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Notizie su Israele 395 - 20 luglio 2007

1. Dibattito sulla popolazione di Gerusalemme
2. Il paese della tecnologia
3. Il giardiniere del campo da golf di Cesarea
4. La Polonia riscopre la cultura yiddish
5. Una voce dall'interno di Israele
6. L'esercito di Hamas
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 29:22-23. Perciò così dice il Signore alla casa di Giacobbe, il Signore che riscattò Abraamo: «Giacobbe non avrà più da vergognarsi e la sua faccia non impallidirà più. Poiché quando i suoi figli vedranno in mezzo a loro l'opera delle mie mani, santificheranno il mio nome, santificheranno il Santo di Giacobbe, e temeranno grandemente il Dio d'Israele.»
1. DIBATTITO SULLA POPOLAZIONE DI GERUSALEMME




Tre voci da Gerusalemme

di Aviel Schneider

Fino a che punto è effettivamente unita, dopo 40 anni, la popolazione di Gerusalemme? Di questo hanno discusso insieme tre cittadini di Gerusalemme: Nir Barkat (ebreo laico e consigliere comunale), Rabbi Shlomo Rosenstein (ebreo ortodosso e consigliere comunale) e Elias Khoury (cristiano palestinese e noto avvocato di Gerusalemme). Tre diverse opinioni di persone che vivono insieme, ma non la pensano ugualmente. A dire il vero, nel dibattito su Gerusalemme dovrebbe essere presente anche una quarta parte: i cittadini musulmani, che hanno un atteggiamento ancora più estremo riguardo al governo ebraico sulla Terra Santa. Le differenti posizioni e opinioni fanno capire quanto è delicata e difficile la vita nella sacra città di Gerusalemme.

Quanto è unita Gerusalemme?

Elias Khoury
«Gerusalemme non è mai stata una città unita, nel senso di una società multicolore», dice l'avvocato Elias Khoury, che durante l'ultima Al-Aqsa intifada ha perso suo figlio e suo padre in un attentato suicida palestinese. «L'unione di Gerusalemme è stata compiuta unilateralmente e con violenza. Gerusalemme non è unita, questo non è altro che un pio desiderio. La popolazione araba è stata cacciata e trascurata.» Secondo Khoury l'amministrazione di Gerusalemme non valuta correttamente i pericoli che incombono sulla città. «Gerusalemme è una polveriera che nel prossimo futuro salterà in aria se la parte israeliana non assume un altro atteggiamento verso la popolazione araba.»
    Nir Barkat non è d'accordo con il suo collega palestinese. «Con tutto il rispetto, la situazione a Gerusalemme Est non è così cattiva e, se confrontata con quella dei palestinesi dei cosiddetti territori occupati, molto migliore. Basta guardare come i palestinesi cercano ogni possibilità di uscire dai territori per vivere a Gerusalmme Est. E perché poi?» A questo Khoury risponde che la differenza tra Gerusalemme Est e i territori è come la differenza tra una migliore e una peggiore occupazione. «Gli abitanti arabi di Gerusalemme si sentono come cittadini di Gerusalemme, e non come parte di Israele», replica il palestinese cristiano.
    «Gli arabi di Gerusalemme comunque non vorrebbero mai diventare una parte di Israele», dice Rabbi Rosenstein. «Tuttavia è interessante che, nonostante la continua critica, i palestinesi cercano di sposare qualcuno di Gerusalemme per ottenere il permesso di soggiorno in questa città. La vita a Gerusalemme dunque non deve essere poi così brutta come gli arabi spesso dicono. Non è davvero bello continuare a piangerci sopra e d'altra parte pretendere dall'amministrazione cittadina tutti i diritti come ogni altro israeliano.»
    «Questo non ha niente a che vedere con il brontolio», ribatte Khoury. «I palestinesi cercano di uscire dall'inferno e a Gerusalemme naturalmente la vita è migliore.» E se questi aspirano a venire a Gerusalemme, secondo Barkat dovrebbero smetterla con la costruzione abusiva di case a Gerusalemme Est. «Gerusalemme Est sembra un container di case», dichiara Barkat.

Città ebrea o araba?

Riferendosi al più recente studio su Gerusalemme, secondo cui nel 2035 la popolazione araba della città sarà pari a quella ebraica, Khoury ritiene che Gerusalemme dovrà diventare inevitabilmente la capitale di uno stato arabo.
Nir Barkat
«Se la maggioranza degli abitanti di Gerusalemme in futuro sarà araba, allora dovremmo anche avere un sindaco arabo. E' democrazia, no? E se Gerusalemme continuerà ad essere in mani ebraiche, allora Israele dovrà proporre agli arabi una soluzione concreta, altrimenti temo lo scoppio di un'altra intifada in questa città!»
    Barkat consiglia al suo amico di non continuare a minacciare con avvertimenti apocalittici. «Credo che una saggia amministrazione cittadina potrà muoversi verso nuovi orizzonti», dice Barkat, e fa notare che, a differenza della corrente araba verso Gerusalemme, gli ebrei laici tendono a lasciare Gerusalemme per motivi economici e religiosi, e per il tenore di vita. «Ogni anno lo 0,5% della popolazione ebrea laica lascia Gerusalemme», continua Barkat.
    Per il Rabbino è chiaro che il governo israeliano deve assolutamente intervenire. «Israele deve decidersi: o a governare una maggioranza araba o a dividere la città», dichiara Rabbi Rosenstein. «E' una decisione fatale, che deve essere presa prima che sia troppo tardi!»

Rottura tra fratelli

Ma anche all'interno della popolazione ebraica di Gerusalemme c'è rottura tra ebrei religiosi e laici. «Per la popolazione laica Gerusalemme non è più
Rabbi Rosenstein
attraente, e per questo motivo ogni anno migliaia di famiglie ebree laiche lasciano la città», dichiara Barkat. «Soprattutto la generazione giovane, che inizia una nuova vita nei territori della costa. In questo modo, sia da parte ebraica che da parte araba Gerusalemme viene lasciata agli ebrei religiosi e ai musulmani, e per molti questo rende la città un posto in cui non è facile vivere.
    Rabbi Rosenstein però è di avviso diverso. Fa notare che mentre i giovani secolari il venerdì sera, cioè durante lo Shabbat, si divertono nelle osterie e nelle discoteche, soltanto 150 metri più in là gli ebrei ortodossi festeggiano lo Shabbat nelle sinagoghe. «Io penso che noi siamo come testimoni di un'autentica unione nel nostro popolo, anche se mi addolora vedere che degli ebrei non santificano lo Shabbat. Il mio desiderio e la mia preghiera è che ogni cittadino ebreo in Gerusalemme, e tutto Israele in senso ebraico, osservi il santo Shabbat.» Rabbi Rosenstein pensa quindi che a Gerusalemme si sia trovato un sopportabile modus vivendi tra i variopinti gruppi della popolazione. Anche se i suoi interlocutori, l'ebreo secolare e il palestinese, potrebbero non essere d'accordo. [ved. foto sul sito internet]
    
(israel heute, luglio 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. IL PAESE DELLA TECNOLOGIA




Israele: la continua ascesa economica tra conflitti e contraddizioni

Israele è il paese della tecnologia e delle risorse "intellettuali". Quello che conta in questo Stato non è l'improduttività di una terra poco amica alle coltivazioni, ma cosa può essere progettato per renderla fertile. L'innovazione della mente e le progettazioni di persone altamente preparate e sempre al passo con i tempi, sono i punti di forza del sistema economico. Il perno del mercato non sono tanto le merci ma le idee che rendono le merci intramontabili e adattabili. Gli investimenti sui cervelli hanno permesso il risorgere, in pochi anni, di un'economia in profonda crisi, tanto da rendere circostanze ostiche al commercio ad esso favorevoli.

di Silvia Foffano

I presupposti: uno sguardo al quadro generale

Israele dipende dall'importazione di petrolio greggio, grano, materie prime e armamenti. Nonostante limitate risorse naturali, negli ultimi venti anni è riuscito a sviluppare la propria agricoltura e dei propri settori industriali. Sebbene vi sia un'imponente importazione di grano, risulta autosufficiente per quanto riguarda la produzione di molti altri prodotti agricoli tanto da arrivare anche ad esportarli. I brillanti, l'high-tech e la produzione agricola di verdura e frutta sono il perno delle sue esportazioni. Il commercio israeliano rimane, comunque, caratterizzato per un forte sbilanciamento in suo sfavore che viene riequilibrato attraverso il trasferimento di denaro dall'estero e attraverso prestiti da parte di paesi stranieri. Si può sostenere che approssimativamente metà del debito pubblico del governo è dovuto agli Stati Uniti. Essi risultano essere i suoi principali amici nonché risorsa nell'economia e negli aiuti militari.

La storia di una rapida ripresa

Se si torna indietro nel tempo, agli anni '90, si può ricordare quando Israele era all'avanguardia nella rivoluzione informatica, con un'economia fortemente legata al settore tecnologico e risultava inserito in un contesto storico politico, sia locale che globale, molto differente dall'attuale. In concomitanza con lo scoppio della seconda intifada e prima degli attentati alle torri gemelle del 2001, questo paese si trovò ad affrontare un momento di profonda crisi, il più importante dal 1953. Era il 2000, ma sono pochi gli anni che dividono la crisi dalla ripresa. Con relativa sicurezza si può affermare che il conflitto arabo-israeliano e le difficoltà legate all'industria dell'high-tech sono state le principali cause determinanti la crescita dell'inflazione e la riduzione del PIL negli anni 2001- 2002. Già nel 2003 l'economia inizia una graduale crescita, è un anno caratterizzato da scelte che mirano a frenare la politica fiscale e volte all'implementazione di riforme strutturali per favorire l'efficienza e la concorrenza.

Nel 2004 sono forti i segnali di crescita dell'economia tanto che poteva considerarsi consolidata in senso positivo e avviata in un tragitto che continua a tutt'oggi. In un contesto profondamente mutato l'economia israeliana, attualmente, cresce in maniera simile al ruggente periodo del 1999, caratterizzata da un forte mercato azionario e da un PIL in continua ascesa. L'anno passato ha visto Israele impegnato in un altro fronte di guerra che non ha prodotto, come ci si sarebbe potuto aspettare, un'inversione di marcia sulla crescita economica, in realtà ciò ha causato un semplice rallentamento della crescita del PIL in quanto non vi sono state forti conseguenze sugli investimenti esteri e sulle imposte fiscali.

Le prospettive per l'anno in corso

In un'analisi del marzo 2007 il Ministero delle Finanze israeliano sostiene che tra i fattori che possono determinare una crescita favorevole per il 2007 vi siano: l'andamento della crescita globale, le politiche di responsabilità fiscale, il livello delle limitazioni poste alla politica monetaria e infine, ma non ultima, la situazione della sicurezza interna agli Stati. Questi fattori incidono sia sulla domanda di impiego locale, sia sulle esportazioni. Secondo il Ministero la sicurezza è l'elemento chiave per la situazione economica di Israele e da questa possono dipendere alcuni cambiamenti sui dati finali, un esempio può essere il coinvolgimento nell'estate del 2006 nel conflitto in Libano che ha portato ad una spesa pari al 5% del PIL in soli 34 giorni di guerra. Mentre il Ministero delle Finanze pone l'accento su questa variabile in senso negativo, i dati oggettivi relativi all'andamento degli ultimi anni, soprattutto dopo la data dell'11 settembre, ci dimostrano che i conflitti non hanno inciso in maniera così rilevante e negativa sull'economia di questo paese.

Per quanto riguarda le previsioni sul bilancio finale di quest'anno lo Stato israeliano si conferma in costante crescita, e sicuramente gli sviluppi dell'ultimo periodo, in cui si legge una nuova apertura nei confronti dei palestinesi e un maggiore isolamento delle frange più radicali, non possono che dare maggiore forza ai dati favorevoli. L'indice dei prezzi al consumo, influenzato dal costo del carburante e da fattori stagionali, è diminuito in gennaio dello 0,1% e a febbraio dello 0,3%. Si deve però considerare che gli effetti dei fattori che hanno contribuito all'abbassamento dei prezzi -per esempio il valore del NIS e la diminuzione del prezzo dell'energia- hanno fatto seguire il loro corso, mentre la domanda domestica ha contribuito ad alzare, verosimilmente, la pressione dell'inflazione. Il Ministero delle Finanze stima che la percentuale dell'inflazione per quest'anno sarà dell'1.0 % con medie minime dello 0.2%.

Si attende per quest'anno un aumento del 2,8% dei salari reali, alla luce della diminuzione dei disoccupati, dell'aumento della produttività degli ultimi anni e del salario minimo. Una modifica di profonda crescita rispetto a quella dell'1,8% del 2006 e ancora maggiore se confrontata con quella degli anni passati. La percentuale del tasso di partecipazione si considera in leggera crescita rispetto all'anno passato: dal 55.6% del 2006 al 55.8% del 2007, questo il risultato della costante crescita economica, dell'elevamento dell'età pensionabile e dell'aumento dei salari. Anche l'occupazione degli israeliani è leggermente cresciuta arrivando ad una percentuale del 3,3% contro il precedente 3,2% del 2006. Il numero delle persone occupate straniere ha subito una limitata diminuzione dall'1,9% del 2006 all'1,8% per il 2007. La crescita totale dell'occupazione per il 2007 comunque risulta inferiore al 3.2% del 2006, fermandosi al 2,6%. Esprimendo in cifre queste percentuali ad aprile del 2007 sono 2.72 milioni gli occupati totali di cui 2,63 milioni di israeliani, 66 milioni gli stranieri e solo 18 milioni i palestinesi. La politica condotta attualmente dal governo israeliano vuole incoraggiare le assunzioni dei propri cittadini mentre è evidente la volontà di sfavorire l'occupazione straniera. In questo non c'è nulla di nuovo, soprattutto se si fa riferimento ad uno Stato come Israele che concede automaticamente la cittadinanza a tutti gli ebrei che ne fanno richiesta. Sicuramente non ci sono dubbi sulla discriminazione nei confronti dei palestinesi che, i dati confermano, non possono vantare alcun diritto e che, nelle cifre sul tasso di occupazione, risultano a tutti gli effetti discriminati. Il dubbio sorge per tutti gli arabo israeliani, formalmente cittadini di Israele ma con un trattamento diverso rispetto a quello riservato agli altri cittadini israeliani. Loro rientrano tra le fasce nelle quali si vuole incrementare l'occupazione o nei loro confronti sono adottate, come in altre occasioni, politiche ad hoc.

Continuando con il prospetto revisionale per l'anno corrente, il deficit previsto sarà inferiore al 2,9% del PIL arrivando ad essere all'incirca pari all'1,5%. Considerando che negli ultimi anni il tasso di crescita è stato costante al 5%, si può prospettare per la fine del 2007 una diminuzione del debito pubblico dall'88% all'84% del PIL. L'aumento dei salari, la riforma delle tasse e la diminuzione della disoccupazione portano ad una previsione di crescita del consumo privato che arriverà alla percentuale del 4.9. Mentre il consumo pubblico diminuirà, arrivando al 2,9% contro il 3,3% del 2006. L'anno passato questo dato aveva subito un aumento conseguente alla partecipazione alla guerra in Libano, nel 2007 si abbassa ma di poco, rimanendo, ancora un costo elevato. Per quanto riguarda le esportazioni la crescita si è stabilizzata all'incirca sul 5,1%, confermando più o meno il risultato del precedente anno. In particolare in questo settore si afferma l'esportazione di servizi in conseguenza alla continua espansione nel mercato globale dell'industria del high-tech e la ripresa del turismo anche con forti esportazioni legate ai servizi di questo settore. Anche le importazioni di beni e servizi sono cresciute dal 3,1% del 2006 al 4,9% del 2007. Quest'ultima percentuale coinvolge una crescita prevista nelle importazioni di materie prime e prodotti d'investimento.

Conclusioni

Sembra difficile da credere, eppure non è possibile non dare adito alla tesi per la quale la crescita economica di questo paese sia legata alla convivenza con il terrorismo e con il conflitto. Precursore in questo, Israele ne ha fatto il proprio cavallo di battaglia, diventando l'esempio di un modello da esportare incrementando il commercio di armi e sofisticate apparecchiature progettate e sperimentate già nel proprio territorio. Nulla di nuovo se non quello di avere la consapevolezza, ormai confermata negli anni, che il mercato, così inteso, rimarrà in forte ascesa rendendo sempre più emergente l'economia di paesi che per arricchirsi investono sulla guerra.

(Equilibri.net, 18 luglio 2007)





3. IL GIARDINIERE DEL CAMPO DA GOLF DI CESAREA




L'erba del giardiniere è sempre più verde

La vittoria del tagliaerba: Asher Isso (39 anni), giardiniere del campo da golf di Cesarea, è il vincitore di una prestigiosa competizione golfistica tenutasi al club la scorsa settimana. Sorridendo, si vanta di conoscere l'erba e le buche meglio di chiunque altro.

 di Eran Navon    

    Questa è la storia del giardiniere del campo da golf di Cesarea che invidiava i grandi giocatori. Non ne poteva più di limitarsi a tagliare l'erba e a preparare

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le buche. Così ha preso una mazza da golf e, nel tempo libero, ha iniziato a imparare i segreti del gioco. Lo scorso fine settimana il giardiniere ha vinto il primo premio nella sua categoria al campionato di golf israeliano.
    Asher, 39 anni, è arrivato in Israele dall'Etiopia nel 1991. Trascorsi tre anni e dopo aver studiato l'ebraico ed essersi stabilito a Hadera, ha trovato lavoro come giardiniere presso il club golfistico di Cesarea. "Lavoro come giardiniere e taglio l'erba, preparo i campi, mi assicuro che tutto sia perfetto", racconta.
    Mentre lavorava, Asher guardava le persone che giocavano a golf, rimanendone colpito. "Invidiavo i soci del club", dice con un mezzo sorriso. "Ogni volta che chiedevo loro se potevo provare a tirare in buca riuscivo sempre a lasciarli a bocca aperta. Alla fine ho deciso di imparare a giocare e mi sono subito innamorato di questo sport", racconta. "Mi capitava di prendere in prestito la mazza da golf di uno dei giocatori e di colpire la palla dopo aver preparato per loro il percorso".
    Asher si è allenato e non si è dato per vinto e alla fine ha migliorato il suo gioco. Si è assicurato che il suo nuovo passatempo non interferisse con il suo lavoro: si alza presto alla mattina, lavora 8-9 ore e solo alla fine della giornata si concede il lusso di allenarsi. "C'è una netta distinzione tra il mio lavoro e il gioco, che pratico al tramonto, dopo aver tagliato l'erba e aver completato tutti gli altri incarichi".
    In effetti, il club golfistico sostiene entusiasticamente il suo stimato giardiniere e gli ha concesso l'uso gratuito di tutti i servizi. Quando ha cominciato a mostrare di aver talento, il club gli ha comprato un set di mazze. Al club dicono: "È un giocatore eccezionale e il nostro investimento su di lui sta dando i frutti sperati".
    Anche i soci del club lo hanno aiutato. "I giocatori mi amano sul serio e mi incoraggiano", aggiunge Asher. "All'inizio mi limitavo a colpire la palla con la mazza e improvvisamente mi hanno detto che avevo un talento naturale. Non mi vedono come un giardiniere, come uno che taglia l'erba. Sono tutti eccitati per il mio successo. Mi diverto ad allenarmi con loro e sono molto contento".
    Isso ha iniziato vincendo gare minori, ma il suo più grande successo lo ha conseguito giovedì scorso quando ha partecipato agli open israeliani insieme a compioni professionisti provenienti da 11 Paesi. Ha vinto il campionato maschile al netto, dove il punteggio netto è dato dal punteggio del giocatore (numero di colpi) durante la gara meno il suo punteggio medio più recente (handicap).
    "È stato entusiasmante. Ho prevalso nella mia categoria e vinto una gara importante. Sono un campione e persino ora non riesco a crederci. Io, che ho cominciato come tagliaerba e che ancora oggi preparo le buche e i campi per i grandi giocatori, improvvisamente sono il vincitore della mia categoria. È semplicemente meraviglioso. Ho quattro bambini e a casa sono tutti molto orgogliosi di me", dice Isso, che era visibilmente commosso e ha pianto quando gli è stato consegnato il trofeo della vittoria. "Non è facile vincere una competizione come questa, e tutti hanno pianto con me, per l'emozione. I vecchi golfisti professionisti hanno esultato quando ho ricevuto il premio e questa è stata un'esperienza molto commovente per me".
    Tutti al club golfistico condividono la gioia del giardiniere: "Ha un talento incredibile, è un giocatore eccezionale. Siamo pazzi di lui e sta migliorando a un ritmo impressionante", ci racconta un giocatore veterano. "Vincere questo campionato è un grande onore. Non tutti possono partecipare, perché vengono richiesti dei requisiti minimi e Asher è riuscito ad entrare".

(Yedioth Achronot, 13 luglio 2007 - da Keren Hayesod)





4. LA POLONIA RISCOPRE LA CULTURA YIDDISH




"Gli ebrei non ci sono? E noi ce l'inventiamo"

La Polonia riscopre la cultura yiddish con festival e libri. Ne sono rimasti duemila, ma non sono stati mai così amati.

di Marina Verna

Nella Polonia dei pogrom, dei campi di sterminio e dell'attuale antisemitismo senza ebrei sta succedendo un fatto nuovo e del tutto inaspettato: il risveglio della cultura ebraica. Tornano i piatti tradizionali nei ristoranti e la musica yiddish nei caffè, si restaurano le sinagoghe distrutte e le abitazioni ritornate negli ultimi anni nelle mani degli eredi degli antichi abitanti, si affollano i corsi di arte e di lingua. A Cracovia - epicentro del risveglio, con il vecchio ghetto di Kamizierz tornato a nuova vita - c'è addirittura un Festival della cultura ebraica, che si tiene a giugno, dura appena un giorno ma attira migliaia di visitatori: quest'anno, diecimila. Pochissimi erano ebrei, molti erano turisti, soprattutto americani. Ma la maggior parte erano cattolicissimi polacchi, nostalgici di quella grande cultura che per secoli è stato il marchio inconfondibile del Paese. Il menu era assai vario: mostre d'arte, concerti, danze, letture pubbliche, lezioni di calligrafia e di cucina, «paper cutting». Ovunque tutto esaurito.

L'uomo che nel 1988 ha inventato il Festival e da allora lo dirige, il cattolico Janusz Makuch, spiega il successo così: «È un modo di rendere omaggio alle persone che hanno vissuto qui e che tanto hanno contribuito alla cultura polacca. Certo, c'è un aspetto turistico e commerciale, ma questo è solo la schiuma di superficie. In realtà, è in atto una profonda trasformazione etica. Ci stiamo rafforzando i muscoli per difendere il nostro diritto morale a giudicare la storia contro lo strisciante nazionalismo antisemita». Il Paese cura la doppia ferita provocata dal nazismo e dal regime comunista riscoprendo la sua anima ebraica, sapiente e appassionata. E in questo processo scorrono molti denari: il Festival - che costa 800 mila euro - è finanziato per una metà dal governo nazionale e da quello locale, per l'altra da donazioni, soprattutto dagli Stati Uniti. La Polonia oggi conta 15 mila ebrei, ma secondo alcuni non sarebbero più di duemila. Prima del 1939 erano tre milioni e mezzo, un polacco su dieci. Più di tre milioni morirono nei campi di sterminio, alcune decine di migliaia riuscirono a fuggire. Nel 1945 i sopravvissuti erano 250 mila, i pogrom postbellici del 1946 e le purghe antisemite del governo comunista nel 1968 hanno annientato anche le ultime comunità.

Il risveglio iniziò, clandestino negli Anni 70. Protetti dall'ala progressista della Chiesa cattolica, i pochi ebrei rimasti - e spesso all'oscuro della loro origine, appresa solo da adulti - cercarono i riti e le credenze perdute. E offrirono un senso ai giovani insoddisfatti della grigia monocultura in cui affondava la Polonia e alla ricerca di una via per ribellarsi al governo o ai genitori. La trovarono nella nostalgia per la grande stagione tra le due guerre del XX secolo e nell'identificazione con un ebraismo che non era più di sangue ma di scelta. Leggeranno i romanzi di Isaac Bashevis Singer e, più tardi, affolleranno i campi estivi di cultura ebraica che fioriscono in tutta l'Europa dell'est, dove in un mese, incuranti del vero calendario, festeggiano Passover, Hannukkah e Purim.

Konstanty Gebert, l'editore del mensile polacco-ebraico «Midraz», ha detto all'Herald Tribune: «Non puoi subire un genocidio e poi pensare che la gente viva come se non fosse successo nulla. È come perdere una gamba: la Polonia sta soffrendo di arto fantasma. Le fa male la perduta gamba ebraica». Come Makuch, anche lui ha scoperto per caso - parlando con alcuni anziani sopravvissuti - che fino al 1939 c'era un'altra Polonia, con un'altra popolazione. E da allora si è dato la missione di farla rivivere. Il quotidiano progressista «Gazeta Wyborcza» fa la sua parte, sostenendo il dibattito sulla identità ebraica polacca contemporanea. E un romanzo come «Il dono di Sala» di Ann Kirschner - il racconto dell'odissea di sua madre nei campi di lavoro nazisti - diventa un bestseller. Oggi, dice la scrittrice, puoi andare in giro per Cracovia con un cartello appeso al collo su cui sta scritto «Festival della cultura ebraica» senza che nessuno ti importuni. Non è una cosa straordinaria?

(La Stampa, 13 luglio 2007)





5. UNA VOCE DALL'INTERNO DI ISRAELE




La diaspora urla attraverso le notizie

In questi giorni siamo in lutto per la distruzione del Santuario e per la durissima diaspora a cui siamo condannati, diaspora gia' plurimillenaria. Si sente sempre piu' dire che vivendo in Israele tornato ad essere indipendente si dovrebbe alleggerire la sensazione e le misure di lutto e di dolore. Ma proprio quello che sta accadendo qui in Terra d'Israele e' la dimostrazione che non siamo ancora usciti dalla diaspora, ma che, al contrario, vi siamo ancora assai sprofondati.
    Il "galuth" (diaspora) piu' duro e' quello interno, quando e' l'anima dell'individuo a trovarsi in una situazione diasporica. Per nostra disgrazia una diaspora di tale tipo sprizza in maniera cosi' forte dalla nostra vita pubblica che in molti sono gia' convinti che non sia possibile un modo differente, ovvero che non possiamo vivere come esseri liberi e comportarci come un popolo sano e normale.
    L'esempio piu' evidente e' lo scandalo che viene chiamato con il bel termine "scambio di prigionieri". Diamoci uno sgauardo intorno. Guardiamo qual e' il comportamento nel paese che c'e' piu' amico, gli Stati Uniti. Quivi gia' da oltre 22 anni (!) vi e' rinchiuso un prigioniero: Yonathan Pollard. Questo carceraro non e' un assassino od un terrorista. E' stato condannato per aver fornito materiale riservato ad un paese straniero. E' rinchiuso per questo in carcere ed il paese che ci e' piu' amico non e' disposto a liberarlo perche' e' convinto che chi ha agito contro i suoi interessi debba portare a termine la sua condanna.
    Da noi si parla di barbari assassini, di criminali assetati del nostro sangue. Tali "prigionieri" sono responsabili accertati di stragi di centinaia di donne e bambini, invalidi e passanti innocenti. Migliaia di persone rese da costoro invalide soffrono ogni giorno. Questi assassini di umano hanno soltanto l'aspetto esteriore. I nostri soldati e servizi d'informazione han dato l'anima per catturarli e metterli dietro le sbarre. Come si puo' pensare di rimetterli in circolazione?!
    Soltanto un paese che non abbia midollo e' in grado di rilasciarli per gesti di buona volonta'! Quale altro paese si comporterebbe cosi'? Ogni nazione normale avrebbe reagito ad una tale richiesta senza neanche prenderla in considerazione! Soltanto da noi, a causa della malattia diasporica che ci fa sentire sudditi ed obbligati verso i goi, liberiamo degli assassini come "presente" nei confronti del Re di Giordania. Dopo di che restiamo esterrefatti di non essere rispettati?!
    Ci comportiamo con dei criminali come se fossero "prigionieri di guerra" che sono rinchiusi sino a che i paesi in conflitto non arrivino ad un accordo. Tale punto di vista e' un grave errore dal punto di vista morale. Soldati prigionieri non sono criminali o delinquenti, ma combattenti di un paese che hanno agito in suo nome e che in ogni caso debbono rispettare leggi internazionali ben definite. Se i soldati han commesso "crimini di guerra" vengono processati e condannati, questo' non deve valer percio' anche per dei criminali comuni !
    Il fondamento della guerra al terrorismo e' dimostrare la sua illegittimita'. Il terrorismo non deve essere considerato un mezzo legittimo per un gruppo umano. Chi ricorre al terrorismo, colpendo dei civili, esce dalla famiglia dei popoli civili e scende ad un livello sub-umano. Nei suoi confronti non valgono piu' le regole del mondo civile. Bisogna combattere per distruggerlo. Tale motivazione e' dietro all'intervento occidentale in Afganistan, Iraq e negli altri posti dove i terroristi siano combattuti.
    Se siamo disposti a liberare dei terroristi dimostriamo di non essere convinti della giustezza della nostra battaglia. Con la loro scarcerazione dimostriamo che i terroristi non sono dei criminali ma dei soldati di uno scontro legittimo. Quanto detto vale soltanto dal punto di vista morale e non tiene conto delle vittime future che tali terroristi pericolosi rimessi in circolazione causeranno.
    Questo e' solo uno degli aspetti "diasporici", ma di molti altri si potrebbe parlare ! Il nostro augurio e' che muoia la "generazione del deserto" e che sorga una nuova generazione che sia "un popolo libero nella nostra Terra". Che il Signore faccia sì che la Redenzione arrivi al piu' presto possibile alla Sua completa attuazione.

("Hgaluth zoechet mehamudei hacadashot", articolo di fondo di SICAT HASHAVUAH n. 1071, 13/7/07, p.1; liberamente tratto e tradotto dall'ebraico da Eleazar Ben Yair)





6. L'ESERCITO DI HAMAS




Tsahal avverte, Hamas a Gaza prepara un esercito

di Carlo Bollino

GERUSALEMME - "Non basteranno le pressioni americane, né quelle dell'Unione europea e neppure le aperture moderate di Abu Mazen". L'ufficiale isreliano non ha dubbi, per fermare Hamas occorre un intervento militare. E loro, i comandanti di Tsahal desiderosi di riscatto dopo il fallimento della guerra di un anno fa in Libano, studiano piani, mostrano analisi, addestrano reparti. "Hamas sta creando a Gaza un vero e proprio esercito", denunciano i militari, che si dicono certi come dopo il loro ritiro (due anni fa) dalla Striscia, i miliziani siano riusciti a importare dall'Egitto armamenti sempre più sofisticati. "Non ci sono molte 'finestre' di tempo per intervenire - spiega un ufficiale che parla a condizione dell'anonimato - bisogna decidere solo quando farlo: se prima che la formazione dell'esercito di Hamas sia completata, o dopo, quando a Gaza ci troveremo di fronte milizie forti come gli Hezbollah". Secondo gli analisti israeliani, negli ultimi mesi Hamas sarebbe riuscito a portare illegalmente a Gaza 20 tonnellate di esplosivo, razzi anticarro più moderni di quelli mai avuti finora e missili antiaereo, mentre presto potrebbe ricevere i primi, temutissimi, katiusha destinati a rimpiazzare i più artigianali e imprecisi 'qassam'.
    "L'esercito di Hamas conta già fra 12 e 15.000 uomini - denunciano ancora gli ufficiali israeliani - e se non tutti sono addestrati, è solo questione di tempo: ogni 20 miliziani inviati a formarsi in Iran, ce ne sono altri 400 che potranno essere addestrati al loro ritorno". L'intelligence militare crede che in questo momento Hamas non abbia ancora intenzione di aprire il confronto militare su larga scala contro Israele, ma semplicemente perché si starebbe preparando a farlo. E così nel frattempo gioca la sua sfida sul piano politico. Mahmoud Zahar, anziano leader del movimento integralista, oggi ha diffidato il presidente Abu Mazen (Mahmud Abbas) dal convocare elezioni politiche anticipate, secondo una decisione che il consiglio centrale dell'Olp da ieri riunito a Ramallah si appresterebbe a deliberare. "Noi e il popolo palestinese le faremo fallire" ha avvertito Zahar, secondo il quale né l'Olp, né Abu Mazen, hanno l'autorità politica e morale per prendere iniziative di questo tipo. Il Consiglio centrale dell'Olp, finora incurante delle diffide di Hamas, ha preparato una bozza di delibera che nelle prossime ore dovrà essere sottoposta al voto dell'assemblea, con la quale affida al presidente Abu Mazen l'incarico di convocare nuove elezioni, politiche e presidenziali, e chiede al movimento islamico di "tornare sui propri passi" restituendo in pratica al controllo dell'Autorità palestinese tutte le istituzioni strappate con le armi un mese fa. Invito evidentemente destinato a cadere nel vuoto, perché se Hamas ha fatto sapere due giorni fa di essere pronto a restituire le istituzioni civili, non intende invece cedere il controllo di quelle della sicurezza.
    Un altro elemento che secondo gli esperti dell'intelligence israeliana dimostrerebbe le intenzioni degli integralisti islamici: guadagnare tempo sul piano politico, in vista di un confronto che potrebbe diventare solo militare. Sospetto che a dire il vero Hamas nutre a sua volta verso Israele, e che ha spinto oggi Mahmoud Zahar ad accusare di complicità addirittura Abu Mazen: è lui, dice il leader politico da Gaza, a spingere gli israeliani a preparare un grande attacco contro la Striscia credendo in questo modo di annientare Hamas. E quindi se loro si armano, sarebbe solo per autodifesa.

(ANSA, 20 luglio 2007)






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