando la liberatoria non si è resa conto di sottoscrivere una condanna a morte.
   Sì, lo so che la situazione risulta paradossale. Pensare che il colpevole sia il deceduto è un insulto al buon senso oltre che alla logica. Ma purtroppo la legge è legge e le liberatorie che vengono fatte sottoscrivere a ignari pazienti spesso servono a questo, ossia a lavarsene le mani e sgravare le istituzioni dalle possibili conseguenze.
   Nel caso di specie, era noto che le multinazionali del farmaco avevano già ottenuto per contratto una sorta di salvaguardia dalle responsabilità dei possibili effetti collaterali. Adesso apprendiamo che anche chi ha eseguito l'iniezione e pure le strutture che l'hanno disposta sono garantite da uno scudo penale.
   Tutto ciò dimostra una cosa, ossia che c'è urgente bisogno di una commissione d'inchiesta parlamentare che scandagli le responsabilità di quanto è accaduto. Per due anni abbiamo assistito, con il beneplacito delle istituzioni che dovrebbero vigilare sul rispetto della Costituzione, alla violazione dei diritti delle persone e adesso, a epidemia ormai lasciata alle spalle, assistiamo alle conseguenze delle forzature di legge. Dai licenziamenti abusivi, oggi sanzionati nei tribunali, ai decessi sospetti, ora indagati negli ospedali. Molto resta da scoprire di quella stagione e anche se, approfittando della guerra in Ucraina e in Palestina c'è chi spera di avviare la commissione d'inchiesta su un binario morto, ora più che mai c'è la necessità di fare luce su ciò che è accaduto. Sappiamo che Mattarella non vuole (lo ha detto) ed è noto che i giornali sono a caccia più dell'ultima registrazione fuori onda di Andrea Giambruno che della penultima annotazione sulle morti inspiegabili. Però, prima o poi, qualcuno dovrà rispondere di quello che è successo. E di certo sarà più interessante delle ultime battute dell'ex compagno del premier .

(La Verità, 22 ottobre 2023)
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Ricerca della verità e desiderio di giustizia sono le molle che hanno promosso e sostenuto fin dall'inizio la creazione e il mantenimento di questo sito. La politica vaccinale degli ultimi tre anni si è originata e si sostiene sull'esatto contrario: diffusione di menzogna e atti di ingiustizia. I sostenitori della vaccinazione coatta in nome del "bene comune" prenderanno le parti del giudice di Catania? M.C.

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Ascolta la parola del Signore

di Thomas Lieth

L'autore della lettera agli Ebrei esorta così i suoi lettori:

    «Proprio per questo bisogna che ci applichiamo con maggiore impegno a quelle cose che abbiamo udito, per non andare fuori strada. Se, infatti, la parola trasmessa per mezzo degli angeli si è dimostrata salda, e ogni trasgressione e disobbedienza ha ricevuto giusta punizione, come potremo scampare noi se trascuriamo una salvezza così grande? Questa infatti, dopo essere stata promulgata all'inizio dal Signore, è stata confermata in mezzo a noi da quelli che l'avevano udita, mentre Dio testimoniava nello stesso tempo con segni e prodigi e miracoli d'ogni genere e doni dello Spirito Santo, distribuiti secondo la sua volontà» (Ebrei 2:1-4).

Al capitolo 1 c'è invece la descrizione di come Dio parla:

    «Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi» (Ebrei 1:1-2).

Nei versetti successivi segue una lode toccante al Figlio di Dio. Fra l'altro, l'autore scrive che Dio ha creato i mondi tramite lui (v. 2), che egli è lo splendore della gloria di Dio e l'espressione della sua essenza (v. 3), che egli ha operato la purificazione dal peccato (v. 3), che è molto più elevato di tutti gli angeli (v. 4) ecc. Ebrei”  ci presenta la grandezza di Gesù Cristo in modo meraviglioso. Si tratta di una lode completa, di una riconferma di Colossesi 2:3, dove Paolo scrive che in Gesù Cristo «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza». Molte persone aspirano alla saggezza. Si citano filosofi e fondatori di religioni e si ammirano le loro sagge affermazioni. Proprio le religioni orientali, con i loro esercizi meditativi e le esperienze di auto rivelazione, vengono considerate nella nostra società come un esempio da imitare. Non si tiene conto, però, che tutto questo è nulla nei confronti della saggezza divina nascosta in Gesù Cristo.
   Al capitolo 2 della lettera agli Ebrei si parla del fatto che è necessario ascoltare - e naturalmente mettere in pratica - ciò che Dio dice per mezzo di suo Figlio. Siamo esortati a non essere soltanto ascoltatori ma facitori della Parola di Dio (Giacomo 1:22). Non basta ascoltare, anche in Luca 11:28 ci viene detto: «Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica!» Se sentite gridare: «Ai posti, attenti, via!» e restate fermi nei blocchi di partenza, non vincerete mai la corsa, neppure se avete le orecchie più fini di tutti e avete sentito per primi il segnale di partenza.
   Questo è un punto importante di cui purtroppo soffrono molti cristiani. Leggono e ascoltano la Parola di Dio, ma non agiscono di conseguenza. Sotto ispirazione di Dio, l'autore della lettera agli Ebrei sottolinea quanto sia importante conservare l'evangelo che ci è stato affidato: «Perciò bisogna che ci applichiamo ancora di più alle cose udite, per timore di essere trascinati lontano da esse» (Ebrei 2: 1). La Bibbia, la Parola di Dio, è il libretto d'istruzioni fondamentale per tutta la nostra vita. Per noi cristiani la Bibbia è ciò che per un capotreno è l'orario ufficiale delle ferrovie. Se egli non si attiene al suo orario, su tutta la rete e in ogni stazione subentra il caos. Eventualmente può crollare l'intero traffico ferroviario. Lo stesso succede per noi cristiani quando pensiamo di non doverci attenere all'orario, alle Sacre Scritture. Prima o poi la nostra vita fa naufragio o il treno della nostra esistenza deraglia e nella nostra stazione lentamente ma inevitabilmente veniamo sopraffatti dal disordine.
   Vorrei chiedervi: Siete dei cristiani?
   Lo siete soltanto di nome o volete anche vivere di conseguenza? Allora leggete, ascoltate e agite secondo la Parola di Dio. Senza di essa corriamo il rischio di puntare fuori dal bersaglio, come ci viene mostrato in Ebrei 2:1. Qual è il bersaglio? La gloria di Dio in e per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo. Pietro scrive cosi: «affinché in ogni cosa sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pietro 4:11). Per realizzare tale scopo, siamo chiamati a restare attaccati alla Parola e a non allontanarcene né a destra né a sinistra.
   A prescindere da cosa si tratti, è importante ascoltarla e soprattutto praticare ciò che la Bibbia, e quindi Dio stesso, ci dice. Non importa quello che vi dicono gli uomini. Non importa quello che posso raccontarvi io. È invece di fondamentale importanza ciò che dice la Parola di Dio. Possiamo imparare dalle persone, dalla loro vita, dai loro commenti, prediche e interpretazioni. Tutte queste cose possono essere un aiuto prezioso ma non sostituiscono la Parola di Dio. Qualsiasi predica, esposizione, commentario o altro possono e devono essere dei preziosi complementi, indirizzare verso la Sacra Scrittura, ma non possono e non devono mai sostituire la Parola di Dio. È assolutamente escluso!
   I Mormoni sono inevitabilmente nell'errore perché considerano il libro di Mormon più importante della Paro1a di Dio. Hanno un libro che contiene istruzioni errate, si trovano sul binario sbagliato. Anche nella Chiesa Cattolica ci sono tanti insegnamenti sbagliati perché essa si affida ai suoi insegnamenti ecclesiastici, i suoi dogmi e le sue tradizioni più che la Parola vivente di Dio. Abbiamo tantissimi problemi nelle comunità riformate perché esse sono più prese da loro stesse che dalla Parola di Dio. Ogni comunità, ogni chiesa deve interrogarsi e chiedersi: «Che cosa ha più peso da noi? La tradizione, la dottrina della chiesa o della comunità, il dogma, l'autoincensazione o la Parola di Dio?»
   Già Timoteo fu esortato severamente a tenere conto della Parola: «O Timoteo, custodisci il deposito» (1 Timoteo 6:20). Paolo non scrive: «O Timoteo, non dimenticarti di me.» «O Timoteo, pensa a tutto quello che ti ho detto.» No, dice: «Timoteo, custodisci il deposito» - ossia la Parola di Dio perché essa è vera e affidabile. La Parola presenta lo straordinario Salvatore (1 Timoteo 1:15).
   La Parola di Dio, la buona novella, è eternamente valida e non passa:

    I cieli e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno» (Marco 13:31 ).
    «Perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio. Infatti, 'ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa. secca e il fiore cade; ma la parola del Signore rimane in eterno'. E questa è la parola della Buona Notizia che vi è stata annunziata» (1 Pietro 1:23-25).

Peccato che per alcuni cristiani la parola degli uomini abbia maggior peso della Parola incorruttibile, eternamente valida, vera e viva di Dio. Non si tratta di vedere se la Parola piace, se è scritta in modo gradevole, lirico e poetico, con suspense o una buona base storica. Qui si tratta di molto di più, perché da questa Parola"dalle Sacre Scritture"- dipendono la vita e la morte, il cielo e l'inferno; perché la fede - senza la quale nessuno può essere salvato - viene dalla Parola (Romani 10:17).
   La Bibbia è quindi un libro importantissimo, per non dire vitale, per cui spezza il cuore vedere che un libro così prenda polvere nello scaffale, s'ingiallisca e addirittura venga bruciato. Le persone che fanno questo si comportano come degli psicopatici che sparano al chirurgo e pensano di poter eseguire da soli l'intervento sul proprio cuore aperto.
   Vista l'importanza e il significato di questo libro, non stupisce che la lettera agli Ebrei esorti con enfasi, ma anche in modo incoraggiante, a mantenere ferma la Parola, ad aggrapparsi a ciò che il Signore ci ha rivelato tramite essa. Ricordatevi: potete fidarvi di tale Parola al cento per cento, senza condizioni, perché è la Parola di Dio.
   Forse siete disperati, bruciati dentro, soli e scoraggiati? Prendete a cuore la Parola di Dio in cui, fra l'altro, sta scritto:

    «Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all'estremo; perplessi, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; atterrati ma non uccisi; portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2 Corinzi 4:8-10).

Essa contiene molte altre promesse come:

    «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo» (Matteo 11:28).

Probabilmente avrete sentito tale promessa già dozzine di volte e forse conoscete il versetto a memoria. Ma ci credete anche, lo prendete a cuore e lo custodite? Fatelo, perché la Parola di Dio è eternamente valida. La sua consolazione e le sue promesse, la sua fedeltà e il suo amore sono rivolti anche a voi, proprio quando non sapete più dove battere la testa.
   Al versetto 2 di Ebrei 2 sta scritto: «Infatti, se la parola pronunziata per mezzo di angeli si dimostrò ferma ... » Che cosa significa? Quale parola fu trasmessa per mezzo di angeli?
   Apriamo gli Atti degli Apostoli al capitolo 7 e leggiamo il discorso che Stefano pronunciò in sua difesa davanti al sinedrio e in cui riporta la storia di Israele:

    «Questi è il Mosè che disse ai figli d'Israele: "Dio vi susciterà, tra i vostri fratelli, un profeta come me". Questi è colui che nell'assemblea del deserto fu con l'angelo che gli parlava sul monte Sinai e con i nostri padri, e che ricevette parole di vita da trasmettere a noi» (Atti 7:37-38).

Che cosa fu dato a Mosè da un angelo sul Monte Sinai? Le tavole della legge (cfr. v. 53).
   Paolo dice che essa «fu promulgata per mezzo di angeli, per mano di un mediatore» (Galati 3:19). Inizialmente abbiamo costatato che il capitolo 1 della lettera agli Ebrei parla del fatto che Gesù è superiore agli angeli. Senza voler ora esaminare più da vicino la legge in quanto tale, possiamo però affermare che la Parola del Figlio, ossia la buona notizia della grazia, è molto migliore e ha più valore della parola degli angeli, ossia della legge. In altre parole, se leggiamo che Gesù è superiore agli angeli, significa anche che la grazia è migliore della legge! Nel nostro testo si parla del fatto che ogni infrazione della legge produceva la giusta retribuzione: « ... ogni trasgressione e disubbidienza ricevette una giusta retribuzione» (Ebrei 2:2). La legge dimostrò all'uomo che egli non era in grado di salvarsi da solo, che gli era impossibile, perché tutti erano colpevoli davanti alla legge e sarebbero crollati davanti ad essa, ricevendo il salario del peccato, ossia la morte. Questo è in realtà il senso e lo scopo della legge, ossia mostrare agli uomini la necessità di riconoscere il proprio peccato e di convertirsi.
   La legge già lo indica: «Avete bisogno di un vicario che è in grado e vuole espiare la vostra colpa e ricevere il salario del peccato al posto vostro.» Chi sia questo sostituto, questo Redentore, è il tema non soltanto della lettera agli Ebrei bensì di tutte le Sacre Scritture. Questo vicario, che è in grado di espiare il peccato dell'uomo e ottenere per lui la salvezza eterna, e che vuole farlo, non è altri che il Figlio di Dio incarnato, Gesù Cristo!
   Ebrei 2:1-4 mostra all'uomo che ha sentito la Parola di Dio e a cui la via della salvezza è stata presentata: «Quanto sei sciocco se disprezzi tale salvezza!»
   State attenti alla Parola di Dio! Ascoltatela e agite conformemente a essa! È uno sciocco chi non lo fa! Egli somiglia a un naufrago che disprezza il salvagente accanto a sé e confida soltanto nelle proprie forze, mentre vale ciò che sta scritto nel Vangelo di Giovanni:

    «Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: 'Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e  la verità vi farà liberi'» (Giovanni 8:31-32).

Vi chiedo ancora: Siete dei cristiani?
   Perseverate nella Parola? La conservate, ve la prendete a cuore e vivete in modo corrispondente ai suoi insegnamenti? Oppure vivete per voi stessi? Se si considera quali conseguenze derivavano, nel Vecchio Patto, dal fatto di non ascoltare la parola degli angeli - ossia la legge - quanto più fatali devono essere le conseguenze se si disprezza la Parola del Figlio che è tanto più elevato di tutti gli angeli. Abbiamo sentito il Figlio e ora si tratta di ubbidire alla sua Parola. Le Scritture stesse ci sfidano a leggere la Parola, a studiarla, ad appropriarcene, ad agire di conseguenza e a rimanere profondamente radicati in essa (2 Giovanni 9; Proverbi 4:13). La Parola di Dio - la Sacra Scrittura - è il nostro orario ufficiale, il nostro libro delle istruzioni, la nostra vita. Forse vi definite cristiani, siete stati battezzati, frequentate il culto in chiesa e sporadicamente persino la riunione di preghiera. Forse vi considerate una brava persona. Ma siete anche un buon cristiano? C'è forse qualcosa nella vostra vita che va contro le istruzioni per l'uso della vostra esistenza? Non importa? Sì, dimenticavo, siete cristiani e quindi siete certi di non poter andare in perdizione. Ma io vi dico che è grave, proprio perché siete dei cristiani. Io non ho idea di cosa vi aspetti nell'eternità, ma so che cosa Dio si aspetta da voi qui e oggi:

    «Ma come colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta, poiché sta scritto: 'Siate santi, perché io sono santo'» (1Pietro 1:15-16).
    «Carissimi, io vi esorto, come stranieri e pellegrini, ad astenervi dalle carnali concupiscenze che danno l'assalto contro l'anima, avendo una buona condotta fra i pagani» ( l Pietro 2:11-12).

Che cosa vuole Dio da noi? Una vita vissuta secondo la sua volontà, una vita che faccia onore al suo nome, che contribuisca a glorificare il nome del Padre e del Figlio. Stiamo assolvendo questo compito? - O Dio, quanto è sciocco chi non segue la tua Parola! - Perciò vogliamo incoraggiarci a vicenda a rimanere attaccati a questa Parola, a interiorizzarla, a osservare ciò che ci viene detto dalle Scritture. È la Parola vivente di Dio la bussola per la nostra vita. Ascoltate la Parola del Signore, credete alla sua Parola e custoditela. Siate radicati in essa e la corona di vittoria vi è assicurata!

(Chiamata di Mezzanotte, mar/apr 2018)


 

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Hamas prepara una nuova "sorpresa" mortale contro Israele: le nuove armi dei terroristi

di Valerio Chiapparino

A due settimane dalla strage del 7 ottobre non è ancora arrivato il momento per lo Stato ebraico di ricostruire la catena di errori che ha portato all'attacco più grave contro gli ebrei dal tempo della Shoah. Israele già si interroga però su come i suoi nemici siano riusciti a nascondere i loro piani di morte e a indurre il governo di Benjamin Netanyahu ad abbassare la guardia. E si affaccia adesso un inquietante interrogativo: quali “sorprese” ha ancora in serbo Hamas per l’esercito israeliano che si appresta a lanciare l’operazione di terra nella Striscia di Gaza?
   Il 7 ottobre gli islamisti hanno adoperato armi già note agli israeliani ma il timore per Tel Aviv è che i terroristi nascosti nei tunnel, la cosiddetta “metro di Gaza”, stiano aspettando l’ingresso delle forze di Tsahal nella Striscia per svelare il loro arsenale segreto. L’incubo per Israele è rappresentato dai droni sottomarini che potrebbero essere usati per colpire porti, navi e piattaforme petrolifere.
   Nel 2016 il Mossad, il servizio di intelligence israeliano, in una missione mai riconosciuta aveva ucciso in Tunisia Mohamed Zouari, un ingegnere aerospaziale noto per essere il responsabile del programma dei velivoli senza pilota di Hamas. All’epoca del suo omicidio, Zouari stava lavorando alla costruzione di droni sottomarini ma la sua morte non pone fine al suo progetto. Nel 2021 infatti l’Israel Defence Forces (Idf) intercetta e distrugge un drone di questo tipo appena partito da una spiaggia di Gaza. Il successo dell'operazione lascia il sospetto tra le forze militari che Hamas possa contare su altre armi avanzate dal punto di vista tecnologico che ancora adesso non sono state impiegate contro gli israeliani. L’eredità di Zouari d’altra parte si è vista anche nell’attacco del 7 ottobre con la conferma da parte del gruppo islamista dell’utilizzo di 35 velivoli esplosivi e senza pilota costruiti sulla base dei progetti dell’ingegnere.
   Ci sono poi altri armamenti che preoccupano Tel Aviv: le munizioni guidate di precisione che potrebbero colpire a grande distanza e le bombe collocate lungo le strade. Queste ultime in particolare sarebbero una versione potenziata delle mine che in Iraq e Afghanistan hanno provocato centinaia di morti e feriti tra gli americani e non solo. Questi strumenti bellici chiamano in causa l’Iran, grande sostenitore nella regione di Hamas, Jihad Islamica, Hezbollah, Houthi e altri gruppi ostili agli Stati Uniti e ad Israele. Un report dell’intelligence di Washington trapelato ad inizio anno informava di militanti in Siria “istruiti” da esperti di Teheran sulla realizzazione di bombe perforanti in grado di creare danni micidiali alle corazze dei carri armati ad una distanza di 20 metri.
   L’Iran avrebbe stanziato 100 milioni di dollari in supporto militare, addestramento high-tech e trasferimento di know-how a favore di Hamas e dei suoi alleati fornendo loro inoltre prototipi di razzi, missili e droni. Grazie alla tecnologia iraniana il movimento islamista che controlla la Striscia di Gaza ha poi realizzato strutture sotterranee adibite alla costruzione di razzi e velivoli senza pilota. Secondo le intelligence di Washington e Tel Aviv esplosivi e componenti elettronici sono stati introdotti nella Striscia via mare o attraverso i tunnel.
   La nuova “sorpresa” mortale che Hamas potrebbe riservare alle forze di Tsahal ha un precedente che gli israeliani non hanno dimenticato. Nel 2006 Tel Aviv non era a conoscenza delle capacità di Hezbollah di colpire al largo delle coste libanesi e rimase impressionata dall’attacco missilistico compiuto dal movimento sciita contro la corvetta INS Hanit in cui persero la vita 4 membri dell’equipaggio.
   “È alquanto probabile che Hamas abbia delle capacità che non abbiamo ancora visto ma che potremmo vedere a breve dichiara al Washington Post Fabian Hinz, un esperto della difesa presso l’International Institute for Strategic Studies. I militanti islamisti starebbero quindi attendendo l’escalation nel conflitto in corso per mostrare tutte le loro carte in quella che potrebbe essere la loro ultima battaglia.

(il Giornale, 21 ottobre 2023)

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L'inganno di Hamas - e il nostro autoinganno

Gli Stati Uniti e Israele continuano a basare le loro politiche sulla finzione che l'Autorità Palestinese sia pronta a coesistere con lo Stato ebraico.

di Caroline Glick

Palestinesi manifestano a Hebron a sostegno di Hamas 13 ottobre 2023
GERUSALEMME - Domenica scorsa, l'anziano terrorista di Hamas Ali Baraka ha raccontato la storia di come Hamas ha ingannato Israele e gli Stati Uniti.
In un'intervista a RT (ex Russia Today), Baraka ha dichiarato: "Negli ultimi anni, Hamas ha adottato un approccio 'razionale'. Non è sceso in guerra e non si è unito alla Jihad islamica nella sua ultima battaglia [cioè l'attacco missilistico su Israele dell'agosto 2022]".
   "Abbiamo fatto credere che Hamas fosse impegnato nella gestione di Gaza, che volesse concentrarsi sui 2,5 milioni di palestinesi e che avesse abbandonato del tutto la resistenza. Per tutto questo tempo, Hamas stava preparando di nascosto questo grande attacco".
   In altre parole, Hamas fingeva di essere un partner negoziale credibile e l'unico problema era la Jihad islamica palestinese, la sua propaggine di origine iraniana.
   Uno degli aspetti frustranti dell'ammissione di Baraka è che l'inganno di Hamas non era una novità. L'inganno è parte integrante della dottrina jihadista fin dai tempi di Maometto. Altrettanto importante e frustrante è che anche coloro che non sono consapevoli - o sono volontariamente ciechi - della centralità della dottrina e delle convinzioni jihadiste islamiche per Hamas dovrebbero conoscere le tattiche di Hamas. È tratta direttamente dal libro dei giochi dell'OLP.
   Cinque giorni dopo il massacro di Hamas di oltre 1.300 ebrei nel sud di Israele, e alla vigilia del suo incontro con il Segretario di Stato americano Antony Blinken ad Amman, venerdì, il presidente dell'Autorità palestinese e leader dell'OLP/Fatah Mahmud Abbas ha rilasciato una dichiarazione.
   "Rifiutiamo le pratiche di uccisione o abuso di civili da entrambe le parti perché violano la morale, la religione e il diritto internazionale".
   La dichiarazione di Abbas è degna di nota per diverse ragioni. Non nomina Hamas. Traccia un'equazione morale tra il contrattacco di Israele a Gaza e gli stupri, le torture, gli omicidi, i roghi e i rapimenti di neonati, bambini, donne e uomini da parte di Hamas. E questo dopo cinque giorni in cui Abbas e il resto della società palestinese non hanno fatto altro che celebrare e difendere le atrocità di Hamas, incolpando Israele per i crimini contro l'umanità che Hamas sta commettendo contro il suo popolo.
   Nel suo discorso del 10 ottobre, il Presidente Joe Biden ha detto che Hamas non è rappresentativo delle aspirazioni palestinesi. Nelle sue parole, "Hamas non rappresenta il diritto del popolo palestinese alla dignità e all'autodeterminazione".
   Il sottotesto era chiaro. Hamas è il cattivo. L'Autorità Palestinese è il buono. E come se questo non fosse già chiaro durante il discorso di Biden, è stato reso ancora più chiaro dalla decisione di Biden di incontrare Abbas.

• Fatah e Hamas
  Per cinque giorni, Abbas non ha fatto altro che elogiare Hamas e condannare Israele. Come riporta Palestinian Media Watch, Abbas ha rilasciato una dichiarazione di solidarietà con Hamas il giorno successivo al discorso di Biden. L'11 ottobre, Abbas ha promesso che l'Autorità Palestinese "sarà al fianco del nostro popolo, Gaza non sarà sola".
   Il partito di governo Fatah dell'OLP (di cui Abbas è anche capo) ha parlato bene di Hamas. Come riportato da MEMRI, il 9 ottobre il Comitato centrale di Fatah ha elogiato Hamas per il suo massacro e ha chiesto l'unità nazionale, cioè l'unità tra l'Autorità palestinese e Hamas.
   L'obiettivo, ha detto Fatah, è quello di "riunirsi veramente e consapevolmente intorno alla possibilità di unità nazionale, unità nella lotta sul campo e unità politica e diplomatica con tutti i mezzi a nostra disposizione per condurre questa campagna insieme".
   Fatah ha anche invitato tutti i palestinesi a unirsi alla jihad di Hamas contro Israele.
   "L'opinione pubblica deve ascoltare l'appello ad opporsi all'aggressione e ai crimini a Gaza e in Cisgiordania e ad intensificare tutte le zone di conflitto con l'occupante [Israele] in tutta la nostra patria di Palestina per difendere il nostro popolo e stare al fianco dei nostri residenti a Gaza".
   L'organizzazione terroristica di Fatah, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, ha pubblicato sulle sue pagine Telegram appelli coranici alla jihad, non diversamente dalla propaganda di Hamas. Fatah ha citato il versetto coranico che invita alla distruzione di tutti gli ebrei, che anche Hamas utilizza nella sua carta, e ha chiesto: "Picchiate i figli delle scimmie e dei maiali... uccidete tutti gli israeliani".
   Nello spirito di "unità diplomatica" auspicato dal Comitato centrale di Fatah, l'Autorità palestinese funge da ministero degli Esteri di Hamas. Martedì, il suo ambasciatore alle Nazioni Unite Riyad Mansour ha scritto una lettera al Consiglio di Sicurezza accusando Israele di "crimini di guerra" e definendo la sua decisione di tagliare le forniture gratuite di acqua ed elettricità a Gaza "niente di meno che un genocidio".
   Nell'Autorità Palestinese, la gente ha accolto la notizia delle atrocità di Hamas con giubilo. Dalla Samaria settentrionale alle colline meridionali di Hebron, si sono svolte celebrazioni, marce per la vittoria e feste pubbliche. I palestinesi hanno deriso le vittime ebree sui loro account di social media e hanno celebrato il loro omicidio di massa.
   A Huwara, in Samaria, una pizzeria ha pubblicato una pubblicità con una nonna sopravvissuta all'Olocausto e ora ostaggio a Gaza con in mano una pizza.

• L’importante è convincere Blinken
  Che la blanda condanna di Abbas delle atrocità di Hamas sia falsa è evidente se considerata nel contesto delle sue azioni e dichiarazioni e di quelle dell'AP, dell'OLP, di Fatah e dell'opinione pubblica palestinese. Ma è stato chiaramente sufficiente per convincere Blinken che è ragionevole incontrarlo e continuare a basare la politica statunitense sulla finzione che l'AP rappresenti una forza moderata all'interno della società palestinese, pronta a coesistere pacificamente con lo Stato ebraico.
   Le bugie e gli inganni di Abbas sono il suo modus operandi, proprio come lo erano quelli del suo predecessore Yasser Arafat e dei loro compagni dell'OLP e di Hamas. È una prova della sicurezza di Abbas e del suo disprezzo per gli Stati Uniti il fatto che si sia sentito abbastanza forte da non preoccuparsi di condannare Hamas a squarciagola.
   Nei primi giorni dell'Autorità Palestinese, negli anni '90, Arafat condannava abitualmente gli attacchi terroristici di Hamas contro Israele in inglese e poi invitava i palestinesi in arabo a massacrare gli ebrei attraverso la jihad. Pochi mesi dopo l'istituzione dell'Autorità Palestinese a Gaza e Gerico nel 1994, Arafat inviò il suo capo della sicurezza Mohammed Dahlan a negoziare un patto di cooperazione con Hamas. L'accordo negoziato dava ad Hamas mano libera per massacrare gli ebrei, a patto che l'OLP non fosse coinvolta.
   Allo stesso tempo, Dahlan era a capo della squadra di negoziatori dell'OLP per gli affari militari con Israele. Incantava i suoi interlocutori israeliani parlando loro in ebraico, che aveva imparato nella prigione israeliana dove era stato condannato per terrorismo negli anni Ottanta. I suoi interlocutori consideravano Dahlan un moderato, il duro che avrebbe fatto fuori Hamas per conto di Israele. Dahlan fumava sigarette con i generali dell'IDF e allo stesso tempo stringeva un accordo di cooperazione con il terrorista di Hamas Mohammed Deif.
   In tempi tranquilli, Hamas e l'AP operavano separatamente. I servizi di sicurezza dell'Autorità palestinese, finanziati e addestrati dagli Stati Uniti, hanno fornito a Israele preziose informazioni che hanno portato allo smantellamento di molte cellule di Hamas. Ma nei periodi di offensiva terroristica, hanno lavorato insieme. Il gruppo terroristico più micidiale che ha operato durante la guerra del terrore palestinese (nota anche come Seconda Intifada) dal 2000 al 2004 è stato il cosiddetto "Comitato di Resistenza Popolare". Erano composti da terroristi di Fatah, Hamas e Jihad islamica.
   La finta scissione di Hamas dalla Jihad islamica e l'uso della Jihad islamica per convincere Israele e gli Stati Uniti che Hamas si era moderato erano lo stesso trucco.

• La menzogna della moderazione palestinese
  Israele e gli Stati Uniti si sono rifiutati di ammettere di essere stati ingannati dall'Autorità Palestinese nello stesso modo in cui sono stati ingannati negli ultimi due anni da Hamas, che è stato in grado di ingannare Israele e gli Stati Uniti per due anni perché volevano essere ingannati. I generali di Israele hanno voluto credere che i palestinesi nel loro insieme non sono nemici implacabili. Che possono essere ammansiti. Non dobbiamo sconfiggerli.
   E l'amministrazione Biden, come la maggior parte dei suoi predecessori, ha voluto credere all'inganno - e lo fa ancora nel caso dell'Autorità Palestinese - perché vuole credere che Israele sia colpevole della violenza perpetrata contro di lui. La menzogna della colpa israeliana è alla base di 50 anni di sforzi di pace degli Stati Uniti in Medio Oriente. La menzogna della moderazione palestinese è stata la giustificazione per 50 anni di pressioni quasi continue degli Stati Uniti su Israele affinché cedesse territori ai palestinesi. È stata la giustificazione e la motivazione dell'opposizione statunitense a qualsiasi sforzo di Israele per sconfiggere l'OLP sul campo di battaglia.
   La costante affermazione che "non esiste una soluzione militare al conflitto palestinese con Israele" si basa sull'idea che esista una soluzione politica.
   Ma il massacro di sabato ha chiarito - e non per la prima o la centesima volta - che questo non è un conflitto politico. È un conflitto esistenziale. E non è solo tra Israele e Hamas. È tra la stragrande maggioranza del popolo palestinese e l'intera leadership palestinese, che cercano attivamente la distruzione fisica di Israele e il genocidio dell'ebraismo mondiale, e degli ebrei che vogliono vivere in pace e libertà nello Stato ebraico di Israele.

(Israel Heute, 20 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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I nodi da sciogliere e la necessità della vittoria

A due settimane dalla feroce aggressione da parte di Hamas subita da Israele, lo scenario che ci troviamo davanti è mobile e contrassegnato dall’incertezza.

Gli ostaggi
  I nodi da sciogliere sono diversi e particolarmente aggrovigliati. Il primo riguarda la questione dei 203 ostaggi detenuti nella Striscia. Dalle notizie trapelate sembra che solo una parte di essi sia nelle mani di Hamas, mentre altri siano divisi tra la fazione della Jihad islamica e altri gruppi e sottogruppi. La situazione è notevolmente opaca. Due cittadine americane, madre e figlia, sono state rilasciate ieri. Si lavora sottobanco, con la mediazione del Qatar, attore che gioca da tempo molti ruoli, per anni finanziatore di Hamas, e al contempo interlocutore degli Stati Uniti. Sia a Gerusalemme che a Washington si lavora alacremente affinché  ne vengano rilasciati altri, ma è del tutto improbabile che, se avverranno rilasci ulteriori, il numero possa essere massiccio. Oltre ai civili, a Gaza sono prigionieri molti militari, e un portavoce di Hamas ha già fatto sapere che il loro eventuale rilascio è subordinato a quello di tutti i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, una richiesta per Israele del tutto irricevibile.
L’attacco terrestre
  Aleggia sopra Gaza lo spettro dell’invasione di terra, annunciata a più riprese ma di fatto, non ancora materializzata. Dopo il richiamo di 300,000 riservisti e il dispiegamento di truppe sul confine, per il momento si è proceduto solo a un raid all’interno della Striscia, mentre i bombardamenti proseguono massicci. L’obbiettivo dichiarato è quello di effettuare a Gaza un regime change, ma perché  ciò possa avvenire non ci sono alternative se non quella di una invasione della Striscia, opzione che anche gli Stati Uniti considerano inevitabile, anche se premono su Israele per un temporeggiamento necessario a far sì che il numero degli ostaggi tra cui ci sono 22 cittadini americani possa aumentare e il numero più ampio di sfollati possa mettersi in sicurezza .

Il “dopo” Hamas
  Gli Stati Uniti e Israele stesso sono contrari a una rioccupazione della Striscia, che, dal 2007, è sotto il dominio di Hamas. Uno scenario possibile sarebbe quello di commissariarla sotto l’egida di un governo sostenuto da una coalizione internazionale in cui gli Stati arabi abbiano un ruolo di primo piano. Si tratta di una prospettiva ardua e irta di incognite il cui avverarsi è completamente subordinato all’eliminazione di Hamas, e dunque all’invasione della Striscia e alla vittoria di Israele. Nel mentre si deve affrontare la crisi umanitaria e l’aumento del numero dei morti.

La necessità della vittoria
  Israele non ha scelta se non quella di invadere la Striscia e riportare la vittoria sul nemico. Lasciare Hamas a Gaza significherebbe di fatto sconfessare la propria stessa ragione d’essere, quella di uno Stato nato per garantire agli ebrei di tutto il mondo che hanno deciso di viverci, sicurezza e prosperità. Significherebbe consegnare all’estremismo islamico una vittoria clamorosa, rafforzare e imbaldanzire Hezbollah e il suo sponsor principale, l’Iran e prepararsi a breve a un’altra guerra.
   La vita degli ostaggi, la crisi umanitaria, il post Hamas, possono essere considerati unicamente dentro la prospettiva di una vittoria netta di Israele, e non a monte di essa.
   Nessuna guerra inaugura mai scenari facili, ma dà vita, inevitabilmente, a un ginepraio di problemi, e questa guerra, come tutte le altre guerre, non fa eccezione, ma solo la vittoria sul nemico può chiarire l’orizzonte, ed è, per Israele, il passo necessario per la sua sopravvivenza.

(L'informale, 21 ottobre 2023)

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«Ho 4 figli maschi, 3 sono partiti per la guerra come riservisti. Ma noi vogliamo la pace con Gaza»

di Marco Bruna

Shari Har Tuv con il marito e uno dei figli
Shari Har Tuv, 67 anni, vive a Gerusalemme. Tre dei suoi quattro figli maschi sono tornati a indossare le uniformi dell’esercito israeliano. «Hanno abbandonato il loro lavoro, la loro famiglia. Se ne sono andati il primo giorno di guerra. Uno è nel nord, uno nel sud vicino a Gaza e il terzo nei pressi di Hebron»
Shari Har Tuv ha 67 anni, vive a Gerusalemme. Ha visto tre dei suoi quattro figli maschi tornare a indossare le uniformi e unirsi all’esercito israeliano. I figli di Shari sono tra i 400 mila riservisti (in ebraico «miluim») che vengono richiamati in caso di necessità. Dopo l’attacco missilistico di Hamas dello scorso 7 ottobre - oggi sono due settimane di guerra - il ruolo dei riservisti è diventato cruciale. Il premier Netanyahu ha chiesto ai suoi soldati di «combattere come leoni», mentre si avvicina l’ordine di invasione via terra della Striscia di Gaza.
   Il figlio più grande di Shari ha 40 anni, età in cui di solito non si presta più servizio nell’esercito. Ma adesso chiunque sia in grado di combattere deve rispondere all’appello. Gli altri due maschi figli hanno 37 e 33 anni. Il più giovane ne ha 29. Shari ha anche una figlia, di 32 anni.
   «Due dei miei figli hanno lasciato a casa le loro mogli incinte, entrambe dovrebbero partorire tra circa un mese. Un altro ha un piccolo nato sei settimane fa. Tutti hanno abbandonato il loro lavoro, la loro famiglia. Se ne sono andati già il primo giorno di guerra. Uno è nel nord, uno nel sud vicino a Gaza e il terzo adesso si trova nei pressi di Hebron», dice Shari, raggiunta via email e su WhatsApp dal Corriere.
   «Non hanno esitato un solo minuto appena è arrivata la chiamata. Tutti noi conosciamo persone che potrebbero non riprendersi mai più dal trauma del brutale attacco di Hamas, conosciamo persone che hanno perso parenti, amici, colleghi. Nostra figlia, che è un’assistente sociale, e suo marito, che è uno psicologo, stanno assistendo chi è sopravvissuto al massacro. Ci sono famiglie distrutte. Il Paese è in profondo lutto. Ma il nostro obiettivo è vivere in pace con i nostri vicini».
   Shari Har Tuv è cresciuta a Knoxville, Tennessee, in una famiglia sionista. La prima volta che è stata in Israele aveva 15 anni. Quel giorno sapeva di essere arrivata a «casa». Si è trasferita in Israele con il marito, che oggi ha 71 anni, nel 1982 e ha trovato lavoro come architetto.
   «I miei figli si aspettavano di essere chiamati - continua Shari -. Quello di 37 anni però è un pacifista e un attivista, e ha lasciato l’esercito presto. Lui non è andato a combattere. Prima di partire il più grande ci ha chiesto se avessimo dei caricatori esterni per i cellulari. Ci ha chiesto anche un passaggio per arrivare alla sua base, voleva lasciare la macchina alla moglie in caso di necessità. Il nostro secondo figlio ha tutto il necessario. Si sta addestrando da 14 anni: lavora nell’intelligence di terra e fa parte di una squadra che assiste i soldati. Il più giovane si trova al confine nord di Israele, vicino a Metualla, dove negli ultimi giorni si sono verificate numerose incursioni e cadute di razzi. Sappiamo tutti che da questa guerra dipende la nostra sopravvivenza».
   La figlia di Shari, 32 anni, è stata costretta a lasciare la sua casa a Sderot, ormai diventata una città fantasma dopo i bombardamenti e le incursioni di Hamas. Lei e suo marito si sono trasferiti in un kibbutz vicino a Eilat.

(Corriere della Sera, 21 ottobre 2023)

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Crescenti tensioni al confine libanese. Evacuazione degli abitanti di Kiryat Shmona

Il Ministero della Difesa e l’IDF hanno annunciato ufficialmente l’evacuazione dei residenti di Kiryat Shmona, città settentrionale situata a pochi chilometri dal confine con il Libano.
Questa decisione è stata presa in risposta ai continui attacchi con razzi contro veicoli corazzati, condotti da Hezbollah – l’organizzazione paramilitare islamista sciita e antisionista libanese nonché da altri gruppi armati palestinesi nel sud del Libano.
Kiryat Shmona, attualmente abitata da circa 22.000 persone, ha visto molti dei suoi residenti già abbandonare la città a causa delle crescenti tensioni nella regione. All’inizio della settimana, l’Autorità per la gestione delle emergenze del ministero della Difesa aveva iniziato a pianificare l’evacuazione di tutte le comunità entro due chilometri dal confine con il Libano.
   Questa decisione è stata influenzata dagli eventi che sono seguiti all’attacco di Hamas contro Israele avvenuto il 7 ottobre scorso, il quale ha scatenato una serie di bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza. Questi avvenimenti hanno ulteriormente accresciuto le tensioni tra i gruppi armati libanesi e le forze di difesa israeliane, portando all’evacuazione dei residenti di Kiryat Shmona allo scopo di garantirne la sicurezza. Gli abitanti verranno ospitati in pensioni sovvenzionate dallo Stato, conformemente alle decisioni del ministro della Difesa Yoav Gallant.

(Bet Magazine Mosaico, 20 ottobre 2023)

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Spade di ferro giorno 14: il rischio di nuovi fronti

di Ugo Volli

Razzi dallo Yemen
  La novità più significativa dell’ultima giornata consiste in uno sparo di missili e droni contro Israele effettuato dagli Houti dello Yemen. Gli Houti sono un gruppo tribale fortemente islamista che ha condotto negli ultimi vent’anni una guerra civile in Yemen, sconfiggendo il regime precedente e mettendo in difficoltà anche la confinante Arabia Saudita, che ha cercato invano di bloccarli con bombardamenti e interventi militari. In diverse riprese gli Houti, massicciamente armati dall’Iran, sono riusciti a bombardare a loro volta alcuni dei principali impianti petroliferi dell’Arabia e a colpirne anche la capitale Ryad. Ieri notte gli Houti hanno tentato di fare arrivare i loro proiettili su Israele, che dista 2500 chilometri. Come se l’Italia, scontenta della politica finlandese, mandasse bombe su Helsinki. Inutile dire che non vi sono rivendicazioni territoriali reciproche. Gli ebrei hanno abitato in Yemen per quasi 3000 anni, dai tempi di Salomone e della Regina di Saba, nel medioevo c’è stato anche un regno ebraico da quelle parti, e vi è stata una grande tradizione culturale e religiosa; ma gli ebrei yemeniti sono stati progressivamente costretti ad abbandonare il paese con terribile violenze dopo la fondazione di Israele e gli ultimi sono riusciti fortunosamente a scappare qualche anno fa. I proiettili degli Houti sono stati abbattuti da navi americane e uno sembra anche dai sauditi, il che è significativo. Il tentativo degli Houti è degno di nota non solo perché certifica la volontà di aprire un terzo fronte, ma perché si tratta di un movimento completamente controllato dall’Iran.

Il fronte settentrionale
  La stessa cosa si può dire naturalmente di Hamas e della Jihad Islamica a Gaza, ma anche degli Hezbollah che hanno la loro base in Libano e altre forze in Siria, dove collaborano con l’esercito siriano. Il fronte libanese si è progressivamente acceso in questi giorni: i terroristi di Hezbollah hanno sparato razzi anticarro contro le forze israeliane in numero crescente e hanno anche usato proiettili più potenti. Ma sono rimasti nei limiti degli incidenti di frontiera. L’esercito israeliano ha fatto attenzione a rispondere sempre tiro su tiro usando l’artiglieria, distruggendo le istallazioni terroriste da cui erano partiti gli attacchi, senza però mai fare nulla che innalzasse il livello dello scontro. Non è certo interesse di Israele che si apra davvero un secondo fronte, sia perché lo obbligherebbe a dividere le forze, sia perché Hezbollah è molto meglio armato e organizzato di Hamas e, se intervenisse davvero, sposterebbe il baricentro della guerra fra Libano e Galilea. La scelta comunque non sarà fatta dai movimenti terroristi dipendenti, ma dall’Iran che li comanda. E’ a Teheran che si deciderà se fare entrare in guerra davvero Houti e Hezbollah, che per il momento esibiscono solo rumorosamente la loro ostilità ad Israele. Se l’Iran lo facesse, rischierebbe una grande guerra regionale, che probabilmente potrebbe fare danni notevoli a Israele, ma probabilmente finirebbe con la distruzione dell’impero che gli ayatollah si sono costruiti nello scorso decennio fra Iraq, Siria, Libano e Yemen, toccando certamente anche il loro territorio. La presenza in zona della grande flotta americana che comprende oltre 15.000 militari e schiera due portaerei e decine di navi moderne è stata decisa proprio per scongiurare questa prospettiva. Ma essa non è esclusa, tant’è vero che molti stati hanno invitato i propri cittadini, compresi i diplomatici, a lasciare rapidamente il Libano.

L’operazione di terra
  Il punto di svolta potrebbe essere l’ingresso delle truppe israeliane a Gaza. Già ora vi sono squadre speciali che si spingono oltre la barriera di sicurezza per cercare tracce dei rapiti (ormai il loro numero accertato è sopra i 200) e per rilevare gli appostamenti terroristi. Ma è chiaro che finora la tattica di Israele è stata di far precedere l’azione di terra da una massiccia opera di distruzione delle istallazioni militari di Hamas per mezzo dell’aeronautica, e questa azione continua anche adesso. Ma purtroppo non basta: il nucleo della forza terrorista (le truppe, i centri di comando, le rampe di lancio dei missili, i magazzini di armi e anche i luoghi in cui sono sequestrati gli ostaggi) è nascosto sottoterra, nella “metropolitana di Gaza”, centinaia di chilometri di gallerie di diversa dimensione e livello, affondate a decine di metri sotto il livello del suolo e quindi difficili da distruggere con le bombe degli aerei. Sono tortuose, minate, piene di trappole, difficilissime da conquistare, costruite in maniera tale da consentire agguati e assalti di sorpresa sia nel sottosuolo che dagli sbocchi in superficie. I terroristi le conoscono a menadito, i soldati di Israele ne conoscono poco. E’ questo il grande ostacolo e anche il centro del potere militare dei terroristi. Bisognerà conquistarlo passo a passo, in un’operazione lunga mesi e probabilmente molto difficile e sanguinosa, ma inevitabile se davvero si vogliono liquidare i gruppi terroristi. Quando l’esercito israeliano fosse impegnato in questo difficile compito, gli ayatollah potrebbero decidere che è arrivato il momento di cercare di colpire Israele aprendo un altro fronte. Il Gabinetto di Guerra e lo Stato Maggiore israeliano conoscono bene questi rischi e certamente stanno cercando di far arrivare il paese e l’esercito preparati al meglio ad affrontare la battaglia.

(Shalom, 20 ottobre 2023)

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Prima padre e poi caporedattore

Questi giorni in Israele non sono paragonabili a quelli delle operazioni precedenti, nemmeno alle guerre, compresa la guerra dello Yom Kippur.

di Aviel Schneider

Padre e figlio si incontrano alla base
GERUSALEMME - Sono passati dodici giorni e ancora non riusciamo a capire come e perché sia dovuto accadere. Non è un momento facile, ma dobbiamo superarlo. Questa volta non voglio rivolgermi a voi come caporedattore di Israel Heute, ma come padre di figli adulti che improvvisamente sono diventati soldati. Una visione di ciò che sta accadendo in tutte le famiglie del Paese.
   Come già sapete, i nostri figli, tutti e tre, sono in servizio di riserva dalla mattina di Shabbat, compreso mio genero. Tutti i figli dei miei amici e vicini di casa sotto i 40 anni sono stati chiamati in guerra. I nostri soldati occupano la mia mente più del mio lavoro nei media. In questi giorni stiamo tutti lavorando 24 ore su 24 per portarvi la verità da Israele. Lo potete vedere nelle notizie su Internet, nella rivista Israel Heute, nel canale Telegram e negli incontri Zoom in diretta da Israele. Inoltre, stiamo già lavorando alla prossima edizione cartacea di novembre. In questi giorni sto facendo tutto questo a margine. Perché prima di tutto, come padre, mi occupo dei nostri soldati al fronte, insieme ai miei compagni e amici.
I miei figli e il mio genero vengono a trovarmi
Questi giorni nel Paese non possono essere paragonati ai giorni delle precedenti operazioni nella Striscia di Gaza, nemmeno alle guerre, nemmeno alla guerra dello Yom Kippur di 50 anni fa. Questa volta gli Amalechiti hanno invaso il Paese, uccidendo e massacrando i civili nel sud del Paese. Nei media vengono chiamati Hamas, ISIS o nazisti. Secondo la storia biblica, gli Amalechiti sono un popolo nomade predatore che viveva nel sud del Paese, nel Negev, e sono considerati l'acerrimo nemico ereditario di Israele. Il popolo è in preda a un trauma, questo è ciò che sento e percepisco nelle conversazioni e vedo continuamente. Gli Amalechiti sono sulla bocca di tutti. Quando sono a Gerusalemme durante il giorno, le strade sono vuote di giovani. Tutti o quasi tutti sono in servizio di riserva.
   La gente sente qualcosa di diverso questa volta, una vera paura esistenziale. Inoltre, ci sono parecchie voci che parlano di una possibile guerra su più fronti che trasformerà il Medio Oriente in un "Nuovo Ordine". Non so se sia vero o meno, ma è di questo che si parla. Come padri, il nostro pensiero va prima di tutto ai nostri figli in azione, indipendentemente da ciò che uno fa, agricoltore, medico, tassista, archeologo, tecnico, insegnante o caporedattore. Pertanto, in questi momenti, ci occupiamo innanzitutto dei nostri figli nell'esercito, perché in quanto ex soldati, sappiamo tutti come funziona l'esercito. Ciò che manca ai soldati, lo forniamo noi, come facciamo da sempre.
Il genero Ariel torna a casa per qualche ora per vedere sua figlia.
L'esercito non era preparato a questa mobilitazione perché non era preparato all'incursione nel sud. Siamo quindi in contatto con alti ufficiali, importatori e funzionari del Ministero della Sicurezza per ottenere urgentemente equipaggiamento tattico, ma soprattutto elmetti tattici dall'estero, cosa davvero non facile. Mi sento già un trafficante d'armi, ma so di non esserlo, in realtà lo facciamo solo per equipaggiare i nostri soldati, i nostri figli, prima che vadano in guerra. Riceviamo anche richieste di questo e di quello da parte di alcune unità di amici e commilitoni. Ora è autunno e l'inverno sta arrivando.
   Le notti si fanno più fredde e così ieri abbiamo inviato 800 giacche e felpe con cappuccio per i soldati al confine settentrionale. Padre Amnon ne sta distribuendo alcune anche nel sud e padre Schlomi nel nord di Israele. Questi prodotti sono stati ottenuti e distribuiti grazie al vostro sostegno. Ma ci stiamo concentrando sull'equipaggiamento tattico, di cui non posso dire molto. Ma vi terremo informati.
Tomer è lì a fare alcune cose digitali per Israel Heute.
E nel frattempo, lavorate per fare informazione, perché il mondo ha bisogno di vedere e leggere la verità. Non possiamo convincere nessuno, ma la verità deve essere gridata. Il lavoro mi tiene impegnato senza sosta in questi giorni e dormo a malapena quattro ore a notte. I pensieri ci tengono svegli e ci passano per la testa, soprattutto quando sentiamo da lontano le esplosioni e la velocità dei jet da combattimento.
   A casa, sono il tutore di tutte le donne della famiglia. Ci ridiamo su e diciamo che sono il comandante di una sezione femminile, che comprende Anat, mia moglie, mia figlia Eden e la nipote Michaela. C'è anche una seconda Eden, la fidanzata di Moran, che è stata chiamata alle armi e che ogni tanto sta con noi. Anche Ester sta con noi, perché il suo futuro marito Tomer, il nostro figlio maggiore, è in servizio. Tomer ed Ester avrebbero dovuto sposarsi il 27 ottobre. Ma tutto è stato annullato e quindi stiamo organizzando una chuppah e un piccolo matrimonio a casa in giardino. Ma non è nemmeno sicuro che il marito possa avere le ferie per il suo matrimonio. Verrà anche May, la fidanzata del nostro figlio minore Elad, ma per la maggior parte del tempo rimane ad Ashdod con i suoi genitori, dove i residenti corrono continuamente nei rifugi. Inoltre, ospitiamo anche cinque cani, che hanno ancora più paura delle esplosioni di noi umani.
Nel rifugio durante l'allarme razzi
Ma guardate, questa è la nostra vita normale oggi ed è così in tutte le famiglie. La vita in campagna è cambiata per tutti. A casa, le mie donne chiudono ermeticamente tutte le porte di notte, tutte le tapparelle sono abbassate e persino la porta del giardino deve essere chiusa su ordine di mia figlia. Eden e Michaela dormono nel rifugio e quando suona la sirena siamo tutti lì. Anche i cani.
   La nostra casa nel moshav è diventata una fortezza. Da dodici giorni dormo con la pistola sotto il cuscino. Non è uno scherzo, tutti quelli che hanno una pistola nel moshav fanno così. Dodici giorni fa, nel moshav è stata chiamata una forza di emergenza. Tutti gli uomini che non sono stati richiamati fanno la guardia e pattugliano 24 ore su 24. È stato nominato uno chamal, che tradotto significa "stanza della guerra" che ha il pieno controllo su tutti i residenti del moshav, come un quartier generale, nei giorni di guerra che ci aspettano. Io e Anat e altri venti vicini facciamo i turni nello chamal. Poiché viviamo a meno di tre chilometri dal Confine Verde (senza recinzione) con i territori palestinesi, tutti gli insediamenti delle montagne della Giudea intorno a Gerusalemme sono stati avvertiti che anche noi possiamo essere sorpresi dai terroristi. Il trauma sta spingendo tutti in Israele a stare in allerta.
Eden e Michaela scrivono una lettera di ringraziamento ai soldati
Perché ve lo dico? Perché possiate vedere che la nostra vita continua, ma in modo diverso, non come dodici giorni fa. Vivere la vita fa passare in secondo piano le paure e noi siamo troppo occupati per farlo. Un bicchiere di vino rosso o di cognac la sera prima di dormire mi fa molto bene. Ma in questi giorni ho capito una cosa: il mondo si sta dividendo in due mondi, quelli che stanno dalla parte di Israele e quelli che sono contro Israele. Gli Amalechiti sono sempre stati un ammonimento per i nemici di Dio. Gli Amalechiti sono nemici di Dio e nemici del popolo eletto di Israele. E le nazioni devono decidere da che parte stare: Amalechiti o Israele.

(Israel Heute, 20 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Arabi israeliani contro gli attacchi del 7 ottobre. Lo rivela un sondaggio

di Nathan Greppi

In un periodo di tanto fermento, dove la guerra in corso viene sfruttata per fomentare odio contro Israele, al punto che sia nel mondo arabo che in Occidente non mancano gli estremisti che giustificano i massacri di civili israeliani compiuti da Hamas il 7 ottobre, proprio i cittadini arabi in Israele sembrano per la maggior parte essere contrari all’operato dell’organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza.
   Lunedì 16 ottobre, il quotidiano Haaretz ha pubblicato i risultati di un sondaggio, in cui si evidenzia come due terzi degli israeliani non vogliano più Benjamin Netanyahu come Primo Ministro per come ha gestito la sicurezza del paese. Nello stesso articolo, emerge anche il risultato di 500 interviste ad altrettanti arabi israeliani, sulle loro opinioni in merito a ciò che è successo.
   Analizzando nel dettaglio, il 77% degli arabi residenti in Israele dichiara di essere contrario all’attacco di Hamas del 7 ottobre, e l’85% si dichiara contrario al rapimento dei civili. E tra coloro che non hanno condannato i fatti, quelli che non prendono posizione superano quelli favorevoli all’operato dei terroristi.
   A ciò, si aggiunge il fatto che due terzi degli arabi israeliani vorrebbero delle prese di posizione nette contro il terrorismo da parte dei loro rappresentanti politici. Cosa che alcuni di loro hanno fatto: Mansour Abbas, capo del partito arabo israeliano Raam, ha chiesto a Hamas di liberare gli ostaggi israeliani. “I valori islamici”, ha scritto su X/Twitter, “ci comandano di non imprigionare donne, bimbi e anziani. È un atto umanitario che deve essere immediatamente messo in campo”.
   Un caso analogo è quello di Ayman Odeh, deputato arabo e leader del partito comunista israeliano Hadash, il quale ha dichiarato: “Qualunque attacco contro degli innocenti è assolutamente inaccettabile, e condanno categoricamente gli appelli di Hamas agli arabi israeliani nell’unirsi alla lotta contro Israele”.
   Tra le probabili cause che spingono gli arabi israeliani a disapprovare l’operato di Hamas, Haaretz cita il fatto che anche alcuni di loro sono stati uccisi dai razzi di Hamas. Molti di loro, soprattutto nei villaggi beduini, non hanno rifugi dove ripararsi dai missili.

(Bet Magazine Mosaico, 20 ottobre 2023)

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Berlino - Gli ebrei sono in pericolo!

Dal direttore del Centro evangelico messianico in Berlino Beit Sar Shalom ricevo la seguente lettera circolare che qui riporto. M.C.

Caro Marcello Cicchese,
mi rivolgo a Lei oggi con grande preoccupazione. La comunità ebraica e la popolazione ebraica in Germania sono molto preoccupate per quanto accaduto nelle ultime settimane. Questo è principalmente legato alla guerra in Israele, ma non è l'unico motivo. Gli ebrei sono in pericolo. L'esistenza degli ebrei è in pericolo.
Gli islamisti invocano pogrom ebraici in tutto il mondo. Gli ebrei non hanno mai chiesto la distruzione dei musulmani o dei palestinesi. Un'idea così perversa ci è sempre stata estranea. E ora c'è questo appello a distruggerci, che non è la prima volta nella nostra storia. Ci sono stati diversi episodi del genere. Uno dei più famosi lo troviamo nel Libro di Ester.
In questo momento circolano molte fake news e notizie bugiarde. Sono proprio queste notizie a rafforzare la tendenza a un rapido aumento dell'antisemitismo in Germania e nel mondo. L'antisionismo e l'"anti-israelismo" stanno diventando la base moderna dell'antisemitismo. Di conseguenza, gli attacchi antisemiti stanno aumentando rapidamente, anche in Germania. Questo fenomeno si sta radicalizzando soprattutto tra i musulmani.
Inoltre, le ricerche e i sondaggi corrispondenti mostrano che l'antisemitismo ha già raggiunto il cuore della società tedesca. Persino uomini di destra e di sinistra sono uniti da questo fenomeno. Ai raduni antisionisti e antisemiti, improvvisamente si vedono marciare insieme neonazisti e sinistra radicale. Il nemico comune, cioè Israele e gli ebrei, unisce anche gli arci-nemici. Improvvisamente i neonazisti dimenticano i loro vecchi slogan contro i musulmani e gli immigrati dal Medio Oriente. Ora si uniscono agli slogan contro gli ebrei.
Le comunità ebraiche sono molto preoccupate e noi ebrei siamo nervosi. Fino a poco tempo fa, pensavamo che se fossimo stati in pericolo, avremmo potuto emigrare in Israele. Ma nella situazione attuale, non abbiamo davvero questa possibilità. Molti ebrei si sentono in trappola.
Nelle comunità cristiane c'è molto spesso ingenuità, ignoranza e purtroppo anche indifferenza nei confronti di questo problema. Molti pensano che la guerra sia in corso solo in Medio Oriente e che quindi riguardi solo le persone che vivono lì. Tuttavia, questa guerra ha raggiunto da tempo la Germania e si svolge sui social media, nelle strade, nelle case e nelle scuole. Il recente attacco a una sinagoga di Berlino ne è solo un esempio. Questa guerra è ovunque in Germania. È una guerra contro gli ebrei. Una guerra spirituale.
Ogni giorno sperimentiamo e leggiamo una quantità incredibile e senza precedenti di commenti di odio sui nostri social media. Si potrebbe pensare che siano solo parole ed emozioni di persone pro-palestinesi. Tuttavia, gli eventi recenti, come l'attacco a Israele dei giorni scorsi dovrebbero mostrarci quanto rapidamente le parole di odio si traducano in azioni. Molti ebrei si chiedono se la polizia tedesca riuscirà a proteggerci. Siamo davvero molto preoccupati.
Con questo messaggio mi rivolgo in particolare ai cristiani e vi chiedo: cosa farebbe Gesù, che è egli stesso un ebreo? Non è la prima volta che Satana, il nemico dell'umanità, cerca di distruggere il popolo ebraico. Inizia con il popolo ebraico e poi si estende a tutti i seguaci di Gesù. Cercherà di distruggere tutti coloro che appartengono a Dio. Pertanto, vi invito a prendere fortemente posizione per il popolo ebraico prima che sia troppo tardi.
Vorrei darvi alcuni suggerimenti pratici.
Pregate per:

  • la pace in Medio Oriente, in Israele e a Gerusalemme
  • gli ebrei in Germania e nel mondo, per la loro protezione e tutela.
  • Sensibilizzatevi e siate testimoni d'amore nella vostra congregazione, nelle vostre famiglie, tra i vostri conoscenti e oltre.
  • Combattete l'antisemitismo con le vostre parole e le vostre azioni, anche sui social media.
  • Fate conoscere la verità
  • Confortate e sostenete gli ebrei che conoscete: Per esempio, telefonate o scrivete loro per fargli sapere che state pensando a loro e che siete al loro fianco.
Condividete questo appello e questa preoccupazione!
Nessuno riuscirà a distruggere gli ebrei! Dio stesso li protegge (cfr. Geremia 31:35-37)! Come nel Libro di Ester, celebreremo la pace e la redenzione con il Messia Gesù, anche con altri popoli, anche in Medio Oriente! È la nostra speranza e la nostra fiducia.
Ma è tempo che gli ebrei e la pace si alzino in piedi!!!
Con un caloroso shalom,
Vladimir Pikman
VIDEO

(Notizie su Israele, 20 ottobre 2023)

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7 ottobre 2023, un giorno che vivrà nell’infamia

Non fatevi illusioni: l’abominevole massacro perpetrato in Israele è una dichiarazione di guerra contro tutto ciò che è umano. Nessuno sarà più al sicuro.

di Noa Menhaim

Alcuni dei bambini o minorenni israeliani presi come ostaggi e deportati a Gaza dai terroristi palestinesi di Hamas. Secondo gli ultimi dati, tra i 203 ostaggi che si ritiene con ragionevole certezza siano trattenuti dai terroristi a Gaza, circa 30 sono bambini o minorenni, altri 10 o 20 sono anziani.
Il 7 ottobre 2023 dovrà essere registrato negli annali della storia come pochi altri eventi che hanno scosso le fondamenta del mondo libero, come l’attacco a Pearl Harbor o l’11 settembre: un giorno che vivrà nell’infamia.
Non commettere l’errore di pensare che poiché è successo qui, in questo piccolo, arido e remoto angolo del mondo, le onde d’urto non vi raggiungeranno. Come hanno dimostrato le grandi religioni che qui sono cresciute e si sono diffuse in tutto il mondo, le cose che accadono in questo posto hanno la tendenza a riecheggiare a distanza. Nel bene e nel male, questo è un perno essenziale nell’equilibrio geopolitico.
E ora nessuno è più al sicuro. Nessuna donna è al sicuro nella sua casa. Nessun bambino è al sicuro tra le braccia della madre. Nessuna nonna è al sicuro sulla sua sedia a rotelle e nessun nonno è al sicuro nel suo letto. Nessuno di loro è più al sicuro da un taglio alla gola. Uno sparo. Una decapitazione. Dall’essere bruciato vivo. Violentata. Rapita e deportata.
   Nessun uomo è un’isola, scriveva il poeta John Donne. E lo tsunami di dolore e orrore iniziato qui il 7 ottobre non farà che crescere. Raggiungerà i vostri lidi sicuri. Perché quello che è successo qui è stato un massacro mostruoso, abominevole, oltre i limiti della moralità e della ragione. Rende i suoi autori nemici di tutta l’umanità, non solo degli ebrei, non solo degli israeliani.
   Il numero delle persone assassinate qui in un giorno supera la somma di tutte le persone che sono state uccise in tutti gli attacchi terroristici avvenuti su suolo europeo a partire dagli anni ‘90. Nella sua ferocia e in rapporto alla dimensione della popolazione di questo paese, fa impallidire qualsiasi altro evento terroristico nel mondo occidentale. Immaginate un attentato dell’11 settembre moltiplicato per 15. Immaginate che tutti quelli che conosceste conoscono qualcuno a cui è stata tagliata la gola, a cui hanno sparato, che è stato violentato, bruciato vivo o rapito e deportato.
   Qui non si tratta di un altro “incidente terroristico”. Questa è una dichiarazione di guerra, una guerra contro tutto ciò che è umano. Tutto ciò è dalla parte della vita.
   Ma quel giorno cupo e terribile non è ancora finito. È il giorno più lungo. Un incubo dal quale non possiamo svegliarci. Continuano a viverlo coloro che ora tremano nei rifugi. Continuano a viverlo coloro che hanno imbracciato le armi per difendere le proprie case e città. Continuano a viverlo i famigliari dei morti e, ancora di più, i famigliari di quelli che sono stati rapiti e deportati. Ne hanno presi più di duecento. Nonne coi capelli argentei su sedie a rotelle, portate via insieme alle loro fidate badanti. Nonni con il numero di Auschwitz tatuato sul braccio. Madri a cui sono stati strappati i bimbi dalle braccia, padri i cui figli sono stati decapitati davanti ai loro occhi, ragazze che sono state ripetutamente violentate. Lattanti che avevano appena pronunciato le loro prime parole. Tutti questi e altri ancora sono adesso nelle mani di coloro che hanno commesso quelle atrocità. Ognuno di loro ha un nome, un volto, una famiglia. Una vita.
   Dopo la seconda guerra mondiale, il filosofo francese Raymond Aron scrisse: “Sapevo ma non credevo. E poiché non credevo, non sapevo”. So che è difficile credere a quello che avete appena sentito. Ma le prove sono davanti a voi. Le informazioni sono lì. La verità adesso vi guarda, e vi ingiunge: non puoi non credere, non puoi non sapere, non puoi non agire.

Da: YnetNews, 19.10.23

(Israele.net, 20 ottobre 2023)

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Elementi di propaganda

Pallywood, l’infaticabile fabbrica palestinese della menzogna

di Davide Cavaliere

I residenti arabi di Giudea, Samaria e Gaza, che si identificano come «palestinesi», e coloro che li sostengono in Occidente, hanno il brutto vizio di fabbricare e mettere in circolazione foto e video fasulli, decontestualizzati e parziali, nel tentativo di promuovere una narrativa perniciosa, che descrive gli arabi-palestinesi come vittime innocenti della brutale violenza degli «occupanti» ebrei. 
   Le foto sono spesso ritoccate con Photoshop o, più semplicemente, prese da altre zone di guerra senza alcun legame con Israele. I video, molto spesso, sono il prodotto di elaborate rappresentazioni teatrali, a uso e consumo dei terzomondisti europei e americani. 
   Si va da un uomo, presumibilmente ferito, che viene portato via dagli astanti, solo per riapparire più tardi, nel medesimo servizio giornalistico, illeso, mentre si allontana sulle sue gambe fino a un gruppo di persone che, travestite da soldati israeliani, fingono di calpestare un bambino arabo . Questa pratica vergognosa e disonesta è stata soprannominata «Pallywood», ossia la Hollywood palestinese della sofferenza inscenata e posticcia. Si tratta di un’industria cinematografica oscena, che ha come solo scopo la demonizzazione mondiale dello Stato d’Israele. 
   Uno dei casi più eclatanti e moralmente disgustosi di Pallywood riguarda la vicenda, straziante, di Mohammed al-Farra, un ragazzo di Gaza nato con una rara malattia genetica, che ha reso necessaria l’amputazione delle braccia e delle gambe. I suoi genitori, due «vittime» secondo la narrativa dominante, lo hanno abbandonato alle cure del nonno, che, spinto dalla disperazione, ha contattato le autorità sanitarie dello Stato ebraico per chiedere assistenza. Gli israeliani, sempre solleciti nei confronti di chi soffre, hanno trasferito il bambino all’ospedale di Tel Hashomer, un quartiere della città di Ramat Gan, dove ha ricevuto cure mediche gratuite, totalmente coperte da un’attività di raccolta fondi israeliana.
   L’estremista Mohammed Omer, un falsario antisemita venerato dalla Sinistra radicale, autore di articoli per organi di stampa antisionisti come AlJazeera ed Electronic Intifada, pubblicò una foto del ragazzo sul suo profilo Twitter accompagnata dalla seguente didascalia: «Una delle ultime vittime della guerra di #Gaza. Ricorda quei bambini». Omer, una volta smascherato, cancellò il tweet, ma non prima di aver scatenato migliaia di reazioni di odio e indignazione verso Israele. Un vero e proprio pogrom elettronico.  
   Pallywood è un’attività insidiosa e subdola, che produce false accuse non dissimili da quelle storicamente mosse al popolo ebraico: uccidere bambini o avvelenare i pozzi d’acqua. I manovali della propaganda anti-israeliana usano, in modo cinico e spregiudicato, soprattutto foto e video riguardanti bambini e neonati, nel tentativo di fare presa sull’opinione pubblica occidentale. In rete si trovano immagini di bambine con la dermatite presentate come «vittime di bombe al fosforo bianco», oppure foto di corpi di bambini deceduti a causa di terremoti spacciati per «martiri» delle offensive della Israeli Air Force. 
   Palestinesi e filopalestinesi amano sfruttare il dolore e la disperazione dei profughi siriani, ripetutamente fatti passare per vittime del «regime coloniale» d’Israele. Tra i vari casi, quello dell’undicenne siriana Aya, la cui foto, nel 2017, è finita sulle pagine social dell’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi), che la presentavano come vittima dell’«occupazione della Cisgiordania».
   Per ironia della sorte, coloro che criticano Israele per i presunti infanticidi commessi  a Gaza o nei famigerati «Territori», non sembrano preoccuparsi dei crimini contro l’infanzia commessi dai terroristi arabo-islamici. L‘Institute for Palestine Studies ha pubblicato un rapporto dettagliato sul fenomeno dei tunnel di Hamas a Gaza nell’estate del 2012, riferendo che la costruzione dei suddetti tunnel ha provocato un gran numero di morti tra i bambini, almeno 160 https://www.palestine-studies.org/en. Hamas, infatti, utilizza i fanciulli come schiavi per costruire le gallerie sotterranee con cui tenta di entrare in Israele.  
   Pallywood, in questi giorni, ha ripreso a funzionare a pieno regime, attribuendo a Israele, senza prova alcuna, la responsabilità di un missile caduto in prossimità di un ospedale a Gaza. Il fronte globale del sostegno al terrorismo non ha bisogno di prove concrete. La verità è sempre stata calpestata dai movimenti totalitari e dai fanatici di ogni risma. Pallywood è un’impresa degna del principale propagandista di Hitler: Joseph Goebbels. 

(L'informale, 20 ottobre 2023)

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Parashà di Noach: Noach, la torre di Babele e la missione di Avraham

di Donato Grosser

R. Israel Belsky (New York, 1938-2016) in ‘Enè Israel (p. 37) fa notare che all’inizio della parashà è scritto che “Noach era un uomo giusto e completo nelle sue generazioni” (Bereshìt, 6:9).  Più avanti quando il Creatore da’ istruzioni a Noach di entrare nell’arca, è invece scritto: “Ho visto che sei giusto davanti a Me in questa generazione” (ibid., 7:1). Perché in un versetto di parla di generazioni, al plurale, e nell’altro “di questa generazione”? 
            Per trovare una risposta bisogna consultare il commento di r. Avraham ibn ‘Ezra (Tudela, 1089-1164, Saragozza). Egli spiega che la parola “giusto” si riferisce alle sue azioni (ma’asè), mentre la parola “completo” alle sue idee (muskalòt). R. Belsky commenta che Noach visse 950 anni e fu testimone per due volte alla guerra tra il bene e il male.  La prima volta nella generazione del Diluvio e la seconda nella generazione della Dispersione, quando venne lanciato il progetto di costruire la Torre di Babele, dieci anni prima della sua morte.
            I peccati delle due generazioni erano diversi. La generazione del Diluvio era immorale e corrotta; la generazione della Dispersione era invece idolatra ed eretica; il peccato era ideologico. Nella generazione del Diluvio, Noach non fu influenzato dagli atti immorali della popolazione. Nella generazione della Dispersione non fu influenzato dalla loro idee eretiche. Per questo motivo la parashà all’inizio parla di Noach nelle sue generazioni. Quando entrò nell’arca invece nella Torà è scritto che era giusto in quella generazione. 
            La generazione della Dispersione era quella che voleva costruire la Torre di Babele. Cosa c’era di male nel costruire una torre per cui quella generazione meritò di essere dispersa in settanta nazioni? Il Creatore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti il medesimo linguaggio; e questa è la prima cosa che fanno; ora nulla li impedirà di condurre a termine ciò che disegnano di fare” (Bereshìt, 11:6). 
            Prima di quella generazione venivano usati materiali naturali per le costruzioni come legno e pietre. In quella generazione avvenne una rivoluzione tecnologica con la scoperta dei metodi per fabbricare mattoni e cemento: “E dissero l’uno all’altro: orsù, facciamo dei mattoni e cuociamoli col fuoco! E così si valsero di mattoni invece di pietre, e di cemento invece di malta” (ibid., 3). Le scoperte archeologiche hanno mostrato che uno dei primi utilizzi  di cemento ebbe luogo a Babele. 
            Queste scoperte avrebbero permesso la costruzione di grandi metropoli. La generazione della Dispersione voleva farsi un nome come è scritto “Edifichiamoci una città e una torre di cui la cima giunga fino al cielo, e acquistiamoci fama” (ibid., 4). Volevano sviluppare una cultura e un’identità. Il successo di Nimrod, il malvagio re di Babele, nel diffondere l’idolatria (‘avodà zarà) dipendeva dalla concentrazione a Babele della civiltà alla cui fondazione egli aveva contribuito. L’inizio dell’opera appariva innocuo. Ma Babele sarebbe diventata il maggiore ostacolo al monoteismo. 
            Nell’anno della Dispersione, Avraham aveva 48 anni e stava per iniziare la sua missione di diffondere il monoteismo. Nel mondo di allora, sotto il controllo totalitario di Nimrod, la cosa sarebbe stata impossibile. Con la Dispersione fu rimosso l’ostacolo alla diffusione del monoteismo tramite il patriarca Avraham.

(Shalom, 20 ottobre 2023)
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Parashà della settimana: Noach (Noè)

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L’IDF mostra al mondo le prove dell’attacco all’ospedale Al-Ahli Arab: “è stato un missile della Jihad islamica”

di Pietro Baragiola

L’attacco all’ospedale Al-Ahli Arab di Gaza è stato considerato tra i fatti più violenti del conflitto israelo-palestinese degli ultimi giorni. Martedì 17 ottobre la struttura medica stava offrendo rifugio ai membri dello staff, ai pazienti e a centinaia di famiglie sfollate quando improvvisamente un razzo è esploso nelle vicinanze dell’edificio, causando la morte di oltre 300 persone.
   Giornali e media di tutto il mondo hanno subito documentato il brutale massacro, basandosi sulle dichiarazioni dei leader palestinesi che hanno prontamente accusato l’aviazione di Tel Aviv come diretta responsabile.
   “L’ospedale non fa parte degli obiettivi delle forze israeliane e stiamo investigando sulla fonte dell’esplosione con serietà e accuratezza. Vogliamo la massima trasparenza perché prendiamo molto sul serio qualsiasi incidente che coinvolga i civili” ha risposto il contrammiraglio e portavoce dell’IDF (Forze di Difesa Israeliane) Daniel Hagari, affermando che, dall’inizio degli scontri, sono stati 450 i razzi di Hamas che sono caduti accidentalmente all’interno di Gaza, causando vittime palestinesi.
   Nelle ultime ore l’indagine di Hagari, supervisionata dai più alti livelli di comando dell’intelligence israeliana, ha condiviso dati e filmati in grado di dimostrare che anche quest’ultimo attacco è stato causato da un razzo della Jihad islamica, scoppiato prima di arrivare a destinazione.

Le prove dell’IDF
   Dopo aver ufficialmente concluso l’After Action Review, Hagari ha indetto una conferenza per mostrare al mondo le prove che hanno permesso di stabilire la colpevolezza della Jihad islamica nella strage dell’ospedale Al-Ahli Arab.
   La prima conferma è arrivata dal fatto che, in base ai dati raccolti dall’IDF, nessuna delle forze israeliane di terra, d’aria o di mare ha sparato missili nell’area dell’ospedale.
   Successivamente, concentrandosi sull’analisi dei sistemi radar, che hanno tracciato tutti i razzi lanciati dai terroristi di Gaza nel momento dell’esplosione, l’intelligence ha scoperto che il missile è partito proprio dai pressi dell’Al-Ahli Arab. Una prova ulteriore di questo fatto è stata data da due video, ripresi dal Kibbutz Netiv Ha’asara e dalla rete televisiva Al Jazeera, che mostrano il lancio fallito del razzo e la sua caduta verso la struttura palestinese.
   “I danni causati da qualsiasi munizione israeliana avrebbero creato crateri e danni strutturali agli edifici circostanti, elementi che in questo caso non sono stati trovati” ha affermato Hagari, mostrando diverse immagini degli effetti delle normali testate israeliane.
   La prova definitiva è arrivata però da una conversazione intercettata dall’IDF, in cui i terroristi di Hamas parlano del lancio fallito e citano specificamente l’ospedale. Questa registrazione è stata poi incrociata con altre fonti di intelligence per confermarne l’accuratezza.

    – Ma vi dico che questa è la prima volta che vediamo un missile del genere e delle schegge del genere,
       quindi vi dico che provengono dalla Jihad Islamica.
    - Che cosa?
    - Dicono che provengono dalla Jihad islamica;
    - Da noi?
    - Sembra proprio di sì!
    - Chi lo dice?
    - Dicono che le schegge vengano da un missile locale e non israeliano.
    - Cosa stai dicendo?
    - Ma dio mio, non poteva esplodere in un altro posto?
    - Non importa ora, si lo hanno sparato dal cimitero dietro l’ospedale.
    - Cosa?!
    - Lo hanno sparato dal cimitero dietro l’ospedale e si è rotto candendo sul posto.
    - C’è un cimitero lì dietro?
    - Sì, proprio nella zona.
    - Dove precisamente nella zona?
    - Entrando nella zona non vai diretto verso la città e lo trovi sul lato destro dell’ospedale.
    – Sì, lo so.

“Questa conversazione dimostra con assoluta certezza che i terroristi avevano capito che era stato un loro razzo lanciato male a causare la strage” ha affermato Hagari. Ciononostante, Hamas ha deciso di lanciare una campagna mediatica globale per nascondere ciò che era accaduto, accusando pubblicamente Israele e gonfiando persino il numero delle vittime (da 300 a 500).

La reazione del mondo
   Civili che cercano disperatamente di scappare attraverso il fumo e le macerie mentre, tra urla di terrore, l’incendio divampa senza controllo: queste sono le immagini che i media di tutto il mondo hanno mostrato nelle ultime ore, citando le dichiarazioni del Ministero della Sanità di Gaza (gestito da Hamas) senza averle prima verificate.
   Così facendo, molte celebri testate come The New York Times hanno inviato breaking news a milioni di lettori con titoli come “L’esercito israeliano uccide centinaia di persone in ospedale”, fomentando inevitabilmente le reazioni in ogni angolo del mondo.
   Sconvolti, i leader politici della Giordania, Turchia, Egitto e Arabia Saudita hanno condannato pubblicamente Gerusalemme per questo attacco, invitando il Paese a “porre fine immediatamente alle politiche di punizione collettiva contro le popolazioni della Striscia di Gaza”.
   Il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Nasser Kanaani, ha definito l’attacco “un brutale crimine di guerra che costituisce una grave violazione dei valori umani più basilari”.
   Persino l’organizzazione Medici senza frontiere si è esposta pubblicamente, dichiarandosi “inorridita dal bombardamento israeliano dell’ospedale” e definendo questo gesto “un massacro assolutamente inaccettabile”.
   Il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha affermato che “gli Stati Uniti sono responsabili dell’attacco a causa della loro continua protezione verso le aggressioni israeliane”. Forte sostenitrice di Hamas, Hezbollah ha invitato i compagni arabi e musulmani di tutto il mondo a “scendere nelle piazze per esprimere la loro immensa rabbia” al grido di “Morte a Israele” e “Morte all’America”. Questo gesto ha scatenato proteste e scontri davanti alle ambasciate americane e israeliane di molti paesi tra cui la Cisgiordania, la Giordania e il Libano, portando persino all’irruzione e al successivo incendio dell’ufficio delle Nazioni Unite a Beirut.
   Nonostante le prove presentate da Hagari abbiano adesso scagionato Israele dalla gogna mediatica, sono ancora molti i paesi che non hanno ritrattato i propri commenti antisemiti.
   Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, precedentemente ritenuto responsabile del massacro deliberato dell’Al-Ahli Arab, ha rilasciato una dichiarazione: “Ora il mondo intero sa che i barbari terroristi di Gaza sono i veri responsabili dell’attacco all’ospedale, non l’IDF. Gli stessi che hanno crudelmente ucciso i nostri bambini uccidono anche i loro figli”.
   Il Primo Ministro si è scagliato contro i media per aver sostenuto le dichiarazioni di Hamas senza averle prima verificate, finendo così per propagare un messaggio antisemita e anti-israeliano che alimenta le stragi di civili innocenti.
   Alon Bar, ambasciatore di Israele in Italia, ha rivolto un appello ai media italiani: “Israele ha le prove che si è trattato di un razzo lanciato dalla Jihad islamica. Ci aspettiamo che i media italiani si attengano ai fatti”.
   “Vogliamo chiarire una cosa” ha concluso Hagari. “Era impossibile sapere cosa fosse successo con la rapidità con cui Hamas ha pubblicamente affermato di saperlo. Questo già avrebbe dovuto destare sospetti in molti.”

(Bet Magazine Mosaico, 19 ottobre 2023)

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Su Israele la sinistra sta sbagliando come con le Brigate Rosse". Parla Furio Colombo

L'ex direttore dell'Unità: "L’antisemitismo, che in Italia era stato una prerogativa fascista, della destra, è penetrato a sinistra, come l’umidità che si diffonde da una parete all’altra della casa"

di Nicola Marenzi

"Su Israele la sinistra sta commettendo lo stesso tragico errore che commise con le Brigate Rosse. Lascia circolare nel suo discorso la propaganda di Hamas, come fosse la limpida voce del popolo palestinese, anziché quella di un’organizzazione terroristica feroce, contro la quale è necessario schierarsi e denunciare, come fece l’operaio comunista Guido Rossa con le Br”. Ex parlamentare dell’Ulivo, direttore dell’Unità, una lunga storia politica e culturale a sinistra, Furio Colombo ascolta le parole di Nicola Fratoianni sulla strage dell’ospedale di Gaza e viene inghiottito dalla “tristezza” e dallo “sconforto”.
   “L’esercito israeliano ha bombardato un ospedale pieno di personale sanitario, feriti e sfollati”, scrive il segretario nazionale di Sinistra Italiana, un’ora dopo la notizia dell’esplosione, attribuendo a Israele un “crimine di guerra”, quando ancora le responsabilità non sono chiare. Dice, invece, Colombo: “Fratoianni si è prestato a rilanciare in rete il volantino della propaganda di Hamas, che dà subito la colpa a Israele, facendosi portavoce della loro versione dei fatti”. La tristezza di Colombo aumenta quando cito un articolo di commento del massacro del 7 ottobre di Patria Indipendente, l’organo ufficiale dell’Anpi, che, dopo aver condannato l’attentato, aggiunge: “Impossibile però ignorare l’occupazione militare illegittima israeliana di parte del territorio palestinese, causa dell’azione armata di Hamas”. Dice: “Non ci posso credere. Ora sarebbe stato Israele ad armare la mano di Hamas? E’ desolante vedere ciò che rimane della Resistenza italiana prestarsi alla grande distribuzione di propaganda islamista”.
   Da tempo, Furio Colombo conduce una battaglia a favore di Israele all’interno della sinistra italiana, via via sempre più solitaria, convinto però che “la sinistra dovrebbe naturalmente stare dalla parte di Israele”. Ha spiegato il perché in due libri oggi introvabili: “Per Israele”, pubblicato nel 1991; e “La fine di Israele”, del 2007. Nei quali ricorda che l’idea di uno stato israeliano nasce all’interno dei movimenti socialisti, tra la fine dell'Ottocento e l’inizio del Novecento; che socialista è l’idea dell’esperimento comunitario del kibbutz; e che da quella tradizione viene tutta la classe dirigente che ha governato Israele fino al 1977. Un dato su cui fece leva anche l’iniziale protesta palestinese, la quale si schierò ufficialmente contro l’afflusso di ebrei stranieri, osservando che molti erano “del tipo rivoluzionario bolscevico”. E oggi? “L’antisemitismo, che in Italia era stato una prerogativa fascista, della destra, è penetrato a sinistra, come l’umidità che si diffonde da una parete all’altra della casa”.
   Nelle piazze filopalestinesi del fine settimana si è infiltrato sotto la maschera dell’“antisionismo”. “Perché dirsi antisionisti oggi è un modo per nascondere il proprio odio per gli ebrei, della cui violenza si prova vergogna”. Non che Colombo stia politicamente dalla parte di Netanyahu. “Sto dalla parte di chi è sceso in piazza a contestarlo”. Né è contro l’idea di uno stato palestinese. “Io sono contro Hamas. Non contro la Palestina”. Però sfugge a chi è sceso in piazza che non ci sono più due popoli e due stati: ce ne sono tre. Gli israeliani, i palestinesi della Cisgiordania e Hamas. “Che fa vivere nel terrore gli abitanti della Striscia di Gaza sotto il suo  potere”. Da Israele, infatti, arrivano voci di intellettuali contro le scelte del governo. “Da Gaza, invece, solo conferme della linea politica di Hamas”.
   Neanche un abitante della Striscia ha avuto da ridire per la situazione in cui Hamas li ha precipitati? “Tutto lì è sottoposto a un controllo totalitario. E dispiace che una parte della sinistra italiana distribuisca o lasci distribuire i volantini della propaganda. Anziché denunciare come Guido Rossa i terroristi”. Che non sono compagni che sbagliano. Sono nemici. “Non solo di Israele. Ma anche della Palestina”.

Il Foglio, 19 ottobre 2023)


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Israele non siamo noi. Israele è Israele

di Marcello Cicchese

Il centro liberale pensante, sopra rappresentato dalla posizione del giornale Il Foglio, e la sinistra socialista pensante, sopra rappresentata nell'articolo dell’ex direttore dell’Unità, si ritrovano uniti nel condannare l’orrore di Hamas. Per il primo il motivo di fondo è la difesa della libertà occidentale, per il secondo è la preoccupazione per un socialismo che rischia di essere contaminato dall’imbecillità dell’antisemitismo, che una volta era patrimonio della destra fascista. Ma che c’entra in tutto questo Israele? Israele come tale, s’intende, non come pedina da muovere all’interno di una ideologia.
   Ma che significa “Israele come tale”? Chi è Israele? Il Foglio, in un suo appello lanciato giorni fa, ha già risposto: “Israele siamo noi”. Noi, cioè la nostra democrazia occidentale, con i suoi “valori” di libertà personale (emergenza covid a parte). Per Colombo invece potrebbe essere il socialismo originario dei kibbutz, opportunamente adattato alle circostanze e purificato di ogni fascistico residuo (leggasi Netanyahu).
   Ma forse come prima cosa bisognerebbe chiederlo direttamente a loro, agli israeliani, che quando cantano “Am Israel chai” ( עם ישראל חי Il popolo d’Israele vive) certamente avvertono sulla pelle che Israele sono anzitutto loro, non noi, generici occidentali che davanti alla televisione amiamo dire “Israele siamo noi” per poi lasciare che siano loro, gli israeliani, soldati e no, a prendere i colpi e rimetterci la pelle sul posto.
   Ma noi occidentali ci consideriamo i fedeli del Bene massimo universale, cioè il dio Democrazia, di cui gli USA sono primogeniti. Il Bene massimo è perennemente in lotta contro l’Avversario massimo, che è il Fascismo. In questa lotta Israele è uno dei nostri. E’ democratico, come noi, dunque dobbiamo difenderlo perché così difendiamo noi, i democratici.
   Sembra che negli ultimi tempi la democrazia israeliana stia correndo seri rischi, dall’interno e dall’esterno. Dall’interno, perché il fascismo teocratico convogliato da Netanyahu ha attentato (così dicono) alla vita stessa della nazione, tanto che qualche israeliano ha detto che se Israele non sarà più democratico, lui parte e se ne va. Mentre qualcun altro dal di fuori ha detto, più pesantemente, che se Israele non è un paese democratico, allora non ha diritto di esistere.
   Il rischio dall’esterno è quello che vediamo in questi giorni. Indubbiamente Israele adesso è in pericolo. Ma Israele è in pericolo perché è democrazia o Israele è in pericolo perché è Israele? Israele è l’unica nazione nel cui nome ישראל è contenuto il nome di Dio: אל. Può essere che la democrazia sia la forma di governo “migliore” per le nazioni dei gentili, che come tali non hanno riferimenti diretti all’unico Dio che ha creato i cieli e la terra, ma quanto a Israele, unica nazione che non è nata come conseguenza della ribellione degli uomini nella pianura di Scinear (Genesi 11:1-9), ma si è formata per una precisa decisione di Dio stesso (Genesi 12:1-3), è possibile che la DEMOCRAZIA, come superiore ideologia onnicomprensiva davanti a cui le nazioni si prostrano sarà l’ultimo idolo pagano eretto in mezzo al suo popolo che Dio abbatterà.   
   No, Israele non siamo noi. Israele è ישראל.

(Notizie su Israele, 19 ottobre 2023)

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Sottoscrizione in favore della città di Ma’ale Adummim

Il Gruppo Sionistico Piemontese e la Nuova UDAI 10.0 lanciano una sottoscrizione in favore della città di Ma’ale Adummim che ha ospitato 70 famiglie sfollate dalle località israeliane adiacenti alla Striscia di Gaza.
Abbiamo parlato con Benny Kashriel, che è sindaco da 30 anni di questa città e che è stato scelto per diventare nel 2024 Ambasciatore di Israele in Italia.
Ma’ale Adummim è nata per volontà di Rabin subito dopo la guerra del Kippur e si è sviluppata fino ad accogliere oggi circa 50000 abitanti, in gran parte funzionari pubblici a Gerusalemme. Si trova oltre la Linea verde, in prossimità di Gerusalemme in direzione del Mar Morto, ed è circondata da villaggi arabi. Oggi la città è una città quasi fantasma perché tutti i cittadini abili sono rientrati nell’esercito.
Pertanto l’amico Benny si è rivolto a noi per chiederci un aiuto, e stiamo facendo circolare questa richiesta anche al di fuori delle nostre Associazioni e del mondo ebraico, come chiediamo a tutti voi di fare.
Potete inviare i vostri contributi al

Gruppo Sionistico Piemontese,
codice IBAN IT39Q08382 01000 000130114627
con l’indicazione: aiuto alla città di Ma’ale Adummim,

e sarà nostra cura pubblicare i nomi (senza i cognomi) dei sottoscrittori con l’indicazione della cifra ricevuta.
Per favore, fate circolare questa richiesta poiché desideriamo aiutare direttamente almeno un gruppo di profughi nei tempi più rapidi possibili.

(Gruppo Sionistico Piemontese, 19 ottobre 2023)

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In tutta Europa ora gli ebrei hanno paura e si nascondono

Attacchi alle sinagoghe, nascoste le kippah, tolte le mezuzah dalle porte: ora si pensa a emigrare. È il ritorno al clima degli anni Trenta. Cronaca antisemita post-7 ottobre

di Giulio Meotti

“Non ho bisogno di accendere la tv: quando vedo auto della polizia di fronte a casa nostra so che è successo qualcosa in Israele”, dice il rabbino capo d’Olanda, Binyomin Jacobs. “C’è una sensazione da anni 30”, come dice Niall Ferguson alla Free Press di Bari Weiss. Ieri mattina, mentre a Roma veniva evacuata una scuola ebraica per una esercitazione in caso di allarme bomba, una sinagoga di Berlino è stata attaccata con bombe molotov e nella capitale tedesca si contano sempre più  episodi di antisemitismo. La comunità di Kahal Adass Jisroel ha visto la sua sinagoga nel quartiere Mitte attaccata con due ordigni incendiari. Alcune ore dopo gli attacchi in Israele del 7 ottobre, in un quartiere di Berlino i musulmani distribuivano caramelle mentre festeggiavano l’attentato. Una donna musulmana di Amburgo ha detto a un’emittente regionale che la sua famiglia ha celebrato Hamas a casa. E proprio in una “sensazione da anni 30”, alcune case di ebrei a Berlino sono state marchiate con la stella di David. In risposta agli incidenti ormai fuori controllo, il cancelliere Olaf Scholz ha detto che il governo non mostrerà alcuna tolleranza per gli atti antisemiti. Le autorità tedesche hanno vietato le manifestazioni pubbliche a sostegno di Hamas e la maggior parte delle altre manifestazioni filopalestinesi.
   Berlino ha proibito di indossare la kefiah e di scandire slogan del tipo “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” – un appello a stabilire uno stato palestinese su tutto l’attuale territorio di Israele, come nel programma di Hamas. Il ministro della Giustizia, Marco Buschmann, ha detto che dal prossimo anno agli stranieri condannati per reati antisemiti sarà impedito di ottenere la cittadinanza tedesca: “Quando l’uccisione di persone assassinate perché ebree viene celebrata proprio nelle strade dove ha avuto origine la Shoah, allora dobbiamo essere in grado di perseguire penalmente coloro che fanno questo”, ha detto Buschmann. “L’odio verso gli ebrei è diventato comune tra i giovani di alcune comunità arabe”, ha scritto Josef Schuster, già presidente del Consiglio centrale degli ebrei, la più grande associazione ebraica in Germania, in un articolo intitolato “I barbari sono tra noi”. “E’ stato allarmante vedere la gente che non ha più il coraggio di uscire per strada indossando la kippah o che vuole rimuovere il proprio nome dai campanelli”. E anche Henry Kissinger, di origine tedesca fuggito dal nazismo da bambino nel 1938, è intervenuto sulla questione: “E’ stato un grave errore lasciare entrare così tante persone di cultura, religione e concetti totalmente diversi”, ha detto alla Welt. 
   In quasi tutte le città tedesche, gli ebrei sono diventati “discreti”. A Bonn, la comunità ebraica ha consigliato di non indossare i simboli della fede in pubblico. Lo stesso hanno fatto l’Abraham Geiger Kolleg a Potsdam, che ha invitato gli studenti a non portare la kippah per strada e la scuola Or Avner di Berlino. Commenta lo Jüdische Allgemeine, il giornale della comunità ebraica tedesca: “A Berlino è da tempo che la vita quotidiana per gli ebrei, da Neukölln attraverso Kreuzberg a Wedding, porta a non indossare simboli ebraici in pubblico. Lo stesso si sente da molte comunità ebraiche, da Kiel a Costanza. Quando politici come Sigmar Gabriel chiedono ‘tolleranza zero’ nei loro discorsi domenicali, ma in tutti gli altri giorni della settimana tollerano l’odio, allora qualcosa è andato storto a Bochum, Berlino e in molte altre città tedesche, dove l’aggressività dei musulmani rende impossibile la vita degli ebrei”. Il commissario contro l’antisemitismo della Repubblica federale, Felix Klein, aveva dovuto ammettere, come in una capitolazione: “Non posso consigliare agli ebrei di portare la kippah ovunque in Germania”.

• Via le mezuzah dalle porte
   Anche in Francia, racconta il settimanale Point, gli ebrei si fanno “invisibili” per evitare di essere aggrediti. Julia  ha deciso con un’amica di rimuovere il proprio cognome dai suoi account social. Ha mantenuto solo le consonanti, per ragioni di sicurezza. Quando si fanno consegnare il cibo, molti ebrei non danno l’indirizzo esatto, ma quello di una o due case vicine, in modo che il fattorino non possa vedere la mezuzah (la scatola contenente brani della Bibbia fissata al telaio della porta). Su Instagram, la titolare dell’account “The French Meuf” spiega tutte le strategie di autodifesa. “Quando prenoto un taxi di ritorno da un viaggio in Israele, fornisco un altro numero di volo”. Yonathan Arfi, presidente del Consiglio di rappresentanza delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif), dice che il rischio è che, a poco a poco, si imponga un “ebraismo del silenzio”. C’è paura fra gli ebrei di Nizza. Non lasciano che i figli camminino da soli per strada. 
   Centinaia di famiglie ebraiche hanno lasciato Tolosa e il presidente della comunità ebraica, Arié Bensemhoun, ha consigliato ai giovani di lasciare la città. Tolosa contava fino a ventimila persone di religione ebraica. Oggi sono rimasti in diecimila. Stesse testimonianze dall’Inghilterra. Rachel, una madre di Manchester, dice: “Non permetto a mia figlia di indossare la sua collana con la Stella di David”. Gabrielle, un’altra mamma della città, ha tolto la mezuzah dallo stipite di casa. Nei dieci giorni successivi all’attacco terroristico, il Community security trust (Cst), un ente che monitora il razzismo antiebraico, ha registrato almeno 320 incidenti in tutto il paese, con un aumento del 581 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. La scuola ebraica a Kenton, a nord-ovest di Londra, è circondata da massicci blocchi di cemento per fermare gli attacchi dei veicoli, mentre le guardie controllano il perimetro. Ma la settimana scorsa, il preside della scuola, che esiste da 291 anni, ha scritto ai genitori: “Se gli studenti volessero non indossare il manto di preghiera, allora capirei questa decisione. Pertanto, saranno facoltativi”. E il premier inglese Rishi Sunak ha annunciato un finanziamento aggiuntivo di tre milioni di sterline per il Cst per proteggere scuole, sinagoghe e altri edifici comunitari. “Negli ultimi cinquant’anni la popolazione ebraica in Europa è diminuita del sessanta per cento e un calo simile è previsto nei prossimi trent’anni”, scrive Eldad Beck sul maggiore giornale israeliano, Israel Hayom. E Natan Sharanksy, l’ex refusnik sovietico, ha detto: “Stiamo assistendo all’inizio della fine della storia ebraica in Europa”.

• Niente simboli ebraici
   Anche la congregazione ebraica di Göteborg, in Svezia, ha consigliato ai suoi membri di non portare pubblicamente alcun simbolo ebraico e di non parlare ebraico in pubblico. Mercoledì il primo ministro svedese, Ulf Kristersson, ha visitato la congregazione ebraica di Malmö ed espresso preoccupazione per il rischio di un aumento dell’antisemitismo in Svezia. Tutti i sette figli del rabbino capo dell’Olanda Jacobs, tranne due, hanno lasciato i Paesi Bassi per Israele e altrove. Come ha fatto Benzion Evers, figlio del rabbino di Amsterdam. “Emigrare è per noi una soluzione e lo farà il sessanta per cento della comunità”. Cinque dei suoi fratelli e sorelle hanno d'altronde già fatto lo stesso passo. La situazione per la comunità ebraica olandese è diventata così preoccupante che il rabbino Jacobs ha detto che “la gente sta discutendo di rimuovere le mezuzah dal momento che li identifica come tali”. Joel Mergui, presidente del Paris Consistoire, l’organo dell'ebraismo francese responsabile delle funzioni religiose, rivela che tutti e quattro i suoi figli si sono trasferiti in Israele. Meyer Habib, ex parlamentare francese e vicepresidente delle comunità ebraiche, ha affermato che due dei suoi quattro figli vivono in Israele. Il rabbino capo di Parigi, Michel Gugenheim, ha otto figli, tutti andati a vivere in Israele. 
   L’immigrazione in Israele dal Belgio è così aumentata del 20 per cento in dieci anni. Un “esodo silenzioso”, come lo definisce uno dei capi della comunità ebraica belga, Joel Rubinfeld, per cui “le sinagoghe ora sono vuote e in vendita. Nel 2000 erano 40 mila. Oggi sono 30 mila”. Jacob Benzennou, presidente della Comunità ebraica di Waterloo, la città belga vicino a Bruxelles teatro della leggendaria sconfitta di Napoleone nel 1815, oggi ospita appena 250 ebrei. “La sinagoga di Waterloo non ha un minyan” (dieci fedeli ebrei necessari per la preghiera). I Jacobs rimarranno ad Amersfoort “finché ci sarà bisogno della nostra presenza”, dice Blouma Jacobs. Devono preparare il trecentesimo anniversario della sinagoga nel 2027. “Dopo, vedremo”.

Il Foglio, 19 ottobre 2023)

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L’equivalenza insostenibile

di David Elber

Un’altra drammatica conseguenza dell’eccidio compiuto dalle squadre della morte di Hama il 7 ottobre scorso, è  il graduale emergere di una equivalenza insopportabile e insostenibile, mettere la morte dei civili palestinesi vittime dei raid israeliani a Gaza sul medesimo piano dei civili israeliani trucidati da Hamas. Questa equivalenza è sia ipocrita che falsa, il suo unico scopo è unicamente quello di criminalizzare Israele equiparandolo ai terroristi palestinesi.  
   Secondo questa logica abbietta, non c’è distinzione tra la programmatica volontà di uccidere i civili e la morte di questi ultimi come conseguenza collaterale e sempre, purtroppo, inevitabile, di ogni guerra ma, conta solo il loro numero. Se il numero dei morti civili di uno dei due contendenti è più alto, si tratterebbe di quello che è moralmente dalla parte della ragione. 
   Proveremo a descrivere il perché e il come sono avvenute le uccisioni dei civili. Partiamo dall’eccidio perpetrato da  il 7 ottobre, senza eguali nella storia di Israele pur avendo la stessa dinamica di azione e reazione di innumerevoli episodi passati. 
   L’azione compiuta dai terroristi palestinesi di Hamas aveva un fine chiaro, lo sterminio di quanti più ebrei possibile. Questa azione di sterminio è stata accompagnata da atti di inumana crudeltà, ripresi dagli stessi esecutori a fini propagandistici, anche verso persone particolarmente indifese: bambini, neonati e anziani. Essi non sono stati colpiti a distanza perché si trovavano nei pressi di basi militari, ma sono stati uccisi casa per casa a sangue freddo: in pratica erano i civili stessi il vero obiettivo dell’azione. Sono stati omicidi volontari con l’aggravante della crudeltà, del sadismo e dello scempio.
   L’azione militare intrapresa da Israele, come quelle avvenute in passato, non ha unna intenzione omicida programmatica nei confronti della popolazione civile palestinese. I morti civili a Gaza sono causati del fatto che la popolazione è utilizzata volontariamente dai terroristi palestinesi, come scudo umano. A riprova di ciò, è facile dimostrare che quest’ultimi hanno disseminato le installazioni militari di comando, comunicazione, stoccaggio delle armi, depositi di esplosivi e rampe di lancio per razzi e missili, sia tra le case, gli ospedali, le scuole, le moschee, sia sotto terra tramite una rete di tunnel (di diversi chilometri) sottostante i centri densamente popolati. Inevitabilmente, una qualsiasi risposta militare in questo teatro di guerra provoca, e ha provocato, la morte dei civili.
   Israele è ben consapevole che i terroristi palestinesi, attuano questa forma di “protezione” dei propri centri militari tramite lo “scudo” delle abitazioni civili (modalità severamente vietata da tutte le convenzioni internazionali relative alla guerra), di conseguenza ha sviluppato, unico paese al mondo, delle tecniche di avvertimento per la popolazione al fine di evitare il più possibile il suo coinvolgimento. Le tecniche più utilizzate sono: avvertimento tramite chiamata telefonica nell’area che si andrà a colpire, oppure segnalazione dell’obiettivo che sarà colpito con un missile senza carica esplosiva per far allontanare i civili. Ovviamente, di questi avvertimenti, ne approfittano anche i terroristi per scappare sapendo con precisione cosa sarà colpito.
   Per il comando israeliano è più importante evitare al massimo le vittime civili, anziché, colpire in maniera più efficace i terroristi. Nessun altro esercito al mondo ha mai adottato tecniche simili in altri teatri di guerra, tanto è vero che, nelle accademie militari e nei centri di addestramento di molti paesi, le tecniche utilizzate da Israele sono studiate e prese a modello.
   Tutte le statistiche sui conflitti armati, rilasciate dal comando americano o dai paesi NATO, forniscono chiare indicazione del fatto che le azioni militari israeliane compiute a Gaza sono quelle che hanno prodotto il minor numero di morti civili rispetto a qualsiasi altra azione militare intrapresa dagli eserciti di tutto il mondo. Questi dati comprendono anche gli USA e i paesi della NATO, per i quali la priorità è  sempre quella di tutelare i propri soldati. Tra queste azioni militari si possono ricordare la Prima guerra del Golfo (sotto egida ONU) quella in Somalia (sotto egida ONU),  e di seguito in Serbia, Afghanistan, Iraq, Siria. Ognuna di queste operazioni militari ha causato un numero di morti tra i civili enormemente superiore, benché, la densità abitativa in ogni teatro  di guerra citato fosse molto più bassa di quella di Gaza. Quindi, accusare Israele di uccidere deliberatamente i civili, come fanno, invece, i terroristi palestinesi, è  falso in modo esorbitante.
   Il diritto internazionale su questo punto è chiaro, la totale responsabilità dei morti civili, se sono utilizzati come scudi umani, o semplicemente dimorano nelle immediatezze degli obiettivi militari, è esclusivamente di chi installa tali obiettivi tra la popolazione civile. Il solo fatto di svolgere azioni militari da installazioni ubicate tra le case, rende ipso facto, tali abitazioni legittimi obiettivi militari. In più, è utile anche ricordare che, il non utilizzare abiti riconoscibili (divise) da parte di milizie armate, soprattutto nei centri urbani, è una grave violazione delle leggi di guerra perché rendono indistinguibili le milizie dai civili disarmati, trasformando questi ultimi in possibili obiettivi militari.  
   Quanto esposto fino ad ora, non significa che “un morto vale meno di un altro” ma che le azioni e le motivazioni che hanno come conseguenza non intenzionale le uccisioni dei civili, sono moralmente diverse e non equiparabili a quelle che lo sono intenzionalmente, oltre che essere discriminabili tra legali e illegali. 
   Mettere sullo stesso piano chi ammazza a sangue freddo, volontariamente, e in modo efferato con chi, involontariamente, uccide delle persone perché si trovano nell’immediatezza di un chiaro obiettivo militare, è immorale e pericoloso. Pericoloso, perché se uno Stato non potesse reagire ad una strage per il fatto che l’avversario utilizzi la propria popolazione civile come scudo umano, non è assolutamente vero che la spirale della violenza cessi. È sicuro il contrario, si verificherebbero più attentati e più stragi perché il chiaro intento di organizzazioni criminali come Hamas è lo stermino, non il benessere della propria popolazione. Per quanto costosa in vite umane possa essere, una risposta militare adeguata ai crimini commessi da Hamas, deve essere la sua distruzione. 

(L'Informale, 18 ottobre 2023)

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Consegnato a Matilde Celentano il manifesto per Israele e la bandiera con la stella di Davide

di Lidano Grassucci

Crediamo che l’indifferenza condita con la cattiva coscienza siano il male del tempo presente.
Davanti all’ attacco, di una ferocia inaudita, contro Israele è nostro dovere esprimere vicinanza a questo paese, alla sua libertà che è libertà di tutti.
Questo brevissimo manifesto, che sottoscriviamo, è aperto a tutti coloro che amano la libertà, che condividono i valori dell’umanesimo europeo.
Con Israele senza se e senza ma...

(Fatto di Latina, 18 ottobre 2023)

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Operazione “Spade di ferro” - Giorno 12

di Ugo Volli

L’ospedale di Gaza
  L’evento dominante della giornata di ieri, dal punto di vista dell’informazione, è stata un incendio nel cortile o nel parcheggio di un ospedale di Gaza, con molte vittime. Alle sette di sera, mentre era in corso un lancio di missili di grandi dimensioni da Gaza verso il nord di Israele, si è sviluppato una grande fiammata (senza esplosione, a quel che si vede dai filmati) intorno all’ospedale di Al Ahdi di Gaza City, che ha provocato numerose vittime, non è chiaro quante esattamente. Hamas ha subito denunciato Israele come responsabile del “bombardamento” che avrebbe provocato l’incidente, ma l’esercito israeliano ha smentito di aver bombardato il luogo e ha anche mostrato il video che mostra come la causa sia stata il fallimento del lancio di uno dei grandi missili che i terroristi sparavano in quel momento verso la città di Haifa. Accade molto di frequente, intorno al 5-10% dei casi, che i razzi tirati dai terroristi siano difettosi e ricadano sul loro stesso territorio o in mare. Questo è stato evidentemente il caso anche dell’incidente di ieri. Dato che la versione di Hamas è stata largamente accettata senza verifiche dai media, soprattutto in Italia, vale la pena di precisare che l’esercito israeliano è abituato ad assumersi le sue responsabilità, quando per caso sbaglia e che in tutta la guerra e anche nelle operazioni precedenti, i bombardamenti dell’aeronautica sono sempre stati mirati a singoli terroristi o istallazioni militari, mai indiscriminati e mai su luoghi affollati di civili. Che si creda a Hamas, abituato a mentire spudoratamente e non a Israele, è dunque il frutto di un pregiudizio purtroppo diffuso.

Le conseguenze
  L’incidente dell’ospedale ha suscitato numerose conseguenze. Vi sono stati gravi assalti all’Ambasciata israeliana di Amman e al Consolato di Istanbul, manifestazioni violente nelle città arabe di Giudea e Samaria, l’Autorità Palestinese ha dichiarato un lutto nazionale di tre giorni, è stata annullata la conferenza che Biden avrebbe dovuto tenere proprio ad Amman con i leader di Giordania, Egitto e Autorità Palestinese, cortei anti-israeliani sono previsti in tutto il mondo arabo, in Europa e negli Stati Uniti. In generale aumenta la pressione già fortissima perché Israele sospenda o almeno depotenzi la guerra con Hamas.

Le visite diplomatiche
  Dopo il ministro degli Esteri e vicepremier italiano Taiani, che è stato il primo leader occidentale ad andare in Israele per mostrare solidarietà, le visite si moltiplicano. L’altro ieri è andata la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen; ieri è toccato al primo ministro tedesco Olaf Scholz e a quello rumeno Ion-Marcel Ciolacu. Oggi tocca a Biden, preceduto da una fittissima rete di visite e di riunioni del suo Segretario di Stato Blinken; nei giorni prossimi sarà il turno di Emmanuel Macron e del primo ministro britannico Rishi Sunak. Insomma, la diplomazia occidentale si è fortemente concentrata su Gerusalemme. Si tratta evidentemente di una dimostrazione di solidarietà, che in certi casi come gli Usa e la Gran Bretagna è diventata anche molto concreta, con il rifornimento di armi e l’avvicinamento di potenti mezzi navali, che dovrebbero rendere più difficile l’intervento nella guerra di Hezbollah e del grande burattinaio del terrorismo in Medio Oriente e protettore di Hamas, la Repubblica Islamica dell’Iran. Israele ne è certamente molto grato.

Le pressioni
  Ma in questo attivismo diplomatico vi è anche un forte rischio. Secondo una politica consolidata, gli occidentali condividono l’idea che nei rapporti internazionali l’uso della forza debba essere il più moderato possibile e che le armi debbano sempre cedere il passo alla diplomazia, appena possibile. Sembra un’idea ragionevole, anzi virtuosa, ma essa non considera gli abissi di odio e di violenza del terrorismo anti-israeliano. La conseguenza di questa impostazione sarebbe quella di impedire a Israele di portare fino in fondo la guerra a Hamas, innanzitutto rompendo l’assedio a Gaza e permettendo a Egitto e Turchia di portare aiuti che finirebbero innanzitutto alle truppe terroriste, poi impedendo l’azione di terra che è necessaria per spiantare davvero le organizzazioni del terrore a Gaza, e infine limitando i bombardamenti aerei e proclamando un cessate il fuoco immediato, come ha chiesto anche ieri il segretario dell’Onu Gutierrez, in visita anche lui in Medio Oriente, ma in Egitto, non in Israele. Questa pressione era già in atto prima dell’incidente dell’ospedale: vi sono resoconti di una lunghissima riunione fra Blinken e il gabinetto di guerra israeliano in cui è stato discusso per ore un documento presentato dal Segretario di Stato che imponeva la riapertura del valico di Gaza e sull’ingresso degli aiuti in cui il governo israeliano ha cercato di assicurarsi almeno garanzie che non sarebbero passati materiali militari. Ora è chiaro che Biden cercherà di probabilmente di far passare proprio un cessate il fuoco. Bisogna sapere però che se l’operazione contro i terroristi non venisse portata fino in fondo, sarebbe una gravissima sconfitta per Israele, per l’Occidente e per la pace che preluderebbe entro breve termine a nuovi grandi atti di terrorismo e a nuove guerre. Ogni concessione alle organizzazioni terroriste rafforza la loro strategia di morte.

Le operazioni
  Nel frattempo ieri e oggi le operazioni dell’esercito israeliano proseguono. Vi sono stati scambi al confine nord con Hezbollah, con una tendenza alla crescita dell’intensità dei combattimenti. A Gaza l’aviazione israeliana ha eliminato alcuni importanti capi terroristi, fra cui vale la pena di citare uno dei loro più importanti comandanti militari, Amin Nofal, probabilmente il numero tre o quattro dell’organizzazione militare di Hamas.

(Shalom, 18 ottobre 2023)

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Qualcuno aveva avvertito del massacro, ma nessuno gli ha dato retta

Lunedì il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha incontrato l'ex generale Yitzhak Brick presso il quartier generale militare di Tel Aviv. Yitzhak Brick è probabilmente l'unico generale che ha messo in guardia per anni da questo scenario orribile. Netanyahu voleva sapere da Brick personalmente qual era la sua posizione su come combattere la guerra. Un'invasione di terra di Gaza non è l'unica opzione. Per quanto riguarda gli attacchi missilistici dal nord, Israele deve prepararsi a una guerra su più fronti. Tra le altre cose, Brick ha messo in guardia dai problemi di competenza delle forze di terra e ha chiarito che l'invasione di terra non deve essere un passo obbligatorio. Ma secondo Brick, Israele deve urgentemente "cambiare il suo hard disk", cioè avere un cambiamento fondamentale.

di Aviel Schneider

Yitzhak Brick
Il generale Brick ha messo in guardia per anni sugli scenari di orrore che tutti abbiamo visto in diretta nel sud di Israele dalla mattina dello Shabbat nero. Ma nel sistema di sicurezza e nella leadership politica dello Stato, le sue interpretazioni strategiche non sono state notate, Yitzhak Brick è stato addirittura considerato un illusionista.
"Può esserci un massacro, lo Stato di Israele non ha ancora riconosciuto il pericolo", aveva avvertito Brick. "Abbiamo la sensazione tra la gente che tutto sia ottimo e non ci siano rischi, ma al pubblico non viene detto che le forze (di Hamas) si stanno preparando. Si tratta di combattenti equipaggiati e addestrati, che attraverseranno il confine a piedi e attaccheranno e occuperanno i nostri insediamenti nel sud. C'è un'altissima probabilità che ciò accada. Hamas catturerà gli insediamenti, lancerà granate nei bunker e nei rifugi e causerà un massacro. I cittadini, io e voi, dovremo difendere gli insediamenti perché l'esercito non sarà presente". 
Brick ha pronunciato queste parole mesi fa, ma nessuno gli ha dato ascolto. Dopo il massacro nel sud, ora tutti hanno un orecchio per il generale Brick, persino Bibi.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e Brick hanno parlato del proseguimento della guerra contro le organizzazioni terroristiche a Gaza e degli sviluppi al confine libanese. Il generale ha chiarito a Netanyahu che la sua posizione è quella di continuare la guerra chirurgica, dividere le forze e trovare una soluzione attraverso un assedio ermetico di Gaza e dei civili palestinesi. Il suo punto di vista contrasta con la posizione tattica dello Stato Maggiore, che ritiene che nessun successo a Gaza sia possibile senza un’invasione di terra israeliana.
Brick ha avvertito che le forze israeliane si sono trasformate in una forza aerea e ha criticato la leadership di Tel Aviv per la sua sensibilità alle perdite umane sul terreno. "La situazione delle forze di terra oggi è tragica, non sono pronte per la guerra. I rifornimenti di emergenza non sono pronti, le esercitazioni sono cessate e i battaglioni non si addestrano da anni. Non c'è nemmeno formazione e addestramento sulle armi, e l'esercito non è in grado di portare a termine un attacco".
L'ex difensore civico ha aggiunto che la tecnologia da sola non basta per vincere le guerre. "La verità è che è stata creata una realtà immaginaria dall'alto comando e attraverso il portavoce dell'esercito. Inoltre, negli ultimi anni, i soldati hanno perso la motivazione e lo spirito combattivo, molti non sono pronti ad andare in battaglia".
"Chi vuole evitare completamente di perdere sul campo di battaglia perde completamente la deterrenza dell'esercito e la capacità di vincere la guerra. Questo tipo di pensiero e di gestione dei livelli di sicurezza porterà in ultima analisi a un maggior numero di vittime in guerra", ha dichiarato lo scorso maggio Brick al Canale 12.
Brick ha aggiunto che l'esercito di terra e il sistema di riserve di Israele sono stati costantemente ignorati: "Abbiamo perso la capacità di combattere tra eserciti e siamo diventati una forza aerea monodimensionale che non può vincere una guerra da sola". A suo avviso, le forze di terra di Israele non sono pronte per la guerra. L'avvertimento fa seguito a una serie di sondaggi che mostrano come gran parte dei cittadini israeliani abbia perso fiducia nel futuro del Paese. Ciò è stato particolarmente evidente nell'ultimo anno, quando il popolo era diviso sulla direzione politica e giudiziaria.
"Nel mio ruolo di generale, ho visitato più di 1.400 unità e parlato con decine di migliaia di comandanti e soldati, da tre a quattro volte alla settimana, per quattro ore in ogni unità. Conosco l'esercito sul campo meglio di chiunque altro nelle Forze di Difesa Israeliane", ha detto Brick anni fa. "Ho visto soldati che non si prendono cura delle loro armi prima di lasciare la base. Nessun esercito al mondo si comporta così. I soldati hanno con sé i loro smartphone ovunque. Gli ordini vengono inviati tramite gruppi WhatsApp. Questi telefoni vengono rintracciati dal nemico".
Non solo, si dice che gli ordini siano stati inviati via e-mail e poi cancellati, senza lasciare alcun seguito. "Il nostro sistema ha perso ogni controllo. Siamo impazziti? Non riesco a dormire la notte. Le nostre forze di terra e i nostri corpi corazzati non sono pronti per la guerra", ha avvertito continuamente Brick.
"Quello che vi presento qui, non lo sentirete dai principali comandanti dell'IDF. Non solo molti dei comandanti non sanno nulla, ma anche quelli che sanno hanno paura di parlare per non essere puniti", ha scritto, esortando i membri del Comitato per la sicurezza e la politica estera della Knesset a parlare con i soldati professionisti sul campo e sul terreno.
"Lasciate che vi mostrino cosa sta succedendo, condividete con loro i loro problemi e le loro difficoltà. Non saranno i comandanti di divisione, brigata e battaglione a farvi conoscere la realtà che prevale sul campo. Dovreste imparare da coloro per i quali è la routine della loro vita... Le loro dichiarazioni sono la verità".

L'intero apparato di sicurezza di Israele ha fallito e si è affidato troppo alla tecnologia mista ad arroganza. Ma è sempre così nella storia, spesso chi non canta in coro con il gregge viene chiamato pazzo, come il generale Brick che vide il pericolo dal basso.
(Israel Heute, 18 ottobre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La pietà non va dalla parte degli ebrei

Gli ebrei notano con rammarico che le vittime israeliane dei massacri di Hamas “non hanno diritto alla considerazione data dalle opinioni occidentali alle vittime palestinesi”. Stato sotto accusa da parte della comunità internazionale per il suo mancato rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite, Israele si sente e sa di non essere amato.

(dayFRitalian, 18 ottobre 2023)
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"Israele si sente e sa di non essere amato". E' proprio così, e si sapeva da molto tempo. Ma per chi ama Israele, sia egli ebreo o no, è sgradevole doverlo riconoscere ogni volta in un modo sempre nuovo. Che cosa sono i cortei filopalestinesi che proprio adesso, dopo quello che è accaduto, si è presa la briga di organizzare? Al di là di tutte le considerazioni politiche, che cosa emerge alla base di quello che hanno fatto i "miliziani" di Hamas il 7 ottobre? La risposta è semplice: odio. Puro odio verso lo Stato di Israele in quanto stato degli ebrei, e dunque odio verso gli ebrei. E' così difficile capirlo? Sì, è difficile per chi in qualche misura ne è partecipe. Perché non lo avverte, quindi non capisce perché mai lo si accusi di sentimenti così ignobili. Lui non odia gli ebrei, non è come i trogloditi di Hamas che sparano a vecchi e sgozzano bambini. Lui dice soltanto che però gli ebrei... M.C.

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Siete sicuri di volere una reazione proporzionale di Israele?

di David Spagnoletto

Quando si tratta di discutere sulle azioni di Israele, si fa spesso ricorso a una retorica che fa capo alla moralità.
Nel vocabolario della retorica c’è un termine che ricorre e mai come in questi giorni se ne sta facendo uso, anzi abuso: proporzionalità.
Israele ha abituato il mondo a grandi salvataggi dei suoi cittadini, a imprese di intelligence che neanche il miglior sceneggiatore di film avrebbe potuto scrivere.
Israele ha abituato il mondo a non reagire quando attaccato dai missili, come in occasione della prima guerra del Golfo, quando l’allora primo ministro israeliano Shamir non rispose agli Scud sparati dall’Iraq di Saddam Hussein.
Una cosa rara, ai limiti dell’assurdo. Uno stato sovrano attaccato da un paese guidato da un dittatore che decide di non reagire.
Perché è questo che vorrebbero gli antisemiti. Vorrebbero che Israele non si difendesse dai quei barbari assassini e assetati di sangue dei terroristi di Hamas. Perché ciò che fa Hamas è la risposta a ciò che fa Israele.
Ecco allora che i finti benpensanti e veri antisemiti sono costretti ad attingere a quel vocabolario retorico, di cui la proporzionalità ne è un lemma assai importante.
Nelle loro menti l’utilizzo del termine proporzionalità dovrebbe limitare le reazioni di Israele al terrorismo palestinese.  
Mettiamo che abbiano ragione. Mettiamo anche Israele dovrebbe restituire al nemico il terrore proporzionale rispetto a quanto ricevuto.
Israele, quindi, dovrebbe entrare a Gaza e deportare civili in pigiama. Dovrebbe esibire al mondo anziani, bambini, donne, uomini, come trofeo della propaganda. Come fatto da Hamas lo scorso 7 ottobre.
Israele, quindi, dovrebbe entrare a Gaza e uccidere più civili possibile. Dovrebbe entrare nelle case, sterminare intere famiglie, sgozzare i bambini e togliere la vita anche ai cani. Come fatto da Hamas lo scorso 7 ottobre.
Israele, quindi, dovrebbe entrare a Gaza e stuprare le donne del posto. Come fatto da Hamas lo scorso 7 ottobre.
Israele, quindi, dovrebbe entrare a Gaza e uccidere 250 ragazzi che stavano partecipando a un rave. Come fatto da Hamas lo scorso 7 ottobre.
Ai finti benpensanti e veri antisemiti di cui sopra: siete sicuri di volere una reazione proporzionale Israele?

(Progetto Dreyfus, 16 ottobre 2023)


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Quelli che…

Cosa c’è peggio dell’orrore che gli ebrei d’Israele hanno subito e che ci opprime ogni ora di più?
Quelli della “equidistanza”, per ingenuità o propria immagine, che ancora non hanno capito o deciso. Quelli che “speriamo la situazione non peggiori” o della “pace a tutti i costi” con chi ha fatto della morte, tua e di tutti gli altri ‘miscredenti’, la sua missione di vita. Quelli che sostengono e finanziano – o anche solo applaudono e celebrano – fior di criminali. Quelli che “Hamas ha sbagliato, ma anche Israele ha le sue colpe”. Quelli che “i palestinesi tirano solo i sassi” e “i razzi di Hamas non uccidono”. Quelli che “la risposta di Israele deve essere “proporzionata”. Quelli che si dicono preoccupati ma solo dei bambini di Gaza o della reazione di Israele, senza neanche citare – o mostrarsi dispiaciuti per – i suoi lutti.
[...]
Quelli come te. Quelli come te mi fanno orrore quanto quelli di Hamas....

(Progetto Dreyfus, 17 ottobre 2023)

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5 modi per pregare per Israele e Gaza

Un appello da PorteAperte /OpenDoors

Sabato 7 ottobre, i combattenti di Hamas – organizzazione militante e politica islamica che governa Gaza – hanno colto di sorpresa le autorità israeliane con una serie di attacchi armati che hanno dato origine a un’escalation di violenza terribile.
Attraverso la rete dei nostri partner locali sappiamo che a Gaza vivono più di 1.000 cristiani e che, naturalmente, sono numerosi anche i cristiani in Israele.
Di seguito proponiamo 5 soggetti di preghiera ricevuti dal campo, un modo per stare al fianco di chi soffre e per sostenere la Chiesa in questo momento difficile.

  1. Pregate per le famiglie in Israele che piangono i propri cari. Dopo gli attentati, la Società Biblica in Israele ha pubblicato sul suo sito il seguente messaggio: “Siamo sotto shock. Arrabbiati. In lutto. In poche ore, centinaia di vite sono state spezzate. Donne, uomini, bambini, anziani. In migliaia sono feriti e tanti presi in ostaggio. […] Non c’è famiglia che non abbia perso un familiare o un amico. Abbiamo bisogno delle vostre preghiere. Pregate perché Dio usi questo tragico evento per indurre le persone a cercarLo”.
  2. Pregate per i cristiani in Gaza, terrorizzati da ciò che stanno vivendo. “Ci sono esplosioni e distruzione ovunque. I bambini urlano, piangono e c’è una grande paura. Non è un luogo sicuro qui e non riusciamo più a prendere sonno. Siamo esausti, fisicamente e moralmente. Non sappiamo cosa fare”, ha condiviso un credente locale.
  3. Pregate che Dio operi attraverso questa situazione per portare più persone a Lui. E che il Suo popolo possa essere sale e luce, ora più che mai. Crediamo che il Signore possa trarre il bene dal male, anche quando questo sembra impossibile. Ora i nostri fratelli e le nostre sorelle ci chiedono di pregare coraggiosamente per l’impossibile: che la guerra finisca e che l’indebolimento della fiducia nel governo e nei leader militari porti le persone a cercare riparo e aiuto all’ombra del Creatore del cielo e della terra! “Pregate che i cristiani possano essere la luce nel mezzo dell’oscurità, per riflettere l’amore di Cristo”, dice un cristiano locale.
  4. Pregate per coloro che sono stati cacciati dalle proprie case, per gli sfollati come anche per chi è stato preso in ostaggio e per le loro famiglie. Che Dio possa essere con loro e mostrare il Suo volto e la Sua misericordia a coloro che Lo cercano.
  5. Infine, pregate per la pace.
“Pregate con noi. Pregate che il Signore fermi questa guerra!” – un nostro partner locale in Gaza.
“Pregate con noi affinché Dio si riveli e intervenga nella vita dei leader le cui decisioni di questi giorni stanno determinando il futuro di così tante persone! Che possa il nostro Dio amorevole portare fine a questo disastro” – Società Biblica in Israele.

(Porte Aperte Italia, 17 ottobre 2023)

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Come Israele traccia in tempo reale l’evacuazione da Gaza Nord

di Patrick Kingsley and Ronen Bergman 

In una sala di controllo senza finestre in una base militare nel sud di Israele, cinque soldati hanno monitorato lo sfollamento di centinaia di migliaia di gazesi su un enorme schermo di computer.
   Lo schermo mostrava una mappa in tempo reale del nord di Gaza, l’area densamente popolata da circa 1,1 milioni di residenti a cui venerdì l’esercito israeliano ha detto di dirigersi verso sud per la propria sicurezza. Utilizzando i dati raccolti principalmente da oltre un milione di telefoni cellulari, la mappa ha fornito ai soldati una valutazione in tempo reale di quanti gazesi avessero ascoltato la richiesta di Israele.
   Le Forze di Difesa Israeliane hanno per giorni fatto intendere che presto inizieranno un’operazione di terra nel nord di Gaza per spodestare Hamas, il gruppo armato palestinese che controlla Gaza e che il 7 ottobre ha orchestrato i peggiori attacchi terroristici nella storia di Israele, uccidendo più di 1.400 persone e rapendone almeno altre 199. I contrattacchi israeliani hanno ucciso più di 2.800 palestinesi, secondo le autorità sanitarie di Gaza.
   L’esercito israeliano ha permesso a un giornalista del New York Times di vedere il sistema di tracciamento dei dati, sperando di dimostrare che sta facendo il possibile per ridurre i danni ai civili.
   Alcuni quartieri erano colorati di bianco e rosso sullo schermo, suggerendo che ospitavano ancora la maggior parte dei loro residenti. Ma un numero crescente di aree diventava verde e giallo, segnalando che la maggior parte dei residenti se n’era andata.
   “Non è un sistema perfetto al 100%, ma fornisce le informazioni necessarie per prendere una decisione”, ha dichiarato il generale di brigata Udi Ben Muha, che supervisiona il processo di monitoraggio. “I colori dicono cosa si può o non si può fare”, ha detto il generale Ben Muha.
   Con i leader politici che devono ancora dare il via libera definitivo a un’operazione di terra, lunedì l’esercito israeliano è rimasto bloccato in una situazione di stallo. Lunedì sera, le sue truppe sono rimaste ammassate al confine con Gaza, senza ancora avanzare. L’esercito stava osservando quanti civili avessero lasciato il nord di Gaza.
   Stava anche fornendo addestramento ed equipaggiamento dell’ultimo minuto alle centinaia di migliaia di riservisti militari che erano stati richiamati per lo sforzo bellico. E i giorni in più hanno dato ai diplomatici il tempo di condurre negoziati dell’ultimo minuto – e finora senza successo – per aprire il confine di Gaza con l’Egitto agli sfollati e ai convogli di aiuti.
   Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, ha anche invitato il presidente Biden a visitare Israele questa settimana, ed è improbabile che i militari complichino la sua visita iniziando un’invasione mentre si trova sul suolo israeliano, hanno detto gli analisti.
   “L’operazione di terra comporterà molte vittime da entrambe le parti”, ha dichiarato Miri Eisin, ex ufficiale militare di alto livello e direttore dell’Istituto internazionale per l’antiterrorismo dell’Università Reichman in Israele.
   “Non è il caso di farlo quando il presidente degli Stati Uniti è qui”, ha aggiunto.
   Nel frattempo, tre alti comandanti israeliani hanno dichiarato che stanno sfruttando ogni momento per preparare i riservisti alla guerra di terra. L’operazione prevista sarà la prima in quasi 15 anni in cui Israele tenterà di catturare e mantenere un territorio per un periodo prolungato. Molti soldati a tempo pieno non hanno mai condotto un’operazione del genere, per non parlare dei 360.000 riservisti richiamati dal loro lavoro quotidiano dopo gli attacchi di Hamas.
   Una minoranza significativa dei fanti e delle unità di carri armati che potrebbero essere dispiegati a Gaza sono riservisti, secondo tre alti ufficiali. Si ritiene che le Forze di Difesa Israeliane avessero 200.000 soldati in servizio attivo prima del richiamo, di cui tre quarti erano soldati di leva, ma non ci sono cifre ufficiali.
   L’esercito ha avuto bisogno di tempo per rifornirsi di un equipaggiamento sufficiente per il suo esercito. Mentre i commando israeliani hanno tutti un equipaggiamento protettivo sufficiente, l’esercito sta ancora cercando di procurare giubbotti protettivi per alcuni riservisti, secondo un alto ufficiale. Diverse famiglie hanno anche detto di aver ottenuto privatamente i giubbotti per i figli che sono stati chiamati alle armi.
   Nel frattempo, un numero maggiore di civili palestinesi sta lasciando il nord di Gaza, anche se per raggiungere le condizioni disastrose del sud, dove mancano alloggi, carburante, acqua, medicine e cibo – e dove continuano anche gli attacchi israeliani.
   Molti palestinesi affermano di temere che Israele cerchi di costringerli ad andare in Egitto, per non tornare mai più, in un’espulsione di massa che paragonano alla Nakba, un termine arabo che si riferisce alla fuga o all’espulsione di 700.000 arabi palestinesi durante le guerre che circondarono la creazione di Israele nel 1948.
   Israele afferma che l’invito all’evacuazione serve a prevenire il maggior numero possibile di vittime civili durante le prossime operazioni militari nel nord del Paese.
   A tal fine, dalla sala di controllo militare nel sud di Israele, il generale Ben Muha ha cercato di incoraggiare un maggior numero di gazesi a dirigersi verso sud. Gli ufficiali militari chiamavano direttamente i palestinesi e gli aerei dell’aviazione sganciavano volantini che esortavano i gazesi a ignorare le richieste di Hamas di non muoversi.
   Sulla scrivania del generale c’erano fascicoli e fogli di calcolo che elencavano i numeri di telefono di centinaia di leader delle comunità gazane, direttori di ospedali e amministratori di scuole, che potevano essere chiamati in un attimo da un soldato della sala di controllo.
   Su una lavagna vicina, gli assistenti avevano dettagliato i tempi dei lanci regolari di volantini nel nord di Gaza.
   Sulla mappa in tempo reale di fronte al generale, c’erano sempre meno macchie rosse e bianche: Fino a 700.000 gazesi si erano spostati a sud nel pomeriggio di lunedì, secondo i dati, lasciandone circa 400.000 nel nord.
   Una volta che un quartiere diventa verde sulla mappa, un ufficiale israeliano che opera nell’area avrà un maggiore spazio di manovra a causa della minore probabilità di danneggiare i civili durante la lotta contro Hamas, ha detto il generale.
   “Se sei un comandante di brigata e vedi quei colori, ti dice quanti civili ci sono nell’area e sai se puoi o non puoi usare i tuoi carri armati o la tua fanteria”, ha detto.
   I palestinesi affermano che tali misure hanno poco significato in mezzo alla forte perdita di vite umane e alle difficoltà causate dai bombardamenti e dallo sfollamento. I civili e gli operatori umanitari affermano che molte persone non hanno i mezzi di trasporto per spostarsi verso sud, o sono troppo deboli per affrontare il viaggio.
   “Non credo ci sia nulla di umanitario nello sradicare” così tante persone, ha dichiarato Khaled Elgindy, direttore del Programma sulla Palestina e gli Affari Palestinesi-Israeliani presso il Middle East Institute, un gruppo di ricerca di Washington.
   “Non esiste un luogo sicuro a Gaza”, ha aggiunto Elgindy. “Quindi l’idea che si stiano comportando in qualche modo in modo umanitario o rispettoso della vita umana a Gaza è orwelliana”.
   Il metodo di monitoraggio è già stato utilizzato durante gli attacchi dell’aviazione israeliana su Rimal, un ricco quartiere di Gaza City che è stato lasciato in rovina dopo essere stato bombardato martedì scorso come rappresaglia per gli attacchi di Hamas. I funzionari israeliani hanno affermato che Hamas aveva costruito infrastrutture militari sotto il quartiere.
   Prima dell’attacco, i soldati della sala di monitoraggio hanno chiamato alcuni residenti della zona per incoraggiarli ad andarsene, ha detto il generale. Hanno poi avvisato l’aviazione non appena il quartiere è diventato verde sulla mappa, indicando che era rimasto meno di un quarto della popolazione, ha detto il generale.
   Il generale ha detto che, prima di procedere, l’aviazione ha condotto una propria valutazione del costo potenziale per le vite civili di ogni singolo attacco.
   Ma tali verifiche sono arrivate solo fino a un certo punto.
   Tra i civili uccisi durante gli attacchi c’era Saeed al-Taweel, editore di un sito web di notizie arabe.

(Rights Reporter, 17 ottobre 2023)

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Berlino: tensione e solidarietà dopo gli attacchi di Hamas in Israele

La Berlino ebraica in subbuglio, dopo gli attacchi di Hamas in Israele. Dall’antisemitismo, con le case ebraiche “marchiate” con la Stella di David, alla solidarietà di centinaia di cittadini davanti alla sinagoga Fraenkenlufer

di Roberto Zadik

Era dai tempi della Notte dei Cristalli che, a Berlino, le case delle famiglie ebraiche non venivano imbrattate con una serie di Stelle di David, disegnate da sconosciuti, sulle porte; questo fatto ha significato un’ipotetica minaccia, in seguito a quanto sta accadendo in Israele, in uno dei periodi più difficili della storia ebraica recente.
   A darne notizia il sito Jewish Chronicle che, in un articolo firmato da Daniel Ben David domenica 15 ottobre, ha evidenziato i timori della popolazione ebraica locale; una ragazza ventottenne, che ha preferito restare anonima, ha rivelato alla testata tedesca del Morgenpost di essersi sentita “incredibilmente scioccata e spaventata” quando la sera, al rientro a casa, ha trovato quel segno sulla sua porta.
   Le autorità tedesche sono impegnate, con un’indagine della polizia, a cercare di risalire ai responsabili del deprecabile gesto. Successivamente la donna ha espresso le proprie emozioni interrogandosi su chi possa essere l’autore delle minacce e se qualcuno sia penetrato furtivamente nel suo appartamento che ha una mezuzah alla porta.
   Fra le testimonianze ebraiche berlinesi il testo sottolinea la vicenda di Yael, israeliana naturalizzata tedesca, che vive a Berlino da otto anni e che, fino a quel momento, si era sentita al sicuro e perfettamente integrata avendo molti amici tedeschi e figli studenti presso la scuola locale. “Quando ho visto quella Stella di David sulla mia casa è stato un pugno nello stomaco” ha detto la donna che ha rivelato di essere stata in dubbio se mandare i suoi figli a scuola, venerdì scorso, in quello che i terroristi di Hamas avevano proclamato come “Il Giorno della Rabbia” e che fosse talmente spaventata da vietare ai suoi bambini di parlare ebraico fra di loro.
   Ma cosa sta succedendo in Germania e che clima si respira nei confronti del mondo ebraico? Mentre la polizia sta indagando, per cercare di individuare la matrice di questi episodi e se siano collegati fra loro, sono giorni estremamente tesi in cui, dall’attacco di Hamas, si stanno susseguendo marce propalestinesi ed episodi di antisemitismo. Le forze dell’ordine hanno deciso di intensificare la propria presenza nei siti ebraici, come istituzioni e sinagoghe.
   Nonostante questa atmosfera ci sono alcuni segnali positivi come le dichiarazioni del cancelliere tedesco Olaf Scholz che ha annunciato “tolleranza zero” contro l’antisemitismo , nel suo discorso al Bundestag, il Parlamento tedesco, giovedì scorso; Scholz ha anche affermato di voler vietare qualsiasi attività a favore di Hamas, compresa l’esposizione dei suoi simboli, ricordando che, dal 2021, è un reato mostrare qualunque sostegno a favore di questa organizzazione terroristica.
   Non solo timore ma anche tanta solidarietà alla popolazione ebraica in questi ultimi giorni a Berlino. A questo proposito il Times of Israel racconta, in un articolo del 16 ottobre, che proprio nel “Giorno della Rabbia” una folla di circa 350 persone si è radunata davanti alla Sinagoga Fraenkenlufer come “scudo protettivo” simbolico per proteggere l’edificio e la Comunità locale dalle minacce del terrorismo; molti di loro avevano una serie di poster con i nomi e le foto degli ostaggi rapiti dai terroristi di Hamas, compresa una neonata di sei mesi.
   Dopo gli episodi di giovedì scorso, il sito, citando lo speciale di Radio Berlino Brandeburgo, ha rivelato che la polizia avrebbe rinvenuto altri due edifici imbrattati da Stelle di David nella zona di Kreuzberg. Un altro grave episodio sarebbe accaduto a Hellersdorf con una bandiera israeliana bruciata. Ovviamente non sono mancate le reazioni. Secondo l’ADL (Anti Defamation League) “Qualunque responsabile di questa campagna antisemita deve essere arrestato e punito col massimo della pena” mentre l’Ambasciata israeliana ha commentato, sul suo account Twitter, che “quelle Stelle di David riportano alla mente le memorie peggiori, specialmente in Germania, quando gli ebrei venivano costretti ad indossare le Stelle Gialle”. La giornata peggiore è stata indubbiamente venerdì 13 ottobre quando, nonostante le straordinarie misure di sicurezza, una serie di famiglie ebraiche ha deciso di tenere i figli a casa; a confermare questo fatto anche il presidente tedesco Frank Walter Steinmeier che, durante la sua visita alla sinagoga Fraenkeluefer, ha definito quella giornata “un giorno di paura per tutti gli ebrei del mondo e anche qui in Germania”.

(Bet Magazine Mosaico, 17 ottobre 2023)

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Hamas i tunnel del terrore li ha costruiti con i nostri soldi

Cemento, cibo e altri aiuti arrivati da organizzazioni umanitarie e stati di tutto il mondo nella speranza di migliorare la situazione nella Striscia sono stati usati dal gruppo terroristico per perseguire i suoi scopi militari

di Giulio Metodi

Nelle jeep usate dai terroristi di Hamas per l’assalto del 7 ottobre sono state trovate numerose sacche dell’Unicef, l’agenzia Onu per l’infanzia, mentre l’Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati) ieri lamentava il furto di materiale dell’Onu da parte del ministero della Sanità di Hamas. Hamas ha utilizzato gran parte del cemento donato dalla comunità internazionale per costruire i tunnel, da cui passano armi, esplosivi, cellule terroristiche e  il 7 ottobre sono passati anche i 190 civili israeliani rapiti. “Israele ha fatto entrare a Gaza 4.824.000 tonnellate di materiali da costruzione e questi sono stati spesso utilizzati per costruire nuovi tunnel che penetrano nel territorio israeliano”, ha accusato Dore Gold, ex ambasciatore israeliano all’Onu. Ogni giorno dal 2006, 700 camion di rifornimenti, tra cui farmaci, cibo e materiale da costruzione, sono entrati a Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom con una media di 3,5 milioni di tonnellate di materiali da costruzione all’anno. 
   Aiuti arrivati da organizzazioni umanitarie e stati di tutto il mondo nella speranza di migliorare la situazione nella Striscia. In realtà, il ripetuto sfruttamento delle organizzazioni umanitarie da parte di Hamas significa che molti palestinesi a Gaza non hanno mai  visto gran parte degli aiuti
   Hamas stanzia il 55 per cento del suo budget per finanziare le necessità militari. Secondo dati israeliani, Hamas raccoglie in tasse 14 dollari per ogni apparecchio elettrico, 27 dollari per ogni tonnellata di frutta e 1,5 dollari per ogni pacchetto di sigarette. Dal 2015 Hamas ha iniziato a imporre anche una “tassa di solidarietà”. Questa tassa è stata pubblicizzata come un meccanismo per sostenere i poveri di Gaza, ma in realtà il denaro è stato utilizzato per pagare gli stipendi di Hamas. Persino le Nazioni Unite sono state costrette a fermare le spedizioni di aiuti a Gaza dopo che si è scoperto che Hamas aveva sequestrato centinaia di tonnellate di cibo e altri aiuti. Lo sfruttamento degli aiuti avviene anche dietro le quinte, dove Hamas ha in numerose occasioni incorporato individui nelle agenzie umanitarie per servire gli interessi dell’organizzazione. 
   Un agente di Hamas, Mohammad Halabi, che lavorava nell’organizzazione umanitaria World Vision, è stato condannato per aver dirottato fondi verso Hamas. E’ riuscito a trasferire 7,2 milioni di dollari all’anno, per un totale di 36 milioni di dollari, all’ala militare di Hamas che rappresentano il 60 per cento delle risorse di World Vision a Gaza. Il denaro, che era stato destinato a programmi di aiuto per bambini disabili, assistenza umanitaria e cibo, è stato  utilizzato per acquistare armi, pagare gli stipendi dei terroristi ed espandere la rete di tunnel. Molto denaro dei fondi destinati a progetti civili è stato dato in contanti alle Brigate Izz al-Din al-Qassam, le formazioni militari di Hamas.
   Un agente di Hamas si è anche infiltrato nell’Agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), responsabile della ricostruzione delle case di Gaza. E Muhammed Faruq Sha’ban Murtaja, direttore della filiale di Gaza dell’agenzia umanitaria turca Tika, è stato arrestato con l’accusa di aver dirottato denaro a Hamas. Nella sua confessione ha ammesso di aver sfruttato la sua posizione di alto rango nell’organizzazione. Secondo le istruzioni di Murtaja, tredici milioni di dollari donati per la costruzione di venti nuovi condomini sono stati utilizzati per costruire alloggi per gli agenti di Hamas. In totale, Murtaja è riuscito a dirottare quasi 23 milioni di dollari in aiuti ai membri di Hamas e alle famiglie dei terroristi.
   Il coordinatore delle attività governative israeliane nei Territori, Yoav Mordechai, si è rivolto così alla popolazione di Gaza: “Oggi vi parlo dell’organizzazione terroristica Hamas che ruba il vostro denaro per far promuovere il terrorismo. Grazie a una lunga indagine abbiamo scoperto che Hamas utilizza costantemente i fondi che i paesi occidentali versano alle organizzazioni internazionali, come l’organizzazione World Vision a Gaza: milioni di dollari che dovevano servire per progetti di costruzione, per sostenere economicamente i residenti, persino i pacchi alimentari per i bisognosi sono stati dati all’ala militare di Hamas per costruire postazioni, pagare bonus salariali, scavare i tunnel della morte che a voi e alla Striscia di Gaza hanno portato solo distruzione”.
   Poi c’è il capitolo delle ong occidentali. Nel video di propaganda si vedono numerosi bambini palestinesi a un festival nella Striscia di Gaza con indosso l’hijab e la mimetica, mentre simulano l’uccisione di israeliani con coltelli e mitragliatrici giocattolo. Il “Festival palestinese per l’infanzia” è stato trasmesso dal canale televisivo di Hamas. Agghiacciante, ma fin qui nulla di nuovo. Se non fosse che questo festival ha uno sponsor speciale: Interpal o Palestinian Relief and Development Fund, la ong inglese finanziata dall’allora leader del Labour Jeremy Corbyn e da altri parlamentari della sinistra britannica. Interpal ha dato 6.800 sterline a questo festival di Hamas. Corbyn e consorte hanno perfino fatto un tour a Gaza. Il fianco umanitarista. Si scrive carità, si legge jihad. Un capolavoro di taqiya.

Il Foglio, 17 ottobre 2023)

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Guerra in Israele, tutti i motivi del ritardo dell'operazione di terra nella Striscia di Gaza

L'inizio dell'operazione era prevista per venerdì scorso. Ma così non è avvenuto. Quali sono i fattori che stanno frenando Israele?

di Valerio Chiapparino

È il tempo dell’attesa senza fine nella Striscia di Gaza. L’operazione di terra delle forze israeliane, data per imminente sin dai giorni successivi alla strage compiuta da Hamas il 7 ottobre, sarebbe dovuta scattare venerdì scorso. Anche le finestre temporali concesse da Tsahal alla popolazione palestinese per abbandonare la parte settentrionale della Striscia lasciavano supporre che mancasse davvero poco all'ora X. Quali sono quindi i motivi che si nascondono dietro al ritardo nell’esecuzione del piano militare di Tel Aviv, volto a sradicare la presenza dei militanti islamisti autori del peggior attacco contro gli ebrei dai tempi dell’Olocausto?
   Tralasciando motivi che potrebbero essere inquadrati all’interno della cosiddetta “psicologia della guerra”, adoperata per fiaccare il nemico e colpirlo in una condizione di debolezza, secondo il Jerusalem Post sono diversi i fattori che spiegherebbero quanto sta accadendo sul campo. A frenare il premier Benjamin Netanyahu pare sia il timore che Hezbollah stia attendendo il momento in cui i primi militari israeliani supereranno la linea di confine con la Striscia per scatenare la loro potenza di fuoco e aprire un secondo fronte al Nord.La reazione del movimento sciita sostenuto dall’Iran e con base in Libano sino ad ora è apparsa contenuta anche se il numero degli attacchi contro Israele è in progressivo aumento. Per gli analisti del quotidiano israeliano la strategia di Hezbollah mirerebbe a indurre un falso senso di sicurezza nelle forze di Tsahal. Una strategia adoperata con successo da Hamas nei due anni che hanno preceduto l'attacco a sorpresa che, sfuggito ai radar dell’intelligence più sofisticata del Medio Oriente, ha causato la morte di oltre 1300 persone. Tel Aviv non vuole dunque farsi cogliere impreparata e avrebbe sfruttato gli ultimi giorni per rafforzare le difese in vista di un eventuale scontro in contemporanea e a tenaglia con i due movimenti filoiraniani.
   L’Israel Defense Forces (IDF) non può permettersi, tra l'altro, di sovrastimare le proprie capacità di eseguire un’operazione che si annuncia complessa e imprevedibile e che si svilupperà non solo via terra ma anche via cielo e mare. Inoltre sarebbero stati segnalati problemi nella fornitura dell’equipaggiamento militare dovuti all'inaspettata mobilitazione di circa 300mila riservisti e sarebbe in corso un dibattito, ancora irrisolto, tra i politici e le forze armate dello Stato ebraico sul piano da attuare dopo la “neutralizzazione” di Hamas.
   Il bilancio delle vittime tra la popolazione palestinese e i militari israeliani potrebbe farsi insostenibile una volta cominciata l’incursione di terra. I bombardamenti aerei dell’Idf avrebbero già fatto più di 2.800 morti nella Striscia di Gaza e a Tel Aviv ci si attende una crescente pressione da parte della comunità internazionale per fermare un’escalation che potrebbe coinvolgere l'intero Medio Oriente. Segnali in questo senso si sono visti in parte nella “diplomazia dello shuttle” di cui è stato protagonista il segretario di Stato americano Antony Blinken, che ha incontrato i principali leaders della regione e, soprattutto, nell’annuncio arrivato poche ore fa della visita in Israele, prevista per domani, di Joe Biden.
   Il presidente Usa porterà un messaggio di sostegno e vicinanza allo Stato ebraico ma non è passata inosservata l’intervista alla Cbs trasmessa domenica sera in cui Biden ha dichiarato che "Israele commetterebbe un grande errore a occupare Gaza". Fox News riporta come la Casa Bianca abbia chiesto a Netanyahu di ritardare l’operazione di terra, in modo da garantire l’evacuazione dei civili mentre secondo il New York Times la visita del presidente americano comporterà uno slittamento dei piani israeliani di almeno 24 ore. Nella Striscia di Gaza, insomma, il tempo dell'attesa sembra non essere ancora esaurito.

(il Giornale, 17 ottobre 2023)

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Tira una brutta aria

di Niram Ferretti

L’annunciata prossima visita in Israele di Joe Biden, dopo che inizialmente Washington aveva dichiarato che non era in agenda, è un segnale, che insieme ad altri, induce a pensare che quello che potrebbe essere l’esito del conflitto aperto da Hamas contro Israele con l’eccidio, sabato 7 ottobre di 1400 cittadini israeliani, vada nella direzione di una possibile sconfitta dello Stato ebraico.
   Hamas, e va detto senza indugi, ha conseguito un successo militare rilevante. Ai propri occhi, e agli occhi dei nemici giurati di Israele, in primis l’Iran, l’eccidio perpetrato in Israele nel corso di poche ore ha consegnato al mondo l’immagine di uno Stato impreparato e debole, incrinando quell’immagine di potenza e capacità di deterrenza che sono da sempre suoi costitutivi.
   A seguito di quanto è accaduto, Israele ha iniziato a rispondere come d’abitudine e con una forza maggiore del solito, bombardando le postazioni militari di Hamas a Gaza, prassi in corso dal 2008. La novità è l’annuncio di una invasione di terra finalizzata a eliminare definitivamente Hamas dalla Striscia, corredata da dichiarazioni perentorie e bellicose.
   Tuttavia il tempo passa, e nonostante l’annuncio e il richiamo di 300,000 riservisti, e l’assedio di Gaza, per il momento, ad eccezione di un raid all’interno della Striscia, avvenuto pochi giorni fa, l’annunciata operazione militare di terra non ha ancora avuto luogo.
   La più ovvia delle considerazioni sotto il profilo militare è che essa vada preparata con estrema cura, soprattutto in vista di un terreno estremamente insidioso e sul quale, inevitabilmente, il nemico gode dell’ovvio vantaggio di conoscerlo alla perfezione. Ad essa si affianca la necessità di consentire al più alto numero possibile di civili di spostarsi da nord a sud. Inizialmente Israele aveva dato un preavviso di 24 ore, poi prolungato e che, ancora adesso, si sta ulteriormente prolungando.
   Nel mentre, intorno al conflitto in corso si sta agitando la diplomazia, con all’avanguardia quella americana, e proprio in merito ad essa inizia a prendere corpo uno scenario che, se si configurasse con chiarezza metterebbe Israele nella condizione di non vincere la guerra ma di uscirne da perdente, indebolendo ancora ulteriormente la propria immagine in Medio Oriente, con conseguenze devastanti.
   Ufficialmente l’amministrazione Biden appoggia Israele nella sua volontà di distruggere Hamas, ma già ieri, Biden ha espresso la sua contrarietà a che Israele possa occupare ancora Gaza. Di fatto, apparentemente semaforo verde per l’invasione, rosso per l’occupazione. La contraddizione mette in luce, in filigrana la realtà. Gli Stati Uniti, nonostante la solidarietà espressa per le vittime di Hamas, sono contrari all’invasione terrestre e preferirebbero un’altra soluzione, quale? Presto detto, che Israele possa giungere a un negoziato con Hamas, e che tipo di negoziato potrebbe essere con i carnefici che hanno perpetrato il maggior numero di morti di ebrei dalla fine della Shoah? Semplice, ottenere il rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza ricevendo in cambio non il corrispettivo rilascio di migliaia di terroristi palestinesi, ma di non invadere la Striscia.
   In questo modo, Israele, sempre altamente sensibile al valore della vita dei suoi concittadini otterrebbe il ritorno a casa dei rapiti, e Hamas, depotenziato al momento, continuerebbe a dominare la Striscia indisturbato.
   Ieri, per la prima volta, Hamas ha mandato in onda sul suo canale il video di uno degli ostaggi, una giovane donna israeliana che viene mostrata mentre è assistita e che ha dichiarato di avere ricevuto cure mediche. Dopo l’assassinio sadico, la cura per gli ostaggi…
   Sarà questo l’esito?
   Una cosa è certa, la leadership di Israele è debole. Il gabinetto di guerra non ha, al suo interno, né Golda Meir, né Menachem Begin, né Ariel Sharon, ma un primo ministro che, relativamente a Hamas, da quindici anni a questa parte, ha impostato una linea di azione basata interamente sul suo contenimento, linea interamente condivisa dall’apparato militare e da quello della sicurezza, di cui ha fatto parte per anni Benny Gantz. A che cosa abbia portato, Israele lo ha sperimentato sulla propria pelle.
   Mai, come in questi ultimi anni, Israele sta subendo le ingerenze americane, sostanzialmente mettendosi in una posizione di supino vassallaggio.
   Un’altra cosa è certa. Se l’esito di questo conflitto sarà quello prospettato, ci si preparerà in fretta a un’altra guerra, molto più impegnativa e devastante, quella con Hezbollah. In Medio Oriete, diversamente che in Europa e negli Stati Uniti, ogni prova di debolezza è un inebriante viatico per convincersi che è giunto il momento di usare la forza in tutta la sua massima potenza.

(L'Informale, 17 ottobre 2023)
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Purtroppo, all'arrogante eccesso di sicurezza di Israele che ha portato alla rovinosa sconfitta dei giorni scorsi, è seguita un'altra forma di arroganza con terrificanti annunci di annientamento totale di Hamas. Era così difficile capire che un reboante annuncio di totale vittoria si trasforma in totale sconfitta se viene ottenuta soltanto in parte? Non si doveva immaginare che un piano preparato in due anni doveva necessariamente mettere in conto anche quello sarebbe successo immediatamente dopo, cioè il tentativo israeliano di invadere Gaza? Sì, adesso Israele è in una posizione davvero brutta. Si è affidato toto corde al campo occidentale guidato dagli USA, che fa i suoi interessi sostenendo l'Ucraina e contrattando con l'Iran. Gli USA sono per Israele come l'Egitto di una volta: "un sostegno di canna rotta che penetra nella mano di colui che vi si appoggia e gliela fora" (Isaia 36:6).M.C.

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Spade di ferro - Giorno 10

Un piano dettagliatamente preparato
  Ancora dopo una settimana emergono prove del carattere premeditato della strage compiuta dai terroristi di Hamas e di altri gruppi terroristi all’alba di sabato 7 ottobre. Si sono ritrovate cartine dettagliate, istruzioni su come le diverse squadre dovessero muoversi, perfino una specie di dizionario di una decina di frasi in ebraico da usare contro le vittime come “vi uccidiamo tutti” o “siete nostri prigionieri”; sono usciti numerosi filmati delle esecuzioni pubblicati dagli stessi terroristi, si sono raccolte testimonianze di aggressori che parlavano in farsi (la lingua dell’Iran); vi sono interrogatori e interviste in cui gli aguzzini rivelano che il piano dell’eccidio era stato preparato e minuziosamente provato per due anni. Insomma non si tratta affatto di un atto terrorista improvvisato, ma di un progetto preciso e lungamente studiato. Il che fa pensare che anche le mosse successive siano state previste dalle centrali terroriste, ancor più che a Gaza a Teheran.

La situazione sul terreno
  L’esercito israeliano è ben consapevole di questo problema e prepara attentamente l’ingresso terrestre a Gaza, attendendo che l’azione dell’aviazione elimini almeno parte delle trappole predisposte dai terroristi. Per questa ragione anche ieri è stata una giornata di attesa per i soldati schierati intorno a Gaza e per tutti gli israeliani. Non ci sono stati, fino al momento in cui questo articolo è stato scritto, scontri terrestri di grandi dimensioni. La cronaca registra numerosi nuovi lanci di missili da Gaza su varie zone di Israele, eliminazione di terroristi infiltrati, pesanti bombardamenti dell’aviazione su tutti gli obiettivi militari dovunque era possibile farlo senza colpire la popolazione civile, che Hamas obbliga a fare gli scudi umani, anche chiudendo fisicamente le strade di fuga garantite da Israele e sequestrando chiavi delle automobili e documenti. Proprio per permettere ai civili di allontanarsi senza troppi disagi, le autorità militari israeliane hanno deciso di riaprire le condutture che portano rifornimento idrico a Gaza, anche se in realtà la Striscia al 90% usa acqua che proviene da pozzi locali. I responsabili confermano che l’azione di terra è imminente, ma nessuno può dire ancora quando il Gabinetto di Guerra le darà il via.

Cresce la tensione al nord
  Nel frattempo Hezbollah ha continuato con provocazioni limitate ma sanguinose: piccoli tentativi di sconfinamento, lanci di missili e di droni, bombardamenti che hanno provocato anche alcune vittime. L’esercito israeliano ha reagito puntualmente distruggendo istallazioni terroriste e anche dell’esercito libanese, che è controllato in sostanza da Hezbollah e neutralizzando alcuni terroristi. Progressivamente la tensione cresce, anche perché appare probabile che lo scopo di Hezbollah sia di mettere alla prova, saturare e danneggiare i sistemi di avvistamento israeliani, sulla linea di quel che è successo intorno a Gaza, per poi tentare un attacco massiccio. La differenza è che Hezbollah ha un numero di missili forse dieci volte più grande di quello di Hamas, parecchi dei quali hanno sistemi di guida avanzati; inoltre le milizie libanesi sono assai più forti e meglio addestrate di quelle di Gaza. Dunque un attacco terroristico dal Libano potrebbe essere ancora più grave dell’aggressione da Gaza. Anche se questa volta non prenderebbe di sorpresa Israele, avrebbe la massa bruta per saturare le difese antimissile e provocare notevoli danni. Vi sono peraltro notevoli riserve di uomini e mezzi pronti per contrastarla. Anche l’aviazione israeliana ha dichiarato di poter tenere i due fronti. Israele ha ammonito molte volte il governo libanese che nel caso di un’aggressione di Hezbollah il contrattacco devastante di Israele non potrebbe limitarsi alle singole postazioni terroriste, perché esse sono mimetizzate in mezzo alla popolazione civile e investirebbe tutto il Libano, che ne porterebbe comunque la responsabilità politica e giuridica. Ma Hezbollah è assai più forte delle forze armate del Libano e fa quel che vuole, o meglio quel che gli ordina l’Iran.

Internazionalizzazione del conflitto
  Il fatto più preoccupante, nelle scaramucce al confine col Libano, è il rischio di internazionalizzazione del conflitto. Non solo Hezbollah ha dichiarato che se Israele continua a combattere contro Hamas, il suo intervento è inevitabile. La stessa minaccia l’ha fatta l’Iran, che è il burattinaio di entrambi i movimenti terroristi. L’intervento dell’Iran che ha qualche forza militare in Siria, vicino al confine israeliano, ma le cui frontiere stanno a oltre 1000 chilometri dallo stato ebraico, avverrebbe probabilmente con l’uso di droni e missili, gli stessi che la Russia usa contro l’Ucraina. Israele dovrebbe rispondere colpendo il territorio metropolitano dell’Iran e nessuno può dire dove arriverebbe il conflitto, dato che l’Iran è appoggiato da Russia e Cina ed inoltre ha “quasi” un armamento atomico.

L’intervento americano
  Proprio per il timore di questa gravissima escalation, il presidente Biden ha fatto arrivare qualche giorno fa al largo delle coste israeliane un potente gruppo navale guidato da una portaerei. Ora è annunciato l’arrivo di un secondo gruppo con un’altra portaerei: una concentrazione di forze del tutto eccezionale che mostra la preoccupazione americana. Israele è in grado di difendersi da solo, ma le forze Usa dovrebbero fungere da deterrente nei confronti della possibile aggressione di una potenza imperialista molto abile tatticamente, ma altrettanto irresponsabile e fanatica, com’è l’Iran. Nel frattempo il ministro degli esteri dell’Iran ha fatto un giro di coordinamento incontrando i capi di Hamas (in Qatar) di Hezbollah, della Siria, del Qatar: insomma di tutti i nemici giurati di Israele. Anche Blinken, Segretario di Stato Usa, conduce un fitto giro di incontri nella regione, incontrando oltre a Israele, Egitto, Giordania, Arabia, Emirati. Insomma, l’allarme è grande. E anche questo rallenta l’operazione di terra su Gaza, che pure è necessaria e urgente. È probabile che Biden cerchi di costringere Israele a rinunciare.

(Shalom, 16 ottobre 2023)

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“L’antisemitismo esiste ancora e Hamas lo dimostra”

In occasione degli 80 anni dal rastrellamento del ghetto di Roma parla Tatiana Bucci. Fu deportata da Fiume verso Birkenau il 18 marzo 1944

di Paolo Rodari

“Il 16 ottobre del ’43 eravamo ancora a Fiume. Nostra madre era ebrea. Cercava di proteggerci da tutto quanto stava accadendo intorno a noi. In famiglia in tutto eravamo in tredici ebrei. Alla fine della guerra ci salvammo soltanto in quattro. Ricordo i bombardamenti, le fughe nei rifugi. Ma anche le gite al mare, nonostante la guerra tutt’intorno. Poi arrivò il 28 marzo del ’44. Ci deportarono in otto a Birkenau. Gli altri vennero successivamente deportati a Bergen Belsen. Vennero i nazisti, ma anche due fascisti. È doveroso ricordarlo, perché è storia. Eravamo alleati e ci deportarono. Dovremmo imparare da quanto accaduto, invece troppo spesso non accade. L’antisemitismo è vivo ancora oggi, purtroppo, e il conflitto in Israele con bambini innocenti che perdono la vita è qui ancora a dircelo”.
   Tatiana Bucci vive a Bruxelles. In questi giorni è a Roma per partecipare alla marcia silenziosa per ricordare la deportazione romana avvenuta ottant’anni fa, il 16 ottobre del 1943, dal ghetto. Tatiana fu deportata poco dopo, da Fiume, assieme ai suoi famigliari, fra cui la sorella Andra, il cugino Sergio e le rispettive madri. Fu internata nella “baracca dei gemelli” perché il dottor Joseph Mengele notò che assomigliava alla sorella e le credeva gemelle.

- Come sopravvisse?
  “Arrivati al campo ci separarono dalle nostre madri. La capa della nostra baracca, che chiamavamo “blokowa”, forse perché ci aveva preso in simpatia ci disse che quando i nazisti ci avrebbero chiesto se avessimo voluto raggiungere i nostri genitori non avremmo dovuto rispondere ma rimanere ferme. Nostro cugino Sergio, purtroppo, non ci ascoltò, fece un paso in avanti e per lui fu la fine. Noi ci salvammo. Riuscimmo poi a resistere fino alla liberazione”.

- Quanti anni aveva quando arrivò a Birkenau?
  “Appena sei. Non ricordo tutto. Nel tempo ho poi ricostruito anche grazie al fatto che ho ritrovato mia madre viva per l’intercessione della Croce Rossa”.

- Quando sta accadendo in Israele quali sentimenti le suscita?
  “La morte dei bambini innocenti mi riporta alla memoria quanto avvenne allora. E ogni volta fatico anche a parlarne. Mio cugino venne deportato in un campo di Neuengammead, ad Amburgo, dove svolgevano alcuni esperimenti sulle ghiandole linfatiche e contro la tubercolosi. Era insieme ad altri diciannove bambini. Una volta effettuati gli esperimenti i bambini venivano sedati con la morfina e fatti morire. Coloro che non morivano, venivano appesi ai ganci dei macellai e fatti morire così. Vennero uccisi il 20 aprile 1945 a guerra quasi finita. Erano innocenti come lo sono i bambini morti in queste ore in Israele e come lo sono i bambini palestinesi che muoiono senza avere colpe. La storia si ripete e sembra che la lezione non venga mai appresa”.

- L’antisemitismo è vivo ancora oggi?
  “Purtroppo sì. Per Hamas, Israele non ha diritto di esistere. È un atteggiamento antisemita e nazista. Per colpa di alcuni fondamentalisti la popolazione innocente muore. Per questo parlo ancora, per questo cercherò anche io di far sì che a Trieste il nostro binario, da dove partivano i convogli per Auschwitz-Birkenau, diventi monumento nazionale come il binario 21 a Milano. La memoria non deve morire.”

- Il 16 ottobre 1943 dice anche del silenzio di papa Pio XII. Avrebbe potuto fare di più per gli ebrei?
  “Credo proprio di sì. Anche se gli archivi devono ancora essere studiati a fondo, credo che non abbia fatto tutto quello che avrebbe dovuto fare”.

- Pensa che testimoniare possa aiutare?
  “È l’unica cosa che possiamo fare. Eravamo duecentomila bambini sotto i dieci anni ad essere stati deportati. Siamo tornati soltanto in una cinquantina. Lo dobbiamo a chi non ce l’ha fatta”.

(RSI.CH, 16 ottobre 2023)

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"Che stupidi e ingenui a sostenere quella che pensavamo fosse la causa palestinese"

Un giornalista arabo-israeliano fa mea culpa. “Tutto prova che non vogliono altro che la distruzione dello stato ebraico e degli ebrei” scrive Fred Maroun sul Times of Israel

"Siamo stati stupidi. Siamo stati stupidi e ingenui. Lo abbiamo fatto con cura e attenzione. Lo abbiamo fatto perché sentivamo che era la cosa moralmente corretta da fare. Abbiamo sostenuto la causa palestinese, o quella che pensavamo fosse la causa palestinese: la lotta per un proprio stato indipendente. Ma ogni ingenuità, ogni illusione si è dissipata dopo gli eventi degli ultimi due giorni”. Così Fred Maroun. “Non è solo il fatto che Hamas (per decenni sostenuto e nutrito da palestinesi e da attivisti filo-palestinesi) ha scatenato un orribile assassinio di massa di israeliani. Non è solo il fatto che questo gruppo terroristico è la fazione più popolare tra i palestinesi e che la maggior parte degli altri gruppi è altrettanto o quasi altrettanto criminale. E’ anche il fatto che gli orribili atti di Hamas sono, a detta di tutti, ampiamente sostenuti all’interno della comunità palestinese e della comunità filo-palestinese all’estero. Il presidente apparentemente moderato dell’Autorità palestinese, Abu Mazen, si è rifiutato di condannare la strage perpetrata da Hamas. Sulla Edgware Road di Londra, soprannominata la Arab Street della capitale, le auto sfilavano drappeggiate con la bandiera palestinese e i clacson squillavano come per la vittoria in una partita di calcio”. In Canada, un grande sindacato filo-palestinese, la Canadian Union of Public Employees, ha twittato: “Oggi i palestinesi, abbattendo le barriere coloniali, danno nuova vita al sogno di una geografia aperta e liberata”.
   Come ha scritto Avi Benlolo sul canadese National Post, “la campagna per giustificare l’assassinio di massa di civili innocenti ad opera di Hamas è già avviata”. I palestinesi hanno avuto 75 anni e numerose occasioni per scegliere di avere uno stato accanto a Israele, ma hanno ripetutamente scelto il peggiore terrorismo. Con l’ecatombe di centinaia di israeliani e il tifo per quel massacro, e per i macellai che l’hanno perpetrato, hanno messo bene in chiaro qual è la loro scelta finale. Alcuni diranno che è colpa dei terroristi e non dei palestinesi. Non sarò fra costoro. Non possono esistere strutture terroristiche così potenti, estese e durature se non sono sostenute dalla loro gente. Prima di tutto questo, sembrava esserci ancora un barlume di speranza per uno stato palestinese in pace con Israele, ma ora ammetto che quelli di noi che coltivavano quella speranza erano ingenui. Oggi quella speranza è morta. Vedo molti attivisti per la pace che avevano opinioni articolate sul conflitto, e ora dichiarano sui social network il loro risoluto sostegno a Israele. Che scelta ci rimane? La cosiddetta causa palestinese sarà ora ricoperta per sempre dal sangue degli israeliani che Hamas ha massacrato mentre palestinesi e attivisti filo-palestinesi acclamavano e gioivano. Così, anche i palestinesi che non vogliono essere terroristi non avranno mai uno stato su quella terra. Nel frattempo, chiunque presti un minimo di attenzione a questo conflitto deve schierarsi con Israele. E’ il dovere di ogni persona civile al mondo. E’ l’unica scelta ragionevole rimasta”.

Il Foglio, 16 ottobre 2023)

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