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Notizie su Israele 297 - 24 maggio 2005

1. Proteste a New York contro Sharon
2. E se qualcuno volesse «tentare il colpo?»
3. 19 luglio: «Giornata internazionale contro il ritiro»
4. Ha sbagliato Bush a puntare su Abbas?
5. Incondizionata solidarietà alle Università israeliane
6. Katsav teme la forza «politica» di Hamas
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 52:7. Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone notizie, che annunzia la pace, che è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza, che dice a Sion: «Il tuo Dio regna!»
1. PROTESTE A NEW YORK CONTRO SHARON




NEW YORK - Nella sua recente visita a New Yorkl, il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon ha incontrato la massiccia opposizione degli avversari del piano di ritiro. Durante il suo discorso al Baruch College, più di mille dimostranti hanno scandito frasi contro il piano di Sharon, che prevede lo sgombero di 21 insediamenti ebraici nella striscia di Gaza.
    Sharon ha tenuto domenica una conferenza al Baruch College, a cui erano presenti anche l'ambasciatore israeliano negli USA, Daniel Ajalon, e l'ambasciatore di Israele all'ONU, Dan Gillerman. Davanti alla porta dimostravano circa 1.200 persone, le cui grida potevano essere udite anche all'interno della sala della conferenza.
    La folla innalzava striscioni, bandiere e T-shirt color arancione, il colore della protesta contro l'evacuazione degli insediamenti ebraici dalla striscia di Gaza e dalla Samaria del nord. Tra i dimostranti c'erano numerosi ebrei ortodossi e chassidici, rabbini e aderenti al gruppo di destra Krach. «Gli abitanti di Gush Katif sono i veri eroi del popolo ebraico», ha detto Dov Hikind, deputato dello Stato di New York e ebreo ortodosso.
    Dagli ospiti invitati all'incontro con Sharon, tra cui importanti leader americani di gruppi ebraici, Sharon è stato accolto con applausi. Quando il Primo Ministro è salito sul podio, ci sono state prolungate e spontanee ovazioni.
    Nel suo primo incontro con gruppi ebraici americani dal 2001, Sharon ha parlato soprattutto dei forti legami tra ebrei della diaspora e Israele. L'emigrazione di ebrei in Israele ("Aliyà") è il tema più importante del suo governo. Nei prossimi 15 anni vuole veder arrivare in Israele un milione di ebrei, ha detto il Premier.
    Quando è arrivato a parlare del piano di ritiro, alcune persone in T-shirt arancione hanno cominciato a gridare innalzando cartelli con le scritte «Ebrei non cacciano ebrei!» e «Gush Katif per sempre». Dopo che sono stati portati fuori della sala, Sharon ha detto: «Grazie per l'aiuto. Di solito mi occupo io stesso di queste faccende.» Nell'auditorium sedevano anche studenti in T-shirt con la scritta: «Per amore di Israele: smettete l'occupazione!»
    «La decisione del ritiro è stata molto difficile per me», ha detto Sharon. «Conosco molto bene i coloni di Gaza. Come agricoltore sono in grado di apprezzare le loro conquiste agricole. Come soldato rispetto il loro coraggio.» Lunedì il Premier ha rimarcato in un altro discorso che Gerusalemme non sarà toccata: «Io non tratterò mai su Gerusalemme.»
    Mortimer Zuckermann, ex presidente della Conferenza delle organizzazioni di ebrei americani, ha elogiato Sharon come «un guerriero, quando si tratta della difesa di Israele e del popolo ebraico: adesso è un operatore di pace, perché tenta di concludere la pace con i vicini.» E ha aggiunto: «E' una benedizione per noi avere lei come leader d'Israele in questi tempi difficili. [...] Gli ebrei non arriveranno mai ad aver un'unica opinione, ma quando si tratta d'Israele dobbiamo essere uniti.»
    
(Israelnetz Nachrichten, 23 maggio 2005)





2. E SE QUALCUNO VOLESSE «TENTARE IL COLPO?»




Restare a Gaza dopo l'evacuazione? Troppo pericoloso?

di Yossi Alpher (*)

Dal momento che dei coloni desiderano rimanere a tutti i costi dove sono anche dopo l'evacuazione dalla Striscia di Gaza, perché non autorizzarli a vivere sotto l'autorità palestinese? Questo costituirebbe un precedente in vista dell'evacuazione dalla Cisgiordania. Il fatto che alcuni coloni continuino a vivere, a titolo personale, nel seno del futuro Stato palestinese potrebbe facilitare le ardue negoziazioni di scambi territoriali e di redifinizione delle frontiere, rese necessarie dall'esistenza di grandi blocchi di insediamenti ebraici in Cisgiordania. Troppo pericoloso? Perché?

L'unico esempio documentato di leader dei coloni e leader dei palestinesi che discutono la possibilità per dei coloni di rimanere nei territori palestinesi dopo l'evacuazione israeliana, ha avuto luogo dieci anni fa, nel corso di discussioni che avevo organizzato a Gerusalemme. Il colloquio è riportato in «E il lupo dimorerà con il lupo: i coloni e i palestinesi», un libro (in ebraico) che ho pubblicato quattro anni fa. Alcune delle dichiarazioni fatte allora sono diventate attuali soltanto oggi.
    Hassan Asfur, negoziatore capo palestinese: «Noi vogliamo una nazione democratica. La presenza di ebrei ci aiuterà ad assicurare la democrazia e ci permetterà anche di servire da ponte tra Israele e il mondo arabo. Quanto agli insediamenti, sono una conseguenza dell'occupazione. Là dove il loro collocamento non pone problemi, stiamo considerando la possibilità di mantenerli. Ma non prima che sia costituito un Stato palestinese a Gaza e in Cisgiordania... Un colono può restare... a titolo individuale...»
    Khalil Shikaki, eminente politologo palestinese: «Io capisco la motivazione ideologica [dei coloni]. Ma perché... insistere sulla sovranità nazionale? Io sono venuto... per verificare in quale misura ho ragione o no quando faccio l'ipotesi che degli ebrei mossi da motivazioni ideologiche desiderino vivere nella Terra d'Israele per delle ragioni che trascendono la politica.»
    Il professore Yosef Ben Shlomo, colono e insegnante di filosofia ebraica: «Desidero restare a Kedumim anche accettando la sovranità palestinese. In questo sarei simile ai primi sionisti, che vennero qui pronti a vivere su una terra sotto l'autorità ottomana. La [sinistra israeliana] è statista: per lei la sovranità dello Stato viene prima della Terra d'Israele. Io non posso accettare la cittadinanza in uno Stato considerato come autorità superiore a tutto; per me, la cosa principale sono degli ebrei che vivono nella Terra d'Israele.»
    In modo notevole, il laico Ben Shlomo si manifestava come un'eccezione; i coloni religiosi che presero parte ai dibatti inorridivano all'idea di vivere sotto la sovranità palestinese, di far fronte alle rivendicazioni palestinesi di proprietà sulle loro terre, di accogliere dei vicini palestinesi sui loro insediamenti e di sottomettersi alle leggi palestinesi. I pourparler, avviati nel momento in cui si cominciava a mettere in atto il processo di Oslo e quando i coloni diventavano sempre più inquieti riguardo al loro avvenire, naufragarono dopo l'assassinio di Rabin. In seguito, gli avvenimenti sembrarono averli dimenticati.
    Oggi, dieci anni più tardi, quando l'evacuazione fisica dei coloni è diventata, per la prima volta, una realtà imminente, vista la richiesta pubblica di alcuni coloni di restare sul posto, queste discussioni sono più attuali che mai. Al di là dei molteplici problemi tattici e politici relativi alla situazione, due questioni più generali sono in gioco.
    Anzitutto, nonostante anni di pace tra Israele e due paesi arabi vicini, gli inviti pubblici al ritorno lanciati dai dirigenti marocchini e libanesi, e duemila anni di tradizione di vita ebraica in Egitto, nessun ebreo israeliano - a parte i diplomatici israeliani, e rappresentanti commerciali temporanei o, forse, qualche campaggiatore stabilitosi sulla costa del Sinai - ha scelto di tentare di vivere in modo permanente in Egitto, in Giordania, o in qualsiasi altro paese arabo. In altri termini, non esiste alcun precedente di israeliani che vivono in Palestina.
    Inoltre, la Palestina non è un paese arabo come gli altri; per gli ebrei costituisce una parte della Terra d'Israele storica. Se degli ebrei hanno l'intenzione di reinstaurare una residenza permanente, o qualcosa di simile, nel mondo arabo, la Palestina è veramente la scelta più logica. Se alcuni coloni del nord della Striscia di Gaza sono interessati, e si dichiarano pronti a vivere sotto l'autorità palestinese con tutte le conseguenze che questo implica, perché il governo d'Israele dovrebbe evacuarli di forza dalle loro case?
    La paura di una confisca palestinese delle terre dei coloni o di un comportamento arbitrario della polizia palestinese non può costituire un ostacolo. Se questo accadesse, i coloni potrebbero sempre cambiare idea, partire e probabilmente ricevere la loro indennità israeliana. Il motivo evidente di preoccupazione è piuttosto la loro sicurezza fisica: la vita dei coloni sarebbe in pericolo. Potrebbero, in una certa misura, essere soccorsi, potrebbero essere uccisi e uccidere dei palestinesi, e le conseguenti complicazioni militari e politiche potrebbero essere costose. Si corre dunque un rischio, non solo a livello individuale, ma anche a livello nazionale.
    D'altra parte, l'esperienza di coloni che si offrono come volontari potrebbe avere importanti implicazioni potenziali per il futuro delle relazioni israelo-palestinesi. Oggi ci prepariamo ad evacuare 8.000 coloni, con un'operazione che rischia di essere violenta e altamente traumatizzante. Ma domani, al fine di far nascere uno Stato palestinese, di qualunque natura esso sia, dovremmo evacuarne almeno altri 50.000. Oggi, i blocchi di insediamenti e i quartieri ebraici di Gerusalemme Est continuano ad estendersi. Domani, selezionare il territorio con cui risarcire uno Stato palestinese per l'annessione dei blocchi di insediamenti fatta da Israele potrebbe diventare una prospettiva sempre più scoraggiante.
    Se dei coloni potessero restare sul posto come residenti in Palestina, un modello nuovo e molto più flessibile potrebbe emergere per ridisegnare le frontiere e scambiare dei territori. Sarebbe concepibile, per esempio, che Hebron-Kiryat Arba conservi la sua popolazione di coloni ebrei senza essere annessa da Israele. I coloni residenti su un territorio assegnato allo Stato palestinese potrebbero considerare una terza opzione: restare sul posto, oltre a quella di combattere il governo israeliano con le unghie e coi denti o accettare un risarcimento e sloggiare. Tutto il processo potrebbe mostrarsi meno traumatizzante, e dunque più accettabile da un gran numero di israeliani.
    Per aver partecipato a delle serie discussioni sui problemi in questione, e considerate le sfide e i pericoli che i coloni dovrebbero affrontare, personalmente sono scettico quanto alla capacità di resistenza dei coloni che scegliessero di restare. Ma se vogliono tentare il colpo...?
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(*) Yossi Alpher è codirettore di bitterlemons.org e bitterlemons-international.org. E' stato direttore del «Jaffee Center for Strategic Studies» e principale consigliere del Premier Ehud Barak.

(www.bitterlemons.org, 18 aprile 2005)





3. 19 LUGLIO: «GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO IL RITIRO»




GERUSALEMME/NEW YORK - Gli avversari dell'evacuazione dei coloni dalla striscia di Gaza e dal nord della Samaria hanno dichiarato il 19 luglio «Giornata internazionale contro il piano di ritiro». Si prevede che migliaia di ebrei-chabad chassidici andranno in Israele per dimostrare contro il piano.
    Grandi manifestazioni si terranno a Tel Aviv nella «Giornata contro il ritiro»; ma anche in altri paesi i dimostranti vogliono scendere in strada. Negli USA la manifestazione più grande avverrà nella capitale Washington, riferisce l'agenzia di notizie «Arutz Sheva».
    In un primo tempo, il governo israeliano aveva fissato il 20 luglio come giorno d'inizio dell'evacuazione dei coloni ebrei. Ma poiché il ritiro avrebbe coinciso con il periodo di cordoglio del «Tisha Be' Av», Ariel Sharon ha rinviato l'esecuzione del piano ad un tempo successivo. Il nono giorno del mese ebraico Av, cioè il 14 agosto, i credenti ebrei ricordano la distruzione del primo e del secondo tempio a Gerusalemme, insieme ad altri tragici avvenimenti della storia del popolo ebraico.
    Rabbi Shalom Dov Wolpe, una personalità di spicco del movimento Chabad e propugnatore di un «Grande Israele», durante una sua visita a New York ha esortato gli ebrei chassidici negli USA ad andare in Israele a dimostrare contro il piano di ritiro. Quando il governo darà l'ordine di evacuazione, i Chassidim dovrebbero impedire «che anche solo un pezzo della terra d'Israele venga dato via». Questo insegnerebbe anche la dottrina del Rabbi Menachem Mendel Schneerson. Schneerson è stato uno dei più importanti maestri del movimento Chabad ed è stato venerato come il «Messia». E' morto nel 1994.
    
(Israelnetz Nachrichten, 23 maggio 2005

prosegue ->
4. HA SBAGLIATO BUSH A PUNTARE SU ABBAS?




Non è cambiato nulla per l'Autorità palestinese

di Daniel Pipes

La morte di Yasser Arafat del novembre scorso alimentò forti speranze in coloro che pensavano che la sua malefica personalità fosse la cagione principale dell'intransigenza palestinese.

Ma quelli di noi che ritenevano che il problema fosse di portata maggiore - causato piuttosto dalla profonda radicalizzazione del corpo politico palestinese - si aspettavano un piccolo cambiamento. Anzi, in occasione dell'elezione di Mahmoud Abbas a leader dell'Autorità palestinese (AP), io scrissi che "egli potenzialmente rappresenta per Israele un nemico molto più acerrimo" di quanto lo sia stato Arafat.

Come si presenta la situazione a sei mesi dalla morte di Arafat? In modo pessimo, come ci si poteva aspettare. Abbas condurrà inequivocabilmente i palestinesi alla guerra dopo che gli israeliani si ritireranno da Gaza nell'agosto 2005. Prendiamo in considerazione alcuni sviluppi recenti:
Reclutare terroristi come soldati. Piuttosto che arrestare i terroristi, come sancito dalla tregua di fatto siglata nel febbraio scorso tra Israele e i palestinesi, Abbas ha avviato un unico programma di impiego che prevede il loro inserimento nelle forze di sicurezza palestinesi. L'Associated Press spiega il delizioso sistema a punti utilizzato per stabilire quale grado ricoprire: "Un diploma di scuola superiore vale otto punti, mentre un anno trascorso in una prigione israeliana o in fuga valgono due punti ognuno. I combattenti non acquisiscono crediti per il tempo trascorso nelle guardine palestinesi, ma ottengono dei punti supplementari se sono stati feriti dall'esercito israeliano o se le loro abitazioni sono state demolite". Le autorità israeliane accettano che persino gli assassini palestinesi giudicati colpevoli portino armi.
Armare i terroristi. L'agenzia di intelligence militare palestinese agevola i gruppi terroristici nell'importazione di contrabbando a Gaza di missili a spalla SA-7 Strela da utilizzare contro gli aerei israeliani.
Incitare la popolazione. Come hanno minuziosamente descritto il Palestinian Media Watch, il Center for Special Studies e Michael Widlansky, i discorsi politici, gli argomenti trattati dai media, i sermoni delle moschee, i libri di testo scolastici e i manifesti affissi sui muri continuano a esprimere la loro rabbia antisemita e contro Israele, come avveniva nei giorni peggiori del governo di Arafat. Ad esempio, Ahmad Qureia, il cosiddetto primo ministro dell'AP, minaccia "un'esplosione" riguardo al modo di affrontare la questione della moschea di Al-Aqsa da parte israeliana.
Fingere gli arresti dei terroristi. Come ai tempi di Arafat, l'AP mette in scena la farsa di arrestare i terroristi facendo clamore per poi permettere tranquillamente loro di "evadere" dalle prigioni. Due esempi di questi arresti provvisori: due perpetratori finiti in carcere in aprile per aver partecipato all'organizzazione di un attentato suicida a Tel Aviv nel febbraio scorso; e il primo arresto di un terrorista di Hamas effettuato dalla polizia palestinese il 2 maggio, ma che è stato immediatamente rilasciato il giorno dopo.
Come emerge da quanto detto, il terrorismo palestinese, specie quello che viene da Gaza, a partire da aprile ha subito un clamoroso incremento. La situazione sta deteriorando al punto che un analista come Leslie Susser reputa che la tregua di febbraio "potrebbe essere sull'orlo del collasso".

È difficile ribattere la conclusione cui è giunta Caroline Glick, secondo la quale il governo Sharon e l'amministrazione Bush si sono entrambi "terribilmente sbagliati" nel puntare su Abbas. E finora, nessuno dei due ammette questo errore poiché, avendo sottolineato le buone intenzioni di Abbas, adesso si trovano profondamente coinvolti nel successo della sua carriera politica.

Il programmato ritiro da Gaza che avverrà in agosto può darsi che accelererà nuovi cicli di violenza. Forse ciò accadrà a luglio, dal momento che l'esercito israeliano sarà impegnato in un massiccio rastrellamento di Gaza per assicurare che il futuro ritiro non avvenga sotto il fuoco palestinese.

Probabilmente a settembre seguiranno maggiori episodi di violenza, se i palestinesi, avendo Gaza nelle loro mani, avvieranno un nuovo attacco contro Israele. Questo nuovo ciclo di violenza sarà presumibilmente caratterizzato dal consistente arsenale missilistico che Hamas sta ammassando. Il capo di Stato maggiore, Moshe Ya'alon, ha preannunciato ufficialmente: "Subito dopo il ritiro ci aspettiamo una nuova ondata di terrorismo".

Perciò Ariel Sharon ha chiaramente biasimato l'esistenza di elementi per un massiccio disastro.

Ironia della sorte, l'unica cosa che potrebbe prevenire questo scenario sarebbe una vittoria di Hamas alle elezioni per il rinnovo del Consiglio legislativo palestinese, previste per metà luglio. Il crescente numero di voci israeliane che chiedono la posticipazione o perfino l'annullamento del ritiro da Gaza dovrebbe agevolare Hamas, come sembra probabile. Ad esempio, il ministro degli Esteri Silvan Shalom asserisce che se Hamas dovesse vincere le elezioni, sarebbe "assurdo" portare a termine il piano di disimpegno e permettere ad Hamas di creare un "Hamastan" a Gaza.

Così, nei prossimi quattro mesi si prospetteranno parecchie eventualità. Il loro elemento in comune consiste nel fatto che a partire da settembre il teatro arabo-israeliano assumerà una forma ben peggiore di quella attuale.

(New York Sun, 17 maggio 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes)






5. INCONDIZIONATA SOLIDARIETA' ALLE UNIVERSITA' ISRAELIANE




Qualche settimana fa il sindacato dei professori universitari della Gran Bretagna (49.000 iscritti) ha invitato i suoi aderenti a boicottare le Università israeliane di Haifa e Bar Ilan proponendo di non stabilire alcun rapporto di collaborazione scientifica con le due istituzioni. Una docente universitaria italiana ha espresso la sua disapprovazione con una lettera che qui riportiamo integralmente.

For Publication

To: Sally Hunt,
General Secretary, The Association of University Teachers
United Kingdom


Dear Ms Hunt,

I was really shocked to learn about the AUT decision to boycott Haifa and Bar Ilan Universities in Israel and the related decision to offer a waiver to scholars that would publicly state their willingness to conform to this particular decision.

Such behaviour is unquestionably illiberal and does not have any ground in the academic tradition of supporting freedom of thought and tolerance.

On the other hand, the policy enforced in both Haifa and Bar Ilan Universities is a true bulwark of freedom. Not only the teaching staff includes scholars of different ideologies - not to mention their different ethnical background - but it has been decided not to take any action against Dr. Pappe, responsible of exposing his University to the AUT boycott.

On this basis, I wish to express my unconditional solidarity to the Israeli universities and their faculties and, as a symbolic gesture of defending academic freedom, I ask AUT to include me in the boycott list. I hope that other collegues of all political standings will join me in this decision

Marina Marini, PhD
Associate Professor of Cell Biology
University of Bologna
Italy

(yosefmenachem.tiles@fastwebnet.it, 19 maggio 2005)





6. KATSAV TEME LA FORZA «POLITICA» DI HAMAS




Il presidente dello Stato israeliano Moshe Katsav ha ricevuto questo lunedì i delegati di partiti social-democratici e socialisti di tutto il mondo. Erano circa 300 rappresentanti di una cinquantina di Stati, alcuni di loro erano ex capi di governo o ministri.
    Nel discorso che ha pronunciato davanti ai suoi ospiti, il presidente ha evocato la situazione in Medio Oriente, e in modo particolare ha espresso la sua inquietudine davanti alla crescita di Hamas, ricordando che l'organizzazione terroristica non ha mai rinunciato alla violenza e ha rifiutato di consegnare le sue armi.
    Ha inoltre deplorato il fatto che «l'Autorità Palestinese non riesce a far cessare gli atti terroristici e non rispetta nemmeno i suoi impegni menzionati nella Road Map». Katsav ha aggiunto: «Se i palestinesi non fermano il terrorismo, si rischia di vedere un escalation di violenza che non permetterà di condurre dei seri negoziati politici».
    Ma, ha aggiunto il presidente, se i palestinesi metteranno fine a questo spargimento di sangue, «Israele sarebbe pronto a fare dei gesti supplementari». Ha precisato che allora sarebbe possibile mandare avanti i pourparler in vista di un regolamento permanente del conflitto nella regione.
    Il presidente Katsav si è dichiarato «preoccupato dalla presenza di fanatici in seno all'Autorità Palestinese» e dal «rischio che Hamas possa giocare un ruolo politico sempre più importante». Ha precisato: «Esiste al mondo un partito politico in uno Stato democratico che possiede un esercito privato e detiene delle armi?» Ma in effetti, di quale Stato democratico parlava?
    Evocando poi delle questioni di sicurezza più globali, non ha nascosto la sua preoccupazione davanti allo sviluppo delle armi di distruzione di massa dell'Iran.
    
(Arouts 7, 23 maggio 2005)





7. MUSICA E IMMAGINI




Shiboleth BaSahdeh




8. INDIRIZZI INTERNET




Il paese che non sai

Witness to the Nations




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