Notizie su Israele 144 - 18 dicembre 2002


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In quel giorno, il Signore stenderà una seconda volta la mano per riscattare il residuo del suo popolo rimasto in Assiria e in Egitto, a Patros e in Etiopia, a Elam, a Scinear e a Camat, e nelle isole del mare. Egli alzerà un vessillo verso le nazioni, raccoglierà gli esuli d'Israele, e radunerà i dispersi di Giuda dai quattro canti della terra.

(Isaia 11:11-12)



IL TERRORISMO E I SUOI SPONSOR


    
Bashar al-Assad e moglie a Buckingham Palace

La visita del presidente Assad - scrive il Jerusalem Post - segna la prima volta che un presidente siriano viene ricevuto ufficialmente a Londra, e con un trattamento di prim'ordine. Niente male, per un uomo che governa con il pugno di ferro, che da ospitalita' a gruppi terroristici, calpesta i diritti umani e si adopera alacremente per dotarsi di missili balistici e armi non convenzionali. Nulla di tutto questo sembra preoccupare piu' di tanto il governo britannico. Ma cio' che davvero sconcerta e' la disponibilita' a chiudere gli occhi sulle attivita' di Assad a favore di Saddam Hussein e persino di Al-Qaeda. A luglio giungeva notizia che la Siria stava aiutando Baghdad a riarmarsi mettendo a disposizione i propri porti per il passaggio di un flusso continuo di armi e munizioni da paesi dell'Europa orientale verso l'Iraq. Ai primi di settembre emergeva che la Siria ha permesso a circa 150 membri di Al-Qaeda di rifugiarsi nel campo palestinese di Ein Hilweh, alle porte di Sidone, nel Libano sotto il controllo di Damasco. Piu' che mandare ad Assad un invito per un te', Tony Blair avrebbe dovuto mandargli un avvertimento: o la smetti di aiutare i terroristi, o dovrai pagarne le conseguenze.
    Dall'11 settembre 2001 - scrive Ha'aretz - diversi attentati di Al-Qaeda hanno rivelato un legame con il conflitto mediorientale. All'attentato contro la sinagoga nell'isola tunisina di Jerba e al doppio attentato a Mombasa, Kenya, bisogna ora aggiungere le notizie relative a cellule di Al-Qaeda attive in Libano, in Giordania (l'assassinio di un diplomatico americano ad Amman sei settimane fa) e, a quanto pare, anche a Gaza. Queste attivita' fanno temere che gruppi terroristici legati a Bin Laden si impegnino sempre piu' sul fronte palestinese, incoraggiando estremisti fondamentalisti palestinesi a entrare nelle file di quella organizzazione terroristica. La minaccia posta dal terrorismo di Al-Qaeda, che si dispiega su tutto il pianeta, travalica di molto l'ambito della lotta contro il terrorismo combattuta dallo Stato di Israele. Israele deve offrire il suo contributo la' dove puo', in coordinamento con la superpotenza che guida questa campagna. La preoccupazione suscitata dal coinvolgimento di Al-Qaeda conferma la necessita' di rilanciare al piu' presto possibile i negoziati politici con la dirigenza nazionale palestinese.

(israele.net, 17.12.02 - dalla stampa israeliana)
    


LA SIRIA DI BASHAR AL-ASSAD


La Siria di Bashar al-Assad è molto cambiata: è uno Stato terrorista ancora più ignobile di prima

da un articolo di Michael Gove

Il Primo Ministro inglese ha detto, nel Financial Times, che il giovane Bashar  è "determinato a portare reali cambiamenti in Siria e che ci sono segni incoraggianti. C'è una nuova legislazione che autorizza le banche straniere ad operare e ci sono accenni di riforma nella pubblica amministrazione". [...]
 Il giovane ed energico presidente siriano ha realmente operato dei cambiamenti nel suo paese da quando è andato al potere nel giugno del 2000. E' perfino riuscito a realizzare quello che molti credevano impossibile: Bashar ha fatto della Siria uno Stato terrorista ancora più ignobile.
    Dal settembre 2000 la Siria ha aumentato il suo sostegno finanziario, militare e politico a gruppi come Jihad islamica, Hamas e Hezbollah. Nonostante che l'ideologia siriana si fondi su un nazionalismo arabo secolarizzato, Bashar è stato ben contento di trovare dei gruppi fondamentalisti islamici, di equipaggiarli con armi e di addestrare i loro militanti. La bomba che ha ucciso 21 civili nell'attentato compiuto in una discoteca di Tel-Aviv nel giugno 2001 è stata fabbricata da un assassino di Hamas addestrato dalla Siria. L'altro assassino di Jihad, Ali Saffuri, responsabile del coordinamento di almeno dieci attentati suicidi, riceveva gli ordini da Damasco. [...]
    Sotto la direzione di Bashar, la Siria ha contratto un'alleanza ancora più stretta con un gruppo terrorista fondamentalista: lo Hezbollah. Il padre di Bashar aveva annesso il Libano, che era il paese più libero del Medio Oriente, riducendolo a una colonia militarizzata. Suo figlio è andato ancora più lontano nella sua alleanza con gli assassini di Hezbollah. Il suo capo, Hassan Nasrallah, per sostenere la politica siriana ha dichiarato, qualche mese fa, che la presenza delle forze siriane nel Libano è "una necessità regionale e interna per il Libano" e un "obbligo nazionale per la Siria".
    La Gran Bretagna sembra essere adesso un alleato di Bashar [...]. Il Primo Ministro si ritrova a dare dei consigli per una riforma economica o per una strategia tecnologica. La giustificazione razionale di questo atteggiamento è il vecchio principio del "coinvolgimento". "La Gran Bretagna fa quello che può per aiutare la Siria a svolgere un ruolo più importante nella comunità internazionale", ha dichiarato Tony Blair. Il Primo Ministro dovrebbe ricordarsi del modo in cui gli Stati terroristi hanno utilizzato nel passato il "coinvolgimento" occidentale. Kim Jong, il dittatore della Corea del Nord, ha usato l'aiuto straniero per produrre armi nucleari, biologiche e chimiche. Ignora gli accordi internazionali e lancia un programma di missili balistici che mette in pericolo i paesi che hanno investito nel suo. Infischiandosene della proliferazione delle armi, rifornisce altri Stati terroristi, come abbiamo potuto verificare la settimana scorsa con il cargo intercettato in direzione dello Yemen. Kim Jong ha reagito al "coinvolgimento" come ogni buon tiranno: utilizzandolo come un'opportunità per rafforzare il suo potere repressivo. [...]
    Bashar al-Assad apprezza molto il dirigente coreano, al punto d'aver acquistato presso di lui dei missili Scud, e al punto d'averlo aiutato a sviluppare delle armi chimiche e biologiche. [...]
    Avendo già beneficiato dell'esperienza nord-coreana, possiamo tranquillamente aspettarci che Bashar sappia profittare del coinvolgimento occidentale. Le prime ad accorgersene saranno senz'altro le donne del Medio Oriente che stanno per diventare vedove.
   
(The Time, 17.12.2002)



L'AMMIRAZIONE DELLA FRANCIA PER IL PAESAGGIO LIBANESE

   
L'ambasciatore francese nel Libano, Philippe Lecourtier, il 12 dicembre ha effettuato una visita d'ispezione al centro culturale francese di Nabatyé e al liceo francese di Habbuche, due località nel sud del Libano. Rispondendo a una domanda fatta sulla posizione di Parigi nei confronti di Hezbollah, dopo che il Canada l'ha interdetto, iscrivendolo nella lista dei movimenti terroristi, Lecourtier ha detto: "Per la Francia, Hezbollah fa parte del paesaggio libanese".

(Proche-Orient.info, 13.12.2002)



ARRIVANO I RUSSI!


Oggi il 24% dei militari dell'esercito israeliano sono nuovi immigrati

di Amos Harel

Il più diffuso poster pubblicitario di Israel Plus, la nuova stazione televisiva israeliana rivolta al pubblico di lingua russa, è visibile in quasi tutte le fermate degli autobus. Vi si vede un nonno con il nipote che si abbracciano, entrambi in uniforme, sorridenti. Il nonno è un veterano della Seconda Guerra Mondiale; la sua uniforme di soldato dell'Aramta Rossa è ricoperta di medaglie e decorazioni. Il nipote veste l'uniforme delle Forze di Difesa d'Israele; porta il berretto rosso dei paracautisti sulla spalla, la spilla alata (segno che è stato paracadutato) ed i gradi di capitano. "Viviamo qui ogni giorno", proclama lo slogan del nuovo canale televisivo, in russo scritto in lettere ebraiche – ed apparentemente non vi è modo migliore di trasmettere tale messaggio, se non per mezzo dell'identificazione con l'esercito israeliano.
    Alcuni anni fa, la campagna pubblicitaria di Israel Plus sarebbe stata vista come avulsa da una qualsiasi realtà. Alla maggioranza dei nuovi immigrati venivano assegnati compiti non-combattenti, con cui cominciare. Fare l'autista era diventato un "lavoro da russi", soprattutto perché gli immigrati consideravano il servizio militare la via più breve per imparare un mestiere, che avrebbe dato loro un livello di vita sicuro e confortevole dopo il congedo. Nelle prigioni militari vi erano più immigrati che israeliani di nascita – una statistica che era il risultato della combinazione delle difficoltà finanziarie in cui si trovavano i nuovi venuti con le difficoltà di adattamento alla mentalità dell'esercito israeliano. Quando gli immigrati cominciarono a servire in unità combattenti, tendevano ad essere concentrati in un numero ristretto di unità, che godevano di buona fama, a causa dell'atteggiamento degli ufficiali comandanti nei loro confronti. Il settimanale dell'esercito israeliano Ba-Machaneh intitolò una volta un articolo sull'integrazione dell'alià [immigrazione] nella Brigata Giv'ati, dove erano concentrati centinaia di immigrati dalla Russia, "L'Armata Rossa". L'esercito ne fu allarmato e si affrettò ad assicurare una suddivisione più bilanciata dei nuovi immigrati fra le diverse brigate di fanteria.
    Ma chiunque segua il rapporto delle perdite dell'esercito israeliano nel conflitto che si combatte nei territori negli ultimi anni sa che il quadro è cambiato. La percentuale degli immigrati che sono rimasti colpiti è particolarmente alta. E tutto ciò è vero non solo nel caso dei civili, come quelli uccisi e feriti nell'autobus di Kiryat Menachem, a Gerusalemme, la scorsa settimana, ma anche nel caso di coloro rimasti uccisi in scontri con gruppi di terroristi. Il 16 novembre, in una battaglia contro alcuni uomini appartenenti alla Jihad Islamica, sono stati uccisi 12 appartenenti alle forze di sicurezza: 4 soldati dell'esercito, 5 agenti della Guardia di Frontiera e 3 membri dell'unità di protezione civile di Kiryat Arba. Fra gli uccisi, 2 dei soldati, 3 degli agenti e 2 della protezione civile non erano nati in Israele.
   
Indispensabili, rispettati
Le statistiche fornite dalla Direzione del Personale dello Stato Maggiore dell'Esercito, su richiesta del quotidiano Ha-aretz, sono sorprendenti ed impressionanti. La percentuale dei richiamati che non sono nati in Israele si aggira ora sul 24% (la percentuale di immigrati nella popolazione generale è di poco più del 15%). Le statistiche si riferiscono a tutti gli immigrati, ma di fatto si tratta quasi esclusivamente di immigrati dall'ex-Unione Sovietica. La percentuale degli immigrati, fra i richiamati della leva di agosto 2002, che hanno chiesto l'arruolamento in unità combattenti: 23,1%. Di tutti quelli arruolati nei paracadutisti nell'ultima leva, il 27% sono nati all'estero. Nella Brigata Nahal: il 23%.
    Nel corso degli anni, parole come "crogiuolo" sono diventate un cliché, da cui la stampa ha imparato a guardarsi. Ciononostante, almeno per quanto riguarda le unità combattenti, il servizio nell'esercito si è di fatto trasformato nel biglietto di ingresso dei nuovi venuti, per l'integrazione nella società israeliana. Malgrado i problemi finanziari a casa e malgrado le difficoltà di lingua, gli immigrati ora formano una parte centrale e rispettata nell'apparato combattente dell'esercito israeliano.
    E' sufficiente fare un salto a vedere una delle compagnie delle Brigata Golani , per esempio, per far caso ad un nuovo tipo di militare: il fuciliere russo. L'immagine popolare del Golanchik (che spesso è piuttosto esatta) è di un giovane proveniente da una cittadina in via di sviluppo, di solito di origine orientale [Medio Oriente o Nord Africa], che parla in modo rude ed ha tonnellate di spirito di corpo. Le diverse compagnie della Brigata Golani hanno una lunga tradizione, piena di stranissimi rituali, il cui scopo è di sottolinearne l'unicità.
    Malgrado ciò, chiunque segua ciò che succede in due di queste compagnie, si rende conto che l'integrazione degli immigrati in tali unità è stata completa – e sembra estremamente naturale alle due parti in causa.
    Non ci sono evidenti tensioni etniche e pochissime schermaglie verbali. I nuovi immigrati ricoprono ruoli-chiave (ufficiali, comandanti o combattenti in compiti che richiedono particolare responsabilità) ed hanno una parte attiva nei "rituali", persino quando questi comportano musica orientale. La percentuale di non arruolati fra gli immigrati è relativamente bassa (17%, rispetto al circa 23% fra i nati in Israele) ed il loro numero quasi non comprende studenti di accademie talmudiche, ai quali è consentito il rinvio del servizio militare, poiché "Lo studio è la sua professione". La loro percentuale fra i soldati sta gradualemente aumentando. Nel 1994 la percentuale degli arruolati nati in Israele era dell'82%, nel 2001 del 77,5%, e nel 2002 raggiungerà solo il 76% circa. La percentuale delle donne immigrate che si sono arruolate è inferiore (circa il 18%), poiché fra coloro che arrivano in Israele senza le famiglie vi sono più ragazzi che ragazze.
    Il capo della divisione di Pianificazione della Direzione del Personale dell'Esercito Israeliano, Generale di Brigata Avi Zamir, dice che l'esercito "considera un obbligo arrivare alla migliore integrazione possibile degli immgrati nei propri ranghi. Il nostro obiettivo è che la proporzione di immigrati nelle unità combattenti sia pari alla loro proporzione nel resto della leva". Tale obiettivo è stato raggiunto per la prima volta quest'ultimo agosto; in quello precendente la percentuale degli immigrati era solo del 17%, a cui si era arrivati dopo un graduale aumento nel corso degli anni precedenti. Zamir sostiene che l'aumento è stato raggiunto per mezzo di diverse misure, prese per incoraggiare gli immigrati ad arruolarsi in unità combattenti. L'esercito israeliano si sta preparando a questo processo di vasta portata, che comprende una guida prima dell'arruolamento e poi durante tutto il servizio militare. I soldati immigrati frequentano lezioni di ebraico ed una parte di loro (alcune centinaia in ogni gruppo) vengono mandati a speciali corsi preparatori per unità di fanteria, la cui meta è di inserirne in futuro molti di loro in qualità di ufficiali comandanti.

I migliori tiratori
Fra i comabttenti, una notevole percentuale di immigrati si arruola nelle brigate di fanteria, ma vi sono anche quelli che entrano nei Reparti Corazzati, nel Genio e nell'Artiglieria. Particolarmente notevole è predominio quasi completo degli immigrati dalla Russia nelle unità di tiratori scelti delle brigate di fanteria. I comandanti delle brigate di fanteria spiegano "che un tiratore ha bisogno di pazienza. Questo tipo di mentalità – che ti permette di stare seduto per delle ore finché sia giunto il momento di sfruttare l'occasione – è praticamente inesistente fra i Sabres [nati in Israele]. E' molto più facile per gli immigrati".
    D'altra parte, l'integrazione nelle unità di élite è ancora un processo molto lento. Nel "Commando Marittimo", vi sono pochi nuovi immigrati, nella Sayeret Matkal (l'unità di élite dello Stato Maggiore, destinata ad operezioni speciali) se ne trova uno soltanto. Uno dei problemi riguarda i rigidi controlli di sicurezza a cui sono sottoposte queste unità; altri riguardano le difficoltà di lingua. Soli pochi immigrati hanno superato il corso di addestramento di pilota, di solito quelli che si trovano nel paese relativamente da un lungo periodo. Nei corsi per personale marittimo, in cui l'accento è posto sugli studi accademici, solo pochi immigrati sono stati accettati.
    M, immigrato dalla Russia cinque anni fa e che ora abita in una cittadinia in via di sviluppo, è tiratore scelto nella Brigata Golani. E' giunto in Israele nell'ambito del Programma Na'aleh (l'acrostico ebraico di Giovani Immigrati Prima dei Genitori) ed i suoi gentiori lo hanno seguito un anno dopo. Malgrado sia figlio unico, ha insistito per prestare servizio in un'unità combattente (i figli unici possono essere esentati dalle unità combattenti) "ed ho voluto la Golani, perché ho sentito che prestano servizio a Nord. Non riesco a sopportare il deserto, perciò non sono andato nella Giv'ati". Nel frattempo, è iniziato il conflitto con i palestinesi, che ha portato tutto l'esercito regolare nei territori, scombinando in un certo qual modo tutte le sue considerazioni di carattere geografico. M afferma che già in Russia voleva servire in un'unità combattente "perché è la più interessante. E' un servizio da uomini. All'inizio non ero un grande patriota. Ora so perché sono qui".
    Gli amici che sono immigrati con lui servono in maggioranza come combattenti: "Giv'ati, Guardia di Frontiera, cose del genere. Ce ne sono due che sono diventati autisti". Il maggiore problema dei suoi amici, dice, è economico: "I rapporti fra i soldati di solito sono buoni. Ma vi sono molti soldati che sono qui senza le famiglie ed alcuni hanno dovuto rinunciare al servizio in unità combattenti a causa di problemi di welfare". M è contento di avere scelto la Golani: "E' la migliore. Ti organizza e ti inserisce nella società israeliana. Nella mia città c'è molta gente arrivata con noi dalla Russia, che prestano servizio come autisti e cuochi, e non si integrano per niente". Poiché ha dimostrato di essere un eccellente soldato, i suoi comandanti hanno tentato diverse volte di mandarlo al corso ufficiali. M, che in un primo tempo aveva preso in considerazione la carriera militare, ha rifiutato, soprattutto per l'opposizione dei suoi genitori: "Non vogliono che faccia più di tre anni". [gli ufficiali hanno una ferma più lunga]. Conosce diversi immigrati che sono diventati ufficiali, "ma sono pochi, per via della lingua".
    La Direzione del Personale, infatti, indica alcune decine di ufficiali nati all'estero che ora prestano servizio in qualità di comandanti di compagnia, ma si tratta di uomini arrivati in Israele ad un'età relativamente giovane (Vi sono inoltre due ex- comandanti di brigata – uno immigrato dall'Unione Sovietica all'età di otto anni e l'altro dalla Turchia all'età di nove anni). La percentuale degli ufficiali fra i combattenti nati in Israele è dell'11.6%; fra gli immigrati è del 9%, la maggioranza dei quali si trova da anni nel paese. Il comandante di una base di reclute dice che "i problemi di welfare rendono le cose molto difficili per gli immigrati, specialmente se vogliono diventare ufficiali". La maggioranza cede alle pressioni della famiglia e chiede il congedo dopo tre anni, per essere vicino a casa ed aiutarla economicamente. Un'altra spiegazione, già menzionata, riguarda i problemi di lingua.
    Ya'akov Kirsch, che presiede la commissione di sicurezza del movimento kibbutzistico, contribuisce all'inserimento nell'esercito di molti nuovi immigrati, nell'ambito del Programma Na'aleh (circa la metà dei partecipanti al programma vive in kibbutz). Kirsch ritiene che non sia solo l'esercito ad avere il merito dell'integrazione degli immigrati, agli immigrati stessi spetta tale merito. "Malgrado i grandi sforzi fatti dall'esercito israeliano, esso non riesce a trarre vantaggio dal loro enorme potenziale. Non vi è ancora nessuna correlazione fra il loro alto profilo personale ed il fatto che vengano

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messi in posizioni di comando".
    Circa il 40% degli immigrati riceve una qualche forma di sostegno economico dall'esercito. Questi aiuti vanno dal mantenimento del soldato che è solo nel paese, al sostegno finanziario convogliato alle famiglie. Ciò comporta una spesa di decine di milioni di Shekel (4,6 Shekel = 1 $) all'anno, che non diminuirà nemmeno ora, con i tagli previsti nel bilancio della difesa. A volte, le difficilissime condizioni di vita della famiglia vengono scoperte solo dopo la morte del figlio. Ciò è accaduto quando Nikolai Rappoport, della Brigata Giv'ati fu ucciso in Libano nel 1998 e quest'anno, dopo la morte di un ufficiale della Giv'ati nella Striscia di Gaza.
    Il successo nell'integrazione degli immigrati ha portato l'esercito israeliano a sviluppare altri programmi, riguardanti il servizio della riserva. Quest'anno, dopo un interruzione di tre anni, è stata ripresa la seconda fase dell'addestramento di base, destinato ad immigrati fra i 26 ed i 29 anni di età, che si trovano nel paese da almeno cinque anni. La maggioranza di coloro che hanno finito l'addestramento di base, sono diventati tecnici o paramedici. Il generale di brigata Zamir dice che l'esercito è rimasto sorpreso dall'alto grado di disponibilità dimostrato dai vecchi immigrati.
    Di solito, malgrado le difficoltà di inserimento di cui abbiamo parlato, l'esercito israeliano irradia un ottimismo senza paragoni, rispetto ad ogni altro campo, circa le possibilità di arrivare ad una realizzazione delle potenzialità degli immigrati nei propri ranghi. "Molti di noi non hanno dubbi – dice il comandante dei reparti corazzati – che fra una ventina di anni, la maggioranza dei comandanti di campo dell'esercisto israeliano saranno di origine russa. Si tratta di persone con un alto profilo personale, che vengono da una società con una tradizione militare altamente sviluppata ed un grande senso di rispetto per l'establishment, l'esercito e l'uniforme. E' solo una questione di tempo, finché diventeranno comandanti di battaglione e di brigata".

(Keren Hayesod No. 209, 12.12.02 - Ha-aretz, 28.12.2002 )



INTERVISTA A NETANYAHU


Cadrà anche il tiranno Arafat

di Fiamma Nirenstein

    
Benyamin Netanyahu

GERUSALEMME. Benyamin Netanyahu è alla vigilia della partenza per l'Europa. Prima in Italia, poi in Francia e Gran Bretagna. Stasera sarà a Roma, dove incontrerà il presidente del consiglio Silvio Berlusconi e il ministro della Difesa Antonio Martino. Il giorno successivo terrà una riunione di lavoro con il ministro degli Esteri Franco Frattini alla Farnesina. Può darsi che a Palazzo Chigi incontri anche Gianfranco Fini: «Dipende da chi il presidente del Consiglio deciderà di invitare», dice una fonte vicina al ministro degli Esteri israeliano, e aggiunge: «Una visita in Israele del vice primo ministro è del tutto plausibile e forse vicina». Nell'intervista esclusiva concessa a «La Stampa», il ministro degli Esteri parla di tutto, ma prima si confida: «Sono molto triste», dice, e appare affranto, abbattuto. Leonardo Mondadori, che si è spento a Milano tre giorni fa, era uno dei suoi migliori amici. «Nel 1986 - dice - avevo pubblicato con Time Magazine un libro sul terrorismo intitolato: "Come l'Occidente può vincere". Leonardo mi mandò un fax chiedendomi se mi interessava pubblicare il libro in italiano con lui. Perché no?, gli risposi. Ci incontrammo a Milano, allora ero ambasciatore di Israele all'Onu: non ci siamo mai più lasciati».

Ministro, perché ha scelto l'Italia come prima tappa?

«E' molto naturale, l'Italia è vicina in due sensi: politico e geografico. La leadership italiana sa di essere parte del mondo occidentale; sa che questo mondo oggi è soggetto a un attacco frontale da parte di un terrorismo spietato sorretto da Stati dittatoriali; sa che Israele è in prima fila rispetto a questo attacco cui dobbiamo rispondere tutti insieme, come un solo uomo».

In realtà sulla questione del terrorismo si fanno molti distinguo in Europa, e Israele in genere non viene vista come un avamposto della lotta generale al terrorismo, quanto piuttosto un casus belli che agita le acque di tutti. Prendiamo il caso di Betlemme, per cui la cristianità si sente angustiata: perché tenete le truppe in città per Natale? Monsignor Sambi, il Nunzio Apostolico, ha detto che è una punizione collettiva contro i cristiani del luogo, che non hanno mai perpetrato un attacco terroristico.

«Innanzitutto purtroppo Betlemme è arduamente definibile, ormai, dopo che i musulmani hanno espulso la maggior parte dei cristiani, come una cittadina cristiana. Ma questo non è importante: noi non attuiamo nessuna punizione collettiva, anzi, apriamo la città quanto si può. Ci limitiamo a rispondere al terrorismo, a specifici avvertimenti di intelligence che ci annunciano che abbiamo terroristi in marcia da Betlemme. Se ce ne andiamo, avremo quasi di sicuro un altro attentato da Betlemme. Lei sa che ne sono venuti non pochi di là, e anche che l'ultimo terrorista kamikaze che ha ucciso 12 fra alunni, mamme, ragazzi sull'autobus numero 20 era di Betlemme. Credo che i cristiani non desiderino festeggiare il Natale con un'esplosione, con ancora tanti morti innocenti».

Tuttavia la vostra presenza armata nelle città palestinesi innesca un ciclo che non ha mai fine.

«Non c'è nessun ciclo di violenza, come si ama ripetere senza riflettere: qui c'è solo un continuo attacco terroristico, e il tentativo di difenderci, di fermarlo. Non è facile: è vero, causiamo perdite non desiderate combattendo in condizioni molto difficili. Ma c'è una bella differenza con la pianificazione sistematica di attacchi alla popolazione civile».

Ma vengono uccisi dei bambini.

«Perché i terroristi si nascondono in mezzo alla popolazione civile, e noi dobbiamo combattere il terrore, arrestare i colpevoli, prevenire le centinaia di attacchi: che farebbe qualsiasi altro Stato, l'Italia, la Francia?»

Ma la trattativa non risolverebbe?

«La trattativa con chi? Abbiamo cercato in ogni modo di convincere Arafat a fermare il terrore in vista di un ritorno al negoziato, senza risultati di sorta: ha continuato a fomentare, a esaltare, a finanziare il terrorismo. Non fermi il terrore se non lo stringi in un angolo».

Cioè costringendo Arafat alla resa, o all'esilio. Lo vuole esiliare? Uccidere?

«Non l'ho mai detto! Ma Arafat dovrà pur ritirarsi, e può darsi che questo sia facilitato con una generale defaillance dei tiranni dopo il disarmo e la destituzione di Saddam Hussein che potrebbe cambiare il panorama generale del Medio Oriente, aiutando l'avvio di un processo di democratizzazione».

Lei si è contrapposto a Sharon, che è considerato dall'opinione pubblica mondiale un uomo di destra, perché mentre lui ammette la creazione di uno Stato palestinese, lei, ministro, invece si oppone. Anche gli Usa propongono una soluzione di due Stati. Ovvero, lei è il più falco di tutti?

«Innanzitutto occorre reciprocità quando si tratta: è Arafat, salvo quando io l'ho costretto a fermare il terrore nei tre anni del mio mandato come primo ministro, non ha mai veramente desiderato due Stati, ma uno Stato solo, la Palestina: si è immaginato che gli israeliani sarebbero stati cacciati via dai palestinesi, via da Tel Aviv, da Haifa, come gli Hezbollah, secondo lui, ci hanno cacciato dal Libano. Ora, per essere chiari, noi non vogliamo governare i palestinesi. Ho molti punti in comune con Sharon anche se su tante cose siamo diversi. Ambedue pensiamo che si aprirebbero molte possibilità nuove se le organizzazioni terroristiche fossero smantellate sul serio, se cambiasse il regime e nascesse un governo democratico, se avessimo una riforma ben visibile, se avesse luogo una autentica demilitarizzazione. Cerchiamo di non dimenticare che Israele è minuscolo, che uno Stato palestinese nemico può sparargli missili in casa da ogni parte, può abbattere i nostri aerei da brevissima distanza. Il mondo intero comincia a rendersi conto che non si deve contare su buoni sentimenti inesistenti, che il vizio del terrorismo è orribile e radicato».

L'Europa che lei sta per visitare tuttavia pensa che si debba comporre la situazione israelo-palestinese per battere il terrore.

«L'Europa cerca di risparmiarsi delle dure verità. Nel momento stesso in cui realizziamo che il terrorismo ha una sola radice, si capisce che gli Usa sono il Grande Satana, Israele è il Piccolo Satana, ma l'Europa è un Satana a sua volta, e il terrore la considera suo obiettivo. L'Islam militante non odia l'Occidente a causa di Israele ma Israele a causa dell'Occidente. Perché è un'isola di valori occidentali democratici in un mare di dispotismo. Basta guardare cosa dicono loro stessi: quando nel `98 Bin Laden chiamò alla Jihad, non dette come prima ragione i palestinesi ma la presenza degli Usa nel "luogo più santo dell'Islam", la penisola arabica, culla dell'Islam, di Maometto; la seconda ragione era "la continua aggressione contro il popolo iracheno"; solo all'ultimo posto veniva la causa palestinese».

Sì, ma adesso è diventata la prima. Al Qaeda ha attaccato in Kenya l'Hotel Paradise e l'aereo della Arkia. Al Jazeera, la tv che trasmette in tutto il mondo arabo, ha ricevuto un messaggio di Bin Laden che annunciava la guerra totale agli ebrei. Israele non pensa di rispondere direttamente ad Al Qaeda?

«Non intendiamo prendere nelle nostre mani una guerra contro il terrore che richiede il consenso e l'impegno di tutti i Paesi democratici, e che vede gli Usa in prima fila. Israele è per Al Qaeda un'estensione del conflitto centrale, scelto per mobilitare il mondo arabo al proprio fianco specialmente nell'occasione del conflitto con Saddam».

Ma Israele distrusse il reattore di Saddam nell'81, quando sentì una minaccia specifica.

«Fu un'ottima scelta che ha salvato non solo noi ma il mondo intero dall'uso malvagio che il dittatore iracheno ne avrebbe fatto. Non ho nulla, filosoficamente, contro la prevenzione: avrebbe salvato il mondo in molte circostanze, compresa quella della guerra di conquista di Hitler. Ma qui con prevenzione si intende un'impresa molto grande, mondiale, non solo bellica, ma di progresso generale della democrazia, di abbattimento di regimi che fomentano il terrore: il terrorismo internazionale è basato sui regimi dell'Iran, dell'Iraq, della Siria, dell'Autorità Palestinese, e prima sull'Afghanistan dei taleban, su Kartum... L'elenco potrebbe essere più lungo. Dal tempo della rivoluzione khomeinista alla vittoria dei mujaheddin in Afghanistan con la conseguente crescita di Bin Laden, alla creazione da parte di Arafat di una zona franca per Hamas e la Jihad islamica e altri gruppi, all´enorme ambizione bellica di Saddam, si è creata una rete: per batterla occorre soprattutto l'arma della onesta intellettuale, della chiarezza, che individua il terrore come un nemico, e individua gli Stati sponsor. E basta».

Che ne pensa della visita di Assad a Blair?

«La Siria e una centrale di terrorismo, dà rifugio a decine di organizzazioni, protegge Saddam Hussein. Probabilmente Assad cerca di confondere le acque, vuole uscire dal radar che inquadra gli Stati sponsor dei terrore. Ma con il terrorismo non ci sono accordi né compromessi, ci pensano loro a dimostrarlo».

(La Stampa, 17.12.2002)



CREATO IL NUOVO FONDO CRISTIANO DEL KEREN HAYESOD


    La prima seduta del nuovo Fondo Cristiano del Keren Hayesod avrà luogo questa settimana in Germania. Vi parteciparanno il Presidente mondiale del Fondo, Rav Yechiel Eckstein, il direttore del Dipartimento europeo del KH, Micha Limor, il Presidente Nazionale del KH tedesco, Andreas Wankum ed i capi della principali organizzazioni e chiese cristiano-evangeliche in Germania, compresa Bridges to Jerusalem, che conta 200.000 iscritti. Saranno inoltre presenti i principali industriali cristiani ed i rabbini-capi di Berlino. L'obiettivo della riunione è di porre le basi di attività a largo raggio, da svolgersi fra i cristiani tedeschi, per raccogliere denaro per Israele, tramite i media, la posta e decine di incontri.
    Durante lo scorso anno, il programma di attività fra i cristiani olandesi ha avuto molto successo, fruttando decine di migliaia di dollari in progetti e denaro per l'alià. L'idea del nuovo Fondo Cristiano è di estendersi verso la Scandinavia, una volta che il programma tedesco sia stabilito e funzionante.
    In altro ambito, Rav Yechiel Eckstein, presidente e fondatore dell'International Fellowship of Christians and Jews, con sede a Chicago, e membro del Consiglio di Amministrazione del Keren Hayesod, è stato indicato dall'importante giornale ebraico The Forward fra i più influenti ebrei oggi in America, arrivando fra i primi della "Lista dei 50 del Forward ", insieme al vice-segretario americano alla Difesa, Paul Wolfowitz; Abraham Foxman, Direttore nazionale della Lega contro la Diffamazione, e Thomas Friedman, del New York Times.

(Keren Hayesod,17 dicembre 2002, No.17)



ISTIGAZIONE ALL'ODIO ANTISEMITA SUL SITO WEB DI HAMAS


    Un'aquila che colpisce con il becco la testa mozzata del primo ministro israeliano Ariel Sharon e la scritta: "Useremo i teschi dei figli di Sion per costruire un ponte verso il paradiso". E' l'ultima immagine pubblicata sul sito web del movimento fondamentalista palestinese Hamas. Il banner, messo in linea lunedi', incoraggia l'assassinio degli ebrei come parte della jihad o "guerra santa".
    Il 23 novembre, per commemorare la morte nove anni prima di Imad Akal, importante terrorista Hamas a Gaza, era stato messo in linea un altro banner con la scritta: "Busseremo alle porte del cielo con i crani degli ebrei". L'illustrazione mostrava una scure che fa a pezzi la parola "ebrei" e frantuma crani di ebrei. Il banner venne pubblicato a pochi giorni di distanza dalla fine dei colloqui al Cairo fra Hamas, Fatah e funzionari egiziani su una presunta ipotesi di tregua temporanea degli attentati contro civili all'interno di Israele, ipotesi peraltro sempre smentita dai rappresentanti di Hamas. I colloqui del Cairo dovrebbero riprendere nel prossimo futuro.

(israele.net, 17.12.02 - dalla stampa israeliana)



LA TRAMA SEGRETA DI ARAFAT


Il lato oscuro dell'Olp

di Foggy Bottom

    "Elementi moderati all'interno della leadership della AP (l'Autorità Palestinese) hanno espresso il loro disappunto per le intenzioni di Yasser Arafat, deciso a scardinare la nuova versione della cosiddetta "Road Map". I palestinesi moderati sono stati sorpresi dal grande errore commesso da Miguel Moratinos, il rappresentante dell'Unione Europea in Medio Oriente. Moratinos ha dato la nuova versione della "Road map" in anticipo ad Arafat, concedendogli così la possibilità di sabotarla e di renderla inutilizzabile. Arafat non è per nulla interessato a mandare avanti la "Road Map" e sta facendo di tutto per evitare ogni negoziazione. Moratinos, che commette l'errore di identificare Arafat con i palestinesi, è caduto, secondo i moderati, in una trappola. I contrasti fra Arafat e i suoi avversari moderati sono sempre più accesi, come risulta a Foggy Bottom e alla Cia. Arafat li minaccia. Il 24 settembre scorso le sue squadracce hanno sparato colpi di mitragliatore contro la casa di Nabil Amru, ex ministro degli affari parlamentari. Un altro bersaglio degli attacchi di Arafat è il nuovo ministro delle finanze, Salam Fayad.
    L'antenna della Cia a Tel Aviv è una delle più attive. Gli agenti americani hanno stretti rapporti con gli israeliani e si occupano molto della Autorità palestinese e del terrorismo a essa collegato. Ma è sotto osservazione anche l'economia dei territori e con l'economia anche le finanze del "governo" di Yasser Arafat visto l'afflusso di fondi provenienti dall'estero (soprattutto dai generosi europei) che finiscono nelle casse palestinesi. Da alcuni mesi l'autorità palestinese ha nominato a capo delle Finanze Salam Fayad ma la situazione non accenna a migliorare. Ci sono irregolarità finanziarie. Il ministro, ad esempio, ha dichiarato che l'AP ha 55mila dipendenti nelle sue diverse forze di sicurezza. Invece non dovrebbe averne più di 30mila. Ciò significa che l'AP paga 25mila dipendenti in più, e quasi certamente si tratta di attivisti di Al Fatah coinvolti in attività di "Intifada" e terrorismo. Anche sulla manipolazione dei salari vi sono prove inconfutabili. L'AP dichiara di aver bisogno di 56 milioni di dollari per pagare gli stipendi agli addetti alle forze di sicurezza. Ebbene, secondo il database dell'ufficio statistico palestinese, basterebbero solo 35 milioni di dollari. Il resto finisce agli agenti di Al Fatah che lavorano fuori dall'Autorità palestinese, alle organizzazioni terroristiche e, per una quota importante, personalmente ad Arafat.
    Altro scandalo. L'Autorità palestinese riceve gli aiuti economici in dollari ed euro. Ma paga il salario degli impiegati in shekel, la moneta israeliana e usa un cambio più basso di quello ufficiale (3,7 shekel per dollaro invece del cambio regolare di 4,6 shekel). L'AP incamera la differenza e non riporta il surplus in bilancio. Arafat, così, continua ad approvare trasferimenti di fondi ai terroristi. Per esempio ha trasferito oltre 2mila dollari al ministero degli Esteri di Cipro per fornire aiuto ai terroristi lì deportati da Betlemme.
    Da mesi al Parlamento europeo si cerca di mettere insieme le firme per chiedere una commissione d'inchiesta su come l'AP impiega i fondi. Ne sono state raccolte solo 100. Ne servono 157. Chi si oppone a questa iniziativa è soprattutto il commissario europeo per le Relazioni internazionali, Chris Patten, l'uomo che sta dietro al budget di centinaia di milioni di euro dati all'AP. Patten sostiene che non servono indagini e che tutto va bene.. ma con questi euro l'AP, come si vede, continua a finanziare il terrorismo, in barba agli accordi sottoscritti solennemente con paesi che inviano gli aiuti economici e in barba agli accordi di Oslo.
    E' Arafat il principale responsabile di questa allegra e pericolosa amministrazione delle finanze dell'Olp."

(Il Foglio, 11.12.2002)



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