Questa sarà la piaga con cui l'Eterno colpirà tutti i popoli
che avranno mosso guerra a Gerusalemme:
le loro carni marciranno mentre ancora stanno in piedi;
i loro occhi marciranno nelle orbite;
la loro lingua marcirà nella bocca.
Zaccaria 14:12  
 

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Predicazioni
Una grande gioia

ATTI 2

  1. Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
  2. Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
  3. E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
  4. E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
  5. e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
  6. E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
  7. lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.

ATTI 4

  1. E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
  2. E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
  3. Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
  4. e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.

LUCA 2

  1. Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
  2. E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
  3. E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
  4. Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.

MATTEO 2

  1. Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.

ATTI 8

  1. Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
  2. E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
  3. Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
  4. E vi fu grande gioia in quella città.

ATTI 13

  1. Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
  2. Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
  3. E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
  4. E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
  5. Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
  6. Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
  7. E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

ROMANI 15

  1. Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
  2. affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
  3. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
  4. poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
  5. mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
  6. Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
  7. E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
  8. E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
  9. Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.


    Marcello Cicchese
    maggio 2016

L'interesse di Cristo
FILIPPESI, cap. 1

  1. Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo, 
  2. per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio. 
  3. Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, 
  4. sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.

FILIPPESI, cap. 2

  1. Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, 
  2. rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento
  3. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, 
  4. cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 
  5. Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, 
  6. il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 
  7. ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; 
  8. trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. 
  9. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, 
  10. affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 
  11. e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
  12. Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; 
  13. infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo. 
  14. Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute
  15. perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, 
  16. tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato. 
  17. Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi; 
  18. e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.


Marcello Cicchese
novembre 2006

Salmo 92
Salmo 92
    Canto per il giorno del sabato.
  1. Buona cosa è celebrare l'Eterno,
    e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
  2. proclamare la mattina la tua benignità,
    e la tua fedeltà ogni notte,
  3. sul decacordo e sul saltèro,
    con l'accordo solenne dell'arpa!
  4. Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
    io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
  5. Come son grandi le tue opere, o Eterno!
    I tuoi pensieri sono immensamente profondi.

  6. L'uomo insensato non conosce
    e il pazzo non intende questo:
  7. che gli empi germoglian come l'erba
    e gli operatori d'iniquità fioriscono, per esser distrutti in perpetuo.
  8. Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
  9. Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
    ecco, i tuoi nemici periranno,
    tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.

  10. Ma tu mi dai la forza del bufalo;
    io son unto d'olio fresco.
  11. L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
    le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi
    che si levano contro di me.
  12. Il giusto fiorirà come la palma,
    crescerà come il cedro sul Libano.
  13. Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
    fioriranno nei cortili del nostro Dio.
  14. Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
    saranno pieni di vigore e verdeggianti,
  15. per annunziare che l'Eterno è giusto;
    egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.

Marcello Cicchese
gennaio 2017

Saggezza che viene da Dio
PROVERBI 2
  1. Figlio mio, se ricevi le mie parole e serbi con cura i miei comandamenti,
  2. prestando orecchio alla saggezza e inclinando il cuore all'intelligenza;
  3. sì, se chiami il discernimento e rivolgi la tua voce all'intelligenza,
  4. se la cerchi come l'argento e ti dai a scavarla come un tesoro,
  5. allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio.
  6. Il Signore infatti dà la saggezza; dalla sua bocca provengono la scienza e l'intelligenza.
  7. Egli tiene in serbo per gli uomini retti un aiuto potente, uno scudo per quelli che camminano nell'integrità,
  8. allo scopo di proteggere i sentieri della giustizia e di custodire la via dei suoi fedeli.
  9. Allora comprenderai la giustizia, l'equità, la rettitudine, tutte le vie del bene.
  10. Perché la saggezza ti entrerà nel cuore, la scienza sarà la delizia dell'anima tua,
  11. la riflessione veglierà su di te, l'intelligenza ti proteggerà;
  12. essa ti scamperà così dalla via malvagia, dalla gente che parla di cose perverse,
  13. da quelli che lasciano i sentieri della rettitudine per camminare nelle vie delle tenebre,
  14. che godono a fare il male e si compiacciono delle perversità del malvagio,
  15. i cui sentieri sono contorti e percorrono vie tortuose.
  16. Ti salverà dalla donna adultera, dalla infedele che usa parole seducenti,
  17. che ha abbandonato il compagno della sua gioventù e ha dimenticato il patto del suo Dio.
  18. Infatti la sua casa pende verso la morte, e i suoi sentieri conducono ai defunti.
  19. Nessuno di quelli che vanno da lei ne ritorna, nessuno riprende i sentieri della vita.
  20. Così camminerai per la via dei buoni e rimarrai nei sentieri dei giusti.
  21. Gli uomini retti infatti abiteranno la terra, quelli che sono integri vi rimarranno;
  22. ma gli empi saranno sterminati dalla terra, gli sleali ne saranno estirpati.

Marcello Cicchese
aprile 2009

Sovranità e grazia di Dio
ROMANI 8
  1. Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
  1. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
  2. Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
  3. E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
  4. Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
  1. Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
  2. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
  3. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
  4. Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
  1. Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
  2. Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
  3. Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
  4. Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
  5. Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
  6. Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
  1. Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
  2. Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
  3. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
  1. Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Preghiera sacerdotale 1

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.

    ATTI 10

  1. Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni: 
  2. vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui. 
  3. E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno. 
  4. Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse 
  5. non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.


Marcello Cicchese
agosto 2017

Preghiera sacerdotale 2

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.


Marcello Cicchese
ottobre 2017

Un sabato sacro
ESODO 31
  1. L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
  2. 'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
  3. Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
  4. Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
  5. I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
  6. Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
  7. Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.

Marcello Cicchese
maggio 2017

Benedizione a domicilio?
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
  4. Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
  5. Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
  6. Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
  7. Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
  8. Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.

MARCO 10
  1. Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
  2. Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
  3. Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
  4. Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
  5. Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
  6. Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
  7. Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
  8. I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
  9. È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
  10. Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
  11. Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
  12. Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
  13. Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
  14. il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
  15. Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».

PROVERBI 10
  1. Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.

Marcello Cicchese
giugno 2006


Salmo 56
Salmo 56
  1. Abbi pietà di me, o Dio, poiché gli uomini anelano a divorarmi; mi tormentano con una guerra di tutti i giorni;
  2. i miei nemici anelano del continuo a divorarmi, poiché sono molti quelli che m'assalgono con superbia.
  3. Nel giorno in cui temerò, io confiderò in te.
  4. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; in Dio confido, e non temerò; che mi può fare il mortale?
  5. Torcono del continuo le mie parole; tutti i lor pensieri son vòlti a farmi del male.
  6. Si radunano, stanno in agguato, spiano i miei passi, come gente che vuole la mia vita.
  7. Rendi loro secondo la loro iniquità! O Dio, abbatti i popoli nella tua ira!
  8. Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime negli otri tuoi; non sono esse nel tuo registro?
  9. Nel giorno che io griderò, i miei nemici indietreggeranno. Questo io so: che Dio è per me.
  10. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; con l'aiuto dell'Eterno celebrerò la sua parola.
  11. In Dio confido e non temerò; che mi può fare l'uomo?
  12. Tengo presenti i voti che t'ho fatti, o Dio; io t'offrirò sacrifizi di lode;
  13. poiché tu hai riscosso l'anima mia dalla morte, hai guardato i miei piedi da caduta, affinché io cammini, al cospetto di Dio, nella luce de' viventi.

Marcello Cicchese
agosto 2016

Una lampada al piede
Salmo 119
  1. La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero.
  2. Ho giurato, e lo manterrò, di osservare i tuoi giusti giudizi.
  3. Io sono molto afflitto; Signore, rinnova la mia vita secondo la tua parola.
  4. Signore, gradisci le offerte volontarie delle mie labbra e insegnami i tuoi giudizi.
  5. La mia vita è sempre in pericolo, ma io non dimentico la tua legge.
  6. Gli empi mi hanno teso dei lacci, ma io non mi sono allontanato dai tuoi precetti.
  7. Le tue testimonianze sono la mia eredità per sempre, esse sono la gioia del mio cuore.
  8. Ho messo il mio impegno a praticare i tuoi statuti, sempre, sino alla fine.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Il peggiore dei profeti
MATTEO

Capitolo 12
  1. Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
  2. Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
  3. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
  4. I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!

GIONA

Capitolo 1
  1. La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
  2. 'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
  3. Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
  9. Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
  10. Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
  11. E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
  13. Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
  14. Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
  15. Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
  16. E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.

Capitolo 4
  1. Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
  2. 'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
  3. Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
  4. E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
  5. Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
  6. E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
  7. Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
  8. E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
  9. E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
  10. E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
  11. e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'

Marcello Cicchese
febbraio 2015

Salmo 27
Salmo 27
  1. Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò?
    Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
  2. Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
  3. Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
  4. Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
  5. Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
  6. E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.

  7. O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
  8. Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!»
    Io cerco il tuo volto, o Signore.
  9. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
  10. Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
  11. O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
  12. Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
  13. Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
  14. Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!

Marcello Cicchese
dicembre 2007

Il Re dei Giudei
Il Re dei Giudei

Dalla Sacra Scrittura

MATTEO 2
  1. Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
  1. Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
  2. Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
  3. Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
  4. Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
  5. E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
  6. Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
  7. Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
  8. Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
  9. Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
  10. Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
  11. Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
  12. Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
  13. Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Marcello Cicchese
ottobre 2019

Come cerva che assetata
Marcello Cicchese
gennaio 2008

Vanità delle vanità
Vanità delle vanità, tutto è vanità

Dalla Sacra Scrittura

ECCLESIASTE 1
  1. Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
  2. Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
  3. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
  4. Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
  5. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
  6. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
  7. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
  8. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
  9. Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
  10. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
  11. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
  12. Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
  13. e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
  14. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
  15. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
  16. Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
  17. Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
  18. Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.

ECCLESIASTE 2
  1. Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
  2. Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
  1. Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.

ECCLESIASTE 12
  1. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.

1 PIETRO 1
  1. E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
  2. sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
  3. ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
  4. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
  5. per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
  6. Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
  7. perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
  8. Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
  9. ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.

1 CORINZI 15
  1. Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
  2. «O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
  3. Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
  4. ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
  5. Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Marcello Cicchese
8 ottobre 2006

La prova della fede
La prova della fede

Dalla Sacra Scrittura

GIACOMO 1
  1. Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
  2. Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
  3. sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
  4. E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
  5. Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
  6. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
  7. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
  8. perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
  9. Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
  10. e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
  11. Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
  12. Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
Marcello Cicchese
1 ottobre 2006

L’enigma Gesù
L’enigma Gesù

Dalla Sacra Scrittura

MARCO 15
  1. E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
  2. E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
  3. E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
  4. E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
  5. E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
  1. Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
  2. venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
  3. Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
  4. e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
  5. E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
  1. Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
  2. fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
  3. Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.

  4. E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
  5. Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
  6. Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
  7. Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
  8. Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.

  9. E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
  10. E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
  11. Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.

  12. Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
  13. E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
  14. Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Marcello Cicchese
dicembre 2019

Salmi 124, 129
Salmo 124
  1. Se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    lo dica pure ora Israele,
  2. se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    quando gli uomini si levarono
    contro noi,
  3. allora ci avrebbero inghiottiti tutti vivi, quando l'ira loro
    ardeva contro noi;
  4. allora le acque ci avrebbero sommerso, il torrente sarebbe passato sull'anima nostra;
  5. allora le acque orgogliose sarebbero passate sull'anima nostra.
  6. Benedetto sia l'Eterno
    che non ci ha dato in preda ai loro denti!
  7. L'anima nostra è scampata,
    come un uccello dal laccio degli uccellatori;
    il laccio è stato rotto, e noi siamo scampati.
  8. Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno,
    che ha fatto il cielo e la terra.

Salmo 129
  1. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza!
    Lo dica pure Israele:
  2. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza;
    eppure, non hanno potuto vincermi.
  3. Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
    v'hanno tracciato i loro lunghi solchi.
  4. L'Eterno è giusto;
    egli ha tagliato le funi degli empi.
  5. Siano confusi e voltin le spalle
    tutti quelli che odiano Sion!
  6. Siano come l'erba dei tetti,
    che secca prima di crescere!
  7. Non se n'empie la mano il mietitore,
    né le braccia chi lega i covoni;
  8. e i passanti non dicono:
    La benedizione dell'Eterno sia sopra voi;
    noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!
Marcello Cicchese
31 maggio 2015

Dio con gli uomini
Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Marcello Cicchese
novembre 2016

Io vi darò riposo
  «Io vi darò riposo»

  Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti
  che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo
  ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce
  e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
ottobre 2015

Tempi difficili
Negli ultimi giorni
verranno tempi difficili


Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
Marcello Cicchese
luglio 2015

Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Il corpo dell'umiliazione
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Una mente rinnovata
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Dal Vangelo di Matteo

CAPITOLO 6
  1. Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
  2. Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
  3. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
  4. E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
  5. E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
  6. eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
  7. Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
  8. Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
  9. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
  10. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015



Ramadan esplosivo

Non ci sarà alcun accordo per il rilascio degli ostaggi prima del mese di digiuno islamico del Ramadan. Hamas sa esattamente come mettere Israele all'angolo. Hamas sta giocando con le emozioni della società israeliana. Da giorni Israele chiede la lista dei nomi degli ostaggi israeliani ancora vivi, ma la leadership di Hamas a Gaza e in Qatar si rifiuta di trasmetterla a Israele. Questo sta facendo arrabbiare la società israeliana, che sta quindi esercitando una pressione ancora maggiore sul governo di Gerusalemme. Domenica prossima inizia il Ramadan, il periodo di digiuno musulmano di quattro settimane, e questo è sempre il momento più brillante per dichiarare disordini e guerra contro Israele. La causa scatenante è sempre la stessa: "i sionisti vogliono distruggere la Moschea di Al-Aqsa sul Monte del Tempio". Così Hamas e la Jihad islamica hanno invitato i palestinesi e il mondo arabo a fare del Ramadan il "mese del terrore". Hamas & Co. vogliono far precipitare il Paese nell'inferno solo per salvarsi dall'inferno della Striscia di Gaza. Il Ramadan è il miglior esplosivo per questo!

di Aviel Schneider

FOTO 1
Ramadan sul terreno della Moschea di Al-Aqsa nella Città Vecchia di Gerusalemme, aprile 2023
GERUSALEMME - Da qualche parte, dalle profondità della terra, il leader di Hamas ha invitato qualche giorno fa i palestinesi a prendere d'assalto il Monte del Tempio a Gerusalemme all'inizio del Ramadan e a marciare verso la Moschea di Al-Aqsa. In questo modo, Hamas ha aumentato la pressione sui negoziati in corso per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Pochi giorni fa, il ministro della Difesa israeliano Yoav Galant ha avvertito che Iran, Hezbollah e Hamas stanno cercando di usare il Ramadan per infiammare la regione al fine di causare una nuova catastrofe contro Israele dopo il 7 ottobre. Secondo Galant, sperano di provocare i palestinesi di Giudea e Samaria, Hezbollah e gli arabi e i musulmani di tutta la regione ad attaccare Israele e a dirigere la loro rabbia contro Israele, usando come pretesto il Monte del Tempio ebraico e le rivolte in Giudea e Samaria. I terroristi hanno tempo, perché non hanno nulla da perdere. Israele la pensa diversamente e vuole risolvere tutto immediatamente. Nel processo vengono commessi degli errori. Continuamente

FOTO 2
Le forze di sicurezza e di soccorso israeliane sulla scena di un attacco terroristico sulla strada numero 1 vicino a Maaleh Adumim, 22 febbraio 2024
La Jihad islamica e Hamas hanno aspettato il Ramadan per trasformare queste quattro settimane in un mese di terrore. I terroristi stanno pianificando attacchi nel cuore biblico della Giudea e della Samaria e attacchi nella Striscia di Gaza. Abu Hamza, portavoce delle Brigate Al-Quds della Jihad islamica, ha invitato gli Stati arabi ad attaccare Israele ora:
«Non ci sono scuse per nessuno che trascuri la lotta che stiamo conducendo per la nazione islamica, soprattutto per coloro che hanno eserciti, aerei e artiglieria. Non è forse giunto il momento di mobilitare le vostre artiglierie come hanno fatto i popoli liberi dello Yemen, del Libano e dell'Iraq? Non è forse giunto il momento di togliervi di dosso l'abito della schiavitù e dell'umiliazione nei confronti dell'America, il grande diavolo, e seguire l'esempio degli onorevoli? Agli arabi e ai musulmani diciamo: come vi rivolgete ad Allah con la preghiera obbligatoria e il digiuno, così rivolgetevi alla Palestina con l'arma e l'impegno del jihad. Siamo in grado di continuare la lotta, non importa quanto tempo ci vorrà.»
Israele deve prepararsi a questo nei prossimi giorni e settimane. I terroristi riusciranno a mobilitare la popolazione araba e i palestinesi sia in Giudea e Samaria che in Israele per attaccare o ribellarsi? Tutto ciò avviene in un momento in cui si spera in un accordo tra Israele e Hamas per il rilascio degli ostaggi e per un cessate il fuoco. Washington sta spingendo per un accordo di questo tipo. Ma Hamas continua a renderlo difficile, rifiutandosi di collaborare con i mediatori egiziani e qatarioti. L'apparato di sicurezza israeliano presume che Hamas voglia aspettare l'esplosivo mese di Ramadan per vedere cosa si sviluppa durante queste quattro settimane.
La terminologia usata da Hamas in vista del Ramadan è parte della terminologia usata dall'Iran nel corso degli anni per descrivere la sua strategia contro Israele. Tra questi, il riferimento all'"unità dei campi di battaglia", un termine per "unità dei teatri" o "unità dei fronti". Questi fronti includono le milizie sostenute dall'Iran in Libano, Siria, Iraq e Yemen. L'Iran ha tentato di minacciare Israele in un arco di 5.000 miglia dal Libano attraverso la Siria e l'Iraq fino al Mar Rosso e di nuovo a Gaza. Finora, tutte le parti minacciano conseguenze terribili se dovesse scoppiare una guerra su più fronti, compreso Israele. Non credo che nessuno voglia davvero questa guerra, ma è possibile che una milizia iraniana la inizi durante il Ramadan, costringendo tutte le parti a una guerra globale.

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Danni dopo che un razzo sparato dal Libano ha colpito un edificio nella città israeliana settentrionale di Kiryat Shmona, 11 febbraio 2024
Il ministro della Difesa israeliano è stato uno dei principali sostenitori della distruzione di Hamas e ha cercato di convincere il gabinetto di guerra a lanciare un attacco preventivo contro Hezbollah in Libano all'inizio della guerra. Il capo del governo israeliano Bibi pose il veto. In questo momento, ha detto Galant, una guerra deve essere accompagnata senza esitazione da una riduzione delle tensioni nei territori palestinesi di Giudea e Samaria. Le tensioni devono essere ridotte ora. Per questo motivo, i servizi di sicurezza israeliani stanno discutendo con la leadership politica sull'organizzazione delle preghiere musulmane sul Monte del Tempio ebraico. Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, vuole permettere solo a poche migliaia di musulmani di recarsi sul Monte del Tempio, mentre il sistema di sicurezza non è d'accordo e parla di decine di migliaia. I ministri religiosi non vogliono mostrare alcuna considerazione per i musulmani durante il Ramadan e, se possibile, chiudere loro il Monte del Tempio ebraico.
L'apparato di sicurezza israeliano, compreso il capo del servizio di sicurezza Shin Bet, Ronen Bar, vede la limitazione del numero di visitatori al Monte del Tempio come un rischio di esplosioni ancora maggiori nel Paese. Questo aumenta la rabbia dei musulmani fino al punto di esplodere. La questione è se questo aspetto debba essere preso in considerazione o no. Due considerazioni diverse che sono pericolose in entrambi i casi per Israele durante le quattro settimane. Ben-Gvir avverte il suo governo di non cedere agli arabi e di non aprire il Monte del Tempio ai musulmani come avviene ogni anno. In tempo di guerra e finché gli ostaggi israeliani saranno trattenuti nella Striscia di Gaza, questo sarebbe solo un premio per i terroristi, ha detto Ben-Gvir. Israele deve smettere di ingannare se stesso e non deve mostrare paura".

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Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir durante una riunione del gruppo parlamentare alla Knesset, il 4 marzo 2024.
Il ministro della Difesa israeliano Galant ha posto il veto al ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir di limitare l'accesso al Monte del Tempio per gli arabi israeliani o i palestinesi durante il Ramadan. È il sistema di sicurezza a decidere, non Ben-Gvir. Se le cose rimarranno così è una questione da vedere.
Il Ramadan è l'annuale teatro politico o spettacolo che i palestinesi mettono in scena sempre con la stessa scusa, come se "gli ebrei volessero conquistare la moschea di Al-Aqsa". Ogni anno, durante il Ramadan, chiedo a tutti i palestinesi che conosco se credono davvero che vogliamo distruggere o conquistare la loro moschea sul sito del tempio ebraico. Tutti mi rispondono di no, "ma". "Non siamo responsabili di ciò che dicono gli altri", è il loro ma. Il Ramadan è una pericolosa polveriera quest'anno. Israele deve essere attento e intelligente e non deve fare il gioco dei terroristi in nessun caso. D'altra parte, quest'anno Israele deve pensare prima a se stesso e non agli altri. La considerazione per gli altri (non per il proprio vicino) non ha dimostrato il suo valore nel corso degli anni. Ognuno può interpretarlo come vuole.

(Israel Heute, 7 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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"Vietata agli ebrei”

E’ Londra nei weekend di protesta per Gaza. L’allarme dello zar dell’antiestremismo.

ROMA - Nel 2014 George Galloway dichiarò Bradford, dove aveva vinto le elezioni, “zona libera da Israele”. Il deputato di Respect disse che i turisti israeliani non erano i benvenuti a Bradford: “Abbiamo dichiarato Bradford una zona libera da Israele. Non vogliamo nessun bene israeliano, non vogliamo nessun servizio israeliano, non vogliamo nessun accademico israeliano, non vogliamo nessun turista israeliano”. Ora che Galloway, vincitore nel seggio di Rochdale, torna a Westminster, a Londra lo segue quello spirito malefico.
   Le proteste filo palestinesi stanno trasformando Londra in “una zona vietata agli ebrei”, ha denunciato lo zar dell’antiestremismo, Robin Simcox, consigliere indipendente del ministero dell’Interno, che ha avvertito: “Diventeremo uno stato autoritario se sarà consentito a Londra di trasformarsi in zona interdetta agli ebrei”. Anche Suella Braverman, l’ex ministro dell’Interno, ha fatto appello a un linguaggio simile a Simcox: “Parti di Londra sono diventate zone interdette agli ebrei, ciò è totalmente inaccettabile. Abbiamo visto l’antisemitismo salire alle stelle”. Una paura confessata anche dal deputato conservatore Lord Wolfson, che alla Camera dei Lord ha detto di essere più preoccupato per la sicurezza di sua figlia che indossa una stella di David nella metropolitana di Londra che per la sicurezza di suo figlio, che serve nell’esercito israeliano. Provocazione, ma per molti è cronaca londinese.
   Poi Wolfson ha rivelato: “Le società ebraiche universitarie non rendono più pubblico il luogo in cui si riuniscono. Il discorso viene distribuito poco prima dell’incontro. Questo non è un gruppo clandestino nella Russia sovietica, ma una società ebraica in questo paese nel 2024”.
   Tre persone sono state aggredite a Leicester Square, una delle piazze dello shopping londinese, dopo essere state sentite “parlare ebraico”. “Ci hanno sentito parlare e hanno detto: ‘Sei ebreo?’”, ha detto Tehilla, che vive a Londra da quando aveva 13 anni. “Ho detto ‘sì, sono ebrea’, e poi hanno iniziato a cantare ‘Palestina libera’, e ‘dannati ebrei’. In 15-20 hanno iniziato ad attaccarci fisicamente”. Intanto un video di “morte agli ebrei” arrivava da un altro angolo della capitale inglese, le scuole ebraiche di Londra dispensavano gli allievi dal portare la divisa perché li identificava come ebrei e le case ebraiche toglievano le mezuzah.
   Due sere fa, all’attrice ebrea Tracy-Ann Oberman la polizia consigliava di non lasciare un teatro londinese dopo uno spettacolo in cui interpretava il ruolo principale, a causa delle manifestazioni filo palestinesi nella zona. Nelle stesse ore, nella metropolitana di Londra, un ebreo con la kippah veniva aggredito al grido di “la tua religione uccide”. Intanto un ebreo ortodosso veniva pugnalato quasi a morte a Zurigo al grido di “Allahu akbar” e un ebreo veniva picchiato fuori da una sinagoga a Parigi.
   Sulla Bild ai primi di febbraio, il leader degli ebrei tedeschi Josef Schuster aveva avvertito che ci sono “zone interdette agli ebrei” in Germania. “Uno sviluppo che non mi aspettavo cinque anni fa ed è allarmante”.
   Pochi se le aspettavano, le zone vietate agli ebrei in Germania e figuriamoci a Londra. Ma anche se è marzo, i frutti della “diversità multiculturale” in Europa stanno maturando un po’ prima del previsto.

Il Foglio, 9 marzo 2024)

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David Parenzo contestato all'università Sapienza di Roma: «Fascista, razzista!» Lui gira un video: «Non mi fanno parlare»

Tensione prima dell'incontro sulla parità di genere. Collettivi scatenati per la presenza di Azione universitaria (destra): «Lei copre il genocidio in Palestina». «Io sono per il dialogo».

di Flavia Fiorentino

«Non mi vogliono far parlare, non mi vogliono far parlare qui alla Sapienza» ha esclamato più volte David Parenzo mentre con il cellulare riprendeva i ragazzi che, srotolando la bandiera della Palestina,  lo contestavano urlandogli in faccia: «Sei un razzista, un fascista!» Il giornalista e conduttore dell'«Aria che tira» su La7 subito dopo ha postato il video da lui stesso girato sul suo profilo Instagram. Tra le tante voci, una ragazza gli strillava: «Lei vuole utilizzare la questione femminile, strumentalizzandola per giustificare il genocidio  in Palestina…» E Parenzo ha replicato: «Guardate che a Gaza non ci sono i movimenti a favore delle donne... E i gay vengono messi in carcere, nella migliore delle ipotesi. Venite qui, salite sul palco, confrontiamoci. Io sono sempre per il dialogo».

• Il valore della politica
  Parenzo, di fronte a una platea dove erano rimasti soltanto gli studenti di «Azione universitaria», ha poi detto, con un po’ d’ironia: «Mai avrei pensato di dover essere difeso da gente di destra», e riallacciandosi al tema del confronto, ha richiamato «il valore della politica e la necessità di dialogo tra posizioni diverse. L’antipolitica e la stagione di Grillo — ha spiegato — speriamo di essercele lasciate alle spalle: anche loro si sono istituzionalizzati e formato un partito riuscendo a esprimere anche una candidata valida come la Todde . C’è bisogno di una nuova classe dirigente e non c’è terreno migliore dei movimenti giovanili che crescono proprio nelle università. Comunque, al netto dei fatti di oggi — ha concluso Parenzo — basta che nessuno si faccia male e non si danneggino le aule dell’ateneo, “Viva anche la contestazione!”

• «Fermezza e cautela da parte delle forze dell'ordine»
  Solidarietà al giornalista da parte di tutte le forze politiche e anche dal ministro dell'Interno Matteo Piantedosi. «Mi ha telefonato - ha dichiarato Parenzo - e  devo ammettere che le forze dell'ordine in questa occasione sono state impeccabili. La mia paura era che qualcuno potesse farsi male , invece per fortuna hanno saputo gestire la situazione in modo da evitare incidenti». 

(Corriere della Sera, 9 marzo 2024)

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Un dubbio

Lettera al direttore di "Il Foglio"

Un dubbio. I parlamentari italiani in missione a Gaza per testimoniare le sofferenze dei civili, oltre a redarguire Israele, si ricorderanno di lanciare un appello a quel che resta di Hamas ad arrendersi, uscire dai tunnel e issare bandiera bianca? Cioè la via più breve per far cessare subito la guerra e liberare gli abitanti della Striscia dalla dittatura criminale che ha fatto subire loro le conseguenze delle sue azioni. O se ne dimenticheranno?
Guido Salvini
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Suggerisco ai parlamentari in missione a Gaza – dove ovviamente è giusto andare perché è in corso una tragedia vera, tragedia causata in primo luogo dai terroristi che usano da anni i palestinesi inermi come scudi umani – di leggersi un formidabile articolo pubblicato ieri sul Point e firmato da Bernard-Henri Lévy. “Potete perseverare nel cantare ‘cessate il fuoco! cessate il fuoco’: questo avrebbe l’inevitabile effetto di dare la vittoria a Hamas, di prolungare la sua presa su una popolazione di cui ha fatto la cavia nella sua corsa verso la morte e di vedere la sua aura crescere e crescere anche oltre Gaza, con tutte le conseguenze catastrofiche che si possono immaginare. Oppure potete auspicare che la comunità internazionale, e comunque i paesi sostenitori di Hamas, chiedano all’aggressore due cose molto semplici, che avrebbero come conseguenza immediata la fine di questa guerra atroce e delle sofferenze che essa genera: la liberazione, non di una manciata, ma di tutti gli ostaggi israeliani ancora vivi; e deporre le armi riconoscendo, in un modo o nell’altro, la sconfitta. Chi avrà il coraggio di pretenderlo? Chi si preoccuperà abbastanza del destino degli israeliani e degli abitanti di Gaza da costringere l’aggressore a fermare il suo mostruoso ricatto?”. Già, chi?

Il Foglio, 9 marzo 2024)

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La Sinistra ama gli ebrei morti

Lettera al direttore di “La Gazzetta di Lucca”

Caro direttore,
sembra certo che la sinistra ama gli ebrei morti. Li serve alla sua tavola politica e culturale come arma contro il “rinascente” nazismo che peraltro fu bestiale anche a prescindere dall’obbrobrio dell’olocausto ebraico.
Ma siccome in tutta evidenza non rinasce né il nazismo né il fascismo, i cortei, i sermoni, le denunce, i timori sparsi a piene mani servono solo ad alimentare il suo mondo onirico; dentro al suo barile c’è più poco da raschiare: le sue ricette salvifiche si sono rivelate tutte fallimentari alla crudele prova della realtà. Miti e leggende infranti da miseria e oppressione.
L’opposizione sui fatti reali, sui risultati ottenuti, sui progetti esposti va evitata perché se ne esce con le ossa rotte: bisogna continuare a spacciare “l’oppio dei popoli”.
Continuare a dipinge “gli altri” secondo le proprie convenienze e i propri miti: una mistificazione soffocante che dura da anni e che comincia a sgretolarsi solo in questi mesi provocando la furibonda reazione di tutto l’establishment che usa ogni mezzo per difendere la posizione, butta nell’arena sofisticati teoremi, paludati esegeti, ignari ragazzotti, cialtroni di mestiere, anarchici di comodo, giudici consociati, burocrati guardoni; tutto fa brodo in difesa della fortezza finalmente assediata.
Gli ebrei vivi sono invece fastidiosi, sono persecutori dei palestinesi, popolo mite ed accogliente, libero di esprimere opinioni e scelte di vita, estraneo alla dittatura dei terroristi di Hamas pur avendoli votati in massa (liberamente? Costretto dai kalashnikov?).
Il quale Hamas continua ad emettere comunicati cui tutti danno credito acritico: sono la fonte dell’unica verità, anche di fronte a prove contrarie.
Ci siamo dimenticati del razzo Israeliano sull’ospedale di Gaza che aveva fatto 500 morti? Il razzo era di Hamas e per fortuna di morti ne fece meno di 50 (sempre troppi). Ci siamo dimenticati dei miliziani di Hamas che sottraggono il cibo ai civili armi in pugno, che si nascondono dentro le ambulanze, che rubano il carburate dagli ospedali. Ci siamo dimenticati dei funzionari ONU che hanno condiviso con gli animali di Hamas gli eccidi del 7 ottobre ma sono tuttora attivi come “neutrali” operatori umanitari e fonte credibile di informazione globale, ci siamo dimenticati delle basi di Hamas negli ospedali e nelle scuole per costringere l’esercito di Israele a fare più morti possibile fra i civili palestinesi, usati come scudi umani da sempre, ci siamo dimenticati i tentativi, armi in pugno degli eroici miliziani di Hamas di impedire ai civili di lasciare Gaza nord per esporli alle pallottole israeliane e venderli sul mercato del dissenso?
I colpevoli sono solo gli israeliani vivi. Titoli cubitali sui giornaloni: Gutierrez che tuona solo contro Israele, il Sud Africa che accusa Israele di genocidio (fra parentesi il Sud Africa fa parte del BRICS: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, con l’aggiunta nel 2024 di Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti: una bella combriccola in termini di rispetto delle regole democratiche e dei diritti umani).
La Corte di Giustizia ha rigettato l’accusa di genocidio: mezza colonnina a pagina 26! Nessuno in piazza.
La gran cassa degli occidentali da piazza ha memoria corta e informazione monoculturale: più di mille manifestazioni a favore dei palestinesi (e di Hamas!), poche decine, oscurate e contrastate a favore di Israele.
Ci pensano i cattivi maestri a manipolare i ragazzi da mandare in piazza (che però, secondo i dati ministeriali, sono meno dell’1% degli studenti: il 99% per fortuna è immune), gli infiltrati a provocare scontri con la polizia, le segreterie dei partiti e i mezzi di comunicazione dei miliardari ad accusare governo, ministro e gli stessi poliziotti di neofascismo, di sadismo.
La narrazione è che, non i miliziani di Hamas ma gli israeliani sono sadici genocidi, che la nostra polizia è composta da squadristi felici di bastonare innocenti ragazzi che manifestano pacificamente, che hanno deciso per proprio conto di raggiungere la sinagoga probabilmente per deporvi fiori e opere di bene, per che altro? Che sputano sui poliziotti, li insultano, li provocano nella speranza che reagiscano,
Bisogna metterci d’accordo: sputare, insultare, spintonare, provocare la polizia è democratico e dunque non solo è permesso ma è anche virtuoso? È questa la tesi della sinistra? Che lo dica con chiarezza.
Mentre a Torino l’assalto anarchico all’auto della polizia per liberare un immigrato clandestino condannato 13 volte per reati pesanti, che, finalmente, stava per essere rispedito a casa sua, è gradito al Manifesto, è quasi in odore di eroismo da parte dei difensori del diritto di asilo e contro la polizia fascista di uno Stato fascista come è diventata l’Italia.
E il generale Vannacci? Reprobo, ignorante che scrive stupidaggini secondo i tromboni e le trombone ospiti costanti di RAI, di Mediaset, e del nuovo approdo predisposto dal milionario di turno: “La 7” del signor Cairo.
Tutti sacerdoti della verità e titolari dei giudizi: questo buono, questo cattivo. Vuoi mettere le vette letterarie della defunta Murgia, della loquace Bompiani o del geniale Saviano! Gli intellettuali e i letterati di sinistra, per quante c. dicano danno grandi apporti alla cultura, alla qualità e alle virtù di vita degli italiani e dell’umanità intera: sono accolti da tutte le reti, espongono in libera arroganza i loro assiomi, bollano di incompetenza, ignoranza, partigianeria, incapacità di analisi, compromissioni col potere, chi degli interlocutori non la pensa come loro e contemporaneamente proclamano che il Governo reprime il dissenso, che c’è aria di fascismo, di pensiero unico (detto da loro!).
Mentre non meritano comizi, raduni, sfilate, i 1057 prigionieri politici del Combinado del Este a Cuba, gli oltre 200.000 del sistema carcerario della Corea del Nord, con la perla del campo di sterminio di Yodok, i 48.699 censiti nei Laogai della Cina di Xi Jin Ping, gli innumerevoli poveretti detenuti in Iran, in Arabia Saudita o nello Yemen, dove prosperano gli Houthi mantenuti dagli Ayatollah iraniani come Hamas, come gli oppressori dei libanesi Hezbollah.
Neanche suscitano non dico apprensione ma neanche attenzione, le “stazioni di polizia d’oltremare” istituite dalla Cina in giro per il mondo e operative anche in Italia, per esempio a Prato: siccome non sono fasciste non costituiscono pericolo.
Pericolosi sono i poliziotti, la Meloni e i suoi alleati. E così sia.
Francesco Pellati

(La Gazzetta di Lucca, 9 marzo 2024)

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Israele e il mondo capovolto

Il risalto in colore è stato aggiunto. NsI

di David Elber

Esiste veramente un mondo capovolto, è quello che entra in scena tutte le volte che Israele è al centro dell’attenzione. Lo si è capito bene a partire dal 7 ottobre.È passato solo poco tempo dall’eccidio di civili israeliani compiuto dai palestinesi e già i falsi amici di Israele e i suoi alleati hanno gettato la maschera per mostrare la realtà di quello che pensano ma non hanno il coraggio di dire apertamente: lo Stato di Israele è fondamentalmente, in quanto tale, dalla parte del torto. A quale altro Stato al mondo coinvolto in una guerra come conseguenza di un attacco è richiesto  di difendersi senza causare morti tra i civili?.
   Se a questo aggiungiamo che la Striscia di Gaza è caratterizzata da un autentico mondo sotterraneo (ad oggi sono stati scoperti oltre 800 km di tunnel) sottostante quartieri densamente abitati, come è possibile sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi senza coinvolgere i civili? A titolo di nota va ricordato che gli 800 km di tunnel (una stima prudenziale calcola siano costati oltre un miliardo di dollari) sono stati costruiti con il favoreggiamento della UE e degli USA che hanno stanziato i fondi necessari tramite ONG pseudo-umanitarie e agenzie ONU colluse con i terroristi.
   Rapidamente gli “amici” di Israele hanno iniziato a criticarlo per essersi difeso: l’accusa principale è che i morti civili sono troppi. Si, i civili morti sono tanti, ma come in ogni guerra, anzi, leggendo le cifre fornite dal fantomatico “ministero della salute di Gaza”, cioè l’ufficio di propaganda dell’organizzazione terroristica di Hamas, si scopre che l’operazione militare di Israele, conti alla mano, ha causato molti meno morti civili in rapporto ai combattenti uccisi in operazioni militari meno complesse condotte dalla NATO in Serbia o dagli USA in Afghanistan e in Iraq. Perché allora queste critiche feroci? Perché Israele è considerato inficiato dalla colpevolezza di essere nato.

• Poniamoci una serie di domande
  Perché gli “amici” e gli alleati di Israele hanno iniziato, uno alla volta (USA, Gran Bretagna, Francia per citare i più importanti) a dichiarare che vogliono riconoscere un inesistente Stato di Palestina dopo il 7 ottobre e la guerra che ha causato? Perché nessuno tra gli “amici”, dopo l’eccidio del 7 ottobre, ha dichiarato l’intenzione di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme per dare un concreto e fortissimo messaggio di vicinanza al popolo ebraico aggredito? Perché nessuno di essi sta esercitando pressioni sul Qatar (il vero padrino di Hamas) per la liberazione degli ostaggi magari minacciandolo di boicottaggio? Perché nessuno tra gli “amici” e alleati di Israele ha mandato aiuti per gli oltre 150.000 sfollati israeliani del sud e del nord di Israele? Perché nessun falso alleato di Israele ha mai chiesto apertamente ad Hamas di arrendersi e deporre le armi per porre fine alla guerra? Perché nessuno ha mai chiesto a Hezbollah di interrompere l’aggressione nei confronti di Israele che va avanti dall’8 ottobre? Perché l’UNIFIL non muove un dito per allontanare i terroristi libanesi dal confine come previsto dalla Risoluzione ONU 1701? Perché tutti gli “amici” di Israele accusano quattro “coloni” di atti violenti in Giudea e Samaria e chiudono entrambi gli occhi davanti alla trentennale violenza palestinese (anche dei membri dell’AP) nei confronti degli ebrei che ha causato centinaia di morti e migliaia di feriti? Perché ai civili di Gaza non è permesso lasciare la Striscia e mettersi in sicurezza in Egitto? Perché i cosiddetti alleati di Israele hanno accolto milioni di profughi dalla Siria, dall’Ucraina e da molti paesi africani che non sono in guerra mentre negano ai palestinesi di potersi mettere in salvo sostenendo che questa sarebbe “pulizia etnica”? Un’unica risposta viene subito alla mente, perché Israele è uno “Stato coloniale” e trovarsi in un territorio che gli appartiene legalmente da oltre 100 anni è considerato illegale.
   La conseguenza di questa palese politica volta a delegittimare Israele in ogni circostanza sta avendo gli effetti sperati: un’opinione pubblica schierata quasi totalmente con un organizzazione terroristica che vuole la distruzione dello Stato ebraico facendosi scudo della propria popolazione civile, vista come sacrificabile per ottenere la simpatia dei manifestanti che scendono in piazza per accusare Israele di genocidio.
   I veri responsabili morali dei sempre maggiori atti di antisemitismo che si stanno verificando in Europa e in America, sono le classi politiche dei rispettivi paesi, sempre pronte e concordi nel delegittimare e accusare Israele anche quando si difende.
   È un vero mondo capovolto quello che vede sempre e solo Israele sul banco degli imputati anche quando, pur avendo subito un reale tentativo di genocidio, viene portato di fronte alla Corte di Giustizia Internazionale per essere accusato del tentativo che ha subito.

(L'informale, 8 marzo 2024)
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“Lo Stato di Israele è fondamentalmente, in quanto tale, dalla parte del torto”. “Israele è considerato inficiato dalla colpevolezza di essere nato”. Sono le diffuse convinzioni registrate dall’autore di questo ottimo articolo. A questo si può aggiungere che la “colpa di essere nato” ricade ovviamente su chi lo ha fatto nascere. Ma chi è il padre di Israele? Il Faraone non lo sapeva, e allora il Signore incaricò Mosè di metterlo al corrente: “Tu dirai al Faraone: ‘Così dice L’Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito'”. Il seguito di quella storia è noto, e non finì bene per il Faraone. E si può essere biblicamente certi che non finirà bene neppure per i molti faraoni dei nostri tempi. M.C.

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Maratona di Gerusalemme, la corsa dei 40mila in solidarietà agli ostaggi

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GERUSALEMME – Primo tra gli uomini è arrivato il 33enne Melkamu Jember. Mentre a imporsi tra le donne è stata la 35enne Noah Berkman. Entrambi israeliani ed entrambi tra i favoriti della vigilia. Però forse mai come quest’anno “hanno vinto tutti”, ha scandito lo speaker complimentandosi con gli oltre 40mila podisti presenti alla tredicesima edizione della maratona di Gerusalemme. Un’edizione dal grande impatto emotivo, caratterizzata dal ricordo del pogrom del 7 ottobre e dall’angoscia per la sorte degli ostaggi. Tanti oggi hanno corso con le loro foto sulla maglia, alcuni ne avevano anche tre o quattro. Ancor prima che la gara avesse inizio toccante è stata l’esibizione sul palco di Artifex, all’anagrafe Yarin Ilovich, il dj scampato al massacro del Supernova festival e che ha riproposto stamane il repertorio eseguito cinque mesi fa per il popolo del rave.
   Al via anche numerosi soldati, regolari e riservisti. L’edizione è stata loro dedicata dal sindaco Moshe Lion
Moshe Lion
che ha corso lui stesso la cinque chilometri. “Sono orgoglioso di aver battuto il record di partecipanti alla maratona. E sono ancora più orgoglioso che ciò sia avvenuto come forma di tributo e solidarietà all’esercito, alle forze di sicurezza e di soccorso”, ha dichiarato il primo cittadino. Lion si è poi confrontato con alcuni giornalisti della stampa internazionale, rispondendo anche alle domande di Pagine Ebraiche. “Oggi più che mai”, ha affermato, “era importante esserci: esprimere la nostra solidarietà e al tempo stesso la nostra volontà di vita”. Dei 40mila della maratona, la quasi totalità erano israeliani. Ma tra loro c’erano oltre un migliaio di persone giunte dall’estero, anche da molto lontano. “È un segnale importante e che ho molto apprezzato. Gerusalemme è una città speciale, una casa per tutti. Vogliamo continuare a batterci per questo, sviluppando anche nuovi progetti legati allo sport”.

(moked, 8 marzo 2024)

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Scoperta una rara moneta del periodo della rivolta di Bar Kochba

di Jacqueline Sermoneta

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Una rara moneta, risalente al periodo della rivolta di Bar Kochba (132 e.v), è stata ritrovata nella Riserva Naturale di Mazuq Ha-he’teqim, nel deserto della Giudea. Da un lato è scritto in antico alfabeto ebraico “Eleazar il sacerdote” con l’immagine di una palma da dattero, dall’altro “Anno primo della redenzione d’Israele” con un grappolo d’uva.
A portarla alla luce, insieme ad altre tre monete dello stesso periodo con l’iscrizione “Shimon”, un team di archeologi del Judean Desert Survey Project dell’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA), il cui scopo è recuperare i preziosi manufatti prima che vengano sottratti dai saccheggiatori. Lo scavo è effettuato in collaborazione con il Ministero dei Beni Culturali e l’Ufficio Archeologico per l’Amministrazione Militare della Giudea e Samaria.
Esistono diverse ipotesi sull’identità del sacerdote Eleazar. Secondo gli studiosi, potrebbe riferirsi a Rabbi Eleazar Hamod’ai, vissuto ai tempi di Rabbi Akiva, allievo di Rabbi Yohanan ben Zakai. Si pensa che abbia svolto un ruolo religioso significativo al tempo della rivolta di Bar Kochba e che abbia vissuto nella città di Beitar. Il Talmud racconta che morì proprio in questa città,probabilmente durante la rivolta. (Talmud di Gerusalemme: Ta’anit 4:5).
Dal 2017, l’Unità di prevenzione dei furti archeologici dell’IAA sta esplorando sistematicamente il deserto della Giudea. Tra i reperti scoperti in questi sette anni ci sono frammenti di rotoli dei Dodici Profeti Minori, quattro spade romane e il più antico cesto mai ritrovato.
“Gli scavi nel deserto della Giudea non finiscono mai di stupirci. – ha detto Eli Escuzido, direttore dell’IAA – Ci auguriamo che anche in questa stagione si possano fare importanti ritrovamenti”.

(Shalom, 8 marzo 2024)

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7 marzo: in piazza lo stupro di massa delle donne israeliane

Un grido per il diritto al ricordo e alla liberazione

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Il silenzio delle bandiere. Non ne sventola neppure una in questa piazza di solito gremita da moltissimi vessilli spesso aggressivi, protervi, urlanti. Oggi in piazza San Babila non è così. Per questioni di sicurezza, per non accendere gli animi, per evitare episodi spiacevoli, dicono. Eh sì, allora meglio lasciar perdere, niente vessillo blu e bianco d’Israele, solo cartelli e pettorine gialle per ricordare in questo 7 marzo, alla vigilia della festa della donna, – esattamente cinque mesi dopo -, tutte le ragazze, le figlie, le madri, le nipoti, le ragazzine stuprate e uccise il 7 ottobre durante la mattanza di Hamas e la conseguente, vergognosa, minimizzazione – per non dire il silenzio – che ne è seguito da parte di femministe, organizzazioni umanitarie in difesa dei diritti umani e delle donne, Ong, eccetera…
Circa trecento sono le persone riunite qui in San Babila, per questo flash mob vibrante e composto, mentre sul palco si alternano i discorsi e gli interventi. Tutto d’intorno, sulle panchine al sole, c’è la gente in pausa che mangia panini, che scarta insalatone e apre schiscette: tutti osservano curiosi e in silenzio, ascoltano parole che non afferrano del tutto, “ma di che cosa stanno parlando?” si chiedono tra loro, “israeliane? Ostaggi? Sette ottobre?, ma ormai siamo a marzo…”. “Stupri? Capirai, con tutto quello che succede qui da noi in Italia, con sti’ femminicidi…”.
E allora capisci che un quieto chissenefrega si alza dalle panchine, una rapida alzata di spalle si china sul pranzo veloce di mezzogiorno mentre la fretta di correre altrove si riprende i suoi diritti. E tutto stride, tutto ha un effetto straniante in questa piazza italiana sotto un sole grifagno: straniante come possono esserlo il lutto e il dolore che isolano e ti fanno vivere in una bolla a parte; straniante come il soffio dell’indifferenza su un’anima che si ritrae, ferita; straniante come questo toccare con mano il cozzare delle diverse percezioni e, in ultima analisi, il sonoro chissenefrega che sussurra tutto intorno.
Molte ragazze tengono dei cartelli a braccia alzate, hanno i pantaloni sporchi e macchiati di rosso per simulare il sangue degli stupri, mostrano fotografie di giovani donne e scritte con Verità per Israele, Basta indifferenza…
È un flash mob per i diritti delle donne israeliane dimenticate, per lo stupro di massa pianificato a tavolino e perseguito come arma di guerra da Hamas, esattamente come fece l’Isis con le donne yazide o come accade adesso nelle carceri della Repubblica islamica dell’Iran, stupro come tecnica di rieducazione per le attiviste anti-regime.
Il palco è rivolto verso corso Europa, in molti salgono a parlare, il tutto dura meno di un’ora. Franco Modigliani – uno degli organizzatori –, si sofferma sulla narrazione dei fatti, sull’efferatezza delle violenze filmate dagli stessi assassini, rievoca lo stupro reiterato delle donne ancora in ostaggio e il cui incubo non finisce.
Modigliani presenta i numerosi oratori: Rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano, Manuela Sorani consigliere della Comunità ebraica, Roberta Vital e Emanuela Alcalay dell’ADEI WIZO, Olga Kola presidente di Woman Care per la difesa della donna, l’avvocato Stefania Zaparrata presidente di Scarpetta Rossa (che si occupa di difesa della donna contro la violenza), Mashi Hazan di Wow, la dottoressa Pepe dell’AMPI (Associazione milanese pro Israele), Silvia Sardone, europarlamentare della Lega e consigliere comunale, Diana De Marchi consigliere comunale del Partito Democratico e Presidente commissione pari opportunità e diritti civili, Mariangela Padalino consigliere comunale di Noi Moderati, Margherita Mazzoccolo del direttivo Italia Viva e Assessore alle politiche sociali di Pieve Emanuele.
Hanno concluso – con vibranti parole di lotta e di riscatto – l’attivista Tamara Campagnano e Gabrielle Fellus di I respect. L’evento aveva il patrocinio della Comunità Ebraica di Milano, dell’AMPI, dell’ADI, di Woman Care, di Scarpette Rosse.

(Bet Magazine Mosaico, 7 marzo 2024)

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Vayakhèl. Un doppio Moshè

di Rav Adolfo Locci

“Poi Mosè parlò a tutta la raunanza de’ figli d’Israele, e disse: Questo è quello che l’Eterno ha ordinato: Prelevate da quello che avete, un’offerta all’Eterno; chiunque è di cuor volenteroso recherà un’offerta all’Eterno: oro, argento, rame” (Esodo 35:4-5). “Moshè fece…come l’Eterno aveva ordinato a Mosè” (Esodo 39:43).
  L’invito ad offrire da parte di Moshè al popolo, per la costruzione del Tabernacolo, è diretto, senza intermediari (gli anziani, i capi tribù). Nel momento in cui si deve costruire il simbolo dell’unicità di D-o e del popolo ebraico, Mosè fa appello al cuore di tutti. Non è un caso che nella parashà di Vayaqel, la parola “lev/cuore” compaia sette volte. Tutti devono offrire, non importa tanto o poco, è importante che tutti offrano per sentirsi parte attiva di un progetto comune. Per questo è necessario che l’invito all’offerta sia fatto attraverso l’esempio diretto della guida. Un andante famoso ci ricorda che quando le parole escono da cuore entrano nel cuore; forse è proprio questo l’ingrediente fondamentale per aspirare a una vera e stabile unità, magari insieme a una adeguata capacità di comunicare e dialogare. Ecco come Mosè riesce ad adempiere al suo dovere di costruire il tabernacolo.
  Ma perché la Torà, quando conferma che Mosè aveva fatto tutto secondo quanto gli era stato comandato dal Signore, non usa un pronome (“come l’Eterno aveva ordinato a lui”) ma ripete il suo nome per due volte? Sembrerebbe quasi che la Torà parli di una seconda persona che si chiama Mosè del quale D-o si è servito.
  La risposta di Rav Elchanan Wasserman (1875-1941) è illuminante.
  E’ ovvio che si tratta di un solo Mosè, ma la Torà vuole sottolineare che il nostro Maestro si sia come sdoppiato per compiere la volontà del Signore. E questo lascia un grande insegnamento.
  Per ogni azione che facciamo, in ogni situazione che viviamo, c’è un prima e un dopo. Nel caso in questione, c’è un Mosè che esegue il suo dovere di costruire il Tabernacolo, grazie al contributo di tutti nessuno escluso, in modo preciso e attinente alle disposizioni ricevute, e un Mosè che a cose fatte non pretende nulla dal proprio dovere.
  In effetti, è persona rara colui che non solo fa qualcosa di buono, di giusto, insomma il proprio dovere, ma che poi si mette da parte, come se l’adempimento di quel dovere non lo riguardasse più e dal quale non vuole alcun merito per se stesso. Basta essere una persona di cuore… Shabbat Shalom!

(Morashà, 8 marzo 2024)
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Parashà della settimana: Va'Jakel - Pecudè (Convocò - Inventario)

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Italia-Israele – Salta nomina ambasciatore a Roma

Il governo israeliano ha ufficialmente ritirato la nomina ad ambasciatore in Italia dell’ex sindaco di Maale Adumim, Benny Kashriel. A riportarlo per primo, il sito in ebraico del giornale ynet. Dietro al passo indietro, scrive il quotidiano, il rifiuto italiano di Kashriel perché “sindaco di una città oltre la Linea Verde e in passato capo del consiglio di Yesha (organismo ombrello del mondo degli insediamenti)”. Ad esprimere la propria contrarietà al nome indicato da Gerusalemme, scrivono diversi media israeliani, sarebbe stato direttamente il capo dello Stato Sergio Mattarella.
Ynet riporta di una richiesta del governo israeliano al presidente Isaac Herzog di mediare con il Quirinale sul nome di Kashriel. L’opposizione è però rimasta.
Ora il ministro degli Esteri israeliano sta pensando di reindirizzare l’ex sindaco di Maale Adumim verso l’ambasciata in Ungheria. Per l’incarico a Budapest era già stato scelto il diplomatico Jonathan Peled, confermato dall’esecutivo ungherese nel dicembre scorso. Ora Peled potrebbe invece diventare il candidato a guidare la rappresentanza a Roma. Il suo è il profilo di un diplomatico di carriera. Nato a Gerusalemme e cresciuto nel kibbutz Neot Mordechai, a pochi chilometri dal confine con il Libano, ha ricoperto numerosi ruoli al ministero degli Esteri. È stato poi ambasciatore in Australia, El Salvador e Messico.

(moked, 7 marzo 2024)

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"Pace? Cancellare Hamas e rieducare"

di Fiamma Nirenstein

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Ron Dermer
Lo incontriamo dove il cuore di Israele pulsa con battiti più veloci: Ron Dermer (nella foto a sinistra) ci accoglie in un ufficio accanto alla sala del Gabinetto di guerra. Entrano in quella sala Netanyahu, Gantz, i capi militari e dei servizi segreti. Lui è ministro degli Affari Strategici. Netanyahu se deve discutere di qualcosa di veramente difficile sceglie Dermer che non è mai stato nel Likud né in altri partiti e risponde solo alla sua propensione politica e morale.

- Ministro, lei che è sempre stato un patriota, dopo il disastro del 7 ottobre, non si sente colpito nel sentimento di vittoria del popolo ebraico sulla storia?
  «Certo. La promessa di Israele, non consiste solo nel ritorno degli ebrei alla terra d'origine, ma anche nella nostra capacità di difenderci. Il 7 ottobre di fatto la promessa è stata rotta: il nostro compito è ricostituirla. Il punto di partenza è la distruzione di chi ha lanciato l'attacco. Hamas non deve sopravvivere come forza militare organizzata. Punto».

- Ma non sono troppi i «perché» e i «di chi è la responsabilità» che aleggiano sulla società israeliana?
  «Le domande sono tante e tutti dovremo rispondere, anche io, ministro di questo governo. Adesso, dal 7 ottobre, tutti combattono con bravura».

- Il mondo si chiede qual è lo scopo della guerra e come deve finire?
  «La guerra deve rimuovere Hamas, distruggere la sua capacità militare, mettere fine al suo potere politico e assicurare che Gaza non rappresenti più una minaccia».

- Ma tutto il mondo spinge per un cessate il fuoco.
  «Prima di tutto, dobbiamo necessariamente rimuovere Hamas, e chi non lo capisce non conosce il Paese. La gente d'Israele lo esige...».

- Da lontano si vede una battaglia di cui è difficile comprendere i passi e la conclusione possibile.
  «Primo punto: dobbiamo distruggere Hamas che non è una banda, ma un esercito con 24 battaglioni. 18 sono stati sgominati, ma solo il 50% dei terroristi è fuori gioco. Oltre a questi abbiamo altri 6 battaglioni. Se li lasciamo sul terreno, Hamas riprenderà possesso di Gaza».

- Ma dove è Sinwar? Perché le gallerie non sono distrutte?
  «Le distruggiamo passo passo. Ma, numero due, dobbiamo sconfiggere la leadership, via via che si va a Sud e ci occupiamo di Rafah, aumenta la possibilità di arrivare ai leader...».

- Perché non siete ancora arrivati alla leadership?
  «Siamo vicini, lo spazio gli sta venendo a mancare. Una volta presi, il punto numero tre è la strategia che sostengo dall'inizio: resa, esilio. Con questo potremo riprenderci gli ostaggi; dopo la sconfitta e la resa le rimanenti forze possono andare in Qatar o in Libano. Finalmente inizierà il giorno dopo».

- Ovvero? Una leadership che gestisca la Striscia?
  «Finché c'è Hamas, non può esserci futuro. Dopo possiamo muoverci su demilitarizzazione e deradicalizzazione. Oggi ho più speranze sul conflitto di quante ne abbia avute in 30 anni...».

- Sta parlando dello Stato palestinese di cui Biden sembra essere il maggior paladino?
  «Biden è un presidente sionista, da subito ci ha sostenuto con la sua visita. Quanto allo Stato palestinese anni fa, a un dibattito, chiesi alla gente che cosa ne pensava. Il 90% era a favore. Quando ho chiesto in quanti lo volessero armato, nessuno era d'accordo, lo stesso quando ho chiesto se dovesse controllare lo spazio aereo fra il Giordano e il mare o se dovessero avere un patto militare con l'Iran».

- Biden continua a suggerirlo.
  «Riconoscere uno Stato palestinese sarebbe, oggi, il maggiore premio per il terrorismo del 7 ottobre. Chi ama la pace non può volere che un palestinese fra anni possa guardarsi indietro e dire che la strage di massa degli ebrei ha catapultato avanti la loro causa. Hanan Ashrawi, la portavoce palestinese, dopo un attacco terrorista fu intervistata dalla Bbc. Il giornalista disse: Non avrete uno stato finché non combatterete il terrore e farete pace. La risposta fu: Noi siamo un popolo con diritto all'autodeterminazione, quindi avremo uno Stato. Se decidiamo di fare la pace, è un altro tema. Lo scopo dello Stato era il conflitto, non terminarlo. Noi invece non vogliamo che si separi lo Stato dalla pace. Per questo non accetteremo diktat e ogni pace sarà negoziata».

- Ma anche nel gabinetto di Guerra appaiono posizioni più disponibili alla visione americana.
  «La Knesset ha votato unita, non ci sarà una soluzione imposta che rappresenti un rischio per Israele. Quando si sentono tante critiche dei media su Netanyahu o sull'unità della coalizione, è un messaggio in codice per criticare Israele. Sulle politiche di guerra, militarmente e diplomaticamente, il governo rappresenta la grande maggioranza».

- La critica internazionale è puntata sugli aiuti umanitari e sul grande numero di morti e feriti palestinesi, con l'accento su quanto la condizione dei palestinesi a Rafah può diventare un disastro umanitario. E si dice che attaccare Rafah può bloccare la trattativa sugli ostaggi.
  «Sugli ostaggi, 112 sono stati liberati. Restano 134 di cui parte potrebbe non essere più in vita: sappiamo che la via più realistica per rivederli è con un accordo. Quanto a Rafah: se lasciamo in piedi i battaglioni abbiamo perso la guerra; ma attueremo strategie per muovere quanti possiamo a Nord e studieremo come fargli ricevere aiuti. È un impegno morale. A Gaza più di metà dei residenti è sotto i 18 anni: sarebbe folle negare aiuto. Resta la domanda di dove va a finire. E mi creda, l'ultima «pita» se la prende Hamas. Quanto ai cittadini di Gaza durante la guerra, il nostro impegno è stato ed è colossale, direi senza precedenti, in avvertimenti, telefonate, strade sicure. Hamas è responsabile della loro tragedia».

- Come vuole veder finire questa guerra?
  «Dobbiamo assicurarci la demilitarizzazione dell'area: il confine con l'Egitto deve essere sigillato così da impedire passaggi di armi e uomini; dobbiamo poter condurre operazioni militari, sperando che siano sempre meno nel tempo. Occorre anche un cuscinetto che provveda alle comunità intorno la possibilità di vivere in sicurezza».

- Ma come si abbandona la prevalenza del controllo militare? A chi si affida la Striscia?
  «Occorre ciò che a me sembra altrettanto importante, la deradicalizzazione. Altrimenti fra 20 anni ci odieranno nello stesso modo. Dopo una vittoria militare è possibile cambiare l'odio palestinese in convivenza? Altrimenti ci prendiamo in giro. Oggi l'85% dei palestinesi dell'Anp sostiene la strage. La questione è cambiare cultura. Cosa impara un bambino? Occorre un cambiamento basilare. La Germania e il Giappone furono deradicalizzati e ci vollero anni. Anche oggi società si stanno trasformando: l'Arabia Saudita e i Paesi del Golfo».

- E come comincerà questa trasformazione?
  «Con la sconfitta militare».

- Prevede l'apertura di un grande fronte anche con Hezbollah?
  «La nostra è una scelta di deterrenza attiva. Hezbollah non sembra volere una guerra. Al Sud vogliamo cambiare la situazione con la guerra, al Nord con la diplomazia. Tuttavia siamo pronti a combattere: è la prima volta che abbiamo visto l'asse dell'Iran che ci combatte da ogni parte. Anche gli Houthi si sono mobilitati per stringere l'assedio. La nostra vittoria sarà una vittoria anche per gli Stati Uniti». E certo anche per l'Europa.

(il Giornale, 7 marzo 2024)

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Il 7 marzo a Milano e Roma una manifestazione per denunciare le atrocità commesse da Hamas, in Israele, contro le donne

di Michael Soncin

Il 7 ottobre 2023 il gruppo terroristico di Hamas, durante il terribile pogrom, che da Gaza ha invaso Israele, ha commesso uno tra i più grandi stupri di massa dei nostri tempi. Tutte le donne che sono state vittime di queste indicibili atrocità non devono essere dimenticate.
Per questo motivo, giovedì 7 marzo 2024 alle ore 13:00, in piazza San Babila (lato c.so Europa) a Milano, si terrà una manifestazione solidale, per denunciare la grande indifferenza e silenzio verso le donne ebree e israeliane.
All’evento hanno aderito diversi enti tra cui: l’ADEI, Associazione Donne Ebree d’Italia; la Comunità Ebraica di Milano, l’A.M.P.I; Associazione Milanese Pro Israele; l’ADI, Associazione Amici d’Israele.

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• A Roma una maratona oratoria organizzata dall’associazione Setteottobre

Lo stesso messaggio verrà ribadito a Roma, sempre nella giornata del 7 marzo, proprio in prossimità del giorno della Festa della Donna. Il luogo scelto a cui prenderà il via la maratona è piazza SS. Apostoli, alle ore 18:00.
Ancora una volta, non si può tacere contro gli stupri, le uccisioni, i smembramenti e le torture compiute da Hamas. Un silenzio tuonante commesso da buona parte del mondo occidentale, che non è passato inosservato. A tacere sono state diverse organizzazioni internazionali che lavorano nel campo dei diritti umani, e pure, paradossalmente, alcune componenti del mondo femminista.
Grazie all’appello Non si può restare in silenzio  a cui hanno aderito 17.000 persone, è stato possibile all’associazione Setteottobre di poter presentare un formale atto di richiesta all’Ufficio del Prosecutor della Corte Penale Internazionale, affinché Hamas venga indagato per crimini contro l’umanità e genocidio. L’appello che ha raccolto migliaia di firme è stato promosso da: Andrée Ruth Shammah, Alessandra Kustermann, Silvia Grilli e Anita Friedman.
Le giornate di Milano e Roma vogliono anche ricordare le donne, uomini, bambini, giovani e vecchi che ancora sono ostaggi nelle mani di Hamas. Ricordarli per chiedere ancora una volta il rilascio immediato, di fronte ad un mondo che sembra averli dimenticati, o che forse ha fatto finta.
Diverse donne del mondo delle istituzioni, della politica e della cultura saranno presenti, inclusa una parte del mondo femminista, per dare una risposta anche alle mancate e nette denunce, senza distinguo, che sono invece venute a mancare.

(Bet Magazine Mosaico, 7 marzo 2024)

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Il rapporto dell’Onu sugli stupri del 7 ottobre normalizzato e silenziato dai vertici delle Nazioni Unite

di Ugo Volli

Dopo quasi cinque mesi dai fatti e parecchio tempo dopo che erano state pubblicate due grandi inchieste molto documentate sul tema, quella del New York Times di fine dicembre e quella dell’ARCCI (Associazione dei centri di crisi sullo stupro in Israele) del 20 febbraio, finalmente anche l’Onu ha pubblicato un rapporto sulle violenze sessuali compiute dai terroristi di Hamas sulle donne israeliane durante il pogrom del 7 ottobre e in seguito sulle donne rapite. L’indagine, condotta con una metodologia particolarmente restrittiva, come se non si trattasse di analizzare un terribile episodio collettivo, ma di trovare le prove legali di singoli crimini, ha perciò lasciato impregiudicati una serie di episodi gravissimi, la cui conoscenza è basata non su prove materiali ma sulla testimonianza dei sopravvissuti; ma alla fine non ha potuto non riconoscere la fondatezza delle denunce.

• Le conclusioni
  Il rapporto dell’Onu usa anche formule giuridiche particolarmente caute e del tutto prive di empatia per le vittime: “Sono state raccolte anche informazioni circostanziali credibili, che potrebbero essere indicative di alcune forme di violenza sessuale, tra cui la mutilazione genitale, la tortura sessualizzata o trattamenti crudeli, inumani e degradanti”. Si afferma inoltre che il gruppo di ricerca “ha trovato informazioni chiare e convincenti secondo cui alcuni ostaggi portati a Gaza sono stati sottoposti a varie forme di violenza sessuale legata al conflitto e ha fondati motivi per ritenere che tale violenza possa essere in corso”.

• Il rapporto dell’ARCCI
  Per rispetto alle vittime e alla verità, vale la pena di accostare a queste le conclusioni del rapporto dell’ARCCI: “Diverse testimonianze, interviste e altre fonti indicano l’uso di pratiche sadiche da parte dei terroristi di Hamas, volte a intensificare l’umiliazione e la paura degli abusi sessuali. […] I corpi di molte vittime sono stati trovati mutilati e legati, con gli organi sessuali brutalmente attaccati [dove] in alcuni casi, sono state inserite delle armi”. Il rapporto afferma che in molti casi le famiglie sono state costrette a guardare i terroristi compiere atti di violenza sessuale sui loro familiari. In molti casi, le vittime sono state uccise in seguito allo stupro, ma alcune sono state uccise durante l’atto stesso. Il rapporto descrive in dettaglio con angosciante chiarezza come i defunti furono ulteriormente profanati, con i genitali sia maschili che femminili sfigurati in modo grottesco. Le donne venivano legate agli alberi, trascinate per i capelli e venivano amputati gli organi, compresi quelli sessuali. Il rapporto descrive dettagliatamente anche lo stupro di uomini.

• La reazione israeliana
  In risposta al rapporto, l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Gilad Erdan ha criticato l’organismo internazionale per aver impiegato così tanto tempo a riconoscere ciò che è accaduto alla periferia di Gaza e soprattutto per non trarne le conseguenze: “Ora che [dopo 5 mesi] viene pubblicato il rapporto sulle atrocità sessuali e sugli abusi che i nostri ostaggi stanno subendo a Gaza, la vergogna del silenzio delle Nazioni Unite – che non tiene nemmeno una seduta sulla questione – grida al cielo”. Il ministro degli Esteri Israel Katz ha richiamato Erdan in Israele “per consultazioni”, un provvedimento che nella diplomazia internazionale equivale quasi alla rottura delle relazioni. Katz ha criticato il segretario dell’ONU Antonio Guterres per non aver convocato una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite “dichiarando Hamas un gruppo terroristico e imponendo sanzioni ai suoi sostenitori”. Ha detto che Israele non ha ancora sentito “una sola parola” dal capo delle Nazioni Unite sul rapporto.

• Hamas cerca di negare l’evidenza
  Dopo la pubblicazione del rapporto, il gruppo terrorista ha rifiutato di riconoscerlo, nonostante la sua estrema cautela: “Questo rapporto è arrivato dopo i falliti tentativi israeliani di provare quelle false accuse, volte solo a demonizzare la resistenza palestinese”, ha dichiarato un portavoce di Hamas. Niente di nuovo in questa negazione: dal 7 ottobre in poi i militanti di estrema sinistra e le femministe organizzate, che in altri contesti hanno sempre sostenuto che le accuse di violenza sessuale non dovrebbero mai essere messe in dubbio, hanno cercato di screditare le testimonianze delle vittime di stupro, tentando di seppellirle sotto dubbi e controaccuse di razzismo e islamofobia.

• L’atteggiamento dell’Onu
  In effetti, l’atteggiamento dell’Onu non è cambiato alla luce del suo stesso rapporto. Le richieste di Israele per la convocazione urgente del Consiglio di Sicurezza sul tema non sono state accolte. La “special rapporteur” delle Nazioni Uniti sulla violenza sessuale Reem Alsalem non ha firmato il rapporto, e in cambio ha sottoscritto in questi giorni con sei altri alti funzionari dell’Onu un appello per la condanna di Israele dopo il sanguinoso assalto di folla ai camion degli aiuti, in cui non si parla dei rapiti né della violenza alle donne, ma in cambio un si chiede “cessate il fuoco permanente” e “un embargo sulle armi e sanzioni contro Israele, come parte del dovere di tutti gli Stati di garantire il rispetto dei diritti umani e fermare le violazioni del diritto internazionale umanitario da parte di Israele”. È la posizione di Hamas. D’altro canto anche il rapporto si conclude con la richiesta di un “cessate il fuoco umanitario”.

(Shalom, 7 marzo 2024)
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Le prove offerte da più parti sono più che sufficienti a rivelare che l'assalto del 7 ottobre è la chiara manifestazione di un odio diabolico (nel senso letterale di operato del Diavolo) contro il popolo che Dio presenta al mondo come "mio figlio" (Esodo 4:22). E' lo stesso intento che l 'Avversario di Dio ha cercato di attuare nel massacro della Shoah. Con l'avvicinarsi del tempo della fine, Satana è costretto a rivelare le sue reali intenzioni, e Dio glielo consente anche per conoscere le vere intenzioni di chi osserva, valuta e giudica l'avvenimento. Chi esita a riconoscere la vera natura di questo fatto con motivazioni di "comprensione" per i "poveri palestinesi" si mette dalla parte del Diavolo. Chi scrive si assume la responsabilità davanti a Dio di quello che dice, come si spera che facciano tutti quelli che parlano diversamente. M.C.

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L’audace e realistico piano di Netanyahu per “il giorno dopo Hamas”

di Daniel Pipes

Lo scorso mese, il primo ministro Benjamin Netanyahu si è presentato al Gabinetto di guerra israeliano con un breve documento intitolato “il giorno dopo Hamas”. Il passaggio chiave in esso contenuto stabilisce che Gerusalemme intende lavorare principalmente con i gazawi per ricostruire il loro territorio. “Gli affari civili e l’ordine pubblico saranno gestiti da attori (funzionari) locali con esperienza amministrativa”, recita il testo, attori che non saranno identificati con Paesi o entità che sostengono il terrorismo e non riceveranno alcun pagamento da loro. Al fine di attuare questo piano di autogoverno, l’esercito israeliano ha avviato un progetto pilota informale di ciò che chiama “zone umanitarie”, nelle aree a nord di Gaza di cui Hamas ha perso il controllo. Questi organi di Governo locali sono costituiti da leader della comunità, i cui compiti includeranno la distribuzione degli aiuti umanitari e la revisione dei programmi scolastici.
  L’idea che gli israeliani lavorino con gli abitanti di Gaza è coraggiosa, audace e controversa. Si trova a dover far fronte a due critiche principali. In primo luogo, gli Stati Uniti e altri Paesi vogliono consegnare Gaza all’Autorità palestinese, che governa gran parte della Cisgiordania e mira alla distruzione di Israele. In secondo luogo, molti israeliani e palestinesi sostengono che Gerusalemme non troverà quegli “attori locali” con cui lavorare. Eppure, il piano di Netanyahu, e l’ottimismo in esso implicito, sono ineccepibili. La proposta prevede una Gaza dignitosa gestita da gazawi dignitosi. E questo non è inconcepibile. Il piano riconosce che gli abitanti di Gaza hanno vissuto 17 anni di vero inferno: sono stati sfruttati dai loro governanti come carne da cannone per scopi di pubbliche relazioni. A differenza di altri regimi dittatoriali, che sacrificano i soldati per ottenere vittorie sul campo di battaglia, Hamas sacrifica i civili per incassare sostegno politico. Più gli abitanti di Gaza sopportano la miseria, più Hamas può accusare con convinzione Israele di aggressione, e più ampio e più veemente diventa il sostegno di cui gode a livello globale.
  Tuttavia, una serie di prove indicano che gli abitanti di Gaza rifiutano di essere usati come pedine nella strategia del gruppo terroristico. Due sondaggi d’opinione condotti prima del massacro di Hamas del 7 ottobre mostrano che gli abitanti di Gaza vogliono vivere una vita normale. Il primo sondaggio, realizzato dal Washington Institute for Near East Policy a metà del 2023, ha rilevato che il 61 per cento desidera che vengano offerti più posti di lavoro israeliani a coloro che vivono a Gaza e in Cisgiordania. Il 62 per cento vuole che Hamas mantenga il cessate il fuoco con Israele, e il 67 per cento crede che “i palestinesi dovrebbero concentrarsi su questioni pratiche (…) e non sui grandi piani politici o sulle opzioni di resistenza”. Il 72 per cento afferma che “Hamas non è stato in grado di migliorare la vita dei palestinesi a Gaza” e l’82 per cento concorda sul fatto che “i palestinesi dovrebbero fare più pressione per sostituire i propri leader politici con altri più efficienti e meno corrotti”. L’87 per cento ritiene che “molte persone sono più preoccupate della propria vita personale che della politica”.
  Il secondo sondaggio, condotto da Arab Barometer alcuni giorni prima dell’inizio della guerra ha rilevato che “la stragrande maggioranza degli abitanti di Gaza è frustrata dall’inefficace governance del gruppo armato dovendo sopportare estreme difficoltà economiche”. Questi risultati sono stati confermati sul campo. Dal 7 ottobre, i video hanno mostrato folle di abitanti di Gaza che gridavano “abbasso Hamas,” maledicendo i leader del gruppo, e affermavano: “La gente vuole porre fine alla guerra. (…) Vogliamo vivere!”. Anche il furto di aiuti umanitari da parte di Hamas avrebbe provocato rabbia e tensione a livello locale. La stessa resistenza ha cominciato a farsi strada nei media popolari. Le interviste in diretta degli abitanti di Gaza sulle reti dei media arabi spesso diffondono inavvertitamente sentimenti critici nei confronti di Hamas e dei suoi sostenitori statali. In un’intervista del 5 novembre ad Al Jazeera, un uomo anziano e ferito diceva dei membri di Hamas: “Possono andare all’inferno e nascondersi lì”. Il giornalista lo ha subito interrotto.
  Questi e altri dati indicano che molti gazawi desiderano essere liberati da Hamas. Per quanto possano essere ostili allo Stato ebraico, vogliono disperatamente lasciarsi alle spalle l’attuale squallore, anche se ciò significa lavorare con Gerusalemme. Israele, quindi, può ragionevolmente aspettarsi di trovare molti cittadini di Gaza disposti a creare una nuova autorità di Governo capace di assumere una serie di compiti, dal mantenimento dell’ordine, ai servizi pubblici, a quelli municipali e all’amministrazione, fino alle comunicazioni, all’insegnamento e all’urbanistica. Una Gaza dignitosa richiederà un rigido Governo militare israeliano, che supervisioni un duro stato di polizia sulla falsariga di quelli che esistono in Egitto e Giordania. In questi Paesi, i cittadini possono condurre una vita normale purché si tengano lontani dai guai e si astengano dal criticare chi governa. In tali condizioni, Gaza potrebbe diventare dignitosa ed economicamente sostenibile. Come hanno dimostrato Singapore e Dubai, la democrazia non è necessaria affinché un simile progetto abbia successo. Se gli israeliani avranno l’acume e la tenacia necessari per far sì che ciò accada, avranno tratto qualcosa di positivo dalla tragedia.

(l'Opinione, 7 marzo 2024 - trad. di Angelita La Spada)

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Scuola, Israele e conflitto con Hamas: tra cattivi maestri e coraggio, come guidare i giovani a conoscere

Non si fermano, nelle città italiane ed europee, le manifestazioni e le proteste pro Palestina animate anche da studenti liceali e universitari, scoppiate a partire dallo scorso ottobre nelle piazze o negli istituti scolastici e nelle accademie. Cori e bandiere palestinesi hanno colorato cortei e facciate di edifici istituzionali come il liceo Einstein di Torino o il campus universitario Einaudi sempre nel capoluogo piemontese, l’università L’Orientale e il liceo Vico di Napoli, le università di Salerno e Padova, la Sapienza di Roma e il liceo Pilo Albertelli sempre nella capitale. Il 9 novembre, a Milano, un blitz di alcuni studenti ha interrotto un convegno in corso alla Statale per protesta contro il “genocidio del popolo palestinese”. Episodi simili si sono verificati in altri atenei. Lo scorso 17 novembre un gruppo di manifestanti e studenti ha calato lungo la Torre di Pisa una lunga bandiera palestinese, dopo essere entrato con forza nel noto monumento toscano, mentre nel corso della stessa giornata a Firenze un altro gruppo di manifestanti con bandiere palestinesi alla mano ha bloccato le porte per accedere alla Cupola del Brunelleschi, al punto che il personale dell’Opera del Duomo di Firenze ha dovuto per precauzione chiudere gli accessi alla cattedrale. Tutti episodi che lasciano trasparire una linea di pensiero e di azione che si diffonde fra non pochi giovani e studenti, a volte minando il normale e libero scambio di idee nelle scuole e negli istituti, a discapito di chi difende posizioni o la stessa esistenza di Israele o semplicemente a discapito dell’essere ebrei.

Episodi e situazioni nelle scuole in Francia
  La memoria corre veloce a casi passati e recenti avvenuti in istituti scolastici in Francia, dove quasi la metà dei musulmani considera i fatti del 7 ottobre 2023 come un atto “di resistenza”. Lo svela un’inchiesta dell’Ifop, il più autorevole istituto sondaggistico francese, che in merito al conflitto fra Israele e Hamas mostra una grande separazione tra i francesi di religione islamica e il resto della popolazione. Dati preoccupanti a cui non sono seguiti precisazioni o reazioni da parte dei responsabili della comunità islamica francese, nemmeno di fronte a recenti casi di minacce ai professori avvenuti nei licei.
   Lo scorso marzo, proprio l’Ifop aveva realizzato un’inchiesta secondo cui un professore su tre è minacciato nelle scuole francesi e la maggior parte delle minacce viene da studenti di confessione musulmana. A Parigi, lo scorso dicembre, in un istituto superiore della banlieue, un docente di matematica è stato minacciato di morte su Instagram da un suo allievo, mentre in un liceo un’insegnante è stata accusata di islamofobia per aver mostrato in classe l’immagine del quadro ‘Diana e Atteone’ di Giuseppe Cesari che raffigura delle ninfe senza vestiti. La professoressa è stata accusata di razzismo secondo dichiarazioni poi ritrattate da alcuni studenti di religione islamica, che nel frattempo erano tuttavia stati difesi dai genitori che avevano protestato contro la scuola. Una dinamica e una concatenazione di fatti e di false accuse che ricordano il tragico caso dell’assassinio del professore di storia e geografia Samuel Paty, accoltellato e poi decapitato da un giovane jihadista il 16 ottobre 2020 a Éragny, una cittadina della Val-d’Oise (Île-de-France), al culmine di una campagna d’odio scaturita da calunnie e poi diffusa sulle reti social.

Il caso dello striscione pro Palestina e del professore accusato al liceo di Cuneo
  Avvenimenti accaduti al liceo classico Peano Pellico di Cuneo sono saliti alle cronache dopo che un professore si è opposto a uno striscione con la scritta “stop al genocidio” appeso da uno studente lo scorso 21 febbraio. L’Unione Studenti ha pubblicato una nota contro il gesto del professore di storia e filosofia Paolo Bogo, che ha fatto rimuovere lo striscione a dire del sindacato studentesco anche minacciando gli alunni e tacciandoli di antisemitismo. Un presidio di solidarietà agli studenti coinvolti, con le bandiere della Palestina, è stato promosso due giorni dopo in piazza Galimberti nella città piemontese, mentre lo striscione in questione è stato riappeso.
   Nel frattempo, è stato lo stesso professore Bogo a rispondere alla protesta e dare la sua versione, in una lunga lettera aperta (in fondo a questo articolo il testo integrale) in cui dichiara: “Probabilmente la mia passionalità sulla questione mediorientale è stata travisata”, chiarendo che lo striscione era stato rimosso “con il consenso della presidenza perché una scuola o meglio i muri esterni di una scuola non sono i luoghi per prese di posizione sulla politica estera”.
   “È una situazione orribile, come lo sono tutte le guerre, ma non è un genocidio – sottolinea l’insegnante nel suo scritto in merito alla situazione a Gaza -. Affermare che invece è in corso un genocidio, ovvero la sistematica decisione di eliminare un popolo perché è quel popolo lì, è un modo subdolo di far passare l’idea che gli ebrei siano i nuovi nazisti. Se in questa scuola ci sono degli ebrei penso che vedere uno striscione del genere li faccia sentire oggetto di odio. Io sogno un mondo dove la complessità è riconosciuta perché solo in questo modo i problemi possano essere risolti. Non con slogan semplificatori e irrispettosi nel dramma in atto, anche se pronunciati o scritti in buona fede”.
   “In questo caso specifico, come abbiamo detto nelle numerose lezioni dedicate a questo argomento e anche nei giorni scorsi, la situazione è troppo complessa per essere semplificata – ha altresì precisato il professore -. Esiste un gruppo terroristico che, dopo aver lanciato e di fatto inventato l’uso sistematico del terrorismo suicida, dal 1994 boicotta gli accordi di pace e da 16 anni controlla Gaza creando un clima di terrore e lanciando missili e attacchi su Israele. Ultimo ovviamente il pogrom del 7 ottobre, la peggiore caccia all’ebreo dai tempi del nazismo”.

La testimonianza di una professoressa di un liceo di Milano, ex insegnante della scuola ebraica
  Per lanciare uno sguardo alla situazione e al clima nelle scuole milanesi a partire dal conflitto fra Israele e Hamas abbiamo raccolto la testimonianza di L. V., insegnante di letteratura inglese in un liceo della città, membro della nostra comunità e già docente della scuola ebraica negli anni scorsi. “La mattina di lunedì 9 ottobre sono entrata a scuola frastornata come tutti noi dai fatti del 7 ottobre – esordisce la professoressa -. Davanti a me c’era uno studente che interloquiva con il docente di storia chiedendogli: ‘Prof, ha sentito che cosa è successo in Israele’? Una situazione che di per sé appariva lineare: uno studente che ha sentito una notizia di attualità che magari non capisce fino in fondo e che con dei buoni modi chiede spiegazioni all’insegnate di storia. Ma il collega, con me che passavo di fianco, gli ha risposto: ‘È successo che finalmente i palestinesi hanno alzato la testa’! E la conversazione è continuata su questo tono. In quel momento ho davvero compreso che il mondo della scuola, data anche l’età media dei docenti, alcuni dei quali figli del ’68, è ancora in mano a un’ideologia da guerra fredda. Molti insegnanti non sono ancora usciti dalla logica per cui Israele rappresenta l’America e quindi il nemico da condannare sempre e comunque. Purtroppo, questo è anche ciò che insegnano in classe. Come si può rispondere a uno studente che ‘hanno finalmente alzato la testa’, avendo massacrato 1.200 persone a sangue freddo e avendo fatto quello che sappiamo? Io sono rimasta senza parole, seppur in genere io rimanga difficilmente senza parole. Ma ero esterrefatta”.
   “Sono accaduti altri episodi, da quando lo Stato di Israele ha iniziato a dire che l’esercito sarebbe entrato a Gaza – continua la docente -. In sala professori, per esempio, i colleghi si dicevano scandalizzati sostenendo che Israele aveva dichiarato guerra ai palestinesi! Quella volta, con più sangue freddo, ho risposto dicendo che Israele non aveva dichiarato guerra ai palestinesi e che c’era stato un pogrom con 1.200 morti… ma la loro controrisposta è stata: “Quello non è un atto di guerra”! Questo è il clima che rispira e questo è ciò che queste persone insegnano nelle classi”.
   Il liceo dove insegna L.V è inoltre stato di recente occupato dagli studenti, in protesta su vari temi. “Hanno fatto un ‘panettone’ di cose diverse – spiega l’insegnante -: no al caro vita a Milano, no alla mancanza di infrastrutture, alla scuola che cade a pezzi e… stop al genocidio! Ma la cosa più allucinate è accaduta quando il dirigente scolastico ha convocato un collegio docenti per aggiornarci sull’occupazione in corso e per riportare le rivendicazioni degli studenti. Lui stesso ha sottolineato che si trattava di un ‘panettone’ di temi differenti, dal no al caro vita a stop al genocidio, ripetendolo però pari pari senza aggiungere altro e quindi in un certo senso sdoganando il termine ‘genocidio’! Ormai questa è la parola dell’anno: nemmeno un dirigete ha l’energia per dire ai suoi docenti o ai ragazzi che occupano la scuola che, a prescindere dalla valutazione politica che si voglia dare, la definizione di quei fatti non può essere ‘genocidio’! I ragazzi del liceo, che risentono di quella visione politica da anni Settanta, andrebbero così in piazza per la Palestina come farebbero contro il carovita, come se fosse un modo per convogliare rabbia e proteste adolescenziali, ma non conoscono per niente i fatti. Se si chiedesse loro quali sarebbero i territori che Israele starebbe occupando, loro risponderebbero: ‘tutto’. Ma come tutto? Allora Israele andrebbe cancellato dalle mappe? Non conoscono la storia, anche perché nessuno la insegna loro”.
   A scuola sono poi successi altri episodi: sono state trovate nei bagni delle stelle di David con vicino il numero 1 e il numero 2 e delle scritte che recitano ‘free Gaza’. “L’atmosfera che si respira è molto pesante – rivela la docente -. Ci sono persone che per esempio all’improvviso smettono di parlarti. Da non credere. Per settimane, quando io entravo in sala professori cadeva il silenzio. Poi, visto che in genere col tempo tutto si alza o si abbassa, come una marea, dopo il mese di novembre le acque hanno iniziato a calmarsi un po’ e l’attenzione non era più così alta su questi fatti di cronaca. Ma per lungo tempo ho faticato a stare in sala professori, perché da parte di alcuni sentivo ostilità. Comunque, penso che dire di fronte a un collega ebreo che “finalmente i palestinesi hanno alzato la testa” sia davvero qualcosa di pesante. Come se venisse tolto il coperchio da un vaso di Pandora che nel corso degli anni non ha mai smesso di esserci. C’era stato anche un sistematico boicottaggio delle attività legate al Giorno della Memoria. Personalmente, non ho invece ricevuto alcuna ostilità da parte dei ragazzi – conclude L.V. -, da un lato perché mi illudo che mi vogliano bene, ma è anche vero che dall’altro potrebbero avere timore delle conseguenze scolastiche”.

La lettera del professore di Cuneo ai suoi studenti liceali che hanno affisso uno striscione “stop al genocidio” sulla facciata della scuola:
  “Gentilissimi studenti, penso che ci sia stato un qui pro quo. Probabilmente la mia passionalità sulla questione mediorientale è stata travisata. Voi mi conoscete. Gli altri no. Il cartellone è stato rimosso con il consenso della presidenza perché una scuola o meglio i muri esterni di una scuola non sono i luoghi per prese di posizione sulla politica estera. Se proprio la scuola volesse farlo, lo decide il consiglio di istituto. E non un gruppo di persone. Se chiunque lo potesse fare, perché non scrivere frasi razziste, proclami politici o inni ad una squadra di calcio? Sarebbe un caos.
   Ma in questo caso specifico, come abbiamo detto nelle numerose lezioni dedicate a questo argomento e anche nei giorni scorsi, la situazione è troppo complessa per essere semplificata. Esiste un gruppo terroristico che, dopo aver lanciato e di fatto inventato l’uso sistematico del terrorismo suicida, dal 1994 boicotta gli accordi di pace e da 16 anni controlla Gaza creando un clima di terrore e lanciando missili e attacchi su Israele. Ultimo ovviamente il pogrom del 7 ottobre, la peggiore caccia all’ebreo dai tempi del nazismo.
   Sappiamo che l’attuale governo israeliano è imbarazzante. Che una parte dei settlers della Cisgiordania è violenta (non a caso sono oggetto di sanzioni Usa). Che l’uso della forza da parte israeliana è stato a volte esagerato. Sappiamo anche che la popolazione di Gaza è stretta tra Hamas che la controlla e non la lascia fuggire e Israele che finisce per colpirla (ma non volontariamente) per snidare Hamas e trovare i 130 ostaggi nei 700 chilometri di tunnel. Ma è anche vero che l’esercito israeliano manda messaggi dal cielo e scrive messaggi sui cellulari per spingere i Gazawi a spostarsi per non essere colpiti.
È una situazione orribile, che personalmente mi crea una sofferenza enorme perché amo questi popoli sfortunati.
   È una situazione orribile. come lo sono tutte le guerre, ma non è un genocidio.
Affermare che invece è in corso un genocidio, ovvero la sistematica decisione di eliminare un popolo perché è quel popolo lì, è un modo subdolo di far passare l’idea che gli ebrei siano i nuovi nazisti. Se in questa scuola ci sono degli ebrei penso che vedere uno striscione del genere li faccia sentire oggetto di odio.
   Io sogno un mondo dove la complessità è riconosciuta perché solo in questo modo i problemi possano essere risolti. Non con slogan semplificatori e irrispettosi nel dramma in atto, anche se pronunciati o scritti in buona fede”.

(Bet Magazine Mosaico, 6 marzo 2024)

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Ragazzo ebreo salvato da un soldato tedesco durante la seconda guerra mondiale, il ricordo a Palermo

Un fatto storico di grande umanità che viene celebrato con una targa in maiolica, installata all’interno del giardino dei Giusti

di Anna Cane

Emozionato e commosso Gabriele Beretvas, figlio di Luigi, ragazzo ebreo salvato da un sergente tedesco, durante la seconda guerra mondiale. Un fatto storico di grande umanità che viene ricordato con una targa in maiolica, installata stamattina all’interno del Giardino dei Giusti, in via Alloro a Palermo. Va ricordato Richard Abel, sergente tedesco che ha salvato la vita di cinque ebrei e lo studente palermitano, Luigi Beretvas, uno dei ragazzi che al sergente dall’animo buono deve la vita.
   La cerimonia è stata organizzata dall’associazione Conca d’Oro insieme al Comune. La storia di Richard e Luigi è stata raccontata dal professore Alessandro Hoffmann. L’episodio si è svolto in Tunisia, a Dépienne, il 12 dicembre 1942. Cinque ragazzi da Tunisi, occupata dalla Wehrmacht, stavano cercando di raggiungere l’esercito alleato. I giovani sono stati catturati da una pattuglia tedesca e affidati al sergente Abel che avrebbe dovuto consegnarli a un reparto delle squadre di protezione. Abel, invece, liberò i cinque ragazzi salvando loro la vita.
   Luigi Beretvas era cittadino italiano, di religione ebraica, residente in città in via Cluverio, figlio di Leopoldo Beretvas, di origine ungherese, docente della facoltà di medicina. Luigi, anche lui medico, muore a Parigi nel dicembre del 1991, lasciando cinque figli. La famiglia Beretvas, per tutta la vita, è rimasta legatissima a Richard Abel. Alla cerimonia oggi erano presenti i rappresentati della chiesa cattolica, dell’istituto siciliano di studi ebraici e della comunità religiosa islamica e gli studenti del liceo artistico Catalano, Convitto nazionale Giovanni Falcone, e degli istituti comprensivi De Amicis - Leonardo Da Vinci, Rita Borsellino e Padre Puglisi.
   «Abel mise gli ebrei italiani in condizione di fuggire – racconta Pino Apprendi – da una morte sicura e dopo una ricerca del prof Hofmann, abbiamo pensato nella dodicesima giornata europea dei Giusti dell'Umanità 2024, di aggiungere questa maiolica in questo giardino alla presenza dei bambini perché i più piccoli devono comprendere che ciò che è accaduto purtroppo può tornare come in questo periodo storico».
   Il professore Hofmann sottolinea che si tratta «dell’unico caso di un tedesco che ha salvato un ebreo palermitano». Emozionato e commosso Gabriele Beretvas, figlio di Luigi, davanti alla targa che riporta il nome di suo padre. «E’ un giorno speciale per me – dice – sono venuto di proposito da Parigi per ricordare Richard e mio padre. Il sergente tedesco ha sempre fatto parte della mia famiglia dal dopoguerra in poi».
   La maestra Anna Costanza dell’istituto Rita Borsellino spiega l’importanza della partecipazione dei piccoli studenti a eventi commemorativi come questo. «Oggi non facciamo la solita lezione tra i banchi di scuola - dice la maestra – e quello che i bambini oggi ascolteranno, sono sicura, rimarrà nei loro cuori». A rappresentare il Comune c’è l’assessore alla Cultura e neo vicesindaco, Giampiero Cannella. «Ricordiamo un giusto che merita grande attenzione – dice Cannella – perché decide di non consegnare alle SS i giovani ebrei ma di farli fuggire. Un giusto che testimonia come alla fine l’umanità possa prelevare anche sulle ideologie e sulle appartenenze».

(Giornale di Sicilia, 6 marzo 2024)

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A Milano protesta contro il convegno alla Statale in cui la voce di Israele è censurata

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Martedì mattina, 5 marzo, alle 8.30 in via Conservatorio fuori dalla Facoltà di Scienze politiche si è tenuta una protesta contro il convegno “Una terra senza pace: la questione israelo-palestinese”. La contestazione, organizzata dalle associazioni ADI (Amici di Israele), AMPI (Associazione Milanese Pro Israele) e dal Museo della Brigata Ebraica , era volta a denunciare il “populismo propal” offerto agli studenti lungo l’intera giornata dell’incontro che, per esempio, come Keynote Speech presentava esclusivamente personalità faziose e notoriamente anti-israeliane come Francesca Albanese e Moni Ovadia. Questi ultimi, non a caso, spesso ospiti di incontri della sinistra più estremista.
   “Da una università ci saremmo aspettati che agli studenti fossero offerti i diversi punti di vista del conflitto, mettendo a confronto le ragioni di entrambe le parti, non un festival della faziosità – dichiara Davide Romano, presidente del Museo della Brigata Ebraica -. Lo stesso tipo di conferenze ci sono state in USA, con i risultati che abbiamo visto: aggressioni agli studenti ebrei, mancanza di denuncia dell’antisemitismo poiché “dipende dal contesto”, ecc. La manifestazione è stata autorizzata dalla Questura e si è tenuta in maniera pacifica e ordinata. Per motivi di sicurezza non abbiamo potuto annunciarla prima ai media, poiché il rischio di aggressione da parte dei “pacifisti” sarebbe stato alto. Questa è la situazione in Italia nel 2024. La voce di Israele cancellata , i sostenitori di Israele e della sua democrazia costantemente sotto la minaccia della violenza dei propal“.

(Bet Magazine Mosaico, 5 marzo 2024)

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Perché è Israele che combatte

di Niram Ferretti

Nell’Occidente che ha ormai ripudiato come un relitto del passato il mestiere delle armi, ogni guerra appare come un affronto stesso alle magnifiche sorti e progressive, ma, più di tutte le guerre che non hanno mai smesso di insanguinare il mondo, con attenzione alterna o oblio totale da parte dei media, sono le guerre che combatte Israele, le più esecrate. Ovvero sono le guerre degli ebrei, quelle che gli ebrei combattono dopo essere stati aggrediti, stuprati, uccisi, massacrati.
   Nel suo seminale, Making David into Goliath, How the world turned  against Israel, Joshua Muravick scrive: “Le sette settimane di guerra tra Israele e Hamas nell’estate del 2014 generarono il maggiore rigurgito di antisemitismo dalla caduta del nazismo…ironicamente, poco di esso si manifestò nel mondo arabo…Ma in Europa e qui è là in America Latina, in Africa e anche negli Stati Uniti e in Canada, episodi di attacchi e di violenza nei confronti degli ebrei si susseguirono uno dopo l’altro”.
   Nove anni dopo, e con una guerra, sempre contro Hamas, entrata nel suo quinto mese, (la più lunga intrapresa da Israele dopo quella del ’48-’49), il rigurgito di antisemitismo è aumentato esponenzialmente insieme a una criminalizzazione dello Stato ebraico che ha raggiunto il culmine di condurlo davanti a un tribunale con l’accusa di genocidio. Libello del sangue aggiornato.  Al posto delle azzime impanate con il sangue dei bambini cristiani, c’è Israele assetato di quello dei civili arabi.
   La guerra di Israele a Gaza è stata trasformata dalla propaganda nella più mostruosa guerra mai combattuta negli ultimi decenni, e la propaganda ha avuto gioco facile nel contesto di un clima culturale in virtù del quale non importa se si è aggressori o aggrediti in un conflitto armato su larga scala, poiché esso è da condannare a priori in quanto tale: non possono esistere guerre giuste, le guerre sono tutte intrinsecamente da aborrire. Non è solo pacifismo, sarebbe troppo riduttivo, troppo semplice, ma la convinzione radicata che la Storia, che l’Occidente ritiene di incarnare, sia avviata verso un avvenire in cui le uccisioni di massa per ragioni religiose, politiche, ideologiche sono destinate a scomparire. Che le guerre fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti non abbiano mai smesso di essere combattute è irrilevante, resta ferma l’idea che prima o dopo, sotto l’esempio occidentale, cesseranno anche lì.
   La guerra scatenata dalla Russia in Ucraina due anni fa, ha infranto il mito. Forse si è coltivata una illusione eccessiva dopo ormai quasi ottanta anni di relativa pace occidentale. Putin ha rimesso tutti in riga, ha costretto a prendere coscienza che il disarmo, lo spopolamento degli eserciti, non è la politica europea migliore, soprattutto se un domani prossimo si dovesse chiudere l’ombrello protettivo americano.
   La guerra in Ucraina è passata mediaticamente in secondo piano al momento, l’attenzione si è concentrata quasi esclusivamente su quanto accade a Gaza, sul numero dei civili morti, sugli sfollati, sulla catastrofe umanitaria, tutte conseguenze inesorabili, inevitabili, di ogni guerra, nessuna esclusa, anche se questa sembra essere la prima combattuta. La prima in cui, queste conseguenze sono capitate.
   Si sono dimenticati facilmente i più di trecentomila civili morti nella guerra in Siria, per la cui morte nessuno ha mai usato il termine genocidio o i quarantamila civili morti, secondo i Servizi curdi, a Mosul nel 2017, per i quali, anche in quel caso, nessuno usò il termine.
   La guerra che Israele combatte a Gaza, dopo il più grave attentato perpetrato sul proprio territorio dalla sua nascita, è la madre di tutte le guerre, è l’Apocalisse, è l’orrore che nessuno ha mai visto prima e nessuno vedrà più in futuro. È rappresaglia, è vendetta, è la logica di Lamech, è la notte della civiltà, è l’iperbole assoluta. È l’Occidente che dice, cessate il fuoco, non importa se Hamas non verrà sconfitto, importa solo che si smetta di combattere, che si ponga fine a ciò che le guerre hanno sempre causato, vittime civili. Qui, soprattutto qui, deve smettere, perché? Perché è Israele che combatte.

(L'informale, 6 marzo 2024)
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Anche il pensiero di questo autore si muove nella sfera del "sogno occidentale", la cui pecca starebbe nel fatto che la civiltà occidentale (indiscutibilmente superiore - pensano - perché promuove democrazia e libertà) si sia cullata nella convinzione che si sarebbe estesa in modo naturale a tutto il mondo, e che i sacri valori dell'Occidente non avrebbero più avuto bisogno di essere difesi con le armi. Ed ecco quindi il funesto allineamento delle guerre di Ucraina e Gaza: non si difende abbastanza la civiltà contro il barbaro Putin e ci si ritrova a combattere contro il barbaro Sinwar. E nel secondo caso si contano i morti. Perché si tratta di Israele. Anche in questo si caso si dice, in altro modo, che Israele va difeso come baluardo di civiltà (occidentale). E si continua a sperare nell'«ombrello protettivo americano», e ci si lamenta perché l'America insiste a non volerlo aprire tutto anche su Israele. Perché "Israele siamo noi", dicono i pro-Israele che continuano a cullarsi nel sogno occidentale. Ma non è vero. M.C.

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Hamas: «Perso il conto degli ostaggi»

I terroristi: «Sfruttare il Ramadan per lo scontro». Sparito nel nulla il leader Sinwar

di Stefano Piazza

Più passano i giorni e più l' atroce bluff di Hamas sugli ostaggi si mostra in tutta la sua drammaticità. In un'intervista alla Bbc, Basim Naim, uno dei tanti funzionari, ha affermato che l'organizzazione non può fornire a Israele una lista degli ostaggi in vita perché non sa quanti siano e dove si trovino. Nell'intervista, rilanciata dai media israeliani, Naim dice che «tecnicamente è impossibile sapere chi è ancora vivo, chi è morto per i raid israeliani o per fame a causa del blocco israeliano». Naim ha continuato: «Gli ostaggi si trovano in zone diverse, nelle mani di gruppi diversi: abbiamo chiesto una tregua anche per raccogliere informazioni».
   In realtà Israele non richiede l'elenco nominale degli ostaggi ancora in vita, ma solo il loro numero, insieme al numero dei detenuti palestinesi richiesti in cambio. Questo è stato precisato da fonti israeliane. Ma quanti sono gli ostaggi in vita? Secondo Yedioth Ahronoth, Israele stima che ci siano circa 40 ostaggi vivi che potrebbero essere liberati con un accordo, ma il numero preciso non è noto. Noi della Verità non siamo sorpresi perché che gli ostaggi non sono più 134, lo abbiamo scritto nelle scorse settimane dopo essere stati in Israele e aver partecipato a vari briefing di sicurezza. Così come non siamo sorpresi di quanto afferma il dirigente di Hamas («Impossibile sapere esattamente chi è ancora vivo, chi è morto per i raid israeliani o per farne»), perché è esattamente quello che diranno per giustificarne la morte. Vista la posizione di Hamas, lo Stato ebraico ha deciso di non inviare una delegazione al Cairo per partecipare ai colloqui con Hamas, mediati dagli Stati Uniti, il Qatar e l'Egitto, dato che è ormai chiaro che si tratta di un gigantesco inganno.
   Mentre l'organizzazione terroristica ai tavoli della diplomazia finge di voler trovare un accordo per il cessate il fuoco, i suoi dirigenti chiamano alla rivolta e alla violenza durante il Ramadan, il mese sacro dei musulmani che inizierà il prossimo 10 marzo. Osama Hamdan, portavoce di Hamas in Libano, ha dichiarato durante una conferenza stampa a Beirut che i palestinesi «dovrebbero trasformare ogni momento del Ramadan in un'opportunità di scontro», Nulla di nuovo, perché Hamas ha costantemente promosso una rivolta più ampia, sia in Cisgiordania, dove la violenza è in aumento a partire dall'inizio del conflitto, sia tra la minoranza palestinese in Israele. Hamdan non ha fornito dettagli sui negoziati per un cessate il fuoco, tuttavia ha avvertito Israele e Usa dicendo: «Ciò che non hanno ottenuto sul campo di battaglia, non lo otterranno tramite manovre politiche»,
   Crescono anche i timori che la guerra si allarghi al Libano e un eventuale conflitto lungo il confine meridionale del Paese «sarebbe incontenibile», secondo quanto affermato dall'inviato speciale americano, Amos Hochstein, durante la sua visita a Beirut, mentre proseguono gli sforzi diplomatici per fermare gli scontri tra Hezbollah e Israele. «Un semplice cessate il fuoco temporaneo non è sufficiente. Una guerra circoscritta non può essere contenuta», ha affermato Hochstein, che ancora non sapeva che Israele in un raid ha ucciso nel Sud del Libano il nipote del leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah. Sempre a proposito di Hamas, secondo il Wall Street Journal , il leader militare del gruppo, Yaya Sinwar, da circa una settimana sarebbe «offline» e non avrebbe più parlato con i vertici dell' organizzazione.
   Infine, mentre su Israele cadono i missili degli Hezbollah (un morto e otto feriti) è arrivata la smentita delle dimissioni del portavoce Hagari, e a Gaza sono entrati 277 camion di aiuti umanitari protetti dagli israeliani. Si tratta del numero più alto raggiunto in un singolo giorno dall'inizio della guerra.
   Non si placa intanto il braccio di ferro tra Israele e Onu. In serata Gerusalemme ha richiamato il suo ambasciatore per il «silenzio» sulle violenze sessuali di Hamas e ha accusato: «Oltre 450 terroristi impiegati a Gaza dall'Unrwa».

(La Verità, 5 marzo 2024)

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Portavoce dell’IDF rivela le registrazioni shock dei dipendenti dell’UNRWA

di Luca Spizzichino

Il portavoce dell’IDF Daniel Hagari durante la sua consueta conferenza stampa ha reso pubbliche le intercettazioni di alcuni insegnanti dell’UNRWA che hanno preso parte al massacro di Hamas del 7 ottobre.
“La strage commessa da Hamas il 7 ottobre è il massacro più documentato della storia. I terroristi di Hamas hanno filmato la loro stessa crudeltà. Col passare del tempo, vengono rivelate sempre più testimonianze, ogni giorno più informazioni”, ha detto Hagari, che si è presentato davanti alle telecamere, smentendo di fatto le voci secondo le quali si fosse dimesso. Ieri in mattinata, infatti, si era diffusa la notizia delle dimissioni di Hagari e altri ufficiali di alto rango dell’IDF per protestare contro decisioni operative nella guerra di Gaza.
   “Abbiamo il dovere di svelare la verità su coloro che hanno preso parte al massacro del 7 ottobre” ha affermato il portavoce, rivelando i nomi di alcuni dipendenti dell’UNRWA membri di organizzazioni terroristiche a Gaza. Il primo nome rivelato è stato quello di Yusef Zidan Salimam Al-Khuairl, un impiegato dell’agenzia ONU che lavorava come insegnante in una scuola elementare delle Nazioni Unite a Gaza. Nell’intercettazione si sente il terrorista parlare al telefono circa 7 ore dopo che Hamas ha iniziato a invadere Israele. Durante la chiamata, Al-Khuairl si vanta di aver messo le mani su una “SABAYA”, termine arabo che significa “prigioniera” che è “proprietà” del rapitore. Il termine, ha ricordato il portavoce, “veniva usato dall’Isis per descrivere le donne yazidi catturate e alle quali sono state fatte cose orribili”.
   Nel corso della conferenza stampa, Hagari ha reso pubblici i nomi di altri terroristi impiegati dall’UNRWA: Bakr Mahmoud Abdallah Darwish, terrorista di Hamas e consulente scolastico in una scuola dell’UNRWA, Ghassan Nabil Mohammad Sh’hadda El Jabari, terrorista di Hamas che lavora nel Ministero della Salute gestito da Hamas, e Mamdouh Hussein Ahmad al-Qak, un terrorista palestinese della Jihad islamica e insegnante in una scuola elementare dell’UNRWA.
   “Sono oltre 450 i dipendenti dell’UNRWA che fanno parte di gruppi terroristici a Gaza. – ha sottolineato – Questa non è una semplice coincidenza, è un fatto sistematico”.
   “L’uso della violenza sessuale come arma è un problema globale” ha aggiunto Hagari, che ha richiesto una “risposta globale all’utilizzo dello stupro e della violenza sessuale come arma da parte di Hamas”.

(Shalom, 5 marzo 2024)

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Meglio tardi che mai: report delle Nazioni Unite conferma gli stupri di Hamas

di Anna Balestrieri

Dopo cinque mesi dal sanguinario attacco di Hamas del 7 ottobre, la commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha emesso un rapporto dettagliato.

• Il contenuto del rapporto
  Il rapporto delle Nazioni Unite afferma che questi sono avvenuti in almeno tre luoghi: il sito del festival musicale Nova e i suoi dintorni, Road 232 e Kibbutz Re’im, riporta la BBC, che aggiunge di aver visto e ascoltato prove di stupri, violenze sessuali e mutilazioni di donne in prima persona.
   “Un team di esperti delle Nazioni Unite ha affermato che ci sono “fondati motivi per ritenere” che vi siano state violenze sessuali, compresi lo stupro e lo stupro di gruppo, durante l’attacco guidato da Hamas contro Israele il 7 ottobre. Guidata dall’inviata speciale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale Pramila Patten, la squadra si è recata in Israele tra il 29 gennaio e il 14 febbraio e lunedì ha pubblicato un rapporto con i risultati.”
   “Sono state raccolte informazioni chiare e convincenti sugli stupri e sulle torture sessuali commessi contro gli ostaggi sequestrati durante gli attacchi terroristici del 7 ottobre”, si legge nel rapporto di 24 pagine delle Nazioni Unite.

• La preoccupazione per gli ostaggi
  Pramila Patten ha aggiunto in un comunicato stampa diffuso insieme al rapporto che ci sono ragionevoli motivi per ritenere che tale violenza, che include altri “trattamenti crudeli, inumani e degradanti”, possa continuare contro coloro – donne, bambini e uomini – che sono ancora detenuti da Hamas a Gaza.
   L’inviata ha sottolineato, secondo il Guardian, che “la mancanza di fiducia da parte dei sopravvissuti agli attacchi del 7 ottobre e delle famiglie degli ostaggi nelle istituzioni nazionali e nelle organizzazioni internazionali, come le Nazioni Unite, così come lo sguardo indagatore dei media nazionali e internazionali su coloro che hanno reso pubblici i propri racconti, hanno ostacolato il contatto con i sopravvissuti degli attacchi, compresi i potenziali sopravvissuti/vittime di violenza sessuale”.
   Il team delle Nazioni Unite è del parere che la reale portata della violenza sessuale commessa durante gli attacchi del 7 ottobre e le loro conseguenze potrebbero “impiegare mesi o anni per emergere e potrebbero non essere mai del tutto note”.

• Il lavoro del team delle Nazioni Unite
  La missione composta dalla signora Patten e da nove esperti ha condotto 33 incontri con rappresentanti israeliani dal 29 gennaio al 14 febbraio, esaminando più di 5.000 immagini fotografiche e 50 ore di riprese video. Ha condotto 34 interviste riservate, comprese quelle con sopravvissuti e testimoni degli attacchi del 7 ottobre, con ostaggi rilasciati, primi soccorritori ed altri.

• La reazione israeliana
  In risposta al rapporto, il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha richiamato l’ambasciatore del paese presso l’ONU, Gilad Erdan, per consultazioni immediate. Il governo israeliano ha espresso frustrazione per la gestione delle Nazioni Unite, poiché Hamas non ha subito alcuna ripercussione da parte della comunità internazionale e a tutt’oggi non è né dichiarata un’organizzazione terroristica né sono state imposte sanzioni ai suoi sostenitori.

• La reazione palestinese
  Il team di esperti è stato chiamato anche a verificare accuse di violenza sessuale da parte di cittadini israeliani nei confronti di palestinesi in Cisgiordania. Le accuse di abusi sessuali condotte da parte di israeliani nei territori dell’Autorità Palestinese sono riconducibili all’esposizione di parti intime durante le perquisizioni di sospetti o alle minacce verbali di stupro a familiari nel corso di interrogatori. L’inchiesta non ha trovato prove di stupro a danno di cittadini palestinesi.

(Bet Magazine Mosaico, 5 marzo 2024)


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Dopo cinque mesi l’ONU si ricorda delle donne violentate

Il rapporto dell’ONU sulla violenza sessuale mostra le prove di aggressioni da parte dei terroristi durante il massacro del 7 ottobre, rese note 5 mesi dopo; Eden Wesley, che ha fornito una testimonianza cruciale, si chiede: “E se la mia testimonianza non fosse esistita?”

Il rapporto dell’inviato del Segretario Generale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti, pubblicato lunedì, include la testimonianza di Eden Wesley, che ha fornito al New York Times una prova cruciale per la sua indagine sui crimini sessuali di Hamas: la fotografia intitolata “la donna con il vestito nero”.
   In seguito alla presentazione del rapporto, che presenta prove perlopiù circostanziali del fatto che i terroristi di Hamas hanno fatto ricorso alla violenza sessuale e allo stupro durante l’attacco del 7 ottobre, la Wesley ha espresso il suo sdegno nei confronti delle Nazioni Unite per aver precedentemente ignorato e negato queste azioni.
   “Ho visto con i miei occhi ciò che i terroristi hanno fatto alle donne. È vergognoso e scioccante. Oltre agli omicidi e ad altri orrori, ho visto corpi smembrati. Le donne sono state violentate e ora, dopo cinque mesi, ve ne ricordate? È esasperante che il rapporto venga pubblicato solo ora”, ha dichiarato.
   “Da quando ho visto la donna con il vestito nero, non sono più riuscita a dormire. E se la mia testimonianza non fosse esistita? Non ci sono altre testimonianze come la mia. Se questa è l’unica prova visiva, allora cosa? Stanno mentendo tutti? La cosa che le donne temono di più è lo stupro. Alcune preferirebbero morire piuttosto che essere violentate. Sentivo di parlare a nome di quella ragazza”, ha aggiunto. Al di là del rapporto, Wesley spera che i terroristi di Hamas siano chiamati a rispondere delle loro azioni. “Spero che i terroristi non vengano lasciati liberi. Che non vengano messi a tacere e che si faccia qualcosa per i loro crimini”, ha detto.
   “Non credo che qualcuno agirà contro Hamas, ma mi aspetto che vengano giudicati per le loro azioni. Che sia fatta giustizia. Spero davvero che qualcuno alle Nazioni Unite si svegli e si renda conto dell’inferno che hanno passato le donne. L’ho visto con i miei occhi”. Ha descritto come i terroristi abbiano “violato i loro corpi prima di ucciderle”. Sono sicura che ci sono molte altre donne che hanno subito cose orribili lì e non sono pronte a parlarne. Per me è importante dire loro che se ti tieni tutto dentro, la cicatrice non svanirà. Peggiorerà solo con il tempo”.
   Dopo l’attacco a sorpresa del 7 ottobre, Wesley è andata a cercare la sua migliore amica al Nova Music Festival. È tornata senza di lei dopo che la sua amica è stata rapita a Gaza, ma le sue fotografie sono servite come prova visiva delle atrocità. Ha raccontato gli orrori di quella missione di ricerca, compresa l’immagine della “donna con il vestito nero”, che è diventata un simbolo degli stupri subiti dalle donne per mano dei terroristi di Hamas.
   “Ho deciso di andare a cercarla”, ha ricordato Wessely. “Tutti mi dicevano di non andare perché c’erano terroristi ancora in libertà nella zona. Ma io andai, con altri tre amici, nel luogo che ci aveva indicato sulla Route 232.
   “C’erano scene orribili: centinaia di cadaveri, corpi di persone che stavano per metà dentro e per metà fuori dalle auto, parti di corpi sparsi lungo la strada. Nessuno era ancora venuto a prenderli. Abbiamo cercato il mio amico, ma con mio grande dispiacere c’erano solo cadaveri lungo l’autostrada. Pensavamo di poter trovare una pista per capire cosa le fosse successo, così abbiamo continuato a cercare.
   “All’improvviso, ho visto i corpi di un uomo e di una donna. Ho chiesto ai miei amici di fermarsi. Sembrava che fosse stata violentata, uccisa e data alle fiamme. Le hanno sparato e hanno bruciato anche il suo corpo. Aveva una mano che le copriva il viso, una ferita da arma da fuoco sulla guancia e non aveva le mutande. Le hanno sollevato il vestito, l’hanno violentata e poi le hanno dato fuoco. Non è uno spettacolo che gli occhi umani possono sopportare. Le persone con cui mi trovavo erano molto angosciate e volevano tornare a casa”.

• Il rapporto conferma le prove di aggressioni sessuali
  Il rapporto dell’ONU sulle violenze sessuali di Hamas del 7 ottobre presenta principalmente prove circostanziali che dimostrano che i terroristi di Hamas hanno commesso crimini sessuali durante l’attacco ad Israele, tra cui casi di stupro, stupro di gruppo, aggressione sessuale, mutilazioni genitali, nudità e legatura dei corpi.
   Pramila Patten, rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale nei conflitti, che ha visitato Israele con il suo team il mese scorso per raccogliere prove sulle atrocità, pubblicherà il rapporto completo lunedì. Il rapporto pubblicato dalla Patten e dal suo team conferma le prove di violenza sessuale avvenute durante l’attacco del gruppo terroristico del 7 ottobre. Inoltre, il rapporto conferma che le donne ostaggio di Hamas a Gaza hanno subito violenze sessuali e si teme che questi crimini siano ancora in corso.
   Tuttavia, il rapporto rileva che, a causa dei vincoli di tempo e della capacità professionale del team, non è attualmente in grado di attribuire tutti gli incidenti dell’attacco ad Hamas, data la possibilità che alcuni siano stati compiuti da terroristi della Jihad islamica o da civili gazani infiltratisi in Israele dopo l’attacco iniziale. I risultati del rapporto indicano che durante l’attacco stesso sono state commesse violenze sessuali, comprese prove circostanziali di stupri, aggressioni sessuali, spari contro donne nude e legate al Nova Music Festival e lo stupro di due donne sulla Route 232, oltre a mutilazioni genitali su corpi nella zona.
   Il rapporto afferma che “sulla base della totalità delle informazioni raccolte da fonti multiple e indipendenti nelle diverse località, ci sono ragionevoli motivi per credere che durante gli attacchi del 7 ottobre 2023 si siano verificate violenze sessuali legate al conflitto in diverse località della periferia di Gaza, anche sotto forma di stupri e stupri di gruppo. Sono state raccolte anche informazioni circostanziali credibili, che potrebbero essere indicative di alcune forme di violenza sessuale, tra cui mutilazioni genitali, torture sessuali o trattamenti crudeli, inumani e degradanti.
   “Per quanto riguarda gli ostaggi, il team della missione ha trovato informazioni chiare e convincenti che alcuni ostaggi portati a Gaza sono stati sottoposti a varie forme di violenza sessuale legate al conflitto e ha ragionevoli motivi per credere che tali violenze possano essere in corso”.

(Israele 360, 5 marzo 2024)

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Ecco perché Hamas usa l’umanitarismo come un’arma

Parla Matti Friedman. Il saggista e giornalista israelo-canadese: "Hanno compreso la psiche occidentale. Non gli interessa Gaza”.

di Giulio Meotti

ROMA - “Gli osservatori occidentali non capiscono che Hamas non ha alcun interesse a proteggere il proprio popolo, come farebbe l’Italia. Con Hamas, un gruppo religioso radicale islamico, abbiamo persone pronte a sacrificare più persone possibili, per cui un disastro umanitario è cosa buona e giusta per loro”.
   Così al Foglio Matti Friedman, intellettuale e giornalista canadese che vive a Gerusalemme, scrive su testate dal New York Times all’Atlantic, autore di libri di successo (dal “Codice di Aleppo” all’ultimo per Giuntina, “Spie di nessun paese. Le vite segrete alle origini di Israele”) e che nel 2014 rivelò la sua esperienza come giornalista dell’Associated Press che fece scalpore perché raccontava la trasformazione e la manipolazione della narrazione su Israele.
   Giovedì scorso, con i morti nella calca per il cibo, Hamas ha cercato di innescare una bomba nell’opinione pubblica nella speranza di fermare le operazioni anti terrorismo di Israele nella Striscia di Gaza. “Ogni disastro umanitario pone pressioni solo su Israele per fermare la guerra e consentire a Hamas di uscire vittorioso” ci dice Friedman. “Per questo hanno costruito centinaia di tunnel sotto Gaza. Il loro bollettino delle vittime a Gaza non farà altro che far arrabbiare ancora di più la comunità internazionale e questa rabbia non sarà rivolta a Hamas, che ha iniziato la guerra il 7 ottobre, ma contro Israele. La narrazione umanitaria è un’arma di Hamas”.
   Secondo Friedman, Hamas legge la mentalità occidentale e tenta di portarla a sé. “Sono molto intelligenti nel capire come funziona la psiche occidentale. Quando lavoravo all’Associated Press, i miei colleghi pensavano che quelli di Hamas fossero dei primitivi. Ma sono molto abili nel manipolare giornalisti che non parlano arabo o ebraico. Hamas sa cosa sta facendo, perfettamente. A ogni ciclo di violenza, Hamas ha visto che la comunità internazionale ha diretto la sua rabbia non contro Hamas, che inizia le guerre, ma contro Israele che si difende. Hamas vede che ogni guerra logora un po’ di più la posizione israeliana nel mondo e che il mondo costringerà Israele a fermarsi e che Hamas sarà ancora là. Così è stato nel 2009, nel 2014, nel 2021 e temo anche stavolta. Hamas sa come funziona la stampa internazionale: dopo due settimane dal 7 ottobre, la storia era ancora una volta la violazione di Israele del diritto internazionale. Lo vediamo con la conta dei morti: la stampa internazionale riferisce ‘secondo fonti di Gaza’, come se a Gaza non ci fosse Hamas. Hamas sa come lavorano Amnesty, Human Rights Watch e le agenzie dell’Onu, che possono essere arruolate nella loro guerra”. Resta il mistero di come molte correnti della cultura occidentale si siano schierate dopo il 7 ottobre dietro gli stendardi di “Palestina libera dal fiume al mare”. “Non è uno strano fenomeno che islamisti fanatici che non hanno niente in comune con liberal occidentali, in termini di donne, gay, laicità, si siano alleati?”, chiede Friedman. Lo stesso vale per l’ondata di odio antiebraico in tutte le nostre capitali. “Volevano scatenare questa ondata di antisemitismo nel mondo. Sapevano che l’antisemitismo si sarebbe scatenato dopo il 7 ottobre. Hamas aveva una comprensione molto chiara dell’odio antiebraico che c’è non solo nel mondo islamico, ma anche in Europa e in occidente”. La loro è una lunga guerra, conclude Friedman. “Non cercano vittorie concrete, alla occidentale. Pensano che la guerra contro Israele alla fine annichilirà la presenza degli ‘infedeli’ in questa parte di mondo. E gli osservatori laici in occidente non hanno mai davvero capito questa visione. La naïveté occidentale è una delle loro armi”.

Il Foglio, 5 marzo 2024)

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Cresce l’odio verso Israele negli USA

Cresce l'odio verso Israele negli Stati Uniti soprattutto nella sinistra estrema, tanto che alcuni facinorosi hanno attaccato persino Alexandria Ocasio-Cortez, cioè la nemica numero uno di Israele nel Partito Democratico, accusandola di fare poco.

di Sarah G. Frankl

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Alexandria Ocasio-Cortez
Manifestanti di estrema sinistra e filo-palestinesi hanno avvicinato la deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez mentre usciva da un cinema di Brooklyn, chiedendole di bollare come “genocidio” la guerra di Israele contro Hamas a Gaza.
Il filmato mostra Ocasio-Cortez che dice con rabbia alla manciata di disturbatori che in effetti l’ha fatto, anche se non è chiaro quando. In un’intervista di fine gennaio, si è spinta fino a dire che un numero crescente di americani ritiene che il termine descriva accuratamente la situazione a Gaza e che non dovrebbe essere ignorato.
L’incidente di lunedì è sembrato evidenziare la natura radicale di molti manifestanti anti-Israele negli Stati Uniti, che si stanno rivoltando contro alcuni dei membri più progressisti del Congresso, compresi quelli che, come Ocasio-Cortez, hanno criticato molto apertamente Israele e sostenuto la causa palestinese.
“Ti rifiuti di chiamarlo genocidio”, si sente uno dei manifestanti gridare a Ocasio-Cortez mentre lascia il teatro. “Non va bene che ci sia un genocidio e che tu non ti opponga attivamente”.
“Stai mentendo!” Ocasio-Cortez risponde con un urlo, aggiungendo poi di non volersi confrontare con chi la sta riprendendo perché è convinta che pubblicheranno solo in parte la sua risposta e toglieranno dal contesto le sue osservazioni.
“Ho già detto che lo era. E voi farete finta che non sia così. Ancora e ancora. È una cosa fottuta, amico. E non state aiutando queste persone”, ha detto Ocasio-Cortez mentre si allontanava.

(Rights Reporter, 5 marzo 2024)

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La sveglia ha suonato

La sveglia ha suonato il 7 ottobre. Tutti i settori della popolazione si sono svegliati. La sinistra si è spostata più a destra, la destra è diventata ancora più estrema e i fan di Bibi si sono allontanati da Bibi. Gli ebrei ortodossi, che prima si rifiutavano di prestare servizio nell'esercito per motivi religiosi, ora stanno prendendo in considerazione il servizio militare. È proprio durante la guerra che i soldati e i riservisti di tutte le classi e regioni del Paese hanno imparato a conoscersi di nuovo e hanno capito che siamo tutti un unico popolo. Le persone si stanno svegliando dalle loro idee e dai loro sogni. Non è facile. Ma succede quando un popolo è in difficoltà, come ora. Israele è ancora in uno stato di shock, molti direbbero che la gente è in uno stato di post-trauma. Solo tra gli arabi in Israele non si vede alcun risveglio. 

di Aviel Schneider

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Israeliani protestano a Tel Aviv contro Benjamin Netanyahu e l'attuale governo, 13 gennaio 2024
GERUSALEMME - Molti di voi probabilmente conoscono il famoso paroliere, compositore e musicista israeliano Idan Raichel . È noto per il suo "Progetto", che combina musica elettronica con testi tradizionali ebraici e musica orientale e africana. Qualche giorno fa ha dichiarato davanti a una telecamera: "Come è possibile non spostarsi a destra?". Quello che è successo nel Paese sta facendo svegliare la gente, compreso Idan Raichel, che in passato era molto popolare all'estero per la sua world music e per la sua posizione di sinistra: "Sulla questione della guerra, non c'è altra scelta che spostarsi sempre più a destra. L'intera guerra è un grande crimine di guerra dall'inizio alla fine. Anche se sei di sinistra, come puoi comportarti in una guerra come questa dopo tutto quello che è successo?" Idan è sposato con Damaris Deubel,  e vive con le sue figlie a Tel Aviv.
Idan ha deciso di concludere ogni concerto con l'inno israeliano Hatikva. Accetta il fatto di non essere più invitato sui maggiori palcoscenici del mondo come un tempo, a causa del suo spostamento a destra.
In un altro post su Instagram, Raichel ha scritto che ora condanna la maggior parte dei palestinesi della Striscia di Gaza come terroristi perché non si sono opposti all'organizzazione terroristica Hamas. "Avrebbero potuto essere coraggiosi - ed entrare in tutti i tunnel stanotte e opporsi ad Hamas", ha scritto Raichel, aggiungendo: "Avrebbero potuto combatterli, anche a costo di migliaia di persone - e riportare tutti gli ostaggi, cacciare l'organizzazione terroristica di Hamas e iniziare a ricostruire le loro vite. E’ invece niente!”
Tutto è cambiato anche per la nota cantante e attrice israeliana Miri Mesika . Dopo il barbaro attacco del 7 ottobre, ha perso ogni memoria delle fantasie di sinistra. «Sono liberale, favorevole alla democrazia e alla parità di diritti. Ma ora non solo sono diventata più di destra, non vedo più nessuno, solo noi. Non mi riconosco più. Prima volevo sempre vedere l'altra persona e capire cosa la ferisce, cosa la fa soffrire", ha detto Mesika in un'intervista. Ha ricordato le parole della sua defunta nonna, che era una combattente del Lechi (Combattenti per la Libertà di Israele, un'organizzazione sionista paramilitare clandestina durante il Mandato britannico). “Mirina, tu non capisci la profondità della storia tra i popoli. Non conosci la loro mentalità, non hai mai vissuto con gli arabi". Mi sono rifiutata di crederle. Sono avvilita dal fatto che l'odio sia tanto profondo che un bambino di due anni odia gli ebrei».
Mesika e Raichel sono solo un piccolo esempio di personalità di sinistra che non vogliono più saperne delle loro fantasie di sinistra sui palestinesi.
D'altra parte, si sono svegliate anche le persone che non vedono più Bibi come Re Davide o come l'auspicato salvatore. Alon Davidi
Alon Davidi
è stato sindaco della città meridionale di Sderot, a soli due chilometri dalla Striscia di Gaza, per undici anni. In questi anni, nessun'altra città come Sderot ha sofferto per il lancio di razzi come la sua. Sderot vive nel terrore da 23 anni e il candidato di Alon Davidi - il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu - ne è responsabile. "Non appena la guerra sarà finita, Netanyahu dovrà alzarsi e andarsene. Tutti sono stati arroganti e hanno diffuso bugie sul fatto che Hamas fosse stato sconfitto. Per anni ho implorato il governo e l'apparato di sicurezza di lanciare un'offensiva di terra nella Striscia di Gaza e distruggere Hamas. Ma non è successo nulla", ha dichiarato Alon Davidi in un'intervista a Walla.

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Il sindaco di Sderot, Alon Davidi, sul luogo dell'impatto di un razzo
sparato dalla Striscia di Gaza, a Sderot, il 24 ottobre 2023


Alon Davidi è un elettore del Likud di lunga data e amico di Bibi. La stragrande maggioranza degli abitanti della città di Sderot sono elettori del Likud. Ma ora per Alon, come per molti altri a Sderot, la situazione è cambiata. "Non so se Bibi sia pronto ad assumersi la responsabilità di ciò che ha fatto nei 23 anni in cui abbiamo sofferto per il terrorismo. Dobbiamo dire onestamente che è stato al timone per la maggior parte del tempo", ha accusato Davidi. "Bibi è l'uomo  che ha reso Hamas il potente mostro che è diventato". Davidi è solo un esempio dei tanti che pubblicamente non si fidano più di Benjamin Netanyahu. Tra l'altro, questo si sente dire da molti elettori del Likud nel Paese. La maggior parte di loro parla di un nuovo inizio nella politica israeliana. Tutti devono essere sostituiti.
Persino il ministro della Sanità ortodosso Moshe Arbel, del partito sefardita Shas, ha recentemente invitato la popolazione ortodossa a prestare servizio nell'esercito. Nelle due settimane successive all'attacco di Hamas al sud di Israele, più di 2.000 giovani ebrei ortodossi appartenenti a questa comunità religiosa si sono offerti volontari per il servizio. In passato, solo pochi ebrei ultraortodossi hanno prestato servizio nell'esercito israeliano, il che ha provocato risentimento e contribuito alle recenti proteste contro il governo.
Gli ebrei ultraortodossi rappresentano circa il 15% della popolazione israeliana e sono la comunità in più rapida crescita del Paese. Tradizionalmente rifiutano di prestare servizio nell'esercito, ma credono di fare il loro dovere impegnando i giovani tra i 13 e i 22 anni nello studio a tempo pieno della Torah, che getta una rete protettiva su Israele e sulla società ebraica. Ma negli ultimi mesi sempre più studenti ortodossi della Torah vogliono prendere le armi e combattere, e non solo loro. Anche uno dei nostri dipendenti, un ebreo ortodosso padre di quattro figli, sta pensando di fare un breve servizio militare. Questo è stato un vivace dibattito nei media negli ultimi mesi, perché gli studenti ortodossi della yeshiva hanno visto il bisogno tra la gente e hanno voluto unirsi alla lotta. Ma spesso non è così facile perché i loro rabbini sono contrari e vogliono fermarli. Non tutti, ovviamente, ma la maggioranza. Ma nelle menti dei giovani ebrei ortodossi si è sviluppato un nuovo modo di pensare.

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Ebrei ultraortodossi che hanno deciso  di servire nell'esercito israeliano  dopo l'inizio della guerra tra Israele e
Hamas arrivano agli uffici di reclutamento dell'esercito israeliano a Tel Hashomer, vicino a Tel Aviv, il 23 ott 2023


Il risveglio del 7 ottobre ha scosso la società israeliana. Quello che è successo finora nel Paese non può rimanere così. La gente ha perso la fiducia in se stessa e tutti - o la maggior parte - si sono svegliati. Israele deve svegliarsi, ripensare e rivalutare se la pace con i suoi vicini palestinesi sia davvero possibile. L’incarico nella visione deve essere ripreso in mano. In politica, ma soprattutto con Dio. So che per molti è difficile da capire, ma Dio è coinvolto, perché il popolo di Israele è tornato nella Terra Promessa secondo le visioni bibliche dei profeti.

(Israel Heute, 4 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele cambierà la canzone per partecipare all’Eurovision

di Luca Spizzichino

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Ede Golan
Israele ha accettato di cambiare il testo della canzone scelta per poter partecipare all’Eurovision 2024. Lo ha annunciato questa mattina la Israeli Public Broadcasting Corporation (KAN), in seguito alla notizia sull’esclusione dello Stato Ebraico nel caso avesse portato un testo che ha a che fare con il massacro del 7 ottobre da parte dei terroristi di Hamas: la canzone, infatti, è ritenuta dall’Unione Europea di radiodiffusione “politica” (la canzone proposta si intitolava “October rain”).
   Modificare la canzone consentirà a Israele di partecipare all’Eurovision. “La Israeli Public Broadcasting Corporation [KAN] ha lavorato nelle ultime settimane per intraprendere le misure necessarie che consentiranno a Israele di partecipare all’Eurovision Song Contest di quest’anno”, ha dichiarato la KAN in una nota.
   “Nonostante il disaccordo con la posizione dell’Unione europea di radiodiffusione (EBU), che cercava di squalificare le canzoni presentate da Israele in quanto politiche, la KAN ha seguito il consiglio del presidente Isaac Herzog, che ha proposto di apportare le modifiche necessarie per consentire a Israele di essere rappresentato sul palco dell’Eurovision” si legge ancora nella nota.
   “Il presidente ha sottolineato che proprio in questo momento, quando i nostri nemici cercano di boicottare lo Stato di Israele da ogni piattaforma, Israele deve alzare la voce con orgoglio e a testa alta, e sventolare la sua bandiera in ogni sede internazionale. Soprattutto quest’anno.”
   “KAN si è rivolto agli autori delle due canzoni, ‘October Rain’ [che è stata scelta per rappresentare Israele all’Eurovision] e ‘Dance Forever’ [che si è classificata seconda], e ha chiesto loro di adattare i testi preservando l’aspetto artistico. La KAN esaminerà poi i nuovi testi e sceglierà quale canzone inviare all’EBU, in modo che approvi la partecipazione di Israele.”

(Shalom, 4 marzo 2024)

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«L’Ia viola le leggi e i nostri diritti»

L'esperta: «Il business della sorveglianza sostiene la tesi del vuoto giuridico e si appella all'etica. Questi sistemi non sono intelligenti in senso proprio. Ci profilano per prevedere le nostre azioni, però non sono attendibili».

di Fabio Dragoni

- Daniela Tafani , docente di Filosofia politica all'Università di Pisa, perché si occupa di intelligenza artificiale?
«Perché i sistemi di intelligenza artificiale sono artefatti, prodotti del lavoro umano. E possono avere proprietà politiche. Danno e tolgono potere e possibilità ad alcune persone, per conto di altre persone».

- L’intelligenza artificiale sostituirà quasi del tutto l'essere umano, visto che di fatto ragiona come un essere umano?
«Chiamiamo "intelligenza artificiale", tra gli altri, i sistemi di apprendimento automatico. Non ragionano affatto, sono piuttosto statistiche automatizzate. Stefano Quintaralli propone di chiamarli approcci sistematici agli algoritmi di apprendimento e alle inferenze delle macchine: in inglese, l'acronimo è Salami. Le verrebbe in mente di chiedersi se i Salami abbiano una coscienza o capiscano quello che scrivono? O possano sostituirci?»

- Irridente.
«Oggi esistono soltanto sistemi di intelligenza artificiale "debole o ristretta". Eseguono uno o pochi compiti specifici. Funzionano per i compiti particolari per i quali sono stati programmati. Ad una condizione: che ciò che incontrano non sia troppo diverso da quello che hanno sperimentato in precedenza. Non esiste invece alcun sistema di intelligenza artificiale generale o forte", in grado di eseguire, in modo integrato, le azioni che gli esseri umani compiono invece facilmente, senza nemmeno farci caso. Nessuno, oggi, ha idea di come realizzare l'intelligenza artificiale in senso proprio. Chi la annuncia come prossima, lo fa per· ragioni di marketing. E anche per esercitare un potere e sfuggire alle proprie responsabilità. Annunci a noi familiari solo perché abbiamo visto qualche film o letto qualche romanzo di fantascienza».

- Lei parla di intelligenza artificiale sub-simbolica rispetto a ciò che c'era prima. Di tipo simbolico. O sbaglio?
«Approcci che convivono. L'approccio simbolico deriva dalla logica e procede attraverso la manipolazione di simboli. Poiché richiede che il programmatore scriva quello che la macchina deve fare, non consente di trattare funzioni, quali il riconoscimento delle immagini, delle quali non siamo in grado di esplicitare tutte le regole che pur seguiamo. Le faccio un esempio: nessuno di noi saprebbe elencare tutte le caratteristiche che ci consentono di distinguere un cane da un gatto, malgrado abbiamo imparato facilmente a farlo, fin da bambini, in modo istantaneo e infallibile. I sistemi sub-simbolici di apprendimento automatico (machine learning) non richiedono invece simili istruzioni. Sono sistemi di natura sostanzialmente statistica, che consentono di costruire modelli a partire da esempi».

- Non colgo la differenza. Colpa mia, sicuro.
«Non sono "istruiti" dal programmatore, ma sono calibrati statisticamente per· partire dai dati. Nell'esempio di prima, partono da milioni di immagini di cani e di gatti, etichettate come tali da esseri umani. E’ all'intelligenza artificiale sub-simbolica che si devono i più recenti progressi nello svolgimento di compiti quali la traduzione automatica, il riconoscimento facciale, la ricerca per immagini o l'identificazione di contenuti musicali».

- Pur sempre qualcosa di sovrumano, su!
«I sistemi informatici svolgono singole funzioni con maggiore velocità e potenza. Di certo anche la sua lavatrice lava le lenzuola molto più rapidamente rispetto a quanto farebbe lei. Direbbe che la sua lavatrice è sovrumana?»

- Non lavandole a mano, non so ...
«Vede, l'antropomorfizzazione delle macchine è una tendenza spontanea, ma è anche coltivata e indotta da una narrazione che le grandi aziende tecnologiche finanziano, per perseguire obiettivi aziendali: se un prodotto viene presentato come un essere animato, con prestazioni e difetti simili a quelli degli esseri umani, chi lo smercia può sfuggire alle sue responsabilità. C'è addirittura chi sostiene che per i danni prodotti, ad esempio, dalle auto "a guida autonoma", dovremmo prevedere una "responsabilità distribuita" tra i produttori e le vittime».

- Lei sostiene che l'intelligenza artificiale è prodotta da quei player il cui modello di business è «la sorveglianza».
«E’ un derivato della sorveglianza. La costruzione dei sistemi di apprendimento automatico richiede potenti infrastrutture di calcolo ed enormi quantità di dati nella disponibilità dei soli giganti della tecnologia. Grazie ad un modello di business fondato sulla sorveglianza, sono già attrezzate per intercettare grandi flussi di dati e metadati individuali. E hanno le infrastrutture computazionali per la raccolta e l'elaborazione di tali dati. Questa sorveglianza viola i nostri diritti e ci danneggia. Perciò, come è già accaduto, ad esempio, col tabacco, le aziende finanziano una famiglia di narrazioni: tra queste, l'idea, del tutto infondata, che ci sia un vuoto giuridico e che i nostri diritti non valgano se chi li sta violando usa un'app, per violarli».

- Quindi un qualcosa che di fatto infrange la legge che c'è ora. Lei sostiene!
« Sì, una "bolla giuridica", come la chiama Marco Giraudo. Una generale violazione di diritti giuridicamente tutelati. Una narrazione che ci ha impedito, fin qui, di constatare che le aziende stanno violando leggi vigenti, applicabili anche ai nuovi prodotti. Le aziende affiancano alla tradizionale "cattura del regolatore" - ossia alle azioni delle lobbies per ottenere che la regolazione giuridica non nuoccia al loro modello di business - la cattura culturale: con un'operazione di propaganda, si ottiene che il regolatore e l' opinione pubblica condividano in partenza l'impostazione desiderata e che chiunque esprima preoccupazioni sia etichettato come retrogrado o luddista».

- Tra i sistemi «fuorilegge» lei include l'uso dell'intelligenza artificiale in chiave predittiva ...
«Nei sistemi di ottimizzazione predittiva, si utilizza l'apprendimento automatico per prevedere il futuro di singoli individui e prendere decisioni conseguenti: gli studenti vengono valutati sulla base del voto che si prevede riceverebbero se sostenessero l'esame. I candidati a un posto di lavoro vengono assunti o scartati sulla base di una previsione della loro futura produttività. La polizia si affida a statistiche automatizzate per prevedere chi commetterà un crimine o dove un crimine verrà commesso e agire di conseguenza».

- II film “Minority Report”!
«Questi sistemi non sono in realtà in grado di prevedere il futuro di singole persone, per la semplice ragione che è impossibile. Credere in ciò equivale a nutrire la convinzione - caratteristica delle antiche attività divinatorie e, oggi, dell'astrologia - che il futuro sia già scritto e leggibile. La decisione produce ciò che si pretende di prevedere: se predico che solo nei quartieri più poveri si spaccerà droga e mando solo lì la polizia, è solo lì, ovviamente, che la polizia troverà qualche reato da perseguire. Con il passaggio dalla previsione alla decisione, la profilazione sociale dunque si autoavvera, legittimando così i pregiudizi incorporati nella descrizione statistica iniziale».

- Profezie che si autoavverano ...
«L'impiego dei sistemi di ottimizzazione predittiva è incompatibile con lo Stato di diritto. Possiamo prevedere che il latte nel frigorifero andrà a male in una settimana, ma assumere di poter prevedere il comportamento umano con la stessa precisione equivale a trattare le persone come “cose" incapaci di scegliere, anziché come persone capaci di autodeterminarsi. Siamo trasformati in un flusso di dati e non possiamo sapere in anticipo quali aspetti del nostro comportamento, delle nostre caratteristiche o della nostra identità faranno sì che un sistema ci associ a una certa categoria o etichetta. Sa che l'antropologo ed economista Brett Scott ha scoperto di essere stato etichettato, in una classificazione automatizzata, come potenziale "mamma a basso reddito"? Con le immaginabili conseguenze, tra gli altri, nell'ambito creditizio».

- Si può evitare la discriminazione nell'utilizzo dell'intelligenza artificiale?
«Irrilevante, per i sistemi di ottimizzazione predittiva. Se un sistema non funziona, perché non è possibile che funzioni, il fatto che il suo impiego produca discriminazioni non è di alcun rilievo. Se dall'insieme dei pixel della foto di una persona non è possibile prevedere se quella persona sarà una brava lavoratrice, questa previsione resta impossibile anche se la cospargo con la polvere magica dell'intelligenza artificiale. Se il sistema, ad esempio, formulasse previsioni che svantaggiano le persone bionde, dovrei preoccuparmene? No, perché se anche eliminassi il pregiudizio contro le persone bionde, otterrei al massimo un sistema non discriminatorio verso le persone bionde e tuttavia, come prima, non funzionante, ossia non capace di prevedere il futuro dei singoli individui. In ogni caso, quel sistema non deve essere utilizzato.

- L'etica nell'utilizzo può aiutare?
«L'etica non c'entra. Si tratta di prodotti fuorilegge, i cui produttori cercano di convincerci che il diritto vigente non si applichi ai loro sistemi "intelligenti" e che servano perciò nuove leggi. Le aziende parlano di "etica" per proporre che ci affidiamo al loro buon cuore e per sfuggire al diritto. Se la sua lavatrice le allagasse la casa, che penserebbe di un tecnico che le dicesse che in realtà la lavatrice funziona perfettamente e che le manca solo di diventare (grazie all'"etica delle lavatrici") abbastanza buona da decidere di non allagarle la casa? Come le lavatrici, i sistemi di intelligenza artificiale sono artefatti, ossia oggetti. Non vi è motivo per sottrarne la distribuzione e la commercializzazione alla legislazione ordinaria».

(La Verità, 4 marzo 2024)


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INTELLIGENZA ARTIFICIALE
    Poi l’uomo disse:
    facciamo il robot a nostra immagine e somiglianza.
    Lo formò con materia digitale
    gli soffiò nei sensori un algoritmo vitale
    e il robot divenne un congegno semovente.
Il peccato originale del robot deve ancora arrivare.


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Tenere duro

di Niram Ferretti

La partenza di Benny Gantz per gli Stati Uniti dove incontrerà a Washington la vicepresidente Kamala Harris e il Consigliere per la Sicurezza Jake Sullivan e quindi membri del Congresso di entrambi gli schieramenti, è non solo irrituale, (Netanyahu, nella sua veste di primo ministro non è stato consultato), ma mette in luce, se ce ne fosse ancora bisogno, le manovre in corso per condurre Israele a elezioni anticipate nel pieno della guerra a Gaza.
   L’ingresso di Benny Gantz, leader dell’opposizione di governo nel Gabinetto di guerra, è uno dei pegni che Netanyahu ha pagato all’Amministrazione Biden, ostile al suo governo dal giorno stesso del suo insediamento.
   Gantz è uomo di fiducia e a Washington sarebbe indubbiamente da preferirsi al bad fucking guy, attualmente in carica. Gantz, il quale, qualche mese fa, aveva dichiarato che lo scopo primario della guerra era il ritorno a casa degli ostaggi, è perfettamente in linea con la volontà di Washington che non ha, come priorità, la smilitarizzazione di Hamas e la netta vittoria di Israele nella Striscia, ma un accordo con il gruppo jihadista responsabile dell’eccidio del 7 ottobre, che porti un cessate il fuoco sufficientemente lungo da permettere a Joe Biden di lucrarvi elettoralmente facendo in modo che si prolunghi indefinitamente.
   Tutto questo è propedeutico al progetto manifesto della Casa Bianca e annunciato a più riprese, la nascita di uno Stato palestinese, nonostante non lo vogliano Netanyahu e i suoi alleati e soprattutto non lo vogliano la maggioranza degli israeliani.
   Per gli ideologi, la realtà è ininfluente, ciò che conta sono le chimere, e la chimera dello Stato palestinese come soluzione del conflitto aleggia da trent’anni, ed è stata alimentata da tutte le amministrazioni americane che si sono succedute, con un’unica eccezione, quella presieduta da Donald Trump, la più rivoluzionaria e piantata a terra relativamente alle sorti e al futuro di Israele.
   Trump e i suoi consiglieri vedevano benissimo che la chimera era ciò che è, una pura illusione la cui consistenza si era già rivelata tale a partire dal 2000 con la chiusura di Arafat ad ogni compromesso e l’innalzamento continuo di pretesti per costringere Israele a cedere sempre di più, ma mai abbastanza.
   I primi a non volere la nascita di uno Stato palestinese sono sempre stati gli arabi, e per un motivo molto semplice, farlo nascere li obbligherebbe a riconoscere la legittimità territoriale di Israele. Ed è questa, per motivi squisitamente religiosi, la ragione per la quale, nonostante i cedimenti di Israele, non è mai nato. Ci sono poi le ragioni ovvie che hanno spinto e spingono Netanyahu a opporsi, ovvero la sicurezza nazionale. Uno Stato palestinese in Cisgiordania, a pochi chilometri da Tel Aviv, dopo l’esperimento di Gaza, comporterebbe un apparato militare di vigilanza costante, sarebbe per l’Iran uno straordinario cavallo di Troia situato nel ventre dello Stato ebraico. Tutto questo per i sognatori americani è irrilevante. Non sono bastati i vent’anni di permanenza in Afghanistan dove la democrazia avrebbe dovuto dare frutti duraturi invece del ritorno dei talebani, non è bastato il fallimento iracheno, là dove la democrazia, ancora, si sarebbe realizzata, non è bastata la politica di appeasement con l’Iran che ne ha solo incrementato l’insidiosità. Non è bastato, infine l’ulteriore fallimento nel cercare di fare di un sanguinario ras egiziano che si fingeva palestinese, un nation builder. Tutto questo è come se non fosse mai accaduto, come se la pagina della storia fosse bianca.
   L’argine all’esiziale progetto americano è Netanyahu, è il governo in carica, dove coriacei nazionalisti, spesso sopra le righe, ma assai realisti, sanno esattamente di che stoffa sono fatti i loro interlocutori arabi, li conoscono perfettamente perché sono nativi del luogo come loro, radicati in una realtà di cui respirano l’odore fin da bambini, non come i funzionari americani in carica, per i quali il Medio Oriente è sostanzialmente frutto di astrazioni, di teoremi i cui postulati sono completamente errati.
   Le elezioni anticipate in Israele, mentre a Gaza ancora si combatte e Hamas pur non avendo più il controllo del territorio, che è già di per se un risultato di grande rilevanza, è ancora operativo, sarebbero il modo per tentare di disarcionare Netanyahu, anche se poi, il risultato potrebbe sorprendere ancora. Nessun politico né in Israele né fuori da Israele ha smentito così tante volte i de profundis che gli erano stati intonati.
   Non ci saranno accordi al ribasso, ha dichiarato il premier, rincalzato da Bezalel Smotrich, il più netto e lucido al governo insieme all’altro “appestato” Itmar Ben Gvir, riguardo alla necessità di finire il lavoro a Gaza, smantellare Hamas, e se è possibile, sperando sia possibile, salvare la vita agli ostaggi, non si sa ancora esattamente quanti, che i carnefici del 7 ottobre tengono ancora prigionieri.

(L'informale, 3 marzo 2024)

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Norvegia: dopo il 7 ottobre, l’odio antiebraico è più esplicito e violento

Intervista a Torkel Brekke

di Nathan Greppi

Con la guerra tra Israele e Hamas scoppiata dopo il 7 ottobre, sono aumentati esponenzialmente gli appelli per il boicottaggio dello Stato Ebraico, soprattutto in ambito accademico. Ancor più che in Italia, ciò è molto sentito in paesi come la Norvegia, dove almeno quattro università hanno tagliato i ponti con gli atenei israeliani.
   L’astio per gli ebrei e Israele nel mondo culturale norvegese ha radici più profonde del conflitto con Hamas a Gaza; nel 2006, quando Israele si ritrovò in guerra con gli Hezbollah in Libano, ci fu il caso dello scrittore Jostein Gaarder, tra i più celebri del paese e il cui romanzo Il Mondo di Sofia ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Gaarder scrisse sul quotidiano Aftenposten che l’ebraismo era “un antica religione di un popolo in guerra”, contrapposta all’idea cristiana che “il regno di Dio è nella compassione e nel perdono”.
   Nonostante l’ostilità verso Israele sia assai diffusa nel paese dei fiordi, non mancano coloro che cercano di opporvisi: uno di questi è lo storico delle religioni Torkel Brekke , docente presso la Scuola Norvegese di Teologia ad Oslo e autore di numerosi saggi e ricerche sull’antisemitismo e l’islamofobia. Il suo ultimo libro, Ingen er uskyldig (“Nessuno è innocente”), racconta come una parte della sinistra norvegese non abbia mai fatto i conti con l’antisemitismo tra le sue fila, coltivando nel tempo teorie complottiste sugli ebrei e arrivando a giustificare i massacri di civili israeliani del 7 ottobre.

- Quanto era diffuso l’antisemitismo in Norvegia prima del 7 ottobre? E cosa è cambiato dopo?
  Storicamente, i dati sull’antisemitismo erano molto bassi in Norvegia; rispetto ad altri paesi, in passato vi era una minore propensione a dire brutte cose sugli ebrei in quanto tali. Ma nell’ultimo decennio, vi è stato un considerevole aumento dell’antisionismo e dell’antisemitismo legato a Israele. Molte persone ostili a Israele hanno fatto apertamente ricorso a classici stereotipi antisemiti.
   Ciò che è cambiato, dopo il 7 ottobre, è che questo odio è diventato molto più esplicito ed evidente, soprattutto agli occhi degli ebrei norvegesi. Inoltre, dopo i massacri, io e molti altri ci aspettavamo che i politici norvegesi esprimessero la loro vicinanza ad Israele e agli ebrei, ma non è avvenuto. Non solo, ma il governo laburista ha chiesto al Re di Norvegia Harald V di non esprimere le sue condoglianze agli israeliani. E questo è singolare, perché il Re in passato ha espresso più volte il suo cordoglio alle vittime del terrorismo. Per come la vedo io, vi è un’incapacità di vedere gli israeliani come degli esseri umani.

- Tra i partiti politici, quali sono i più vicini agli ebrei e Israele? E quali invece sono i più ostili?
  Già da prima del 7 ottobre, il partito più filoisraeliano è un partito di destra populista, noto come il Partito del Progresso. Sono populisti, ma non estremisti, e si muovono entro i parametri della democrazia. Mentre dopo il 7 ottobre, è diventato evidente come i partiti più antisraeliani siano quelli di estrema sinistra, e in particolare il Rødt (“Rosso”), legato al marxismo rivoluzionario.

- Nel suo ultimo libro, ha denunciato l’antisemitismo presente nei sindacati e nei partiti di sinistra norvegesi. Come nasce questo odio?
  Dopo il 1948, gran parte della sinistra era vicina al sionismo socialista. Ma come nel resto d’Europa, tutto è cambiato nel 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni. Da quel momento in poi, la Norvegia ha “scoperto” i palestinesi, percepiti come “oppressi” nella visione terzomondista, e tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 è nato il movimento filopalestinese, legato in particolare alla sinistra marxista.
   Da queste frange estreme, in seguito il movimento si è diffuso nel mainstream. Per “mainstream” non intendo tanto nel Partito Laburista, che pur avendo dei membri filopalestinesi cerca nel complesso di essere pragmatico, quanto nei sindacati, nella società civile e nelle alte sfere della chiesa norvegese.

- In molti paesi occidentali, l’antisemitismo è diffuso tra le comunità islamiche. In Norvegia, quali sono i rapporti tra ebrei e musulmani?
  Prima del 7 ottobre erano in buoni rapporti, per diverse ragioni: la prima è che una parte dei finanziamenti pubblici che ricevono le minoranze religiose viene utilizzata per promuovere iniziative di dialogo interreligioso. Un altro motivo è che la comunità ebraica norvegese è molto piccola, di circa 1.300 persone.
   Dopo il 7 ottobre, queste relazioni sono andate distrutte. Ciò è avvenuto per vari motivi: già lo scorso novembre, quando si commemorava la Notte dei Cristalli, le organizzazioni musulmane cercarono di dirottare la giornata per trasformarla in una commemorazione dei palestinesi uccisi. Ciò ha sconvolto la comunità ebraica, che ha preso le distanze dall’evento.
   Alla fine, le due comunità si sono trovate talmente in disaccordo che hanno smesso di parlarsi. Per fare altri esempi, la maggior parte dei leader musulmani non ha mostrato alcuna empatia per le vittime israeliane del 7 ottobre, mentre dall’altra parte molti politici hanno solidarizzato senza esitare con i palestinesi.

- Lo Stato è consapevole dei rischi per la comunità ebraica? Se sì, cosa fanno le autorità per proteggerla?
  Ovviamente, la polizia e i servizi di sicurezza sono all’erta. Quello che invece preoccupa, è che a differenza di quel che è successo in altri paesi europei, quali la Svezia, la Danimarca, la Germania o il Regno Unito, in Norvegia molti politici sono rimasti in silenzio dopo il 7 ottobre, e non hanno mostrato particolare vicinanza agli ebrei norvegesi. Sono consapevoli dei rischi, ma si preoccupano di più di come vengono percepiti da altre minoranze, come quella musulmana.

(Bet Magazine Mosaico, 3 marzo 2024)

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Nei cortei anti Israele spiccano i dem a braccetto con chi predica odio

Ieri sfilate senza disordini in diverse città con in prima linea amministratori del Pd. Pioggia di insulti (pure alla Segre), foto della Meloni imbrattata di sangue. 

di Davide Perego 

Il Pd e la sinistra hanno scelto da che parte stare: dalla parte della piazza che grida slogan come «Noi la Palestina la vogliamo, non esiste Israele che è uno stato che occupa», «Palestina libera fino alla vittoria», «Abbattere le frontiere dal Brennero alla Palestina», «Fuoco alle galere», oppure che imbratta la foto del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con mani insanguinate. La saldatura tra la gioiosa macchinina da guerra di Elly Schlein e il fronte italiano pro Palestina è avvenuta a Pisa, dove numerosi esponenti politici locali della sinistra, e del Partito democratico in particolare (su tutti, il presidente dem della Provincia, Massimiliano Angori), hanno partecipato al corteo-minestrone («In piazza contro le bombe e i manganelli», il titolo), organizzato da studenti e ragazzi per protestare per gli scontri dello scorso 23 febbraio in città tra manifestanti e forze dell'ordine, insieme a collettivi universitari, docenti delle scuole superiori e sindacati (complessivamente, quasi 5.000 persone alla manifestazione). Tra gli striscioni apparsi lungo il serpentone di partecipanti, «Pisa non ha paura» e «Israele Stato fascista e terrorista». 
   Momenti di particolare tensione si sono registrati soprattutto a Trento, dove un corteo anarchico ha sfilato per le vie del centro storico della città per sostenere la Palestina, ma anche per esprimere solidarietà agli imputati del processo per i disordini che si erano registrati al Brennero nel 2016. Numerosi muri sono stati imbrattati con scritte e insulti, prese di mira anche le banche e la sede dell'università. 
   A Roma i manifestanti (presenti tra gli altri la Comunità palestinese in Italia, gli attivisti di Cambiare rotta, Unione popolare, Rifondazione comunista e alcune sigle anarchiche) se la solo presa un po' con tutti: la foto di Giorgia Meloni, ritratta in compagnia del presidente israeliano Benjamin Netanyahu, è stata imbrattata con impronte di mani insanguinate. Qualcuno se l'è presa con la senatrice a vita Liliana Segre, agitando lo striscione «Liliana Segre io ti stimo ma non sento la tua voce sulle stragi di Gaza». In un altro si leggeva: «Avete superato i nazisti. Fosse Ardeatine: 10 per ogni ucciso a via Rasella. Gaza: 25 per ogni ucciso il 7 ottobre». Tra i bersagli del corteo anche il segretario del Pd, Elly Schlein, ritratta in una fotografia accanto agli striscioni «Fermiamo il genocidio, Palestina libera» e «Governo Meloni complice del genocidio», e Matteo Salvini, accusato di «complicità in genocidio». In testa al corteo i ragazzi palestinesi hanno esposto dei lenzuoli bianchi con scritto in rosso «Stop genocidio». I giovani si sono poi sdraiati per terra mentre dalle casse risuonava il rumore di bombe e missili. Infine Maya Issa, presidente del movimento degli studenti palestinesi, al megafono ha scandito più volte lo slogan «Noi la Palestina la vogliamo, non esiste Israele che è uno Stato che occupa e che ha colonizzato la nostra terra». A suggellare la scampagnata è partita la superhit di ogni serpentone, Bella ciao, intonata nei pressi dell'università La Sapienza. 
   A Milano sono stati 1.500, secondo gli organizzatori, i partecipanti al corteo. A tenere banco è stata la spaccatura all'interno dell'Anpi locale, conseguente alle dimissioni del presidente, Roberto Cenati, contrario all'utilizzo del termine «genocidio» per l'operazione militare di Israele a Gaza. Cenati è stato spesso preso di mira durante il pomeriggio al grido di «Vergogna», «E l'ennesima provocazione», e «Meno male che te ne sei andato». «Da tantissimi iscritti all'Anpi non era più ben visto nazioni erano sempre a favore di Israele che condividiamo se si parla della Shoah, ma in questo momento non è il caso di stare dalla parte di un governo che sta massacrando una popolazione», hanno sostenuto i partigiani meneghini prima del rompete le righe, avvenuto davanti alla stazione Centrale. Immancabili gli slogan contro Giorgia Meloni «perché manda soldati e armi». Qualcuno ha anche scandito «Joe Biden assassino». A Firenze, infine, i manifestanti si sono radunati davanti al consolato degli Stati Uniti, blindato dalle forze dell'ordine. Anche qui la benedizione della sinistra si è materializzata con la presenza di Antonella Bundu e Dmitrij Palagi, consiglieri di Sinistra progetto Comune. Altre mobilitazioni si sono tenute a Trieste, a Torino, dove i manifestanti hanno tenuto a sottolineare che «il Comune è gemellato con Gaza» e Empoli, dove insieme agli studenti hanno sfilato anche le femministe di Non una dimeno, gli ultras della locale squadra di calcio e i candidati sindaco, Alessio Mantellassi (centrosinistra) e Leonardo Masi (Buongiorno Empoli-M5s).

(La Verità, 3 marzo 2024)

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«Quello in Palestina non è genocidio». Presidente di Anpi Milano si dimette»

Cenati lascia l'associazione spaccata dalla difesa a oltranza dei «partigiani» di Hamas. 

di Giuseppe Pollicelli 

Alla fine Roberto Cenati, presidente della sezione milanese dell' Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia), ha optato per le dimissioni irrevocabili. Dopo alcuni giorni di riflessioni sofferte, ha concluso che l'unica scelta possibile fosse quella di un passo indietro e, dunque, di dire addio dopo quasi tredici anni alla guida dell'Anpi di Milano. 
   Il motivo all'origine della drastica decisione è riassumibile in una parola: genocidio. Un vocabolo che viene ormai regolarmente adoperato, in particolare negli ambienti della sinistra, per definire gli attacchi nei confronti dei palestinesi ordinati nella Striscia di Gaza dal premier israeliano Benjamin Netanyahu in reazione all'attentato terroristico condotto da Hamas il 7 ottobre 2023. Un utilizzo che però, secondo Cenati, è del tutto improprio e, pertanto, non accettabile. Sul punto, l'ormai ex presidente dei partigiani milanesi era stato molto chiaro già alcuni giorni fa, in un'intervista rilasciata al Corriere della sera: 
   «E una parola che va usata con grande attenzione. Nel 1948 l'Onu ha adottato una convenzione che qualifica come genocidio "l'uccisione sistematica di membri di un gruppo nazionale, etnico, o religioso". Non sussistono tali condizioni nell'attuale conflitto», aveva detto. Per poi proseguire: «Il governo israeliano sta determinando una tragedia umanitaria, con stragi di civili, soprattutto bambini, donne e anziani, vittime del conflitto originato dal barbaro attacco del 7 ottobre. Il governo di Netanyahu si prefigge di annientare Hamas, che nel suo statuto prevede la distruzione di Israele e l'eliminazione degli ebrei, ma non ha come obiettivo la distruzione fisica, sistematica e totale del popolo palestinese, né le altre misure prefigurate nel termine genocidio. E poi c'è un altro slogan che non ci piace di quei cortei: quando si chiede che lo Stato palestinese si estenda dal Giordano al Mediterraneo. Significa che si vuole l'eliminazione di Israele». 
   Il punto di vista di Cenati, tuttavia, si è presto rivelato minoritario all'interno dell'Anpi e così, dopo l'assenza ai cortei filopalestinesi svoltisi fino a oggi, anche la sezione milanese parteciperà, in accordo con la direzione nazionale dell'associazione, al corteo pro Palestina che si terrà il 9 marzo a Roma e che vedrà tra i suoi protagonisti anche la Cgil. Un corteo fra i cui slogan annunciati figura anche quello seguente: «Impedire il genocidio». A quel punto Cenati non ha potuto fare altro che dimettersi, coerentemente con le opinioni da lui espresse. Non si è fatta attendere la replica di Gianfranco Pagliarulo, che dell' Anpi è il presidente nazionale, il quale ha commentato così la mossa di Cenati: «Le parole del presidente dell'Anpi milanese mi lasciano stupito. Una delle parole d'ordine per la grande manifestazione del 9 marzo è "impediamo il genocidio", parole che utilizza il tribunale penale internazionale. Dire "impediamo", poi, significa che non c'è ancora un genocidio ma c'è pericolo che accada». Naturalmente il contrasto su di un singolo termine cela una ben più profonda e lacerante contrapposizione di carattere politico: da una parte, nell'Anpi, c'è chi, sostenendo tuttora la proposta sintetizzata dalla frase «due popoli e due Stati», prende in considerazione ragioni e torti di entrambe le parti in conflitto; dall'altra, ed è con ogni evidenza la parte più consistente, ci sono coloro per i quali esistono un solo carnefice e una sola vittima, rispettivamente il governo israeliano e i palestinesi della Striscia, e per i quali gli esponenti di Hamas non vanno considerati dei terroristi ma esclusivamente dei valorosi partigiani (appunto) impegnati in una drammatica lotta di liberazione. 
   Un grande scrittore italiano di origine ebraica, Carlo Levi, diceva (è il titolo di un suo libro) che «le parole sono pietre». Non è meno vero per la quasi totalità della sinistra italiana, compresa da oggi anche l' Anpi milanese: purché le pietre siano quelle dell'Intifada palestinese e non altre.

(La Verità, 3 marzo 2024)

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Perché Israele sta perdendo la guerra della comunicazione

di Ugo Volli

• Le diverse dimensioni del conflitto
  “La guerra – scrisse duecento anni fa il generale prussiano Von Klasewitz, fondatore della strategia moderna – è la continuazione della politica con altri mezzi.” Ma è vero anche l’inverso: le guerre si combattono anche sul fronte politico, cioè diplomatico e, nell’età delle comunicazioni di massa e dei social media, soprattutto su quello comunicativo, non solo dei paesi in guerra, ma soprattutto del resto del mondo che può appoggiare l’una o l’altra parte, influendo sul loro rapporto di forza. Nella guerra di Gaza Israele sta vincendo tutte le battaglie sul terreno, ma è in difficoltà sul fronte diplomatico, dove molti paesi che secondo la logica avrebbero dovuto appoggiarlo, gli hanno voltato le spalle, come in Europa la Norvegia, la Spagna, il Belgio, l’Irlanda: o minacciano di farlo.

• La guerra politica
  Soprattutto Israele sta perdendo la guerra della comunicazione, come era già successo in passato, per esempio nelle due guerre del Libano. Le ragioni di questa sconfitta, che avviene nonostante una qualificata presenza ebraica nei mezzi di comunicazione, sono diverse. La prima è che le risorse messe in gioco dai nemici di Israele nel campo della cultura e della comunicazione sono immense, senza paragone con quelle dello stato ebraico. Il Qatar prima di tutto, ma anche l’Iran e le forze legate alla Fratellanza Musulmana hanno speso miliardi di dollari nelle università e nei mezzi di comunicazione, assicurandosi il predominio non solo di queste istituzioni ma anche dei manager delle più grandi imprese e dei politici che vi vengono formati. La seconda ragione è l’ideologia “intersezionale” che punta a unire tutti i nemici della tradizione occidentale, anche se in contraddizione fra loro. Gli islamisti sono appoggiati dai nostalgici del socialismo, dai militanti del “transgender”, dagli estremisti razzisti anti-bianchi, cui qualche volta si aggiungono ali moderniste estreme di varie denominazioni cristiane. E’ una coalizione che ha un grande potere di ricatto sui media e sui politici.

• Pallywood
  La terza ragione è che il fronte palestinese ha preso la guerra contro Israele come obiettivo centrale, mentre questo non è accaduto fra gli israeliani, anche fra la maggioranza che non si fa illusioni pacifiste e che pensa però giustamente che il compito centrale dello stato sia di assicurare il benessere dei cittadini e non di distruggere i propri vicini. Questo carattere di militanza totale antisraeliana non riguarda solo Hamas, ma tutti i settori della società palestinese, che non hanno alcuno scrupolo a mentire, inventare scene inesistenti, esagerare le perdite, cercare di mitizzare episodi che mettano in cattiva luce Israele e gli ebrei, senza riguardi per la realtà. C’è a Gaza e nei territori dell’Autorità Palestinese una vera e propria fabbrica della falsa comunicazione, che qualcuno ha chiamato “Pallywood” (da “Hollywood” più “Palestina”, ma anche con un’assonanza con le bugie che in gergo si chiamano “palle”). Essa era già in opera 75 anni fa durante la guerra di indipendenza, con il falso di Deir Yassin; agì poi con particolare intensità durante la prima guerra del Libano, attribuendo falsamente a Israele il massacro di Sabra e Chatila, compiuto dai cristiani libanesi; poi ancora durante la “seconda Intifada”, con la pretesa strage di Yeniun, l’”assedio” della basilica di Betlemme, il falso omicidio del ragazzino Mohammed Al Doura e altri episodi analoghi. Tutte storie che rafforzano il vecchio pregiudizio antisemita diffuso in Occidente come nell’Islam.

• Il “bombardamento” dell’ospedale
  Questa fabbrica seriale di menzogne non si è mai arrestata durante la guerra di Gaza. I propagandisti di Hamas hanno preteso che non ci fossero morti civili il 7 ottobre, poi che i morti li avesse provocati l’aviazione israeliana, spesso ha usato alcuni gruppi di attori (sempre gli stessi, denunciati invano in rete) che facevano finta di essere morti, altre volte di essere feriti, affamati, morti di nuovo, in lutto per la fine dei loro familiari; a un certo punto si inventò il bombardamento israeliano dell’ospedale Al-Ahli Arabi Baptist Hospital a Gaza City, denunciando 500 morti mentre la realtà dimostrata poi con i filmati e le prove sul campo era che un missile della Jihad Islamica diretto contro i civili israeliani era caduto per un malfunzionamento nel cortile dell’ospedale, senza nessun intervento israeliano, provocando qualche decina di vittime.

• I numeri delle vittime
  Il caso più clamoroso e continuo e anche di maggior successo di menzogna alla “Pallywood” è la comunicazione quotidiana dei numeri dei morti palestinesi proveniente da qualche propagandista di Hamas che si definisce “Ministero della salute di Gaza”, anche se a Gaza oggi non ci sono né governi, né ministeri, né organismi in grado di fare statistiche complessive sulle vittime della guerra. Ma ogni giorno si propalano questi numeri, secondo cui sembra che Israele riesca nel miracolo masochista di non colpire mai i propri nemici armati, cioè i terroristi, ma quasi solo donne e bambini. Molte fonti, anche Shalom due volte, hanno pubblicato analisi che mostrano, numeri alla mano, che questi “dati” sono del tutto inverosimili. Ma essi continuano a essere citati e stanno alla base della più velenosa operazione contro Israele, quella che gli attribuisce un “genocidio” dei palestinesi, ottenendo così libero gioco per invertire la colpa della Shoà e poter dire che Israele fa ai palestinesi quel che i nazisti hanno fatto agli ebrei – e dato che le cose stanno così, probabilmente i nazisti non hanno sbagliato se non nel “non finire il lavoro”.

• Il caso dei rifornimenti
  L’ultima clamorosa fabbricazione di Pallywood è avvenuta venerdì scorso, quando alcuni camion di rifornimenti alla popolazione civile di Gaza, arrivati al nord della striscia sotto scorta israeliana, sono stati assaliti da una folla violenta, al cui interno si erano mescolati terroristi di Hamas che volevano sequestrare i rifornimenti a loro uso, come spesso fanno. L’assalto della folla è stato convulso, alcune persone si sono calpestate a morte a vicenda, altre sono finite sotto i camion che fuggivano perché i conducenti avevano a loro volta paura per la loro vita; altre ancora sono state coinvolte in uno scontro a fuoco fra i soldati israeliani di scorta e i terroristi di Hamas che avevano iniziato a sparare loro addosso. I rifornimenti a Gaza sono resi così difficili dalle circostanze che la maggior parte dei paesi interessati, inclusi gli Usa, hanno deciso di usare il metodo lento e inefficiente di paracadutarli, per non restare coinvolti nei parapiglia. Questo incidente non è il primo del genere e la responsabilità è di Hamas che cerca di prendere per sé i rifornimenti (in cui talvolta sono mescolati anche materiali militari, come è emerso in diversi casi; e inoltre dell’Unrwa che gestisce i rifornimenti non a favore della popolazione palestinese ma di Hamas. Ma la propaganda l’ha trasformato in una colpa di Israele, anzi addirittura in un “raid” dell’esercito israeliano, come ha titolato vergognosamente “L’osservatore Romano”. La conclusione è semplice. Non solo gli ebrei e gli amici di Israele, ma tutti coloro che tengono a un’informazione corretta, che è il presupposto della democrazia, devono combattere questo sistema di menzogne, diffamazioni, guerra comunicativa contro Israele.

(Shalom, 3 marzo 2024)

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Emmanuele. Dio con noi

Dalla Sacra Scrittura

    MATTEO 1
  1. Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
  2. E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
  3. Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
  4. Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
  5. Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
  6. Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
    SALMO 145

  1. Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
  2. Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
  3. L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
  4. Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
  5. Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
    GENESI 2
  1. L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
  2. gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
    ISAIA 53
  1. Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
    GIOVANNI 20
  1. Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
  2. Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
    PROVERBI 8
  1. Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
  2. quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
  3. quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
  4. io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
  5. mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
    GENESI 2
  1. E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
    GIOVANNI 3
  1. Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
    1 CORINZI 15
  1. Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
    GENESI 3
  1. E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
    ISAIA 7
  1. Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
    GIOVANNI 12
  1. “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
    ESODO 3
  1. E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni; 
  2. e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
    ESODO 29
  1. Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
  2. E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
    GIOVANNI 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
    PREDICAZIONE

Marcello Cicchese
febbraio 2024



 
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La guerra più difficile nella storia di Israele

di Elena Loewenthal

È una guerra difficile, tremendamente difficile. Forse la più difficile delle tante che nei suoi settantacinque anni di storia Israele si è trovato a combattere suo malgrado, nessuna di esse voluta e iniziata dallo Stato ebraico. È una guerra non lineare, perché cominciata con un pogrom a tutti gli effetti. La violazione massiccia di confini considerati sino al 7 ottobre protetti, un massacro di civili, il rapimento di una smisurata quantità di persone, uomini, donne e bambini. Ad oggi, ci sono ancora più di cento ostaggi nelle mani di Hamas. Vivi? Forse. Come? Chi lo sa. È una guerra lunga e logorante. Più di tante altre. Perché è tutt’altro che una guerra lineare, sul terreno, sul campo di battaglia, sul piano mediatico. L’equazione «le vittime (della Shoah) sono diventate i carnefici» continua a raccattare consensi ovunque nel mondo, con la purtroppo prevedibile conseguenza di una montata di antisemitismo.
   È un’equazione pratica, che mette al riparo da ogni complessità, fa risparmiare qualunque sforzo di ragionare sull’intrico di circostanze che questo conflitto porta con sé. Non è invece facile mettere il mondo di fronte a una domanda tanto necessaria quanto scomoda: di chi è la responsabilità di queste – tante, troppe – vittime? Di chi è la responsabilità della fame che attanaglia Gaza e che è lo sfondo dell’eccidio di due giorni fa, attorno al convoglio di aiuti? No, non è certamente solo di Israele.
   Le responsabilità – tante e diverse, tutte nefaste – delle condizioni a Gaza, prima e durante questa guerra, non sono tutte di Israele. Anzi. La disparità evidente di questo conflitto, circa millecinquecento morti in Israele a fronte di decine di migliaia a Gaza, non è colpa né responsabilità soltanto di Israele. Se le decine di migliaia di missili lanciati nelle prime settimane di guerra da Gaza verso il territorio d’Israele non avessero incontrato un sistema di difesa concepito per proteggere i cittadini israeliani (ebrei, arabi e quant’altro), i morti in Israele sarebbero innumerevoli, il Paese e la sua umanità sarebbero stati cancellati. L’obiettivo di Hamas era e resta quello. Il fatto che i morti israeliani siano molti di meno di quelli palestinesi di Gaza non significa che Israele sia più “cattivo”, crudele e aggressivo del suo nemico. La disparità nel numero delle vittime non è la conseguenza dell’accanimento d’Israele, del suo essere diventato carnefice da vittima che era. È invece l’evidenza di una guerra non lineare, di responsabilità che vanno cercate lontano, ma soprattutto nei sotterranei, politici e materiali: in quei tunnel che Hamas ha scavato sotto scuole e ospedali, facendo dei palestinesi di Gaza un popolo di scudi umani. E tutto questo, che dura da molti anni, è non meno terribile della guerra in corso.
   Senza contare un altro aspetto, secondario, ma rilevante: l’informazione. Quando qualche mese fa un missile lanciato troppo maldestramente da Gaza è finito nel parcheggio di un ospedale, poco lontano, l’opinione pubblica e la politica mondiale non ci hanno messo più di un quarto d’ora ad accusare Israele di un fantomatico massacro. Quando Israele dichiara di avere le prove che alcuni dipendenti dell’Unrwa hanno partecipato attivamente al massacro del 7 ottobre, l’opinione pubblica e la politica mondiale reagiscono in primis con un certo qual scontato scetticismo. Questa guerra non è lineare anche perché è il teatro di una dissimmetria comunicativa sull’attendibilità delle fonti. Il presupposto di ogni informazione che arriva è che lo Stato ebraico la manipola, mentre dal fronte opposto, Hamas, giunge tal qual è nella sua verità. Il contesto mediatico ha, certo, un peso infinitamente meno rilevante rispetto a quello umano, di chi la guerra la subisce davvero. Su entrambi i fronti. E questa è una guerra che sta facendo troppe vittime.
   Tutto questo senza, naturalmente, dimenticare le colpe e le mancanze di un governo israeliano pessimo, incapace di gestire questa guerra e ragionare sul futuro prossimo del paese. Netanyahu e i suoi ministri hanno commesso e continuano a commettere errori imperdonabili, che dovranno scontare. Ma questa guerra e le decine di migliaia di vittime innocenti che sta mietendo ha dei mandanti ben precisi, ed è a loro più che allo Stato ebraico che vanno ascritte, le responsabilità di ciò che continua ad accadere.

(La Stampa, 2 marzo 2024)
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All’amica di una vita Elena Loewenthal sento la necessità di rispondere, proprio perché la considero un’amica:
- “la disparità evidente di questo conflitto non è colpa né responsabilità soltanto di Israele”: allora Israele ha delle colpe se i capi di Hamas usano, sì, usano, i propri concittadini come proprio scudo, come scrive dopo, con molta attenzione alle parole usate, a solo parziale spiegazione? E allora anche lei mette sullo stesso piano Israele e Hamas? Che sia più onesto Sinwar che spiega esattamente quella che è la sua strategia vincente grazie alla cecità dell’Occidente?
- forse che migliaia di missili non arrivavano nei cieli di Israele anche prima del 7 ottobre? Dimenticati per non giustificare la pazienza mostrata dal sempre colpevole Netanyahu (colpevole probabilmente, ma lei sentenzia già, senza attendere il responso della già annunciata Commissione di inchiesta, che “continua a commettere errori imperdonabili”)?
- anche la testata che la pubblica è in prima linea per la da lei, giustamente criticata, informazione; ma anche lei ci mette del suo: in questa guerra non c’è stato solo “un missile lanciato troppo maldestramente da Gaza” a uccidere cittadini di Gaza; tutti ignorati da Elena.
- è “un governo israeliano pessimo, incapace di gestire questa guerra” ad avere la responsabilità di tale gestione? Non forse il Comando Supremo dell’IDF insieme al Gabinetto di Guerra del quale fanno parte due parlamentari dell'opposizione, Gantz e Eisenkot oltre, chissà poi perché, altissimi funzionari USA, che sovente partecipano ufficialmente alle riunioni.
Emanuel Segre Amar

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Gantz vola a Washington senza l’OK di Netanyahu. È rottura?
La rivelazione di Ynet ha messo in imbarazzo il gabinetto di guerra
di Sarah G. Frankl

Secondo quanto appreso da Ynet, il Ministro Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra, volerà a Washington domenica prossima per una serie di incontri, senza però essersi coordinato con il primo ministro Benjamin Netanyahu.
   L’Ufficio del Primo Ministro ha espresso rabbia per la rivelazione di Ynet e ha chiarito che Gantz sta andando a Washinton senza l’approvazione del Primo Ministro, in contrasto con i regolamenti governativi, che “richiedono che ogni ministro coordini il suo viaggio in anticipo con il Primo Ministro, compresa l’approvazione del piano di viaggio”.
   Secondo i collaboratori di Netanyahu, “il Primo Ministro ha chiarito al Ministro Gantz che lo Stato di Israele ha un solo Primo Ministro”. Da Washington, Gantz dovrebbe proseguire per Londra.
   Il viaggio a Washington di Benny Gantz arriva in un momento in cui gli sforzi per assicurare un accordo per lo scambio di ostaggi sono in corso senza successo da tempo, e in mezzo a rivelazioni di stampa secondo cui il governo americano sta perdendo la pazienza per la condotta di Netanyahu nella guerra con Hamas oltre alle accuse di essere condizionato negativamente dai suoi partner di governo Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.
   All’inizio della settimana, il Presidente Joe Biden ha sottolineato che Israele deve perseguire la pace con i palestinesi per la sua sopravvivenza a lungo termine. Durante un’apparizione al “Late Night with Seth Meyers”, il Presidente ha avvertito che il “governo incredibilmente conservatore” del Paese rischia di perdere il sostegno internazionale.
   “Israele ha avuto il sostegno schiacciante della stragrande maggioranza delle nazioni. Se continua così con questo governo incredibilmente conservatore, con [il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar] Ben-Gvir e altri, perderà il sostegno di tutto il mondo, e questo non è nell’interesse di Israele”, ha dichiarato nell’intervista a Myers.

(Rights Reporter, 2 marzo 2024)
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Inverosimile non dire che la continuazione della guerra è voluta da oltre l’80% degli israeliani (di tutte le confessioni religiose) e non denunciare il sempre più evidente tentativo dell’Amministrazione USA di far cadere il governo democraticamente eletto di un paese amico. Emanuel Segre Amar

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L'ostilità dell'amministrazione Biden verso Israele cresce in vista delle elezioni americane

L'idea che Israele stia creando più terroristi combattendo il terrorismo, insieme alla richiesta di uno Stato palestinese, fa parte di una campagna per danneggiare Israele.

di Israel Kasnett

L'amministrazione Biden sembra essere sempre più ostile nei confronti di Israele dopo aver invertito la "Dottrina Pompeo", imponendo sanzioni ai coloni e a un'azienda che produce parti per il sistema Iron Dome di Israele, e passando a un linguaggio più duro per quanto riguarda la richiesta di un cessate il fuoco.
   C'è uno scollamento fondamentale tra la terra della fantasia politica di Washington e la realtà della vita in Israele dopo il 7 ottobre", ha dichiarato a JNS Richard Goldberg, consigliere senior della Fondazione per la Difesa delle Democrazie.
   Nonostante quello che il governo statunitense possa credere, "non c'è alcun percorso di pace senza che Israele distrugga tutte le rimanenti strutture di comando e controllo di Hamas a Gaza, riformi massicciamente l'Autorità Palestinese, smantelli l'UNRWA ed escluda i patroni di Hamas come il Qatar da qualsiasi coinvolgimento", ha affermato Goldberg.
   Come se non bastasse, a novembre si terranno le elezioni presidenziali statunitensi e l'amministrazione Biden teme di perdere voti chiave sostenendo Israele. Per paura di perdere il Michigan e altri Stati con un'alta percentuale di musulmani, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden sembra disposto a mettere a repentaglio Israele per ottenere il sostegno di un blocco di voti in cui l'odio per gli ebrei è molto diffuso.
   "Penso che stiamo assistendo a un momento di opportunismo in cui gli ideologi di sinistra alla Casa Bianca stanno usando il pretesto di un problema politico in Michigan e la prospettiva di una normalizzazione saudita-israeliana per far passare tutte le cattive idee politiche che sono state respinte per anni", ha detto Goldberg. "I numeri dei sondaggi del Michigan non giustificano la necessità di Biden di attaccare Israele, e Riyadh si preoccupa molto di più della difesa e degli impegni nucleari degli Stati Uniti che di una soluzione a due Stati".
   Se è vero che gli Stati Uniti hanno posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza, i funzionari della Casa Bianca si sono pronunciati contro un assalto di terra israeliano a Rafah e l'amministrazione Biden sta spingendo per una soluzione a due Stati, un'idea che la maggior parte degli israeliani attualmente rifiuta. La Knesset israeliana lo ha confermato quando si è espressa contro il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese.
   Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: "La Knesset si è espressa a grande maggioranza contro il tentativo di imporre la creazione di uno Stato palestinese. Il voto invia un chiaro messaggio alla comunità internazionale: il riconoscimento unilaterale non avvicina la pace, ma la allontana".
   I cittadini di Israele e i loro rappresentanti alla Knesset sono oggi più uniti che mai, ha dichiarato Netanyahu.
   "Abbiamo votato in modo schiacciante contro una mossa che metterà a rischio Israele e la realizzazione della pace prima di aver ottenuto una vittoria completa su Hamas", ha aggiunto.
   Il leader dell'opposizione israeliana Benny Gantz ha sottolineato che anche lui si oppone fermamente a passi che porterebbero al riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese. "Oggi abbiamo approvato a larga maggioranza una risoluzione alla Knesset che si esprime contro la proclamazione unilaterale di uno Stato palestinese. Dopo il 7 ottobre, sarebbe un errore dare un tale sostegno al terrorismo", ha dichiarato.
   L'amministrazione Biden sta anche ignorando importanti sondaggi, come quelli condotti dal Palestinian Centre for Policy and Survey Research, che mostrano che la maggior parte dei palestinesi sostiene Hamas.
   Oltre alle crescenti pressioni internazionali su Israele affinché accetti un cessate il fuoco e riconosca uno Stato palestinese a prescindere dal rilascio da parte di Hamas dei 134 ostaggi israeliani che detiene, numerosi critici accusano Israele di allevare una nuova generazione di terroristi mentre cerca di distruggere Hamas.
   In un recente programma televisivo, il comico Jon Stewart ha fatto questa affermazione. Anche il presentatore televisivo Piers Morgan e altri hanno ripetuto questo mantra.
   Tuttavia, il presidente dell'FDD, Clifford May, ha respinto questa affermazione, affermando che i palestinesi sono testimoni di ciò che sta accadendo a Gaza e sanno che il terrorismo non paga.
   "Anche se Hamas è solo indebolito, abbiamo visto alcuni gazesi esprimere questo cambiamento di opinione", ha affermato.
   "Considerato il sistema educativo delle scuole di Gaza gestite da Hamas, è improbabile che molti abitanti della zona siano favorevoli alla coesistenza pacifica con Israele, ma molti ora cambieranno idea perché gli israeliani si sono vendicati di Hamas per l'invasione e le atrocità del 7 ottobre", ha affermato.
   "Se Hamas vincerà la guerra che ha iniziato, i palestinesi probabilmente impareranno la lezione che il terrorismo paga, che i loro sacrifici erano necessari perché è l'unico modo per progredire verso la distruzione di Israele", ha aggiunto.
   May ha sottolineato che mentre Israele continua a decimare Hamas, i palestinesi stanno giungendo a una conclusione molto diversa da quella suggerita da personaggi come Stewart e Morgan.
   "Se Hamas non vince", ha detto May, "i palestinesi potrebbero giungere alla conclusione che il terrorismo è un vicolo cieco - in senso figurato e letterale".
   "Si chiederanno: per quale scopo Hamas ha portato questa distruzione su Gaza? Perché ha costruito tunnel per proteggersi e usare noi - civili innocenti, uomini, donne e bambini - come scudi umani?".
   Invece di unirsi alle file dei terroristi, ha detto May, forse i palestinesi dovrebbero "iniziare a pensare a delle alternative".
   L'idea che Israele stia creando più terroristi combattendo Hamas, unita alla spinta di Washington per uno Stato palestinese unilaterale e ad altre mosse apparentemente ostili, "equivale a una campagna BDS per costringere Israele a fare concessioni che mettono a rischio la sua sicurezza", ha detto Goldberg.
   Il presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, Mike Johnson (R-La), sabato ha rimproverato la Casa Bianca per la sua ostilità nei confronti di Israele.
   "L'amministrazione Biden deve smettere di minare Israele e di sostenere gli sforzi per delegittimarlo. È sbagliato e sconsiderato", ha twittato.
   "Questo deve essere condannato da entrambi gli schieramenti a Washington", ha affermato Goldberg.

(Israel Heute, 1 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Roberto Cenati annuncia le dimissioni irrevocabili dalla presidenza provinciale dell’Anpi Milano dopo la rottura con i circoli

Ha annunciato formalmente le sue dimissioni Roberto Cenati, che ormai da molti mesi vede i circoli di base dell’associazione dei partigiani prendere iniziative unilaterali senza consultarsi con i vertici. L’annuncio è stato dato all’assemblea cittadina dei circoli Anpi con poche parole, dopo alcuni giorni di sofferta riflessione. E in modo netto e pacato, com’è nel suo stile, Cenati ha sottolineato che questa decisione nasce da “motivi di dissenso politico”. Dopo il suo intervento, in sala è calato il gelo. Ma ora inizia un dibattito che si annuncia teso.
E’ noto infatti che spesso alcuni circoli milanesi, in aperto contrasto con la linea politica moderata e atlantista di Cenati, hanno preso iniziative in aperto contrasto, scendendo in piazza a fianco delle sigle antagoniste o, più di recente, con i movimenti pacifisti, anti militaristi e con quelli filo palestinesi. Cenati, che si riconosce fortemente nel solco della tradizione della sinistra italiana anti-fascista e democratica, ha apertamente criticato chi manifestava il suo dissenso alla guerra scendendo in piazza assieme a centri sociali, sindacati di base e frange estreme del mondo antisionista.
Gli episodi in cui i circoli si sono mossi autonomamente non si contano da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, fino al più recente conflitto in Palestina. Ma ci sono stati anche screzi legati a Milano, come il flash mob di un circolo Anpi a novembre davanti al Piccolo Teatro, dopo la nomina di La Russa nel cda. Cenati avrebbe volentieri evitato quel presidio. Oggi il presidente non vuole rilasciare dichiarazioni, anche perché non ha ancora fatto una scelta, ma non è un mistero che lui non condivida spesso le posizioni dell’Anpi nazionale guidato da Gianfranco Pagliarulo, che ha una linea politica molto più vicina per esempio ai movimenti pacifisti schierati contro l’invio delle armi all’Ucraina.
Qualche giorno fa, in un’intervista al Corriere della sera, Cenati aveva spiegato tutta la sua perplessità di fronte all’adesione di alcuni circoli Anpi alla manifestazione per Gaza di sabato scorso. Negli ultimi quattro mesi ha espresso forte solidarietà alla Comunità ebraica dopo i fatti del 7 ottobre, manifestando anche la sua irritazione verso i circoli “ribelli” che si uniscono a cortei dove serpeggiano anche slogan antisemiti, in mezzo alla protesta per i massacri a Gaza. Una posizione, dunque, molto difficile la sua, con la base che si ribella e che decide di testa sua a quali cortei e iniziative prendere parte.
Con le persone con cui si è confidato il presidente in carica dell’Anpi milanese ha confessato la sua contrarietà a trasformare l’associazione in un piccolo partito della sinistra, che deve prendere posizione su tutto. L’umore di Cenati è nero in questi giorni, ancora ieri confidava ad amici e collaboratori di essere allo stremo delle forze per le tensioni interne all’Anpi di Milano.
Le dimissioni annunciate oggi verranno formalmente discusse la prossima settimana al Comitato provinciale di Anpi Milano, cui spetta il compito di accettarle o rifiutarle.
Cenati è in carica da 13 anni e non si sente più appoggiato dai suoi iscritti, non è in sintonia con la sua base. E a quasi 72 anni, sempre più spesso racconta di essere stanco, di vivere una fase di stress personale. Avrebbe ancora tre anni di mandato. Ma ogni giorno negli ultimi due anni, dovendo governare un’associazione sempre più turbolenta, si è domandato chi glielo fa fare.
La comunità ebraica di Milano ha già fatto sapere di volergli tributare un’attestazione di solidarietà per il lavoro svolto in questi anni a favore del rispetto e della tolleranza, mentre il consigliere comunale Daniele Nahum annuncia di voler proporre Cenati per il prossimo Ambrogino d’Oro.

(la Repubblica, 2 marzo 2024)

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Il ritorno delle compagnie aeree farà abbassare i prezzi?

Diverse compagnie aeree riprenderanno i voli da Israele nel prossimo mese, ma non si prevede un’offerta di posti pari a quella dell’anno scorso.

Dopo un lungo periodo in cui molte compagnie aeree hanno evitato Israele a causa della guerra, diverse riprenderanno le operazioni all’aeroporto Ben Gurion nel prossimo mese. Tra queste Wizz Air, Cyprus Airways, Air India, United Airlines, ITA Airways, Brussels Airlines e EasyJet. Si prevede che altri voli verso Israele riprenderanno ad aprile, e all’inizio di maggio si aggiungerà Delta Air Lines.
   Nel frattempo, le compagnie aeree straniere che hanno già ripreso a volare verso Israele stanno aumentando la frequenza dei voli, tra cui Air France, Ethiopian, Flydubai e Lufthansa. La concorrenza sulle rotte aumenterà e gli israeliani sperano che questo faccia scendere il livello delle tariffe, attualmente elevato. Tuttavia, questo non significa ancora un’estate regolare per i viaggiatori: le compagnie aeree stanno tornando con esitazione e con un volume inferiore rispetto agli anni precedenti. La domanda locale di voli sta aumentando con l’avvicinarsi della festività della Pasqua ebraica, ma è ancora molto al di sotto di quella che era prima dello scoppio della guerra nell’ottobre dello scorso anno, mentre il turismo in entrata, ad eccezione dei mercati ebraici, è al minimo, il che influenzerà gli orari nella prossima stagione di viaggi.
   Il direttore generale di Arkia, Oz Berelowitz, afferma: “Per il prossimo periodo, fino a luglio, i voli per la Turchia e il Marocco, i voli dal Terminal 1 e le tariffe last minute sono stati tutti cancellati, e c’è un calo significativo dell’offerta di voli low-cost e dell’infinita gamma di destinazioni che c’era in passato”. Allo stesso tempo, Berelowitz descrive una domanda record per destinazioni vicine come Atene, Batumi, Montenegro, Tbilisi, Bucarest, Roma e Dubai.
   Per quanto riguarda il lungo termine, Berelowitz ritiene che sempre più compagnie aeree straniere torneranno al Ben Gurion, ma non con lo stesso volume dell’anno scorso. “La guerra crea modelli diversi nei sentimenti dei consumatori riguardo agli acquisti. L’incertezza e i timori per il futuro fanno sì che le persone rimandino gli acquisti fino all’ultimo minuto. La decisione viene presa su due piedi e la vacanza è molto breve.
   “Da una media di 4,5 notti nel febbraio 2023, siamo scesi a una media di 3,5 notti nel febbraio 2024. D’altra parte, siamo un Paese affollato e isolato, la voglia di uscire e rinfrescarsi cresce e quindi i numeri aumenteranno di settimana in settimana. I prezzi saranno più alti dell’anno scorso. La Pasqua e l’Eid al-Fitr coincidono, la Turchia è fuori dalla mappa e al Ben Gurion c’è solo un piccolo numero di compagnie aeree straniere”. Tali Noy, vicepresidente vendite e marketing dell’agenzia di viaggi ISSTA, afferma: “Tra le destinazioni vicine vediamo Atene, Budapest e Amsterdam protagoniste. Finora la tendenza prevalente è stata quella di prenotare viaggi a breve distanza a febbraio e marzo.
   “Anche l’estate comincia a riempirsi e ci aspettiamo un aumento sostanziale delle tariffe a causa dell’eccesso di domanda e della carenza di offerta di voli. Stiamo già assistendo a un forte aumento dei prezzi dei biglietti, e ci si può aspettare che questo valga anche per gli hotel, perché la domanda al di fuori di Israele è alta per la prossima estate”.
   Noy prevede anche un aumento della domanda per le destinazioni più lontane, con un aumento delle prenotazioni per New York e la Thailandia. Attualmente, El Al è l’unica compagnia aerea che opera diverse rotte verso gli Stati Uniti: circa 50 voli settimanali per New York, Boston, Miami, Los Angeles e Fort Lauderdale. United Airlines, che riprenderà a breve i voli per Israele, offre un solo volo giornaliero per New York.
   Fonti del settore affermano che il ritorno delle compagnie aeree straniere in Israele contribuirà ad abbassare le tariffe e che, anche se in questa fase stanno applicando prezzi elevati anche in relazione a se stesse, stanno dando battaglia a El Al. Alla fine sarà la concorrenza a dirlo e, man mano che crescerà, El Al dovrà abbassare i suoi prezzi. “Più compagnie aeree torneranno, più possibilità ci saranno per i voli in coincidenza, il che potrebbe abbassare ulteriormente le tariffe per gli Stati Uniti”, ha dichiarato una fonte dell’industria aeronautica.
   La Turchia non sarà un’opzione per gli israeliani quest’estate. L’uscita di Turkish Airlines dal mercato dell’aviazione israeliano lo ha cambiato radicalmente e, dall’inizio della guerra, gli aeroporti della Grecia e di Cipro hanno iniziato a sostituire Istanbul come destinazioni per i voli di collegamento verso ovest, mentre gli Emirati Arabi Uniti sono l’hub preferito per i voli di collegamento verso est.

(Israele360, marzo 2024)

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Commissione Ue, 50 milioni all'Unrwa: sconcerto di Israele

di Ugo Elfer

L’Unione europea procederà al pagamento di 50 milioni di euro all’Unrwa. L’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi vedrà aumentato il sostegno di 68 milioni nel 2024. È quanto comunica l’Esecutivo comunitario in una nota. Il 29 gennaio la Commissione europea aveva annunciato una valutazione dei finanziamenti all’Unrwa alla luce delle accuse su diversi membri del personale dell’agenzia negli attacchi del 7 ottobre. A seguito degli scambi con la Commissione, l’Unrwa ha indicato di essere pronta a garantire che venga effettuata una revisione del suo personale per confermare che non abbia partecipato agli attacchi e che siano messi in atto ulteriori controlli per mitigare tali rischi in futuro. Ha acconsentito all’avvio di un audit condotto da esperti esterni nominati dall’Ue, che esaminerà i sistemi di controllo per prevenire il possibile coinvolgimento del personale e delle risorse in attività terroristiche. L’Unrwa è d’accordo sul rafforzamento del suo dipartimento di investigazioni interne e della governance che lo circonda.
   La notizia del versamento di 50 milioni di euro all’Unrwa da parte dell’Ue ha destato lo sconcerto di Israele. Lo scorso 20 febbraio, l’ambasciatore israeliano all’Onu, Gilad Erdan ha pesantemente attaccato le istituzioni delle Nazioni Unite. “A Gaza Hamas è l’Onu e l’Onu è Hamas”. Erdan era intervenuto nella sessione del Consiglio di sicurezza nella quale gli Stati Uniti hanno posto il veto, per la terza volta, a una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco a Gaza, e ha criticato le recenti parole del coordinatore umanitario delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, secondo cui Hamas non è un gruppo terroristico, ma un movimento politico, “quando tutti sappiamo che si tratta di un’organizzazione terroristica”. Il diplomatico aveva anche criticato Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, per aver affermato che gli attacchi del 7 ottobre contro Israele non sono stati un esempio di antisemitismo, poiché non commessi contro gli ebrei in nome della loro religione, ma contro l’occupazione israeliana della Palestina. Per quanto riguarda la stessa Unrwa, Erdan era arrivato a dire che “il 12 per cento dei suoi dipendenti sono membri di Hamas, e almeno 236 di loro sono terroristi attivi in questa organizzazione, il che prova che l’Unrwa è parte della macchina terroristica di Hamas, e che ne fa un’organizzazione terroristica”.

(l'Opinione, 1 marzo 2024)

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Joe Biden è in un vicolo cieco

Ha perso la fiducia di Gerusalemme ed è odiato dagli arabi

di Gianni Pardo

I giornali dicono che, malgrado le sue pressioni su Israele in favore dei palestinesi, Joe Biden probabilmente non sarà votato dagli arabo-americani, e questo potrebbe costargli la Casa Bianca. I musulmani gli rimproverano di non avere costretto Israele a piegarsi ai diktat di Hamas, dimenticando che il Presidente degli Stati Uniti non ha questo potere. Israele è uno Stato indipendente, oggi sufficientemente forte per dire di no a chi non si fa i fatti suoi. Poi gli arabi rimproverano a Biden di essere rimasto, almeno formalmente, pro-israeliano. Ed anche in questo caso dimenticano che si può sognare che la Luna sia quadrata, come spesso fanno loro, e pretendere che altri se ne convincano, ma altrettanto non può fare il Presidente degli Stati Uniti. La verità è troppo lampante per poterla travisare. E questa verità dice che non Israele ha aggredito Gaza, ma l'inverso. Gaza ha prima aggredito Israele per anni (con i razzi) e il 7 ottobre scorso col più macroscopico casus belli che si ricordi nei secoli recenti. Dunque Gaza è l'aggressore, e Biden non può trattare Israele da aggressore.
  A Gaza si combatte una guerra secondo i canoni di Hamas. Infatti, dal suo lato, niente esercito regolare. Niente divise. Niente distinzione fra obiettivi civili e obiettivi militari. Niente applicazione delle norme delle Convenzioni di Ginevra. Israele, per vincere questa guerra, non può andare per il sottile. Cerca di risparmiare i civili, ma non può occuparsi né del loro benessere, né della salvaguardia delle loro case o dei loro ospedali, totalmente trasformati in obiettivi militari. In una situazione del genere Biden, più di quanto ha fatto, non poteva fare.
  Ma si può dire di più. Oggi, come sempre, per avere il favore degli arabi (non importa se americani o mediorientali) bisogna accettare dei presupposti inaccettabili: che Israele non esiste; che l'entità sionista deve essere distrutta dal fiume al mare; che la Palestina appartiene solo ai palestinesi; che Israele ha aggredito Hamas; che gli arabi hanno sempre ragione, checché facciano, e gli israeliani sempre torto, checché facciano.
  Invece qui chi ha torto è Joe Biden. Avrebbe dovuto sapere sin dal principio che mai e poi mai avrebbe ottenuto il sostegno degli arabi, perché un Presidente degli Stati Uniti non può sostenere programmi criminali come quelli di Hamas. Ecco la riprova: se non ci fosse di mezzo l'antisemitismo, e se Israele, sostenuta dagli Stati Uniti, dichiarasse che ha il programma di uccidere tutti i palestinesi, si può dubitare che il mondo alzerebbe un unanime grido di orrore? E allora come mai non c'è nessuna espressione di orrore per lo statuto di Hamas?
  Il Presidente di uno Stato decente non può né sostenere simili programmi, né allearsi con chi li sostiene. E avrebbe dovuto dirlo subito, alto e forte, presentandosi come il portabandiera dei valori occidentali; invece è sembrato flirtare con i palestinesi, per giunta senza ottenere nulla da Israele, se non dei fermi no, equivalenti a porte sbattute in faccia. Joe Biden avrebbe dovuto sapere che Israele non è più lo Stato malfermo che ha vinto per miracolo nel 1948, e quello che, in altre occasioni, ha ceduto alle ingiunzioni degli Stati Uniti. Gli anni sono passati e Israele è cresciuta fino a divenire un piccolo gigante militare, con cui nemmeno il reboante Iran osa confrontarsi. Ma non l'Iran soltanto. Nessun Paese arabo ha osato fornire sostegno militare a Gaza, l'Egitto ha anzi minacciato di accogliere a cannonate i gazawi che volessero fuggire nel Sinai.
  In queste condizioni, che avrebbe dovuto fare, Biden? Constatato che il campo del disonore (dare ragione a chi ha torto) non sarebbe stato in ogni caso produttivo, doveva scegliere risolutamente il campo dell'onore, cioè non il sostegno ai terroristi aggressori, ma il sostegno ad una democrazia che, aggredita, osa difendersi. Avrebbe perduto il sostegno degli arabi-americani? Sì. Ma, agendo diversamente e implorando ogni giorno Israele di non vincere la guerra, ha forse ottenuto il loro sostegno?
  Ci sono momenti della storia in cui certe frasi incombono come un Fato spietato, cui nessuno può sfuggire. Qui vanno citate le parole di Churchill dopo il Convegno di Monaco del 1938: «Britain and France had to choose between war and dishonour. They chose dishonour. They will have war»; l'Inghilterra e la Francia dovevano scegliere fra la guerra e il disonore. Hanno scelto il disonore. E avranno la guerra». Nel nostro caso, Biden ha scelto la parte che ha torto, la parte incontentabile e non ne ha ricavato nulla. Forse, anche per questo, non sarà rieletto. Non avrebbe fatto meglio a schierarsi con chi aveva ragione, come del resto ha fatto per l'Ucraina? Perché mai bisogna sfidare la Russia, potenza nucleare, e inchinarsi poi davanti agli arroganti che rifiutano la pace da settantasei anni? Per una volta che l'interesse e l'onore convergevano, non era difficile evitare di sbagliare. Ma – a quanto pare – l'errore deve avere un suo fascino irresistibile.

(ItaliaOggi, 1 marzo 2024)

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Parashà di Ki Tissà: Cos’è la libertà

di Donato Grosser

Quando Moshè scese dal monte dopo la rivelazione del Sinai egli portò con sé le tavole della legge. Nella parashà è scritto: “Moshè si dispose a discendere dal monte, recando in mano le due tavole della testimonianza, tavole scritte dai due lati, scritte sull’una e sull’altra faccia. Queste tavole erano opera divina e i caratteri incisi sulle tavole erano caratteri divini” (Shemòt, 32: 15-16).
     ​Questo versetto è oggetto di interpretazione nei Pirkè Avòt (Massime dei padri, 6:2). R. Yehoshua’ ben Levi, riferendosi alle parole “inciso sulle tavole”(nel testo “charùt ‘al ha-luchòt”), afferma: “Non leggere charùt (inciso), ma cherùt (libertà), perché l’uomo non è mai così libero come quando si occupa dello studio della Torà”.
    ​R. Shimshon Refael Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) nel suo commento ai Pirkè Avòt scrive: “Proprio come la Torà ci nobilita, così anche il suo studio veramente devoto ci rende liberi, liberi da errori, liberi dalle tentazioni dei desideri fisici e liberi dall’oppressione della moltitudine di preoccupazioni e tribolazioni della vita di ogni giorno”.
    ​R. Mayer Twersky (Boston, n. 1960) in Insights and Attitudes (p. 124) osserva che il commento dei Maestri a prima vista è sconcertante sia dal punto di vista metodologico sia nella sostanza. Dal punto di vista metodologico perché essi generano artificialmente una derashà cambiando la vocalizzazione di una parola (da charùt e cherùt). Dal punto di vista della sostanza perché apparentemente la Torà con le sue mitzvòt proscrittive (che proibiscono) viene a limitare la libertà e non a darla.
    ​R. Twersky, per risolvere la questione, cerca una definizione della parola libertà. Parafrasando la definizione del dizionario Webster egli scrive: “Superficialmente la libertà implica (entails in inglese) la liberazione dal controllo e dalle richieste di alcune persone o potere”. Sembra quindi ironico che lo studio della Torà venga rappresentato come la via verso la libertà. In verità tuttavia l’autentica libertà non dipende solo dalla liberazione politica, ma principalmente dalla liberazione interna. L’autentica libertà implica libertà dagli istinti e dalle passioni. Una persona che è ostaggio della propria ira, o che non è capace di frenare il suo desiderio del piacere fisico, o che è sempre spinto a cercare onore e ricchezze, potrà esser libero dal punto di vista politico ma conduce una vita da bruto.
    ​Al contrario, una persona che raffina i suoi istinti e le sue passioni e si nobilita, e facendo così si impegna a seguire la volontà divina, è una persona veramente libera. Lo studio della Torà conduce a un’autentica libertà esistenziale in due modi. In primo luogo l’atto di studiare Torà e di assimilare la parola divina, purifica ed eleva lo spirito. Questo vale per ogni parashà della Torà ed ogni argomento del Talmud. Ma è doppiamente vero riguardo ai principi fondamentali dell’ebraismo, il cui studio fornisce un’addizionale consapevolezza di libertà.
    ​R. Shimshon Nachmani (Modena, 1706-1778, Reggio Emilia) nel suo commento ai Pirkè Avòt risolve il dilemma in modo diverso. Chi non si occupa di Torà è servo del suo istinto. E chi si occupa di Torà è ugualmente servo, ma del suo Creatore. Per questo il testo dei Pirkè Avòt continua con le parole “E colui che si occupa di Torà, si eleva”. Nonostante che in un modo nell’altro egli sia un servo, esser servo dell’Eterno è una grande cosa perché, come dice il proverbio, il servo di un re è anche un re.

(Shalom, 1 marzo 2024)


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Parashà della settimana: Ki Tissà (Esodo 30:11-34:35)

di Marcello Cicchese

"Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio" (Esodo 31:18).
Con queste parole si concludono i primi quaranta giorni e quaranta notti trascorsi da Mosè con l'Eterno sul monte Sinai. Il verbo originale qui tradotto con "finire" (calah, כלה) è usato per la prima volta nella Genesi: "Così furono portati a compimento (calah) il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Dio, nel settimo giorno portò a compimento (calah) il lavoro che aveva fatto" (Genesi 2:1-2). Quindi il testo dell'Esodo potrebbe essere reso in questo modo: "Quando l'Eterno ebbe portato a compimento il suo parlare a Mosè ecc.".
Le parole che Dio dice a Mosè sul Sinai costituiscono dunque un discorso compiuto, in sé perfetto, a cui non c'è nulla da aggiungere, così come non c'è nulla da aggiungere alle parole con cui Dio ha creato il cielo e la terra. Alla fine del suo discorso Dio consegna a Mosè due tavole di pietra, da Lui stesso tagliate, su cui ha scritto col suo dito le "dieci parole" (Deuteronomio 4:13). Sono dette "tavole della testimonianza" perché la pietra di cui sono formate avrà il compito di essere un testimone muto del patto stipulato tra Dio e il popolo. Qualcosa di simile avvenne nel patto di non aggressione che stipularono Labano e Giacobbe prima di separarsi. "Giacobbe prese una pietra, e la eresse in monumento. E Giacobbe disse ai suoi fratelli: 'Raccogliete delle pietre'. Ed essi presero delle pietre, ne fecero un mucchio... E Labano disse: 'Questo mucchio è oggi testimonio fra me e te'" (Genesi 31:45-55).

QUAL È IL DONO?
Se si vuol parlare di "dono della Legge", si deve dire che il dono che Dio fa al popolo è proprio questo: le due tavole di pietra, tagliate e lavorate dalle Sue mani, scritte col Suo dito, insieme alle parole che le hanno accompagnate.
Ma il vero dono che Dio fa al popolo non è questo, così come il vero dono che uno sposo fa alla sposa non è l'anello che le infila al dito il giorno delle nozze: quello è soltanto un testimonio muto del dono di sé che l'uomo fa alla donna, ricevendone a sua volta un dono simile, in un legame d'amore che in quanto tale è pensato e dichiarato infrangibile. È nella prima notte di matrimonio che comincia ad esprimersi questo dono, quando ciascuno dei due si mostra all'altro senza gli abiti di copertura che servono a proteggere dai pericolosi sguardi di chi non ama.
Questo dono di Sé al popolo il Signore l'ha fatto quando sulle pendici del monte Sinai si è fatto vedere nella sua gloria dai settanta anziani d'Israele (Esodo 24:9-11), senza "stendere la mano" contro di loro, perché poco prima si era collegato al popolo in un patto di sangue che era un vincolo d'amore.

SEGNI DISTINTIVI
Questo dono di Sé, unico in tutta la storia dell'Antico Testamento, è un fatto di grandezza eccezionale; la sua importanza è molto sottovalutata dai commentatori. Qui abbiamo uno dei segni che rendono unico il popolo ebraico, perché nella sua storia ha visto qualcosa che nessun altro popolo ha mai visto. E' un segno indelebile, perché il fatto di aver visto non può essere cancellato da quello che avviene dopo.
Un altro segno che rende unico il popolo ebraico è descritto in questa parashà: nessun popolo ha commesso un atto di idolatria così grave come quello compiuto da Israele all'inizio della sua storia d'amore col Signore. Nei commenti ebraici si cerca in vari modi di diminuirne la gravità, ma non è assolutamente possibile. Come avvenne nel giardino di Eden, nel silenzio di Dio, l'uomo ha preso l'iniziativa e con la sua azione ha infranto il patto su cui si fondava il suo rapporto d'amore col Signore.
Dio allora comunica a Mosè la sua intenzione di distruggere il popolo; ma alla fine non lo fa. Se si giudica coi nostri metri, qualcuno potrebbe dire che il Signore ha un carattere emotivamente instabile: prima dice di voler fare di questo popolo il suo tesoro particolare, poi dice di volerlo distruggere, poi ci ripensa e non lo fa. Dio certamente ha emozioni, ma le esprime sempre nei limiti della sua giustizia. Il rapporto con gli uomini è sempre, in primo luogo, di carattere giuridico. L'accordo fatto con Israele era un patto di sangue, dunque il trasgressore doveva morire. Indipendentemente dalle emozioni, Dio manifesta il proposito di dar corso a questa forma di giustizia. Ma a questo punto interviene un "cavillo giuridico" di cui deve tener conto: è Mosè a presentarglielo.

L'INTERVENTO DI MOSÈ
Mosè è parte del popolo, ma non ha partecipato al peccato. Che fare? Dio fa a Mosè questa proposta: staccati dal popolo, lascia che io lo distrugga e "io farò di te una grande nazione" (Esodo 32:10). Proposta allettante, ma era la stessa che Dio aveva fatto ad Abramo (Genesi 12:1-3). Mosè glielo fa tornare alla memoria: "Ricordati di Abraamo, di Isacco e di Israele..." , e lo invita a pentirsi dei suoi propositi (Esodo 32:11-13). Risultato: "L'Eterno si pentì del male che aveva detto di fare al suo popolo" (Esodo 32:14).
Apparentemente, Dio si è rimangiato la parola. Ma anche nell'Eden era successo qualcosa di simile; Dio aveva detto all'uomo: "Nel giorno che ne mangerai, certamente morrai" (Genesi 2:17); eppure l'uomo ne mangiò e in quel giorno non morì. Ma in quel giorno, come dice l'apostolo Paolo, entrò nel mondo la morte: "... per mezzo d'un sol uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato v'è entrata la morte, e in questo modo la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" (Romani 5:12).
In modo simile, l'adorazione idolatrica del vitello d'oro, all'inizio del rapporto d'amore con Dio, ha fatto entrare la morte nella storia del popolo ebraico. Non è forse questo un carattere peculiare di questo popolo: dare l'impressione di essere sempre sul punto di morire; far nascere in molti il pensiero che sia degno di morire, e in altri la voglia stessa di vederlo morire? Ma questo non è avvenuto; e non avverrà, perché questo popolo porta in sé un altro segno distintivo: quello della risurrezione dai morti.
Tornando alla figura di Mosè, si può osservare che in lui giocano due parti, una divina e una umana: rappresenta Dio davanti al popolo e rappresenta il popolo davanti a Dio. Sul monte Sinai Mosè gioca la parte del popolo e chiede a Dio di desistere dalle sue intenzioni genocide. Quando poi scende in pianura e vede il popolo gozzovigliare nell'idolatria, si mette dalla parte di Dio e rompe clamorosamente le tavole della testimonianza. Le tavole adesso sono rotte, ma continuano ad essere tavole di testimonianza; solo che invece di testimoniare di un patto concluso, adesso testimoniano di un patto rotto. E' in questo momento che Mosè prende coscienza dell'ira di Dio e se ne rende partecipe: ordina di colpire con la spada tutti coloro che sono coinvolti attivamente nell'orgia idolatrica.

UN PECCATO PERDONATO?
Il giorno dopo Mosè torna dall'Eterno, ma stavolta non per rimproverarlo. Ora capisce la gravità di quello che il popolo ha fatto; capisce le ragioni dell'ira di Dio e semplicemente, umilmente, chiede a Dio di concedere al popolo il suo perdono. Mosè dunque si mette di nuovo dalla parte del popolo, senza coinvolgersi nel suo peccato. Ai suoi fratelli dice: "... forse otterrò che il VOSTRO peccato sia perdonato" (Esodo 32:30); a Dio dice: "... perdona ora il LORO peccato" (Esodo 32:32). Mosè dunque sottolinea di non avere peccato, e tuttavia non prende le distanze dal popolo, ma è pronto a seguirne le sorti: "... altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto" (Esodo 32:32).
Prima Mosè aveva posto al Signore una questione di coerenza, ricordandogli il patto con Abramo, ora gli pone una questione di giustizia: può Dio cancellare, insieme al popolo peccatore, un uomo che fa parte del popolo ma non è stato partecipe del suo peccato?
Il Signore prende in considerazione l'istanza di Mosè e gli concede di non sterminare il popolo. Ma non dice che perdonerà. Alle suppliche di Mosè, Dio risponde con una concessione, non con il perdono: "Ora va', conduci il popolo dove ti ho detto. Ecco, il mio angelo andrà davanti a te; ma nel giorno che verrò a punire, io li punirò del loro peccato" (Esodo 32:34).
In nessuna parte dell'Antico Testamento si dice che Dio abbia perdonato al popolo il peccato del vitello d'oro. Potrebbe essere questo il "peccato originale" di Israele, che il mondo cerca continuamente e molti dicono di aver trovato, chi qui chi là? Forse, ma se è così, è un peccato contro Dio, non contro gli uomini. Ed è un peccato a cui Dio stesso si è preoccupato di porre rimedio. Quale? Per capirlo bisogna aspettare il seguito. Fino alla venuta del Messia.

(da "Sta scritto", pp. 138-143)

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Verona – L’emozione del Bar Mitzvah

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Bar Mitzvah a Verona di David Harkatz Gaida
A distanza di alcuni anni dall’ultima volta nella sinagoga di Verona si è celebrato un Bar Mitzvah, la cerimonia di ingresso nella maggiorità religiosa ebraica che i maschi raggiungono all’età di 13 anni. A compiere il grande passo è stato David Harkatz Gaida, preparato negli studi dal rabbino della città Tomer Corinaldi. “È stata una cerimonia commovente, non consueta per una piccola comunità come la nostra”, spiega il padre del ragazzo, il tenore italo-argentino Angel Harkatz. “In sinagoga c’erano tanti amici non solo veronesi ma anche di altre comunità, venuti anche da lontano per condividere la nostra gioia. È stata una giornata indimenticabile. Mia moglie Georgia e io siamo riconoscenti a chi l’ha resa possibile: oltre al rav e a sua moglie Zohar per il loro prezioso aiuto, al Consiglio comunitario per la generosa partecipazione, ai parenti e amici accorsi”. David è diventato Bar Mitzvah lo scorso Shabbat, leggendo in sinagoga la parasha Tetzavvé, la ventesima porzione settimanale della Torah. Il giorno dopo ha indossato per la prima volta i Tefillin, i filatteri che si legano sul braccio sinistro e sulla testa.

(moked, 1 marzo 2024)

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Shin Bet e polizia di Gerusalemme sventano un piano terroristico coordinato con Hamas a Gaza

Lo Shin Bet e l'Unità centrale della polizia distrettuale di Gerusalemme hanno rivelato giovedì un complotto terroristico sventato, pianificato da due terroristi in coordinamento con un terrorista di Hamas a Gaza.
   Le due agenzie hanno aperto un'indagine sui due uomini all'inizio di febbraio, dopo che erano stati sollevati sospetti sul fatto che i due individui avessero contattato un agente straniero e complottato per commettere terrorismo.
   Lo Shin Bet e la polizia distrettuale di Gerusalemme hanno scoperto il complotto utilizzando agenti sotto copertura. Il 6 febbraio 2024, gli investigatori del dipartimento di polizia del distretto di Gerusalemme e un'unità sotto copertura della polizia di Gerusalemme hanno arrestato i due sospetti.

• I sospetti di Nablus arrestati
  Uno dei terroristi è un 17enne israeliano residente a Shuafat, Gerusalemme Est, che lavorava insieme al cugino, il secondo terrorista, un 29enne palestinese residente a Nablus. Con l'aiuto dell'IDF, il terrorista più anziano è stato arrestato e preso in custodia. I due sospetti sono stati interrogati e la loro detenzione è stata prolungata.
   L'indagine della polizia ha rivelato che i terroristi avevano contattato di propria iniziativa un membro di Hamas nella Striscia di Gaza prima dello scoppio della guerra tra Israele e Hamas.
   Il minorenne ha cercato di compiere un attacco terroristico contattando membri di Hamas per imparare a produrre materiali esplosivi. Ha anche cercato su Internet istruzioni su come costruire bombe e ha usato Telegram per conversare con il membro di Hamas.

• Negoziazione con un terrorista di Hamas
  Il giovane terrorista ha contattato il cugino, gli ha raccontato il suo piano e gli ha chiesto di negoziare con il terrorista di Hamas, identificandosi come parte di una cellula terroristica che voleva compiere attacchi contro gli israeliani. Il terrorista più anziano ha accettato di aiutare il terrorista più giovane e si è assunto la responsabilità di continuare i contatti e i negoziati con il terrorista di Hamas a Gaza.
   Oltre a ricevere istruzioni su come fabbricare esplosivi, i terroristi hanno cercato di ottenere armi e finanziamenti per realizzare una sparatoria e un attentato contro gli israeliani. Dopo lo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, i contatti tra i due terroristi e gli operativi di Hamas a Gaza sono stati interrotti.
   Con la conclusione delle indagini, sono state raccolte prove contro i due terroristi e all'inizio di questa settimana è stata depositata la dichiarazione del procuratore contro di loro. La loro detenzione è stata prolungata e, giovedì mattina, l'ufficio del procuratore ha annunciato che sarebbe stata presentata un'accusa contro i due terroristi.

(Info-Israele.news, 1 marzo 2024)

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Festival di Sanremo e oltre: sono solo canzonette? ®

Ebbene no, il caso Ghali lo dimostra

di Paolo Salom

[Voci dal lontano occidente] Quando ero bambino, nel lontano Occidente, il ricordo della Shoah era ovunque. E l’antisemitismo, che pure covava in molte anime, era comunque un sentimento da nascondere, un’idea che suscitava orrore per il senso comune. Mai più, si diceva, mai più l’odio contro gli ebrei tornerà a correre nella nostra società, in Europa, nel mondo. Già, il mondo: allora era diviso in due. E l’Unione Sovietica sosteneva con parole e fatti l’unica parte di umanità che ancora sognava di distruggere gli ebrei, tutti, non soltanto Israele: sosteneva gli arabi.
   Molte cose sono cambiate da allora. Alcune in meglio: lo Stato ebraico, a dispetto di una situazione di conflitto permanente e di tragedie ripetute, continua a progredire, a crescere, a vivere. Diversi Paesi arabi hanno firmato la pace con lo Stato ebraico, altri sono pronti a farlo. In Occidente, invece, il tempo sembra essere fluito al contrario. L’antisemitismo è riemerso nelle forme più odiose. Oggi viene chiamato antisionismo ma il significato è il medesimo. Gli odiatori degli ebrei e di Israele sono tornati a farsi vedere, a testa alta, nelle nostre strade, nei nostri quartieri, nelle scuole e nelle università. Agli ebrei è consigliato di non mostrare pubblicamente forme di religiosità che possano rivelare la loro identità. Capita che giovani e meno giovani siano aggrediti e picchiati, qualche volta ci scappa il morto (è successo a Los Angeles, qualche mese fa, quando un pensionato che manifestava per Israele è stato colpito sulla testa con un megafono da un docente di origine araba).
Qualcuno dirà: questo odio è di importazione, è arrivato insieme ai milioni di immigrati musulmani che hanno lasciato i loro Paesi per rifarsi una vita nel lontano Occidente. Sarà anche vero: ma per noi cosa cambia? Cosa cambia se un cantante famoso come Ghali (di famiglia tunisina) può permettersi, senza contraddittorio alcuno, di vomitare le sue menzogne (“fermate la guerra, fermate il genocidio!”) dal palco di Sanremo, mentre metà Italia (e chissà quanti altri Paesi collegati) ascoltano nei loro salotti le amene canzonette i cui motivi entrano subito nelle orecchie?
   Che cosa cambia per noi quando il sistema mediatico (e badate: in Italia siamo messi molto meglio che altrove) ripete senza verifica alcuna le menzogne diffuse da Hamas e i loro padroni (leggi: Iran) su quanto accade a Gaza? I pochi, non soltanto ebrei, che osano dire la verità – e cioè che a Gaza non c’è stato alcun genocidio ma solo una guerra che Israele ha dovuto fare per la propria sopravvivenza e dopo essere stato attaccato – sono immediatamente aggrediti e messi all’indice come “servi dei sionisti”. In poche parole, un mondo all’incontrario, proprio come negli anni fatali del nazismo e del fascismo, dove chi lotta per il bene è considerato “il male assoluto”, e chi cerca il vero genocidio, quello degli ebrei (di nuovo!), è un “combattente per la libertà”.
   È certo comprensibile che molti tra noi siano spaventati. Il futuro per la diaspora è tornato a mostrare nuvole oscure. Questa guerra, provocata ad arte con una crudeltà mai vista dai tempi tragici della Seconda guerra mondiale, ha scatenato le forze più malvagie dell’umanità, ha riportato il mondo all’epoca di violenze e pogrom inventati ad arte per nascondere i fallimenti e le mancanze di altri. Noi siamo un obiettivo facile. Ma abbiamo la forza della consapevolezza con noi: non siamo soli, e Israele è lì, solido e vitale, il nostro scudo dal male.

(Bet Magazine Mosaico, 1 marzo 2024)

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Oslo antisemita

di Giulio Meotti

La "catena per la pace" dei musulmani norvegesi di fronte alla sinagoga di Oslo. Dietro a una manifestazione come questa, dove la parola "pace" viene usata al posto di "distruzione di Israele", c'è la Norvegia: il paese europeo in assoluto più ostile a Israele.
   “Per favore, boicottate il mio paese”, ha scritto mercoledì sul Wall Street Journal Torkel Brekke, professore di Storia delle religioni all’Università di Oslo. E’ successo che mentre la Cina diventava il principale partner della Norvegia nella ricerca tecnologica, superando Stati Uniti e Regno Unito, quattro istituzioni accademiche in Norvegia sospendevano le collaborazioni con le università israeliane. L’Università di Oslo ha interrotto i legami con l’Università di Haifa. L’Università di Notodden ha interrotto i rapporti con l’Università di Haifa e l’Hadassah College di Gerusalemme. L’Università di Bergen ha cessato di collaborare con l’Accademia di arti Bezalel, così come la Scuola di architettura di Bergen. La Norvegia è il paese più antisraeliano dell’emisfero occidentale. Il Consiglio comunale di Trondheim, la terza città più grande del paese, ha approvato una mozione che chiede ai residenti di boicottare personalmente i beni israeliani, una città che aspira a essere “deisraelizzata”. Poi è stata la volta di un’altra città norvegese, Tromso, il cui Consiglio comunale ha approvato una mozione simile. Tromso, la città dove i turisti da tutto il mondo vanno a vedere l’aurora boreale, è gemellata con Gaza e ha ospitato anche funzionari di Hamas in visita. Quando arrivarono i nazisti, i norvegesi gli consegnarono tutti gli ebrei di Tromso, dove oggi sono rimasti soltanto due ebrei.
   Nonostante gli ebrei in Norvegia siano solo lo 0,003 per cento della popolazione totale, Oslo è ormai la capitale dell’antisemitismo europeo.
   Tutte le università norvegesi si sono rifiutate di ospitare Alan Dershowitz per un giro di conferenze. II sindacato norvegese che rappresenta i lavoratori dell’energia e delle telecomunicazioni ha boicottato l’Histadrut, il sindacato israeliano.
   “Sono profondamente turbato nel constatare che una moderna forma di antisemitismo si sta diffondendo nel mio paese”, scrive Brekke sul Journal. “Sebbene mascherato sotto un altro nome – ‘antisionismo’ – le sue radici sono rintracciabili in un ben documentato apparato sovietico di propaganda anti israeliana e anti occidentale. Questa ideologia velenosa è una minaccia per gli ebrei. “Nel frattempo, il settore norvegese della ricerca e dell’innovazione si è affrettato ad approfondire la cooperazione con la Cina”.
   “La Norvegia è uno dei paesi più aggressivi al mondo contro Israele”, dice Brekke al Foglio. “Nel 1967 la Norvegia ha visto l’ascesa di una sinistra radicale per la quale i palestinesi erano un simbolo. Qui c’è una ambizione globale a guidare la lotta contro Israele: l’antisionismo è diventato parte del mainstream. Potevi già trovare negli anni Ottanta richieste di boicottaggio d’Israele. Ma oggi a causa della guerra a Gaza nelle università ci sono voci apertamente a favore. Dagli anni 70 ai Duemila, come in Unione sovietica, qui c’era una posizione antisionista classica. Oggi descrivono Israele come un progetto coloniale da smantellare con il ritorno dei rifugiati. Dopo il 7 ottobre abbiamo avuto una esplosione di simboli palestinesi sui social. Vorrebbero un felice stato multiculturale al posto di Israele, uno stato utopico, ‘oh non vogliamo vedere gli ebrei morire ma uno stato unico per arabi ed ebrei’, c’è molta naïveté. C’è una piccolissima comunità ebraica in Norvegia, molto vulnerabile, sotto attacco ed è uno choc. Molti pensano che non hanno un futuro qui”.
   E mentre il grande quotidiano nazionale Aftenposten scrive che “la Norvegia rischia di diventare un paese senza popolazione ebraica”, il rabbino capo di Oslo, Yoav Melchior, questa settimana dice: “Mai tanto antisemitismo dai tempi del nazismo”.

Il Foglio, 1 marzo 2024)

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I capisaldi della propaganda

Chi, sano di mente e addetto alla propaganda ne modificherebbe dei capisaldi che funzionano assai bene?
   Quello che è accaduto oggi a Gaza, dove 38 camion pieni di viveri sono stati assaliti dalla folla è diventato l’ennesimo atto di accusa contro l’IDF, responsabile secondo Hamas (secondo Hamas…) di avere sparato intenzionalmente sui civili causando la morte di cento di loro. Non sarebbe stato il sovraffollamento della calca a causare i morti, ma l’intento omicida dell’esercito israeliano.
   Nel pieno corso della Seconda Intifada, aprile 2002, vi fu a Jenin un combattimento virulento tra esercito israeliano e palestinesi. Gli israeliani vennero accusati di avere ucciso deliberatamente 500 persone, che presto aumentarono esponenzialmente, raggiungendo, secondo la solerte voce di Ahmed Abdel Rahman, allora Segretario generale dell’Autorità Palestinese, l’ordine delle migliaia. Si parlò di genocidio. Prima che le cifre reali dei deceduti venissero rese pubbliche, 53 palestinesi e 23 soldati israeliani, la versione falsa del massacro era stata diffusa con successo.
   Lo stesso anno il regista arabo israeliano Mohammad Bakri realizzò un film dal titolo, Jenin, Jenin nel quale i soldati israeliani venivano mostrati come assassini a sangue freddo che sparavano su donne, anziani e bambini. Portato successivamente in tribunale dai soldati reduci dell’episodio, il regista dichiarò che la sua versione dei fatti era “artistica”, ovvero intesa a presentare la “verità palestinese”, in altre parole, a farsi megafono della propaganda.
   Il 18 ottobre scorso a Gaza, l’esplosione che aveva causato un incendio all’ospedale Al Ahli, causata da un razzo lanciato male dalla Jihad islamica, venne subito attribuita a un bombardamento volontario di Israele. I morti, dai presunti 500 annunciati da Hamas, diventarono poco più di 10, ma prima che fosse resa pubblica la verità dei fatti, la fake news aveva già fatto il giro del mondo.
   Hamas ha solo una possibilità di sopravvivere nella Striscia, e questa possibilità è l’interruzione della guerra, senza questa opzione non ha alcuna possibilità di potere avere la meglio sull’esercito israeliano. Per questo motivo, più ci sono morti civili, più Hamas può lucrare sulla pressione internazionale affinché Israele interrompa l’operazione militare conseguenza dell’eccidio del 7 ottobre. Più Israele viene considerato programmaticamente omicida, meglio è.
   La presentazione distorta dei fatti e la criminalizzazione di Israele è un elemento fondamentale per riuscire nell’intento.

(L'informale, 29 febbraio 2024)

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Israele: operazione di terra contro Hezbollah a primavera?

Israele sta preparando una operazione di terra contro Hezbollah a primavera? Funzionari vicini al Presidente degli Stati Uniti Joe Biden temono che Israele stia pianificando di lanciare un’operazione di terra contro Hezbollah in Libano nei prossimi mesi, secondo quanto riportato dalla CNN.
Secondo il rapporto, l’amministrazione Biden ha tenuto briefing di intelligence sulla questione, preparandosi alla possibilità che il gruppo terroristico Hezbollah, sostenuto dall’Iran, non possa essere convinto a ritirarsi dal confine attraverso misure diplomatiche.
Parlando con la CNN a condizione di anonimato, un funzionario ha dichiarato che l’amministrazione Biden “opera nell’ipotesi di un’operazione militare israeliana nei prossimi mesi”.
Il funzionario aggiunge che non si aspetta un’operazione imminente “nelle prossime settimane”, ma “forse in primavera”.
Dall’8 ottobre, Hezbollah ha scambiato il fuoco con l’esercito israeliano attraverso il confine meridionale del Libano, a sostegno del suo alleato palestinese Hamas, che ha lanciato un devastante attacco in Israele il 7 ottobre.

(Rights Reporter, 29 febbraio 2024)

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Tunisia: folla assalta una sinagoga abbandonata

di Nathan Greppi

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Domenica 26 febbraio, una folla ha preso d’assalto e incendiato gli alberi nel cortile di una sinagoga abbandonata nella città di Sfax, sulla costa est della Tunisia. Secondo il Times of Israel, nessuno sarebbe rimasto ferito nell’attacco, anche perché oggi non risulta vivere più nessun ebreo a Sfax.
   Oltre a dare fuoco al cortile, i manifestanti hanno danneggiato le finestre della sinagoga. Tuttavia, i vigili del fuoco sarebbero riusciti a domare l’incendio prima che l’edificio finisse bruciato.
   Dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas scoppiata dopo il 7 ottobre, si tratta del secondo episodio di questo genere in Tunisia: a metà ottobre, quando Israele venne accusata di aver colpito l’ospedale Al-Ahli a Gaza (in realtà colpito da un razzo della Jihad Islamica palestinese), centinaia di manifestanti sventolanti bandiere palestinesi ridussero in macerie il sito di un’antica sinagoga ad Al Hammah, dove è sepolto il cabalista del ‘500 Rav Yosef Ma’aravi. Il tutto senza che la polizia intervenisse.
   Un tempo la Tunisia ospitava una numerosa comunità ebraica. Tuttavia, se nel 1948 erano 105.000 gli ebrei nel paese, oggi ne sono rimasti appena un migliaio. Il 9 maggio 2023, sull’isola di Djerba, un militare tunisino scatenò una sparatoria nella Sinagoga El Ghriba, sull’isola di Djerba. Il bilancio complessivo fu di 6 morti e 8 feriti.

(Bet Magazine Mosaico, 29 febbraio 2024)

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Ci risiamo: Eurovision rifiuta un’altra canzone israeliana

di Michelle Zarfati

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Mai Sepadia
Ancora incertezza sulla partecipazione d’Israele all’Eurovision Song Contest. Dopo aver rifiutato la prima canzone “October Rain” di Eden Golan, l’Unione Europea di radiodiffusione (EBU) ha respinto anche il pezzo alternativo dal titolo “Dance Forever” della stessa cantante. A rivelarlo il notiziario israeliano Ynet sulla base di una dichiarazione rilasciata dal Ministero degli Esteri.
“Dance Forever”, che fa riferimento al massacro di Hamas avvenuto il 7 ottobre al Nova Festival, in cui i terroristi di Hamas hanno ucciso 364 giovani israeliani e rapito altre decine di ragazzi a Gaza, sembra essere stato respinto per lo stesso motivo. Perché considerato nuovamente “troppo politico”.
Il presidente Isaac Herzog ha commentato dicendo che “si sta occupando per assistere con ogni mezzo alla questione Eurovision. E che è importante garantire che Israele rimanga in gara”. Anche il ministro degli Esteri, Israel Katz, ha protestato contro la decisione, dicendo: “siamo autorizzati ad utilizzare la musica per comunicare ciò che abbiamo passato”.
La seconda canzone, presentata all’EBU insieme a October Rain, è stata scritta dalla cantante che dovrebbe rappresentare Israele all’Eurovision, Eden Golan, insieme al compositore Ron Biton, al musicista Yinon Yahel e alla cantante Mai Sepadia. Nel frattempo, i funzionari israeliani continuano nella loro ricerca di una soluzione con l’EBU, ma le fonti coinvolte nelle discussioni dicono di essere “pessimiste” circa il raggiungimento di un risultato favorevole.

(Shalom, 29 febbraio 2024)

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Il governo paga l’effetto Zelensky

Il sostegno acritico alla causa ucraina non piace e inizia a essere punito nelle urne. La «credibilità internazionale» non sempre porta consensi: basta pensare a Draghi.

di Franco Battaglia 

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I commentatori politici che hanno analizzato il voto in Sardegna hanno trascurato, a me pare, il ruolo avuto dalla posizione del governo sull'Ucraina. lo non sono un commentatore politico, ma un semplice elettore che assume che ciò che passa per la mia mente passi anche per quella di altri semplici elettori. Mai e poi mai avrei potuto immaginare di essere gratificato di arrivare a 70 anni e vedere questo mio Occidente sostenere con le armi un Paese nelle mani di corrotti e fascionazisti. Lo Stato ucraino è giovanissimo, ha appena 33 anni, ma nacque male: già nella Costituzione che si dette ghettizza quasi il 40% dei propri abitanti, che sono quelli che parlano russo, perché all'articolo 10 il russo è bandito dalla lingua ufficiale del Paese. Meraviglia che l'Occidente, sedicente democratico, sia stato determinato e sia determinato ad accasarselo senza chieder di cambiare quell'articolo: la guerra civile è cosa che stava già scritta lì. E poi il colpo di Stato. Anzi i colpi di Stato. Nel 2008 la parte che vinse le elezioni fu costretta a rinunciare a governare: rifecero le elezioni e si mise a governare la parte che pochi mesi prima aveva perso, ma governarono talmente male che furono mandati a casa. Nuovo colpo di Stato nel 2014, a danno di chi aveva vinto legittime elezioni e quanto scritto in Costituzione si realizzava: la guerra civile, che si protrasse per 8 anni con l'Occidente desaparecido. 
   Amici ucraini mi hanno raccontato una scena d'ordinaria quotidianità nel Paese: la polizia ha il potere di fermare gli autobus in transito per la strada, entrare, adocchiare i viaggiatori maschi, e su due piedi arrestarli e mandarli o al fronte o, se renitenti, in prigione. L'Occidente ha distrutto un Paese, Volodymyr Zelensky ha distrutto il proprio Paese. Vedere Meloni che se lo abbraccia e bacia ... beh, credo sia troppo. Chiunque può studiare il caso Ucraina: non si vede una ragione, neanche una, per stare dalla sua parte. Chiunque può giocare a indossare i panni del giudice, ascoltare le due parti contendenti e farsi un'opinione delle cose: il fatto è che la narrazione occidentale emerge fasulla e illogica, quella di Vladimir Putin no. 
   Ecco, Meloni paga (e vieppiù pagherà in futuro) le sue scelte di campo sulla guerra. Converrebbe a tutti che ella prenda le distanze da quel caporale ucraino senza sbilanciarsi con inopportune e stomachevoli smancerie, che può lasciare tutte alla Ursula von der Leyen. Se spera di monetizzare la conquistata credibilità internazionale, pensi a Mario Draghi, internazionalmente accreditatissimo ma, si fosse presentato alle elezioni, sai i dissensi. Stare nella e sostenere la Ue, stare nella e sostenere la Nato sono cose che van bene e possono farsi digerire a chi la vede diversamente, ma solo se lo starci dentro e il sostenerle significa far sentire la propria voce e non genuflettersi. E’ la voce che vorrebbe sentire chi Giorgia Meloni ha votato è la voce di chi afferma: «Italia innanzitutto». Ma coi fatti, non con le parole. Le ultime bollette di luce e gas che mi sono arrivate io posso permettermele perché sono fortunato, ma molti non lo sono altrettanto e prima di andare al seggio devono passare alla posta o in banca a pagarle. Giorgia Meloni governerà fino alla fine della legislatura perché ha i numeri, conquistati con la fiducia e con la speranza. Ha ancora altri anni davanti a sé per convincere che saranno state fiducia e speranza ben poste. I suoi elettori non sono né gli ottusi che del Pd votano anche uno spaventapasseri, né i vaffaisti del M5S, tutta pancia e niente cervello, ma sono elettori che a non andare a votare non ci pensano due volte. Ci rifletta, Giorgia.

(La Verità, 29 febbraio 2024)
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Ottimo articolo, conciso e puntuale, condivisibile dall'inizio alla fine. Giorgia Meloni, che su questioni di politica interna sa esprimersi in modo documentato ed efficace, su questioni di grosso peso internazionale ha mostrato, nelle prese di posizione e nelle interviste, una preoccupante mancanza di competenza e superficialità. E' preoccupante, se essere credibili in Europa e nell'Occidente significa essere manovrabili da chi muove le pedine sulla scena internazionale. Ottenere l'accordo con personaggi come Ursula von de Leyen, manifestare tenerezze con saltimbanchi come Zelensky non porta consensi e, soprattutto, non fa bene sperare per il bene della nazione e dei cittadini. Speriamo che se ne accorga presto, lei e il suo governo M.C.

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Scenari auspicabili per il Day After a Gaza

di David Elber

Ormai sono emerse prove così sostanziali di infiltrazioni terroristiche al loro interno, da rendersi necessario impedire al suo personale l’accesso al territorio. Al contempo va impedito che i lauti finanziamenti internazionali giungano ai gruppi terroristici. Pensare che dei terroristi sotto copertura ONU possano riprendere a controllare la scolarizzazione della popolazione palestinese è uno dei più gravi errori che si possono commettere, in grado di inficiare completamente la vittoria sul campo. L’educazione sia a Gaza che in Giudea e Samaria deve essere strettamente monitorata e denunciata se assumerà nuovamente i connotati antisemiti attuali. Ciò potrà avvenire solo con il concreto impegno di USA e EU, entrambi finanziatori del sistema educativo palestinese. Allo stesso modo, le infrastrutture amministrative essenziali per la popolazione civile dovranno essere affidate a palestinesi non collusi con il terrorismo e mantenute strettamente sotto una reale supervisione internazionale. Impegni di questo tipo assomigliano a meri auspici ma sono alla base di ogni futuro colloquio di pace. Se l’educazione dei palestinesi rimane quella attuale parlare di “pace” è solo una pura illusione.
   Come cercare di fare perdere a Israele guerra? La risposta a questa domanda si articola su due fronti. Il primo riguarda gli Stati Uniti, il principale alleato dello Stato ebraico e quello che, dal 7 ottobre in poi, pur continuando a fornire aiuto militare, ha iniziato sempre di più a rimarcare distanze e malcontento sulla conduzione della guerra.
  Bisogna procedere con ordine. Dal sincero cordoglio e dalla costernazione a seguito del barbaro eccidio del 7 ottobre perpetrato da Hamas, e dal viaggio in Israele di Joe Biden, dalla solidarietà espressa, dai gesti concreti, l’invio di forze e portaerei per mostrare all’Iran e a Hezbollah, nei giorni subito dopo la risposta israeliana su Gaza, che gli Stati Uniti non avrebbero permesso un allargamento del conflitto.
  Il tempo passa veloce, i morti civili a Gaza aumentano anche se il loro numero è molto inferiore a quello dei morti nelle guerre americane in Iraq, ma la propaganda contro Israele è da sempre la più forte e pervasiva, e si arriva alla surreale accusa di genocidio, nonostante i morti dichiarati, tra cui non si distingue quali sono i miliziani di Hamas e i civili veri, non siano neanche l’uno per cento degli abitati di Gaza. La Casa Bianca inizia a rimodulare il suo appoggio. Improvvisamente la reazione israeliana diventa “over the top”, i bombardamenti, “indiscriminati”, i palestinesi non vanno “deumanizzati”. In Cisgiordania, quattro coloni vengono colpiti da sanzioni decise a Washington a causa di “violenza intollerabile”, cioè sassate, ferimenti, intimidazioni, accuse mosse da ONG, e dalle quali viene omesso il contesto, la scia continua di omicidi da parte palestinese che ha insanguinato la Cisgiordania nel 2023. Su questa virata pesano due fattori, la campagna elettorale americana, e, in particolare, lo scontento della comunità musulmana con epicentro in Michigan nei confronti di Joe Biden, il rischio dell’astensione in uno Stato chiave, l’incalzare dell’avversione progressista verso Israele.
  Washington ha ora bisogno che si giunga a un accordo con Hamas per la liberazione degli ostaggi, prima del 10 marzo, inizio del mese sacro di Ramadan. Costi quel che costi? L’importante è ottenerlo, poi si vedrà. Intanto si fermerà la guerra per almeno sei settimane, utili per non farla riprendere, per abortire l’offensiva di Israele su Rafah. Chi non vuole la tregua viene bollato come estremista, è il caso di Bezalel Smotrich e di Itamar Ben Gvir.
  Netanyahu tiene botta, e risponde per le rime quando Joe Biden, sotto dettatura, dichiara che con l’attuale governo, Israele perderà il supporto internazionale. Citando un sondaggio recente, il primo ministro israeliano afferma che negli Stati Uniti l’appoggio al governo in carica e all’obiettivo di sradicare Hamas è maggioritario.
  Nella dichiarazione di Biden c’è un evidente messaggio, rivolto allo “stronzo” Netanyahu, cambia alleati o, vieni a più miti consigli se non vuoi problemi grossi. Netanyahu non si fa intimidire. Sa che un eventuale boicottaggio di Israele da parte americana mentre sta combattendo una guerra, potrebbe costare caro a Biden. Otterrebbe sì l’approvazione islamica e in parte il plauso democratico, ma darebbe al campo repubblicano e a Trump un assist formidabile. Il sottotesto di Netanyahu è: fai attenzione, gli Stati Uniti sono a maggioranza per la sconfitta di Hamas.
  Biden ha bisogno di un cessate il fuoco. Glielo chiede Dearborn, glielo chiede la parte più radicale del partito democratico, glielo chiede la Chiesa Episcopale afroamericana, glielo chiede il Dipartimento di Stato, ma il cessate il fuoco non è nell’interesse di Israele. L’interesse di Israele è di eliminare da Gaza la minaccia di Hamas, ripristinare la sicurezza a sud, evitare un altro 7 ottobre. Le amministrazioni americane passano, Israele resta.
  Il secondo fronte è quello interno. È quello rappresentato dalla sinistra, dal radicalismo di Ehud Barak, per il quale, Netanyahu è diventato un’ossessione, è quello di chi dice che la guerra a Gaza non può essere vinta e che l’obiettivo principale è la liberazione degli ostaggi. Sono i nemici di Netanyahu, sono i conciliatori, sono quelli che, sì, la sicurezza di Israele è importante, certo, ma prima di tutto va tolto di mezzo il governo in carica e va sostituito con un governo aperturista, più pronto ad accordarsi con l’agenda americana che vorrebbe dissotterrare il cadavere dello Stato palestinese seppellito da due intifade, soprattutto la seconda, quella più violenta, per imporlo, obtorto collo ai recalcitranti.
  Barak, di suo, aveva già concesso ad Arafat nel 2000, tutto il possibile, e fu grazie al rifiuto arabo se da 24 anni non sorge uno Stato arabo nel cuore di Israele, di cui, in questi ultimi sedici anni, Hamas ha offerto un campione a Gaza culminato con la mattanza atroce di ottobre.
  Una guerra si può vincere solo sconfiggendo l’avversario, chi l’ha provocata. Non esistono vittorie a metà, si chiamano sconfitte. Rafah deve essere l’obiettivo successivo, la continuazione, prima del finale di partita, nonostante Joe Biden, nonostante coloro, all’interno di Israele, per i quali la salvezza degli ostaggi vale più del futuro del paese.

(L'informale, 28 febbraio 2024)

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“Le sciarpe dell’amore”: un piccolo grande gesto per gli ostaggi israeliani

di Jacqueline Sermoneta

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Lavorare a maglia per gli ostaggi, sperando nella loro liberazione. Questa è l’iniziativa partita da Kate Gerstler, Saven Hilkowitz e Shawna Goodman Sone che, in seguito ai tragici eventi del 7 ottobre, hanno deciso di realizzare sciarpe per gli israeliani ancora prigionieri a Gaza, da donare al loro ritorno.
Tuttavia, come riporta il Times of Israel, il progetto “Le sciarpe dell’amore” è poi diventato internazionale: le donne, infatti, immigrate in Israele da Paesi diversi – Canada, Sud Africa e Inghilterra -, dopo aver pubblicato un appello sui social, hanno scatenato moltissimi volontari, che si sono offerti di aiutarle nella realizzazione. Ad ogni persona, dunque, è stato comunicato il nome del rapito: “Mentre si lavora a maglia o all’uncinetto, si pensa a quell’ostaggio”, ha raccontato Hilkowitz che ha confezionato la sciarpa per Ella Elyakim, otto anni, ora rilasciata. “Ci siamo sentite come se li avessimo conosciuti. – ha aggiunto – Osservi il loro viso su un poster, ma quando lavori a maglia per loro, pensi, ‘A questa bambina piacerà il rosa o il verde? È sportiva o è interessata ad altro?”
   Già a dicembre, le tre donne avevano ricevuto decine di sciarpe – ora il numero è salito a circa 140 – , accompagnate spesso da note personali. “Le lettere sono così profonde. Quando abbiamo iniziato, non pensavamo che sarebbe successo tutto questo. – ha detto Goodman Sone – Non avevamo idea che [realizzare sciarpe] avrebbe potuto nutrire così tante persone e calmare il senso di impotenza”.
   Un’altra questione che le donne hanno affrontato e superato è stata la logistica della consegna. Shawna Goodman Sone, fondatrice del programma Summer Camps Israel, attraverso l’Agenzia Ebraica per Israele è riuscita a entrare in contatto con il ‘Forum sugli ostaggi e le famiglie scomparse’ e ha organizzato il trasporto delle sciarpe in una tenda allestita nella Piazza degli ostaggi di Tel Aviv. Inoltre, grazie ad un amico legato alla comunità beduina, ne sono state consegnate altre quattro, realizzate per ostaggi beduini, due dei quali sono stati liberati alla fine di novembre a Rahat. “Tutto questo ci ha avvicinato alla causa e alla realtà della situazione. – ha aggiunto Goodman Sone – Si tratta di un interesse condiviso e un piccolo gesto sociale; e cercare di fare qualcosa invece di limitarsi a lasciar scorrere il destino”. “Per chi realizza sciarpe – conclude Hilkowitz – diventa un lavoro sacro”.

(Shalom, 28 febbraio 2024)

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Dopo il 7 ottobre - Economia di guerra, territorio inesplorato

di Claudio Vercelli

La guerra non è mai un fatto esclusivamente militare. Come tale, la guerra chiama in causa il riversamento che si misura, pressoché da subito, sui civili. Ossia sulle società, nel loro insieme e quindi nel lungo periodo. Veniamo al dunque. Il ministero delle Finanze d’Israele ha stimato che nel 2023, rispetto alle attese di una crescita del 2,7% (in parte destinata anche a coprire gli effetti altrimenti depressivi, di lungo periodo, del Covid), la reale evoluzione del Paese non supererà il 2%. Possono sembrare stime irrilevanti e per nulla problematiche. In sé, tuttavia, potrebbero segnare anche un cambio di passo, tenuto conto che anzitempo il Paese cresceva di anno in anno oltre il 4%. Ma da quando il conflitto con i palestinesi si è rabbiosamente riacceso, l’attenzione verso Israele – come potenziale partner di investimenti internazionali – si è ridotta. Non a caso. Tanto per capirci: l’afflusso di capitali esteri, per Gerusalemme, è da sempre strategico rispetto alla sua economia. La quale, altrimenti, non può basarsi sulle sue sole risorse: non ha le spalle sufficientemente larghe. Da quarant’anni a questa parte l’attrattività degli investimenti stranieri è quindi divenuta un nodo cruciale dell’evoluzione israeliana.
   Se fino agli anni Settanta un’economia essenzialmente “statalista”, quindi dipendente dal supporto pubblico nazionale, sembrava essere l’autentica nervatura di un’intera collettività, da allora in poi le cose sono cambiate velocemente. In accordo non solo con l’incontrovertibile rilevanza degli endemici problemi nazionali (inflazione sistematica, cronico deficit della bilancia commerciale, disoccupazione crescente, strutturale debolezza della moneta nazionale, potenziale default del bilancio statale e così via), ma anche con una diversa idea del ruolo dello Stato rispetto alla sfera pubblica. A oggi, in Israele, non a caso abbiamo a che fare con un sistema misto, che coniuga pubblico e privato – al pari dell’Italia e delle società europee. Laddove il pubblico, comunque, sempre meno surroga il privato. Ma non per questo si risolve in esso, di fatto altrimenti deflettendo dai suoi obblighi. Tuttavia, se le economie continentali europee vivono e crescono in un contesto regionale non ostile, per Israele le cose sono ben diverse. E il paese sconta il suo isolamento geografico e politico. Hamas, attaccando, dal 7 ottobre 2023 in poi aveva calcolato anche questo effetto di ritorno in quanto, nelle società odierne, non conta esclusivamente l’aspetto ideologico, politico, civile e culturale. Semmai, interviene anche, e soprattutto, quello materiale.
   Per capirci: si sta insieme solo e comunque se i propri bisogni elementari, come tali incomprimibili, ma anche non solo questi, possano essere soddisfatti: non si tratta esclusivamente di un calcolo di natura materialista ed utilitario. Poiché nessuna esistenza individuale, così come di gruppo, riesce a riprodursi se non trova degli addentellati, ovvero un qualche riscontro, nel comune sentire. Che è tale poiché non solo dei propri pari ma anche del resto del mondo. In tale senso, al momento, Israele è comunque isolato. Ne potremmo discutere all’infinito. Non si tratta di attribuire colpe assolute (che sono comunque molte) così come di riconoscere ragioni esclusive. Semmai, è questione di andare oltre l’asfittico orizzonte che si manifesta contrapponendo «identità» incontrovertibili (ossia, “io sono a prescindere da tutto il resto”) a quant’altro.
   Torniamo al dunque, ovvero all’economia. Per l’anno appena iniziato il ministero delle Finanze prevede una crescita nazionale dell’1,6%. Qualora, si intenda, che la «guerra del Sukkot» si esaurisca progressivamente con l’attenuazione delle violenze al confine meridionale, quei sessanta chilometri di linea di interposizione che dividono Israele a Gaza. Le medesime ipotesi ritengono che se tutto finisse a breve il Prodotto interno lordo d’Israele potrebbe licenziarsi, al 31 dicembre dell’anno corrente, sulla linea del 2,2%. Qualora la conflittualità dovesse proseguire per tutto l’anno presente, allora non si andrebbe oltre lo 0,2% – posto che ad ottobre del 2023 l’aspettativa di crescita ruotava invece intorno al 3,4%. Una differenza, quindi, non da poco. In quanto se la crescita di un paese è data anche dal livello dei consumi individuali e familiari, ad oggi ci si trova dinanzi ad una forte compressione degli uni così come degli altri. Non di meno, le esportazioni – voce fondamentale della bilancia dei pagamenti – si sono fortemente ridimensionate. Poiché, come molti analisti rilevano, se la situazione bellica si accompagna a una generale incertezza sui costi che potrebbe ingenerare, è non meno plausibile che l’impatto sull’economia israeliana sarà superiore a quello sperimentato nelle crisi degli ultimi due decenni. Prendiamo quindi atto dello scenario che si prospetta, che ha poco o nulla a che fare con il passato. Siamo in una sorta di terra sconosciuta.

(moked, 28 febbraio 2024)

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Come cercare di fare perdere a Israele la guerra

di Niram Ferretti

Come cercare di fare perdere a Israele guerra? La risposta a questa domanda si articola su due fronti. Il primo riguarda gli Stati Uniti, il principale alleato dello Stato ebraico e quello che, dal 7 ottobre in poi, pur continuando a fornire aiuto militare, ha iniziato sempre di più a rimarcare distanze e malcontento sulla conduzione della guerra.
   Bisogna procedere con ordine. Dal sincero cordoglio e dalla costernazione a seguito del barbaro eccidio del 7 ottobre perpetrato da Hamas, e dal viaggio in Israele di Joe Biden, dalla solidarietà espressa, dai gesti concreti, l’invio di forze e portaerei per mostrare all’Iran e a Hezbollah, nei giorni subito dopo la risposta israeliana su Gaza, che gli Stati Uniti non avrebbero permesso un allargamento del conflitto.
   Il tempo passa veloce, i morti civili a Gaza aumentano anche se il loro numero è molto inferiore a quello dei morti nelle guerre americane in Iraq, ma la propaganda contro Israele è da sempre la più forte e pervasiva, e si arriva alla surreale accusa di genocidio, nonostante i morti dichiarati, tra cui non si distingue quali sono i miliziani di Hamas e i civili veri, non siano neanche l’uno per cento degli abitanti di Gaza.  La Casa Bianca inizia a rimodulare il suo appoggio. Improvvisamente la reazione israeliana diventa “over the top”, i bombardamenti, “indiscriminati”, i palestinesi non vanno “deumanizzati”. In Cisgiordania, quattro coloni vengono colpiti da sanzioni decise a Washington a causa di “violenza intollerabile”, cioè sassate, ferimenti, intimidazioni, accuse mosse da ONG, e dalle quali  viene omesso il contesto, la scia continua di omicidi da parte palestinese che ha insanguinato la Cisgiordania nel 2023. Su questa virata pesano due fattori, la campagna elettorale americana, e, in particolare, lo scontento della comunità musulmana con epicentro in Michigan nei confronti di Joe Biden, il rischio dell’astensione in uno Stato chiave, l’incalzare dell’avversione progressista verso Israele.
   Washington ha ora bisogno che si giunga a un accordo con Hamas per la liberazione degli ostaggi, prima del 10 marzo, inizio del mese sacro di Ramadan. Costi quel che costi? L’importante è ottenerlo, poi si vedrà. Intanto si fermerà la guerra per almeno sei settimane, utili per non farla riprendere, per abortire l’offensiva di Israele su Rafah. Chi non vuole  la tregua viene bollato come estremista, è il caso di Bezalel Smotrich e di Itamar Ben Gvir.
   Netanyahu tiene botta, e risponde per le rime quando Joe Biden, sotto dettatura, dichiara che con l’attuale governo, Israele perderà il supporto internazionale. Citando un sondaggio recente, il primo ministro israeliano afferma che negli Stati Uniti l’appoggio al governo in carica e all’obiettivo di sradicare Hamas è maggioritario.
   Nella dichiarazione di Biden c’è un evidente messaggio, rivolto allo “stronzo” Netanyahu, cambia alleati o, vieni a più miti consigli se non vuoi problemi grossi. Netanyahu non si fa intimidire. Sa che un eventuale boicottaggio di Israele da parte americana mentre sta combattendo una guerra, potrebbe costare caro a Biden. Otterrebbe sì l’approvazione islamica e in parte il plauso democratico, ma darebbe al campo repubblicano e a Trump un assist formidabile. Il sottotesto di Netanyahu è: fai attenzione, gli Stati Uniti sono a maggioranza per la sconfitta di Hamas.
   Biden ha bisogno di un cessate il fuoco. Glielo chiede Dearborn, glielo chiede la parte più radicale del partito democratico, glielo chiede la Chiesa Episcopale afroamericana, glielo chiede il Dipartimento di Stato, ma il cessate il fuoco non è nell’interesse di Israele. L’interesse di Israele è di eliminare da Gaza la minaccia di Hamas, ripristinare la sicurezza a sud, evitare un altro 7 ottobre. Le amministrazioni americane passano, Israele resta.
   Il secondo fronte è quello interno. È quello rappresentato dalla sinistra, dal radicalismo di Ehud Barak, per il quale, Netanyahu è diventato un’ossessione, è quello di chi dice che la guerra a Gaza non può essere vinta e che l’obiettivo principale è la liberazione degli ostaggi. Sono i nemici di Netanyahu, sono i conciliatori, sono quelli che, sì, la sicurezza di Israele è importante, certo, ma prima di tutto va tolto di mezzo il governo in carica e va sostituito con un governo aperturista, più pronto ad accordarsi con l’agenda americana che vorrebbe dissotterrare il cadavere dello Stato palestinese seppellito da due intifade, soprattutto la seconda, quella più violenta, per imporlo, obtorto collo ai recalcitranti.
   Barak, di suo, aveva già concesso ad Arafat nel 2000, tutto il possibile, e fu grazie al rifiuto arabo se da 24 anni non sorge uno Stato arabo nel cuore di Israele, di cui, in questi ultimi sedici anni, Hamas ha offerto un campione a Gaza culminato con la mattanza atroce di ottobre.
   Una guerra si può vincere solo sconfiggendo l’avversario, chi l’ha provocata. Non esistono vittorie a metà, si chiamano sconfitte. Rafah deve essere l’obiettivo successivo, la continuazione, prima del finale di partita, nonostante Joe Biden, nonostante coloro, all’interno di Israele, per i quali la salvezza degli ostaggi vale più del futuro del paese.

(L'informale, 28 febbraio 2024)

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Alla Biennale di Venezia, gli artisti contro Israele chiedono il boicottaggio

Mentre scriviamo, sono più di 8.000 gli artisti internazionali che hanno chiesto l’esclusione del padiglione israeliano alla prossima Biennale d’Arte di Venezia, che si terrà dal 20 aprile al 24 novembre. L’appello è stato lanciato da un collettivo nato da poco, chiamato ANGA (Art Not Genocide Alliance).

di Nathan Greppi

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Padiglione Israele alla Biennale d'Arte di Venezia
La petizione chiede “l’esclusione di Israele dalla Biennale di Venezia […] affermiamo che offrire un palcoscenico a uno Stato impegnato in continui massacri contro il popolo palestinese a Gaza è inaccettabile”. Vengono altresì fatte analogie con i boicottaggi del Sudafrica ai tempi dell’apartheid e con le sanzioni alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, a causa della quale la Biennale ha escluso ogni collaborazione con il governo di Mosca.
  Tra i firmatari, spiccano artisti di fama internazionale come Nan Goldin, Mike Parr e Brian Eno, oltre ad artisti italiani come Adelita Husni Bey, Rossella Biscotti e Paolo Canevari.
  Per il momento, la Fondazione Biennale di Venezia sembra non aver ceduto alle pressioni; pur non avendo commentato la petizione, hanno fatto sapere che le situazioni passate del Sudafrica e della Russia non sono paragonabili a quella attuale, e che la presenza del Padiglione d’Israele attualmente non è in discussione. A rappresentare lo Stato Ebraico, ci sarà l’artista Ruth Patir in una mostra curata da Mira Lapidot e Tamar Margalit.

• IL CASO DELLA BERLINALE
  Queste polemiche giungono dopo che alla Berlinale, tenutasi dal 15 al 25 febbraio, c’è stata un’altra controversia: l’attivista palestinese Basel Adra e il giornalista israeliano Yuval Abraham, registi del documentario No Other Land che ha vinto il premio per il Miglior Documentario, hanno accusato Israele di “genocidio” e di “apartheid”, oltreché di non permettere agli arabi di votare (anche quest’ultima una bufala, dal momento che gli arabi in Israele possono votare ed essere eletti nella Knesset da sempre).
  Le loro parole hanno suscitato reazioni forti da parte dei politici tedeschi: la Ministra per la Cultura e i Media, Claudia Roth, ha definito “inaccettabile che, in una serata del genere, registi internazionali non affrontino il bestiale attacco terroristico di Hamas contro più di mille persone (…) e il loro crudele assassinio e non dicano una parola sugli oltre 130 ostaggi che sono ancora trattenuti da Hamas”. Mentre il sindaco di Berlino, Kai Wegner, ha scritto su X/Twitter: “Ciò che è successo ieri alla Berlinale è stata una relativizzazione intollerabile. L’antisemitismo non ha posto a Berlino, e questo vale anche per la scena artistica. Mi aspetto che la nuova direzione della Berlinale garantisca che tali incidenti non si ripetano”.

(Bet Magazine Mosaico, 27 febbraio 2024)

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I ragazzi del Moshav Netiv HaAsara tornano a festeggiare insieme Bar e Bat-Mitzvà

di Michelle Zarfati

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La scorsa domenica, a Tel Aviv, il Moshav Netiv HaAsara ha organizzato una cerimonia generale di Bar e Bat-Mitzvà per i suoi giovani. Nonostante la guerra abbia costretto i residenti a evacuare la cittadina e a spostarsi in diverse zone del Paese, i ragazzi si sono uniti nuovamente per festeggiare tutti assieme questo importante passo. Tra gli adolescenti presenti c’era anche Koren Tasa: suo padre e suo fratello sono stati entrambi uccisi nel terribile attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre.
   “Quando sono insieme, vedere la loro profonda connessione è semplicemente bellissimo. Nonostante tutto quello che abbiamo passato, sono il nostro futuro. Abbiamo cercato di preservare la tradizione delle celebrazioni del Bar e Bat-Mitzvà per le famiglie e, con molto sforzo, ci siamo riusciti. Questo fa parte della nostra vittoria”, ha detto Orit Lev di Netiv HaAsara.
   Circa 20 membri del Moshav, situato a nord del confine della Striscia di Gaza, sono stati uccisi nell’attacco di Hamas. I terroristi si sono infiltrati nel Moshav dal cielo usando i parapendio. I membri del Moshav, colti di sorpresa, hanno tentato di combattere valorosamente contro i miliziani, ma molti hanno perso la vita. Da quel sabato, gli abitanti del Moshav sono stati sfollati in varie località tra Tel Aviv, Gan Yavne, Ashkelon e nelle aree circostanti. Nessuno sa ancora quando tornerà a casa, poiché la distanza ravvicinata tra Netiv HaAsara e il confine della Striscia di Gaza non lo consente per il momento.
   Il grande evento ha avuto luogo nel weekend e i ragazzi hanno avuto la possibilità di festeggiare insieme alle famiglie e agli amici. La celebrazione è stata supportata da Michael Kitai e da sua moglie, con l’assistenza del Keren Hayesod e del Fondo per le vittime del terrorismo dell’Agenzia ebraica. Questa iniziativa ha rappresentato un’altra testimonianza del sostegno e dell’impegno reciproco dei donatori di Keren Hayesod nei confronti dei residenti dello Stato di Israele. “Continueremo il nostro importante ruolo nella raccolta di fondi per lo Stato di Israele e per il sostegno al suo popolo” ha detto Weinstock-Gabay, CEO ad interim e direttore generale del Keren Hayesod.
   Ayelet Nahmias-Verbin, presidente del Fondo per le vittime del terrorismo dell’Agenzia ebraica, ha aggiunto: “Pochissimi eventi mi hanno commosso dalla tragedia del 7 ottobre come questo evento per i figli di Netiv HaAsara. È una comunità forte e sorprendente e il suo sistema di sostegno reciproco è una testimonianza della resilienza umana. Ringrazio i donatori per il caloroso abbraccio di questi bambini. Servirà senza dubbio da ancoraggio nel loro processo di riabilitazione personale e comunitario”.

(Shalom, 27 febbraio 2024)

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Addio a Jacob Rothschild, filantropo ed erede della famiglia di banchieri

Rampollo della dinastia di banchieri britannici, Jacob si è spento all'età di 87 anni dopo una carriera ricca di successi

Lord Jacob Rothschild
,  finanziere, filantropo e membro illustre della rinomata dinastia bancaria britannica Rothschild si è spento a 87 anni. Una vita segnata da un profondo impegno nel mondo finanziario e nel sostegno alle cause umanitarie , Rothschild è stata un faro per molti, per quelli che l'hanno ammirato e "studiato", lasciando un'eredità indelebile nella storia economica e sociale europea.
   Nato nell'aprile del 1936, Lord Rothschild ha trascorso i primi anni di formazione all'Eton College, culminando gli studi con una laurea in storia al Christ Church, Oxford. Sin da giovane, Jacop dimostra un'intelligenza acuta e una determinazione senza pari, qualità che avrebbero caratterizzato e segnato tutta la sua carriera, che inizia nel 1963 nella compagnia di famiglia, la NM Rothschild & Sons .
   Entrato a far parte della prestigiosa azienda subito dopo l'università, Lord Jacob si è subito fatto notare per l'ineguagliabile talento in ambito finanziario. Tuttavia, è stata la sua ambizione e visione a portarlo a rompere con le tradizioni familiari per fondare, con la sua quota, nel 1980 la J Rothschild Assurance Group a Londra. Questo momento segna l'inizio di un nuovo capitolo nella sua vita professionale.
   Oltre a dedicarsi al suo impero finanziario, diversi e notevoli sono stati i ruoli professionali svolti da Rothschild nel corso della sua carriera. Rothschild divenne presidente di RIT Capital Partners nel 1988 per poi dimettersi nel 2019. È stato vicepresidente di BSkyB Television, ha diretto RHJ International (ora noto come BHF Kleinwort Benson Group) ed è stato  anche membro del consiglio del Ducato di Cornovaglia per l'allora Principe di Galles. Inoltre, appassionato d'arte, ha servito come fiduciario della National Gallery dal 1985 al 1991 e ha presieduto il National Lottery Heritage Fund. Nel 2002, la regina Elisabetta II lo ha insignito dell'Ordine del Merito per il suo impegno nei campi delle arti, della letteratura, dell'apprendimento e della scienza.
   Ma la sua influenza si estendeva ben oltre i confini del mondo finanziario e culturale. Figlio di Victor, terzo barone Rothschild, e di una madre di fede anglicana convertita all'ebraismo, Lord Jacob è stato un devoto marito per cinquant'anni (sposò Serena Mary Dune) e un padre amorevole per i suoi quattro figli. Proprio alla primogenita Hannah, Lord Jacob lascia un patrimonio di circa 950 milioni di euro .
   Il contributo di Lord Rothschild alla filantropia è stato altrettanto significativo. Con donazioni generose a favore di varie cause, ha dimostrato un profondo senso di responsabilità sociale. In particolare, è stato di notevole rilievo il suo sostegno a Israele attraverso la presidenza della Yad Hanadiv, la fondazione di famiglia, attraverso la quale ha donato circa 75 milioni di euro a supporto di alcune cause.
   L'eredità dei Rothschild, che risale al 1815 grazie all'abile manovra finanziaria di Nathan Mayer Rothschild, ha avuto in Lord Jacob un custode devoto e visionario. La sua leadership in RIT Capital Partners e il suo coinvolgimento in diverse istituzioni finanziarie e culturali hanno contribuito a modellare il panorama economico e artistico europeo. Pertanto Lord Jacob rimarrà un emblema e un autentico punto di riferimento nel settore.

(affaritaliani.it, 27 febbraio 2024)

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Intollerabile diktat all’Italia del piccolo duce di Kiev

Il leader che, con la legge marziale, ha sospeso le elezioni, cancellato 11 partiti e mandato in cella oppositori e giornalisti non venga a impartirci lezioni: da noi vige la libertà di parola.

di Maurizio Belpietro 

Volodymyr Zelensky deve aver scambiato l'Italia per l'Ucraina. Infatti, come se fosse il comandante in capo del nostro Paese, se n'è uscito dicendo di essere al lavoro per preparare una lista di «filo putiniani» da sottoporre non soltanto al nostro governo, ma da presentare anche alla Commissione europea. In casa nostra ci sarebbero troppi fan dello zar e questo disturba il leader supremo di Kiev, il quale, dopo aver fatto repulisti di tutti i collaboratori non allineati con il suo pensiero (l'ultimo a farne le spese è stato il popolarissimo capo di stato maggiore dell’esercito, Valery Zaluzhny, cioè colui che invece dei vertici internazionali in questi due anni ha frequentato le trincee) a quanto pare ha intenzione di fare lo stesso anche in Italia. «Riuscirete a zittirli?», si è chiesto, « riuscirete a fare capire alle vostre opinioni pubbliche che la Russia non è solo una minaccia per l'Ucraina, ma per tutti voi? Le società europee sono pronte a questa sfida? Vedo che non lo siete ancora, voi italiani, i tedeschi e gli altri». 
   Orbene, la nostra democrazia ha tanti difetti, a cominciare dal fatto che l'esecutivo ha spesso le mani legate e non riesce a fare le riforme di cui questo Paese ha urgente necessità. Tuttavia, non credo che debba prendere esempio dall'Ucraina, che la democrazia forse nemmeno sa che cos'è. Da noi non si incarcerano gli oppositori solo perché si oppongono. Né si mettono fuori legge alcuni partiti in quanto non piacciono a chi comanda. 
   Con l'adozione della legge marziale, Zelensky non soltanto ha cancellato le elezioni, rinviandole sine die ma fin dal marzo del 2022, ovvero poche settimane dopo l'invasione da parte della Russia, ha di fatto cancellato 11 partiti, uno dei quali occupava 44 seggi in Parlamento. In pratica, con un colpo di mano, il Consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa dell'Ucraina ha preso la decisione di far sparire, vietandone qualsiasi attività, una rappresentanza politica non proprio minoritaria, con la scusa che le attività di quei gruppi miravano-alla divisione o alla collusione». Già che c'era, Zelensky ha pure fatto arrestare il capo della Piattaforma di opposizione per la vita, ritenendolo, anche lui come forse alcuni italiani nel suo mirino, un pericoloso putiniano. 
   Ma a far le spese del giro di vite impartito dal presidente ucraino dopo l'inizio del conflitto non sono stati solo gli esponenti politici dell'opposizione, bensì anche i giornalisti non allineati. Uno di questi Gonzalo Lira, fra l'altro cittadino cileno americano, è stato incarcerato con l'accusa di aver creato e distribuito materiale che giustificava l'invasione russa, ed è morto in carcere nel gennaio scorso. Yuriy Tkachev, critico verso la svolta europeista, è stato messo agli arresti già nei giorni immediatamente successivi all'invasione e con l'accusa di alto tradimento sono scattate le manette pure per Gleb Lyashenko, un blogger spesso critico nei confronti di Zelensky. Per non dire poi delle emittenti tv, sottoposte a un rigoroso controllo, al punto che pare di avere un canale unico. 
   A un certo punto è finito nei guai pure Petro Porosenko, ex presidente ucraino, uno che certo non può essere definito filo russo, al quale, pur senza finire in galera, è stato impedito di lasciare l'Ucraina, fermandolo alla frontiera per bloccare un viaggio in cui erano programmati incontri all'estero con esponenti europei e americani. Una mossa che il sindaco di Kiev, Vitali Klitschko, altro uomo politico non proprio nelle grazie di Zelensky, ha commentato dicendo che di questo passo l'Ucraina non sarà molto diversa dalla Russia, «dove tutto dipende dal capriccio di un uomo». 
   Viste le premesse di questi due anni di guerra, si capisce l'uscita in conferenza stampa dell'attore prestato alla politica. Per lui, chi lo critica è un nemico da eliminare, mettendolo in carcere o impedendogli di manifestare il proprio pensiero. A Zelensky forse sfugge che nel nostro Paese esiste un ostacolo chiamato Costituzione, che all'articolo 21 assicura libertà di espressione a chiunque, anche a coloro i quali non la pensino come la maggioranza. Da noi si discute perché un gruppo di manifestanti che voleva sfondare un cordone di polizia messo a tutela di un obiettivo sensibile è stato respinto con i manganelli. Probabilmente, in Ucraina ci si stupirebbe se le forze dell'ordine non arrestassero i partecipanti al corteo, incarcerandoli e buttando la chiave. 
   Capisco che due anni di guerra possano dare alla testa. Comprendo che Zelensky abbia dovuto trasformarsi da comico in statista, anzi in eroe (sarà per questo che sta sempre in mimetica?), ma questo non giustifica alcune sue espressioni da dittatorello. Da due anni l'Italia paga il conto di una guerra che non ha voluto, sostenendo l'Ucraina pur tra tanti dubbi. La sola cosa che dovrebbe fare il signore che minaccia di compilare liste di proscrizione, dunque è ringraziare il nostro Paese. E non impartirci lezioni di democrazia, di cui non soltanto non abbiamo bisogno, ma che con questa arroganza cominciano a dare fastidio alla maggioranza dell’ opinione pubblica nazionale. La pazienza è tanta, ma la misura è colma.

(La Verità, 27 febbraio 2024)
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Preoccupa allora che con tale personaggio la nostra premier abbia fatto pubblica mostra di amorosi intenti  .

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Perché il governo palestinese si è dimesso e cosa succede ora a Gaza

La decisione arriva dopo la pressione degli Stati Uniti sul presidente Abbas per scuotere l’Autorità Palestinese

di Nello Gatto

GERUSALEMME - Si è dimesso il governo palestinese. Stamattina, all'apertura della riunione di gabinetto, il premier palestinese, Mohammed Shtayyeh, ha annunciato che ha rassegnato nelle mani del presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, le dimissioni dell’esecutivo. Shtayyeh, ha spiegato che la decisione arriva in conseguenza «degli sviluppi politici, di sicurezza ed economici legati all’aggressione contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza e all’escalation senza precedenti in Cisgiordania, compresa la città di Gerusalemme». Shtayyeh ha specificato che le dimissioni sono state decise per consentire la formazione di un ampio consenso tra i palestinesi per poi poter addivenire a nuovi e più solidi accordi politici e poter meglio gestire quindi lo scenario post guerra Israele-Hamas.
   Le dimissioni del governo palestinese arrivano anche poi nel contesto della crescente pressione degli Stati Uniti sul presidente palestinese Abbas per scuotere l’Autorità Palestinese e iniziare a lavorare su una struttura politica che possa essere idonea a governare la Striscia di Gaza dopo la guerra. «Di conseguenza, vedo che la prossima fase e le sue sfide richiedono nuovi accordi politici e governativi che tengano conto della realtà emergente nella Striscia di Gaza, dei colloqui di unità nazionale e dell'urgente necessità di un consenso interpalestinese basato su base nazionale, un'ampia partecipazione, l'unità dei ranghi e l'estensione della sovranità dell'Autorità palestinese su tutta la terra della Palestina», ha aggiunto il premier, precisando che per questo motivo ha presentato le dimissioni del governo al presidente Abbas.
   Le dimissioni del premier e del gabinetto, arrivano il giorno della convocazione a Mosca di tutte le fazioni palestinesi per un incontro. Il governo russo, tramite il viceministro degli esteri Mikhail Bogdanov, ha convocato nella capitale tutti i partiti e movimenti palestinesi per trovare la quadra con un accordo e una visione condivisa del futuro. Tra Fatah, il partito che governa la Cisgiordania e Hamas non corre buon sangue, c'è anche stata una guerra civile tra palestinesi. Hamas ha guidato l'unico governo eletto palestinese prima di essere dimesso da Abu Mazen, il quale non ha più convocato elezioni legislative dal 2006, proprio per timore che il gruppo che controlla Gaza potesse rivincerle.
   Negli ultimi tempi, hanno fatto entrambi fronte comune contro Israele e quando si è cominciato a parlare del controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese nel dopo Gaza, visti anche i diktat israeliani sulla presenza di Hamas, la stessa Anp ha detto che è pronta a passare il testimone al gruppo di Gaza. Ora si attendono gli sviluppi da Mosca per definire il futuro. Secondo analisti, ci sarà un governo di transizione mentre non si definiscono dettagli e scenari per il futuro della Striscia e dei Territori.

(La Stampa, 27 febbraio 2024)

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Gaza: nuove prove del sequestro degli aiuti umanitari da parte di Hamas

Secondo le informazioni ottenute da fonti di sicurezza da i24NEWS, i camion degli aiuti umanitari che entrano nella Striscia di Gaza vengono immediatamente sequestrati da uomini armati affiliati ad Hamas. Queste requisizioni sistematiche avvengono già da diverse settimane.
A prova di ciò, una foto scattata a Gaza mostra un uomo armato che si sporge da un camion confiscato, con gli aiuti che conteneva mentre si preparano per essere trasportati ad Hamas e ad altre organizzazioni terroristiche nella fascia costiera.
Questa non è la prima volta che emergono prove del sequestro di aiuti umanitari entrati nella Striscia di Gaza da parte di Hamas. Negli ultimi mesi sono diventate comuni le immagini che mostrano gli uomini armati dell’organizzazione terroristica appollaiati sui camion degli aiuti umanitari. Nelle ultime settimane, sui social media sono circolati ampiamente anche diversi video di abitanti di Gaza presi di mira dal fuoco dei terroristi di Hamas mentre cercavano di accedere alle spedizioni di aiuti umanitari.
L’aumento degli aiuti umanitari è una delle condizioni poste dall’organizzazione terroristica nelle trattative in corso per un imminente accordo sulla liberazione degli ostaggi.

(DayFR Italian, 26 febbraio 2024)

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L’auto pieghevole sviluppata in Israele potrebbe cambiare la guida urbana

City Transformer manda il prototipo di un’auto pieghevole sulle strade di Tel Aviv, e promette che la produzione del modello migliorato è già iniziata e i veicoli sono attesi sul mercato a luglio; il prezzo ancora troppo alto rende l’auto meno vendibile.

Una innovazione israeliana sta facendo girare la testa per le strade di Tel Aviv. Il prototipo di un’auto pieghevole prodotto da City Transformer sta facendo il suo debutto con quella che descrive come “la prima auto adattabile al mondo” che si riduce di dimensioni per “guidare come un’auto e parcheggiare come una motocicletta”.
L’auto elettrica si riduce da 2,5 metri (poco più di 8 piedi) ad appena 1 metro (3,2 piedi) di larghezza e può raggiungere i 90 km/h (57 miglia).
Fondata nel 2014, City Transformer afferma che la sua versione migliorata sta per entrare nelle linee di produzione dello stabilimento Cecomp di Torino, in Italia, e sarà disponibile per la vendita a luglio. Sono stati ordinati 1.000 esemplari in Israele, da utilizzare per le squadre di emergenza medica, e altri 1.000 sono stati ordinati in tutto il mondo.
Il costo sarà di 16.000 euro al lordo dell’IVA e di altre imposte e in Israele dovrebbe raggiungere i 100.000 NIS, mettendo in dubbio la sua commerciabilità.   Nella sua versione più stretta, l’auto non può superare i 40 km/h (24 miglia). Premendo un pulsante sul volante, si estende per tutta la sua larghezza e può occupare una corsia.
All’interno delle ruote posteriori è presente una coppia di motori che forniscono al massimo 20 cavalli e che impiegano 5 secondi per raggiungere una velocità di 50 km/h, quasi il doppio rispetto ad altre auto elettriche moderne. Il peso di soli 450 chili è sufficiente per inserirsi facilmente nel traffico cittadino.
Le batterie di produzione coreana garantiscono 180 chilometri di autonomia, che scendono a soli 120 chilometri se si accende l’aria condizionata. Come molti dei suoi concorrenti, per azionare i freni è necessaria una certa forza, perché l’amplificatore dei freni è stato lasciato fuori per mantenere il peso del veicolo basso.
Il sedile del guidatore è sorprendentemente comodo e le ampie portiere facilitano l’ingresso e l’uscita dall’auto. Il sedile posteriore è ovviamente più difficile da raggiungere, ma la maggior parte degli utenti lo terrebbe ripiegato per ottenere uno spazio più ampio nella parte posteriore. Nonostante le dimensioni ridotte, il trasformatore ha un diametro di rotazione relativamente ampio, pari a 8,5 metri (quasi 27 piedi). Il parcheggio è facile e l’azienda sostiene che fino a quattro veicoli possono condividere un parcheggio medio in città.
Si tratta di una soluzione brillante per l’uso urbano che combina la manovrabilità con la velocità e la stabilità, ma ha un prezzo elevato e, a meno che non venga ridotto, il trasformatore non sarà altro che una curiosità.

(Israele360, 26 febbraio 2024)

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Argentina, ipotesi di trasferimento a Gerusalemme dell’Ambasciata in Israele

Il presidente dell’Argentina Javier Milei ha confermato la sua intenzione di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Lo ha detto, secondo una nota del ministero degli esteri, appena arrivato in Israele, accolto dal responsabile degli esteri Israel Katz. ‘Voglio ringraziarla – ha detto Katz – per aver riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e per aver annunciato adesso il trasferimento dell’ambasciata argentina a Gerusalemme, capitale del popolo ebraico e dello Stato d’Israele”.
Il premier Benyamin Netanyahu estende ”un caloroso benvenuto” al presidente argentino Javier Milei e si compiace del suo annuncio relativo al trasferimento a Gerusalemme dell’ambasciata dell’Argentina. Lo rende noto un comunicato ufficiale. ”Il premier – prosegue il comunicato – ne aveva parlato col presidente Milei dopo la sua elezione e si felicita che egli abbia mantenuto la promessa”. Netanyahu incontrerà Milei domani e – precisa il comunicato – in quella occasione ”discuterà dell’ulteriore rafforzamento delle relazioni fra i due Paesi”.

(Il Denaro, 26 febbraio 2024)

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Firenze, bandiere di Israele in Consiglio Comunale

Cocollini: ​“Necessaria un’azione forte dopo la gravità di quanto avvenuto sabato"

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“Chi semina vento raccoglie tempesta, dice il detto. Ed è quanto è puntualmente avvenuto oggi in Consiglio comunale. Ho deciso - dichiara il vicepresidente vicario del Consiglio comunale Emanuele Cocollini - di esibire bandiere di Israele per significare il nostro sdegno per i contenuti di molti degli interventi dei relatori del convegno, dal titolo “Pace e giustizia in Medio Oriente focus Palestina”, di chiara matrice antisemita, anche nella sua più moderna accezione di antisionismo come riferimento esplicito alla definizione di antisemitismo dell'IHRA (approvata dal Consiglio comunale). Un convegno che, è bene sottolinearlo, è costato 5.917 euro, soldi dei fiorentini.
Assordante è stato il silenzio di sindaco e presidente del Consiglio che ha organizzato l’evento, non solo sulle gravissime affermazioni dei relatori, ma anche sulle offese rivolte al console onorario di Israele Marco Carrai comparse nella piattaforma dove veniva trasmesso lo streaming on line, che richiedevano un’immediata dissociazione che invece non è mai arrivata.
Per questi motivi rivendico quanto ho inteso simboleggiare oggi in Consiglio comunale. Un atto per ristabilire la verità e respingere l’odio contro Israele e gli ebrei che il convegno di sabato ha portato fin nel cuore della nostra città”, conclude Cocollini.

(Nove da Firenze, 26 febbraio 2024)

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Accordo tra Israele e Hamas prima che inizi il Ramadan: “Rischio escalation senza l’ok”

Le delegazioni a Doha dopo la bozza di Parigi. Ipotesi governo tecnico per l’Autorità palestinese

di Fabiana Magrì

TEL AVIV - Nessuno può trattenersi in chiacchiere sulle gradinate attorno alla “vasca da bagno”, il nomignolo in slang locale per la piazza antistante la Porta di Damasco. L’atmosfera è tesa con l’approssimarsi del Ramadan, scadenza sensibile e sacra per i musulmani. E la polizia, ampiamente schierata, è pronta a impedire ogni accenno di assembramento.
  Per i vicoli del quartiere musulmano in Città Vecchia, a Gerusalemme, la tensione diventa desolazione, con quasi tutti i negozi chiusi e nessun turista di passaggio. È così dall’inizio della guerra. Se la settimana che manca all’inizio del mese del digiuno, dell’astinenza, della carità e della preghiera, portasse l’atteso accordo tra Israele e Hamas, la desolazione certo non si risolverebbe nell’immediato, ma almeno la tensione si potrebbe disinnescare. In caso contrario, ha messo in guardia re Abdallah di Giordania, «la continuazione della guerra a Gaza durante il Ramadan potrebbe portare all’espansione del conflitto».
  «Speriamo che nei prossimi giorni si possa arrivare a un’intesa ferma e definitiva» si è sbilanciato alla Cnn il Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan. «Ma dovremo aspettare e vedere», ha messo poi le mani avanti. Tutto sta ad Hamas, secondo Benjamin Netanyahu. Se la fazione palestinese abbandonasse «le sue pretese deliranti» e assumesse «posizioni ragionevoli», allora – ha detto il premier israeliano a Cbs News – un accordo sarebbe possibile.
  Si riparte da Parigi, tracciando una linea su quanto rilanciato da Hamas al Cairo, e si prosegue a Doha. Adesso sì, le premesse sembrano più concrete. Dopo aver esaminato gli sviluppi del secondo atto francese con la mediazione di Usa, Egitto e Qatar, il gabinetto di guerra israeliano ha inviato una nuova delegazione nella capitale dell’emirato arabo. Una squadra di esperti di medio livello, ma con il compito di discutere già di dettagli tecnici. Tuttavia un funzionario di Hamas, ieri sera, ha smontato l’ottimismo che circola sostenendo che «non riflette la realtà». Nel complesso scenario si è inserito anche il rincorrersi di indiscrezioni e smentite riguardo la possibilità di imminenti dimissioni del primo ministro dell’Autorità palestinese Mohammed Shtayyeh, per favorire un nuovo governo tecnico. Secondo Sky News, che ne aveva dato notizia, questi sviluppi avrebbero rafforzato le notizie secondo cui Hamas avrebbe accettato tale soluzione per la ricostruzione di Gaza dopo la guerra. Notizia subito respinta da Ramallah dove fonti dell’Anp hanno invece evocato questa possibilità per il futuro, ma non ora. L’alternativa, in caso di ennesimo fallimento dei colloqui, è l’operazione militare israeliana a Rafah subito. Netanyahu ha precisato tuttavia alla Cbs che un accordo per la liberazione degli ostaggi ritarderebbe soltanto l’intervento di Tsahal, che resta necessario nella città più meridionale della Striscia perché si tratta dell’ultima roccaforte di Hamas nell’enclave. A quel punto, una volta avviata la missione, l’esercito sarà a «settimane, non mesi» – ha aggiunto Netanyahu – dalla conclusione dell’obiettivo militare a Gaza. Sulla necessità di mettere in sicurezza i civili prima di entrare «boots on the ground» a Rafah, Israele si dice «sulla stessa lunghezza d’onda» degli Usa. Un piano per evacuare i rifugiati palestinesi verso nord, probabilmente lungo la costa, sta per raggiungere le scrivanie di Washington. Il quadro aggiornato dell’accordo prevede che Hamas rilasci circa 40 ostaggi sequestrati a Gaza in cambio di un cessate il fuoco di sei settimane e della liberazione di centinaia di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, secondo fonti citate dal sito Axios. Lo scambio avverrebbe “a rate” come nella prima tregua, quella di fine novembre.

(La Stampa, 26 febbraio 2024)

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Gruppo di “esperti” ONU per i Diritti collabora con Hamas?

Un gruppo di cosiddetti "esperti" del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, tra i quali la famigerata Francesca Albanese, chiede un embargo di armi per Israele e il divieto di condivisione della intelligence che pregiudicherebbe la liberazione degli ostaggi

Sabato il Ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha accusato il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite di collaborare con Hamas, dopo che un gruppo di funzionari delle Nazioni Unite per i diritti umani ha chiesto un embargo sulle armi a Israele, affermando che qualsiasi esportazione di armi o munizioni allo Stato ebraico per l’uso a Gaza è “probabile che violi il diritto umanitario internazionale”.
Nella dichiarazione, rilasciata sotto gli auspici dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, i cosiddetti “esperti in materia di diritti” hanno affermato che tutti i Paesi hanno la responsabilità di non vendere armi “se si prevede, dati i fatti o i modelli di comportamento passati, che saranno utilizzate per violare il diritto internazionale”. Lo stesso vale per l’intelligence militare, si legge nella dichiarazione.
In risposta alla dichiarazione, il Ministero degli Esteri ha ribadito che Israele sta combattendo la guerra per autodifesa e che “anche di fronte ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità commessi dai terroristi di Hamas, Israele ha agito e continuerà ad agire in conformità con il diritto internazionale”.
Il Ministero ha aggiunto che le richieste di un embargo sulle armi contro Israele sono “in realtà richieste di sostegno all’organizzazione terroristica di Hamas” e che il divieto per gli Stati di condividere l’intelligence con Israele rappresenta “una richiesta per impedire che gli ostaggi vengano riportati a casa”.
Katz ha poi accusato il Consiglio per i diritti umani di cooperare con Hamas e di cercare di minare il diritto di Israele all’autodifesa.
“Ignorare i crimini di guerra, i crimini sessuali e i crimini contro l’umanità commessi dai terroristi di Hamas costituisce una macchia che non può essere cancellata sull’ONU come organizzazione e personalmente sullo stesso Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres”, ha affermato.
Gli esperti dell’ONU hanno elogiato un tribunale olandese che, all’inizio del mese, ha stabilito che il governo deve fermare l’esportazione di parti di jet da combattimento F-35 a Israele.
I funzionari hanno anche elogiato il Belgio, l’Italia, la Spagna e un’azienda di armi giapponese per aver sospeso i trasferimenti di armi a Israele e hanno notato che anche l’Unione Europea li ha recentemente scoraggiati.
Hanno esortato Stati Uniti e Germania, i maggiori fornitori di armi di Israele, nonché Francia, Regno Unito, Canada e Australia a fare la stessa mossa.
“I funzionari statali coinvolti nell’esportazione di armi possono essere individualmente responsabili penalmente per il favoreggiamento di crimini di guerra, crimini contro l’umanità o atti di genocidio”, hanno poi minacciato.
Molti degli esperti erano relatori speciali delle Nazioni Unite: esperti indipendenti e non retribuiti incaricati dal Consiglio per i diritti umani. Non parlano a nome delle Nazioni Unite, ma riferiscono le loro scoperte ai meccanismi di indagine e monitoraggio del Consiglio.
I funzionari hanno chiarito che i trasferimenti di armi ad Hamas e ad altri gruppi terroristici sono già vietati a causa delle loro violazioni del diritto umanitario internazionale. Tuttavia, hanno aggiunto che “il dovere di ‘garantire il rispetto’ del diritto umanitario si applica ‘in tutte le circostanze’, anche quando Israele dichiara di contrastare il terrorismo”.

Il team di decine di esperti indipendenti che ha appoggiato la dichiarazione include la famigerata relatrice speciale per i Territori palestinesi Francesca Albanese, che all’inizio del mese è stata ufficialmente bandita da Israele per la sua apparente giustificazione dei brutali massacri di Hamas del 7 ottobre, dopo aver twittato che le vittime sono state uccise “in risposta all’oppressione di Israele”.
In precedenza, Albanese aveva detto che Israele stava commettendo “atrocità a Gaza” e che i palestinesi erano “a grave rischio di genocidio”. In una dichiarazione del 14 ottobre, ha accusato Israele di mirare alla pulizia etnica di Gaza, senza menzionare il devastante attacco shock di Hamas contro Israele.
Durante il conflitto del 2014 tra Israele e Hamas, Albanese ha affermato che la “lobby ebraica” controllava gli Stati Uniti. Ha anche simpatizzato con le organizzazioni terroristiche, ha respinto le preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza, ha paragonato gli israeliani ai nazisti, ha accusato lo Stato ebraico di potenziali crimini di guerra, ha detto che Israele controlla la BBC e ha affermato che lo Stato ebraico inizia le guerre per avidità.
Per anni, Israele ha accusato il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di essere “ossessivo, di parte e anti-Israele”. Ha scelto il punto 7 dell’Agenda, il punto permanente del Consiglio per i diritti umani, che non esiste per nessun altro conflitto, riservato alle presunte violazioni israeliane dei diritti umani contro i palestinesi e gli altri arabi, oltre a una serie di risoluzioni adottate contro Israele che accusano il Paese, tra l’altro, di apartheid.
La guerra è iniziata il 7 ottobre, quando Hamas ha lanciato un attacco senza precedenti contro Israele, uccidendo circa 1.200 persone, per lo più civili, e rapendone 253. In seguito all’attacco, Israele ha giurato di smantellare l’organizzazione terroristica e di recuperare gli ostaggi.
Il ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, sostiene che quasi 30.000 palestinesi sono stati uccisi da Israele nei combattimenti successivi, ma il numero non può essere verificato in modo indipendente perché si ritiene che includa sia i terroristi di Hamas che i civili, alcuni dei quali sono stati uccisi come conseguenza del lancio di razzi del gruppo terroristico stesso. L’IDF afferma di aver ucciso più di 12.000 terroristi a Gaza, oltre a circa 1.000 uccisi all’interno di Israele il 7 ottobre e immediatamente dopo.
Israele ha continuato a ribadire che sta combattendo la guerra a Gaza in conformità con il diritto internazionale e che compie grandi sforzi per evitare danni ai civili, ma che le vittime sono inevitabili quando si combatte un gruppo terroristico profondamente radicato nella popolazione civile e che opera da edifici residenziali, ospedali, scuole, rifugi, moschee e altro.
Haaretz ha riferito all’inizio del mese che l’IDF stava avviando un’indagine su specifici episodi segnalati di potenziali violazioni del diritto internazionale da parte delle truppe. Secondo il rapporto, una squadra appositamente formata esaminerà incidenti come l’attacco a un funzionario di Hamas, che avrebbe ucciso decine di civili, la distruzione di un campus universitario e l’uccisione accidentale di tre ostaggi israeliani.

(Rights Reporter, 26 febbraio 2024)

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“Pacifisti” contro la pace: in 15mila a Milano “per la Palestina” e “contro Israele”

Manifestazione propal nazionale a Milano

di Sofia Tranchina

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Una manifestazione per «ribadire l’opposizione di classe a tutte le guerre» – secondo le dichiarazioni dei Cobas coinvolti nell’organizzazione – è partita il 24 febbraio da Piazzale Loreto, Milano, inserendosi nei sabati per la Palestina che da mesi sfilano nella città meneghina.
Tra i presenti, Opposizione Studentesca Alternativa, Potere al Popolo, Unione Sindacale di Base, il Centro Sociale Cantiere, API (Associazione dei Palestinesi d’Italia) e GPI (Giovani Palestinesi d’Italia). Presente anche l’ex deputato del Movimento 5 Stelle Alessandro Di Battista, lì «per chiedere il riconoscimento dello stato di Palestina come Stato Sovrano Indipendente».
Lo zeitgeist (spirito del tempo), allattato da anni di propaganda antisionista figlia di un retaggio antisemita profondamente radicato, ha permesso agli oratori di far passare, approvare e condividere l’idea che auspicare la distruzione totale di Israele sia un messaggio “di pace”.
Così l’islamismo violento, promosso e finanziato dall’Iran – e, secondo recenti accuse, dalla Russia – si diffonde tra una folla di giovani italiani che marciano per la città inneggiando: «in-ti-fa-da! Intifada pure qua!».
Per questo, in una manifestazione che ha visto sfilare circa 15mila persone “per la Palestina e contro Israele”, l’unica insegna effettivamente di Pace è stata fatta a brandelli a pochi minuti dall’inizio, da una folla accanita e incattivita.
Sull’insegna in questione compare in inglese la scritta “dal fiume al mare costruisci la pace”, che riprende e modifica lo slogan «Palestina unica dal fiume al mare», in toni che anziché polarizzare cercano dialogo.
Sotto, compaiono anche le scritte: “Hamas è Isis”, “Riportateli a Casa”, “Cessate il Fuoco” e “Due Stati” (scritto con i colori della bandiera palestinese e della bandiera di Israele).
«Cos’è questa schifezza?» ha urlato per primo un manifestante, strappando l’insegna a chi la portava. «“Hamas is Isis” tua sorella!» ha aggiunto, facendo a brandelli il cartone e buttandone i pezzi per terra, calpestandoli e imprecando, completamente indisturbato: nessuno degli autoproclamatisi “attivisti per la pace” è intervenuto per difenderne la libertà d’espressione.
Forse perché, questa volta, l’espressione da difendere non era polarizzante né semplicistica, ma si è fatta bensì carico di una riflessione stratificata forse fuori luogo in un corteo che, con la scusa della “causa palestinese”, ha avuto il permesso di marciare per tutto un pomeriggio cantando e urlando slogan per la distruzione dello Stato Ebraico.
Dopo pochi istanti, un gruppo di manifestanti ha accerchiato la portatrice del cartello, bullizzandola e urlando «via i sionisti dal corteo!», bollando così come sionista l’insegna.
Insegna che chiedeva, oltre a un dialogo per la pace, un cessate il fuoco e il riconoscimento di due stati per due popoli, senza tralasciare però la richiesta della liberazione degli ostaggi: forse è questo che non è piaciuto agli attivisti meneghini?

• GLI SLOGAN DELLA MANIFESTAZIONE “PACIFICA”
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Tra le insegne sfoggiate invece indisturbate sono comparsi solo inni di polarizzazione: «Israele non esiste», «fuori l’entità sionista dalla storia», e persino «there is no both sides in genocide» (non ci sono due parti nel genocidio), constatazione che insabbia in toto il massacro del 7 ottobre e ignora gli intenti dichiaratamente genocidi di Hamas nei confronti del popolo ebraico.
«Vogliono farci credere che esistano Gaza, Israele e Cisgiordania. Non è così. Noi sappiamo che la Palestina è una, dal fiume al mare!» urlano dal carro, cancellando deliberatamente Israele dalla cartina geografica, e inculcando a una folla che pare inerme: «chi sono i terroristi?» – «Israele!» rispondono tutti con una voce unica; «chi sono i criminali?» – «Israele!»; «Israele, fascista, stato terrorista!», «Israeliani peggio dei nazisti!».
«Non vogliamo la pace, non stringeremo mai la mano allo stato sionista!», si smaschera la stessa voce, dal carro. Ma la frase, anziché suscitare fischi e indignazione, è stata accolta da applausi e canti dei manifestanti, e pace e guerra, invocati vanamente, rimangono meri significanti dai confini sfumati, usurpati del proprio significato. E così l’eroismo malriposto dei buoni intenzionati si scontra con la maschera di interessi più grandi di quanto forse non si siano resi conto loro stessi.
Si è ascoltata una frase che giustifica il massacro di Hamas:  «Il 7 ottobre è stato un tentativo di evasione dalla prigione a cielo aperto di Gaza», ignorando il ritiro totale di Israele da Gaza nel 2005.
Dopo qualche ora, la manifestazione ha assunto i toni violenti dei “pacifisti contro la pace”, con sassi che hanno ferito un’agente di polizia, spaccato macchine e danneggiato la vetrina del Carrefour di viale Doria.

(Bet Magazine Mosaico, 26 febbraio 2024)

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"Non nominare la guerra!"

Le chiese sono invischiate in una ridicola commedia degli errori. Gli eventi del 7 ottobre, la guerra a Gaza, con il conseguente aumento dell'antisemitismo globale, hanno spinto molti israeliani a cercare Dio.

di Charles Gardner 

È una delle battute più famose di una delle commedie televisive britanniche più popolari di tutti i tempi: la serie degli anni Settanta Fawlty Towers, in cui lo sfortunato Basil Fawlty (interpretato da John Cleese) gestisce un fatiscente albergo sulla costa.
  Tutto andava sempre storto e gli spettatori, di solito l'intera famiglia seduta a casa davanti alla TV, ridevano a crepapelle. L'iconica battuta "Non nominare la guerra! -  appare ripetutamente in un episodio con un ospite tedesco.
  Per Manuel, il cameriere spagnolo, questa frase era un'istruzione del tutto inutile, che non faceva altro che peggiorare la situazione.
  Qual è il punto? Beh, le chiese in Sudafrica (e senza dubbio anche qui nel Regno Unito) hanno il discutibile onore di dare agli oratori ospiti di una certa missione ebraica la stessa istruzione: ” Non parlare della guerra! - 
  Hanno detto che vogliono sempre sentir parlare degli sforzi che si fanno per raggiungere gli ebrei con il Vangelo, che loro hanno portato a noi per primi, ma chiedono che non si faccia riferimento all'attuale guerra di Israele contro Gaza. Probabilmente perché lo considerano una commistione tra politica e religione, che potrebbe incoraggiare gli ascoltatori a prendere posizione sulla questione.
  Ma di recente una appartenente a questa missione si è recata dal suo medico, una dottoressa ebrea, per un forte raffreddore, ed è stata proprio la conversazione sulla guerra a innescare una seria discussione sul Vangelo.
  La dottoressa era atea, e già altre volte aveva preso in giro la sua amica per aver citato la Bibbia. Ma questa volta la dottoressa era mostrata affascinata dalle profezie dell'Antico Testamento. Queste parlano di enormi eserciti che attaccheranno Israele dal nord e poi del Messia ebraico che verrà in loro soccorso, ed essi "guarderanno a colui che hanno trafitto", per citare il profeta Zaccaria (capitolo 12, versetto 10).
  La dottoressa confessò di avere “la pelle d'oca". Era chiaro che sapeva esattamente che cosa si intendesse, anche se non si parlava di Gesù. Come dice Isaia: "Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni" (Isaia 53:5)!
  La brava dottoressa dunque ebbe la possibilità di riflettere sulla crisi di Gaza e sulla domanda che una volta aveva fatta: "Perché tutti ci odiano?".
  Il contesto è cruciale nella comunicazione del Vangelo, e l'aumento globale dell'antisemitismo innescato dalla guerra è un'ottima occasione per attirare l'attenzione non solo degli ebrei che ancora non credono, ma anche dei cristiani che ancora non capiscono, quello che oggi sta succedendo.
  Dio non si è separato dagli ebrei, non ha abbandonato o rifiutato il suo popolo eletto. Ha un amore eterno per il suo popolo ed è pronto a riabbracciarlo in una relazione restaurata.
  La resistenza violenta contro il popolo ebraico è un'immagine del feroce conflitto spirituale con cui Satana fa del suo meglio per impedire questa riconciliazione. Gesù tornerà solo quando questo avverrà.
  Tralasciare il contesto della guerra e lo tsunami di antisemitismo che ne è seguito, non agevola la diffusione del Vangelo e della profezia biblica. Significa piuttosto chiudere la porta del cielo davanti alla gente, come Gesù aveva accusato i leader religiosi di fare. Al contrario, la guerra sta portando molte persone a pensare all'eternità.
  Come si spera che anche la dottoressa capisca, la cura per tutti i nostri problemi si trova in Colui che ha preso su di sé i nostri peccati sulla croce, versando il suo sangue e morendo per noi.
  C'è una guerra - sia spirituale che fisica - che infuria per le anime di uomini e donne: facciamo un grande torto ai nostri ascoltatori se neghiamo questa realtà.
  La pace arriverà, ma non prima che il Principe della Pace si sia posato sul Monte degli Ulivi, a est di Gerusalemme! (Giobbe 19:25, Zaccaria 14:4, Atti 1:11)

(Israel Heute, 26 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Dara Horn: Perché ricordare la Shoah non aiuta contro l’antisemitismo

Giornalista, autrice di saggi, docente di letteratura yiddish ed ebraica, Dara Horn è l’autrice di People Love Dead Jews (La gente ama gli ebrei morti), volume pubblicato da Norton & Co nel 2021. In una intervista fatta da Elie Petit per tribunejuive.info, pubblicata il 16 febbraio, Horn si interroga sulle ambiguità con cui l’Occidente – gli Stati Uniti in particolare – si rapportano agli ebrei, a partire dall’idea – appunto – che “gli ebrei morti” suscitino molto più interesse di quelli vivi. La trasformazione in un simbolo, che sia della memoria sterilizzata della Shoah, o della vittima impotente, del capro espiatorio, è una sorta di disumanizzazione, da lei equiparato a una negazione della dignità umana, col risultato di portare facilmente all’odio e all’antisemitismo.
Spinta dalle domande ricorrenti postele dai media in seguito agli atti di antisemitismo negli Stati Uniti, l’autrice si è interrogata sulla impossibilità di evitare l’argomento: essere ebrei rende automaticamente necessario rispondere alle sollecitazioni in materia? Considerando almeno altrettanto sconcertanti i frequenti tentativi di non riconoscere la matrice antisemita delle aggressioni, nonostante gli investimenti compiuti sul fronte didattico, Horn è arrivata alla conclusione che l’insegnamento della Shoah segue uno schema inadatto a combattere le violenze contemporanee: raccontare una storia passata che sicuramente colpisce e rattrista permette però anche a chi la scopre di distaccarsi, e di dare per scontato che non sia possibile qualcosa di simile si ripeta oggi.
   People Love Dead Jews è il suo sesto libro. Horn è partita dalla convinzione che gli ebrei abbiano un ruolo rilevante nell’immaginario globale. Un immaginario che però nulla ha a che fare con quello che sono veramente. È in se stesso, questo, un tipo di antisemitismo che può presentarsi in diverse forme e va combattuto: porta gli ebrei a raccontarsi in una maniera falsata, a mettere in secondo piano la realtà attuale, il quotidiano, la ricchezza culturale artistica e vitale del presente per lasciare spazio alla narrazione della Shoah.
   Dopo il 7 ottobre, però, è comparsa la sensazione che invece neppure gli ebrei morti “vadano bene”, proprio perché stanno facendo quello che invece la narrazione sostiene non avessero mai neppure tentato: reagire, difendersi, dimostrare una qualche capacità di reazione. È forse proprio su questo che si gioca l’amore per gli ebrei: funziona sino a quando sono percepiti come impotenti, non in grado di impedire il proprio massacro. Difendersi e reagire no, quello non è permesso.

(moked, 25 febbraio 2024)

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Ecco perché un attacco a Rafah è inevitabile

Se parli con decine di soldati e ufficiali ti diranno tutti la stessa cosa: l'attacco alla città di Rafah è inevitabile se veramente si vuole distruggere Hamas

di Maurizia De Groot Vos

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In questi giorni in cui le speranze dei parenti degli ostaggi nelle mani di Hamas sono appese a un filo, si fanno sempre più serrati i preparativi per l’attacco a Rafah, la città meridionale della Striscia di Gaza ormai ultimo bastione di Hamas.
   Rights Reporter ha sentito diversi ufficiali di prima linea delle forze di difesa Israeliane (IDF) sui preparativi di questa che sembra la resa dei conti finale tra Israele e Hamas.
   «Senza l’operazione di terra a Rafah Hamas sopravvivrebbe, il che è un risultato inaccettabile» dice il Tenente Colonnello RF. «Dov’è la condanna internazionale di Hamas per non aver rilasciato gli ostaggi e non essersi arreso? Hamas non può prevalere militarmente, quindi dipende dalle pressioni internazionali su Israele; se queste cessassero, Hamas non avrebbe più dove rivolgersi, rendendo molto più probabile la resa» conclude in Tenente Colonnello.
   «Forse mi è sfuggita la risoluzione approvata dall’ONU o dal Consiglio di Sicurezza che condanna l’attacco di Hamas. Il gruppo delle donne dell’ONU ha impiegato mesi per condannare l’uso dello stupro come arma nell’attacco di Hamas. Quindi siamo chiari: dal 1948 l’ONU non ha sostenuto Israele» ci dice il Maggiore HF chiaramente inferocito verso le Nazioni Unite che anche in queste ore lanciano messaggi affinché Israele non dia il via all’attacco su Rafah.
   «Sì, la guerra è orribile. Ma Israele non ha altra scelta» ci dice il maggiore JF. «Sentiamo parlare di come non condurre una guerra contro Hamas, ma non di come farlo in modo efficace. Sentiamo una dura condanna da parte di Paesi che non hanno nulla a che fare con Israele, ma ancora una volta nessuna soluzione al problema esistenziale di Israele con Hamas» prosegue. «Ci chiedono di non attaccare Rafah ma non attaccare Rafah significa permettere ad Hamas di sopravvivere» continua. «Hamas ha condotto un attacco selvaggio e ha dichiarato la sua intenzione di continuare a farlo finché Israele non sarà eliminato e la sua popolazione ebraica scacciata. Perché dobbiamo permettere ad Hamas di sopravvivere?»
   «Nessuno finora ha risposto a una domanda fondamentale: come può Israele accettare un cessate il fuoco permanente con un’entità che, per motivi religiosi e non politici, ha commesso un massacro come non se ne sono mai visti nei tempi moderni e ha promesso di farlo ancora e ancora» ci dice il Capitano YP. «Nessun Paese, nonostante le pontificazioni, permetterebbe a un’entità del genere di esistere lungo il proprio confine. Quindi sì, Israele ignorerà la comunità internazionale perché non accetterà di suicidarsi, attaccheremo Rafah e chiuderemo il conto con Hamas una volta per tutte».
   Oggi o domani il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dovrebbe convocare il Governo per l’approvazione dei piani operativi riguardanti l’attacco a Rafah e la messa in sicurezza dei civili. Si parla insistentemente di un “forte coordinamento” con l’Egitto che potrebbe addirittura ricevere i piani operativi prima dell’attacco a Rafah.

(Rights Reporter, 25 febbraio 2024)

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Cosa accadrà a Gaza dopo la guerra? La posizione di Israele

di Ugo Volli

• Una fase complessa
  La fase attuale della guerra di Gaza è molto complicata e difficile da capire: l’esercito israeliano continua a combattere soprattutto con operazioni speciali per eliminare i terroristi che agiscono di nascosto, ma allo stesso tempo prepara l’operazione per liberare l’ultimo grosso centro controllato da Hamas e cioè Rafah, dove probabilmente sono nascosti i capi terroristi e sono anche tenuti prigionieri come scudi umani gli israeliani rapiti. Contemporaneamente sono ripartiti i colloqui per uno scambio fra rapiti e terroristi detenuti, che implica una tregua che dovrebbe sospendere proprio l’operazione a Rafah, come cercano del resto di ottenere gli Usa. Nel frattempo prosegue la guerra leggera al nord, fra puntate israeliane e lanci di razzi.

• Il progetto per “il giorno dopo”
  In questo contesto ieri c’è stato uno sviluppo significativo. Fra le azioni che l’amministrazione Biden ha intrapreso per “bilanciare” a favore dei palestinesi la vittoria di Israele c’è stata la richiesta insistita che lo stato ebraico dettagliasse i suoi progetti ha per “il giorno dopo”. È una richiesta che non si fa mai in guerra, perché qualunque risposta ha l’effetto di legare le mani al vincitore o di minacciare le sue alleanze. Ma il governo israeliano deve cercare di minimizzare gli scontri con Biden, che pensa soprattutto a non scontentare la sinistra democratica in vista delle elezioni e dunque Netanyahu ha ufficializzato al gabinetto di guerra di venerdì la posizione israeliana sull’esito della guerra, anche se in una maniera che certo non soddisfa l’amministrazione americana. Il piano inizia stabilendo la condizione per la fine della guerra: Israele continuerà a combattere fino a raggiungere i suoi obiettivi, cioè la distruzione militare e politica di Hamas e della Jihad islamica, il ritorno dei rapiti e la rimozione di ogni minaccia alla sicurezza dalle comunità circostanti.

• A medio termine
  Israele dovrà mantenere la libertà di operare in tutta la Striscia per prevenire la rinascita dell’attività terroristica, come fa in Giudea e Samaria. Netanyahu prevede la “completa smilitarizzazione di Gaza… al di là di ciò che è necessario per le esigenze di mantenimento dell’ordine pubblico”. La dichiarazione non cita direttamente l’Autorità Palestinese e quindi non esclude esplicitamente la sua partecipazione alla gestione di Gaza dopo la guerra. Dice però che gli affari civili a Gaza dovranno essere gestiti da “personalità locali” con “esperienza amministrativa”, con la condizione che non siano legati a “paesi o entità che sostengono il terrorismo”. Ciò significa escludere qualunque complice di Hamas, della Jiahd Islamica, dell’Iran, ma anche dell’Unrwa che ha appoggiato il terrorismo e dell’Autorità Palestinese che paga gli stipendi ai terroristi catturati o le pensioni alle famiglie di quelli morti. In sostanza si allude ai capi delle tribù del territorio, secondo un’ipotesi sostenuta da Mordechai Kedar. Dato il coinvolgimento di numerosi dipendenti dell’Unrwa nelle atrocità del 7 ottobre, Israele lavorerà poi per sostituire del tutto l’agenzia con “organizzazioni umanitarie internazionali responsabili”. Israele inoltre promuoverà anche un “piano di de-radicalizzazione… in tutte le istituzioni religiose, educative e assistenziali di Gaza”. Questo obiettivo sarà promosso “il più possibile con il coinvolgimento e l’assistenza dei paesi arabi che hanno esperienza nella promozione della de-radicalizzazione” e consentirà l’inizio della ricostruzione di Gaza solo dopo il completamento della smilitarizzazione della Striscia e l’inizio del “processo di de-radicalizzazione”. “Il piano di riabilitazione sarà finanziato e guidato da paesi accettabili per Israele”.

• Il territorio
  Netanyahu ha quindi detto che per garantire la sicurezza delle comunità intorno alla Striscia, Israele intende stabilire una zona cuscinetto inutilizzabile dagli abitanti, situata all’interno del confine della Striscia. Per quanto riguarda il confine tra Gaza e l’Egitto, Israele imporrà una “chiusura” al contrabbando per impedire la rinascita dell’attività terroristica. La chiusura dovrà essere realizzata con l’assistenza degli Stati Uniti e in collaborazione con l’Egitto “per quanto possibile”. Inoltre Israele manterrà il controllo di sicurezza “su tutta l’area a ovest della Giordania”, cioè di Giudea e Samaria “per impedire il rafforzamento degli elementi terroristici e contrastare le minacce da loro verso Israele”. Il piano si conclude riaffermando i principi adottati nei giorni scorsi sia dal gabinetto che dalla Knesset: Israele rifiuta qualsiasi diktat si voglia imporgli per un accordo permanente con l’Autorità palestinese; esso potrà essere raggiunto solo attraverso negoziati diretti tra le parti, senza precondizioni. Un altro principio è che Israele continuerà ad opporsi al riconoscimento unilaterale di uno stato palestinese, che considera un “regalo per il terrorismo”.

(Shalom, 25 febbraio 2024)

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Quando la musica diventa arena politica. Le ultime polemiche
  
Ci risiamo. Dopo la bella notizia di qualche giorno fa, ossia che un gruppo di 400 attori, musicisti e altre figure dello spettacolo –  tra cui Helen Mirren, Liev Schreiber, Julianna Margulies, Boy George, Sharon Osbourne e Gene Simmons – hanno firmato una lettera aperta a sostegno della partecipazione di Israele alla 68ª edizione dell’Eurovision Song Contest che si terrà a Malmö, in Svezia, dal 7 al 11 maggio, per l’ennesima volta, Israele è di nuovo sotto tiro. Motivo?
  Come riferiscono il Jerusalem Post e altri giornali israeliani, in dubbio è ancora la partecipazione dello Stato ebraico all’Eurovision a causa della canzone “October Rain”, che oltre a non c’entrare nulla con la politica e con il conflitto in corso, non si sa bene da quante persone sia stata ascoltata finora (pare da pochissime).  Conclusione: potrebbe essere squalificata dalla European Broadcasting Union (EBU) a causa di «testi politici». (L’EBU è l’ente che associa diversi operatori pubblici e privati del settore della tele-radiodiffusione su scala nazionale).
  Volete sapere quali sono le parole ignominiose della canzone “October Rain” che hanno destabilizzato e sconvolto alcuni fan dell’Eurovision che si sono lamentati per il fatto che la traccia si riferisse chiaramente al 7 ottobre e non dovrebbe essere consentita  in un evento canoro non politico? Ecco qualche verso (in calce all’articolo il testo completo, tutto in inglese, con una chiusura in ebraico):

«Qualcuno ha rubato la luna stanotte /Ha preso la mia luce / Tutto è in bianco e nero / Chi è lo sciocco che ti ha detto / Che i ragazzi non piangono […]. Ballando nella tempesta / Non abbiamo nulla da nascondere / Portami a casa / E lasciami il mondo alle spalle / E ti prometto che mai più / Sono ancora bagnato da questa pioggia d’ottobre / Pioggia d’ottobre […]».

Così, messi a disagio per le critiche di qualche fan seccato, i grandi capi dell’Eurovision si stanno rompendo la testa per decidere se squalificare o meno la canzone incriminata che dovrà essere eseguita dall’affascinante e talentuosa Eden Golan, vincitrice del concorso The Next Star, scritta da Avi Ohion, Keren Peles e Stav Beger.   Ma come sempre, nel frastuono delle controversie e delle polemiche, c’è qualcosa di comico, se non altro per l’assurdità della situazione. Mentre il mondo si divide su questioni di testi e di cittadinanza, c’è da chiedersi se non stiamo perdendo di vista il vero spirito dell’Eurovision: la musica e il divertimento.
  Ad ogni modo tutta questa storia non è piaciuta affatto all’emittente pubblica Kan che ha prontamente chiarito che Israele non ha la benché minima intenzione di cambiare il testo. Al che l’EBU ha preso tempo rispondendo che «sta attualmente esaminando attentamente i testi, un processo confidenziale tra l’EBU e la Public Broadcasting Corporation fino a quando non verrà presa una decisione finale. Tutte le emittenti hanno tempo fino all’11 marzo per inviare ufficialmente le loro canzoni. L’EBU ha inoltre aggiunto che «se una canzone non soddisfa i criteri per qualsiasi motivo, alla società viene data l’opportunità di presentare una nuova canzone o un nuovo testo in conformità con le regole del concorso».
  Il ministro della Cultura e dello Sport Miki Zohar ha definito «scandalosa» l’intenzione dell’EBU. La voce «è una canzone commovente, che esprime i sentimenti della gente e del Paese in questi giorni e non è politica», ha affermato. Ha aggiunto: «Ci auguriamo tutti che l’Eurovision rimanga un evento musicale e culturale e non un’arena politica, dove i Paesi partecipanti possano portare sul palco la loro unicità e nazionalità attraverso la musica».
  Il ministro ha poi esortato l’EBU «a continuare ad agire in modo professionale e neutrale, e a non lasciare che la politica influisca sull’arte».
  Di fatto, come molti lettori ormai sanno, l’Eurovision di quest’anno, che si terrà in Svezia a maggio, non è stata certo esente da politicizzazione e polemiche e soprattutto nei confronti di Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 25 febbraio 2024)

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Milano, il corteo pro Palestina: città in tilt, tensioni e bandiere bruciate. In 20 mila arrivati da tutta Italia

Esponenti dell’associazionismo insieme alla sinistra radicale e agli antagonisti si sono ritrovati sabato a Milano. Tra i presenti anche l'ex deputato pentastellato Alessandro Di Battista. Danneggiato il Carrefour. E spuntano cartonati della premier Meloni, del ministro Salvini e di Netanyahu.

di Matteo Castagnoli e Pierpaolo Lio 

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Kefiah al collo e inni all’Intifada. Richieste di cessate il fuoco e bandiere (israeliane e statunitensi) bruciate. Per l’ennesimo sabato, il popolo filopalestinese sfila in piazza a Milano, questa volta in versione evento «nazionale»: alla fine saranno 20 mila i manifestanti, provenienti da un po’ tutto il Centro e Nord Italia. 
  Un enorme corteo e tante anime — palestinesi, immigrati nordafricani, sindacalismo di base, il mondo dell’associazionismo, la sinistra radicale, gli antagonisti — che marciano dietro le parole d’ordine «con la resistenza palestinese, blocchiamo le guerre coloniali e imperialiste», come da striscione bilingue d’apertura. Per tutto il pomeriggio manderanno al collasso il traffico caotico di una città già messa alla prova dall’assalto del popolo della moda. 
  Ma i timori di un replay degli scontri avvenuti il giorno prima a Firenze e Pisa sfumano in un paio di momenti di tensione, che si registrano quando le frange più estreme provano a sfidare l’imponente dispositivo di sicurezza.
  Alla fine, a far più discutere saranno i cartelli con i volti della premier Giorgia Meloni, del ministro Matteo Salvini e del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, tra gli altri, macchiati di vernice rossa, come fosse sangue posticcio. «Predicano pace ma diffondono odio e violenza, accarezzando i terroristi di Hamas. Senza vergogna», è la reazione immediata del vicepremier e leader leghista in un post sui social.
  In mezzo alla folla, a manifestare dopo aver raccolto le firme per una legge «per il riconoscimento di uno Stato di Palestina», c’è invece l’ex cinquestelle Alessandro Di Battista. Per strada, il corteo sembra sottoposto a una cura a base di ormone della crescita: più cammina, più i partecipanti si moltiplicano, come le bandiere palestinesi che spuntano ovunque e in ogni foggia. All’arrivo delle avanguardie nel cuore della città, nel centralissimo largo Cairoli, meta finale a due passi dal Duomo, i militanti che stanno in coda saranno ancora impegnati ad avanzare a metà percorso, marciando al ritmo della hit pacifista sanremese di Ghali, divisi dai primi da quasi un’ora di cammino.
  In un paio d’occasioni, dalla manifestazione, pacifica, si sganciano piccoli gruppi con intenzioni più battagliere. Si muovono rapidi, hanno i volti coperti, e in piazza Repubblica provano a deviare dal tragitto. Il loro obiettivo è raggiungere il vicino consolato americano, ma saranno subito bloccati dalle forze dell’ordine. La reazione sono le fiamme a una bandiera israeliana e a una a stelle strisce, seguito da un fitto lancio di uova (e un paio di grossi petardi che però non scoppiano) contro i reparti mobili schierati in assetto antisommossa. 
  Il secondo tentativo si registra qualche centinaio di metri più avanti. Sono sempre in pochi a muoversi, e sempre a volto coperto. Danneggiano la vetrina del Carrefour, colosso francese della distribuzione secondo loro «colpevole» di contribuire alla guerra israeliana a Gaza. Poi iniziano una sassaiola contro alcune auto delle forze dell’ordine: le pietre danneggiano due vetture della Guardia di Finanza e una della polizia locale. All’interno di quest’ultima, un’agente rimane ferita dai frammenti di vetro del lunotto che finisce in frantumi.
  I fumogeni segnano la fine della lunga giornata di protesta. È il rompete le righe. Ad anticiparlo è l’iniziativa di un antagonista: s’arrampica sulla statua di Garibaldi per dare alle fiamme un’altra bandiera d’Israele.

(Corriere della Sera, 25 febbraio 2024)
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"Predicano pace ma diffondono odio e violenza", ha detto Matteo Salvini. Ha torto? Sì, risponderà qualcuno, anzitutto perché l'ha detto il segretario della Lega, e questo basta per non darvi credito, almeno in certe zone dell'area politica. E poi, dicono, i manifestanti sono contro le guerre coloniali, quindi sono per la pace e contro le guerre d'odio delle potenze imperialiste.
Ma è chiaro che si tratta di odio. Puro odio contro lo Stato d'Israele, centro e punto di riferimento di tutti gli ebrei sparsi per il mondo. Puro odio che si rivela come approvazione dell'odio con cui si è compiuto il massacro del 7 ottobre.
Questa perla di odio si arricchisce poi di una grande varietà di sfumature tra il politico e il religioso, ma non è necessario indagarne le radici, gli sviluppi e le circostanze che ne hanno favorito il concretarsi, perché quello che conta è la chiarezza dell'obiettivo da raggiungere: gli ebrei.
Ma non è vero che è antisemitismo - obietterà qualcuno -, non tiriamo fuori la solita storia dell'antisemitismo perché oggi è diverso, diranno. E ti elencheranno gli antisemitismi del passato; e ti faranno notare le differenze; e ti diranno che oggi è tutto diverso. E invece è sempre lo stesso, perché l'antisemitismo è come l'acqua: cambia nel tempo lo stato in cui si presenta, ma la sua struttura molecolare è sempre la stessa.
Una cosa che disturba particolarmente nelle esasperazioni filopalestinesi è che mettono nello stesso calderone Israele e Stati Uniti. Ma è la stessa cosa che fanno anche tanti amici occidentali di Israele. In forma schematica: Netanyahu contro Sinwar sarebbe come Biden contro Putin. Questo paragone tra la guerra in Ucraina e la guerra in Gaza è esiziale per Israele. In entrambi i casi l'America si rivela come un falso amico, con conseguenze che già adesso sono disastrose per l'Ucraina, e potrebbero diventarlo presto anche per Israele se per qualche ragione Dio decidesse di non esaudire le preghiere di chi davvero ama Israele. M.C.

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Il fondamento per cui credere nel regno messianico

Estratto dal libro Sulle orme del Messia

di Arnold G. Fruchtenbaum

APOCALISSE, cap. 20

  1. Poi vidi un angelo che scendeva dal cielo e aveva la chiave dell'abisso e una grande catena in mano.
  2. Egli afferrò il dragone, il serpente antico, che è il diavolo e Satana, e lo legò per mille anni,
  3. lo gettò nell'abisso che chiuse e sigillò sopra di lui perché non seducesse più le nazioni finché fossero compiuti i mille anni, dopo i quali dovrà essere sciolto per un po' di tempo.
  4. Poi vidi dei troni e a coloro che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare. E vidi le anime di quelli che erano stati decapitati per la testimonianza di Gesù e per la parola di Dio e di quelli che non avevano adorato la bestia né la sua immagine e non avevano preso il marchio sulla loro fronte e sulla loro mano; ed essi tornarono in vita e regnarono con Cristo mille anni.
  5. Gli altri morti non tornarono in vita prima che fossero trascorsi i mille anni. Questa è la prima risurrezione.
  6. Beato e santo è colui che partecipa alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la morte seconda, ma saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno con lui quei mille anni.

I premillennaristi sono stati spesso criticati per aver basato la propria fede nel Millennio poggiandosi soltanto su un brano della Scrittura, Apocalisse 20. Poiché si trova in un libro ben conosciuto per l’ampio utilizzo di simboli, si dice sia sciocco considerare i mille anni in senso letterale. Ma questa non è certo una critica valida.
   Per cominciare, anche se è vero che il libro dell’Apocalisse utilizza molti simboli, è già stato dimostrato che il significato di tutti quei simboli è spiegato o nel libro dell’Apocalisse stesso, o altrove nelle Scritture. Inoltre, gli anni non sono mai usati in senso simbolico all’interno del libro. Se sono simbolici, il loro simbolismo non sarebbe spiegato da nessuna altra parte. Il riferimento ai 1.260 giorni, 42 mesi e 3 anni e mezzo, sono tutti letterali e non simbolici. Di conseguenza, non vi è alcuna necessità di considerare i mille anni in un senso diverso da quello letterale. La scelta di spiritualizzare il testo impone sempre a chi interpreta l’onere della prova su chi lo interpreta. Senza prove oggettive, il  risultato sarà un’interpretazione soggettiva.
   Naturalmente, è vero che la figura dei mille anni si trova solo in Apocalisse 20. Ma è ripetuta per ben sei volte in un solo testo, e se la ripetizione ha di per sé uno scopo, è quello di rafforzare un concetto.
   Anche se è vero che il Millennio (cioè, i mille anni) si trova solo in Apocalisse 20, il motivo per cui credere nel regno messianico non si poggia solamente su questo brano. In realtà, si appoggia su ben altro. La base per credere nel regno messianico è duplice. In primo luogo vi sono le promesse non ancora adempiute relative ai patti ebraici, promesse che si possono adempiere solo in un regno messianico. In secondo luogo, ci sono le profezie inadempiute dei profeti ebrei. Ci sono numerose profezie dell’Antico Testamento che parlano della venuta del Messia, il quale regnerà sul trono di Davide e governerà su un regno di pace. C’è una grande quantità di materiale nell’Antico Testamento relativo al regno messianico, e la convinzione dell’esistenza di un regno messianico poggia sul fondamento di un’interpretazione letterale di questo enorme materiale.
   L’unico vero contributo che l’Apocalisse apporta alla conoscenza del regno sta nel fatto che rivela quanto tempo durerà il regno messianico - vale a dire mille anni, da cui deriva il termine usato, cioè Millennio. Questa è l’unica verità chiave riguardante il regno che non era stata rivelata nell’Antico Testamento.
   È alla luce di questo, si può capire il motivo per cui gran parte del libro è dedicato alla grande tribolazione e così poco al Millennio. Nonostante gran parte del materiale in Apocalisse 4-19 si trovi sparsa nelle pagine dell’Antico Testamento, non è possibile collocare questi eventi in sequenza cronologica utilizzando solo l’Antico Testamento. Il libro dell’Apocalisse fornisce la struttura per cui questo può essere fatto. Una grande parte del libro dell’Apocalisse è stata utilizzata per raggiungere questo obiettivo.
   D’altra parte, tutte le varie caratteristiche e sfaccettature del regno messianico sono state già rivelate nell’Antico Testamento. Si ritraggono le caratteristiche generali della vita nel regno, che non sollevano il problema di un ordine sequenziale. Di conseguenza, non vi era alcun motivo per cui spendere molto tempo sul regno messianico nell’Apocalisse. La maggior parte di ciò che era necessario rivelare era già stato fatto nell’Antico Testamento.
   Tuttavia, c’erano due cose riguardo al regno messianico che non erano state rivelate nell’Antico Testamento. La prima era la durata del regno messianico. Nonostante i profeti dell’Antico Testamento avessero previsto un lungo periodo di pace nel regno messianico, non avevano rivelato quanto sarebbe durato. Per rispondere a questa domanda, l’Apocalisse dichiara che sarebbe durato esattamente mille anni. Un secondo aspetto, che era sconosciuto ai profeti dell’Antico Testamento, erano le circostanze che avrebbero posto fine al regno e che avrebbero portato all’ordine eterno. Anche questo è rivelato nel libro dell’Apocalisse. Questi due elementi sono tutto ciò che Apocalisse 20 aggiunge alla conoscenza del regno messianico. I motivi per credere al regno messianico non poggiano su questo brano, bensì sulle numerose profezie dei profeti dell’Antico Testamento.
   Un altro motivo per credere all’instaurazione del regno poggia sui quattro patti incondizionati che Dio ha sancito con Israele, rimasti ancora inadempiuti. Questi patti sono incondizionati e quindi il loro adempimento dipende unicamente da Dio, non da Israele. Essi sono anche incompiuti, e poiché Dio è Colui che mantiene le promesse, dovranno adempiersi in futuro. Possono compiersi solo nel quadro del regno messianico o regno millenario.
   Il primo di questi è il patto Abrahamitico, il quale prometteva un seme eterno che si sarebbe sviluppato in una nazione e avrebbe posseduto la terra promessa, con confini ben definiti. Anche se la nazione - Israele - continua a esistere, in tutto l’arco della sua storia non ha mai posseduto tutta la terra promessa. Affinché queste promesse si avverino, ci deve essere un futuro regno. Inoltre, il possesso della terra non era stato semplicemente promesso alla discendenza di Abrahamo ma ad Abrahamo personalmente quando Dio gli disse “Tutto il paese che tu vedi, io lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre” (Genesi 13:15). Affinché Dio possa mantenere la Sua promessa ad Abrahamo (nonché a Isacco e a Giacobbe), ci deve essere un futuro regno.
   Il secondo patto è il patto della terra, che parlava di una riunificazione mondiale degli ebrei e del re-impossessamento della terra a seguito della loro dispersione. Nonostante la dispersione si sia già verificata e sia tutt’oggi effettiva, il raduno e recupero della terra attende ancora il proprio compimento nel futuro. Anche questo richiede un regno futuro.
   Il patto davidico è il terzo patto, e prometteva quattro cose eterne. Una casa eterna (dinastia), un trono eterno, un regno eterno e una persona eterna. La dinastia divenne eterna perché culminava in una persona eterna: Gesù il Messia. Per questo motivo, anche il trono e il regno saranno eterni. Ma Gesù non si è ancora mai seduto sul trono di Davide, per governare il regno d’Israele. Il ristabilimento del trono davidico e il governo del Messia nel regno, attendono ancora un futuro compimento. Richiede un regno futuro.
   L’ultimo di questi patti è il nuovo patto, che parlava della rigenerazione e della salvezza nazionale d’Israele, che comprende ogni singolo membro ebreo della nazione. Anche questo attende il suo compimento finale e richiede un regno futuro.
   Sono gli estesi scritti profetici, nonché i patti, che forniscono il fondamento per cui credere a un futuro regno messianico, e non semplicemente un capitolo di un libro altamente simbolico.
   Per riassumere, la base per credere in un regno messianico è duplice: le promesse inadempiute dei patti ebraici e le profezie inadempiute dei profeti ebrei.

(da "Sulle orme del Messia", 25 febbraio 2024)


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Israele presenta la sua visione per il dopo Hamas a Gaza

Striscia tagliata in due

di Giulio Meotti

ROMA - Quattro mesi e mezzo dopo l’inizio della guerra tra Israele e Hamas, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha svelato il suo piano per il “giorno dopo”, sottoposto all’approvazione del gabinetto di guerra e opposto ai desiderata della comunità internazionale. Di fatto, il controllo d’Israele della Striscia di Gaza. Gli obiettivi a breve termine rimangono invariati: distruggere le capacità militari e le infrastrutture governative di Hamas e del Jihad islamico, garantire il rilascio degli ostaggi e prevenire qualsiasi minaccia per Israele da parte della Striscia nel futuro. Nel medio termine, Israele manterrà la libertà di operazione militare a Gaza, creerà una zona cuscinetto e per contrastare il contrabbando di armi e uomini lungo il confine tra Egitto e Gaza creerà un “fianco di sicurezza”.
   Se la ricostruzione di Gaza sarà affidata a “paesi arabi accettati da Israele”, secondo la formula, si parla di governo civico della Gaza postbellica e di “professionisti con esperienza manageriale” e “funzionari locali”. Su questo punto, Israele resta vago. Funzionari selezionati da chi? Chi governerebbe a Gaza con il rischio di essere ucciso da Hamas, come avvenne con il golpe ai danni dell’Anp nel 2007?
   Il piano non prevede ruoli per l’Autorità palestinese di Ramallah, ma sancisce la chiusura dell’agenzia delle Nazioni Unite per i palestinesi, Unrwa, accusata di complicità con Hamas, e l’istituzione di un nuovo organismo internazionale (Israele ieri ha arrestato otto dipendenti dell’Unrwa accusati di terrorismo).
   Sul terreno, l’esercito israeliano sta espandendo una strada attraverso il centro di Gaza per facilitare le operazioni militari e fa parte dei suoi piani per mantenere il controllo di sicurezza sull’enclave. Un rimodellamento della geografia della Striscia volto a garantire libertà di movimento all’esercito e una presa sul territorio, per evitare un nuovo 7 ottobre che ha ucciso 1.200 israeliani.
   Il corridoio a sud di Gaza City, che si estende per dieci chilometri dal confine israeliano alla costa, divide Gaza in due. Questo consentirà all’esercito di continuare a muoversi rapidamente attraverso l’enclave anche dopo il ritiro. Israele sta costruendo una buffer zone di un chilometro all’interno di Gaza, dove ai palestinesi sarà vietato l’ingresso. Prima del 7 ottobre, la buffer zone era all’interno di Israele, motivo per cui i terroristi erano riusciti a sfondare. Jacob Nagel, ex consigliere israeliano per la Sicurezza nazionale oggi membro della Foundation for Defense of Democracies, ha parlato di divisione tra il nord di Gaza e il resto dell’enclave.
   Netanyahu è sotto pressione, da parte degli americani che hanno messo in guardia Israele dal modificare i confini di Gaza, e dall’estrema destra del suo governo, che vorrebbe ristabilire a Gaza gli insediamenti israeliani. Il piano d’Israele mette in guardia contro il “riconoscimento unilaterale di uno stato palestinese”, evidente riferimento ai timori che gli Stati Uniti possano compiere un passo del genere.
   Quando la 401esima brigata dell’esercito israeliano ha invaso la Striscia alla fine di ottobre ci ha messo un’intera settimana di feroci scontri a fuoco per raggiungere la punta nord-occidentale di Gaza City. Ora la stessa brigata impiega due ore. Chiunque governerà Gaza, se la vedrà con questa nuova topografia post 7 ottobre.

Il Foglio, 24 febbraio 2024)

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Intensificazione dei combattimenti tra Israele e Hamas a Khan Younis

Israele scopre deposito d’armi in casa di ufficiale Hamas durante operazioni militari

Israele ha annunciato un’escalation dei combattimenti con il gruppo militante Hamas nella città di Khan Younis, situata nel sud della Striscia di Gaza. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno condotto un’incursione nella casa di un alto ufficiale dell’intelligence di Hamas, scoprendo un deposito di mortai nascosto in borse dell’Unrwa e altri equipaggiamenti militari. Durante l’operazione, è stato individuato e distrutto un tunnel utilizzato da Hamas.
   Le azioni militari hanno visto numerosi scontri tra le forze israeliane e i militanti di Hamas. Secondo l’IDF, molti operatori di Hamas sono stati neutralizzati durante un’ampia operazione nel quartiere Zeitoun di Gaza City. Le truppe israeliane, usando un drone, hanno individuato una cellula di Hamas che pianificava di lanciare missili anticarro e hanno rapidamente ordinato un attacco aereo. Durante queste operazioni, sono state rinvenute molte armi di Hamas insieme a documenti.
   Nel frattempo, il bilancio delle vittime nella Striscia di Gaza continua a salire, con almeno 29.606 persone uccise dall’inizio del conflitto il 7 ottobre, secondo il ministero della Salute di Gaza. Le tensioni nella regione sono in aumento, con gli scontri che coinvolgono attacchi aerei, operazioni terrestri e violenze su entrambi i fronti.
   Gli Stati Uniti hanno dichiarato di aver distrutto sette missili da crociera antinave che il gruppo ribelle Houthi dello Yemen intendeva lanciare nel Mar Rosso. Nel frattempo, in seguito a un attacco Houthi contro una nave mercantile di proprietà britannica, una massiccia fuoriuscita di petrolio si è estesa nel Mar Rosso, causando un grave problema ambientale.+

(Libero, 24 febbraio 2024)

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E’ ipocrita voler vincere il conflitto senza avere armamenti né soldati

Se è nobile essere commossi per la sorte dell’Ucraina, poi bisogna guardare ai freddi numeri. Kiev non potrà mai vincere perché non dispone di abbastanza uomini e fucili per respingere l’invasione.

di Maurizio Belpietro


Il Fondo monetario internazionale ha confermato per il Paese di Putin una crescita del 2,6 per cento: il triplo di quella attesa in Europa Sul loro petrolio c’è l’embargo occidentale, ma noi siamo i primi a comprarlo dall’India, aggirando le misure che abbiamo stabilito

Per fare la guerra oltre alle armi ci vogliono i soldati, ma se scarseggiano entrambi l'esito più probabile del conflitto è la sconfitta o la resa più o meno onorevole. E inutile girarci intorno, fare appelli e lanciare minacce, i primi per chiamare alla riscossa un fronte comune, le seconde per spaventare i più recalcitranti e convincerli della necessità di resistere all'aggressore. Se non ci sono i soldati e neppure le armi, la guerra è persa e se non sarà a breve lo sarà più avanti, cioè dopo altre centinaia di migliaia di morti e di feriti. Non si è filoputiniani se si dicono queste cose, e neppure si è pavidi: si è semplicemente realisti.
   La guerra per interposta nazione, vale a dire l'Ucraina, non ci ha mai convinto, perché è comodo sostenere un conflitto, la difesa sacrosanta dell'indipendenza di una nazione di fronte all'invasione. Ma non è detto che oltre a essere comodo, un conflitto così combattuto sia anche vincente. A due anni di distanza dal giorno in cui le truppe di Mosca varcarono il confine ucraino, al di là degli inviti patriottici e un po' enfatici di politici e commentatori, la realtà è davanti ai nostri occhi non è molto bella: continuare a ignorarla non ci aiuterà a cambiare le cose.
   Abbiamo scritto nei giorni scorsi di come l'economia russa non sia crollata nonostante le sanzioni. Il Fondo monetario internazionale, per il 2024 ha confermato una crescita del 2,6 per cento, quasi il triplo di quella attesa in Europa. Sappiamo che a gonfiare i conti di Mosca contribuisce la spesa militare, ma è una realtà di fatto che i conflitti siano sempre stati un volano per la crescita, basti pensare a quello che è accaduto nella storia del secolo scorso. Dunque, è meglio non farci troppe illusioni sulla caduta del regime di Putin in tempi brevi e soprattutto è ora di mettere da parte le aspettative sui risultati delle sanzioni, dato che, come abbiamo spiegato, le misure adottate dagli Stati Uniti e dai Paesi alleati sono regolarmente aggirate e spesso dalle stesse nazioni che dovrebbero applicarle. Sul petrolio c'è l'embargo, ma l'Europa lo compra sottobanco dall'India; su quello che non è vietato importare, come il grano e prodotti agroalimentari, gli stessi Paesi Ue, tra i quali l'Italia, fanno a gara a chi compra di più, raddoppiando, triplicando e in qualche caso decuplicando gli acquisti. Dunque, se l'obiettivo è mettere in ginocchio Mosca e la sua economia, stiamo facendo letteralmente il contrario.
   Ma questo è niente. Perché prima di discutere di tutto ciò è necessario guardare in faccia due aspetti, ovvero i soldati e le armi. Per quanto riguarda i primi, è evidente che le truppe ucraine da sole non potranno mai bastare a vincere la guerra. Nessuno sa dire quanti militari abbia perso Kiev nei 24 mesi di conflitto, ma nonostante la propaganda tenda a minimizzare, si parla di oltre 150.000 uomini. Per rafforzare le linee sotto attacco ci sarebbe bisogno di mezzo milione di militari, forse addirittura 700.000, ma molti dei giovani in età da battaglia sono scappati all'estero e altri hanno disertato, al punto che sono state imposte delle politiche di reclutamento forzato, che in pratica somigliano molto a rapimenti e rastrellamenti per spedire al fronte chi si è sottratto alla chiamata alle armi. Senza contare le vittime, Kiev dispone di 500.000 militari, di cui 200.000 in servizio attivo.
   La Russia di 1,4 milioni uomini, più 250.000 riservisti, che però potrebbero in breve aumentare.
   Quanto alle armi, i conti sono presto fatti. Secondo recenti stime, Mosca produce 115-130 missili a raggio lungo e 100-115 missili a raggio corto ogni mese, oltre a 30 missili balistici per il sistema Iskander. A ciò si aggiungono 300-350 droni kamikaze, ma lo stock accumulato al momento sarebbe di oltre mille, nonostante gli 800 lanciati nel solo mese di dicembre. Lo scorso anno la Russia ha prodotto due milioni di munizioni per l'artiglieria, ma secondo stime estoni, il numero sarebbe stato più alto, ossia 3,5 milioni, che quest'anno potrebbero diventare 4,5. In pratica, i russi sparano 10.000 colpi d'artiglieria al giorno. Per capire la disparità, basti dire che le industrie della difesa dell'intera Europa si sono impegnate a produrre in un anno un milione di pezzi di artiglieria, dunque all'incirca un quinto di quelli che escono dalle fabbriche di Putin.
   A questo punto, invece di appelli e allarmi, serve rispondere a una domanda chiave: come si fa a vincere una guerra senza soldati, senza armi e con sanzioni che sono aggirate perfino da coloro che le hanno messe? Capite perché quando parliamo del conflitto fra Ucraina e Russia, e di tutto il resto si finisce sempre lì, alla grande ipocrisia occidentale, che difende i principi ma solo a parole?

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Il leader Usa sfida lo Zar

Biden: «Se il Cremlino non paga per l'aggressione, andrà avanti»

«Annuncio più di 500 nuove sanzioni contro la Russia per la sua guerra di conquista contro l'Ucraina e per la morte di Navalny, un coraggioso attivista anti-corruzione e il più accanito leader dell'opposizione di Putin». Lo ha dichiarato il presidente americano Joe Biden in una nota della Casa Bianca.
Il leader statunitense ha detto di auspicare che il capo del Cremlino «paghi un prezzo ancora più alto per l'aggressione all'Ucraina e la repressione» in Russia, dato che «se Putin non paga il prezzo della morte e della distruzione che sta diffondendo, andrà avanti». Biden ha inoltre aggiunto che «gli ucraini stanno finendo le munizioni. L'Ucraina ha bisogno di più rifornimenti dagli Stati Uniti per mantenere le loro posizioni di fronte agli implacabili attacchi della Russia, che sono resi possibili da munizioni e armi provenienti da Iran e Corea del Nord». Il presidente americano ha sollecitato la Camera dei rappresentanti «ad approvare il provvedimento bipartisan di spesa supplementare per la sicurezza nazionale prima che sia troppo tardi», E ha aggiunto che «opporsi fa solo il gioco di Putin. La storia ci guarda. Non riuscire a sostenere l'Ucraina in questo momento critico non sarà dimenticato. Ora è il momento di essere forti al fianco dell'Ucraina e essere uniti ai nostri alleati e partner».

(La Verità, 24 febbraio 2024)


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«America for ever»

di Marcello Cicchese

Vediamo quali sono le conclusioni che si possono trarre a questo punto dalla politica americana. Biden dice che Putin deve pagare il prezzo della sua aggressione all'Ucraina, e quindi lì la guerra deve andare avanti, costi quello che costi. Domanda: ma per la sua aggressione a Israele, anche Hamas dovrà pagare qualcosa? Sì, dice Biden, ma senza esagerare, perché adesso ci sono ben 30.000 morti palestinesi, tra cui chissà quanti bambini, e sono troppi. Davvero troppi. E poi - dice - che c'entrano i palestinesi con Hamas? Sì, ma, e i russi? Che c'entrano i russi con Putin? Perché per due anni li avete demonizzati come persone, per il semplice fatto che hanno il passaporto russo? E se siete sensibili ai morti e prendete nota con cura degli aggiornamenti palestinesi pubblicati da Hamas, perché non esigete la pubblicazione dei morti ucraini? facendovi aggiungere eventualmente anche la cifra presunta dei morti russi.
   La sintetica conclusione che si può trarre sulla politica americana è quella di una disgustosa ipocrisia moraleggiante a difesa dei propri interessi di predominio internazionale. L'America (USA) sta gradatamente perdendo la sua supremazia mondiale, e come fa spesso una grande potenza in declino, cerca di rallentare la sua discesa facendone pagare il prezzo maggiore agli alleati, che fino a quel momento ha trattato come suoi sottoposti. L'America ha interesse a che la guerra in Ucraina continui al fine di logorare le forze del nemico russo. E le va molto bene che questo avvenga a spese di ucraini ed europei. Gli americani guardano, rumoreggiano, pontificano e lasciano che a morire siano gli altri. L'Ucraina, liberata o no, alla fine della guerra sarà diventata uno straccio di nazione, in balia di non si sa chi. E questo non per l'iniziale, limitata invasione russa, ma perché gli anglo-americani hanno preteso che la guerra continuasse fino al raggiungimento del loro obiettivo: la disintegrazione della Federazione russa e la sua sparizione come grande potenza. Non ci sono riusciti, hanno fatto male i conti, come accade spesso agli americani. E adesso stanno cercando di farne pagare il conto ad altri.
   Tutto questo si collega con politica americana verso Israele, che è sempre la stessa, ma in condizioni molto diverse. In Israele l'America non ha interesse a che la guerra continui perché questo andrebbe a detrimento delle sue alleanze con i paesi arabi. Qui è il caso di contare i morti. Putin deve pagare, tutto e subito, Sinwar invece no: lui, si può farlo pagare a rate. Anche in questo caso hanno fatto male i conti. Adesso è Israele a dire: no, Sinwar deve pagare. E subito, costi quello che costi. Da Israele i costi sono pagati giorno per giorno, con la caduta dei propri figli in guerra, non di quelli degli altri, come accade in Ucraina. Ma il Presidente americano insiste, e poiché il Presidente israeliano resiste, lui dice che è "un figlio di p." Così si trattano gli alleati che non si allineano, secondo la pucciniana '"America for ever". Israele però non ci sta a far la parte di madama Butterfly.

(Notizie su Israele, 24 febbraio 2024)

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Media d’assalto

Sopravvissuti al 7 ottobre fanno causa alle testate dei freelance che attaccarono Israele con Hamas

ROMA - Alcuni sopravvissuti al pogrom di Hamas contro Israele del 7 ottobre e le famiglie delle vittime dell’attacco terroristico hanno intentato una causa contro l’Associated Press, accusando l’agenzia di stampa di essere complice della follia omicida del gruppo terroristico palestinese, a causa del lavoro dei fotoreporter freelance che accusano di essere stati incorporati nei ranghi di Hamas che hanno invaso Israele. I querelanti sono cittadini israelo-americani che hanno partecipato al festival musicale Supernova, dove i terroristi hanno massacrato 360 persone. Hanno presentato una denuncia in Florida, facendo causa all’Ap ai sensi della legge antiterrorismo.
   I sopravvissuti del 7 ottobre accusano l’Ap di “sostenere materialmente il terrorismo” acquistando immagini riprese durante e dopo l’attacco. HonestReporting aveva pubblicato un rapporto in cui mostrava che i fotografi utilizzati da Ap, Reuters, New York Times e Cnn fornivano immagini scattate mentre l’attacco era in corso. L’organizzazione ha elencato quattro fotoreporter i cui nomi compaiono nelle foto dell’Ap scattate nella zona di confine tra Israele e Gaza: Hassan Eslaiah, Yousef Masoud, Ali Mahmud e Hatem Ali. La denuncia si concentra principalmente su Eslaiah che, secondo HonestReporting, ha attraversato il confine con Israele e scattato foto di un carro armato in fiamme. E poi dei terroristi che entravano nel kibbutz Kfar Aza, dove decine di israeliani sono stati massacrati. Sia Mahmud sia Ali hanno scattato foto di israeliani rapiti da Israele a Gaza, afferma il rapporto. Eslaiah è apparso in una foto del 2020 mentre veniva baciato dal leader di Hamas a Gaza Yahya Sinwar.
   Ap, Reuters e New York Times hanno tutti negato di essere a conoscenza dell’attacco del 7 ottobre. Da allora, Ap e Cnn hanno interrotto i rapporti con Eslaiah. “Non c’è dubbio che i fotografi abbiano partecipato al massacro del 7 ottobre e che Ap avrebbe dovuto sapere, attraverso la semplice due diligence, che le persone che stavano pagando erano affiliati di Hamas e partecipanti all’attacco terroristico che stavano documentando”, si legge nella denuncia.
   “Ap non era a conoscenza in anticipo degli attacchi del 7 ottobre, né abbiamo alcuna prova che lo fossero i giornalisti che hanno contribuito alla nostra copertura”, ha risposto l’agenzia di stampa.
   E tra i vincitori dei George Polk Awards c’è proprio un giornalista che lavora per il New York Times accusato di essersi infiltrato in Israele la mattina dei massacri. Il premio è stato assegnato a Yousef Masoud. Il New York Times ha risposto così alle accuse: “False e scandalose”.
   HonestReporting ha anche documentato che, durante il 7 ottobre, due fotoreporter freelance residenti a Gaza che lavoravano per Ap e Reuters si vantarono dei filmati che avevano acquisito mentre accompagnavano “sin dall’inizio” i terroristi di Hamas. Ashraf Amra e il collega fotoreporter Mohammed Fayq Abu Mostafa si sono filmati dicendo: “Eravamo lì due ore fa, dall’inizio”. Smentiscono così gli organi d’informazione internazionali che avevano difeso i loro collaboratori locali sostenendo che non erano stati informati dell’attentato. Abu Mostafa esortava i palestinesi ad approfittare di fare irruzione in Israele, dicendo: “Consiglio a chi può andare: vada, vada! E’ un evento unico che non si ripeterà”.
   Se è vero quello che dicono le testate internazionali accusate, cioè che non avevano ovviamente alcuna notizia della partecipazione preventiva dei loro corrispondenti al 7 ottobre, restano due domande: chi sono i freelance di cui si servono? E, nel caso di una loro acclarata presenza sui luoghi dell’attentato, è lecito usarne le immagini?
   Dopo il caso del giornalista di al Jazeera Mohammed Wishah che aveva un secondo lavoro come comandante nelle unità missilistiche anticarro di Hamas, Israele accusa anche Ismail Abu Omar, un giornalista di al Jazeera ferito in un attacco israeliano vicino a Rafah, nel sud di Gaza, di essere un agente di Hamas. Oltre a lavorare per la stazione di proprietà del Qatar, Abu Omar avrebbe prestato servizio come vicecomandante di compagnia nel battaglione East Khan Younis di Hamas. La mattina del 7 ottobre, Abu Omar si è infiltrato in Israele e ha filmato dall’interno del kibbutz Nir.

Il Foglio, 24 febbraio 2024)

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Hamas potrebbe accettare ritiro parziale di Israele dalla Striscia

RIAD - Il movimento islamista palestinese Hamas potrebbe rinunciare a chiedere il ritiro completo di Israele dalla Striscia di Gaza, almeno in un primo momento, come parte di un accordo per il cessate il fuoco. Lo ha riferito una fonte vicina al movimento al sito d’informazione saudita “Asharq”, secondo cui Hamas ha “ammorbidito” le precedenti richieste per raggiungere un accordo. In particolare, il gruppo islamista sembrerebbe disponibile ad accettare una tregua temporanea invece di un cessate il fuoco permanente e lo scambio di un numero di prigionieri palestinesi molto minore rispetto a quanto richiesto nelle precedenti trattative.

(Nova News, 24 febbraio 2024)

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RAM 2, l’unità responsabile dell’assistenza ai soldati ricoverati

All’interno del RAM 2, l’unità del Corpo Medico dell’IDF responsabile dell’assistenza ai soldati ricoverati, si sono verificati significativi ampliamenti dall’inizio del recente conflitto.

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Le unità RAM 2 svolgono un ruolo cruciale nel rispondere alle esigenze pratiche ed emotive dei soldati feriti e delle loro famiglie, fungendo anche da collegamento con l’esercito per loro conto.
  A partire dalla recente guerra contro Hamas a Gaza, le unità RAM 2 sono diventate più grandi e più attive che mai. Tipicamente gestite da soldati che adempiono al servizio obbligatorio e da un ufficiale comandante, queste unità sono attualmente composte principalmente da riservisti, con una notevole enfasi sul coinvolgimento delle donne sia in tempo di pace che durante i conflitti.
  In Israele mancano ospedali militari dedicati, per cui i soldati feriti e malati vengono curati in centri medici civili. Le unità RAM 2 sono presenti nei principali ospedali del Paese per vigilare sul benessere dei soldati e delle loro famiglie. Secondo le statistiche del Ministero della Difesa pubblicate il 12 febbraio, oltre 2.880 soldati regolari e riservisti feriti sono stati ricoverati in ospedale durante il conflitto, di cui 1.326 dall’inizio dell’offensiva di terra, il 27 ottobre. Attualmente, 344 soldati sono ancora in ospedale.
  Il tenente colonnello Yonit Malkai, comandante del RAM 2 del Centro medico del Sheba, sottolinea l’importanza della comunicazione immediata e critica con le famiglie dei soldati feriti. Quando sono coscienti e in grado di parlare, i soldati vengono messi al telefono per informare i genitori del loro benessere. Questo piccolo gesto ha un peso emotivo significativo per le famiglie nei momenti di incertezza.
  L’unità RAM 2 del Sheba, comandata da Malkai, è composta da circa 50 soldati, per lo più riservisti. L’unità è divisa in varie sezioni, ognuna responsabile di diversi aspetti del sostegno ai soldati e alle loro famiglie. Questo supporto si estende non solo ai soldati feriti in guerra, ma anche a quelli ricoverati in ospedale per motivi di routine, come malattie, incidenti o ferite non legate al conflitto. Una sezione di RAM 2 riceve gli elicotteri dell’IDF in arrivo che trasportano soldati feriti, mentre un’altra stabilisce un contatto con i pazienti coscienti nel pronto soccorso o nella sala traumi. L’unità assicura un supporto continuo alle famiglie durante le prime ore critiche, fornendo aggiornamenti sulle condizioni del soldato e facilitando la comunicazione con il personale medico. Il sistema RAM 2 comprende personale medico dell’IDF responsabile del collegamento con il personale medico dell’ospedale, ufficiali di salute mentale che si occupano del benessere psicologico dei soldati feriti e un’altra sezione che si occupa delle questioni pratiche per le famiglie, come l’alloggio e il trasporto.
  I membri del RAM 2, che vanno da professionisti medici a soldati di varie unità, collaborano per garantire un’assistenza completa ai soldati ricoverati. L’unità coinvolge anche il Rabbinato dell’IDF per identificare i soldati in stato di incoscienza, e compiti logistici come la messa in sicurezza delle armi e la fornitura di oggetti personali fanno parte delle responsabilità della RAM 2.
  Nonostante alcuni aspetti del lavoro del RAM 2 siano logistici e banali, il tenente colonnello Malkai sottolinea la missione critica di fornire supporto emotivo. Che si tratti di tenere la mano di un genitore o di un soldato o di offrire una spalla su cui piangere, i legami che si formano durante questo periodo difficile sono considerati inestimabili e duraturi. La dedizione dell’unità ai soldati e alle loro famiglie sottolinea l’importanza del loro ruolo all’interno del Corpo medico dell’IDF.

(Israele360°, 23 febbraio 2024)

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Pubblicato il piano di Netanyahu per il dopoguerra a Gaza

Il piano tende ad escludere dalla gestione di Gaza l'Autorità Palestinese, almeno fino a quando manterrà questa forma. Chiusura della UNRWA ma non subito

di Sarah G. Frankl

Giovedì sera il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato al gabinetto di sicurezza un documento di principi sulla gestione di Gaza dopo la guerra, con l’obiettivo di installare “funzionari locali” non legati al terrorismo per amministrare i servizi nella Striscia al posto di Hamas.
Il documento, pubblicato nella notte in Israele, è in gran parte una raccolta di principi che il premier ha espresso fin dall’inizio della guerra, ma è la prima volta che vengono formalmente presentati al gabinetto per l’approvazione.
Per oltre quattro mesi, Netanyahu ha rinunciato a tenere discussioni nel gabinetto di sicurezza sul cosiddetto “giorno dopo” la guerra, temendo che ciò potesse portare a fratture nella sua coalizione di destra. Alcuni dei suoi ministri di estrema destra mirano a utilizzare tali riunioni al fine di spingere per il ripristino degli insediamenti israeliani a Gaza e per il controllo permanente della Striscia – politiche a cui il premier dice di opporsi e che sicuramente porterebbero alla dissipazione del rimanente sostegno di Israele in Occidente.
A Netanyahu è bastato dire che non permetterà all’Autorità Palestinese di tornare a governare Gaza. A volte ha qualificato questa affermazione dicendo che Israele non permetterà all’Autorità palestinese nella sua forma attuale di tornare nell’enclave palestinese, indicando che Israele potrebbe convivere con un’Autorità palestinese riformata sul tipo che l’amministrazione Biden sta studiando. Altre volte, però, Netanyahu ha rifiutato in maniera più generica di permettere a Gaza di diventare “Fatahstan”, riferendosi al partito politico guidato dal presidente dell’AP Mahmoud Abbas.
In particolare, il documento di principi che Netanyahu ha presentato ai ministri del gabinetto di sicurezza durante la riunione di giovedì sera non nomina specificamente l’Autorità palestinese né esclude la sua partecipazione alla governance postbellica di Gaza.
Invece, dice che gli affari civili a Gaza saranno gestiti da “funzionari locali” che hanno “esperienza amministrativa” e che non sono legati a “Paesi o entità che sostengono il terrorismo”.
Il linguaggio è vago, ma potrebbe riguardare gruppi che ricevono finanziamenti dal Qatar e dall’Iran – come Hamas – o forse l’Autorità Palestinese, il cui programma di welfare include pagamenti a terroristi condannati e alle loro famiglie.
Una dichiarazione dell’ufficio di Netanyahu ha affermato che il documento si basa su principi ampiamente accettati dall’opinione pubblica e che servirà come base per le future discussioni sulla gestione postbellica di Gaza.
Il piano inizia stabilendo un principio per l’immediato: L’IDF continuerà la guerra fino al raggiungimento dei suoi obiettivi, che sono la distruzione delle capacità militari e delle infrastrutture governative di Hamas e della Jihad islamica, la restituzione degli ostaggi rapiti il 7 ottobre e la rimozione di qualsiasi minaccia alla sicurezza della Striscia di Gaza proiettata nel lungo termine.
L’IDF manterrà una libertà operativa indefinita in tutta la Striscia per prevenire la ripresa delle attività terroristiche, si legge nel documento, che lo descrive come un principio a medio termine.
Il piano afferma che Israele andrà avanti con il suo progetto già in atto di stabilire una zona cuscinetto di sicurezza sul lato palestinese del confine della Striscia, aggiungendo che rimarrà in vigore “finché ci sarà una necessità di sicurezza”.
Questo punto del piano è direttamente in contrasto con uno dei principi dell’amministrazione Biden per il dopoguerra a Gaza, che afferma che non ci sarà alcuna riduzione del territorio dell’enclave.
Il documento presentato da Netanyahu offre anche i dettagli più concreti fino ad oggi riguardo ai piani di Israele per il confine tra Egitto e Gaza, che è stato afflitto dal contrabbando sia in superficie che in profondità. Il documento afferma che Israele imporrà una “chiusura al confine meridionale” per prevenire la ripresa delle attività terroristiche.
La chiusura sarà mantenuta con l’assistenza degli Stati Uniti e in cooperazione con l’Egitto “per quanto possibile”, si legge nel documento, in un apparente riconoscimento della disapprovazione del Cairo per l’apparente violazione della sua sovranità.
Il Cairo ha respinto le richieste israeliane di assumere il controllo del corridoio di Philadelphi sul confine tra Egitto e Gaza, ma in privato ha indicato una maggiore flessibilità, come hanno riferito diplomatici statunitensi e arabi. Sia gli Stati Uniti che l’Egitto, tuttavia, sono meno propensi a cooperare con tali piani che non siano parte di un’iniziativa più ampia volta a creare un percorso verso un eventuale Stato palestinese – cosa che Netanyahu rifiuta.
Il documento aggiunge che “la chiusura a sud sarà costituita da misure volte a prevenire il contrabbando dall’Egitto – sia nel sottosuolo che in superficie, compreso il valico di Rafah”.
Sempre nella fase intermedia, Israele manterrà il controllo della sicurezza “su tutta l’area a ovest della Giordania”, da terra, aria e mare, “per prevenire il rafforzamento degli elementi terroristici in [Cisgiordania] e nella Striscia di Gaza e per sventare le loro minacce verso Israele”, si legge nel documento.
Il piano di Netanyahu prevede la “completa smilitarizzazione di Gaza… al di là di quanto necessario per il mantenimento dell’ordine pubblico”. Aggiunge che Israele sarà responsabile della realizzazione di questo obiettivo per il prossimo futuro, lasciando potenzialmente aperta la porta ad altre forze per finire il lavoro in seguito.
Oltre ai “funzionari locali” che Netanyahu immagina responsabili dell’ordine pubblico e della fornitura di servizi civili, il documento aggiunge che Israele promuoverà anche un “piano di de-radicalizzazione… in tutte le istituzioni religiose, educative e assistenziali di Gaza”.
Anche questo sarà portato avanti “per quanto possibile con il coinvolgimento e l’assistenza dei Paesi arabi che hanno esperienza nella promozione della de-radicalizzazione”.
Questa linea sembra essere un cenno ai Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, ma entrambi hanno ripetutamente chiarito che non giocheranno alcun ruolo nella riabilitazione di Gaza a meno che non sia parte di un quadro finalizzato a un’eventuale soluzione a due Stati.
Gli analisti hanno espresso anche un forte scetticismo nei confronti dell’obiettivo di Netanyahu di consacrare i leader dei clan palestinesi non affiliati, notando la probabilità che qualsiasi leader di comunità palestinese visto cooperare apertamente e unilateralmente con Israele sarà rapidamente delegittimato e forse vedrà addirittura la sua vita in pericolo. Dicono che uno sforzo simile è stato fatto dagli Stati Uniti dopo l’invasione dell’Iraq due decenni fa, ma che si è ritorto contro di loro.
Di conseguenza, la comunità internazionale sta spingendo affinché l’Autorità palestinese finisca per governare Gaza, dato che dispone già di alcune infrastrutture per farlo. La sua legittimità tra i palestinesi è carente, ma le parti interessate sperano che la situazione cambi dopo l’introduzione di una serie di riforme.
Un funzionario israeliano, che ha rivelato giovedì scorso che questo aspetto del piano è già in fase avanzata, ha sostenuto che l’AP non dovrebbe essere inclusa nella governance post-bellica per la sua mancata condanna dell’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre, quando migliaia di terroristi guidati da Hamas si sono scatenati in una furia omicida nel sud di Israele, uccidendo 1.200 persone e prendendo 253 ostaggi.
Un altro aspetto chiave del documento di principi di Netanyahu è la chiusura dell’agenzia di soccorso delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, l’UNRWA. Il documento rileva il presunto coinvolgimento di 12 dipendenti dell’UNRWA nell’assalto del 7 ottobre e afferma che Israele lavorerà per sostituire l’agenzia con “organizzazioni umanitarie internazionali responsabili”.
Nel breve termine, tuttavia, un alto funzionario israeliano ha dichiarato che Gerusalemme si oppone allo scioglimento immediato dell’UNRWA. Il funzionario ha spiegato che l’UNRWA è attualmente la principale organizzazione di distribuzione degli aiuti sul territorio e che la sua chiusura rischia una catastrofe umanitaria che potrebbe costringere Israele a cessare i combattimenti contro Hamas.
In particolare, il documento chiarisce che Israele permetterà l’inizio della ricostruzione di Gaza solo dopo il completamento della smilitarizzazione della Striscia e l’avvio del “processo di de-radicalizzazione”.
“Il piano di riabilitazione sarà finanziato e guidato da Paesi graditi a Israele”, si legge nel documento, ancora una volta in contrasto con molti dei Paesi considerati potenziali donatori, che chiedono che la ricostruzione di Gaza sia accompagnata da un orizzonte politico per i palestinesi.
Il piano di Netanyahu si conclude ribadendo un paio di principi adottati all’inizio di questa settimana sia dal Gabinetto che dalla Knesset: Israele rifiuta categoricamente qualsiasi imposizione internazionale riguardo a un accordo permanente con i palestinesi, che dovrebbe essere raggiunto solo attraverso negoziati diretti tra le parti, senza precondizioni; Israele continuerà a opporsi al riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese, che considera una “ricompensa per il terrore”.

(Rights Reporter, 23 febbraio 2024)

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Fabio Brescacin e i datteri dei Kibbutz: «lavorare con Israele è giusto e sano»

Dopo il tentativo di boicottaggio, intervista al fondatore di NaturaSì che lavora da trent’anni con coltivatori israeliani, dei quali apprezza la gestione. Alle critiche risponde: «Non entriamo in diatribe politiche, ma guardiamo a persone  e qualità della frutta. Apprezzo la competenza agricola di Israele»

di David Fiorentini

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“Miriamo a creare relazioni trasparenti e durature con i nostri clienti e i nostri fornitori. L’azienda deve sforzarsi di perseguire un continuo processo di miglioramento professionale e di efficienza per dare un servizio sempre più appropriato e meno costoso agli altri attori del processo economico.” Questa è parte della missione di EcorNaturaSì, la catena di alimentari specializzata in prodotti biologici e biodinamici, che recentemente è stata criticata per la vendita di datteri israeliani. Per approfondire la questione e comprendere la posizione dell’azienda, abbiamo intervistato il presidente e fondatore Fabio Brescacin. Nato a Conegliano Veneto (TV), classe 1955, si è laureato in Scienze Agrarie all’Università degli Studi di Padova, e dopo un’esperienza all’estero presso l’Emerson College in Inghilterra, è tornato in Italia dove ha intrapreso la sua avventura nel mondo bio.

- Non è il primo anno che importate i datteri dai kibbutz in Israele. Come siete entrati in contatto con loro?
  Guardi, la storia è abbastanza lunga. Circa 30 anni fa, abbiamo iniziato a collaborare con un agricoltore triestino di religione ebraica, che dopo la Seconda Guerra Mondiale era riuscito ad andare in Israele, fondando di fatto il biologico nel paese. All’epoca, avevamo particolarmente bisogno di carote bio durante l’inverno, perché non le facevamo ancora in Italia, e quindi abbiamo lavorato diversi anni con lui e il suo Kibbutz.
   In seguito, ci siamo interfacciati con una cooperativa israeliana, Hadiklaim, la quale a sua volta ci ha messo in contatto con i due Kibbutz, che attualmente ci forniscono datteri. Da qui abbiamo iniziato a importare i datteri e devo dire che ci siamo trovati molto bene, perché sinceramente è un dattero di ottima qualità, che la gente apprezza.
   Tra l’altro, due nostri colleghi li hanno visitati qualche anno fa e hanno avuto un’ottima impressione, per cui a maggior ragione abbiamo continuato a lavorare con loro.

- Quest’anno invece avete ricevuto varie critiche in merito alla vostra collaborazione con un’azienda israeliana. Come avete reagito?
  Quest’anno abbiamo ricevuto alcune segnalazioni che contestavano il fatto che noi vendevamo prodotti israeliani. Però noi abbiamo risposto a tutte quante dicendo che non entriamo in questioni politiche, ma guardiamo alle persone, guardiamo alla realtà.
   La nostra posizione è questa, e vale per tutti, non solo per Israele e Palestina. Noi guardiamo alle realtà concrete che lavorano, per questo continuiamo a lavorare con questi Kibbutz, così come lavoriamo con fornitori di datteri egiziani e tunisini.
   La gente è libera di fare le proprie scelte. Io volevo andare in Israele proprio in primavera, su invito dei responsabili dei Kibbutz, però adesso in questa situazione non sarà possibile.
   Abbiamo anche un’agenzia di viaggi che collabora con noi, ViandantiSì, e avevo previsto proprio di organizzare dei tour in Israele, magari inserendo questi Kibbutz nel programma. Appena sarà possibile mi piacerebbe andare giù, anche con i consumatori o magari invitando proprio quei critici, affinché vedano chi c’è dietro queste linee di produzione e si facciano un’idea concreta e reale della situazione.

- Pensa che questi tentativi di boicottaggio possano influenzare le vostre scelte in termini di collaborazioni future? Soprattutto se poi si declinano in una diminuzione delle vendite…
  In realtà abbiamo venduto bene, non abbiamo ancora i conti finali, ma i dati che mi stanno dando i miei colleghi sono mediamente superiori a quelli degli scorsi anni, abbiamo fatto un bel lavoro per i datteri, siamo contenti.
   Come già detto, guardiamo alle realtà: questo vale per la Cina, dove di certo non ci interfacciamo con persone a caso, ma con fornitori di fiducia, lo stesso per l’India o il Sud America. In questi anni abbiamo creato una rete che reputiamo virtuosa, indipendentemente dalle situazioni politiche o dei governi locali; altrimenti non potremmo più importare nulla.
   La chiave è stata la trasformazione di queste critiche in opportunità positive. Abbiamo intensificato i confronti con i fornitori, ci hanno inviato dei video, insomma abbiamo avuto un’ottima occasione per approfondire. In questo modo, siamo riusciti a creare relazioni più strette con le persone, e grazie a questo ci siamo ancora più convinti della nostra scelta.

(Bet Magazine Mosaico, 23 febbraio 2024)

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Come gli Stati Uniti hanno abbandonato Israele sotto Biden

di Robert Williams

"Vengo in Israele con un unico messaggio: Non siete soli", ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden subito dopo il massacro del 7 ottobre da parte dell'organizzazione terroristica Hamas di israeliani, musulmani, americani, europei, filippini e thailandesi che si stavano godendo un sabato di vacanza nel sud di Israele. "Finché gli Stati Uniti resteranno in piedi - e resteranno in piedi per sempre - non vi lasceremo mai soli", ha continuato Biden.

    “Sono venuti in superficie ricordi dolorosi e cicatrici lasciate da millenni di antisemitismo e dal genocidio del popolo ebraico. Il mondo ha guardato, sapeva, e non ha fatto nulla. Non staremo a guardare e a non fare nulla di nuovo. Né oggi, né domani, né mai. Israele deve tornare a essere un luogo sicuro per il popolo ebraico. E ve lo prometto: Faremo tutto ciò che è in nostro potere per assicurarci che lo sia".

Non ci è voluto molto, tuttavia, perché l'amministrazione Biden stravolgesse completamente questa promessa. L'inversione di rotta è iniziata con le richieste degli Stati Uniti a Israele di ridimensionare le operazioni militari, che erano già state ridotte al di là di qualsiasi operazione militare nella storia della guerra urbana, al punto da mettere in pericolo la vita dei soldati israeliani. Le Forze di Difesa Israeliane hanno lanciato migliaia di volantini che esortavano i gazesi a fuggire a sud verso aree di sicurezza designate. Invece di bombardare a tappeto, che avrebbe evitato la morte di centinaia di soldati israeliani, l'IDF ha condotto solo attacchi aerei mirati e ha manovrato a piedi attraverso vicoli e centinaia di chilometri di tunnel con trappole esplosive. Hamas, nel frattempo, sparava sui suoi stessi cittadini per impedire loro di fuggire per mettersi in salvo, in modo che l'IDF dovesse combattere i terroristi di Hamas incorporati nella popolazione civile.
"Israele ha messo in atto più misure per prevenire le vittime civili di qualsiasi altra nazione nella storia", ha scritto John Spencer, uno dei maggiori esperti di guerra urbana e sotterranea, che presiede gli studi sulla guerra urbana presso l'Istituto di Guerra Moderna dell'Accademia Militare degli Stati Uniti di West Point.

    Israele ha fornito giorni e poi settimane di avvertimenti, nonché il tempo necessario ai civili per evacuare diverse città nel nord di Gaza prima di iniziare l'attacco principale aria-terra alle aree urbane". Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno utilizzato la loro pratica di telefonare e mandare messaggi prima di un attacco aereo, nonché il roof-knocking, che prevede il lancio di piccole munizioni sul tetto di un edificio per avvisare tutti di evacuare l'edificio prima di un attacco.
    Nessun esercito ha mai messo in atto una di queste pratiche in guerra".
    L'IDF ha anche sganciato volantini per dare ai civili istruzioni su quando e come evacuare, compresi i corridoi sicuri...".
    "Anche l'uso da parte di Israele di telefonate reali ai civili nelle aree di combattimento (19.734), di SMS (64.399) e di chiamate preregistrate (quasi 6 milioni) per fornire istruzioni sulle evacuazioni non ha precedenti".

Ciononostante, l'amministrazione Biden ha intensificato le sue critiche fino a insinuazioni sfacciate contro Israele di presunte malefatte nella sua guerra a Gaza.
"Il 7 ottobre gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile", ha dichiarato il Segretario di Stato americano Antony Blinken durante una visita in Israele all'inizio di febbraio. "Gli ostaggi sono stati disumanizzati ogni giorno da allora, ma questo non può essere una licenza per disumanizzare gli altri", ha proseguito Blinken, insinuando che Israele stesse "disumanizzando" i gazesi.

    "Il tributo giornaliero che le operazioni militari [di Israele] continuano a fare a civili innocenti rimane troppo alto. Esortiamo Israele a fare di più per aiutare i civili, ben sapendo di dover affrontare un nemico che non si atterrebbe mai a questi standard".

Nessuno sa quanti civili siano stati uccisi a Gaza. I numeri delle vittime sono emessi esclusivamente dal Ministero della Sanità di Gaza - gestito, ovviamente, da Hamas, che classifica ogni vittima come civile.
Quando Blinken "accusa Israele - in modo impreciso, ingiusto e diffamatorio - di disumanizzare i palestinesi", ha commentato l'ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Michael Oren, "ci disumanizza e contribuisce alla delegittimazione di Israele e alla demonizzazione degli ebrei in tutto il mondo".
All'inizio di febbraio, Biden ha dichiarato ai giornalisti: "Sono del parere, come sapete, che la condotta della risposta a Gaza - nella Striscia di Gaza - sia stata sopra le righe". La segretaria stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha poi cercato di "chiarire" il commento dicendo che Biden intendeva dire che Israele deve garantire che le sue "operazioni siano mirate e condotte in modo da proteggere i civili innocenti".
Il governo statunitense, tuttavia, è pienamente consapevole che Israele fa più di qualsiasi altro esercito - persino più degli Stati Uniti - per proteggere i civili. Il portavoce della Casa Bianca John Kirby, contrammiraglio della Marina in pensione, ha dichiarato il 13 febbraio:

    "Li abbiamo visti [le IDF] intraprendere azioni - a volte azioni che nemmeno i nostri militari sarebbero in grado di intraprendere - in termini di informazione delle popolazioni civili prima delle operazioni, dove andare o non andare".

Kirby ha anche definito l'azione legale del Sudafrica contro Israele per la sua guerra a Gaza "priva di merito, controproducente e completamente priva di qualsiasi base di fatto".
Recentemente, l'amministrazione Biden ha fatto un ulteriore passo avanti nella sua posizione anti-Israele. Il Dipartimento di Stato americano sta ora "indagando" sugli attacchi aerei israeliani a Gaza, che avrebbero ucciso decine di civili, e sulle accuse che Israele abbia usato il fosforo bianco in Libano. L'obiettivo, secondo i funzionari statunitensi che hanno parlato con il Wall Street Journal, è "determinare se uno dei più stretti alleati dell'America abbia usato impropriamente le sue bombe e i suoi missili per uccidere civili".
Inoltre, l'amministrazione Biden avrebbe indagato "per mesi" sulla campagna militare di Israele a Gaza, nonostante le rassicurazioni sul fatto che non stesse facendo nulla del genere. Kirby ha dichiarato ai giornalisti il 4 gennaio:

    "Non sono a conoscenza di alcun tipo di valutazione formale fatta dal governo degli Stati Uniti per analizzare il rispetto del diritto internazionale da parte del nostro partner Israele... dobbiamo adottare un approccio diverso in termini di tentativo di aiutare Israele a difendersi".

Tuttavia, l'Huffington Post ha scritto il 13 febbraio che, secondo funzionari dell'amministrazione Biden non citati, le indagini si sono svolte sia nel Dipartimento di Stato che in quello della Difesa:

    "A livello interno, i funzionari statunitensi hanno valutato le possibili violazioni del diritto internazionale da parte di Israele per mesi, e stanno continuando a farlo, ha appreso l'HuffPost da quattro fonti che hanno familiarità con le discussioni private sulle valutazioni".

La cosa più eloquente dell'abbandono di Israele da parte degli Stati Uniti, mentre combatte il terrorismo per conto della civiltà occidentale, sono le notizie secondo cui Biden, in coalizione con Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e rappresentanti palestinesi, avrebbe fretta di ricompensare Hamas per il massacro del 7 ottobre - che ha giurato di ripetere "ancora e ancora" finché Israele non sarà annientato - con un piano "irreversibile" per la creazione di uno Stato palestinese. Secondo il Washington Post del 14 febbraio:

    "L'amministrazione Biden e un piccolo gruppo di partner mediorientali si stanno affrettando a completare un piano dettagliato e completo per una pace a lungo termine tra Israele e i palestinesi, che includa un calendario preciso per la creazione di uno Stato palestinese, che potrebbe essere annunciato già nelle prossime settimane".

Il gruppo di Paesi che vogliono imporre a Israele una soluzione a due Stati si estende ben oltre il Medio Oriente:

    "La cerchia dei sostenitori di un piano deciso si estende oltre il piccolo gruppo di coloro che ci stanno lavorando direttamente. Il ministro degli Esteri britannico David Cameron ha espresso pubblicamente il suo interesse per un rapido riconoscimento di uno Stato palestinese.
    L'Unione Europea sta "cercando di capire come possiamo lavorare insieme per avere un piano più ampio che si concentri effettivamente sulla fine del conflitto", ha dichiarato Sven Koopmans, rappresentante speciale dell'Unione Europea per il processo di pace in Medio Oriente. Si tratta di un vero e proprio processo di pace che vuole arrivare a uno Stato palestinese indipendente e pienamente riconosciuto e a uno Stato di Israele sicuro e pienamente integrato nella regione. È fattibile? È estremamente difficile, ma in assenza di altri piani, siamo interessati a perseguirlo".

L'unico Paese rilevante che apparentemente non è stato invitato alle discussioni "urgenti" è Israele. Evidentemente il mondo non lo considera uno Stato sovrano a cui è consentito prendere le proprie decisioni in materia di sicurezza. Invece, Israele deve presumibilmente essere costretto a fare la "pace" con un nemico che ha giurato di stuprare, mutilare, torturare, bruciare e uccidere fino all'eliminazione di ogni ebreo nella terra.
Il governo israeliano ha immediatamente rilasciato una dichiarazione:

    "Israele rifiuta categoricamente i dettami internazionali riguardanti un accordo finale con i palestinesi. Tale accordo sarà raggiunto esclusivamente attraverso negoziati diretti tra le parti, senza precondizioni. Israele continuerà ad opporsi al riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese. Tale riconoscimento, sulla scia del massacro del 7 ottobre, darebbe un'enorme ricompensa a un terrorismo senza precedenti e impedirebbe qualsiasi futuro accordo di pace".

Tuttavia, anche questo è stato distorto dai media ostili. Secondo Honest Reporting:

    “Quello che la dichiarazione di Israele non ha fatto sul riconoscimento unilaterale  è stato opporsi alla statualità palestinese in generale. Cioè, Israele non ha rifiutato apertamente l'idea che uno Stato palestinese possa essere formato come parte di un accordo di pace più ampio... Il fatto è che Israele ha dimostrato più volte di essere disposto a negoziare con i palestinesi e di non opporsi alla realizzazione di uno Stato palestinese.... Per i media suggerire il contrario è solo revisionismo storico".

L'interesse principale dell'amministrazione Biden, tuttavia, sembra chiaramente non essere quello dei fatti. Piuttosto, sembra essere quello di diffamare e prendere le distanze da Israele, forse nella speranza di ottenere più "swing states" nelle prossime elezioni americane di novembre.
Biden sta perdendo elettori, tuttavia, per ragioni diverse dalle sue opinioni su Israele. Si può cominciare con il recente rapporto Hur del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, secondo il quale Biden non sarebbe stato accusato dei crimini che avrebbe commesso, di aver preso illegalmente e conservato in modo non sicuro documenti classificati, perché è un "uomo anziano e di buone intenzioni con scarsa memoria"... perfetto per guidare il Paese? Da quando Biden ha iniziato il suo mandato nel gennaio 2021, l'America ha visto anche "un'inflazione galoppante"; una frontiera aperta che il direttore dell'FBI Christopher Wray, secondo la Commissione per la sicurezza interna della Camera, ha detto che "pone [una] grave minaccia alla sicurezza", così come, ha avvertito Wray:

    “la Cina ha la capacità di 'creare scompiglio' nelle infrastrutture statunitensi e di danneggiare direttamente gli americani .... i nostri impianti di trattamento dell'acqua, la nostra rete elettrica, i nostri oleodotti e gasdotti, i nostri sistemi di trasporto.... colpi bassi contro i civili fanno parte del piano della Cina".

Infine, c'è il pericolo incalcolabile per il Medio Oriente e il Nord America di un regime iraniano con ambizioni illimitate, in procinto di produrre bombe nucleari illimitate.
Biden, evidentemente, non sembra intenzionato a rendere Israele o il mondo libero di nuovo un luogo sicuro. Almeno non se questo potrebbe compromettere la sua rielezione.

(Gatestone Institute, 22 febbraio 2024 - trad. ilvangelo-israele.it)

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Parashà di Tetzavè: Il proselita e i vestimenti del kohèn gadòl

di Donato Grosser

In questa parashà l’Eterno diede istruzioni a Moshè per il confezionamento dei vestimenti dei kohanìm. Otto vestimenti per Aharon, che doveva essere kohèn gadòl, e quattro per gli altri kohanìm.
   ​Nella Torà è scritto: “Farai confezionare per Aharon, tuo fratello, vestimenti sacri, segno di dignità e magnificenza” (Shemòt, 28:2).
   ​Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) nel suo commento alla Torà, a proposito dei vestimenti del kohèn gadòl, scrive che il kohèn gadòl “… dev’esser distinto e sontuoso con abiti di dignità e magnificenza, proprio come dice la Scrittura, «Come uno sposo che si adorna di un diadema» (Yesha’yà, 61:10), poiché questi vestimenti sono come quelli che i monarchi indossavano al tempo in cui fu data la Torà. Così troviamo in riferimento alla tunica [di Yosef quando il padre Ya’akòv] «Gli fece una tunica a di tessuto a quadretti di colori variegati» (Bereshìt, 37:3) e r. Avraham Ibn Ezra (Tudela, 1089-1167, Calahorra) spiega «Che lo vestì come i figli di antichi re»”. ​
   Che i vestimenti del kohèn gadòl fossero di stile regale lo conferma il Talmud nel trattato Meghillà (12a) dove è raccontato che re Achashverosh, in occasione della grande festa che fece a Shushàn, si adornò con i vestimenti del kohèn gadòl.
   ​Rashì (Troyes, 1040-1105) spiega che questi vestimenti erano parte del bottino che re Nevuchadnetzar aveva preso da Gerusalemme quando aveva conquistato la città.
   ​Nel Talmud (Shabbàt, 31a) è raccontato che questi vestimenti suscitarono l’immaginazione di un gentile che passava vicino a una scuola: “… un gentile che stava passando dietro a una scuola, sentì la voce di un maestro che stava insegnando Torà ai suoi studenti. Il maestro leggeva il versetto: «E questi sono gli vestimenti che faranno: un pettorale, un dorsale, un manto, una tunica lavorata a quadretti, un turbante e una cintura» (Shemòt, 28:4). Il gentile disse: Questi vestimenti a chi sono destinati? Gli studenti gli dissero: al kohèn gadòl. Il gentile disse tra sé: andrò a convertirmi affinché mi nominino kohèn gadòl.
   ​Si presentò a Shammai e gli disse: Convertimi a condizione che tu mi nomini kohèn gadòl. Shammai lo respinse con l’asta di misura da geometra che aveva in mano. Andò da Hillel; Hillel accettò di convertirlo [Maharsha], ma prima gli disse: Non è forse appropriato che solo chi conosce i protocolli della regalità venga nominato re? Vai e impara i protocolli reali impegnandoti nello studio della Torà.
   ​Il gentile andò a leggere la Torà. Quando arrivò al versetto che dice [che solo i leviti potevano avvicinarsi al Mishkàn] e che «… lo straniero che si avvicinerà morirà» (Bemidbàr, 1:51), il gentile disse a Hillel: A chi si riferisce questo versetto? Hillel gli disse: Anche a Davide, re d’Israele. Il gentile fece una deduzione a fortiori: Il popolo ebraico è chiamato figlio dell’Onnipresente, e per l’amore verso di loro Egli ha detto: «Israele è Mio figlio primogenito» (Shemòt, 4:22). Con tutto ciò anche riguardo a loro è scritto: «E lo straniero che si avvicinerà morirà». Se così, a maggior ragione questo vale anche per un proselita come me venuto con nient’altro che il bastone e la borsa da viaggio.
   ​Il gentile andò da Shammai e gli disse che ritrattava la sua richiesta di essere nominato kohèn gadòl, dicendo: Sono davvero degno di essere kohèn gadòl? Non è scritto nella Torà: «E lo straniero che si avvicina morirà?». Poi andò da Hillel e gli disse: Hillel, hai avuto pazienza [con me], sii benedetto per avermi portato sotto le ali della Presenza Divina”.

(Shalom, 23 febbraio 2024)
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Parashà della settimana: Tetsavè (Ordinerai)

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Attentato a Ma’ale Adumin, un morto, molti feriti

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In licenza da una settimana dopo mesi di combattimento a Gaza, Hanania Ben Shimon, riservista di 23 anni, questa mattina era in auto con sua madre sull’autostrada 1. Si stavano dirigendo verso Gerusalemme, quando sono rimasti bloccati nel traffico vicino all’insediamento di Ma’ale Adumin. Là tre terroristi palestinesi sono scesi da un’auto a poca distanza e hanno iniziato a sparare con armi automatiche contro le macchine ferme. Hanno ucciso un ragazzo di 26 anni, Matan Elmaleh, e ferito altre dieci persone, tra cui Adi Zohar, una donna di 30 anni incinta. Il nascituro sta bene, riportano i media israeliani. La madre ha riportato ferite gravi, ma non è in pericolo di vita. “Ha visto un’auto centrarne un’altra davanti a lei. Ha pensato a un incidente. – ha raccontato il padre della donna, Eli Biton – Poi la portiera del conducente si è aperta. Il terrorista è andato dritto verso Adi. Lei ha visto l’arma e lui le ha sparato una volta, continuando la sua strada verso altri veicoli. È un grande miracolo che sia viva”.
   Nel caos dell’attentato terroristico, Hanania è stato tra i primi a rispondere alla minaccia. “Ha sparato il primo proiettile attraverso il finestrino dell’auto, poi è uscito e ha lottato con uno dei terroristi. È riuscito a eliminarlo, rimanendo a sua volta ferito”, ha raccontato il padre del riservista a ynet. Hanania è ora ricoverato in ospedale con diverse ferite di proiettile all’addome. “È cosciente, le sue condizioni sono descritte come moderate. – ha spiegato il padre – Sono certo che si rimetterà presto e tornerà per salvare altre vite”. Due dei terroristi sono stati eliminati sul posto, mentre un terzo è stato colpito mentre cercava di fuggire dalla zona. È ricoverato, ma non sono state rese note le sue condizioni. I tre sono arrivati da Betlemme con due veicoli diversi, creando loro volutamente l’ingorgo, secondo le ricostruzioni dei testimoni. Per la dinamica e per le armi usate – tra cui un M16 – la polizia israeliana ritiene si tratti di un attacco pianificato da tempo. In uno dei veicoli dei terroristi c’erano diversi proiettili e una granata.
   Autorità e residenti di Maale Adumim hanno più volte definito l’area teatro dell’attentato come “una trappola mortale” per la facilità con cui si creano ingorghi e per la difficoltà eventualmente di fuggire. “Abbiamo avvertito decine di volte le forze di sicurezza del timore di un attacco su questa strada trafficata. Abbiamo chiesto nuovi checkpoint e di separare i veicoli israeliani da quelli palestinesi”, ha dichiarato Benny Kashriel, sindaco di Ma’ale Adumim.

(moked, 22 febbraio 2024)

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Stupri di massa, mutilazioni e atti bestiali

Il rapporto sugli abusi sessuali subiti dalle vittime e dai rapiti del 7 ottobre

di Sarah Tagliacozzo

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L’Associazione israeliana dei Centri della Crisi sugli Stupri (ARCCI) ha pubblicato un rapporto sugli abusi sessuali, le violenze e le mutilazioni subite dalle vittime dell’attacco terroristico nel sud di Israele il 7 ottobre e durante la prigionia nella Striscia di Gaza da parte degli ostaggi rapiti dai terroristi di Hamas.
   Il rapporto è stato presentato all’inviato speciale sulle violenze sessuali nelle zone di conflitto e mette in luce il ricorso sistematico allo stupro e agli abusi sessuali nei confronti sia di uomini che di donne.
   Le autrici del rapporto, Klar-Chalamish e Noga Berger, hanno analizzato dati pubblici e riservati, testimonianze ed interviste a medici e al personale che ha prestato il primo soccorso alle vittime dell’attentato. Sono stati pubblicati solo dettagli provenienti da fonti considerate attendibili.
   Le principali aree in cui si sarebbero verificati episodi di violenza sessuale sono i kibbutz, l’area in cui si stava svolgendo il Supernova festival, le basi militari a cui si aggiungono gli abusi sessuali subiti dagli ostaggi nella Striscia di Gaza.
   L’indagine pubblicata riporta che molti stupri sono avvenuti con la collaborazione di più di un terrorista e a volte di fronte ad un pubblico di partner, familiari o amici, per aumentare il dolore e l’umiliazione di tutti i presenti.
   Testimonianze e dati cruenti che secondo Orit Sulitzeanu, presidente dell’Associazione, «non lasciano spazio a smentite o disattenzioni. L’organizzazione terroristica di Hamas ha scelto di ferire strategicamente Israele in due modi chiari: rapendo cittadini e commettendo crimini sessuali sadici».
   Tra le informazioni incluse emerge che gli stupri sarebbero stati particolarmente violenti e perpetrati con la minaccia delle armi. Molte le testimonianze raccolte comprendono i racconti di sopravvissuti che hanno assistito agli stupri da parte di più terroristi che hanno anche ferito, picchiato e poi ucciso la vittima.
   «Molti dei corpi delle vittime sono stati trovati mutilati e piegati, con gli organi sessuali attaccati brutalmente e in alcuni casi anche con armi inserite al loro interno. Alcuni corpi sono stati scoperti con trappole esplosive». Inoltre, in alcuni cadaveri di donne e bambine, secondo quanto riportato dall’indagine, sono stati trovati coltelli inseriti negli organi genitali.
   Tra le testimonianze raccolte vi è quella di un soccorritore, Noam Mark, che ha rinvenuto i corpi di tre giovani donne che avevano partecipato al Supernova Festival. I loro corpi sono stati scoperti in un kibbutz e riportavano evidenti segni di violenza sessuale.
   Le autrici del rapporto sottolineano che «mentre le cicatrici dei nostri cuori si rifiutano di guarire e le anime delle nostre sorelle e fratelli ci gridano dalle profondità della terra, una parte significativa di coloro che consideravamo partner ha risposto nel silenzio e nella negazione di questi orrori. Vi invitiamo ad alzare la voce e a non permettere che il grido di queste vittime si affievolisca».

(Shalom, 22 febbraio 2024)

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Macché sanzioni: siamo in affari con Putin >

Due anni di retorica sullo zar moribondo, l'esercito russo a pezzi, il crollo imminente. Risultato: centinaia di migliaia di morti mentre volano le importazioni alimentari da Mosca (il grano duro fa + 1.164%) e, grazie alle triangolazioni, pure quelle di petrolio.

di Maurizio Belpietro

Negli ultimi due anni ci hanno raccontato che la Russia non avrebbe potuto resistere alle sanzioni internazionali, che Putin era gravemente malato e forse addirittura già morto, e quand'anche non fosse passato a miglior vita, le lotte di potere al Cremlino, comunque, lo avrebbero presto disarcionato. Non conto le analisi pubblicate dalla stampa italiana e straniera sul crollo delle importazioni di gas e petrolio, sull'esclusione dal sistema bancario di regolazione dei crediti,  sui tremori delle mani e dei piedi dello zar, indicati come spia di una malattia degenerativa, sull'impreparazione delle truppe russe, sul golpe di Prigozhin e sulla controffensiva ucraina. Tutto lasciava presagire che la guerra sarebbe finita presto e, inevitabilmente, che a essere sconfitta dall'alleanza occidentale sarebbe stata Mosca.
  Peccato che niente di tutto ciò si sia verificato e che ora, da giorni, la grande stampa sia piena di allarmi sulle prossime mosse di Putin, il quale non si accontenterebbe del Donbass, ma si preparerebbe tra uno, due o cinque anni ad attaccare un Paese Nato e a invadere - udite, udite - l'Europa. Dalle principali capitali del Vecchio continente e dai vertici della Nato arrivano preoccupati solleciti che invitano gli Stati che fanno parte della Ue ad armarsi. Un po' perché se vince Trump l'America promette di disinteressarsi dei destini europei, e un po' perché l'orso russo è diventato il nuovo babau, da agitare al momento giusto, quando c'è qualche difficoltà.
  Allora, così come non ho quasi mai creduto alle previsioni ottimistiche circolate all'inizio della guerra sul collasso di Mosca, sull'assassinio di Putin, sulla rivolta degli oligarchi e degli intellettuali russi, né ho mai pensato che davvero lo zar fosse gravemente malato o addirittura passato a miglior vita e già sostituito da una controfigura o che la controffensiva avrebbe avuto alcuna possibilità di indurre l'invasore alla resa, oggi non credo che la Russia si prepari ad altre guerre dopo quella con l'Ucraina. Per Putin è già una vittoria aver tenuto le posizioni conquistate con il blitz del 24 febbraio di due anni fa e addirittura aver resistito a tutte le sanzioni occidentali, costruendo nuove alleanze con Cina, Iran, Corea del Nord, presentandosi come mediatore o catalizzatore delle istanze in Medio Oriente, dopo lo scoppio della guerra fra Israele e Hamas.
  No, non credo che Mosca affili le armi per un conflitto che inevitabilmente vedrebbe coinvolti direttamente i Paesi Nato. Fino a oggi Putin ha combattuto contro l'America e l'Europa per interposta nazione. O meglio: contro un popolo che è dieci volte inferiore al suo. Centomila soldati ucraini morti non equivalgono a centomila militari russi morti. Kiev sta vedendo scomparire quasi una generazione, la stessa cosa non si può dire della Russia. Perché le guerre non si combattono solo con i droni e i cannoni, ma come abbiamo visto anche nelle trincee, e l'Occidente può spedire tutte le armi che vuole, ma poi serve qualcuno che al fronte prema il grilletto. E siccome non penso che l'opinione pubblica americana ed europea sia pronta a combattere una guerra, così come non ritengo che lo voglia fare la Russia, perché sarebbe un massacro dall'una e dall'altra parte con un'estensione del conflitto ad altri Paesi, non mi convincono affatto gli allarmi di questi giorni sulla possibilità di attacchi alla Nato.
  Dunque, come mai all'improvviso tutti sembrano temere questa ipotesi? Per la semplice ragione che il consenso intorno all'Ucraina è ai minimi. Secondo un sondaggio dell'European council on foreign relations, solo il 10% degli europei pensa che l'Ucraina possa sconfiggere la Russia. Tutti gli altri o temono una vittoria russa o auspicano che dal conflitto si esca in fretta con un compromesso.
  Credo che i dati spieghino meglio di tante chiacchiere perché le cancellerie europee agitino il pericolo di un attacco di Mosca a un Paese Ue. Se il rischio è una nuova invasione, fra uno, due o cinque anni, non ci si può sedere adesso a un tavolo con Putin, perché un dittatore è un dittatore e non ci si può fidare. L'unica soluzione resta la guerra a  oltranza, fino alla fine, anche se la vittoria è impossibile o sempre meno credibile.
  Tuttavia, il comportamento dell'Occidente e anche dell'Italia è ambiguo. Mentre lanciano allarmi su allarmi, sottobanco con Mosca continuano a trafficare. È significativo il dato delle importazioni di grano, che noi da quando c'è la guerra abbiamo decuplicato. Dai cereali ai semi e all'olio di girasole, per finire alle barbabietole, la bilancia commerciale con la Russia pende a favore di quest'ultima con cifre a doppio e qualche volta triplo zero. Per quanto riguarda poi le esportazioni, non aumentano verso la Russia, ma gli invii di merce in Paesi confinanti ed esclusi dalle sanzioni fanno pensare che le triangolazioni siano molto attive. Così come sono vivaci gli scambi con Paesi come l'India, dove si ricicla il greggio russo.
  Cioè, siamo alla solita ipocrisia politica. Si lanciano allarmi, si finge di fare la guerra o lo si fa fare ad altri, ma sotto sotto gli affari continuano. Tanto a morire non sono gli occidentali, ma gli ucraini e i sudditi di Putin. Il motto armiamoci e partite dunque vale sempre. Per lo meno per l'industria degli armamenti.

(La Verità, 22 febbraio 2024)
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Purtroppo anche tanti amici di Israele si sono lasciati incantare dalla favola dell'eroe Zelensky che lotta eroicamente contro il tirannico Putin per difendere la libertà di tutti noi occidentali democratici. Gli articoli di Repubblica sul tema sono stati a lungo riportati e condivisi. Come per il covid, le menzogne costruite e diffuse con scientifica acribia hanno ottenuto un successo considerevole, almeno per un certo tempo. Adesso gli americani si mettono a contare i morti palestinesi, fino a 300.000 dice qualcuno. Ma i morti ucraini, per non dire quelli russi, quanti sono? Qualcuno li ha messi in conto? Li ha contati? Si potevano risparmiare? Per gli americani no, perché qui è in gioco la libertà, la democrazia, la civiltà occidentale, per la cui difesa devono essere eroicamente accettati lutti e sacrifici (soprattutto quelli degli altri). Nella guerra contro Hamas invece è soltanto in gioco l'esistenza di quello strano, cocciuto popolo che è Israele. E per così poco, pensano in tanti, non vale la pena di rischiare la vita di tanti palestinesi oppressi, di tanti piccoli bambini educati, ma solo per gioco, a uccidere ebrei quando saranno grandi. M.C.

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Belgio, imam legge nel Parlamento di Bruxelles versetti del Corano che incitano a uccidere ebrei

In Belgio un imam ha recitato in parlamento un versetto del Corano che invita i musulmani a uccidere e fare prigionieri gli ebrei. È accaduto lo scorso 13 febbraio durante una cerimonia di premiazione dei residenti di origine pakistana a Bruxelles, organizzata su iniziativa del deputato del partito socialista e vicepresidente del parlamento francofono di Bruxelles Hasan Koyuncu, insieme alla locale Associazione Amici di Bruxelles. L’imam, Qari Muhammad Ansar Norani, aveva preso parte all’evento.
   L’estratto del Corano in questione, recitato dall’imam, è il versetto 33:26 della Surah Al-Ahzab, che viene così tradotto: “E fece scendere dalle loro roccaforti quelli della Gente del Libro che sostenevano l’alleanza nemica e gettò l’orrore nei loro cuori. Voi ‘credenti’ ne uccideste alcuni e ne faceste prigionieri altri”, laddove, nel Corano, gli ebrei vengono chiamati appunto la “Gente del Libro”.
   Al fatto sono seguiti commenti e reazioni, riportati dal Jerusalem Post. Il presidente del Parlamento, Rachid Madrane, ha dichiarato su X: “Il Parlamento non è altro che il tempio della democrazia. Lo ricorderò all’organizzatore di questa visita e ai capigruppo e proporrò di integrare esplicitamente il rispetto della neutralità nei regolamenti [del parlamento]”.
   La deputata Darya Safai ha nell’occasione specificamente ricordato una sua pregressa detenzione a Teheran, con queste parole: “Con gli stessi canti che si sentono qui al Parlamento di Bruxelles ci svegliavamo ogni mattina nella prigione degli ayatollah; dovevamo pregare nella nostra cella con le stesse parole e nello stesso momento diversi iraniani venivano impiccati per dare un esempio agli altri. Sono riuscita a uscire viva da quella prigione, a differenza di molti altri, e mi sconvolge ancora di più sentire la stessa cosa qui in Belgio, ventiquattro anni dopo, nel cuore della democrazia occidentale”.
   Il deputato belga Theo Francken, critico nei confronti dell’organizzatore dell’evento, ha scritto su X, ex Twitter: “Quest’uomo ha invitato quell’imam. È vicepresidente del Parlamento. Può rimanere tale”?
   Il deputato federale alla Camera dei rappresentanti Ben Achour Malik ha dichiarato sempre su X che “il Parlamento è un luogo di democrazia. Il luogo di un dibattito pubblico in cui si confrontano idee molto diverse. La sedia di un parlamento non è un luogo da cui si possono recitare preghiere, nemmeno durante una visita casuale”.
   Il Segretario di Stato della regione di Bruxelles Nawal Ben Hamou ha invece lasciato l’evento durante i fatti accaduti.
   L’ambasciatore di Israele in Belgio Idit Rosenzweig ha scritto su X di essere “assolutamente inorridita” e che l’imam “avrebbe potuto scegliere qualsiasi altra cosa, ma non un messaggio simbolico e spaventoso per chiunque conosca il Corano, recitandolo direttamente in parlamento, nel parlamento di Bruxelles, una città con 18.000 ebrei che stanno già vivendo un aumento dell’antisemitismo e della paura”.
   Tra il 7 ottobre e il 7 dicembre, l’agenzia antidiscriminazione belga UNIA ha registrato 91 fatti critici accaduti in Belgio correlati al conflitto, 91 avvenimenti che hanno di gran lunga superato i 57 registrati in tutto il 2022. Di questi, 66 erano di natura antisemita e otto erano anti-islamici o anti-arabi.
   “Il Belgio, insieme alla Francia, guida la linea più pro-Hamas e anti-Israele di tutta l’Europa, e non c’è da stupirsi che con loro l’Islam radicale stia dilagando – ha dichiarato il ministro per gli Affari della Diaspora Amichai Chikli al Jerusalem Post –. Voltare le spalle a Israele è stato un complesso errore strategico”.

(Bet Magazine Mosaico, 22 febbraio 2024)

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7 ottobre – Quando mi inviti nel tuo kibbutz, nonna? ‍‍

di Angelica Calò Livnè

Da quando sono nati, i miei nipotini non hanno mai ricevuto un fucile giocattolo né pistole di alieni, quelle che si accendono con mille luci e producono rumori allegri, né sparabolle di sapone… al massimo ci è stato permesso, come nonni, di donare un arco con le frecce per ricordare la festa di Lag Baomer. “Vi prego di non portare ai bambini nessun gioco che ricordi la guerra per favore”. Quando il papà è tornato da Gaza ha nascosto l’M16 sotto la giacca. I bambini accarezzano il papà. “Papà, sei un soldato?”. Questi 300.000 papà richiamati, o arrivati immediatamente a Gaza, il 7 ottobre si sono trasformati nel giro di poche ore in soldati. Anche quelli che ormai avevano consegnato le divise, le scarpe e tutto l’equipaggiamento. In questi giorni i nipotini ci chiedono ripetutamente: “Nonna, perché non ci inviti più al kibbutz?”. Per un bambino non c’è niente di più bello dei prati sconfinati, del piccolo zoo dove si possono prendere in grembo leprottini e cincillà, la sala del jimboree e le lasagne calde davanti al Hermon piene di neve. “Fra un po’ tesoro, quando farà meno freddo E ti preparerò una lasagna personale tutta per te!” E fra me e me penso: “Quando sarò più tranquilla e riaprirò le persiane di casa, e guarderò’ col cuore sereno le colline del Libano.”
   Tel Aviv è una città super interessante, specialmente per chi ha l’abbonamento al Museo e alla grande biblioteca Beit Ariela, ma ora là, su tutta la piazza, c’è la ricostruzione dei tunnel di Gaza dove sono tenuti prigionieri parte degli ostaggi. Ci sono banchi con tutte le scarpe, gli occhiali, e gli oggetti personali ritrovati nei boschi vicino a Re’im tra le rovine del Festival Supernova (chi è stato a Majdanek può capire la sensazione che si prova davanti a queste immagini) e tutti i muri intorno sono tappezzati di foto di centinaia di volti. Bring them home. “Ma chi sono questi signori nonna?”. Mi sforzo alla ricerca di risposte. E per ora di risposte non ne abbiamo: potremo festeggiare Purim? Pesach? Attaccheranno? Si calmeranno? In ogni caso noi siamo pronti e che nessuno, nessuno, né cantanti da 4 soldi né giornalisti frustrati, ignoranti e di parte, che possa venire a dirci cosa pensa perché non ci interessa! Siamo noi quelli che devono puntare il dito verso il mondo, siamo noi, con le nostre famiglie che siamo sotto i missili di cui nessuno parla. Siamo noi che stiamo lottando per la nostra sopravvivenza e non per distruggere l’altro!

(moked, 22 febbraio 2024)

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Uomini e faine

Il seguente articolo è uscito sull'ultimo numero del periodico mensile "Nuovo Monitore Napoletano". Ci è stato inviato direttamente dall'autore, un nostro fratello in fede che sentitamente ringraziamo per il suo lavoro e per lo sforzo che ha fatto per diffonderlo. NsI

di Tommaso Todaro

La faina, questo animaletto misconosciuto!1
Eppure vive nelle dimore dell’uomo, nei poderi campestri, nelle stalle e nelle legnaie, sortendone per la caccia solo di notte.
Con il suo corpo sinuoso e snello penetra ovunque, nei sottotetti delle vecchie case scostando le tegole, a caccia di lucertole, gechi e topi, scala agevolmente gli alberi e i vecchi muri delle case, in cerca dei nidi degli uccelli, di cui divora le uova e i piccoli nati, penetra nelle colombaie, dove fa strage di piccioni e, se trova un varco, nei pollai e nelle conigliere, scannando tutto ciò che vi trova.
Non disdegna neppure i mici malfermi sulle zampe e, all’occorrenza, altri animaletti come le rane e qualche serpentello.
Un tempo le si dava la caccia per la pelliccia, che a fine ‘800 si vendeva a 15 lire, la metà di quella della martora, che era più pregiata.
D’inverno è facile scoprirne la dimora per le impronte che lascia sulla neve e allestire una sorta di trappola formata da un sacco aperto, cinto con una fune a nodo scorsoio, posta all’imbocco della tana, solitamente posta nella cavità di un albero.
L’animale, disturbato dal fumo prodotto dagli sterpi incendiate alla base dell’albero, usciva dal nascondiglio e s’infilava nella trappola.2
Nei miei ricordi d’infanzia rimane impressa la scena della strage di galline nel piccolo pollaio familiare, giacevano a terra lorde di sangue 7- 8 galline, tutte sgozzate ma non mangiate, a testimonianza della insaziabile sete di sangue e crudeltà dell’intruso.
Pur essendo un animale sanguinario che uccide per abitudine più che per alimentarsi, svezza e cura con ogni attenzione la prole sino a che i cuccioli, trascorso un anno, diventano autonomi.
E’ raccapricciante vedere una faina addentare il collo di un micetto ancora malfermo sulle zampe, ma è ancor più orripilante e mostruoso il comportamento delle faine umane che il 7 ottobre ultimo scorso ha attuato una crudele, violentissima aggressione ai danni di civili inermi che travalica il peggiore stile nazista e le violenze di quei sanguinari che furono lo spagnolo Francisco Franco, l’argentino Juan Domingo Peròn e il cileno Augusto Pinocet, per citarne solo alcuni dei paesi c.d. “civili” .
Sono passati quattro mesi. Il 7 ottobre 2023 Hamas, la Jihad Islamica, i “Martiri di Al Aqsa” di Fatah e qualche organizzazione terroristica minore, poco prima dell’alba, aprirono la guerra con Israele sparando migliaia di missili sulle città israeliane, distruggendo con razzi gli impianti di sorveglianza, sfondando con esplosivi e bulldozer la barriera di protezione del confine internazionalmente riconosciuto in 26 punti, invadendo il territorio israeliano con circa 3000 terroristi su jeep, motociclette e parapendio a motore, uccidendo le guardie di frontiera e i militari di guardia e poi invadendo, loro e i “civili” che li avevano seguiti, le località vicino al confine, compreso il prato dove si svolgeva una festa musicale, celebrando un’orribile sagra di morte, torture, stupri, rapimenti. Come è noto, gli israeliani di tutte le età assassinati in quelle ore furono oltre 1200, più di 240 i rapiti, circa 5000 i feriti, migliaia le donne stuprate.3
Il culmine della ferocia è stato raggiunto al Kibbutz Kfar ‘Aza dove quaranta bambini e neonati sono stati massacrati e alcuni decapitati.
Ancora oggi rimangono nelle mani dei terroristi 134 ostaggi (uomini, donne, vecchi e bambini) che con cinismo vengono usati come merce di scambio.
All’inizio era conosciuta semplicemente come “la donna con il vestito nero”.
In un video sgranato la si vede supina, con il vestito strappato, le gambe aperte e la vagina esposta. Il suo volto è bruciato in modo irriconoscibile e la mano destra le copre gli occhi.
Il video è stato girato nelle prime ore dell’8 ottobre da una donna alla ricerca di un amico scomparso nel luogo del rave nel sud di Israele dove, il giorno prima, i terroristi di Hamas avevano massacrato centinaia di giovani israeliani.
Inizia così il lunghissimo articolo comparso sul N.Y. Times del 29 dicembre 2023 e totalmente tradotto da Right Reporter del 2 gennaio u. s. che andrebbe letto per intero.4
Nei punti che seguono ho tentato di esporre sinteticamente alcuni degli argomenti che ritengo più pertinenti alle attuali vicende.
    1) Israele occupa abusivamente il suolo su cui è insediato. È quanto vorrebbe far credere tanti benpensanti di ogni colore politico, ma le sue origini sono del tutto legali.
Il fondamento è costituito per ultimo dalla deliberazione 181/II del 29 novembre 1947 dell’Assemblea delle Nazioni Unite che approvò la spartizione del mandato britannico di Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo.
Gli ebrei accettarono la spartizione, ma la Lega Araba oppose un netto rifiuto e al momento della proclamazione dello Stato di Israele, avvenuta il 14 maggio 1948, cinque stati arabi ben armati (Egitto, Siria, Iraq, Giordania e Libano) iniziarono una guerra che si concluse nel 1949 con la chiara vittoria israeliana.
Le origini della legittimazione dello Stato Ebraico risalivano però a molti anni prima, a partire dal 1917, con la dichiarazione Balfour, che promise la costruzione di una “National home”, ossia di una patria per il popolo ebraico, promessa recepita dalla Conferenza di San Remo tenutasi nel dopoguerra (19-26 aprile 1920) dalle potenze vincitrici e dalla delibera della Società delle Nazioni del 24 luglio 1922 istitutiva del mandato per la Palestina che definiva i diritti legali degli ebrei in Palestina (comprendente Giudea, Samaria e Giordania), la cui amministrazione fu affidata all’impero britannico.
Il governo inglese non mantenne però il suo impegno e favorì per convenienza le popolazioni arabe ma l’impegno rimane tuttora in piedi, essendo stato ripreso dall’art. 80 della carta fondativa delle Nazioni Unite.
In definitiva lo Stato Ebraico occupa legittimamente il suolo sul quale è insediato ma ciò non si può dire del Libano, della Giordania, dell’Irak e della Siria, creati arbitrariamente dalle potenze coloniali per favoritismi di convenienza.5
    2) Il diritto di Israele prima che dagli uomini è stato sancito però ben quattromila anni addietro da Colui che ha fondato “I cieli e la terra” e scaturisce dalla promessa ad Abramo, che ogni buon israelita dovrebbe tenere in mente:
«Alza ora gli occhi e guarda, dal luogo dove sei, a settentrione, a meridione, a oriente, a occidente. Tutto il paese che vedi lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre.  E renderò la tua discendenza come la polvere della terra; in modo che, se qualcuno può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti. Alzati, percorri il paese quant'è lungo e quant'è largo, perché io lo darò a te» (Genesi 13:14-17).
L’adempimento della promessa avverrà alla distanza di circa 300 anni, dopo l’esodo dall’Egitto e sotto la guida di Giosuè.
    3) “Free Palestine from the river to the sea”. Palestina libera dal fiume al mare, urlano i sostenitori della Palestina per le piazze e le strade del mondo occidentale, ma i più non sanno quello che dicono, qual è il fiume? Dov’è il mare?  Non lo sanno.
Per molti il mare è il Mar Nero, per altri il fiume è il Nilo e invece si tratta del fiume Giordano e del Mar Mediterraneo.
Non possiedono una vera conoscenza del mondo islamico e di quello ebraico, non sanno che differenza c’è tra sunniti e sciiti e non hanno mai letto un solo verso della Bibbia né una sura del Corano.
Ma tutto questo non importa, la geografia e la storia sono solo un dettaglio, l’essenziale è dare sfogo a istinti antisemiti.
L’era dei “Protocolli” non è mai tramontata, il Mein Kampf è tradotto anche in arabo e milioni di persone continuano ad abbeverarsi a quelle fonti.6
Quelle folle urlanti per lo più non si rendono neppure conto di invocare all’unisono, coi terroristi, il genocidio del popolo ebraico e una Palestina Judenfrei, ossia libera dagli ebrei.
    4) “Due popoli, due Stati”. Questo sostengono da sempre europei ed americani, senza considerare che i palestinesi non sono affatto interessati a un loro Stato accanto a quello di Israele ed hanno sempre opposto a questa soluzione un netto rifiuto.
Così, rifiutarono la possibilità di diventare uno Stato con il piano di spartizione originario delle Nazioni Unite del 1947, con gli Accordi di Camp David del 1978, col vertice di Camp David del 2000 e con le offerte israeliane del 2008. Nel 2008 in particolare Israele offrì più terra di quella richiesta (il c.d. piano Olmert), ma Abu Mazen oppose un reciso, definitivo no.
Dalle mie parti si dice: «Quannu ‘u sceccu nun voli ‘mbiviri, ambatula chi nci frischi!»  ossia: «Quando l’asino non vuole bere è inutile che gli fischi».7
Il ritiro di Israele da Gaza nel 2005 fu un’altra opportunità per i palestinesi di iniziare a costruire uno Stato, ma la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 e la sua violenta presa del potere a Gaza nel 2007 hanno condotto al disastro che oggi è sotto gli occhi di tutti.
Per tutti questi anni Hamas non si è mai preoccupato delle condizioni economiche della popolazione che governa, ridotta a una comunità di assistiti dalla carità internazionale (USA, Europa, Qatar, Iran, Turchia).  
Unico obiettivo è l’indottrinamento dei giovani alla violenza secondo l’ideologia della distruzione di Israele, servendosi anche delle scuole ONU gestite da quell’ente deleterio a che è l’UNRWA, e non gli interessi della popolazione.
Ovviamente, con l’obiettivo di ricacciare a mare gli ebrei e di rimpiazzarli con uno stato palestinese “dal fiume al mare”.
In questi ultimi giorni si rumoreggia tanto nel mondo occidentale - in primis l’amministrazione Biden con le elezioni alle porte - sulla istituzione di uno Stato palestinese dimenticando che ai palestinesi (di tutte organizzazioni politiche, non solo Hamas), di avere uno Stato non importa proprio nulla se non, magari, come strumento contro Israele. Il loro obiettivo finale rimane sempre quello d’impadronirsi del territorio “dal fiume al mare”, cioè l’abbattimento dello Stato Ebraico e lo sterminio degli ebrei.
    5) Israele ha una superficie di 20.770 kmq e di 27.799 Kmq comprendendo Giudea e Samaria, con una popolazione che non arriva ai 10 milioni di abitanti dei quali il 20% sono arabi-israeliani.
Più o meno come la nostra Lombardia, ma costituisce per gli arabi un corpo estraneo in un tessuto formato esclusivamente dal mondo musulmano, che a più riprese ha tentato di estrometterlo con ripetute aggressioni.
Sabato 15 maggio 1948 in cui scadeva il Mandato Britannico sulla Palestina, gli eserciti dei paesi arabi vicini attaccarono la comunità ebraica d’Israele devastando tutto ciò che incontravano, in prosecuzione della campagna iniziata alla fine dell’anno precedente, con l’obiettivo d’impedire la nascita dello stato ebraico proclamato il giorno prima, venerdì 14 maggio.
In quell’occasione la Giordania s’impadronì della Cisgiordania e l’Egitto della striscia di Gaza ma nessuno si prese il disturbo di creare uno stato palestinese.
Gerusalemme e la West Bank (sponda occidentale o Cisgiordania) rimasero in mano giordana sino al 1967 (per circa 19 anni), liberati con la guerra dei sei giorni (5-10 giugno 1967) quando, finalmente, Gerusalemme fu riunificata.
La terza massiccia invasione del territorio israeliano, con l’intento di ricacciarlo a mare, avvenne nel 1973 (guerra del Kippur, 6-25 ottobre 1973) che vide Israele ancora vittorioso.
Israeliti e Arabi, che hanno la comune origine in Abramo (i primi da Sara, i secondi dalla serva egiziana Agar), proprio perché fratelli, dovrebbero vivere in pace e armonia ma così non è mai stato, sin dai giorni antichi, quando i figli di Edom (i discendenti di Esaù), esultavano nel vedere la distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor menzionata dal salmista: «Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme dicevano: Spianatela, spianatela, fin dalle fondamenta!» (Salmo 137:7).
E Abdia, menzionando le colpe di Esaù, figlio di Isacco e fratello di Giacobbe: «A causa della violenza fatta a tuo fratello Giacobbe, tu sarai coperto di vergogna e sarai sterminato per sempre. Quel giorno tu eri presente, il giorno in cui gli stranieri portavano via il suo esercito, e i forestieri entravano per le sue porte e tiravano a sorte su Gerusalemme: anche tu eri con loro. Ah! Non gioire per il giorno della sventura di tuo fratello. Non ti rallegrare per i figli di Giuda nel giorno della loro rovina… Ma sul monte Sion ci saranno degli scampati, ed esso sarà santo; e la casa di Giacobbe possederà ciò che le appartiene. La casa di Giacobbe sarà un fuoco, e la casa di Giuseppe una fiamma; e la casa di Esaù come paglia che essi incendieranno e consumeranno; non rimarrà più nulla della casa di Esaù, perché il Signore ha parlato.» (Abdia tutto il libro di 21 versetti)
Per l’Iran è un altro discorso. Essi non discendono da Abramo, sono musulmani ma non arabi e non hanno alcuna affinità con il mondo ebraico.
    6) Femminismo e stupri di massa. Di fronte alle sevizie, alle mutilazioni, agli stupri, all’assassinio e al rapimento di tante donne ebraiche avvenuto durante il selvaggio attacco di Hamas del 7 ottobre le associazioni femministe sono rimaste completamente in silenzio. La cosa pare essere non è di loro interesse.
    7) Dulcis in fundo. E il Vaticano, cosa ne pensa? Anche il solo porsi la domanda è fatica sprecata, il Vaticano è stato da sempre antisemita e un tempo finanche propugnatore della conversine forzata degli ebrei, al punto da spingere al rapimento dei bambini di cui il caso Mortara rappresenta il caso più noto.
Papa Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, proveniente dalle fila dei Gesuiti, dal 1973 al 1979 era Provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina, epoca che vide decine di migliaia di argentini arrestati e tenuti illegalmente prigionieri dalla polizia, torturati, assassinati e scomparsi nel nulla (i c.d. desaparecidos) per i quali le Madri di Plaza de Mayo chiedono ancora giustizia.
L’odierno Papa avrebbe dovuto gridare a squarciagola ai quattro venti contro tali misfatti e invece ha adottato la politica del silenzio (qualcuno malignamente dice del collaborazionismo), sulla scia di Papa Pacelli definito da John Cornwell “Il Papa di Hitler” (Garzanti, 2002)
Quanto alla vicenda della guerra in atto, I rabbini d’Italia così si sono espressi: «Ieri l’incontro del Papa con i parenti degli ostaggi rapiti da Hamas, da tempo richiesto e sempre rinviato, è stato finalmente possibile perché è stato seguito da un incontro con parenti di palestinesi prigionieri in Israele, così come riportato dal Papa, mettendo sullo stesso piano innocenti strappati alle famiglie con persone detenute spesso per atti gravissimi di terrorismo”, scrive il Consiglio dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia. “E subito dopo il Papa ha pubblicamente accusato entrambe le parti di terrorismo. Queste prese di posizione al massimo livello seguono dichiarazioni problematiche di illustri esponenti della Chiesa in cui o non c’è traccia di una condanna dell’aggressione di Hamas oppure, in nome di una supposta imparzialità, si mettono sullo stesso piano aggressore e aggredito».8
Che poi i palestinesi mentano su temi fondamentali della Bibbia, al Vaticano poco importa.
Si proclamano discendenti dei Filistei e perfino dei Cananei, discendenti dei Gebusei che abitavano anticamente quei luoghi. Abramo era un iracheno, Gesù un palestinese, il Tempio di Gerusalemme non è mai esistito, Israele non è mai stato una nazione e così via.
«Tiampi e guerra, vinzogne cumu terra», soleva dire mia madre, il cui marito ne aveva combattuto due (Abissinia e fronte greco-albanese) ed era stato fra gli internati militari italiani (IMI) in Germania dal 14 settembre del ’43 alla liberazione nel ‘45.
Per il cattolicesimo della Bibbia se ne può fare benissimo a meno, quel che conta è il diritto canonico e la teologia tomistica.
Non illudiamoci, i tempi difficili per Israele devono ancora venire, ma è altresì certo che tutte le potenze del male non potranno mai sradicarlo dalla sua terra.
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NOTE
1. Gli adulti, capaci di balzi improvvisi e incredibili, pesano un paio di chili, sono lunghi una sessantina di centimetri dal muso all’estremità della coda, con corpo allungato e flessibile, zampe corte, pelame breve e colore bruno-castano in tutto il corpo ad eccezione del collo e del petto, di colore bianco.
2. Atti della Società dei Naturalisti di Modena, Serie III, vol. I, 1883.
3. Ugo Volli su Shalom del 7 febbraio u.s
4. Il rapporto del NYT sulle violenze sessuali di Hamas del 7 ottobre
5. Per chi vuole approfondire suggerisco l’opuscolo di Eli E. Hertz Questa terra è la mia terra, mandato per la Palestina, aspetti legali dei diritti ebraici, seconda edizione italiana 2019, curata dalla EDIPI, Evangelici d’Italia per Israele, con prefazione di Ugo Volli, Marcello Cicchese e Rinaldo Diprose, in vendita presso la CLC di Firenze al prezzo di € 6,00.
6. Nel 1938, anno delle leggi razziali, furoreggiava da noi la versione italiana dei “Protocolli dei Savi anziani di Sion”, edita in Roma da “La Vita Italiana”, rassegna mensile di politica, diretta da Giovanni Preziosi, che si vendeva a 12 lire la copia. Si è trattato di un clamoroso, ampiamente dimostrato, falso storico.
7. L’asino si conduceva alla sorgente per l’abbeverata a fine giornata di lavoro, di ritorno dalla campagna e talora per invogliarlo a bere si emettevano ripetuti, appositi deboli fischi. Se non beveva se ne riparlava alla fine della giornata successiva.
8. I rabbini italiani: “Il Papa mette sullo stesso piano aggressori e aggrediti. Da lui gelida equidistanza”

(Nuovo Monitore Napoletano, 22 febbraio 2024)

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Dalle esperte sulle donne all'Unrwa, l'Onu sempre più schierato contro Israele

di Giulio Meotti

Finalmente l’Onu condanna i crimini sessuali. Contro Israele? No, da parte di Israele. Esperte delle Nazioni Unite, note per le loro opinioni anti-israeliane, accusano le forze militari israeliane di aver commesso crimini contro donne e ragazze palestinesi, inclusi stupri. “Siamo scioccati dalle notizie sugli attacchi deliberati e sull’uccisione extragiudiziale di donne palestinesi”, hanno detto le esperte. Hamas ieri ha inneggiato alla dichiarazione delle esperte delle Nazioni Unite. Israele ha risposto che sono accuse false da parte di personalità note per la militanza contro lo stato ebraico. Una “solo giorni fa ha legittimato il massacro del 7 ottobre”, ha detto Israele, e un’altra “ha pubblicamente messo in dubbio le testimonianze delle vittime israeliane di violenza sessuale e di genere”.
   Anche il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze, la giordana Reem Alsalem, ha firmato la dichiarazione degli esperti. A dicembre, il Jerusalem Post ha riferito che Alsalem aveva liquidato come “disinformazione” le notizie di stupri e abusi sessuali sulle donne da parte di Hamas. Intanto Israele diffondeva le foto dei dipendenti dell’agenzia Onu per i palestinesi, Unrwa, mentre prendevano parte al massacro del 7 ottobre. Trenta in tutto, non più dodici, come si era detto inizialmente.
   Il ministro della Difesa di Israele, Yoav Gallant, ha svelato l’identità dei membri del personale delle Nazioni Unite che “hanno partecipato attivamente” all’attacco di Hamas. “Oltre a questi dodici operatori, abbiamo indicazioni basate sull’intelligence, secondo cui oltre trenta dipendenti dell’Unrwa hanno partecipato al massacro, hanno facilitato la presa di ostaggi, hanno saccheggiato e rubato nelle comunità israeliane e altro ancora”, ha detto Gallant ai giornalisti. Dei tredicimila dipendenti dell’Unrwa a Gaza, almeno il dodici per cento è affiliato a Hamas e Jihad islamica palestinese (Pij). “Si sa che 1.468 lavoratori sono attivi in Hamas e nella Pij. Inoltre, 185 operatori dell’Unrwa sono attivi nel braccio militare di Hamas e 51 sono attivi nel ramo militare della Pij”, ha concluso Gallant.
   Continuano a emergere prove che l’agenzia delle Nazioni Unite abbia assistito Hamas e persino le Nazioni Unite si sono sentite obbligate a indagare dopo che le nazioni occidentali hanno congelato i futuri finanziamenti. Ma l’indagine apparentemente indipendente per far luce sulla collusione dell’Unrwa non ispira molta fiducia. Ora si scopre dal Wall Street Journal che almeno due delle tre agenzie selezionate per condurre la revisione indipendente hanno rilasciato dichiarazioni in cui si schieravano contro Israele e difendevano l’Unrwa. Uno dei revisori è l’Istituto danese per i diritti umani. A gennaio uno dei suoi ricercatori più esperti, Peter Vedel Kessing, ha elogiato il caso sudafricano davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, dove Israele è accusato di “genocidio”. Poi c’è Catherine Colonna, l’ex ministro degli Esteri francese incaricato di guidare l’inchiesta indipendente sull’Unrwa. Non ci vuole molto, scrive il Journal, per trovarla su X (ex Twitter) che elogia l’Unrwa e il lavoro del suo leader Philipe Lazzarini definendoli “plus utile que jamais” (più utile che mai).
   “La Mezzaluna Rossa palestinese ha avuto un ruolo attivo nei massacri del 7 ottobre”. L’ambasciata d’Israele presso la Santa Sede ieri ha affidato ai social un messaggio polemico (stavolta nemmeno troppo velato) nei confronti di Papa Francesco che ha ricevuto in udienza Younis Al Khatib, presidente della Mezzaluna Rossa Palestinese, l’organizzazione umanitaria che fa parte del movimento internazionale della Croce Rossa. Dopo le polemiche dei giorni scorsi con l’ambasciatore Raphael Schulz sull’andamento della guerra e le parole di Pietro Parolin, i rapporti tra Vaticano e Israele sono di nuovi ai minimi storici. Israele ha postato il filmato ripreso il 7 ottobre, la mattina del pogrom, al valico di Erez, l’unico passaggio pedonale tra Gaza e Israele, in cui un terrorista di Hamas ferito viene tratto in salvo ed evacuato su una ambulanza della Mezzaluna Rossa che, come mostrano le immagini, faceva parte del piano operativo dell’attacco. Il Sottosegretario generale dell’Onu e capo dell’agenzia “UN Relief” Martin Griffiths intanto a Sky News dichiarava che non considera Hamas un gruppo terroristico. Il 7 ottobre, oltre al confine sud d’Israele, sembra che sia crollato anche l’alibi umanitario.

Il Foglio, 21 febbraio 2024)

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La demonizzazione di Israele è una "catastrofe internazionale"

L'autorevole ricercatore sull'antisemitismo Charles Asher Small dichiara a JNS che è in corso una guerra contro lo Stato ebraico, non solo fisica, ma anche intellettuale e filosofica.

di Amelie Botbol

Il 25 dicembre 2023, centinaia di persone hanno manifestato in Rockefeller Square e nel centro di Manhattan con lo slogan anti-Israele "Il Natale è cancellato". Foto: Lev Radin/Shutterstock.
Per Charles Asher Small, la demonizzazione dello Stato di Israele è una pericolosa forma di antisemitismo.
è una pericolosa forma di antisemitismo che colpisce gli ebrei di tutto il mondo.
In un'intervista approfondita con JNS, Small, direttore fondatore dell'Istituto per lo Studio dell'Antisemitismo Globale e della Politica (ISGAP) con sede a New York ed ex presidente del Comitato di Solidarietà del Congresso Nazionale Africano, ha commentato la decisione del Sudafrica di portare Israele davanti alla Corte Penale Internazionale per le accuse di genocidio. Ha anche presentato la sua recente ricerca che denuncia il finanziamento incontrollato della Texas A&M University da parte del Qatar.

D: Può parlarci un po' dell'ISGAP?
R: L'ISGAP è un'organizzazione internazionale che si occupa di mappare, decifrare e combattere l'antisemitismo contemporaneo.

D: Come definite l'antisemitismo?
R: Ciò che distingue l'antisemitismo da altre forme di odio è che è intrinsecamente genocida, secondo Robert Wistrich, considerato una delle maggiori autorità mondiali in materia di antisemitismo.
La vecchia forma di bigottismo cristiano e religioso esiste ancora. Anche la forma razzista dell'antisemitismo esiste ancora in alcuni luoghi. Tuttavia, la forma di antisemitismo attualmente prevalente è un attacco a chi sono gli ebrei come popolo, un attacco a come definiamo noi stessi e il nostro legame con la terra di Israele.
In quest'epoca di neoliberismo, l'Islam radicale è diametralmente opposto alla nozione ebraica di autodeterminazione in "terra islamica". Gli ebrei sono l'unico gruppo non musulmano che si autodetermina nella regione. Pertanto, lo Stato di Israele deve essere distrutto dal Califfato.
Inoltre, è emersa l'Alleanza rosso-verde, un'alleanza di intellettuali progressisti postmoderni che vogliono sostituire l'egemonia occidentale e il potere occidentale. Secondo questa visione di estrema sinistra, gli ebrei sono la punta della lancia dell'egemonia e del colonialismo occidentale. Dal punto di vista della sinistra radicale, Israele deve essere smantellato.
In questo momento di crisi economica, la sinistra radicale, la destra radicale e l'Islam politico stanno attaccando il centro, sebbene abbiano ideologie molto diverse. In un certo senso, tutti utilizzano l'antisemitismo genocida come elemento centrale delle loro ideologie e delle loro pratiche.

D: Crede che l'antisionismo sia antisemitismo?
R: La definizione di antisemitismo dell'International Holocaust Remembrance Alliance è chiara. Negare l'autodeterminazione del popolo ebraico e ritenerlo responsabile della politica dello Stato di Israele nel mondo è una forma di antisemitismo.
In uno studio che ho condotto con [lo studioso di Yale] Edward Kaplan, abbiamo intervistato 10.000 persone di 10 Paesi europei e abbiamo definito sia l'antisemitismo classico che quello che abbiamo chiamato "Israel bashers". Chi era antisemita in senso classico aveva una probabilità 13 volte maggiore di essere anti-Israele. Abbiamo dimostrato scientificamente ciò che tutti sanno già.

D: Lei ha parlato di alcune forme di antisemitismo. La forma più virulenta di antisemitismo oggi proviene dall'Islam?
R: Gli Stati si stanno indebolendo. L'Islam politico sta sostituendo le istituzioni statali in molti Paesi con questa perversione dell'Islam. Si collega all'antisemitismo occidentale e all'antisemitismo postmoderno "progressista" nei circoli intellettuali dell'Occidente.
Purtroppo, l'Islam politico ha utilizzato i pogrom contro Israele degli ultimi mesi per promuovere la sua soluzione finale. I nazisti hanno nascosto in una certa misura la loro soluzione, mentre questi barbari la riprendono per ottenere più seguaci.
Nelle università, ciò è sostenuto da professori e organizzazioni studentesche. Questo è il risultato dell'alleanza rosso-verde che è sbocciata negli ultimi mesi.
Il popolo ebraico conosce il legame tra gli islamisti radicali e coloro che si definiscono progressisti. La demonizzazione dello Stato di Israele è una pericolosa forma di antisemitismo che colpisce gli ebrei in Francia, Quebec, Stati Uniti e Belgio. Lo vediamo nelle strade di Londra. È una catastrofe internazionale e dobbiamo svegliarci, capire perché sta accadendo e iniziare a reagire.

D: A cosa attribuisce il rapido aumento dell'antisemitismo nelle università?
R: Quando gli intellettuali occidentali nelle università affermano che Israele è uno Stato di occupazione di apartheid, razzista, fascista e nazista, allora i docenti e gli studenti ebrei in questi spazi liberali in queste università diventano il nemico di ciò che è buono e decente. Le università sono in prima linea in questa guerra contro il popolo ebraico e in questa esplosione di antisemitismo in Occidente.
La guerra contro il popolo ebraico viene condotta in questi luoghi dove i giovani europei occidentali e nordamericani imparano a diventare cittadini del mondo. È qui che si scatena la guerra politica e intellettuale, ed è qui che viene utilizzato il soft power dei Fratelli Musulmani e del Qatar.
Stanno investendo molto nelle università e questo ha un impatto sulla visione del mondo in Occidente.

D: Chi sono i principali gruppi che guidano questo sviluppo? Studenti per la giustizia in Palestina (SPJ) e l'Associazione degli studenti musulmani?
R: Sono tutti attivi. SJP è nato dall'Associazione Musulmana Americana. Sono tutte propaggini dei Fratelli Musulmani.
Dopo il 7 ottobre, SJP ha dichiarato di non sostenere la lotta, ma di farne parte. Gli studenti americani di SJP affermano di far parte di un'organizzazione terroristica. Sono molto chiari su ciò che stanno facendo. Sono le truppe d'assalto che rendono la vita difficile agli studenti e ai docenti ebrei nel campus, come piccoli nazisti, direi.
La forma più dannosa e pericolosa di sostegno da parte del Qatar e dei Fratelli Musulmani è il finanziamento di centri di ricerca e cattedre che spostano il discorso sul popolo ebraico in Israele e sulle idee ebraiche di democrazia.

D: Può parlarmi della vostra ricerca che ha scoperto un finanziamento incontrollato del Qatar alla Texas A&M?
R: Nella nostra ricerca abbiamo scoperto che decine di milioni di dollari di fondi non documentati affluiscono dal Qatar alle università occidentali negli Stati Uniti, in Canada e in Europa.
Sappiamo che il regime del Qatar ha prestato giuramento spirituale ai Fratelli Musulmani. Seguono le fatwa e le sentenze religiose della Fratellanza, la cui ideologia di base fonde l'antisemitismo europeo con una perversione dell'Islam.
Il regime del Qatar che sposa questa ideologia, un Paese con meno di 300.000 abitanti, dona più fondi alle università americane di qualsiasi altro Paese al mondo.
Perché un Paese che sostiene lo smantellamento dello Stato di Israele, l'uccisione degli ebrei e la distruzione della democrazia dovrebbe dare così tanto denaro a istituzioni e università molto importanti nel campo dell'istruzione superiore?
Il Qatar sta usando il "soft power" per promuovere questa ideologia e allontanare Israele dall'Occidente, e usa l'antisemitismo per dividere gli Stati Uniti e le altre democrazie. E ci sta riuscendo.

D: Pensa che la decisione della Texas A&M di chiudere la sua filiale in Qatar sia un primo passo nella lotta contro questa ideologia?
R: Lo spero. L'ISGAP chiede trasparenza alle università americane, francesi e canadesi in Qatar. Devono rendere noti i loro accordi contrattuali con il regime qatariota.
Hanno cercato di sopprimere la pubblicazione di questi contratti. Dobbiamo capire con piena trasparenza la natura dei progetti di ricerca finanziati, perché abbiamo scoperto oltre 500 progetti di ricerca presso la Texas A&M di cui il Qatar detiene i diritti di proprietà intellettuale, e circa il 10% di questi progetti potrebbe avere un doppio uso, secondo i nostri esperti.
I nostri esperti ritengono che potrebbero avere implicazioni militari e persino nucleari. Chiediamo al governo americano di tenere delle audizioni e chiediamo la fine delle università americane e occidentali in Qatar.

D: Che cosa si può fare al riguardo o è stato raggiunto il punto di svolta?
R: Non abbiamo altra scelta che combatterli.
Il 7 ottobre sono stati compiuti dei massacri da parte di un movimento sociale reazionario che si oppone diametralmente alla democrazia. A parte la questione ebraica o israeliana, si tratta di un movimento sociale reazionario sessista, omofobo e contrario agli altri, che vuole distruggere la democrazia. Hanno commesso e pubblicizzato questo massacro.
Quando siamo tornati nelle nostre università il 9 ottobre, c'erano professori che sostenevano la barbarie di un movimento genocida, reazionario e con un culto della morte.
Un mese fa insegnavo alla Columbia University. In una delle migliori università del mondo, c'erano professori e studenti laureati che sostenevano che bisognava porre fine all'occupazione con ogni mezzo necessario e che i sionisti stessi avevano creato la violenza con la loro stessa esistenza in questo Paese.
Ma sul campo di battaglia cinetico del Medio Oriente, dove Hamas, Hezbollah, Iran e altri attaccano fisicamente Israele, sono in gioco anche questioni intellettuali e filosofiche.
La guerra è condotta contro il popolo ebraico e contro la democrazia. Dobbiamo capire la mentalità del nostro nemico. Lo abbiamo sottovalutato per troppo tempo e dobbiamo capire e combattere questo attacco al popolo ebraico, a Israele, all'Occidente e alla decenza umana.
Eli Wiesel ha detto che l'antisemitismo inizia con il popolo ebraico, ma non finisce mai con il popolo ebraico. Questo non è solo un problema degli ebrei e di Israele. È un attacco alla decenza umana e alla democrazia.
Cercando di distruggere gli ebrei e l'ebraismo, l'antisemitismo cerca anche di distruggere la civiltà. Nella Shoah sono stati uccisi sei milioni di persone, 80 milioni di europei sono morti e in molti Paesi è stata distrutta l'intera infrastruttura.
Questa è una minaccia per tutti noi. I nostri nemici capiscono la nostra cultura, parlano la nostra lingua e comprendono il nostro sistema educativo e governativo, mentre noi non capiamo la loro lingua e la loro cultura e non conosciamo nemmeno la loro ideologia.
Imponiamo la nostra visione della realtà agli altri. L'Occidente ha avuto questo problema per molto tempo. Dobbiamo capire e rispettare i nostri nemici per poterli combattere.

D: È d'accordo con il presidente israeliano Isaac Herzog che le accuse di genocidio contro Israele mosse dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia sono un moderno "libello di sangue" e un esempio di antisemitismo?
R: Assolutamente sì. Posso dire con orgoglio di essere stato presidente del Comitato di solidarietà del Congresso nazionale africano. Come giovane studente ebreo progressista, ho lavorato con la leadership dell'ANC.
Vedevo il movimento anti-apartheid e l'ANC come un pioniere di una democrazia sociale in cui tutte le persone, indipendentemente dalla razza, dal sesso, dalla religione e dal reddito, fossero uguali di fronte alla legge e alla democrazia.
Trent'anni dopo, abbiamo un governo che è letteralmente in combutta con il regime rivoluzionario iraniano, il Qatar e Hamas, il che è contrario alla Carta della Libertà del Sudafrica e alla visione della democrazia di Nelson Mandela.
Il Sudafrica sta conducendo un'opera di diffamazione e il presidente israeliano Herzog ha tragicamente ragione al 100%.
Il fatto che l'ANC e il governo sudafricano del 2024, che ha ereditato il lavoro di Nelson Mandela, Oliver Tambo e Walter Sisulu e di altri che hanno sacrificato le loro vite per la democrazia sociale, siano in combutta con Hamas, il regime rivoluzionario iraniano e il regime dei Fratelli Musulmani del Qatar è un affronto al popolo sudafricano.
Il fatto che il partito di governo sudafricano, il partito corrotto del 2024, faccia causa comune con i sostenitori del vero apartheid, del vero nazismo e del vero razzismo e inviti Hamas dopo che questi ha commesso un massacro razzista basato sull'ideologia del nazismo e del fascismo europeo è un affronto a ciò che l'ANC dovrebbe rappresentare.

(Israel Heute, 21 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Antisemitismo negli USA, cancellati due concerti del cantante Matisyahu

di Luca Spizzichino

In poche ore, due concerti del cantante ebreo americano Matisyahu sono stati cancellati dopo che i manifestanti filo-palestinesi hanno preso di mira le location in cui si sarebbe dovuto esibire. Dopo i politici, anche il mondo dell’entertainment è stato preso di mira dall’odio cieco nei confronti di Israele.
   Entrambe le location in cui si sarebbe dovuto tenere il concerto hanno citato la carenza di personale e i problemi di sicurezza come motivo dell’annullamento dello spettacolo. Matisyahu, attraverso un post su X, si è anche offerto di pagare personale aggiuntivo e la sicurezza per lo spettacolo di Rialto Theatre di Tucson, in Arizona, ma i proprietari hanno rifiutato. “Lo fanno perché sono antisemiti o hanno confuso la loro empatia per il popolo palestinese con l’odio per qualcuno come me, che crea empatia sia per gli israeliani che per i palestinesi”, ha scritto riguardo a coloro che avevano cercato di cancellare il suo spettacolo. “È davvero un giorno triste quando il dialogo con coloro con cui non sei d’accordo viene abbandonato per incitare all’odio e mettere a tacere l’espressione artistica”.
   Matisyahu è stato preso di mira dai gruppi pro palestinesi dopo che l’artista ha pubblicato un video in cui si vede avvolto in una bandiera israeliana mentre esegue “One Day” per i soldati israeliani durante una recente visita in un kibbutz attaccato da Hamas il 7 ottobre, dove ha incontrato i parenti degli ostaggi israeliani e ha tenuto un concerto di beneficenza con Netta Barzilai, la cantante israeliana che ha vinto l’Eurovision nel 2018.
   La sezione di Tucson di Coalition for Palestine ha ripreso i video di quel viaggio in Israele per la lanciare una campagna di boicottaggio nei confronti del cantante. “Chiediamo al Teatro Rialto di non ospitare un artista che chiaramente si schiera con lo Stato di Israele”, si legge nel messaggio del gruppo pro-pal. “Matisyahu non si allinea ai valori della comunità che includono compassione e pace per i palestinesi. Spero che il Rialto dimostri quegli stessi valori cancellando il suo spettacolo”. Anche la sezione locale di Jewish Voice for Peace ha accolto l’appello, suggerendo di protestare di persona di fronte al teatro.
   “Abbattere i manifesti dei bambini rapiti non porta giustizia. Lanciare slogan genocidari contro gli ebrei non porta la pace. Impedire ai fan di ogni origine etnica e religiosa di cantare insieme a Santa Fe o a Tucson non porta la pace, fa il contrario”, ha scritto sui social Matisyahu, denunciando le tattiche adottate dagli attivisti filo-palestinesi in questi mesi. Sul post di sono arrivati numerosi messaggi di solidarietà da parte di fan e altre celebrità filo-israeliane, tra cui l’influencer Montana Tucker, il deputato democratico Ritchie Torres e la cantante Regina Spektor.

(Shalom, 21 febbraio 2024)

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Antisemitismo-Antisionismo

Riceviamo da Gerusalemme, con gratitudine e apprezzamento, questo prezioso contributo.

di Fulvio Canetti

Nel passato l’antisemitismo, sorto sulla ‘’diffamazione del sangue’’ ha padroneggiato tra le masse, oggi è l’antisionismo politico che ha preso a pieno titolo il suo posto, con la nascita dello Stato d’Israele. Si può affermare, senza paura di sbagliare, che sono ambedue facce della stessa medaglia, dove l’ebreo è sempre il capro espiatorio. Incredibile a dirsi, ma l’antisemitismo mascherato da antisionismo imperversa nelle Università dell’Occidente, trovando la sua linfa nell’odio antico verso il popolo ebraico, che si rigenera e si moltiplica come la moltiplicazione dei pani e dei pesci. L’antisemitismo vietato per vergogna e per legge, è diventato un cavallo perdente, per cui i nuovi ‘’amaleciti’’ si sono gettati sul carro dell’antisionismo, giustificandosi che criticare Israele non è antisemitismo. Ma guarda! Questi furbi non sanno che gli israeliani sono scesi in piazza per settimane contro il proprio Governo? È dal 1948 che gli Stati arabi attaccano il neo-nato Stato ebraico con l’intento di distruggerlo, coadiuvati da fiancheggiatori del mondo libero, che gli arabi definiscono ‘’utili idioti’’, finanziando l’agenzia UNRWA, per i rifugiati palestinesi, il cui fine esplicito è la distruzione di Israele. Questa agenzia partorita dall’ONU ha mai portato aiuto ai milioni di rifugiati tra India e Pakistan? Oppure ai rifugiati siriani, curdi, tibetani ucraini e tanti altri? Certamente no! Non è con loro che l’ONU garantirà la distruzione d’Israele, ma con i rifugiati palestinesi gonfiati all’ennesima potenza, il cui stato di profugo durerà per tutta l’esistenza d’Israele. ’’Cessate il fuoco’’ con la ‘’soluzione a due Stati’’ è un grosso regalo a Hamas e un pericolo mortale per Israele!
  La Nazione ebraica, sorta dalle ceneri della Shoà, è una spina nelle loro gole e un fumo acre nei loro occhi, invidiosi nel vedere un popolo, sopravvissuto alle prove della storia, vivere ancora. Stupiti si chiedono come sia possibile che questa ‘’rovina vivente’’ sia ancora presente nella storia del mondo, ignorando che il perno su cui ruota la tradizione ebraica sia il tempo, dove l’ebreo avanza e costruisce, onorando il proprio passato. Il mistero della sopravvivenza d’Israele nella storia, a differenza delle altre Nazioni, le cui civiltà si sono estinte, è legato a questa dimensione temporale, che è l’identità del popolo ebraico. Tradizione questa estranea ai Gentili, che avendo difficoltà nel capire idee astratte, come il tempo, ricorrono al culto delle immagini per riempire di vanità la loro angoscia esistenziale, proiettando sugli ebrei le proprie contraddizioni. Si crea in questo fare una frattura difficilmente sanabile tra mondi diversi, sul cui terreno è stato allevato il male dell’antisemitismo. Ai nostri giorni ha indossato con viltà la maschera dell’antisionismo, termine politico creato nel 1967 dalla propaganda sovietica nel quadro della ‘’guerra fredda’’. A sparare il primo colpo fu Nikolai Fedorenko nella sede delle Nazioni Unite, dove paragonò Israele alla Germania nazista, mentre la Russia sovietica sic! sosteneva le dittature dei regimi nazionalisti arabi. Lo slogan che echeggiò nelle Cancellerie di mezzo mondo, fu una enorme bugia velenosa: ‘’Due Stati per due popoli’’, un mantra, per l’Occidente, che gli stessi dirigenti palestinesi hanno sempre rifiutato, essendo il loro motto di battaglia la Palestina libera ‘’dal fiume al mare’’. Sono stati costoro non Israele ad ostacolare la nascita di uno Stato palestinese, che avrebbe messo un freno alla loro corruzione di facili guadagni sulle spalle degli stessi fratelli palestinesi, usati come carne da cannone. Dove finiscono i miliardi di dollari che l’Agenzia delle Nazioni Unite (UNRWA) riceve dall’Occidente per l’assistenza alla popolazione palestinese? Nelle tasche dei terroristi di Hamas e compari per acquistare armi e costruire tunnel della morte nel sottosuolo di Gaza.
  L’Unrwa è lo scudo di Hamas, la sua macchina di guerra contro Israele e nonostante queste verità, lo Stato del Sudafrica, suo compare in affari, vuole imputare ad Abele il delitto di Caino. Accusare Israele di attuare un genocidio a Gaza, è una vergognosa calunnia per mettere lo Stato sionista sul banco degli imputati nei tribunali di loro gradimento, come sta accadendo alla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aia, tutta orientata a favore di Hamas. I giudici di questa rispettabile Corte sono dei faccendieri, eletti da Stati ostili a Israele, per cui risulta evidente che entrano in gioco conflitti di interesse, che mettono allo scoperto il volto assassino delle Nazioni: non si cerca la Giustizia, bensì la Demonizzazione dello Stato ebraico, mediante condanne a senso unico già preconfezionate. L’UNRWA non è la soluzione al terrorismo essendo essa stessa parte in causa, come dimostrato dal massacro compiuto insieme a Hamas sui civili israeliani il 7 di Ottobre. Finanziata e osannata dalla Società delle Nazioni Unite fin dal 1949, l’Unrwa andrebbe sciolta per il bene dei palestinesi, che per causa sua vivono ancora nei campi profughi allestiti con fraterna dovizia dagli stessi Paesi arabi, dove saranno costretti a restare come eterni profughi, privi di cittadinanza.
   Cosa può e deve fare Israele? Certamente ha l’obbligo di combattere questo sudiciume morale e vincere la guerra, difendendo i suoi cittadini dagli attacchi del terrorismo. È una difesa, che Israele deve sospendere ogni qualvolta il terrorismo sta perdendo la sua vile aggressione, per le grida ipocrite che arrivano dalle stanze dell’ONU sui Diritti Umani. La Società delle Nazioni, una specie di Gestapo aggiornata con la presenza di uno Stato palestinese inventato e sostenuto dai fiancheggiatori del terrorismo, non batte ciglio: su trenta condanne emesse nel giro di un anno contro le Nazioni del mondo, ben venticinque hanno colpito Israele. È questa una Giustizia credibile? Forse che il lancio quotidiano di missili da parte di Hamas sul territorio israeliano, non è un bombardamento continuo che colpisce la popolazione civile? Ma su questo silenzio assordante da parte ONU, diventato il grande Inquisitore della Democrazia israeliana e il megafono degli sgozzatori coranici di Hamas, sempre pronti a danzare sullo spargimento di sangue ebraico. Una domanda è d’obbligo:’’ Perché Israele viene fermato quando sta vincendo la guerra contro i terroristi?’’ Mai l’aggressore arabo-palestinese viene stoppato dalle Commissioni ONU, nel momento in cui Israele potrebbe soccombere (D-o non voglia) dagli attacchi efferati e senza ragione, portati contro la sua esistenza. Di certo questa eventualità farebbe piacere a molti ’’amaleciti’’ dando avvio a una seconda Shoà, ma hanno fatto i conti senza l’Oste, che protegge il Suo popolo d’Israele’’. La libertà dalla schiavitù d’Egitto, è stato l’inizio dell’odio delle Nazioni verso gli ebrei, come sta scritto:’’Venne Amalek e attaccò Israele a Refidim’’. (Esodo 17,8) La nascita di una Nazione ebraica è fumo negli occhi per gli Amaleciti, gente refrattaria al pentimento, che si arrampica sugli specchi della menzogna per far abortire il progetto Divino nel mondo. È questa violenza titanica, presente nella storia come un continuo ritorno, che ha partorito il genocidio della Shoà. Oggi con la creazione dello Stato d’Israele, il male oscuro dell’antisemitismo è stato riciclato in antisionismo, ideologia abbracciata dalle élite politiche e religiose dell’Occidente. Le responsabilità di Hamas nei massacri disumani su donne e bambini israeliani, vengono, come per magia, dimenticate dall’informazione mediatica, per far posto, alle invenzioni di genocidio (sic!) sulla popolazione civile palestinese colpita dai bombardamenti israeliani. Ma quale legame può esserci tra un bombardamento e un genocidio? Nessuno! Ma Papa Francesco, rincarando la dose, ha messo sullo stesso piano il terrorismo di Hamas con la guerra giusta condotta da Israele, quando la stessa Chiesa ammette la guerra giusta come sta scritto nella Bibbia. Papa Franceso ha ricevuto da D-o una grossa opportunità storica, che sta sciupando: quella di espiare i peccati della Chiesa e di Papa Pio XII commessi durante la Shoà, per essere stati spettatori passivi se non sostenitori attivi. Ma quando questi ipocriti che vivono in Paradiso si pentiranno? Il loro interesse per la questione palestinese è solo interesse alla questione ebraica, nel tentativo satanico di togliere a Israele la terra sotto i piedi per cancellarne l’identità.
  Mi domando quando il mondo si sveglierà, rifiutando questo nuovo antisemitismo mascherato da antisionismo, che nasce dai brodi sudici e velenosi della storia, trovando nel Wokismo la sua espressione migliore. Woke significa guarda caso ‘’sveglio’’, cioè attento a quello che accade nella società: è una trappola per sprovveduti, che finiscono con ambedue i loro piedi nel tritacarne. Nei Campus universitari occidentali il wokismo ha preso il posto del marxismo, perché il nemico da sconfiggere non è più il capitalismo, bensì l’imperialismo bianco, sulla spinta di ideologie assurde legate all’immigrazione musulmana. ‘’Woke’’ vuole essere qualcosa di umanitario, idealista e antirazzista, ma in realtà è odio viscerale verso Israele, che è più forte di qualsiasi ragione. Woke è il ‘’nuovo’’ antisemitismo, dove l’ebreo deve morire non più con la ‘’soluzione finale’’, ma attraverso la ‘’decolonizzazione’’ della Giudea e Samaria, a cui farà seguito quella di Haifa e Tel Aviv. Ecco il motivo per cui Israele, dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, si è venuto a trovare dalla parte sbagliata: non era più un paese di rifugiati, bensì un Paese coloniale! È stato l’inizio del tradimento della sinistra politica e religiosa dell’Occidente, che attraverso l’inversione delle vittime (il mito della Nakba palestinese ndr) ha voluto placare la sua coscienza morale, perduta durante la Shoà. La giudeo-fobia purtroppo trova ancora convergenze trasversali tra le diverse classi sociali, diventata il nuovo oppio dei progressisti che hanno radicalizzato la causa palestinese, nel prendere la strada della Jihad islamica. Secondo questa ideologia la presenza ebraica (Sionismo) in terra musulmana (sic!) è intollerabile e vieta qualsiasi soluzione politica al conflitto. Da qui gli slogan palestinesi ‘’ dal fiume al mare ’’ cioè dal Giordano al Mediterraneo per cui la terra d’Israele deve essere ‘’judenrein’’, una profanazione della promessa Divina.
  È doveroso allora domandarsi:’’ Quale sarà il futuro d’Israele e quello dell’intera Umanità essendo entrambi legati a una Alleanza con il Creatore del mondo?’’ Difficile immaginare un futuro roseo, almeno per i tempi attuali, ma è bene essere ‘’positivi’’, seppure con l’amaro in bocca. Il pessimismo è un lusso che non possiamo permetterci, senza in alcun modo dimenticare il passato, necessario per costruire il futuro. Il mondo sta bruciando e bisogna difendere la nostra libertà conquistata a caro prezzo di sangue, alzandoci dalle nostre comode poltrone senza indugiare per testimoniare. E’ tempo di vincere questa battaglia escatologica contro l’asse del male, combattendone i demoni, per guarire la nostra anima ferita dalla sua satanica cattiveria e poter vivere i giorni del Messiah.

(Ricevuto dall'autore, 21 febbraio 2024)
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Sì, è proprio così. E’ una battaglia escatologica contro demoni condotti da una satanica cattiveria. Ormai dovrebbe essere chiaro che come per la Shoah, anche oggi per interpretare quello che sta accadendo a Gaza e nel mondo non si possono adottare usuali categorie umane di politica, sociologia, psicologia, tecnologia e altri strumenti di dominio sulle cose di cui l’uomo si inorgoglisce. E’ inevitabile far intervenire nel discorso Dio e il suo Avversario. Il popolo ebraico, la cui presenza nel mondo oggi è espressa dallo Stato d’Israele, continua ad essere il biblico “mio figlio” che Dio ha imposto al Faraone di lasciar andare. A questo etnico figlio Dio ha riservato nel futuro un posto particolare nel suo piano storico, e come Satana ha cercato di opporsi all’uscita del popolo dall’Egitto, così ora lo stesso Satana si oppone tenacemente al permanere di questo figlio nella terra che Dio gli ha assegnata. Bisogna dirlo chiaramente: chi oggi esplicitamente si oppone, con armi, manifestazioni o semplici “pareri personali” pubblicamente espressi, entra nel gioco del Nemico. E di questo risponderà davanti a Dio. M.C.

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Il mistero di Yahya Sinwar

di Luca Spizzichino

Dove è finito Yahya Sinwar? Dopo cinque mesi dall’inizio della guerra, della mente degli attacchi del 7 ottobre scorso non si hanno più notizie. Numerose sono le voci sulla sorte del leader di Hamas a Gaza, di cui l’unica prova che sia in vita e ancora in fuga sono solo alcune riprese di un filmato trovato in un tunnel di Khan Younis, risalenti a pochi giorni dall’inizio della guerra, dove si vede Sinwar fuggire insieme ai figli e una delle sue mogli.
   L’ultima voce riguardo il capo di Hamas è arrivata dall’Arabia Saudita. Secondo il portale saudita Elaph la leadership di Hamas, tra cui lo stesso Sinwar e il fratello Muhammed, sarebbe fuggita in Egitto attraverso i tunnel sotterranei della Striscia di Gaza portando con sé alcuni ostaggi da usare come scudi umani.
   La notizia è stata smentita sia dall’esercito israeliano sia da alcune fonti egiziane, che hanno parlato con i media libanesi. Secondo gli ufficiali dell’IDF, Sinwar avrebbe perso i contatti con gli altri leader di Hamas. E non è chiaro se sia nascosto in un bunker o se sia, forse, rimasto ucciso in uno dei tanti raid sulla Striscia. Due settimane fa la tv israeliana aveva indicato che Sinwar sarebbe di fatto irraggiungibile, “non avendo alcun contatto” né con i mediatori egiziani né con quelli qatarioti che negoziano al Cairo sul cessate il fuoco e sul rilascio degli israeliani rapiti.
   L’ultimo segno di vita, verificato, di Yahya Sinwar risale al 16 gennaio, riporta Channel 14. Secondo il canale televisivo israeliano, la comunicazione tra Sinwar e il mondo esterno, avverrebbe attraverso un portavoce e un fax, evitando così tutti i mezzi digitali. Più di un mese fa questi fax hanno smesso di arrivare.
   La caccia all’uomo si sta facendo di giorno in giorno sempre più intensa. Recentemente sono stati ritrovati non solo documenti scritti da Sinwar, ma anche circa 20 milioni di shekel (5,4 milioni di dollari) in contanti. Soldati e agenti dello Shin Bet hanno anche trovato effetti personali in uno dei nascondigli. Nei giorni scorsi inoltre, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha annunciato che la leadership di Hamas all’estero sta cercando “un sostituto” per il suo leader nella Striscia di Gaza dal momento che “i battaglioni del gruppo a Khan Yunis sono stati smantellati e si profila un’offensiva a Rafah”.
   Nel frattempo alcuni ritrovamenti fatti dall’esercito israeliano provano il desiderio di Sinwar di aprire un secondo fronte al nord con l’aiuto di Hezbollah. Secondo i documenti trovati a Khan Younis, il leader di Hamas credeva che “l’Asse della Resistenza” sciita, vale a dire Hezbollah e Iran, si sarebbe impegnata attivamente con un’operazione per “occupare la Galilea”.
   Sebbene Hezbollah abbia promosso 15 unità Fajr – battaglioni concentrati delle sue forze d’élite Radwan – lungo il confine e si sia preparato per un’invasione immediata, non conosceva il momento esatto dell’azione di Hamas. Questo ha fatto sì che le forze dell’IDF, principalmente riservisti, abbiano mantenuto la linea. Secondo una fonte israeliana, l’obiettivo di Hezbollah era quello di entrare immediatamente, ma l’Iran li ha fermati per un motivo strategico particolare: fare da deterrente per un eventuale attacco israeliano alle centrali nucleari iraniane.

(Shalom, 20 febbraio 2024)

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Fioritura di anemoni nel sud del Paese

La guerra contro Hamas fa battere il cuore degli israeliani. La fioritura degli anemoni solleva il cuore.

di Gundula Madeleine Tegtmeyer

Sono ormai cinque mesi che noi israeliani combattiamo contro l'organizzazione terroristica Hamas. La guerra e la preoccupazione per gli ostaggi continuano a dominare i nostri pensieri, molte delle nostre conversazioni e la nostra vita quotidiana. La sera ricevo un messaggio WhatsApp. Per distrarmi, per avere un po' di distensione, la mia amica Eva e suo marito Shai stanno organizzando per il giorno dopo una gita nel sud del Paese, dove gli anemoni in queste settimane sono in fiore.
È il periodo del darom adom, come chiamiamo in ebraico il periodo della fioritura degli anemoni, in tedesco: “Roter Süden”. Accetto volentieri l'invito a fare una spontanea escursione. Trascorrere del tempo nella natura, godendo dei fiori, ci farà bene dal punto di vista emotivo e rafforzerà la nostra resistenza.
Concordiamo subito che la nostra destinazione è la foresta di Shaharia. Si trova ai piedi del deserto del Negev, a nord di Kiriat Gat - Beit Guvrin (Strada 35) e offre molti tesori nascosti. I suoi sentieri forestali e ciclabili conducono ad aree ricreative, alcune delle quali sono state attrezzate con tavoli da picnic.

FOTO 1

Parte della foresta piantata con donazioni da Los Angeles
Una parte del bosco è stata piantata su iniziativa del Fondo Nazionale Ebraico da parte dei residenti del campo di transito istituito nel 1956. La comunità ebraica di Los Angeles aveva raccolto fondi per il progetto nei primi anni Cinquanta. In onore e ricordo dei loro sforzi, la parte settentrionale della foresta è stata chiamata "Foresta HaMalachim", in linea con il nome della città in spagnolo - "Città degli Angeli".

FOTO 2

Macchie rosse punteggiano il paesaggio
Tappeti di anemoni di vari colori ricoprono il paesaggio anche in altre parti del Paese durante queste settimane, come nell'Arava, lungo la costa del nord fino ai Monti del Carmelo e alla Galilea. La fioritura degli anemoni segna il sospirato passaggio dall'inverno alla primavera.
Arrivo nella foresta di Shaharia. Siamo sopraffatti dalla vista di queste delicate bellezze dal grande significato simbolico e ci immergiamo in un mare di anemoni a corona, facendo ogni passo con attenzione per non calpestare nessun fiore.
L'anemone corona (Anemone coronaria) è una delle "Top 3 rosse" della flora israeliana, seguita dal ranuncolo rosso (Ranunculus asiaticus) e dal papavero rosso (Papaver umbonatum). In alcuni luoghi, i più rari tulipani selvatici rossi (Tulipa agenensis) e l'Adone rosso (Adonis microcarpa e palaestina) si uniscono al mare di fiori.

FOTO 3

Delicato fiore nazionale
Nel 2013, l'anemone corona è stato eletto a fiore nazionale dello Stato di Israele in un sondaggio organizzato dalla Società per la protezione della natura in Israele (SPNI) e dal sito web di notizie "Ynet".
Appare delicato, quasi fragile, eppure riesce a resistere a condizioni climatiche talvolta difficili. L'anemone, noto anche come fiore del vento, è altamente simbolico in Israele: incarna la speranza, il rinnovamento e la bellezza della vita, simboleggiando la resilienza e la determinazione del Paese a prosperare anche nelle condizioni più difficili. Per gli ebrei, il rosso vibrante dell'anemone corona simboleggia anche il sangue e i sacrifici del popolo ebraico. E quando Gesù parla dei "gigli del campo" (Matteo 6:28 e Luca 12:27), probabilmente si riferisce all'anemone corona.
L'anemone ha ispirato numerosi artisti israeliani e viene utilizzato nelle campagne turistiche per mostrare la bellezza e la ricchezza culturale del Paese.
Era in parte minacciato dai raccoglitori di fiori. Gli ambientalisti israeliani sono intervenuti e negli ultimi decenni Israele ha dato risalto alle campagne educative per sensibilizzare la società a non raccogliere i fiori selvatici. Le aree con grandi popolazioni di anemoni sono state poste sotto tutela.

FOTO 4

Drammatico spettacolo al confine con Gaza
In altre parti del Paese gli anemoni fioriscono nei colori bianco, viola e rosa. Ma solo nel sud fioriscono in uno scarlatto brillante, e in nessun luogo lo spettacolo è più drammatico che lungo il confine con la Striscia di Gaza. Da oltre 20 anni, nel sud di Israele si tiene ogni anno il festival "Darom Adom", noto anche come "Festival del Sud Scarlatto", in onore degli anemoni a corona dalla fioritura rossa.
Il nome del festival è anche un'allusione alle "sirene rosse" che ci avvertono dell'avvicinarsi dei razzi dalla Striscia di Gaza. Ma quest'anno è tutto diverso: siamo in guerra con Hamas dal 7 ottobre 2023 e la festa popolare è stata annullata.
Nonostante i combattimenti, l'anemone corona dimostra ancora una volta la sua grande resistenza. Alla vista della bellezza di migliaia di anemoni in fiore nel quinto mese di guerra, sembra che l'anemone abbia un messaggio per noi - nel vero senso della parola annunciato dai fiori: adesso più che mai!

(Israelenez, 20 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La realtà e i sogni: prontuario antifuffa

In una recente intervista ad Arutz Sheva, Dan Diker, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs, ha sgombrato il campo dal ciarpame ideologico intorno alla nascita di uno Stato palestinese, l’opzione riproposta come mantra da tutte le Cancellerie e dall’Amministrazione Biden, evidenziando alcune piccole questioni mai risolte.
La prima è il mancato riconoscimento del diritto di esistere di Israele, ovvero il riconoscimento della sua legittimità statuale. Sia l’OLP che l’Autorità Palestinese si sono limitate a riconoscerne solo l’esistenza.
Anche Adolf Hitler riconosceva l’esistenza degli ebrei, quanto al loro diritto all’esistenza, le sue idee, come è noto, erano in contrasto con il riconoscimento fattuale della loro esistenza.
La seconda è  la fine della prassi di remunerazione nei confronti dei terroristi palestinesi e delle loro famiglie.
La terza è la fine del lawfare, ovvero della guerra diplomatica e legale atta a delegittimare Israele in tutte le possibili sedi istituzionali, come sta avvenendo in questi giorni con le istanze presentate alla Corte Penale Internazionale e alla Corte di Giustizia.
Va aggiunto che questi due aspetti discendono dal primo punto: il riconoscimento al diritto all’esistenza di Israele. Diritto respinto senza sosta dal 1936-anno in cui la Commissione Peel propose una spartizione del territorio mandatario di Palestina che, in contrasto con quanto previsto dal Mandato del 1922, decurtava ulteriormente il territorio assegnato agli ebrei, per concedere agli arabi l’80%- ad oggi.
Senza questo preambolo ogni ipotesi di pace, ogni ipotesi di risoluzione del conflitto è puro onirismo, e né l’Amministrazione Biden, né Joseph Borrell, solerte promotore dell’Autorità Palestinese presso la UE, né nessun altro, saranno in grado di mettere Israele nelle condizioni di potere accettare qualsivoglia accordo realistico con una controparte in rappresentanza del “popolo palestinese”.
Che sia uno Stato, o una confederazione, o una serie di minuscoli emirati fondati sulla specificità clanica, come propone Mordechai Kedar, l’assenza della precondizione essenziale trasforma ogni discorso in un puro flatus vocis.
Non bisogna essere pessimisti ma appena un po’ realisti per vedere che il radicale rifiuto di Hamas nei confronti di uno Stato ebraico, plasticamente esplicito nel suo mai abrogato Statuto del 1988, trova una corrispondenza precisa nel mancato riconoscimento del suo diritto all’esistenza da parte dell’Autorità Palestinese.
Dunque, al Segretario di Stato Antony Blinken, quando, a proposito del futuro, parla di una Autorità Palestinese “rinnovata”, bisognerebbe dire che il rinnovamento, per renderla credibile, non può attuarsi con un maquillage, perché tutto resterebbe esattamente così come è, il gioco delle parti in cui il “non rappresentante” dei palestinesi, Hamas, recita quella del cattivo, mentre l’Autorità Palestinese quella del partner affidabile pronto ad amministrare Gaza.

(L'informale, 20 febbraio 2024)

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Trovato un video di Shiri e i figli Ariel e Kfir vivi che risale a qualche giorno dopo il rapimento

L’esercito israeliano ha fatto sapere di avere trovato un video, che dovrebbe risalire a qualche giorno dopo il 7 ottobre, in cui appaiono Shiri Bibas e i suoi due figli Ariel (4 anni) e Kfir (che all’epoca del rapimento aveva 10 mesi) mentre vengono trasportati nella zona est di Khan Younis.
La famiglia Bibas era stata presa in ostaggio il 7 ottobre dai terroristi di Hamas nel kibbutz dove vivono, Nir Oz: le immagini della giovane madre con i due bimbi piccoli dai fiammeggianti capelli rossi avevano fatto il giro del mondo. Del padre Yarden invece, che in un video del 7 ottobre veniva portato via ferito dai terroristi, non si hanno notizie recenti: a fine novembre era stato trasmesso un video in cui gli veniva annunciata la morte della famiglia.
Si tratta degli unici due bambini israeliani rapiti il 7 ottobre e non ancora liberati: il piccolo Kfir ha compiuto l’anno in cattività.
“Questi video ci strappano il cuore. Vedere Shiri, Yarden, Ariel e Kfir, strappati dalla loro casa a Nir Oz in questo paesaggio infernale, sembra insopportabile e disumano – commentano i famigliari della famiglia Bibas in una nota diffusa dal Forum delle famiglie degli ostaggi -. Il rapimento di bambini è un crimine contro l’umanità e un crimine di guerra. Ariel e Kfir sono vittime di un male mostruoso. Tutta la nostra famiglia è diventata ostaggio insieme a tutti gli ostaggi. Chiediamo disperatamente a tutti i decisori in Israele e nel mondo coinvolti nei negoziati: riportateli a casa immediatamente. Fate capire a Hamas che catturare i bambini è una cosa inammissibile. Date la priorità al ritorno di questi bambini in ogni accordo. Vogliamo ringraziare la gente in Israele e nel mondo che ci sostiene e vi chiediamo di continuare la lotta per il loro ritorno a casa”.
Della famiglia Bibas fino a oggi non si avevano notizie certe, dopo il rapimento. A fine novembre Hamas aveva annunciato che erano tutti morti nei bombardamenti israeliani, ma l’esercito israeliano aveva preso con molta cautela le dichiarazioni, ribadendo che la guerra psicologica è una delle armi usate dall’organizzazione terroristica: lo dimostra il fatto che alcuni ostaggi dichiarati morti da Hamas sono invece stati liberati nelle diverse fasi di liberazione a fine novembre.

(Bet Magazine Mosaico, 20 febbraio 2024)


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A Milano la comunità ebraica celebra senza festa il compleanno in prigionia di Kfir Bibas, il più giovane ostaggio a Gaza

di Sofia Tranchina

L’immagine del rapimento della madre Shiri con i figli Kfir e Ariel
La colpa: essere ebreo. La pena: non poter vivere, libero, amato, a casa sua, in Israele, con la sua famiglia. E non poter festeggiare il suo primo compleanno. Così Kfir Bibas, volto simbolo della crudeltà senza remore dei progetti di sterminio del popolo ebraico, compie un anno nella prigionia a Gaza.
Quando il 7 ottobre i militanti palestinesi – di Hamas, della Jihad Islamica, e altri non associati ad alcun gruppo terroristico – hanno fatto irruzione armati nei Kibbutzim di confine, e hanno rapito 240 persone deportandole a Gaza, non si sono fermati davanti a nessuno: che fossero o meno ebrei, israeliani, o adulti. Si sono ritrovati così a trattenere – nelle case, nei seminterrati e nei tunnel – arabi, thailandesi, anziani, disabili, uomini, donne e bambini.
In quest’ultima categoria rientra il piccolo Kfir, neonato di appena 9 mesi al momento del rapimento, deportato insieme al fratello di 4 anni Ariel e alla madre Shiri (di cui l’urlo di terrore in un video girato dalle bodycam dei terroristi è diventato virale).
Il padre Yarden è stato deportato da un altro gruppo, che ne ha pubblicato una foto mentre sanguinava dalla testa. Nessuno dei 4 componenti del nucleo familiare è stato rilasciato durante gli scambi 3 a 1 (3 prigionieri palestinesi per 1 ostaggio israeliano) della tregua di novembre.
Secondo alcune contraddittorie informazioni rilasciate da Hamas, i Bibas sarebbero finiti in mano a un gruppo non affiliato e successivamente dispersi, oppure sarebbero deceduti durante un bombardamento israeliano.
Dato il vizio già appurato di Hamas di dichiarare morti inesistenti a fini di terrorismo psicologico, l’informazione non viene per ora presa in considerazione, fino ad eventuali future verifiche.
Ad oggi, Kfir ha passato 104 giorni a Gaza, dopo solo 261 giorni in Israele: la sua unica colpa è quella di essere nato ebreo.
In un mondo intrigato dall’idea che essere ebrei possa effettivamente essere una colpa, un peccato originale indelebile, la comunità ebraica di Milano si è opposta alla normalizzazione della permanenza degli ostaggi a Gaza organizzando giovedì 18 gennaio, in pieno centro città, in via dei Mercanti,  un compleanno senza festa per Kfir, per raccogliersi a commemorare, riflettere, cantare e pregare.
L’evento ha visto la partecipazione del presidente della comunità di Milano Walker Meghnagi, del vicepresidente UCEI e consigliere della comunità Milo Hasbani, del co-presidente Raffaele Besso e di altre figure di spicco dell’ambiente ebraico meneghino.
Infine, il rabbino capo di Milano Rav Alfonso Arbib, dopo la lettura di tre salmi, ha cantato insieme alla folla l’inno d’Israele, inno della speranza: l’Hatikva.

(Bet Magazine Mosaico, 20 febbraio 2024)

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Lo spettacolo antisemita al Bataclan

L’urlo “Free Palestine” in uno dei luoghi del terrorismo è “una profanazione”

Nel luogo dove il 13 novembre 2015 un commando di jihadisti ha assassinato 90 persone, il pubblico che lo scorso 10 febbraio assisteva al concerto del duo siro-tedesco Shkoon ha urlato “Free Palestine, Free Palestine”, mentre risuonava “Yamma mwel el hawa”, una canzone palestinese il cui testo recita: “Preferirei essere accoltellato che vivere sotto il giogo dei farabutti” (gli israeliani, ndr).
   Al
Bataclan, la sala concerti che nove anni fa è stata teatro di uno dei peggiori massacri della recente storia francese, è andato in scena uno spettacolo raccapricciante, “una profanazione” secondo molti utenti che su X hanno commentato il video che testimonia l’accaduto. “Queste persone non rispettano nulla, non hanno rispetto per le vittime che sono morte lì dentro”, ha reagito Patrick Jardin, padre di una delle vittime dell’attentato del Bataclan.
   A suscitare ulteriori polemiche è il fatto che all’origine della diffusione del filmato ci sia la moglie di un giornalista del Monde, perseguìta dalla giustizia per aver pubblicato il disegno di un parapendio la sera del pogrom del 7 ottobre. “L’alto luogo del dolore francese provocato dalla barbarie islamista, occupato dai sostenitori di Hamas. Il tutto celebrato da Muzna, sposa palestinese di Benjamin Barthe, caporedattore del Monde responsabile del medio oriente, perseguìta per aver festeggiato il 7 ottobre. Tre simboli in uno”, ha commentato indignato l’avvocato francese Gilles-William Goldnadel. Come ha scritto la direttrice del magazine Causeur, Élisabeth Lévy, “Free Palestine”, letteralmente, non ha nulla di scioccante: è legittimo difendere l’esistenza di uno stato palestinese. Ma è il contesto in cui quello slogan è stato emesso a rappresentare il vero problema. Perché “nel contesto attuale”, sottolinea a ragione Lévy, “non significa liberate la Cisgiordania e Gaza (che non è più occupata) in conformità con la risoluzione dell’Onu, ma liberate la Palestina dal fiume al mare. Detto in altri termini: distruggete Israele”.

Il Foglio, 20 febbraio 2024)

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Ci si può fidare di Marwan Barghouti?

di Ugo Volli

• Le fantasie del “giorno dopo” la fine della guerra
  Chi nella politica internazionale, sui media o nella diplomazia lavora per impedire una completa vittoria di Israele nella guerra di Gaza, o almeno per controbilanciarla con un successo palestinese, cerca di bloccarne l’offensiva militare, salvaguardando i capi e le forze di Hamas nascoste a Rafah. O anche si immagina che quel che conta sia “il giorno dopo” aver vinto Hamas, Israele dovrebbe accettare uno “stato palestinese”. Solo in questa maniera, dicono, ci sarebbero i frutti della pace, fra cui l’estensione degli “accordi di Abramo” all’Arabia Saudita. Ciò non è vero, come Israele spesso ha spiegato; e inoltre sarebbe uno sviluppo pericolosissimo, la premessa sicura di altri attacchi terroristici di massa e di altre guerre. Nonostante ciò si continua a parlare di uno “stato palestinese” cui si vorrebbe addirittura affidare la gestione e la ricostruzione di Gaza dopo la fine della guerra.

• Lo “stato Palestinese” e la realtà
  C’è un ostacolo in più: esiste già un’entità che pretende di essere “stato di Palestina” e come tale parla per esempio all’Onu. Non è per fortuna di fatto uno stato vero, perché non controlla il “suo” territorio; ma ha relazioni intense con Onu, Usa, Unione Europea: è l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Peccato però che si tratti di una dittatura che ha tenuto le sue uniche elezioni presidenziali 19 anni fa (per un mandato di 4 anni) e quelle parlamentari 18 anni fa (ma l’assemblea non si è più riunita dal 2007). Inoltre l’ANP manca di libertà di stampa e di riunione, è notoriamente una delle organizzazioni più corrotte del mondo arabo (il che è tutto dire), favorisce il terrorismo in molti modi, innanzitutto pagando i terroristi morti in azione o arrestati con stipendi e pensioni. Infine è governata da un dittatore (Mahmud Abbas) che a marzo compie 89 anni, è piuttosto malato ed è evidentemente incapace di controllarne il territorio e gli uomini.

• Una Autorità “rivivificata”
  La soluzione escogitata per superare questi ostacoli è la seguente: lo stato di Palestina sarà sì l’ANP, ma “riformata” o addirittura “rivivificata”. Così sostiene l’amministrazione Biden, per esempio. Ma come potrebbe avvenire questa resurrezione di un corpo politico evidentemente marcio e corrotto? A parte la difficoltà di rimuovere il vecchio dittatore e la sua corte, se si facessero oggi le elezioni nei territori dell’ANP, i sondaggi dicono che le vincerebbe facilmente Hamas – tanto per chiarire quanto il “popolo palestinese” sia innocente e desideroso di pace. E allora come fare? L’idea è quella che il “rinnovamento” potrebbe consistere nella sostituzione di Abbas con Marwan Barghouti, un terrorista detenuto nelle carceri israeliane per omicidi plurimi, che però in Occidente si è costruito la fama di “Mandela palestinese”, ottenendo numerosi riconoscimenti. Ora a parte che Mandela non è mai stato accusato di omicidi mentre Barghouti è in carcere proprio per questo, Mandela è diventato famoso e apprezzato per aver intrapreso un percorso di pace coi suoi nemici, mentre Barghouti non l’ha mai fatto, anzi.

• Chi è Barghouti
  Nato nel 1959, Marwan Barghouti si è unito nel 1974 a Al Fatah, collaborando ai suoi attentati contro i civili in Israele. Nel 1976 fu condannato per questa partecipazione al terrorismo. Nel 1987 fu arrestato di nuovo ed espulso in Giordania. Alla fine degli anni ’90, Barghouti divenne il capo dei Tanzim, l’organizzazione paramilitare che sotto la maschera della sicurezza interna guidava la campagna terroristica di Fatah contro Israele Fu inoltre il fondatore delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, altra organizzazione terroristica affiliata a Fatah e ancora esistente, che ha partecipato al 7 ottobre. Tra il 2000 e il 2002, Barghouti guidò Fatah in Cisgiordania, e in particolare i Tanzim e le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa organizzando gran parte dell’attività terroristica in quel periodo.

• Un’immagine mitica che non corrisponde alla realtà
  Nel 2002, Barghouti fu arrestato e condannato dalla corte distrettuale di Tel Aviv a cinque ergastoli consecutivi per il suo ruolo nella morte di altrettante vittime del terrorismo. Nel suo verdetto, la corte stabilì che Barghouti era stato moralmente responsabile di molti altri attacchi per il suo incoraggiamento al terrorismo e un attore chiave nell’acquisizione di finanziamenti per i terroristi. In carcere Barghouti ha cercato di accreditarsi come leader palestinese alla ricerca della pace, l’unico in grado di unificare le fazioni palestinesi e raggiungere realisticamente un accordo sullo status finale con Israele. Tuttavia, questo mito non corrisponde alla realtà. Barghouti non ha mai rinunciato alla lotta armata. Nel 2014, per esempio, ha rilasciato due dichiarazioni pubbliche, rivendicando il diritto dei palestinesi alla “resistenza in tutte le sue forme” e sostenendo contro la calma voluta da Abbas che bisognasse riprendere la “resistenza”. Ancora due mesi fa, in piena guerra, Barghouti, che non ha mai condannato il 7 ottobre, invitava i palestinesi in Cisgiordania a unirsi alla “resistenza” e chiedeva specificamente ai membri dei servizi di sicurezza palestinesi di rivolgere le armi contro Israele. Insomma, certamente Barghouti non è Mandela, ma soprattutto non è un personaggio a cui Israele possa dare fiducia per la propria sicurezza.

(Shalom, 20 febbraio 2024)

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Motivi per espellere gli ebrei. Il libro del fondatore di Hamas

Dopo Khamenei e Abu Mazen, “La fine degli ebrei” del fondatore di Hamas, Zahar.

di Giulio Meotti

ROMA - Sabato, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, il presidente israeliano Isaac Herzog ha tirato fuori un libro intitolato “La fine degli ebrei”. I soldati israeliani lo hanno trovato in una casa a Gaza. L’autore del libro è uno dei fondatori dell’organizzazione terroristica Hamas nata nel 1987, il chirurgo Mahmoud al Zahar. Il libro, un “progetto per l’annientamento del popolo ebraico”, è stato scoperto nel quartiere di al Furqan nella Striscia di Gaza ed è stato mostrato da Herzog al pubblico durante una conversazione con il commentatore David Ignatius.
   Zahar, uno dei fondatori di Hamas assieme allo sceicco Ahmed Yassin ed ex ministro degli Esteri dell’Autorità palestinese, si dimostra degno allievo dell’ayatollah Khamenei.
   La Guida suprema dell’Iran ha infatti pubblicato un libro intitolato “Palestina” nel quale spiega la distruzione del “regime sionista”. “Nabudi” (annientare), “imha” (dissolvere) e “zaval” (cancellare): le tre parole attorno a cui ruota il progetto iraniano su Israele, indicato come “adou” (nemico) e “tumore canceroso”. Spiega Khamenei che il suo piano non comporta una “guerra classica”, ma una lunga guerra a bassa intensità che punti a “logorare” la resistenza degli israeliani e della comunità internazionale. Il piano iraniano si basa sul presupposto (infondato) che tutti gli israeliani abbiano la doppia cittadinanza e che preferirebbero vivere negli Stati Uniti o in Europa se la vita in Israele diventasse difficile e dolorosa. Khamenei raccomanda pertanto di rendere la vita in Israele tanto difficile da costringere gli israeliani ad andarsene per sottrarsi alle minacce che incombono su di loro. L’ayatollah descrive la tattica di indurre la comunità internazionale a “non poterne più di Israele” sino al punto in cui l’occidente si renderà conto che sostenere il “progetto sionista” è troppo oneroso e abbandonerà lo stato ebraico.
   Nel suo libro “Il pensiero politico del movimento di resistenza islamico Hamas”, il leader del gruppo terroristico in esilio, Khaled Meshaal, ha scritto che i palestinesi devono assumere un ruolo guida nella battaglia per la liberazione islamica.
   Il fondatore di Hamas Zahar, un medico specialista in malattie della tiroide che ha fondato la Palestinian Medical Society e ha contribuito alla rinascita della Fratellanza musulmana nella Striscia di Gaza, scrive invece che mentre la “famiglia delle nazioni” ha definito i nazisti come criminali di guerra e contro l’umanità, i nazisti sono in realtà un faro importante per molti nel mondo. I capitoli del libro di Zahar si concentrano sull’odio verso il popolo ebraico e giustificano la persecuzione e l’assassinio degli ebrei nel corso della storia; tra questi vi sono capitoli intitolati “L’odio ardente del mondo nei confronti degli ebrei” e “Motivi per espellere gli ebrei”. Zahar esorta a chiedersi perché sia avvenuto l’Olocausto e a capire coloro che “bruciarono gli ebrei”. Lo fecero perché gli ebrei in quei paesi avevano preso il controllo dell’economia e della politica e sfruttavano le risorse di quei popoli a proprio vantaggio.
   “Ora siamo a Monaco”, ha detto Herzog nel brandire il libro (alla Cbs, Herzog aveva già mostrato una copia del “Mein Kampf” di Hitler in arabo trovata in un covo di Hamas a Gaza). “E alla periferia di Monaco c’è il campo di concentramento di Dachau, dove furono massacrate decine di migliaia di ebrei”.
   Intanto il libro di Abu Mazen, presidente dell’Anp palestinese, pubblicato in arabo nel 1984 come parte della sua tesi di dottorato presso un istituto accademico di Mosca, intitolato “L’altro lato: la relazione segreta tra il nazismo e il sionismo”, è presente nelle biblioteche accademiche di tutti i paesi di lingua araba. Nazismo e sionismo collimano, scrive Abbas, e spiega che David Ben Gurion e Adolf Hitler erano “buoni amici”. Abbas accusa il movimento sionista d’aver preso parte alla Shoah cooperando con il Terzo Reich e rifiuta quella che definisce “la fantasia sionista”, “la menzogna dei sei milioni di ebrei uccisi” dai nazisti, affermando che gli ebrei morti nella Shoah furono 890 mila e tutte vittime del complotto nazi-sionista.
   Se la cultura serve a costruire i famosi “ponti” e ad animare il decantato “dialogo”, la cultura dei leader palestinesi sembra più un libretto d’istruzioni per annientare il popolo della Shoah.

Il Foglio, 20 febbraio 2024)

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Ministro della Difesa: i terroristi di Hamas hanno "perso il loro spirito combattivo"

Il capo del Comando settentrionale dell'IDF, il maggior generale Uri Gordin, ha incontrato le squadre di sicurezza civili nel nord di Israele in vista di una possibile ulteriore escalation.

di Akiva Van Koningsveld

Truppe israeliane durante un'operazione nella Striscia di Gaza
Centinaia di terroristi di Hamas che hanno "perso il loro spirito combattivo" si sono consegnati ai soldati delle Forze di Difesa israeliane nella Striscia di Gaza negli ultimi giorni, ha dichiarato domenica il ministro della Difesa Yoav Galant, in mezzo ai preparativi in corso per un'escalation con gli Hezbollah sostenuti dall'Iran nel nord.
"L'intensificazione dell'attività militare a Khan Yunis continua a dare i suoi frutti", ha dichiarato Galant durante una visita alla base IDF di Beersheba, alludendo alla roccaforte meridionale di Hamas nella Striscia di Gaza. "Duecento terroristi si sono arresi all'ospedale Nasser, decine all'ospedale Amal".
"Questo dimostra che hanno perso il loro spirito combattivo. I terroristi, che erano armati di bazooka, pistole e fucili, non hanno combattuto. Hanno capito che devono arrendersi o morire", ha detto Galant.
"Hamas ha forze solo nella parte centrale della Striscia di Gaza e nella Brigata di Rafah. L'unica cosa necessaria per farli crollare completamente come sistema militare è una decisione dell'IDF. Non c'è nessuno che possa aiutarli, né gli iraniani né la comunità internazionale", ha detto Galant agli alti ufficiali del Comando militare meridionale.
"Disperderemo i sei battaglioni di Hamas rimasti - non dobbiamo fermarci finché ci sono ancora 134 ostaggi a Gaza", ha aggiunto il ministro della Difesa.
È stata confermata la morte di almeno 32 degli ostaggi ancora detenuti da Hamas. I terroristi di Hamas hanno ucciso circa 1.200 persone, soprattutto civili, e ne hanno ferite migliaia negli attacchi del gruppo terroristico del 7 ottobre.

Truppe israeliane durante un'operazione nella Striscia di Gaza il 18 febbraio 2024
La scorsa settimana, l'IDF ha annunciato "prove credibili" che Hamas sta trattenendo almeno alcuni degli ostaggi rapiti all'ospedale Nasser e che i corpi dei prigionieri morti potrebbero trovarsi nella struttura di Khan Yunis.
Giovedì, in un video messaggio, il portavoce dell'IDF, contrammiraglio Daniel Hagari, ha annunciato che le forze speciali hanno condotto una "operazione precisa e limitata" nell'ospedale e che sono stati arrestati diversi sospetti.
L'esercito ha contattato il direttore dell'ospedale e ha chiesto l'immediata cessazione delle attività terroristiche nella struttura e l'immediata evacuazione dei militanti di Hamas dall'edificio, ha dichiarato l'IDF.
A gennaio, Hamas aveva lanciato un razzo contro i soldati israeliani dall'ospedale. Durante la guerra in corso, Israele ha scoperto che le strutture mediche sono ampiamente utilizzate dai terroristi di Hamas e della Jihad islamica palestinese.

Armi sequestrate dai soldati delle Forze di difesa israeliane in un ospedale di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, 18 feb 2024
Mentre Israele combatte i terroristi di Hamas nel sud, Hezbollah si è unito ai combattimenti, sparando decine di razzi e missili dal Libano contro lo Stato ebraico ogni giorno dall'inizio della guerra, il 7 ottobre.
La settimana scorsa, Hezbollah ha lanciato razzi contro Safed, uccidendo una soldatessa e ferendone altre otto. Il soldato ucciso era il sergente maggiore dell'IDF Omer Sarah Benjo, 20 anni, di Moshav Ge'a, vicino ad Ashkelon.
Durante il fine settimana, il capo del Comando settentrionale dell'IDF, il Maggiore Generale Uri Gordin, ha incontrato le squadre di sicurezza civili del nord per prevenire una possibile ulteriore escalation da parte dei gruppi sostenuti dall'Iran in Libano e Siria.
Le cosiddette squadre di standby sono composte da persone del posto, per lo più ex militari, che si addestrano insieme e tengono il forte come prima forza di risposta fino all'arrivo delle truppe regolari. Almeno due kibbutzim nel Negev occidentale sono stati salvati da queste squadre il 7 ottobre.
"Se dovessimo essere costretti ad attaccare nel nord, lo faremo con una forza incredibile", ha promesso Gordin. "La difesa delle città da parte di gruppi di difesa locali, sia evacuati che non evacuati, fa parte del nostro concetto di difesa globale".

Il capo del Comando settentrionale dell'IDF, il maggior generale Uri Gordin, incontra le forze di sicurezza civili nel nord di Israele, 18 febbraio 2024
L'esercito israeliano ha aumentato i suoi attacchi contro Hezbollah di "un livello dieci" in risposta all'attacco mortale della scorsa settimana, ha detto giovedì Galant, avvertendo che i jet su Beirut sono stati equipaggiati con "bombe più pesanti per obiettivi più distanti".
"Non vogliamo la guerra, siamo interessati a un accordo che permetta ai residenti del nord di tornare in sicurezza", ha dichiarato Galant.
Più di quattro mesi dopo l'entrata in guerra di Hezbollah a sostegno di Hamas, il Comitato internazionale della Croce Rossa, che controlla il rispetto del diritto umanitario internazionale, ha pubblicato domenica la sua prima dichiarazione sulla "Preoccupazione per la popolazione civile nel nord di Israele".
Senza nominare Hezbollah, il CICR ha invitato "tutte le parti coinvolte a dare priorità alla protezione dei civili e a rispettare il diritto umanitario internazionale" e ha ricordato che "decine di migliaia di persone sono state costrette a lasciare le loro case e non sono ancora in grado di tornare in sicurezza".
"Per più di quattro mesi, i civili nel nord di Israele hanno sperimentato una crescente violenza e insicurezza. Siamo profondamente preoccupati per l'escalation di violenza nell'area e per l'ulteriore impatto sulla popolazione civile", prosegue la dichiarazione.
Dall'inizio della guerra, sei civili e dieci soldati dell'IDF sono stati uccisi in attacchi provenienti dalla Terra dei Cedri. Circa 80.000 israeliani sono stati sfollati dalle loro case fino a 10 chilometri dal confine libanese.

(Israel Heute, 19 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La denuncia dei parenti degli ostaggi alla Corte Penale Internazionale

“Anche i civili palestinesi hanno collaborato al massacro del 7 ottobre”

di Luca Spizzichino

Una delegazione dei familiari degli ostaggi israeliani si è recata in Olanda per presentare una denuncia contro i leader di Hamas presso la Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aia. Di fronte al tribunale internazionale alcuni di loro hanno rilasciato delle dichiarazioni alla stampa.
   “Mi è stata data l’opportunità di venire qui per far sì che il mondo ricordi le atrocità del 7 ottobre. Ci deve essere giustizia e non ci fermeremo finché non ci sarà un cambiamento” ha affermato Eyal Eshel, il padre di Roni Eshel, vedetta dell’IDF, che inizialmente era stata dichiarata scomparsa prima che il suo corpo fosse identificato. “Non sono stati solo i terroristi a infiltrarsi in Israele, ma anche gli abitanti di Gaza, rendendosi complici degli omicidi e delle atrocità. Queste sono le stesse persone che oggi chiedono aiuti umanitari al mondo” ha aggiunto.
   “Non ci sono molte opportunità per venire all’Aia per presentare la nostra storia e cercare di convincere la Corte internazionale a imporre sanzioni ai leader di Hamas” ha sottolineato Gal Gilboa-Dalal sopravvissuto del Nova Festival, il cui fratello, Guy, ancora nelle mani di Hamas.
   Tra i familiari degli ostaggi arrivati all’Aia ci sono anche Hadar Daniel e Romi Cohen, che stanno lottando per il ritorno dei loro fratelli gemelli Oz Daniel e Nimrod Cohen, ancora ostaggi a Gaza.
   I due sono stati rapiti insieme mentre combattevano vicino al confine di Gaza e finora le loro famiglie si sono astenute dalle apparizioni sui media per paura che i loro figli potessero essere identificati come soldati. Di fronte alla Corte dell’Aia hanno deciso di rompere il silenzio.
   “Sono venuto a L’Aia perché il 7 ottobre non è finito. Continua ancora – ha detto alla stampa Hadar -. Dobbiamo fermare le atrocità in corso e liberare tutti gli ostaggi, e anche pensare al futuro, affinché un simile disastro non si ripeta”.

(Shalom, 19 febbraio 2024)

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Israele, come sarà l'offensiva finale

di Edward Luttwak

Anche quando la guerra del Golfo si concluse con un successo inequivocabile, la sua celebrazione l'8 giugno 1991 con una semplice parata a Washington di 8.000 militari guidati dal comandante generale Norman Schwarzkopf fu molto criticata come «militarista». Nessuno dei comandanti che si sono succeduti nelle due lunghe guerre successive in Afghanistan e in Irak ha mai descritto il proprio obiettivo come la vittoria, eppure gli americani sono stati comunque mandati a combattere e a morire. Quando i britannici entrarono in guerra nel 1982 accettando rischi enormi per riconquistare le impossibili e remote Falkland «perché erano britanniche», in Europa tutti preferirono credere che in realtà stessero combattendo per giacimenti petroliferi offshore sconosciuti ma di immenso valore, e quando Margaret Thatcher festeggiò effettivamente la vittoria, i benpensanti britannici provarono un certo disagio indiretto. Ma proprio come la sconfitta demoralizza in modo duraturo, gli effetti della vittoria sono a lungo termine. Gli Eurofighter inglesi hanno recentemente attaccato gli Houthi, che ogni giorno infliggono danni alle economie europee; al contempo, nessun altro Eurofighter europeo è stato rischiato in combattimento. Quella vittoria del 1982 fa la differenza ancora oggi.
  Per Israele, il fattore chiave dell'avanzata vittoriosa è la distruzione delle infrastrutture di Hamas. Fin dal primo giorno chilometri e chilometri di tunnel sono stati sgomberati e demoliti; ma poiché in quel dedalo di gallerie sono nascoste le officine balistiche nemiche, un altro indicatore del successo militare è il drastico calo di razzi lanciati da Hamas ogni giorno. Da migliaia a centinaia, poi decine, oggi uno, due o addirittura nessuno.
  L'altra direttrice sulla quale si misurano i progressi bellici israeliani è l'uccisione o la cattura di combattenti e leader militari. La CIA, che si è guadagnata imperitura fama prevedendo che Kabul avrebbe resistito senza truppe americane per almeno due anni (sbagliando quindi di due anni), e poi prevedendo con sicurezza la rapida vittoria della Russia in Ucraina nel 2022 (sbagliando almeno di due anni), con altrettanta credibilità continua a dire ai suoi editorialisti preferiti che sono stati uccisi pochi, pochissimi combattenti di Hamas. Il fatto è che un numero incalcolabile di combattenti di Hamas rimane sotto il cemento dei tunnel esplosi o nelle rovine degli edifici distrutti; altri sono stati uccisi in combattimenti registrati, o trovati quando i corpi sono stati esaminati per accertare che non fossero ostaggi israeliani, mentre altri miliziani sono stati catturati o si sono arresi fin dal primo giorno del 7 ottobre. E sapendo che Israele non ha la pena di morte, raccontano candidamente le loro uccisioni in molti video.
  A dicembre la stima ufficiale dei morti era di 9.000 vittime, oggi deve essere molto più alta.
  Tuttavia, il computo dei caduti non è la maniera più corretta di «misurare» i progressi militari. Quando un combattente viene ucciso, in media altri due o tre vengono feriti in modo significativo: alcuni in maniera talmente grave da renderli inabili al combattimento «per tutta la durata del conflitto», altri in maniera più lieve, tanto da tornare presto a combattere, anche in virtù delle cure mediche ricevute.
  Grazie alle meraviglie dell'UNRWA e alla generosità del Qatar e di altri, Gaza dispone di splendidi ospedali e cliniche, e di un numero di medici pro capite superiore a quello della maggior parte dei Paesi ricchi. Ma il fatto che l'UNWRA e gli altri amministratori degli ospedali abbiano prontamente collaborato con Hamas - le truppe israeliane hanno trovato molte prove, tra cui nastri di sorveglianza inequivocabili - significa che ora quegli ospedali sono diventati insicuri per i combattenti di Hamas feriti. I quali di conseguenza hanno meno probabilità di tornare a combattere in questa guerra.
  Ciò che è sicuramente vero è che nessuno dei principali leader politici è stato catturato.
  Khaled Meshaal, fondatore emerito di Hamas, Khalil al-Hayya, che gestisce la propaganda globale, e il massimo leader Ismail Haniyeh vivono tutti in Qatar, dove i loro sacrifici per la causa sono mitigati da lussi illimitati, che Haniyeh - miliardario - condivide generosamente con almeno un figlio tenuto lontano da Gaza (nelle foto appare stravaccato sul letto di un hotel a 7 stelle). Haniyeh è stato meno generoso con le sue sorelle, Kholidia, Laila e Sabah, che sono tutte cittadine israeliane e vivono indisturbate con i loro mariti beduini. Molti beduini - compresi alcuni nipoti di Haniyeh - servono l'esercito israeliano.
  Inizialmente come guide di leggendaria perspicacia, ma ora più spesso come soldati di fanteria.
  Soprattutto, Israele non ha ancora catturato Yahya Sinwar, il comandante in capo di Hamas che ha imparato il buon ebraico nella sua prigione israeliana, dove è stato operato con successo per un pericoloso tumore al cervello mentre scontava una pena per molteplici omicidi. L'uomo che ha pianificato l'assalto deliberatamente orribile del 7 ottobre - senza ulteriori strategie né per l'8 ottobre né per i giorni successivi, senza dubbio perché convinto che gli israeliani non avrebbero mai invaso la Striscia, rischiando migliaia di vittime. Al contrario, gli israeliani hanno invaso Gaza e presto hanno raggiunto la lussuosa villa di Sinwar a Khan Yunis. Da qui, seguendo un tunnel di fuga, hanno trovato una telecamera di Hamas per il monitoraggio delle gallerie, che mostrava Sinwar e la sua famiglia che correvano lungo il tunnel.
  Molto probabilmente Sinwar si trova ora a Rafah, all'estremità opposta della città di Gaza, a ridosso del confine egiziano, al centro dell'offensiva finale di Israele in questa guerra. Le operazioni di combattimento continueranno ad un certo livello a Gaza, Khan Yunis e dintorni, ma a questo punto della guerra la maggior parte delle forze di Hamas rimaste, gli ufficiali e i funzionari sopravvissuti sono tutti nella zona di Rafah. Che per questo deve essere l'obiettivo dell'offensiva finale di Israele.
  Quando la battaglia per Rafah inizierà, assomiglierà solo vagamente ai precedenti attacchi israeliani.
  Ci saranno di nuovo i pesanti carri armati Merkava con le loro tettoie di metallo in grado di far pre-detonare i droni esplosivi; ci saranno i «taxi da battaglia» Namer, attualmente il veicolo blindato più pesante e meglio protetto al mondo, che trasporta i soldati con i loro «cappelli da cuoco» mimetici sopra l'elmetto e i loro fucili Tavor, poco più lunghi di una pistola ma con una potenza di fuoco da mitragliatrice; ci saranno i mini-droni ronzanti che trasmettono immagini ai comandanti che li guidano e ad altri più in alto fino al «pozzo», il quartier generale di tutte le forze israeliane.
  Allo stesso tempo, altre cose saranno molto diverse.
  Tanto per cominciare, Rafah non presenta la moltitudine di grattacieli, palazzi e ville di lusso di Gaza city e Khan Yunis che negli anni i cameraman di Al Jazeera e compagnia hanno accuratamente tenuto evitato di riprendere nei loro video, per sostenere la leggenda di Gaza ridotta a misero campo di concentramento.
  Rafa, più che una città è un paesotto, con case modeste come la pensione Snial Hoom, che ho visitato molto tempo fa in tempi molto più tranquilli, e che più recentemente pubblicizzava il suo giardino interno e i suoi balconi - che non ricordo affatto -, e la sua vicinanza all'aeroporto Ben Gurion. Solo 74 miglia di distanza!
  In un contesto urbano di edifici bassi, i combattimenti in strada sono molto più semplici, perché non ci sono scantinati a più livelli da cui possono uscire molti combattenti contemporaneamente, né grattacieli incombenti con un numero infinito di postazioni di tiro per i cecchini. Soprattutto, se un edificio deve essere penetrato e ripulito stanza per stanza perché si pensa che vi si nasconda un obiettivo importante, non è necessario un intero battaglione con centinaia di soldati per perlustrare il luogo in tempi ragionevolmente brevi.
  A fronte di questi vantaggi tattici, il «terreno» dell'imminente assalto presenta un problema enorme sotto diversi aspetti. Il più ovvio è che l'offensiva israeliana debba essere preceduta dal ritorno a Nord dei profughi - circa un milione di persone - che sono arrivati da Gaza city e Khan Yunis e che ora vivono in tende e capanne.
  Lanciare l'ultima offensiva di questa guerra senza prima aver rimandato indietro la maggior parte dei civili sfollati che si trovano ora a Rafah sarebbe la peggiore scelta possibile, perché aumenterebbe a dismisura le vittime, sia civili sia israeliane. In mezzo alla folla i combattenti di Hamas possono usare la loro tattica preferita: sparare contro i soldati israeliani mentre si nascondono direttamente dietro i civili. Sia gli uomini, molti dei quali sembrano proprio combattenti di Hamas, sia i proverbiali «donne e i bambini», che non vengono mai presi di mira dagli israeliani ma che spesso vengono uccisi. Tra parentesi, i prigionieri di Hamas - interrogati su questo punto - di solito non dicono di essere dispiaciuti per i civili sacrificati. Dopo tutto, non sono davvero morti: gli uomini sono diventati shahid, eroi islamici sacrificatisi e diretti verso il paradiso con le loro 72 vergini che i predicatori di Hamas amano descrivere con straordinari e lubrici dettagli, tra cui, per qualche motivo, i seni rovesciati. Nessuna ricompensa attende le loro mogli e figlie morte, ma d'altronde l'islam non ha mai preteso di essere una religione per le donne, a partire dalle moschee a loro interdette.
  Ora, poiché l'offensiva deve essere preceduta dal ritorno a nord degli sfollati, la geografia urbana di Rafah è la chiave. Lungo la costa, appena dietro la spiaggia, c'è la strada di Al Rasheed, ormai poco percorribile a causa di tutte le persone accampate lì, e nell'entroterra c'è la strada di Gush Katif, costruita da Israele, che è molto dritta ma piuttosto stretta, per cui l'evacuazione dipenderà in larga misura dall'unico ampio viale a più corsie che porta il nome di Salah al Deen (Saladino), che curva verso nord-est fino a Khan Yunis.
  Il suo nome vittorioso dovrebbe essere di buon auspicio per l'ultima battaglia di Israele in questa guerra, perché è solo su Salah al Deen che l'esercito israeliano può dispiegarsi in modo lineare, per formare corridoi multipli, attraverso i quali le persone possono muoversi verso nord a un ritmo ragionevole, ma sotto stretta osservazione da entrambe le parti. L'obiettivo israeliano è ovviamente quello di catturare i combattenti e i comandanti che gli sono sfuggiti scappando a sud, e Salah al Deen è l'unico asse che lo permetterebbe, mentre le altre due strade sono molto meno adatte.
  Dubito fortemente che il grosso delle forze rimanenti di Hamas cercherà di fuggire di nuovo, eludendo i filtri longitudinali dei soldati di guardia, i dispositivi di riconoscimento delle immagini e i rilevatori chimici. Quindi prevedo battaglie di resistenza a Rafah.
  Il presidente Biden e i migliori amici di Israele in Europa, che continuano a dire che il ritmo della guerra dovrebbe essere accelerato, ma con un uso molto minore della potenza di fuoco, non sembrano essere consapevoli di ciò che stanno effettivamente chiedendo. Quando i soldati a piedi devono combattere attraverso aree edificate senza artiglieria o supporto aereo, le perdite non solo aumentano, ma si moltiplicano: quasi un decimo di tutti i soldati israeliani morti a Gaza fino al 22 gennaio scorso sono morti in quello stesso giorno, nel crollo esplosivo di un singolo edificio.
  L'ultima ed enorme complicazione della posizione di Rafah è che Israele non può procedere senza uno stretto coordinamento con i governanti egiziani. Questi ultimi detestano Hamas in quanto propaggine palestinese della Fratellanza Musulmana, che hanno rovesciato per salvare l'Egitto dall'estremismo islamico, e non versano lacrime alla prospettiva di una sua ulteriore distruzione a Rafah. Al contempo, il regime del Cairo teme fortemente l'arrivo alla frontiera di un'ondata di palestinesi in fuga dall'offensiva israeliana, che lascerebbe loro solo due scelte: lasciarli entrare, facendo esplodere il malumore della popolazione egiziana, che dopo decenni di aiuti oggi prova un profondo risentimento per l'ingratitudine palestinese, o trattenerli con il fuoco in quello che si rivelerebbe un massacro prolungato. In Siria, l'uccisione di decine di migliaia di persone da parte di Assad padre nel 1982 e di centinaia di migliaia dal 2011 da parte di suo figlio ha di fatto rafforzato il regime di Damasco, ma la cultura egiziana è molto diversa e qualsiasi omicidio di massa di questo tipo è semplicemente inconcepibile e sicuramente non un'opzione sul tavolo. Questo spiega perché l'Egitto starebbe preparando un'area di detenzione temporanea ben recintata nel proprio territorio, appena al di là del confine, in cui i palestinesi potrebbero ricevere un riparo temporaneo e sostentamento, prima di dirigersi a nord attraverso i filtri longitudinali israeliani.
  Il gabinetto di guerra israeliano è altrettanto determinato a dare la caccia ai leader e ai combattenti di Hamas ora ammassati a Rafah, e a farlo senza mettere in pericolo la cooperazione strategica con l'Egitto, che è stata molto utile a entrambe le parti, non da ultimo nella lotta ai terroristi nel Sinai. Una fase che richiede un certo impegno e spiega l'incapacità di entrare rapidamente a Rafah. La vittoria è dichiaratamente l'obiettivo di Israele, proprio come lo era per la Gran Bretagna nelle Falkland, con la differenza che Londra non sarebbe stata esposta ai bombardamenti se la pericolosa riconquista fosse fallita.

(il Giornale, 19 febbraio 2024)

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La Corte Internazionale di Giustizia boccia il ricorso del Sudafrica per bloccare l’operazione israeliana a Rafah

di David Fiorentini

La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) ha respinto la richiesta aggiuntiva del Sudafrica di imporre misure restrittive urgenti alle forze di difesa israeliane impegnate a Rafah nella Striscia di Gaza.
In una nota, la Corte afferma che la “pericolosa situazione” a Rafah non necessiti di ulteriori indicazioni, bensì ritiene sufficienti le normative provvisorie ordinate lo scorso 26 gennaio, poiché “applicabili in tutta la Striscia di Gaza, compresa Rafah”.
Israele infatti “rimane vincolato a rispettare pienamente i suoi obblighi ai sensi della Convenzione sul Genocidio e dell’Ordine in questione, incluso garantire la sicurezza dei palestinesi nella Striscia di Gaza”.
Una rinnovata accusa rispedita al mittente, accompagnata dalle dichiarazioni dello Stato ebraico, che ha definito i toni sensazionalistici sudafricani una “distorsione scandalosa” di un’operazione pianificata che invece ha portato alla liberazione di due ostaggi.
Al contrario, secondo Israele, sarebbe Hamas a dimostrare un totale “disprezzo per la legge”, non aderendo alla richiesta della ICJ per il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi rimanenti.
Anche il Ministero degli Esteri israeliano ha condannato l’atteggiamento del paese africano, “sfruttato come braccio legale di Hamas, al lavoro per promuovere gli interessi di questa organizzazione terroristica”.

(Bet Magazine Mosaico, 19 febbraio 2024)

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Quel vincolo tra ebrei e cristiani

di Enzo Bianchi

Con grande fatica cerco qualche parola pubblica sul conflitto tra lo Stato d’Israele e i palestinesi abitanti la Striscia di Gaza. Con fatica perché ho un amore profondo e sento un legame infrangibile con il popolo d’Israele.
   Il 7 ottobre c’è stato un massacro da parte di Hamas, una barbarie che è epifania di disumanizzazione: israeliani, tra cui bambini, massacrati in casa mentre festeggiavano “la gioia della Torah” e ostaggi portati via dalle loro famiglie.
   A questo atto esecrabile lo Stato d’Israele doveva rispondere per neutralizzare l’aggressore, ma in realtà al massacro è seguita una guerra, un massacro moltiplicato che ha causato la morte di 30 mila palestinesi, civili inermi, donne e bambini.
   A un’epifania di disumanità ne è seguita un’altra che non dà segni di cessare nonostante gli appelli che si levano da tutto il mondo. Ancora una volta verifichiamo la nostra irrilevanza e proprio questo è all’origine del silenzio di molti che certo non approvano l’azione di vendetta di Israele.
   Gli interventi di Papa Francesco che chiede la pace e della Santa Sede non sono parsi sufficienti a Israele, che li ha considerati sbilanciati a favore dei palestinesi.
   Eppure la Santa Sede rinnova la condanna di qualsiasi forma di autogiustificazione; non nega il diritto all’autodifesa dello Stato d’Israele, ma secondo la “dottrina cattolica” la giudica legittima solo se proporzionale all’offesa ricevuta.
   Tuttavia, molti cristiani, seguendo il Vangelo di Gesù Cristo, e non la dottrina, condannano ogni guerra convinti che non esista mai una “guerra giusta”, perché la guerra è sempre disumana.
   Papa Giovanni XXIII affermò che la guerra è «aliena dalla ragione» perché porta morte senza capacità di fermare e colpire solo l’aggressore, perché non c’è guerra che non sia fratricida, perché la vita di un uomo è più preziosa dei valori che si vogliono difendere.
   Così alcune autorità ebraiche hanno avvertito la Chiesa cattolica che il dialogo in atto dal Concilio Vaticano II è minacciato, come se la Chiesa stesse tornando ai tempi della sua ostilità verso gli ebrei.
   Ma qui c’è un equivoco. In realtà per i cattolici il dialogo teologico e la relazione originale non riguardano tutti gli ebrei, ma “l’Israele di Dio”, come lo chiama Paolo di Tarso, cioè gli ebrei credenti in alleanza con il loro Signore. Israele come Stato — e come uno dei tanti Stati del mondo — non è e non può essere il soggetto religioso che dialoga con i cristiani.
   Allora nessuna confusione: lo Stato d’Israele e i suoi governi possono essere giudicati come tutti gli Stati del mondo mentre gli ebrei credenti sono per i cristiani fratelli gemelli, uniti da un vincolo che non può venir meno e che sarà unità alla fine dei tempi.
   Condannare l’azione del governo israeliano non è antisemitismo. Del resto, una parte dell’opinione pubblica israeliana è contraria alla guerra, e con essa non pochi intellettuali e rabbini.
   Si può amare l’Israele di Dio ed essere liberi nel giudicare lo Stato, il governo di Israele, senza cadere nell’antigiudaismo cristiano o nello spregevole antisemitismo omicida.

(la Repubblica, 19 febbraio 2024)
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Si direbbe che gli ebrei lanciati nel cosiddetto "dialogo ebraico-cristiano" non abbiano mai capito chi avevano di fronte: la Chiesa Cattolica Romana, istituzione sacro-politica che pretende di esprimere nella Santa Sede, capitale della Stato del Vaticano, il suo diritto divino ad occupare sulla terra il posto centrale nel mondo. Il contrasto è tra Stato d'Israele e Stato del Vaticano. Israele come Stato non è un soggetto religioso, la Santa Sede invece sì. La Santa Sede è la SANTA SEDE e Israele non è nessuno. Il discorso è squisitamente teologico, e andrebbe ripreso, ma fin d'ora si può dire che nella discussione è arrivato il momento di introdurre il concetto di "antisemitismo cattolico-romano". Di questo si tratta nell'articolo di Enzo Bianchi. M.C.

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Sono fallite di nuovo le trattative per una tregua

di Ugo Volli

• Il ciclo degli annunci di accordo
  È successo di nuovo. È la quinta o sesta volta che nell’arena diplomatica intorno alla guerra di Gaza si ripete la stessa sequenza: 1. I giornali di tutto il mondo lanciano voci ispirate dai “mediatori” (che poi sono il Qatar, che è il grande patrono di Hamas; l’Egitto, interessato soprattutto a non lasciare che gli abitanti di Gaza si trasferiscano nel Sinai, portandosi dietro povertà e soprattutto terrorismo; e l’amministrazione americana, ormai tutta alle prese con la campagna elettorale e desiderosa soprattutto di compiacere segmenti elettorali incerti). Questa volta è stato il Washington Post che tre giorni fa ha annunciato una tregua di sei settimane con scambio degli israeliani sequestrati contro un gran numero di terroristi detenuti, pausa necessaria a un piano di pace che dovrebbe comprendere un cammino “irreversibile” verso l’istituzione dello Stato palestinese.
2. Israele ricorda quali sono gli obiettivi obbligatori della guerra che ha dovuto intraprendere contro il terrorismo: la distruzione di Hamas, la liberazione degli ostaggi, la messa in sicurezza dei territori di confine. Ad essi lo Stato di Israele non può rinunciare senza tradire la sua missione e di conseguenza deve rifiutare ogni decisione, come quella dei due stati, che costituirebbe un rafforzamento del terrorismo e un incitamento a ripetere il 7 ottobre; ma è disponibile. per ottenere la liberazione dei rapiti, a una tregua limitata nel tempo e alla scarcerazione di terroristi detenuti in numero che però non rafforzi troppo né materialmente né simbolicamente Hamas.
3. Hamas dichiara che non intende iniziare le trattative se prima Israele non termina l’offensiva e si ritira totalmente da Gaza, cioè si dichiara sconfitto; e spesso ci aggiunge qualche condizione ancora più assurda, come qualche settimana fa una “garanzia internazionale” della continuazione del proprio dominio di Gaza e di recente la proibizione per gli ebrei di accedere al Monte del Tempio.
4. C’è una pausa stupefatta fra i mediatori, i commentatori occidentali se la prendono in maniera sempre più insultante con Netanyahu, ignorando il fatto che anche i suoi avversari come Gantz rifiutino di arrendersi a Hamas. Gli Usa prendono qualche iniziativa dimostrativa contro i “coloni”, anche se in questo momento sono quasi tutti impegnati in guerra e non agiscono in Giudea e Samaria. E poi si ricomincia.

• Quel che la diplomazia americana non capisce
  La ragione di questa coazione a ripetere è che la diplomazia americana (e con essa la rumorosa ma impotente tifoseria europea) non vuole prendere atto di alcuni elementi fondamentali. Il primo è che ai palestinesi (a tutte le loro organizzazioni politiche, non solo a Hamas) dello Stato palestinese non importa, se non come strumento contro Israele. Quel che vogliono è impadronirsi del territorio “dal fiume al mare”, cioè distruggere Israele e possibilmente sterminare gli ebrei. La seconda cosa è che Israele (non solo i politici di destra, anche la grande maggioranza dell’elettorato) conosce benissimo questa situazione e non è disposto a lasciarsi massacrare senza difendersi, né a concedere ai terroristi i privilegi e le immunità di uno stato che li aiuterebbe nelle loro aggressioni, né a fermare la guerra di Gaza prima di avere distrutto Hamas, il quale, anche grazie alle ambiguità americane ed europee è ancora convinto di poter ottenere un compromesso che ne assicuri la sopravvivenza – cioè la vittoria.

• I danni dell’atteggiamento dell’amministrazione Usa
  La fuga sciagurata dall’Afghanistan degli americani decisa di Biden non può ripetersi in Israele, perché Washington è a 11.000 km da Kabul, e Tel Aviv a 70 da Gaza. L’amministrazione Biden è oggi concentrata sul voto del Michigan dove qualche migliaio di arabo-americani potrebbe incidere sulle elezioni presidenziali; ma non bada a quel che costa sul piano internazionale la mancanza di appoggio ai suoi alleati per mettersi d’accordo coi nemici. Hamas è legato, attraverso l’Iran, alla Russia e alla Cina. Putin ha convocato a Mosca fra una decina di giorni la prima riunione da decenni di tutte le fazioni palestinesi. Il fatto che gli Usa non sappiano o non vogliano debellare davvero gli Houti, danneggiando gravemente l’Egitto, che stiano cercando di impedire a Israele di vincere la guerra ricattandolo con la fornitura di munizioni, che non si siano mai decisi ad armare a sufficienza l’Ucraina per sconfiggere la Russia, non ne fa agli occhi di stati più o meno alleati, come l’Arabia Saudita o l’India, un soggetto politico “morale” o “responsabile”, ma un alleato inaffidabile nei momenti decisivi. La distruzione delle alleanze, che Trump predica a parole, Blinken la sta realizzando coi fatti. Proporre a Israele come compensazione alla fine prematura della guerra “garanzie internazionali di sicurezza” dopo che le forze Onu di separazione sono sparite dal Libano meridionale come prima del Kippur avevano fatto quelle al confine con l’Egitto, dopo l’Afghanistan, dopo aver abbandonato alla Cina Hong Kong, nel Medio Oriente che bada ai fatti e non alle parole può sembrare solo una copertura diplomatica per la resa, cioè presa in giro. A Israele non resta che andare avanti come sta facendo, cercando di far conoscere le proprie ragioni senza esasperare il conflitto con l’amministrazione Biden, accettando anche di limitare l’azione militare e di attendere prima di conquistare l’ultima roccaforte di Hamas a Gaza come è necessario fare per vincere la guerra.

(Shalom, 18 febbraio 2024)

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L’ombra dell’antisemitismo sulla Germania

Intervista a Juliane Wetzel

di Nathan Greppi

Dopo il 7 ottobre, in tutto l’Occidente si è creato un clima d’odio sempre più forte che prende di mira non solo Israele, ma tutti gli ebrei. Non fa eccezione la Germania, dove gli episodi di antisemitismo sono aumentati esponenzialmente negli ultimi mesi. Uno dei più recenti riguarda il trentenne Lahav Shapira: nipote di Amitzur Shapira, uno degli 11 atleti israeliani uccisi dai terroristi palestinesi alle Olimpiadi di Monaco del 1972, Lahav sarebbe stato brutalmente aggredito fuori da un locale di Berlino.
   Per capire che aria si respira al di là delle Alpi, Mosaico ha intervistato la storica tedesca Juliane Wetzel, dal 1991 ricercatrice presso il Centro per la Ricerca sull’Antisemitismo dell’Università Tecnica di Berlino.

- Quanto era diffuso l’antisemitismo in Germania prima del 7 ottobre? E cosa è cambiato dopo?
  L’antisemitismo era già diffuso in Germania prima del 7 ottobre. Venivano registrati migliaia di episodi di antisemitismo, dagli insulti verbali agli attacchi violenti, questi ultimi a decine. Per “attacchi violenti” si intendono anche gli atti di vandalismo nei cimiteri, dove delle lapidi ebraiche sono state danneggiate.
   Dopo il 7 ottobre, gli episodi sono aumentati considerevolmente, soprattutto sui social, dove l’antisemitismo si è manifestato come mai prima d’ora. Ad essere aumentati sono anche gli attacchi antisemiti nei campus universitari contro gli studenti ebrei, che prima non erano diffusi in Germania come lo sono ora.
   In molte manifestazioni filopalestinesi, si equipara quello che Israele sta facendo a Gaza a quello che i nazisti fecero agli ebrei negli anni ’30 e ’40. Ciò porta ad una distorsione della memoria della Shoah, che le persone stanno compiendo senza capire quello che fanno. Al punto che in una manifestazione a Berlino, per di più davanti al Ministero degli Esteri tedesco, si è visto un cartello con scritto “Free Palestine from German guilt”. Come a dire che la Germania deve smettere di sentirsi in colpa per gli ebrei.

- Tra la destra e la sinistra, da dove proviene la maggior parte degli attacchi antisemiti?
  Prima del 7 ottobre, circa il 90% delle manifestazioni di antisemitismo aveva radici nell’estrema destra. Adesso, invece, sono aumentate anche nei circoli di estrema sinistra e negli ambienti islamisti, portando in diversi casi anche ad attacchi violenti. Nelle manifestazioni filopalestinesi, a volte capita di vedere estremisti sia di sinistra che di destra, uniti dall’odio contro Israele.

- Come vengono trattati, nel dibattito pubblico, la guerra in corso e il tema dell’antisemitismo?
   Nei primi tempi, l’aumento dell’antisemitismo veniva dibattuto solo in alcuni ambienti di nicchia, ma in generale la popolazione non era consapevole del problema. Lo dimostra il fatto che dopo il 7 ottobre, venne organizzata una manifestazione a Berlino per esprimere solidarietà verso Israele, cui parteciparono circa 20.000 persone. Poche, su una città di quasi 4 milioni di abitanti. Adesso, invece, si dibatte poco sui media degli attacchi terroristici di Hamas, e si parla solo di quello che succede a Gaza, senza ricordare che ciò che sta succedendo nasce dalla risposta d’Israele a quello che ha fatto Hamas.

- Tra i partiti politici tedeschi, quali sono i più vicini agli ebrei e Israele? E quali invece sono i più ostili?
  In generale, tra il 15% e il 20% della popolazione tedesca coltiva pregiudizi antisemiti. Ma tracciare una linea netta tra i diversi partiti non è così semplice. Non tutti i conservatori sono filoisraeliani, e non tutta la sinistra è antisraeliana.
   C’è l’AfD, un partito di destra populista, che ufficialmente si dichiara pro-Israele al 100%, ma se si guarda dietro le quinte l’antisemitismo è assai diffuso al suo interno. Dall’altra parte, nell’estrema sinistra e tra i Verdi ci sono molti filopalestinesi, ma non sempre: di recente ho avuto una discussione su Zoom con dei membri del partito dei Verdi, ed esprimevano posizioni diverse tra loro sull’argomento.

- In molte città europee, abbiamo assistito a manifestazioni dove i musulmani incitavano all’odio non solo contro Israele, ma anche verso gli ebrei. Com’è la situazione nelle comunità islamiche tedesche?
   Indubbiamente molti musulmani coltivano posizioni antisemite e prendono parte a manifestazioni filopalestinesi. Tuttavia, non bisogna generalizzare: ci sono ONG che combattono le varie forme d’odio in Germania, dove tra i co-fondatori vi sono anche dei musulmani impegnati contro l’antisemitismo, tanto che cercano di fare educazione nelle loro comunità per contrastare i pregiudizi antisemiti.

- Tra l’ex-Germania Est e quella dell’ovest, vi sono delle differenze nei pregiudizi verso gli ebrei e Israele?
  Nei primi anni dopo la riunificazione c’erano delle differenze, ma ora non più. Negli ex-territori della DDR, c’è un serio problema di neonazismo. Anche nella vecchia DDR l’antisemitismo era diffuso, perché il regime comunista, come tutti i paesi che ricadevano sotto l’influenza dell’Unione Sovietica, aveva posizioni antisioniste, e dipingeva Israele come uno Stato imperialista.
   Oggi, anche nella Germania Ovest stanno crescendo l’estrema destra e quelle teorie complottiste che vedono gli ebrei controllare tutto attraverso il denaro. Crescono in particolare attraverso i social, facendo leva sulla paura di diventare economicamente svantaggiati, che è molto forte soprattutto nelle campagne.

- Quali pratiche vengono adottate dalle autorità tedesche per cercare di contrastare l’antisemitismo?
  Le autorità fanno molto, finanziando anche molte ONG che combattono l’antisemitismo. Si tratta soprattutto di finanziamenti mirati verso singoli progetti, in genere della durata di 2-3 anni, da parte del Ministero per la Famiglia. Dopodiché, la ONG deve fare domanda se vuole ricevere altri fondi.
   Dopo il 7 ottobre, diversi politici di ogni schieramento hanno parlato pubblicamente contro l’antisemitismo, affermando che per la Germania è una ragion di Stato garantire la sicurezza e l’esistenza d’Israele. E viaggiano spesso in Israele, per offrire il loro aiuto anche come mediatori di pace.
   Credo che la più grande sfida per le autorità sia nell’interfacciarsi con i social; come arginare la diffusione di teorie complottiste? Come fornire ai giovani le giuste competenze digitali? Come distinguere le fake news dalla realtà? A mio parere, il mondo digitale non ha ancora un ruolo abbastanza centrale nell’agenda politica. E non è un problema solo in Germania, ma a livello europeo e mondiale.

(Bet Magazine Mosaico, 18 febbraio 2024)

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Il tasso di inflazione annuale in Israele scende al 2,6%

Inflazione in discesa in Israele, l’indice dei Prezzi al Consumo è rimasto invariato a gennaio, ma l’ultimo indice dei prezzi delle abitazioni mostra un aumento.

L’Indice dei Prezzi al Consumo (CPI) di Israele è rimasto invariato a gennaio. Nei dodici mesi fino alla fine di gennaio, il tasso di inflazione è sceso al 2,6% dal 3% nel 2023, secondo i dati pubblicati dal Central Bureau of Statistics. Il calo è in linea con le aspettative degli analisti che prevedevano un tasso di inflazione annuale compreso tra il 2,6% e il 2,7% a gennaio.
Il settore abbigliamento e calzature e quello dell’intrattenimento e della cultura sono entrambi diminuiti dello 1,0% il mese scorso. I prezzi dei prodotti freschi sono diminuiti dello 0,5%, mentre il settore dei trasporti è sceso dello 0,4%.
Il Central Bureau of Statistics ha anche pubblicato la variazione dei prezzi delle abitazioni (che non fanno parte del CPI generale) tra ottobre-novembre 2023 e novembre-dicembre 2023. In media, i prezzi sono aumentati dello 0,7%. Nella suddivisione per regione, i prezzi sono diminuiti del 1,3% a Gerusalemme e aumentati dell’1,2% a Haifa, dell’1,6% nel centro e dello 0,8% nel sud. A Tel Aviv, i prezzi sono rimasti stabili.
I prezzi delle nuove abitazioni sono aumentati in media dell’0,9%.
Nel confronto tra novembre-dicembre 2023 e novembre-dicembre 2022, l’indice dei prezzi delle abitazioni è diminuito dell’1,4%. I prezzi sono scesi del 4,4% a Tel Aviv, dell’1,3% a Gerusalemme, dello 0,8% nella regione centrale e dello 0,1% nel sud. I prezzi sono aumentati del 3,3% nella regione settentrionale e dello 0,3% a Haifa.
L’indice dei prezzi delle nuove abitazioni è diminuito del 2,7%.
Il capo economista di Phoenix Holdings, Matan Shitrit, spiega le conseguenze della caduta dell’inflazione in Israele sulla politica dei tassi di interesse della Banca d’Israele: “Le previsioni degli analisti tenevano conto di un trend continuo di declino del tasso di inflazione annuale, ma nonostante la diminuzione, le probabilità di un taglio dei tassi di interesse nella prossima decisione rimangono basse. Secondo noi, il processo di riduzione dei tassi di interesse sarà cauto e lento, e la Banca d’Israele seguirà le mosse della Federal Reserve degli Stati Uniti e della Banca Centrale Europea, dove le aspettative dell’inizio di un processo di taglio dei tassi diventano sempre più remote. La previsione del Dipartimento di Ricerca della Banca d’Israele per il tasso di interesse della banca alla fine del 2024, tra il 3,75% e il 4,00%, indica anche un processo molto graduale.
“Per quanto riguarda l’impatto del rating di credito di Israele sui tassi di interesse, è chiaro che il declassamento del rating è stato già inserito nei prezzi dai mercati, che sono rimasti stabili, mentre lo shekel si è rafforzato, il che dà il via libera per ulteriori tagli dei tassi di interesse. Tuttavia, mentre le recenti letture del CPI sono state influenzate da una forte caduta della domanda, i dati attuali indicano un recupero piuttosto rapido dell’attività economica, il che significa che il fattore deflazionistico potrebbe dissiparsi. Inoltre, le previsioni di inflazione per i prossimi dodici mesi, che già indicavano una certa stabilità dell’inflazione, inizieranno ora a considerare l’aumento dell’IVA previsto a gennaio 2025. Stimiamo che l’aumento dell’IVA contribuirà con 0,5 punti percentuali all’IPC – 0,2 punti percentuali a gennaio 2025 e il resto nei mesi successivi.”

(Israele360, 18 febbraio 2024)

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L’ultimo appello di Dio

di Vim Malgo (1922-1992)

    «Come fu ai giorni di Noè, così sarà alla venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni prima del diluvio si mangiava e si beveva, si prendeva moglie e s'andava a marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e la gente non si accorse di nulla, finché venne il diluvio che portò via tutti quanti, così avverrà alla venuta del Figlio dell'uomo» (Matteo 24:37-39).

Come fu il tempo di Noè? È importante per noi esserne a conoscenza visto che il Signore Gesù confronta quel tempo con il tempo immediatamente precedente il suo ritorno. Al tempo di Noè da un lato l'appello di Dio raggiunse un apice, dall'altro l'indurimento dell'uomo arrivò al culmine. Prima del diluvio Dio aveva parlato molto e spesso agli uomini.
   Per mezzo del sacrificio di Abele egli aveva parlato della sua volontà di riconciliazione (Ebrei 11:4). Per mezzo del cammino giusto di Enoc egli aveva attestato la necessità di santificazione e del suo arrivo in veste di giudice (cfr. Ebrei 11:5; Giudici 14:15).
   Poi Dio parlò un'altra volta per mezzo di Noè (Ebrei 11:7). La costruzione dell'arca fu l'ultimo appello di Dio in quell'epoca e questo è il punto di contatto fra il tempo odierno e quello di Noè. Anche nel nostro tempo Dio ha parlato al mondo per l'ultima volta. Dopo il diluvio egli parlò ancora:

    «Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi» (Ebrei 1:1-2).
Dio parlò per l'ultima volta al mondo antidiluviano tramite l'arca di Noè, così egli ha parlato per l'ultima volta a noi tramite il Figlio, Gesù Cristo. L'arca è infatti una concreta rappresentazione profetica della chiesa di Gesù, che viene salvata, ma anche di Gesù stesso. Da che cosa possiamo riconoscerlo?

  • Prima di tutto perché l'arca fu l'unica possibilità di salvezza dal giudizio.
  • Poi perché aveva una sola porta, e Gesù dice: «Io sono la porta; se uno entra per me, sarà salvato, entrerà e uscirà, e troverà pastura» (Giovanni 10:9). Egli è l'unica salvezza, l'unica porta in un mondo pronto per il giudizio, e lo divenne sulla croce del Golgota.
  • Terzo, per la sostanza fondamentale che rese l'arca in sé degna di essere salvata:« ... spalmala di pece di dentro e di fuori». L'arca in sé non poteva salvare, ma poteva farlo grazie alla sostanza che la rendeva impermeabile. Noè era protetto interiormente ed esteriormente dalle ondate di giudizio che si stavano avvicinando. Se Gesù fosse morto di una morte normale, la redenzione non sarebbe stata efficace; ma la sostanza della redenzione, il suo sangue santo e prezioso, che sparse sulla croce del Golgota, la rese efficace. «In lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue» (Efesini 1:7). Proprio come Noè era protetto dentro e fuori dalla pece con cui aveva spalmato l'arca, così il prezioso sangue di Gesù ci protegge esteriormente ma anche interiormente dalle potenze della distruzione degli ultimi tempi. Quanto abbiamo bisogno di questa protezione interiore, dataci dal suo sangue, ancora oggi!

Nel suo discorso profetico, in Matteo 24, il Signore Gesù nomina sei terribili peccati degli ultimi tempi che ci colpiscono nel cuore: Egli parla di rivolte al versetto 7, odio al versetto 9, paura e tradimento reciproco al versetto 10, seduzione al versetto 11 e raffreddamento dell'amore al versetto 12. Da chi fu pianificata la nostra redenzione fin dalla fondazione del mondo? Da Dio Padre stesso (Efesini 1:4). Da chi fu eseguita la salvezza quando il tempo fu compiuto? Da Dio Figlio (1 Pietro 2:24). Da chi fu sottoscritta e sigillata la redenzione? Da Dio Spirito Santo (Efesini 1:13). L'arca era costituita da tre piani. Quello in alto fa pensare alla maestà che regna in alto, a Dio Padre; quello al centro a Dio Spirito Santo che aleggia sopra di noi e agisce nei nostri cuori; quello in basso a Dio Figlio che scese nelle profondità dell'abbandono da parte di Dio. Molti si chiederanno: «A che cosa mi serve il sangue di Gesù che fu versato circa duemila anni fa? A che cosa mi serve oggi, nel XXI secolo? Non è ormai perduto per sempre, come può essere efficace ancora oggi?» Risposta: Lo Spirito Santo rende viva la redenzione avvenuta circa duemila anni fa. Egli trasfigura l'Agnello di Dio e rende efficace per noi oggi la potenza del sangue di Gesù. Questo spiega anche perché proprio il tempo di Noè fu un tempo finale.

È un fatto grave quando una persona si allontana da Dio Padre; è terribile se nega il Figlio; ma egli sarà inevitabilmente condannato se si oppone all'opera dello Spirito Santo perché è sempre lui che trasfigura e rende viva l'opera di Dio compiuta tramite il Signore Gesù. Il giudizio di Dio sugli uomini al tempo di Noè inizia con la costatazione del Signore:

    «Lo Spirito mio non contenderà per sempre con l'uomo (altra traduzione: Gli uomini non vogliono lasciarsi più correggere dal mio Spirito)» (Genesi 6:3).
L'opera di Dio, che all'epoca voleva vivificare per mezzo del suo Spirito il cuore dell'uomo, fu rifiutata. Perciò lo Spirito Santo voltò le spalle al mondo di allora e si rivolse a Noè e ai suoi. Egli si occupò della costruzione dell'arca e così la separazione fra Noè e i suoi contemporanei divenne sempre più netta. Invece di una riunione, di un ecumenismo generalizzato, ci fu una divisione sempre più profonda. Questa è l'opera dello Spirito Santo oggi, in questi ultimi tempi. Egli volta le spalle al mondo e vuole unirsi alla sua sposa, la Chiesa. Sempre più si sente il richiamo di Apocalisse 22:17: «Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». Ai tempi di Noè, l'opposizione nei confronti dello Spirito Santo si espresse soprattutto nella pratica dell'occultismo che voleva rimuovere il confine fra il cielo e la terra. «Avvenne che i figli di DIO videro che le figlie degli uomini erano belle, e presero per loro mogli tutte quelle che essi scelsero» (Genesi 6:2). Secondo la nostra comprensione delle Scritture, questi «figli di Dio» erano angeli caduti, spiriti delle tenebre che avevano rapporti con gli uomini. Dall'unione di esseri umani e di spiriti nacquero i tiranni o cosiddetti giganti (Genesi 6:4). Allora come oggi, lo spiritismo, l'invocazione degli spiriti, era molto di moda. Ai nostri giorni, seguire l'oroscopo e altri peccati abominevoli sono all'ordine del giorno (Deuteronomio 18:10-12). Perciò Gesù dice: «Ma come fu ai giorni di Noè, così sarà anche alla venuta del Figlio dell'uomo»
   Questo è il dramma che sentiamo nel nostro tempo. Nonostante gli avvertimenti veramente chiari di Dio, gli uomini si muovono nella direzione opposta: gozzoviglie, fornicazione e magia stanno assumendo delle dimensioni notevoli. In mezzo agli avvertimenti che il Signore ci rivolge, egli chi incoraggia: «Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato» (Matteo 24:1), e al versetto 25: «Ecco, io ve l'ho predetto»

Quale fu il lato più tragico nell'esperienza dell'uomo di allora? Il fatto di andare in perdizione? No! Il fatto tragico era che la gente andò in perdizione nonostante la salvezza fosse a portata di mano e che molti si illusero: «Sono salvo, non può succedermi nulla», pur essendo, in realtà, perduti. Questo è quanto si deduce dalle parole del Signore Gesù in Matteo 24:39: «… e la gente non si accorse di nulla», ossia non riconobbe completamente la gravità della situazione, proprio come accade oggi. Le Scritture partono dal presupposto che anche i contemporanei di Noè fossero più o meno religiosi, conoscessero l'arca e il suo scopo e fossero più o meno coinvolti nel lavoro di costruzione. Gli schernitori di allora, e oggi vale lo stesso, non ne volevano sapere e furono perduti; ma c'erano sicuramente anche altre persone, come ne conosciamo molte anche oggi, che giravano attorno all'arca, i cosiddetti cristiani nominali. Cari amici, l'unica cosa che conta, oggi come allora, è entrare. Gesù dice:

    «Stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano» (Matteo 7:14).
Che gente era quella che entrò nell'arca? Una minoranza, ma erano persone che si trovavano realmente nell'arca quando iniziò il diluvio e la porta si chiuse. Le persone salvate sono nascoste in Gesù Cristo non in linea di massima bensì realmente. Come Noè, esse sono separate ermeticamente dallo spirito di questo mondo perché hanno una sola finestra rivolta verso l'alto. «Farai all'arca una finestra, in alto, e le darai la dimensione d'un cubito.» Se siete in Gesù, avete la finestra aperta verso l'alto. Perché? Perché avete una forza modesta:
    «Ecco, ti ho posto davanti una porta aperta, che nessuno può chiudere, perché, pur avendo poca forza, hai serbato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome» (Apocalisse 3:8).
Che tipo di gente era quella rimasta fuori? Erano soltanto gli schernitori? Assolutamente no! Erano delle persone che avevano sentito tutto da Noè, la cui vita si trovava sotto il motto «sia l'uno che l'altro», gente che con un piede si trovava nell'arca e con l'altro fuori. Non ci avevano fatto caso finché non venne il diluvio e allora fu troppo tardi. Erano soprattutto delle persone che avevano una propria convinzione religiosa. Sicuramente c'era chi poteva essere paragonato agli universalisti di oggi che dicono: «Dio è amore, sicuramente non permetterà che qualcuno vada perduto.» Ma quando iniziò il diluvio morirono tutti, insieme a quelli che con l'intelletto avevano riso di Noè e della sua arca e che, in base «ai risultati della ricerca scientifica», avevano proclamato: «Non è affatto vero che ci sarà un giudizio imminente.» Quando giunse il diluvio, morirono tutti.

Un'ultima domanda: Che cosa significa il tempo di Noè per i figli di Dio oggi? Tre termini emergono dalla storia di Noè e facciamo bene a tenerli a mente anche per questo tempo: grazia, santificazione e ubbidienza.

  1. Grazia: Mentre Dio annunciò l'inevitabile giudizio in Genesi 6:7, attraverso il quale non soltanto tutti gli uomini ma anche tutto il bestiame, i rettili e gli uccelli sarebbero stati sterminati, risuonò il «ma» divino: «Ma Noè trovò grazia davanti all'Eterno» (Genesi 6:8). Questo ci dimostra la sua posizione: era un uomo graziato, un uomo del «ma» che doveva affermarsi contro il parere generale della gente di allora. Era un amico di Dio.
  2. Santificazione: Leggiamo di lui che camminò con Dio (Genesi 6:9). Questo è sempre il risultato della grazia. Nessuno può dire di essere stato graziato da Dio se non cammina nella santificazione. Non siamo graziati perché camminiamo nella santificazione, bensì, al contrario, la realtà della grazia nella nostra vita produce un cammino nella santificazione. Se non è così, abbiamo ricevuto la grazia di Dio inutilmente (Timoteo 2:11-13 e 2 Corinzi 6:1).
  3. Ubbidienza costante: Noè continuò a essere ubbidiente a Dio con costanza per decenni. In Genesi 6:22 leggiamo: «Noè fece così; fece tutto quello che Dio gli aveva comandato», e lo stesso in Genesi 7:5: «Noè fece tutto quello che il SIGNORE gli aveva ordinato». Al versetto 9 sta scritto che gli animali vennero a lui a coppie ed entrarono nell'arca, un maschio e una femmina, come Dio aveva loro ordinato. Questa era un'ubbidienza costante, illogica, ridicola e discutibile per la gente di allora. Eppure Noè fece ciò che Dio gli aveva ordinato.

Soltanto sul fondamento di questo triplice atteggiamento interiore, grazia, santificazione e ubbidienza, si può giungere a un chiaro punto della situazione. Noè fece ciò che non fece nessun altro, considerò necessario ciò che nessun altro considerò tale, ossia non si occupò soltanto dell'arca e della sua costruzione, bensì vi entrò personalmente. Nonostante la sua pluriennale ubbidienza, egli fece un passo in più: quando l'arca che lui stesso aveva costruito fu finita, egli vi entrò. Anche in ciò egli ubbidì al Signore. Questo è fare il punto della situazione. Oggi più che mai è necessario che ogni «costruttore di arca» faccia il punto della situazione, e lo faccia sotto ordine divino. Non dimentichiamo: Noè aveva già fatto tutto ciò che l'Eterno gli aveva ordinato. aveva trovato grazia davanti a lui, era stato ubbidiente, aveva camminato con Dio, ma dopo tutto questo, giunse il nuovo ordine finale del Signore in Genesi 7:1:

    «Il SIGNORE disse a Noè: «Entra nell'arca tu con tutta la tua famiglia, perché ho visto che sei giusto davanti a me, in questa generazione».
Per Noè ciò comportava delle scelte drastiche: doveva tagliare definitivamente i ponti con il passato; non sarebbe mai più potuto tornare nella sua vita di prima. È questo ciò che Gesù ci chiede in Luca 12:35-40.
   Crediamo che l'invito del Signore in Genesi 7:1: «Entra nell'arca», sia equivalente alla chiamata di mezzanotte in Matteo 25:6: «Verso mezzanotte si levò un grido: «Ecco lo sposo, uscitegli incontro». Questo è fare il punto della situazione interiore, l'esame della nostra posizione davanti al Signore e in lui.
    «Esaminatevi per vedere se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete che Gesù Cristo è in voi? A meno che non siate riprovati» (2 Corinzi 13:5).
Oggi come allora vale: «Uscitegli incontro!»
   Fate caso al nostro tempo: ci troviamo nella fase conclusiva della fine e alcuni se ne rendono conto, altri no. I contemporanei di Noè furono incapaci di sentire il richiamo ad entrare nell'arca. Mancavano di grazia, santificazione e ubbidienza. Altrettanto incapaci di accompagnare lo sposo nella sala delle nozze erano le vergini stolte (cfr. Matteo 25:6). Non avevano l'olio dello Spirito Santo. Qual è la vostra situazione? Il Signore afferma:
    «Ancora un brevissimo tempo, e colui che deve venire verrà e non tarderà» (Ebrei 10:3-7).
È necessario fare il punto della situazione - ora!  

(Chiamata di Mezzanotte, lug/ago 2017)



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La tregua? Prima vogliamo gli ostaggi

di Amedeo Ardenza

«Se gli ostaggi non saranno liberati, allargheremo la guerra a Rafah. Ci stiamo preparando in collaborazione con i nostri partner, incluso l’Egitto». A dire il vero, nessuno dei partner di Israele, men che mai il Paese delle piramidi, è favorevole a un intervento militare delle Israeli Defense Forces (Idf) contro la città più meridionale della Striscia, appoggiata sulla frontiera con l’Egitto.
   Eppure Benny Gantz, leader progressista, ministro del gabinetto di guerra ed ex capo di stato maggiore delle Idf, è stato chiaro: Hamas deve arrendersi o sarà ancora guerra. Un annuncio diffuso dopo che nell’ospedale Nasser di Khan Younis a Gaza le Idf hanno rinvenuto medicinali destinati ma mai consegnati ai 134 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Nello stesso nosocomio i militari hanno catturato 20 uomini del gruppo terroristico accusati di aver preso parte alla mattanza dello scorso 7 ottobre, quando Hamas ha trucidato 1.200 civili israeliani. Le parole di Gantz confermano che i 40 minuti del recente colloquio telefonico fra il premier d’Israele Bibi Netanyahu e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden non sono valsi a nulla. I due uomini non si piacciono sotto il profilo politico e umano – memorabile fu la luce verde data anni fa da Bibi a nuovi insediamenti in Cisgiordania mentre l’allora vicepresidente Biden atterrava a Tel Aviv – e adesso sono anche divisi dal nodo Rafah.
   Biden ha tentato la carta dell’isolamento diplomatico ottenendo in poche ore pressioni su Israele da Italia, Germania, Canada, Australia e Nuova Zelanda per un cessate il fuoco.
   A novembre gli americani scelgono il nuovo presidente e l’inquilino – ricandidato – della Casa Bianca teme che un nuovo capitolo del conflitto si ritorca contro la sua campagna elettorale, alienandogli la sinistra del partito democratico. I due leader sono anche divisi sul dopoguerra, con Netanyahu contrarissimo al piano Usa per la nascita di uno stato palestinese: «Israele respinge categoricamente diktat internazionali per un’intesa definitiva con i palestinesi: un accordo del genere sarà raggiunto solo attraverso negoziati diretti senza precondizioni», ha scandito Bibi. Più pragmatico, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, storico nemico dei radicali islamici, paventa che un’azione contro Rafah inneschi una crisi umanitaria con decine di migliaia di palestinesi in fuga verso l’Egitto. Il Cairo ha smentito preparativi per la guerra ma secondo le agenzie internazionali dall’analisi delle immagini satellitari si vede che sul lato egiziano del confine l’esercito sta spianando il terreno per allestire una tendopoli capace di accogliere fino a 100mila persone. La fermezza di Gerusalemme è presto spiegata: mentre le diplomazie di mezzo mondo, Santa Sede in testa, ne criticano i modi «vendicativi» e «sproporzionati», lo Stato ebraico vive nell’emergenza. Oltre agli attacchi da sud e alla guerra d’attrito a nord che Hezbollah ha mosso l’8 ottobre per non essere da meno di Hamas, il terrore colpisce anche dall’interno. Ieri due israeliani sono rimasti uccisi e quattro feriti allo svincolo urbano di Re’em nel sud del paese. Israele non ha una rete ferroviaria sviluppata ed è costellato da stazioni di autobus: contro quello di Re’em ieri ha aperto il fuoco il 37enne Fadi Jamjoum, residente a Gerusalemme est, subito freddato da un passante armato. Per Netanyahu «questo attacco ci ricorda che l’intero Paese è un fronte e che gli assassini, che non vengono solo da Gaza, vogliono ucciderci tutti».

Libero, 17 febbraio 2024)

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Quei calcoli sbagliati di Usa e Paesi arabi. Una follia regalare alla Palestina il suo Stato

Biden al lavoro per una trattativa che comprende il "premio" per la strage del 7 ottobre

di Fiamma Nirenstein

Ha scelto una strada molto centrale, venendo da Gerusalemme con la carta d'identità blu e il Kalashnikov fino quasi ad Ashkelon all'incrocio di Reem per ammazzare alla fermata dell'autobus due persone e ferirne altre quattro fra cui un ragazzo di 16 anni in fin di vita: di fronte alla proposta americana, di uno Stato Palestinese, questo è il biglietto da visita della «moderata» area oltre i confini di Gaza, quella di Abu Mazen, nell'Autorità palestinese, quella che era stata sgomberata dalla presenza militare israeliana salvo che nella zona C con gli accordi di Oslo. Si preparava così il terreno a «due stati per due popoli», ma Arafat mostrò che la scelta vera era distruggere Israele con la «seconda intifada» nel 2001 quando quasi duemila civili israeliani, donne e bambini, sono stati esplosi e fucilati per strada. Non si è mai tuttavia smesso di cercare, da parte di Israele, «due stati per due popoli» collezionando i «no» di Arafat a Shamir, a Rabin, a Barak, e poi a Olmert di Abu Mazen e a Netanyahu. Adesso, eliminando l'elementare clausola del bilateralismo di Oslo, Joe Biden, fiancheggiato dall'Unione Europea e dall'Onu, ripropone a Israele la solita formula, con la cauta aggiunta (americana) di uno stato palestinese riformato, demilitarizzato.
   Dovrebbe essere questa la conclusione della guerra seguita al pogrom organizzato da Hamas a Gaza, ma ammirato e approvato da tutti i palestinesi, se è vero che Abu Mazen non l'ha mai condannato, e che l'87 per cento dei palestinesi è d'accordo con l'orrore e la strage. Biden fa i suoi calcoli, certo pieni di buona volontà; pensa anche che l'eventuale sponsorizzazione dell'accordo da parte dell'Arabia Saudita, di cui si parla come di una forma di garanzia antiraniana per Israele, dovrebbe aprire un'era di pace fra arabi e israeliani. Ma non ha fatto i conti coi palestinesi di oggi: se si chiede a loro, per esempio Jibril Rajub, uno dei massimi leader dell'Olp, dice a Hamas, che il 7 ottobre «ha reso l'unità fra di noi non solo realizzabile, ma necessaria, la palla è nel vostro campo, decidete voi». Jenin, Ramallah, Hebron, Bethlehem... pullulano di armi, Hamas batterebbe in un soffio Fatah alle elezioni se solo Abu Mazen le inducesse. Netanyahu per rispondere alla proposta di Biden con cui peraltro ieri notte ha parlato amichevolmente per 40 minuti, ha detto: «Tutti parlano di due stati per due popoli. Ma io domando che cosa significhi: devono avere un esercito. Possono siglare un accordo militare con l'Iran? Possono importare missili dal Nord Corea e altre armi mortali? Possono continuare a educare i bambini al terrorismo e lo sterminio?... I palestinesi devono avere il potere di autogovernarsi, ma non un potere che consenta loro di minacciare Israele» e quindi aggiunge il primo ministro «il controllo di sicurezza deve rimanere nelle mani di Israele, la storia ha dimostrato che il terrorismo ritorna».
   E un eventuale Stato palestinese sarebbe per Israele, un abbraccio mortale con bande armate e ostili. La determinazione palestinese è scritta in tutta la sua storia: e l'inaspettata scelta di Biden di premiare i palestinesi per il 7 ottobre e il rigetto dell'esistenza di Israele, è un messaggio disastroso all'Iran, all'Iraq, alla Siria, al Libano, alla Russia loro sponsor, alla Cina... e a tutte le organizzazioni terroriste. È un premio per cui il criminale Sinwar che ha ordinato di decapitare i neonati, violentare, uccidere, diventa il Ben Gurion dei Palestinesi.

(il Giornale, 17 febbraio 2024)
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«... e l'inaspettata scelta di Biden di premiare i palestinesi per il 7 ottobre e il rigetto dell'esistenza di Israele...». Ma davvero inaspettata, la scelta di Biden? Pensava davvero, l'autrice dell'articolo, che Biden fosse pronto a sacrificare i palestinesi per evitare il loro rigetto di Israele? Troppe volte questa giornalista che sa descrivere bene i fatti è stata poi sorpresa da quello che veramente sono e provocano i fatti. Ma si sa, l'America è l'America. E poi la libertà. E poi l'Occidente, che siamo noi, compreso Israele, quello aperto democratico liberale, e non loro, tutti gli altri. Ma le cose stanno così? Chi è che vive di sogni? M.C.

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Gli “amichevoli” inciampi di Fassino

di Davide Cavaliere

«Con amici simili chi ha bisogno di nemici?», viene da chiedersi, con Charlotte Brontë, leggendo la recente «lettera» di Piero Fassino a Repubblica sul conflitto arabo-israeliano. È raro trovare, tra i presunti sostenitori dello Stato ebraico, un simile florilegio di luoghi comuni, tesi grossolane e banalità di vario genere. 
L’ex sindaco di Torino non perde tempo, inizia con impeto: «Netanyahu ha enormi responsabilità non solo per quel che accade oggi, ma per aver impedito la realizzazione degli Accordi di Oslo e Washington».  
Il leader israeliano, in realtà, non è stato l’affossatore dei disastrosi Accordi di Oslo che, ricordiamolo, sconvolsero la Knesset, poiché iniziarono con colloqui segreti, dato che simili trattative erano proibite, tra il governo laburista e i terroristi dell’OLP, bensì un suo alacre esecutore. 
Basti pensare che, nel 1998, il primo governo Netanyahu approvò il Wye River Memorandum, un documento integrativo ai suddetti Accordi, con cui si predisponeva il trasferimento di ampi territori della cosiddetta Cisgiordania all’amministrazione «palestinese» e la suddivisione di Hebron, culla dell’ebraismo, in due settori: l’H1, ossia l’80 per cento della città, posto sotto la tutela dell’Autorità Nazionale Palestinese, e il settore H2, una stretta via adiacente alla Tomba dei Patriarchi, sotto controllo israeliano. 
L’ex dissidente sovietico e ministro d’Israele, Natan Sharansky, nel suo libro intitolato In difesa della democrazia, un testo che Fassino non deve aver letto, scrive: 
«Netanyahu, il cosiddetto primo ministro “di destra”, indusse la stragrande maggioranza dei membri della Knesset ad accettare il trasferimento di Hebron sotto il controllo dell’ANP, una mossa che segnò una svolta epocale delle posizioni israeliane, soltanto un anno dopo che il Paese aveva conosciuto uno degli eventi più traumatici e tragici della storia: l’assassinio di Yitzhak Rabin».  
Dunque, Netanyahu non è responsabile di alcun «impedimento» al «processo di pace» millantato dalla leadership laburista, che altro non fece se non farsi beffare da Arafat, un capataz sanguinario che non ebbe mai a cuore né la pace con lo Stato ebraico né il miglioramento delle condizioni di vita dei palestinesi.
Subito dopo la ratifica degli Accordi, nel 1994, l’allora capo dell’OLP pronunciò un discorso in una moschea di Johannesburg dove, richiamando la vicenda di Maometto e della tribù dei Quraysh, spiegò che stava utilizzando gli Accordi per rafforzarsi e preparare al meglio una nuova jihad, che puntualmente si scatenò su Israele.
Fassino, non pago del precedente scivolone, rincara la dose affermando che Netanyahu avrebbe «autorizzato continui insediamenti in Cisgiordania». Su queste pagine abbiamo, a più riprese, spiegato come non esistano legittimi impedimenti all’edificazione di nuovi abitati in Giudea e Samaria. Quello degli «insediamenti illegali» è un  mito che non regge a una disamina approfondita. Una leggenda nera i cui ragionamenti capziosi hanno come obiettivo la delegittimazione di Israele nel suo complesso. Una narrazione falsa, a cui l’ex sindaco si accoda manifestando una scarsa, se non nulla, conoscenza dei fatti. 
La Cisgiordania, infatti, secondo il diritto internazionale, precisamente sulla base del principio dell’«uti possidetis», appartiene a Israele, in quanto legittimo successore del Mandato per la Palestina del 1922. Ma, per 19 anni, tra il 1948 e il 1967, fu occupata illegalmente dalla Giordania senza che mai Israele rinunciasse alla sua piena sovranità. Inoltre, nel 1967, la Giordania aggredì militarmente Israele, che poi la sconfisse e riconquistò i suddetti territori. La disputa territoriale è andata avanti fino al 1994 con la firma del trattato di pace tra i due Paesi.  
È bene anche precisare che la maggior parte dei presunti «insediamenti illegali» sono stati costruiti tra il 1967 e il 1993, anche sotto governi laburisti. Inoltre, dal 1993 al 2004 circa, i nuovi insediamenti sono stati solo nove. Negli anni successivi, la situazione non è cambiata. 
Addirittura, Netanyahu, viene criticato per aver proclamato «Gerusalemme capitale indivisibile di Israele». Un errore grave, dato che la Legge Base su Gerusalemme capitale «unica e indivisibile» venne approvata dalla Knesset nel lontano 1980. 
Fassino, tra le altre cose, ci tiene a informarci che lui è da sempre impegnato «a sostegno della soluzione due popoli/due Stati». Bisognerebbe dirgli, innanzitutto, che non esiste un «popolo palestinese». I cosiddetti «palestinesi» sono arabi, e questi hanno già ottenuto un loro Stato in quell’area geografica, ovverosia la Giordania. In seguito, sarebbe necessario fargli notare che tutte le proposte di spartizione e pacificazione sono state rigettate dagli arabi di Palestina, il cui obiettivo dichiarato era, e tuttora rimane, lo sterminio di tutti gli ebrei, come dimostra la concordanza ideologica tra alleanza nazionalisti arabo-islamici e nazisti
In seguito, nella sua lettera, abbandonato il periglioso terreno storico-giuridico, si getta sulla situazione umanitaria a Gaza, dove le azioni di Netanyahu avrebbero «mietuto un numero enorme di vittime». Nientemeno.
Il premier israeliano «miete vittime», è assetato di sangue, come vuole un certo stereotipo antisemita. Qui, Fassino mente sfacciatamente. Le operazioni militari dell’IDF, vista la densità abitativa di Gaza, hanno causato pochissime vittime civili, come riconosciuto anche da un eminente intellettuale di sinistra, Michael Walzer.
Persino assumendo per vere la cifre sulle vittime fornite da Hamas, che riferiscono 28.000 morti complessivi, senza distinguere tra civili e terroristi, si rileva un tasso di vittime civili tra i più bassi di sempre. 
Ma al Nostro non interessa la realtà, conta solo la finzione, da far entrare nei crani refrattari ripetendola senza sosta. Leggiamo ancora: «Quel che contesto è l’equivalenza diffusa tra la politica di Netanyahu e Israele. Un’equivalenza che nega il carattere democratico dello Stato ebraico». Certo, Netanyahu non è Israele e viceversa, ma perché non dire che la maggioranza degli israeliani sostiene l’attuale primo ministro? 
Netanyahu è un leader pienamente democratico, che rispetta il pluralismo dell’informazione, l’opposizione parlamentare, la separazione dei poteri e la laicità dello Stato. Alla carica di primo ministro vi è sempre giunto attraverso libere elezioni.  
Dopo aver sottolineato gli elementi socialisti presenti nel movimento sionista, sottacendo la presenza di un’importante corrente di destra, l’autore della «lettera» accusa nuovamente il Likud di aver «impedito» la «soluzione due popoli/due Stati».  
Gli israeliani, diversamente da Fassino, non hanno dimenticato ciò che è avvenuto a partire dal fallimento del vertice di Camp David nel 2000. Arafat, dopo aver rifiutato il piano offertogli da Bill Clinton e Dennis Ross, che pure concedeva ai palestinesi quasi tutto ciò che essi pretendevano da anni, lanciò la Seconda Intifada, che costituì uno dei più grandi massacri di ebrei dalla fine della Seconda guerra mondiale.
L’elettorato israeliano ha ancora ben presente il furore apocalittico e mortifero dei membri dell’AP e di Hamas — quest’ultimi si distinguono dai primi solo per il colore della kefiah, come sottolineato dallo studioso Mordechai Kedar. Al culto della morte e alla celebrazione dell’odio antiebraico partecipò, allora come oggi, quasi tutta la società palestinese.    
Se il cosiddetto «processo di pace» è fallito, la responsabilità non è di Netanyahu o della destra israeliana, ma della controparte araba. Quali sarebbero, dunque, le «ragioni legittime» dei palestinesi evocate al termine della lettera? Quale accordo è possibile con chi, da settantasei anni, si nutre del più gretto odio antisemita? Fassino chiede una «Conferenza internazionale di pace», ma in quali occasioni simili consessi hanno riportato risultati concreti? Non pago degli errori presenti nella sua ricostruzione dei fatti, rincara la dose proponendo una soluzione fatua e scontata.
Fassino è un improbabile amico dello Stato d’Israele. Coi suoi argomenti, all’apparenza ragionevoli e ponderati, rischia di legittimare teoremi e narrazioni dell’antisionismo militante. Oggi, di fronte al dilagare della giudeofobia, abbiamo bisogno di una difesa granitica, ben informata e pugnace delle ragioni sioniste, non dei distinguo «politicamente corretti», delle strizzatine d’occhio all’ala «sinistra» del partito d’appartenenza, dei «se» e dei «ma» di «veltroniana» memoria. 
La verità non è sempre «in medias res», per questo la difesa di Fassino risulta rachitica. Israele non ha bisogno di quelli che Piero Gobetti definiva «giudici conciliatori del moderatismo». La posta in gioco è troppo alta. 

(L'informale, 17 febbraio 2024)

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Antisemitismo in Australia, filopalestinesi rendono pubblici una lista di ebrei

Gravissimo episodio di antisemitismo in Australia, dove un gruppo di attivisti filopalestinesi ha reso pubblica una lista con centinaia di identità di ebrei locali.
Nomi, immagini, professioni e resoconti sui social media di ebrei che lavorano nel mondo accademico e nelle industrie creative dati in pasto dai propal, che hanno ricevuto le informazioni trapelate attraverso una chat privata di WhatsApp.
Quanto accaduto ha spinto il governo australiano a dichiarare che metterà al bando il doxxing, la diffusione online dannosa di informazioni personali o identificative senza il permesso del soggetto.
Diffusione che ha portato diverse famiglie ebraiche australiane a essere oggetto di molestie e minacce, nonché molte attività commerciali da loro gestite a essere vandalizzate.  
Il primo ministro Anthony Albanese ha così commentato una vicenda dai contorni antisemiti:

    “L’idea che in Australia qualcuno debba essere preso di mira a causa della sua religione… è assolutamente inaccettabile”.

Il procuratore generale Mark Dreyfus ha detto ai giornalisti:

    “Il crescente utilizzo di piattaforme online per danneggiare le persone attraverso pratiche come il doxxing, la divulgazione dannosa delle loro informazioni personali senza il loro permesso, è profondamente inquietante”.

E ancora:

    “La recente presa di mira di membri della comunità ebraica australiana attraverso pratiche come il doxxing è stata scioccante ma, purtroppo, questo è lungi dall’essere un incidente isolato”.

Come in altri paesi del mondo, infatti, anche in Australia c’è stato un cospicuo aumento delle denunce di antisemitismo dopo la mattanza di Hamas del 7 ottobre e la reazione di Israele a Gaza.
Facciamo un passo indietro.
Non ci è sempre stato detto che i filopalestinesi attaccano Israele e i suoi governi e non gli ebrei come popolo?
Se è così, perché i propal in Australia hanno diffuso senza permesso informazioni personali sugli ebrei locali?
Per caso questo episodio è la conferma che in realtà il tanto conclamato antisionismo in realtà è un modo per mascherare l’antisemitismo?
Noi conosciamo la risposta da anni… e voi?

(Progetto Dreyfus, 16 febbraio 2024)

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Gli ebrei messianici, i hardalim, spiegati da Yair Nehorai

In ambito evangelico come “ebrei messianici” si intendono gli ebrei che credono in Gesù Messia e dichiarano apertamente di appartenere al popolo ebraico e di volerne mantenere per quanto possibile i costumi. In questo articolo si vedrà che in Israele si parla di ebrei messianici anche in un altro senso. NsI

di Manuela Dviri

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Inizio con una precisione. Ho sposato (ben 56 anni fa) un “datì” che vuol dire religioso, o credente o osservante. Il mio datì è di quelli che portano in testa la papalina fatta all’uncinetto, e per forza di cose (io non sono osservante) lui è aperto al mondo e democratico quanto basta per poter vivere con me in uno status quo che malgrado tutto regge da mezzo secolo. (solo su questo ci sarebbe da scriverne un romanzo).
  Poi ci sono gli “haredim” i timorati di Dio, che si dividono gruppi e che in gran parte vivono in zone loro, si vestono a modo loro, e non fanno il militare. E infine ci sono i “hardalim”, una via dai mezzo tra i datiim (plurale di datì) e gli haredim. Si distinguono perché portano papaline fatte all’uncinetto più grandi e le loro mogli hanno quasi tutte il capo coperto con grandi e cinematografici turbanti.
   Una spiegazione un po’ semplicistica e molto superficiale, giusto per dare un’idea. Degli ebrei messianici invece ne sapevo molto poco, quasi niente, e così ho deciso di incontrare Yair Nehorai.
  Yair Nehorai è uno scrittore e avvocato israeliano, noto principalmente per il romanzo Taliban Son sull’estremismo religioso ebraico e per aver partecipato ad una serie di cause in cui erano implicati principalmente gruppi religiosi estremisti e messianici.
  Il romanzo Taliban Son è liberamente basato sul caso della “madre talebana”, nel quale Nehorai racconta di una leader di un gruppo particolarmente estremista. Sempre di estremismo ebraico tratta anche il suo secondo libro che si intitola invece LA TERZA RIVOLUZIONE: i principi messianici che si sforzano di trasformare Israele in uno stato ebraico basato sulla Torah- e come ne vengono istallati i valori.
  
Guarda caso incontro l’avvocato Nehorai in un bar in piazza Habima ormai famosa per le dimostrazioni contro il governo Netanyahu.

- Chi sono gli ebrei messianici?
  Coloro che sono convinti che il popolo ebraico abbia la missione di salvare non solo Israele, ma il mondo intero, e che quindi il destino del mondo intero sia sulle nostre spalle. Credono anche che Dio abbia deciso che sia finalmente arrivato il momento della redenzione, della Geulah.

- Nella tradizione ebraica la redenzione è soprattutto una questione spirituale, non materiale. Per avvicinare la geulah è necessario lavorare sulla redenzione interiore del singolo ebreo avvicinandolo alla Torah e ai precetti. È questo ciò in cui credono? negli sforzi collaborativi tra Dio e gli uomini?
  Come tutti gli estremismi, vanno molto più in là. Credono che tutto ciò che è stato costruito nel nostro paese dai laici sia errato e adesso sia venuto il momento di portare in Israele le leggi della Torah, farle diventare la costituzione del Paese, la sua essenza, la sua raison d’etre. Non a caso sono riusciti a far cadere il precedente governo, quello di Bennet, sulla legge del hametz (cioè la proibizione di far entrare negli ospedali pane e cibi proibiti- il hametz- perché possono aver avuto a che fare col pane durante la settimana di pasqua).

- Chi sono i rappresentanti politici di questa visione messianica?
  Il ministro Smotrich del partito dell’ebraismo religioso certamente, e secondo me non è lui a decidere ma i rabbini messianici che lo usano per i loro scopi. Ben Gvir invece è un “normale” razzista di estrema destra ma anche lui può servire e essere usato, per esempio parlando al Wall Street Journal contro Biden, e inneggiando a Trump.

- Quali sono i pericoli per Israele da parte dei gruppi messianici?
  Uno dei pericoli più grandi proviene dai corsi di preparazione pre-militare (mechinot kdam zvaiot) sotto la guida di rabbini messianici. Una in particolate, i Bney David (i figli di David) è nota per la sua influenza di tipo messianico, e non per caso proprio da loro Netanyahu è andato ultimamente in visita, alla ricerca disperata di alleati che lo aiutino a rimanere al governo. Ormai anche il mondo liberale e laico israeliano si è reso conto del problema, ha capito, ne ha paura e cerca di bloccarne l’avanzamento. Anche l’esercito sa che nelle sue file ci sono soldati provenienti da quel mondo. E non a caso sono bravissimi soldati.
   Per i messianici la visione del mondo è religiosa, non razionale, per loro la guerra stessa – che va assolutamente combattuta e vinta anche a costo della vita degli ostaggi – è parte della Geulah, perfino la Shoà ne sarebbe stata, e il rapimento degli ostaggi. Anche la strage del sette ottobre. Quest’ultima sarebbe addirittura la punizione per essersi ritirati da Gaza e aver smontato le colonie di Gush Katif. Per questo le vogliono ricostruire. Sono carismatici, sono entusiasti, sono trascinanti, e il loro sogno è di cambiare la realtà da dentro e di riuscire a convincere il più grande numero possibile di cittadini e quindi a conquistare il paese politicamente. Per gli ebrei messianici (che sono ormai una grande parte tra i religiosi del paese e certamente tra i coloni) i laici democratici hanno creato a suo tempo un paese come rifugio sicuro per gli ebrei del mondo e adesso è arrivato il momento di farlo diventare strumento della redenzione e della salvezza del popolo ebraico e del mondo intero.

- Come mai lei ne è diventato un esperto?
  Perché provengo da quello stesso mondo, da ragazzo lo ho visto crescere e svilupparsi. E mi ha fatto moltissima paura e oggi me ne fa ancora di più. Quindi ho iniziato a studiare questa realtà e a prepararmi. Per combatterla.
   Parlo dell’intervista con mio marito. Lui, piccato, risponde che Yair esagera, che nessuno dei suoi amici è messianico, che nessuno dei suoi amici è così. Che ci sono credenti che sono semplicemente di destra, senza essere messianici.
  “E si sbaglia” commenta mia figlia, madre di quattro figli di cui tre già maggiorenni. “Semplicemente non conosce il cambiamento avvenuto nelle nuove generazioni. Il mondo religioso ha preso una strada molto diversa da quella delle precedenti generazioni a cui apparteneva il nonno e a cui appartiene lui. Loro avevano collaborato persino con il partito laburista nella costruzione del paese. Adesso è tutto cambiato. I “hardalim” hanno semplicemente scelto un’altra strada. Si sbaglia davvero.”
   Lascio l’ultima parola al grande filosofo Gershon Scholem:

    La redenzione del popolo ebraico, che desidero in quanto sionista, non è affatto identica alla redenzione religiosa che auspico per l’avvenire. […] L’ideale sionista è una cosa e l’ideale messianico un’altra e non hanno punti di contatto altro che nella retorica enfatica dei raduni di massa. (Gianfranco Bonola, Le delusioni del messianico in Scholem)

(JoiMag, 16 febbraio 2024)

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Confermata la morte di Yair Yaakov, rapito da Hamas nel kibbutz Nir Oz

di Michelle Zarfati

Il kibbutz Nir Oz giovedì ha annunciato la morte di Yair (Yaya) Yaakov, 59 anni, rapito il 7 ottobre da Hamas. Il suo corpo risulta tuttora detenuto dai terroristi nella Striscia di Gaza. “Yair ha sempre lavorato nel Kibbutz Alumim. Era un uomo umile e semplice che amava la famiglia, la sua terra e la musica” scrive in un annuncio il Kibbutz Nir Oz. Al quartier generale delle famiglie degli ostaggi, Yair è stato definito come “un padre di famiglia con un cuore enorme che era sempre pronto ad aiutare tutti”. Yair era sempre energico. Fin dall’infanzia, amava godersi la vita, ascoltare musica, sedersi con una birra fredda al sole. Yair era una persona sempre circondata da molti amici. Un fratello maggiore, che ha sempre custodito e protetto tutte le persone attorno a lui, ma soprattutto un padre che si è sempre preso cura dei suoi figli, amandoli con tutto se stesso.
   Yair lascia tre figli: Or, 17; Yigal, 13; Shir, 21; e la sua compagna Merav Tal. I suoi giovani figli e sua moglie sono stati rapiti dal kibbutz il 7 ottobre e sono stati rilasciati come parte dell’accordo sugli ostaggi.
   Appresa la notizia, il figlio di Yair, Or ha pubblicato un post sui social media in cui ha salutato suo padre scrivendo: “Papà, non ho altre parole per descriverti, ma prenditi cura di me in cielo. Ti amo e non ti dimenticherò, sarai sempre nel mio cuore”. Or e Yigal sono stati rilasciati durante il 52° giorno di prigionia e sono tornati in Israele, mentre la madre Merav è stata rilasciata il giorno dopo. Yair e sua moglie erano nella loro camera bunker e hanno combattuto con tutte le loro forze per impedire ai terroristi di infiltrarsi nel kibbutz. Merav ha lasciato un messaggio vocale sulla chat Whatsapp della sua famiglia poco prima del rapimento. “Sono dentro casa, ci hanno sparato nella stanza. Yaya, ha tenuto la porta. Sono dentro casa, abbiamo urlato forte. Ora Yair è ferito, chiamate la polizia” diceva la donna ai suoi cari. Un ultimo tentativo per salvare la vita di Yair.

(Shalom, 16 febbraio 2024)

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"Davanti alla Commissione Europea c'è un'organizzazione di facciata di Hamas"

Rivelazioni del governo su come i terroristi operano da noi: "Usano le ong per raccogliere denaro e invitare politici, accademici, giornalisti e persone della società civile"

di Giulio Meotti

Per la prima volta ora il ministro della Giustizia del Belgio, Paul Van Tigchelt, lo mette nero su bianco: Hamas è attivo in Belgio (e altrove in Europa) attraverso società “umanitarie”. Non per seminare il terrore, ma per presentare Hamas sotto una luce favorevole e raccogliere fondi. I tentacoli islamisti si estendono anche nel cuore della vecchia Europa. Finora si trattava solo di sospetti, ora per la prima volta il governo lo ammette. Cosa fanno esattamente queste ong?
Van Tigchelt rivela che “le attività di Hamas in Belgio si concentrano sul lobbying e sulla raccolta di fondi”. Un esempio citato è quello della ong “Eupac”. La sua sede si trova al numero 6 di Place Schuman a Bruxelles, proprio di fronte alla Commissione Europea. In realtà l’organizzazione serve come mezzo di lobbying, spiega Paul Van Tigchelt, che rivela il funzionamento della campagna di Hamas in Europa: “Un consiglio di diversi membri provenienti da diversi paesi europei che organizza conferenze e difende la causa palestinese con le istituzioni locali, ma soprattutto europee. A queste conferenze sono invitati politici, parlamentari e legislatori europei, nonché accademici, giornalisti e persone della società civile”. 
Risultato? Questa mattina il capo degli aiuti di emergenza dell’Onu, l’inglese Martin Griffiths, ha detto che non considera Hamas un'organizzazione terroristica.
Spiega ad Atlantico l’esperto di Qatar Jean-Pierre Marongiu, saggista, imprenditore e fra i massimi esperti di Qatar, dove ha a lungo lavorato e vissuto: “Gli eurodeputati sono i primi bersagli di Qatar e Turchia, dal momento che la costituzione europea ha ormai la precedenza sugli stati sovrani, che vedono i loro poteri legislativi soggetti alle decisioni delle Commissioni. Più di 13.000 entità fanno pressioni sulla Commissione Europea e 3.500 di queste sono ong finanziate dai Fratelli Musulmani. Abbiamo consegnato le chiavi della stalla ai lupi. Approfittando dell'inerzia di politici ciechi, ingenui o corrotti, l'Europa sta oscillando verso un cambiamento di cultura e di civiltà senza prendere veramente sul serio la misura del pericolo”.
Cinque mesi prima del 7 ottobre, in Svezia, si è tenuta una conferenza organizzata da Hamas. Alla “Conferenza europea dei palestinesi” c’era anche Stefania Ascari, deputata dei 5Stelle. Questo lobbyismo, come lo chiama il ministro belga, è stato molto proficuo: abbiamo parlamentari inglesi e senatori francesi andati a incontrare il leader di Hamas Khaled Meshaal; parlamentari dei Libdem inglesi a Gaza a stringere la mano a Ismail Haniyeh, invitato a parlare alle conferenze a Rotterdam, in Olanda; e il Parlamento svizzero che ospita il portavoce di Hamas.

Majed Alzeer, da piazza Schuman a Bruxelles agli uffici di Hamas a Gaza
Il quotidiano britannico Times ha appena ottenuto un rapporto dei servizi tedeschi secondo cui Majed Alzeer è il leader europeo di Hamas. “Ha contatti fino ai vertici di Hamas e organizza le attività in diversi paesi europei”, indica un documento confidenziale. Lo vediamo  posare accanto a Khaled Mashal, leader di Hamas. E più recentemente accanto all’attuale leader di Hamas in esilio a Doha, Ismail Haniya. E poi al Parlamento di Bruxelles.
Intanto la Fratellanza Musulmana, di cui fa parte Hamas, si organizza nelle capitali europee. 
“Nelle profondità di Londra, l’ufficio dei Fratelli Musulmani è diventato uno dei rami più attivi del gruppo islamista”, racconta Foreign Policy. Londra era la “casa naturale” per la Confraternita islamica. Era già la sede del sito in lingua inglese della Confraternita, Ikhwanweb. Usano fondazioni di facciata, come Cordoba, che prende il nome dalla città spagnola a lungo conquistata dall’Islam. Il Sunday Telegraph ha rivelato che i principali hub per le operazioni della Confraternita in Europa sono Westgate House, un edificio a ovest di Londra, e Crown House, a nord. “Contengono almeno 25 organizzazioni legate alla Fratellanza”.
“The Europe Trust”, organizzazione legata ai Fratelli Musulmani, ha acquistato una proprietà da 4 milioni di euro nel quartiere berlinese di Wedding, riporta Die Welt. “Wedding - un ex quartiere operaio di Berlino - è stato trasformato in una roccaforte dell'Islam politico e un punto caldo per gli estremisti religiosi. Ora è nota per essere una comunità piena di moschee, negozi, centri culturali islamici e associazioni”.
“C'è una taqiya 'democratica' nei paesi occidentali, i Fratelli Musulmani propagano l'Islam radicale attraverso mezzi politici, associativi e non violenti”, denuncia il giudice antiterrorismo più famoso di Francia, Marc Trévidic. 550.000 euro per "Islamic Relief Germany", che si presenta come una sorta di "Mezzaluna Rossa" islamica, ma accusata di legami con Hamas. La Commissione Europea ha certificato questa organizzazione come “partner umanitario dal 2021 al 2027”. L’Islamic Relief è stata al centro di una inchiesta del giornale tedesco Die Welt
Prima delle vacanze natalizie, nella sede dell’associazione Eupac proprio davanti alla Commissione Europea, in Rond Point Schuman, c’è stato un meeting finalizzato a stilare una lista di alleati tra i candidati alle prossime elezioni europee. E tutto sotto gli occhi dormienti e drogati di un’opinione pubblica che non ha compreso la partita che si sta giocando.
Per aver scritto un libro sulle reti dei Fratelli musulmani, Le Frérisme et ses réseaux, Florence Bergeaud-Blackler, antropologa del Cnrs, è finita sotto scorta. Bruxelles, scrive nel saggio Bergeaud-Blackler, è “una specie di santuario dell’islamismo in Europa. I Fratelli musulmani agiscono penetrando nel tessuto sociale, nelle ong e nelle associazioni, nei luoghi dell’istruzione e delle imprese. Bruxelles è stata individuata dai Fratelli Musulmani come il ventre molle dell’Europa”.
E per penetrarlo non c’è niente di meglio dell’umanitarismo, come un coltello nel burro. Politici, sindacalisti, giornalisti e altri corifei della “società civile” ne vanno matti. Lo abbiamo visto dopo il 7 ottobre, per chi voleva vedere. Ma gli eurocrati non vedono neanche quello che c’è al di là di Piazza Schuman.

(Newsletter Giulio Meotti, 16 febbraio 2024)

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Hineni: una missione di solidarietà svolta in Israele

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“’Hineni in ebraico significa ‘eccomi, sono qui’”. È un’affermazione, un impegno che promette: “Sono qui, dove e come mi avete trovato, attento, concentrato, con tutto me stesso, con tutto ciò che sono e che posso essere”. Questo è lo spirito e il nome della missione di solidarietà svolta in Israele dal 5 all’8 febbraio scorsi da ECJC, European Council of Jewish Communities, in collaborazione con JDC, American Jewish Joint Distribution Committee, Zehud School e la Divisione delle imprese sioniste della WZO. Una missione di solidarietà e amore per il popolo ebraico che ha visto riunirsi in Israele 33 rappresentanti di comunità ebraiche provenienti da nove paesi europei, che hanno condiviso un viaggio denso di incontri e visite con lo sguardo rivolto a quanto il Paese sta passando in questo difficile e drammatico periodo iniziato il 7 ottobre 2023.
   “Le perdite di quel giorno e da allora sono state devastanti: 1.200 israeliani uccisi e 240 presi in ostaggio, di cui 136 sono ancora trattenuti a Gaza – scrive ECJC, European Council of Jewish Communities -. Lo Stato di Israele è ora in una guerra su vasta scala contro Hamas a Gaza, mentre difende i suoi confini a nord contro Hezbollah. Circa 200.000 persone sono state sfollate dalle loro case in Israele e alcune stanno ancora affrontando questa terribile e incerta situazione, mentre le famiglie ferite, traumatizzate e colpite cercano di gestire la loro vita quotidiana in quella che sembra una realtà impossibile. Contemporaneamente, in tutto il mondo, sono aumentate le reazioni antisemite […], così le comunità ebraiche si trovano di fronte a tempi complicati e difficili che possono essere affrontati solo attraverso l’unità e la costruzione di nuovi modi per collegare le nostre vite e agire insieme”. All’insegna della solidarietà, del dialogo e dell’impegno a favore del futuro di Am Israel, il viaggio di ECJC ha toccato diverse tappe fra cui Il Ministero degli Affari Esteri, il Kotel e l’ospedale Hadassah a Gerusalemme, il Kotel, il kibbutz Kfar Aza colpito dagli attacchi del 7 ottobre, la località di Reim per un incontro con dei sopravvissuti al terrorismo e ai rapimenti al Nova Festival, Kikar Hachatufim, la piazza di Tel Aviv con la tavola apparecchiata e le foto dei rapiti, il centro accoglienza di Shefayim per i sopravvissuti del kibbutz Kfar Aza e il moshav Mazor, per assaporare contatto diretto con la terra di Israele e i suoi frutti.

• La testimonianza di Angela Castigli sulla visita in Israele
  Alla missione in Israele di ECJC ha partecipato anche una delegazione italiana, con Dalia Gubbay, Massimiliano Tedeschi, Daniele Schwarz, Raffaele Besso, Valeria Biazzi e Angela Castigli, sostenitrice della nostra Comunità. “Volendo fare qualcosa per il popolo ebraico in questo particolare momento storico, ho contattato la Comunità Ebraica di Milano e conosciuto alcuni suoi esponenti – spiega a Bet Magazine Angela Castigli -. Sono stata accolta con grande umanità e simpatia. Ho conosciuto Milo Hasbani, il preside della scuola ebraica Marco Camerini e Paola Hazan, a cui ho potuto spiegare le mie motivazioni. Milo Hasbani mi ha poi chiesto se fossi interessata a partecipare a questo viaggio, organizzato a livello europeo. Io non ero mai stata in Israele, ma ho intuito che sarebbe stata un’esperienza eccezionale”.
   “Per prima cosa ho conosciuto persone di diverse comunità ebraiche europee e ho capito quanto possa essere complesso anche solo usare l’aggettivo ‘ebraico’, seppur siano tante sono le basi comuni, specialmente in questo difficile periodo di guerra; da un lato gli ebrei sono nel mondo, un punto di forza se dall’altro c’è un punto comune – prosegue Castigli -. L’organizzazione del viaggio è stata perfetta e nell’ottimo hotel dove alloggiavamo a Gerusalemme ho potuto inoltre incontrare famiglie israeliane, con tanti bambini. Mi è stato detto che erano famiglie di sfollati provenienti dal nord di Israele, vicino al confine con il Libano. Da quattro mesi occupavano un piano dell’albergo con tutte le loro cose ed è stato davvero toccante vederle. Per comunicare un po’ con loro ho imparato a dire ‘boker tov’, così una volta una bambina che avrà avuto quattro anni ha voluto darmi una caramellina. Ho scambiato qualche parola in inglese anche con le giovani madri e le donne di quelle famiglie, per conoscerle un po’ e capire meglio le cose. Mi sono sembrate donne fiere, non certo dimesse o ‘nascoste’. La prima impressione che ho ricevuto vedendo queste famiglie è stato il profondo senso di coesione della nazione israeliana – sottolinea -. In seguito, quando da Gerusalemme ci siamo spostati verso sud per raggiungere un centro attrezzato gestito da volontari che distribuivano cibo ai soldati, dai 30.000 ai 35.000 pasti al giorno, ho visto e sperimentato ulteriormente questo senso della coesione e dell’essere insieme in tutti i modi per farcela e per darsi una mano. Questo è stupendo e credo che sia la vera forza di questo popolo oltre che la vera ragione per cui ce la può fare e ce la farà”.
   “La domenica, girando per Gerusalemme, mi sono ritrovata in una mini-bottega che vendeva falafel buonissimi e con il mio pur non ottimo inglese ho provato anche lì a comunicare con le persone; sono entrati dei giovani soldati e ho chiesto loro quanti anni avessero: solo diciannove anni! Ho visto anche dei giovani religiosi, così ho chiesto al venditore dei falafel se questi fossero esentati dal servizio militare e lui mi ha svelato un altro aspetto della società israeliana che trovo eccezionale: i religiosi non sono obbligati ad arruolarsi, ma dal 7 di ottobre in poi molti di loro hanno comunque deciso di farlo e sono andati a combattere”.
   “Ho vissuto un’esperienza davvero ricca e significativa, sotto tanti punti di vista, e ringrazio la Comunità di Milano per questa opportunità. Io non sono religiosa, ma voglio comprendere i valori di riferimento e ho a mia volta dei valori di riferimento, primo fra tutti la libertà. Per esempio, anche i palestinesi hanno lo loro identità, ma non hanno la libertà, la possibilità di valutare e di scegliere. Gli israeliani invece hanno libertà di scelta, anche le donne religiose. Questa è la differenza”.
   Fra i momenti più toccanti e di profonda riflessione, nel corso della missione Hineni, ci sono state le visite al kibbutz Kfar Aza devastato dall’attacco del 7 ottobre e al sito dove si era svolto il festival Nova. “È stato terribile – evidenzia -. Siamo anche stati dove si era svolto il rave, il festival di musica attaccato da Hamas. Lì c’è stato un incontro con dei giovani sopravvissuti all’attacco. È stato commovente e coinvolgente per tutti i presenti. Poi abbiamo visitato un centro vicino a Tel Aviv, dove c’erano degli sfollati e dei parenti di vittime degli attacchi e anche là abbiamo avuto un incontro con una persona che era stata partecipe di quella tragedia. Altra tappa molto significativa è stata la visita alla piazza di Tel Aviv dove è allestita una tavola apparecchiata con tutte le foto dei rapiti presidiata 24 ore su 24 dai parenti degli ostaggi, che vi si alternano e chiedendone la liberazione”.
   Nell’insieme, la missione ha offerto momenti non solo emotivamente forti, ma significativi al fine della comprensione e dell’analisi della situazione e del da farsi. “Di fronte alla drammatica situazione disegnata dagli attacchi e dalla guerra, il senso di coesione e della capacità di resistenza del popolo ebraico mi ha colpito molto profondamente – ribadisce Angela Castigli -. Io stessa, nel centro che distribuiva i pasti hai soltati, era come se fossi diventata sorella della gente e ho provato l’emozione dell’essere insieme per una causa giusta. Questa coesione è cruciale per l’esistenza del popolo d’Israele. Oggi, rispetto a tanti altri popoli, a storie o situazioni diverse, questa specificità d’Israele, della sua storia, del suo essere, della sua cultura, credo che sia davvero la cosa più importante. La coesione del popolo viene anche dai valori che uniscono e che condivido: al popolo ebraico sono vicina per affinità di valori.  Il senso del viaggio è stato nel cercare di capire il perché e le cause della situazione, anche per poter intraprendere una efficace campagna di informazione. Oggi, su molti media e sui social, Israele sta passando per carnefice. Dietro c’è una macchina distruttiva, finanziata, e tutto questo è assolutamente terribile. Allora, comprendere significa anche saper reagire con una campagna non solo difensiva, ma di critica nei confronti di questa macchina distruttiva. Durante il viaggio ho compreso che non solo Israele si deve difendere e deve combattere, ma deve altresì agire dal punto di vista culturale e dell’informazione – conclude – anche perché questo antisemitismo oggi così tornato alla carica va combattuto con argomentazioni”.

(Bet Magazine Mosaico, 16 febbraio 2024)

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"Quattro stereotipi contro Israele e un motivo per levare ad Hamas l’ultima roccaforte

di Daniele Capezzone

Credo di sapere quanto sia popolare, in giornate come queste, limitarsi a generiche quanto emozionate perorazioni «per la pace in Medio Oriente». Si scaldano i cuori e contemporaneamente si scaricano le coscienze, autoassegnandosi una certificazione di bontà, di umanità, di empatia. Figurarsi: chi mai può essere «per la guerra»? Solo dei mostri, si capisce.
   Non solo: abbiamo a che fare – ultracomprensibilmente – con un’opinione pubblica angosciata dalla duplicazione dello scenario bellico (Ucraina e Gaza) e via via più consapevole di come, in giro per il mondo, altri teatri minaccino di farsi a loro volta roventi: si pensi solo alla situazione in almeno una mezza dozzina di stati africani. È logico che tutto questo spaventi le persone: ed è inevitabile che i politici guardino i sondaggi e adeguino il loro racconto ai sentimenti già sedimentati presso una parte assai consistente dell’elettorato.
  Ma, a maggior ragione in un quadro del genere, onestà intellettuale impone di non essere reticenti né omissivi, e di raccontare tutta intera una scomoda verità. Lo ha fatto l’altro ieri Mario Sechi, ricordando come una serie di guerre chiuse male abbiano prodotto una scia di successivi conflitti: quando una ferita resta aperta, può solo diventare purulenta, altro che guarigione. E lo hanno fatto ieri Marco Patricelli, rievocando l’illusione dell’appeasement (Monaco 1938 e non solo) e Fabrizio Cicchitto, tratteggiando il disegno comune antioccidentale che vede non di rado convergere Pechino-Teheran-Mosca.

• TUTTI CONTRO
Dentro questa cornice, è l’ora di esprimere qualche valutazione forse impopolare ma necessaria sulla prossima offensiva israeliana a Rafah. Un po’ tutti (Onu, Ue, Casa Bianca bideniana, e ora anche il Parlamento italiano, sia pure attraverso l’escamotage di una mozione della minoranza che è stata lasciata passare dalla maggioranza) si dichiarano contrari all’azione di Gerusalemme. Ma questo ragionamento presenta non pochi punti deboli.
  Primo - I contrari usano l’argomento - forte e di grande impatto emotivo della popolazione civile palestinese che verrebbe indubbiamente messa a rischio. Vero, anzi verissimo. E allora occorre, prendendo i giorni necessari (del resto, non risulta che l’attacco israeliano debba avvenire ad horas), organizzare corridoi e vie di fuga per i civili, ipotesi caldeggiata in primo luogo da Gerusalemme. Tra Rafah (profondo Sud della Striscia di Gaza) e Khan Younis c’è ad esempio una notevole quantità di spazio disponibile. Dunque, sarebbe compito delle Nazioni Unite e delle loro agenzie (in particolare, la famigerata agenzia per i rifugiati palestinesi) adoperarsi immediatamente in tal senso: lo facciano, garantendo il “come”, anziché limitarsi a dire no all’operazione annunciata dall’esercito israeliano. In altre parole, l’argomento dei profughi (che si deve affrontare e risolvere) non può diventare un modo per impedire a Israele di concludere efficacemente l’operazione militare.
  Secondo. Liberare Rafah non è un capriccio di Netanyahu: stiamo parlando dell’ultima roccaforte controllata da Hamas. E sarebbe assolutamente insensato lasciare questo bastione nelle mani dei terroristi. Da lì ricomincerebbero appena possibile a colpire: ed è esattamente ciò che va evitato. Da questo punto di vista, va ricordato che, dopo il 7 ottobre, tutti - da Washington a Bruxelles - si dicevano concordi sull’obiettivo di distruggere Hamas. Oggi invece chi vuole fermare l’esercito di Gerusalemme sta oggettivamente offrendo un salvacondotto ai terroristi, peraltro adottando il loro stesso schema sia militare che narrativo, e cioè l’uso della popolazione civile palestinese come scudo umano. Sta qui il paradosso nel paradosso: si aiuta Hamas e si finisce perfino per mutuarne il “racconto”.

• COSA SI VUOLE DAVVERO?
  Terzo - Si continua a ripetere che sarebbe “impossibile” eliminare Hamas. Ma questo non è vero: lo ha dimostrato il successo militare conseguito dagli israeliani a Gaza. Semmai, negli anni passati (si pensi alle timidezze che a lungo hanno frenato Barack Obama contro l’Isis) è proprio quel tipo di argomento che ha legato le mani all’Occidente. La storia ha invece dimostrato che dal 2016 in poi Isis è stata fatta fuori da Mosul e da Raqqa. Il punto - come sempre - è la volontà o meno di conseguire un obiettivo. Certo, se invece figure di vertice del sistema Onu continuano a negare il carattere terroristico di Hamas, è evidente che qualcuno intenda salvare i vertici di quell’organizzazione, anziché contribuire alla loro eliminazione o cattura. Ieri ad esempio era virale sui social l’incredibile performance televisiva di Martin Griffiths, sottosegretario generale Onu per le questioni umanitarie, che, parlando a Sky Uk, ha testualmente dichiarato: «Hamas non è un gruppo terroristico, è un movimento politico».
  Quarto - Con tassi maggiori o minori di buona fede, si continua a ripetere da più parti la soluzione dei «due stati». A parole, un’ottima prospettiva. Ma se uno dei due stati dovesse continuare a essere completamente controllato da un gruppo terroristico come Hamas, quale sarebbe la percorribilità dell’ipotesi e la possibilità di convivenza fianco a fianco delle due entità statuali? Nessuna, di tutta evidenza. Ecco perché sradicare Hamas è la precondizione per rendere possibili i due stati. Chi non lo comprende o è molto ingenuo o è molto complice. Tertium non datur.

Libero, 16 febbraio 2024)

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La pregiudiziale anti-israeliana della Chiesa di Francesco

di Niram Ferretti

Bisognerebbe chiedere a sua Eminenza Pietro Parolin, Segretario di Stato presso la Santa Sede, per il quale, in ossequio alla vulgata corrente “il diritto di Israele a difendersi non giustifica 30 mila morti”, quanti sono i morti giustificati dal diritto a difendersi di un paese aggredito come è accaduto a Israele il 7 ottobre scorso.
Sarebbe finalmente il caso di uscire dalla demagogia più vieta e dire senza se e senza ma quello che si pensa, che Israele non ha il diritto di difendersi, come fa, senza alcuna vergogna, Francesca Albanese, relatore presso il Consiglio per i diritti umani all’ONU. Sarebbe un modo di fare chiarezza invece di nascondere il proprio pensiero dietro il velo dell’ipocrisia.
A Parolin ha risposto duramente l’Ambasciata israeliana in Vaticano citando numeri.

    «Secondo i dati disponibili, per ogni militante di Hamas ucciso hanno perso la vita tre civili. Tutte le vittime civili sono da piangere, ma nelle guerre e nelle operazioni passate delle forze Nato o delle forze occidentali in Siria, Iraq o Afghanistan, la proporzione era di 9 o 10 civili per ogni terrorista. Quindi, la percentuale dell’Idf nel tentativo di evitare la morte dei civili è circa 3 volte superiore, nonostante il campo di battaglia a Gaza sia molto più complicato».
Questa è la realtà sul campo, questi sono i fatti, dunque no, non si tratta di un numero ingiustificato di morti, da cui vanno comunque detratti i diecimila jihadisti di Hamas, non si sa se “ingiustificati” anche essi per Parolin.
La Chiesa di Roma ha già avuto modo di esprimere la sua posizione chiaramente spostata a favore del versante islamico, con un papa traccheggiante e incapace di mostrare ai “fratelli maggiori” ebrei una esplicita vicinanza dopo il maggiore eccidio di ebrei dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi. Se almeno avesse concesso loro una parte dello stesso caloroso afflato manifestato nei confronti di Ahmed al-Tayeb, Grande Imam di Al-Azhar, nella cui persona l’antisemitismo e l’antisionismo sono fusi in armonia perfetta, sarebbe stato già qualcosa al posto della freddezza rituale di frasi di pura circostanza.
Dopo la kefiah indossata da Monsignor Pizzaballa a Betlemme per la Messa di Natale, dopo la salottiera disinvoltura con cui un altro porporato, Monsignor Ravasi, ha accusato Israele di applicare a Gaza la logica iperbolica e vendicativa del settanta volte sette, ora è il turno di Parolin.
La linea ecclesiale romana è dunque, nelle alte sfere, inequivocabile, e non ci venga a dire Alberto Melloni, che pure dice diverse cose giuste in una intervista a Quotidiano Nazionale, che la “la Chiesa ha il dovere di non darsi pace per trovare la pace”, perché non può darsi pace vera e duratura a seguito di una guerra se chi l’ha iniziata non viene messo nella condizione di non perpetrare più ciò che ha fatto.
La verità è che la guerra in corso ha agito da potente prova del nove anche per la Chiesa, riportando in superficie atteggiamenti e posizioni regressive che da lungo tempo non emergevano con questa frequenza, come ha fatto presente senza peli sulla lingua Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità di Roma .
La pregiudiziale anti-israeliana della Chiesa post ratzingeriana, la Chiesa retta da Francesco, è esplicita e, inevitabilmente, si tira appresso come uno strascico consunto uno dei tropi inossidabili dell’antigiudaismo preconciliare, quello degli ebrei popolo violento e vendicativo.
La finezza teologica di Benedetto XVI, il grande lavoro svolto con la sua opera in merito al rapporto problematico certo, ma indissolubilmente fecondo, tra ebraismo e cristianesimo, ha lasciato il posto a dichiarazioni allarmanti e puerili e ad atteggiamenti grossolanamente fuori luogo, di cui è facile prevedere il seguito.

(L'informale, 16 febbraio 2024)

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Parashà di Terumà: Da Sion uscirà la Torà e da Gerusalemme la parola dell’Eterno

di Donato Grosser

R. Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) nell’opera Divrè Aggadà (p. 183), in una derashà intitolata “Shte Mataròt ba-Mishkàn (Due obiettivi nel Mishkàn), cita il Midràsh (Tanchumà, Terumà, 8) dove i maestri citano il versetto “E mi costruiranno un Mikdàsh e risiederò in mezzo a loro” (Shemòt, 28:8) e affermano: “Affinché tutte le nazioni sappiano che l’affare del vitello (d’oro) è stato espiato; pertanto (il Mishkàn) è chiamato Mishkàn ha-‘edùt (tabernacolo della testimonianza), perché è una testimonianza a tutti i viventi che il Santo Benedetto risiede nel vostro Mikdàsh”.
    La costruzione del Mishkàn aveva due obiettivi: uno esterno, per elevare l’onore di Israele agli occhi delle nazioni del mondo. Poiché videro il popolo d’Israele danzare attorno al vitello e prostrarsi a un dio fatto d’oro, essi pensarono che la Presenza divina si fosse allontanata da Israele. A tale fine vi fu il Mishkàn come testimonianza a tutto il mondo.
    Il secondo obiettivo era interno. Era quello di avere un luogo dal quale la collettività d’Israele potesse trarre kedushà e spiritualità. Infatti l’Eterno disse a Moshè: “Là mi manifesterò a te. Parlerò con te al di sopra del coperchio […] tutto quello che ti comanderò per i figli d’Israele” (ibid., 25:22). Tutto il popolo d’Israele si radunava attorno al Mishkàn e da lì traeva spiritualità, Torà e mitzvòt.
    Il Santo Benedetto non attese l’entrata nella terra di Canaan per dare la Torà al popolo d’Israele. E per quale motivo la Torà e le mitzvòt furono date nel deserto, in terra di nessuno? “Per insegnare che le parole della Torà sono liberamente accessibili a tutti coloro che le vogliono studiare” (Midràsh Tanchumà, Vayakhèl, 8). E questo per far sapere che la Torà appartiene a tutto il mondo […]. In modo simile il Santo Benedetto non attese che fosse costruito il Bet ha-Mikdàsh (a Gerusalemme), e pose le basi del Mikdàsh già nel deserto. Questo perché anche il Mikdàsh non appartiene a un luogo definito, ma è una luce per i popoli, come disse il navì (profeta) Yesha’yahu (Isaia, 2:3): “Molti popoli vi accorreranno, e diranno: Venite, saliamo al monte dell’Eterno, alla casa del Dio di Ya’akòv; Egli ci ammaestrerà intorno alle Sue vie, e noi cammineremo per i Suoi sentieri. Poiché da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola dell’Eterno”. Il Mishkàn nel deserto proclamava che la kedushà è liberamente accessibile a tutti.
    Ed anche più tardi quando il Bet ha-Mikdàsh fu costruito a Gerusalemme da re Shelomò, non fu a caso che egli festeggiò l’inaugurazione del Mikdàsh proprio durante la festa di Sukkòt. In quei giorni infatti il popolo d’Israele portava come offerte settanta torelli come espiazione per le settanta nazioni del mondo (T.B., Sukkà, 55b). E così pregò il re Shelomò dopo il completamento della costruzione del Bet ha-Mikdàsh (I Melakhìm, 8: 39-42): “Ogni preghiera, ogni supplica che Ti sarà rivolta da un individuo o dall’intero Tuo popolo d’Israele […] Tu esaudiscila dal cielo, dal luogo della Tua dimora […]. Anche lo straniero, che non è del Tuo popolo d’Israele, quando verrà da un paese lontano a motivo del Tuo nome, perché si udrà parlare del Tuo gran nome, della Tua mano potente e del Tuo braccio disteso, quando verrà a pregarti in questa casa, Tu esaudiscilo dal cielo, dal luogo della Tua dimora, e concedi a questo straniero tutto quello che Ti domanderà, affinché tutti i popoli della terra conoscano il Tuo nome per temerTi, come fa il Tuo popolo d’Israele e sappiano che il Tuo nome è invocato su questa casa che io ho costruita!”.

(Shalom, 16 febbraio 2024)
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Parashà della settimana: Terumah (offerta)

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7 ottobre – Mieli: Abbiamo finanziato il terrore con gli occhi bendati

“Mi sento come un sasso rotolato fin qui dalla guerra”, racconta la giornalista ed ex parlamentare Fiamma Nirenstein presentando il suo ultimo libro 7 ottobre 2023. Israele brucia (ed. Giubilei Regnani) davanti alla platea del Maxxi di Roma. All’ingresso della struttura un piccolo gruppo di persone brandisce cartelli in cui si leggono frasi come “Free Palestine” e “Stop genocide”, slogan spesso ricorrenti nelle piazze italiane della contestazione contro Israele e talvolta anche in più elevati contesti. La sala è comunque gremita. “Il 7 ottobre abbiamo visto il ripresentarsi della Shoah. Non è una questione di numeri, ma di fatti: è stata una esibizione in cinemascope di quella che può essere la crudeltà umana, la volontà di sterminio degli ebrei, l’attacco all’Occidente”, sottolinea Nirenstein. “È stata inoltre una chiara rappresentazione di ciò che ci è stato promesso in quanto ebrei. Il 7 ottobre abbiamo scoperto che ‘never again’ era una favola”.
  Accanto a Nirenstein siedono la presidente Ucei Noemi Di Segni e i giornalisti Giuliano Ferrara e Paolo Mieli, moderati dall’editore Francesco Giubilei. “In Italia, come purtroppo avevamo previsto, la fortissima comprensione verso Israele è durata 72 ore. Se l’ebreo è morto allora ‘viva l’ebreo’, il problema è quando l’ebreo si difende”, ha accusato Ferrara, che è stato tra i promotori della prima manifestazione di solidarietà allo Stato ebraico, svoltasi sotto l’Arco di Tito a Roma poche ore dopo il massacro. Secondo l’ex direttore del Foglio, dichiarando guerra ad Hamas, impostando il conflitto nel modo in cui si sta svolgendo, “il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto quello che avrebbero fatto anche Yitzhak Rabin, Golda Meir e qualunque altro primo ministro”.
  Ferrara si è poi rammaricato perché il Parlamento italiano, invece di votare una mozione per il cessate il fuoco rivolta a Israele, non ha approvato un provvedimento “che chiede ad Hamas di arrendersi”. Mieli, nell’affermare che “fin quando non sarà restituito l’ultimo degli ostaggi, saremo ancora dentro il 7 ottobre”, ha puntato il dito contro le miopie di un Occidente incapace di leggere gli eventi e che ha foraggiato Hamas senza soluzione di continuità. “Ogni soldo dato a Gaza dal 2005 ad oggi”, ha evidenziato l’editorialista del Corriere della Sera, “è stato utilizzato per costruire delle gallerie armate, con la complicità delle Nazioni Unite: eppure nessuno ha visto niente”. Con l’inevitabile reazione militare per distruggere i vertici dell’organizzazione terroristica, ha poi aggiunto, Israele starebbe praticando il vero “mai più”. Un “mai più all’israeliana”, lontano dai riti istituzionali di alcune iniziative di Memoria “all’europea”.
  Per la presidente Ucei chiedere a Israele il cessate il fuoco come ha fatto la politica italiana è “ingenuo e pericoloso”, anche perché non tiene conto del “dilemma morale che investe ogni israeliano e decisore politico” in ogni singola iniziativa adottata a Gaza. Un tema “che purtroppo non viene colto”, ha osservato con dispiacere. Così come non verrebbe colta “la pericolosità del fondamentalismo islamico anche qui da noi in Italia: forse solo le forze dell’ordine, che non ringrazieremo mai abbastanza, ne hanno cognizione”.
  Altro tema affrontato da Di Segni “la delusione e il dolore” provati nell’ascolto di alcune risoluzioni da parte di organizzazioni internazionali “dalle quali ci si aspetterebbe oggettività e che sono invece appiattite su una tesi”.

(moked, 15 febbraio 2024)

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Giornalista palestinese: «Ecco come Hamas usa i civili come scudi umani»

La giornalista Jehad Saftawi, residente a Gaza, ha dichiarato martedì che l’organizzazione terroristica di Hamas utilizza i civili come scudi umani nella guerra contro Israele.
“I terroristi di Hamas hanno usato la mia famiglia e centinaia di nostri vicini come scudi umani. Hamas continua a tenere prigioniera la popolazione di Gaza”, ha scritto Saftawi su X. “Non si dovrebbe ricostruire la casa della mia famiglia mentre sotto di essa giace una scorta di armi”.
“Gli obiettivi, piuttosto che le cause, sono ciò che sta dietro alle guerre delle menti di Hamas. La ragione per rimuovere Hamas non è quella di alimentare l’escalation, ma di prevenirla, ed è per questo che non dovrebbe mai essere permesso loro di riprendere il controllo di Gaza”, ha continuato a dire. Saftawi ha poi ammesso che è la prima volta in più di 10 anni che “è stato in grado di parlarne pubblicamente”, affermando che si tratta di “un grido di riallineamento per la nostra società palestinese e di un appello alla comunità internazionale”.
In un articolo scritto per la rivista Time, il giornalista palestinese ha esordito dicendo che l’organizzazione terroristica “ha costruito dei tunnel sotto la casa della mia famiglia a Gaza. Ora giace in rovina”. Ha anche dichiarato che sono passati sette anni da quando è fuggito da Gaza, per poi rifugiarsi negli Stati Uniti.
Saftawi ha aggiunto che Gaza è stata “dominata dal caos terroristico” da quando Hamas ha preso il controllo della Striscia, affermando che l’organizzazione terroristica “ha continuato a normalizzare la violenza e la militarizzazione in ogni aspetto della vita pubblica e privata a Gaza”.

• COME HAMAS REQUISISCE LE CASE PER IL TERRORISMO
  Il giornalista ha descritto come, mentre la casa della sua famiglia era in costruzione, uomini mascherati abbiano costruito una struttura sotterranea sotto l’abitazione, dicendogli che la struttura sarebbe rimasta sigillata a meno che non ci fosse stata un’invasione di terra israeliana. In quel caso la stanza sarebbe stata usata per immagazzinare armi.
“Negli anni successivi la mia famiglia o i vicini hanno sentito di tanto in tanto dei suoni o dei movimenti”, ha scritto Saftawi. “A volte si chiedevano se ci fossero davvero dei tunnel, se fossero attivi. La mia famiglia aveva troppa paura di parlarne con qualcuno, quindi era il nostro segreto. Ci sentivamo vergognosi, anche se sapevamo di essere profondamente contrari a qualsiasi cosa Hamas avesse fatto dall’altra parte di quella lastra di cemento”.
La famiglia di Saftawi è stata evacuata a sud poco dopo il 7 ottobre e da allora la sua casa e il suo quartiere sono stati trasformati in rovine.
“Forse non saprò mai se la casa è stata distrutta dagli attacchi israeliani o dai combattimenti tra Hamas e Israele. Ma il risultato è lo stesso. La nostra casa, e troppe altre della nostra comunità, sono state rase al suolo insieme a storia e ricordi inestimabili”, ha scritto il giornalista.
“Questa è l’eredità di Hamas. Hanno iniziato a distruggere la casa della mia famiglia nel 2013, quando hanno costruito dei tunnel sotto di essa. Hanno continuato a minacciare la nostra sicurezza per un decennio – abbiamo sempre saputo che avremmo potuto essere costretti a sgomberare in un momento. Abbiamo sempre temuto la violenza. I gazesi meritano un vero governo palestinese, che sostenga gli interessi dei suoi cittadini, non i terroristi che portano avanti i loro piani. Hamas non sta combattendo contro Israele. Sta distruggendo Gaza”, ha concluso Saftawi.
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Dal Jerusalem Post

(Rights Reporter, 15 febbraio 2024)

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Una nuova tratta, Israele ed Emirati bypassano il Mar Rosso e gli Houthi via terra

di David Fiorentini

La sostanziale riduzione del traffico marittimo attraverso il Mar Rosso, causata dai continui attacchi degli Houthi, ha spinto le aziende israeliane a sviluppare un’altra rotta che possa bypassare lo Yemen.
Le prime a esplorare questa possibilità sono state Mentfield Logistics e Trucknet, che in collaborazione con i porti di Dubai e Manama, sono riuscite a trasportare le merci via terra, attraversando l’Arabia Saudita e la Giordania fino in Israele.
Per evitare di destare sospetti ai controlli sauditi, che ancora non hanno normalizzato i rapporti con lo Stato ebraico, i prodotti sono etichettati come diretti alla loro tappa intermedia in Giordania, prima di essere caricati in altri camion verso il porto di Haifa.
   Una soluzione che potrebbe ridurre notevolmente i costi di spedizione, impennati notevolmente dopo che gran parte delle navi cargo sono state costrette a circumnavigare l’Africa. Rispetto al passaggio da Capo di Buona Speranza, “la rotta via terra risparmia circa 20 giorni, sui 50-60 previsti” spiega Omer Izhari, CEO di Mentfield Logistics.
   Collegando il Golfo Persico al Mar Mediterraneo, la nuova tratta potrebbe svoltare gli equilibri economici della regione, offrendo numerose opportunità al sicuro dell’influenza degli Houthi e dell’Iran.
   Contemporaneamente, anche lo Stato di Israele si è attivato per sondare ulteriori passaggi, con il ministro dei Trasporti Miri Regev che durante la sua visita in India e Sri Lanka ha firmato un accordo sull’aviazione civile, ipotizzando un ponte aereo dal subcontinente alle porte dell’Europa.

(Shalom, 15 febbraio 2024)

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Scontro tra l’ambasciata israeliana in Santa sede e il Vaticano: “Deplorevole dichiarazione del cardinale Parolin sulla risposta di Israele a Gaza”

Nella nota l’ambasciatore scrive anche: “Cittadini di Gaza hanno partecipato attivamente all’invasione del 7 ottobre”. Sorpresa Oltretevere. Vatican News sottolinea la sintonia tra le parole del porporato e quelle di Edith Bruck

di Iacopo Scaramuzzi

Quando a sera esce dalla basilica di Santa Sabina sull’Aventino non ha voglia di commentare. A conclusione del mercoledì delle ceneri presieduto da papa Francesco il cardinale Pietro Parolin si infila in auto e taglia corto: «Non ho letto le dichiarazioni». Il tono è quaresimale. Appena un paio d’ore prima l’ambasciata di Israele presso la Santa Sede, guidata da Raphael Schutz, sferrava contro il Segretario di Stato vaticano una critica particolarmente irruenta delle sue parole del giorno prima («deplorevoli»). E dire che proprio lui, Parolin, in questi mesi ha cesellato una posizione di delicatissimo equilibrio tra la condanna dell’attacco «disumano» di Hamas il 7 ottobre e la protesta per i bombardamenti israeliani a Gaza.

• Una reazione sproporzionata
  All’origine dell’attacco dell’ambasciata israeliana ci sono le parole pronunciate dal cardinale all’uscita del bilaterale con l’Italia per l’anniversario dei Patti lateranensi, martedì sera. Il porporato veneto sottolinea la sintonia con Sergio Mattarella e il governo di Giorgia Meloni e i cronisti gli domandano delle dichiarazioni del giorno del ministro degli Esteri Tajani sulla reazione «sproporzionata» di Israele. Parolin espone la posizione assodata della Santa Sede: «Da una parte – dice – una condanna netta e senza riserve di quanto avvenuto il 7 ottobre, e qui lo ribadisco, una condanna netta e senza riserve di ogni tipo di antisemitismo, ma nello stesso tempo anche una richiesta perché il diritto alla difesa di Israele che è stato invocato per giustificare questa operazione sia proporzionato e certamente con 30 mila morti non lo è». Parolin cita Sant’Agostino per spiegare che «tutti siamo sdegnati per quanto sta succedendo, per questa carneficina, ma dobbiamo avere il coraggio di andare avanti e di non perdere la speranza».

• Le accuse di Israele
  È questa dichiarazione a essere bollata come «deplorevole» dall’ambasciata di Israele nel pomeriggio di ieri, mentre Parolin sale all’Aventino. In una nota durissima si legge che «giudicare la legittimità di una guerra senza tenere conto di tutte le circostanze e dati rilevanti porta inevitabilmente a conclusioni errate». La rappresentanza diplomatica puntualizza che i civili di Gaza hanno «partecipato attivamente all’invasione non provocata del 7 ottobre», sostiene che «la responsabilità della morte e della distruzione a Gaza» è «di Hamas e solo di Hamas», rivendica che le operazioni dell’esercito israeliano «si svolgono nel pieno rispetto del diritto internazionale» e sottolinea che rispetto agli interventi militari occidentali in Siria, Iraq e Afghanistan che hanno provocato la morte di «9 o 10 civili per ogni terrorista», a Gaza la proporzione è uno a tre.

• Quella sintonia con Edith Bruck
  Oltretevere si respira un’aria di sorpresa per un attacco di inusitata veemenza contro il primo ministro del Papa, che peraltro ha espresso una posizione che collima con quella dell’Italia e di numerose altre cancellerie. Praticamente negli stessi minuti in cui l’ambasciata israeliana dirama la sua nota, su Vatican News il direttore editoriale dei media vaticani, Andrea Tornielli, rilancia le parole di Parolin per spiegare che “per la Santa Sede la scelta di campo è sempre quella per le vittime. E dunque per gli israeliani massacrati in casa nei kibbutz mentre si accingevano a celebrare il giorno della Simchat Torah, per gli ostaggi strappati alle loro famiglie, come per i civili innocenti – un terzo dei quali bambini – uccisi dai bombardamenti a Gaza”. La posizione di Parolin, nota Tornielli, è simile a quella della scrittrice ebrea Edith Bruck. Ma ci vorrà tempo perché Israele e Santa Sede tornino a confrontarsi con serenità.

(la Repubblica, 14 febbraio 2024)


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Il rabbino Di Segni: “Basta diffamare. Slogan e luoghi comuni ignorano i fatti”

di Riccardo Di Segni

Caro Direttore, in momenti di crisi come questo si cita molto la frase, un po’ retorica ma molto consolatoria, che nei rovesci della sorte e nei problemi bisogna cogliere delle opportunità. Effettivamente un’opportunità ci sarebbe: resistere alla seduzione dei luoghi comuni, non seguire le idee, gli slogan e le ideologie appiattite alla moda. Sviluppare un senso critico. Cosa a cui dovrebbe educarci la scuola ma non so fino a che punto ci riesce. Una sfida che non molti raccolgono perché è certamente più comodo affogare nel trend generale. In questi giorni, tra le tante cose accadute, c’è stata una polemica intorno al Festival di Sanremo e la Rai. Qualcuno ha protestato perché è stato consentito a un cantante di parlare di “genocidio”, con un evidente riferimento a Gaza. Il problema non era che lui ne parlasse, ma che non vi fosse alcun contraddittorio e che le sue parole passassero come un messaggio di pace. Che invece di pace non è, è un linguaggio improprio, schierato, che sotto l’apparenza della misericordia e della condanna della guerra mescola le carte in tavola, sovverte la Storia. Contro chi ha protestato è stato evocato il diritto della libera parola, specialmente se si tratta di artisti, come se gli artisti avessero più diritti degli altri.
   Certo che ci deve essere il diritto di parola. Ma l’ente pubblico pagato con le nostre tasse dovrebbero garantirlo a tutti. E quanto alla parola, chi la dice e chi l’ascolta, dovrebbe soppesarne la qualità. In una canzone non si possono fare ragionamenti filosofici, ma frasi come “ma qual è casa tua, ma qual è casa mia. Dal cielo è uguale, giuro” che hanno meritato la citazione del cardinale Ravasi su X, usando un po’ di quello spirito critico di cui si parlava prima, sembrerebbero proprio banali. Un giornalista, lodando la citazione cardinalizia, ha scritto che spesso esponenti della Chiesa sanno essere più liberali e moderni dei burocrati di Stato. È proprio qui il problema: siamo veramente sicuri che sia libertà la diffamazione senza diritto di replica e che certi concettini siano moderni?
   Mi chiedo spesso, tanto più in questi ultimi mesi, da osservatore esterno e rispettoso, che però si trova coinvolto in questioni di relazioni interreligiose, quali siano le linee che guidano le posizioni prevalenti nella Chiesa Cattolica, in particolare nel conflitto di Gaza. C’è stato un continuo di dichiarazioni e di gesti dei massimi vertici e dall’altra parte una dinamica di appelli, proteste, polemiche, con conseguenti piccoli ritocchi e precisazioni. Ad esempio, a novembre c’è stata una lettera al Papa firmata da 400 esponenti religiosi ebraici, in cui gli si chiedeva una netta condanna del massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre, una condanna di coloro che negano il diritto di Israele ad esistere e difendersi, con una chiara distinzione tra il pogrom e l’autodifesa. La risposta si è fatta attendere, è arrivata il 2 febbraio, e accanto a una ferma condanna dell’antisemitismo ha omesso qualsiasi riferimento diretto a Hamas. Parlando del processo di pace ha scritto che “il maligno, utilizzando mezzi diversi, è riuscito a bloccarlo”. L’antisemitismo è un “peccato contro Dio”, ma come si esprime l’antisemitismo oggi? E chi è il “maligno”? Qui è un’espressione teologica che copre l’imbarazzo politico di chiamare le cose come stanno, quale che sia il vero pensiero.
   Temo che nei ripetuti appelli della Chiesa alla pace, nella condanna della violenza di entrambe le parti che equipara tutti, nella condanna della reazione israeliana quale che fosse, già dall’indomani del 7 ottobre, vi sia l’espressione di un pensiero da una parte giustamente preoccupato, ma dall’altra un uso di luoghi comuni facilmente condivisibili che raccolgono ampi consensi, tuttavia lontani dalla realtà dei fatti. Davanti ai drammi e le sofferenze di tutti, lo spirito critico dovrebbe guidarci nel valutare cosa nascondono slogan e proclami, dove c’è una reale volontà di pace, e come poter essere insieme costruttori di pace.

(la Repubblica, 15 febbraio 2024)

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L’IDF pubblica un video di Sinwar in un tunnel sotto Khan Younis

di Michelle Zarfati

L’IDF ha pubblicato martedì sera un video che mostra il leader di Hamas Yahya Sinwar nella Striscia di Gaza mentre scappa attraverso un tunnel sotto Khan Younis con sua moglie e i suoi figli. Il video, ottenuto da una telecamera di sorveglianza, è datato 10 ottobre. Dall’inizio dell’operazione di terra a Gaza, l’IDF ha ottenuto diversi video del leader dell’organizzazione terroristica a Gaza, in cui viene ripreso all’interno dei tunnel costruiti da Hamas.
   Mentre la delegazione israeliana affronta al Cairo le questioni riguardanti la negoziazione per il rilascio degli ostaggi e per un cessate il fuoco temporaneo a Gaza, l’establishment della sicurezza dell’IDF ritiene che il rilascio del video di Sinwar aumenterà la pressione su Hamas. Nelle ore precedenti alla diffusione della registrazione ha avuto luogo una lunga discussione circa il rilasciare o meno il video.
   La questione avrebbe persino raggiunto la scrivania del primo ministro Benjamin Netanyahu – che avrebbe poi approvato il rilascio.
   Nel video, Sinwar non sembra essere ferito, come riportavano invece alcune fonti.
   Il portavoce dell’IDF Daniel Hagari ha rivelato che l’IDF avrebbe arrestato a Khan Younis i parenti degli alti funzionari di Hamas, compresi quelli dell’entourage di Sinwar. Hagari ha presentato la documentazione riguardante i tunnel sotto Khan Younis, che secondo l’IDF farebbero parte di una “rete di tunnel sotterranei ramificati di decine di chilometri”. Nel video Sinwar appare accompagnato da una donna e da alcuni bambini. “Siamo giunti al complesso dove Sinwar era nascosto. Mentre era al sicuro nei tunnel, sopra di lui si stava combattendo duramente. Lui era sotto al tunnel con soldi e cibo” ha detto Hagari.
   Negli ultimi giorni, i rapporti israeliani hanno confermato che Sinwar sia stato estromesso dalla leadership di Hamas, fuori dalla Striscia di Gaza. Questo indica che non avrebbe partecipato alla scrittura della proposta che l’organizzazione terroristica ha presentato ai mediatori in merito all’accordo circa il rilascio degli ostaggi.
   Sinwar, secondo alti funzionari israeliani starebbe correndo “da un tunnel all’altro tutto il tempo come un topo. È terrorizzato e si sposta in continuazione”. Questa non è la prima volta che l’operazione di terra dell’IDF nella Striscia di Gaza ha portato all’ottenimento di materiali di intelligence su alti funzionari di Hamas.

(Shalom, 14 febbraio 2024)

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Gaza, la sorella del capo di Hamas curata in un ospedale israeliano

Ha dato alla luce un bambino prematuro nell’ospedale di Beer Sheva

GERUSALEMME. La sorella di Ismail Hanyieh, il capo politico di Hamas, è stata curata da poco in un ospedale israeliano. Secondo quanto riferisce il Jerusalem Post, la donna sarebbe stata ricoverata nei giorni scorsi all'ospedale Soroka a Beer Sheva, nel sud di Israele, per una gravidanza a rischio. La donna ha dato alla luce un bambino prematuro, ricevendo cure salvavita. Un altro familiare di Ismail Hanyieh è stato ricoverato nel 2021 all'Ichilov, struttura ospedaliera di Tel Aviv.
   Il leader di Hamas, che vive a Doha ed è considerato uno degli uomini più ricchi dell'area, ha tredici figli, due fratelli e otto sorelle, tre delle quali sono sposate a cittadini israeliani, beduini del Neghev, e vivono a Tel Sheva. Questi fanno parte di una delle più rispettate famiglie beduine, Abu Rakik.
   Le tre sorelle di Hanyieh, non hanno cittadinanza Israeliana ma hanno il documento dei palestinesi residenti in Israele. La loro vita a Tel Sheva è sempre stata con profilo basso e riservato, evitando qualsiasi contatto con la stampa, rinunciando anche a festeggiare la nomina del fratello a primo ministro palestinese nel 2006 e poi leader di Hamas nel 2017.
   Nel 2004, il capo di Hamas a Gaza, Yaya Sinwar, era recluso nelle carceri israeliane e, a seguito di problemi fisici, fu sottoposto a controlli medici che rivelarono la presenza di un tumore al cervello, che fu operato dai dottori del paese ebraico, salvandogli la vita. Sinwar è considerato la mente del massacro del sette ottobre.

(La Stampa, 14 febbraio 2024)

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C'è un errore su Gaza: il cessate il fuoco

di Mario Sechi

Il Parlamento italiano ha deciso che nella guerra tra Israele e Hamas è giunto il momento di un “cessate il fuoco”. La sintesi politica è questa: il Partito democratico ha presentato una mozione che è passata con il voto di Dem, Cinque Stelle e l’astensione del centrodestra. Il passaggio politico è stato siglato con un’intesa tra Giorgia Meloni e Elly Schlein, preceduto dalle dichiarazioni da “colomba” del ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Il premier e il segretario del Pd hanno messo il sigillo su una posizione (che dovrebbe basarsi su dei principi non negoziabili, immagino) che ha come centro di gravità la salvaguardia dei civili a Gaza e Rafah. L’iniziativa va inserita nello scenario di un pressing diplomatico, guidato dall’amministrazione Biden, sul governo israeliano e il suo primo ministro, Benjamin Netanyahu. È una linea “onusiana” che tende automaticamente a rimuovere la strage del 7 ottobre (e non a caso l’Onu fatica a ricordarla nei documenti ufficiali, perché è l’elemento scatenante della guerra), mette le belve di Hamas tra parentesi e si avventura in pericolose teorie sul “genocidio” dei palestinesi, una tesi vergognosa sul piano storico e del diritto. A questo punto, bisogna chiedersi se sia davvero questa la via per “vincere la pace”, perché la storia è una foresta di pugnali, di nobili intenzioni che poi si rivelano tragici errori. E temo che il governo, la maggioranza, non abbiano pensato alle inattese conseguenze di una scelta che apre la porta come minimo del “giustificazionismo” ai nemici di Israele.
   Il rischio è quello di una nuova sindrome di Monaco. Cercare un “accomodamento” con il nemico, l’Idra dalle molte teste che sibila morte all’Occidente. Con un nemico letale, che in maniera esplicita programma e attua il genocidio del popolo ebraico (questo è successo il 7 ottobre), non ci sono possibilità di negoziato, Hamas deve essere eliminato. Questo è lo scopo della guerra.
   Voltarsi indietro aiuta a capire. Non c’è peggior errore di una guerra non finita. O conclusa (male) con le premesse per innescarne un’altra ancora più grande. Non andrò indietro fino alle lezioni della rivalità tra Atene e Sparta, il Novecento e questi primi vent’anni del Duemila sono un memento. Un libro di ricordi prezioso e inquietante.
   La storia è un pendolo di conflitti irrisolti: negli anni Novanta George Herbert Walker Bush non finì la guerra in Iraq contro Saddam (1990-1991), il conto con Baghdad rimase in sospeso e George Walker Bush (il figlio) dopo l’attacco alle Torri Gemelle (2001) invase l’Afghanistan (2001) tentando di porre le basi per un avamposto dell’Occidente in Medio Oriente con l’invasione dell’Iraq (2003). È una storia che arriva fino a oggi, con la tragica decisione di Joe Biden di ritirarsi dall’Afghanistan (2021, una ritirata che ha incoraggiato la Russia e la Cina), fino alla richiesta di questi giorni del governo iracheno di far partire le ultime truppe americane rimaste. E poi? Il vuoto, l’incognita dell’Iran che muove i fili delle milizie sciite in Iraq e muove i fili contro Israele. Ieri e oggi, un altro capitolo del romanzo su cui gli Stati Uniti non hanno messo il punto. A Washington furono colti di sorpresa dalla rivoluzione khomeinista (1978-1979), Jimmy Carter rovinò la presidenza con la crisi degli ostaggi (1979-1981), gli Stati Uniti provarono a piegare Teheran con le sanzioni, mentre Ronald Reagan era impegnato a far cadere il Muro di Berlino (1989) e domare l’Unione Sovietica fino alla sua dissoluzione (1991). Risultato, l’Iran oggi è l’officina di tutte le guerre: produce droni per la Russia nella guerra in Ucraina, muove Hezbollah, protegge Hamas, supporta i guerriglieri dello Yemen, alimenta la crisi del Mar Rosso. Il bersaglio siamo noi.
   La storia è maestra inascoltata, le guerre vanno combattute fino in fondo. La Prima guerra mondiale fu il detonatore della Seconda, ne vide il bagliore in lontananza John Maynard Keynes che con profetica lucidità spiegò le conseguenze economiche della pace, perché la Germania avrebbe ricostruito e mosso di nuovo il suo esercito contro i vincitori dell’epoca. E fu lo sterminio, fu la Shoah, fu una guerra che non ha più testimoni in grado di risvegliare le coscienze. Stiamo scivolando al “se questo è un uomo” pensando che sia fiction e altro da noi. E non è “colpa degli ebrei”, frase che schiude la pianta carnivora dell’antisemitismo. È colpa nostra, perché non abbiamo chiuso bene le guerre, come avevano fatto Winston Churchill, Franklin Delano Roosevelt e Josif Stalin. Berlino non cadde con il negoziato, ma con la guerra degli Alleati. Il Giappone fu piegato dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. I conflitti sono orribili, in un mondo che si è illuso di poter cancellare il sacrificio e la morte, è tornato il Novecento di ferro e fuoco. E non sarà un voto in un Parlamento che cerca una pace in guanti bianchi a cancellare la realtà.

Libero, 14 febbraio 2024)

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La necessità di andare fino in fondo

di Niram Ferretti

Il coro è unanime e salmodia a voce univoca la parola “catastrofe”, una delle più gettonate dopo quella che non teme rivali, “genocidio”.
La catastrofe sarebbe quella che avrebbe luogo se Israele attaccasse Rafah, definitivo avamposto di Hamas ai confini con l’Egitto. Lì si trovano adunati gli ultimi battaglioni dell’organizzazione terrorista salafita, lì, con molte probabilità, c’è la parte più cospicua degli ostaggi ancora nelle loro mani, lì c’è l’alto addensamento umano degli sfollati. E sono loro, naturalmente, che preoccupano i genuini e frementi tutori dei diritti umani, i vari Borrell, Lazzarini, Parolin, altri, tutti preoccupati per la loro sorte.
Anche Hamas si preoccupa, come è noto ha sempre avuto una cura particolare per la propria popolazione e dunque sollecita il Sudafrica a ricorrere di nuovo alla Corte dell’Aia, perché intervenga contro il genocida. Va fermato, prima che continui nell’opera già attuata, il genocidio in corso a Gaza, dove, dopo quattro mesi, sarebbero morte trentamila persone di cui però diecimila andrebbero computati come jihadisti, quindi, sottraendoli, i morti sarebbero ventimila su due milioni e trecentomila abitanti della Striscia, neanche l’un percento. L’importante, tuttavia, è costruire una realtà parallela, è lo scopo primario della propaganda, dove, insieme a genocidi inesistenti convivono l’apartheid e la terra palestinese, mi raccomando, palestinese, che gli ebrei hanno rubato ai legittimi possessori.
In un recente articolo apparso su TabletEdward Luttwak analizza l’efficacia inesorabile della macchina militare israeliana a Gaza:

    “Indipendentemente da ciò che accadrà da ora in poi, i combattimenti a Gaza fino ad oggi sono stati un’eccezionale impresa militare. Una stima prudente – la più bassa che abbia visto – è che circa 10.000 combattenti di Hamas sono stati uccisi o resi disabili terminali, insieme a un numero identico di feriti che potrebbero o forse no combattere di nuovo in futuro. Il sensazionale rapporto di 1 a 50, o abbastanza prossimo, raggiunto dall’IDF nella lotta contro Hamas a Gaza è ancora più eccezionale per ragioni che né gli americani ufficiali né gli israeliani ufficiali si preoccupano di menzionare, anche se per ragioni diverse”.

Nessuno che sia dotato di senso della realtà e dunque sappia applicare il raziocinio in misura adeguata, è  messo nelle condizioni di non capire che a fronte dei mezzi militari e umani dell’IDF, Hamas non può avere scampo. Il primo a saperlo è Hamas stesso. Da questa consapevolezza si origina il tentativo forsennato di bloccare politicamente l’offensiva israeliana, muovendo le piazze, muovendo l’ONU,  muovendo la UE, muovendo paesi amici come il Sudafrica, muovendo alleati e simpatizzanti anche dentro il Dipartimento di Stato americano.
Il cessate il fuoco invocato a destra e manca è il salvacondotto di cui Hamas ha disperatamente bisogno per inceppare la guerra e fare sì che Israele, una volta interrotta, non possa più riprenderla. Le trattative sugli ostaggi rientrano in questa strategia, anche se finora le richieste di Hamas a Israele sono state così iperboliche da dovere essere respinte.
Il tempo scorre, è infatti, come in tutte le guerre, una questione di tempo.
A Mosul, nel 2017 l’assedio della città irachena dove si era asserragliato l’ISIS, durò nove mesi e costò secondo stime non ufficiali, tra i trenta e i quarantamila morti tra i civili, (nessuno profferì una sola volta la parola genocidio), ma a Mosul non c’erano ottocento chilometri di cunicoli e non c’era un addensamento umano come a Gaza.
Dopo quattro mesi, l’IDF, nelle condizioni date, ovvero tenendo conto del contesto operativo e delle limitazioni imposte, è avanzata spettacolarmente, con meno di trecento caduti a fronte di diecimila jihadisti uccisi. Ci vuole poco a comprendere chi sta vincendo e chi sta perdendo, anche se, la vittoria, è solo nel finale, ed è quella che molti, troppi non vogliono, tra cui anche gli Stati Uniti. Darebbe a Israele troppo lustro e autonomia, rafforzerebbe il governo in carica e dunque Netanyahu, quindi poco respiro avrebbe un futuro e fantomatico Stato palestinese imposto a spese della sicurezza di Israele e morirebbe in culla una coalizione jihadista a governo della Striscia. I progetti dell’Amministrazione Obama, pardon, Biden, sarebbero ridotti in trucioli.
A Benjamin Netanyahu tutto questo è assai chiaro, come gli è chiaro che a Rafah occorre entrare se davvero vuole vincere e “riparare” alla tragedia immane del 7 ottobre scorso.

(L'informale, 14 febbraio 2024)

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Salvare gli ostaggi

di Rav Somekh

Mentre prosegue nella Striscia di Gaza la controffensiva israeliana sempre più a sud verso il confine egiziano, si intensificano le pressioni internazionali affinché il governo di Benjamin Netanyahu si pieghi a una richiesta di cessate il fuoco definitivo. I palestinesi offrirebbero la liberazione degli ostaggi tuttora in mano di Hamas in cambio del ritiro totale delle forze militari dall’area e il rilascio di un numero spropositato di terroristi attualmente detenuti nelle carceri israeliane per crimini anche molto gravi. Ciò pone un dilemma: cedere per salvare gli ostaggi o preferire la sicurezza dello Stato? Molte considerazioni che seguono sono tratte dal saggio intitolato “Mishnat Chassidim: Minaccia collettiva e sopravvivenza individuale” che pubblicai nel 5778-2018 sul n. 12 della rivista “Segulat Israel”, al quale rimando senz’altro per le fonti e gli approfondimenti.
   Del Pidyon Shevuyim Maimonide scrive che “ha la precedenza sulla beneficenza ai poveri e sull’obbligo di dar loro da vestire. Non c’è Mitzwah più grande che riscattare i prigionieri” (Mishneh Torah, Hilkhot Mattenot ‘Aniyim 8, 10-11). Con tutto ciò la Mishnah (Ghittin 4, 6) stabilisce che “i prigionieri non possono essere riscattati oltre il loro valore, per il bene del mondo (mi-ppenè tiqqun ha-’olam)”. Il Talmud spiega questa disposizione con l’esigenza di non incoraggiare i nemici a perpetrare il crimine per l’avvenire, sapendo di poter contare sulla disponibilità economica degli ebrei. È nota la storia di R. Meir di Rothenburg (fine XIII secolo), che proibì ai suoi discepoli di riscattarlo e finì i suoi giorni in prigionia. Va notato, peraltro, che queste fonti si riferiscono a rapimenti a scopo di estorsione, casi lontani dalla situazione attuale relativa agli ostaggi.
   Il Talmud Yerushalmì, Terumot, 8, scrive: “Se un gruppo di viandanti (ebrei) si imbatte negli stranieri che dicono loro: ‘Consegnateci uno di voi e lo uccideremo, altrimenti vi uccidiamo tutti’, si lascino uccidere tutti ma non consegnino un’anima in Israel”. Il principio halakhico è che non si sacrifica un’anima al posto di un’altra (eyn dochin nefesh mi-penè nefesh) e pertanto non abbiamo il diritto di consegnare qualcun altro per salvare noi stessi. La ragione è ben espressa dal detto talmudico: “Forse che il tuo sangue è più rosso del suo?” (Pessachim 25b, Sanhedrin 74a). Lo scopo di questa resistenza è anche dimostrare che ogni singola vita ebraica ha per noi importanza e siamo pronti a combattere per essa. “Se però (gli stranieri) hanno indicato per nome uno degli ebrei come era accaduto con Sheva’ ben Bikhrì e abbiano detto: ‘Consegnateci il tale, altrimenti vi uccideremo tutti’, in questo caso è permesso consegnare la persona indicata per salvare le altre”. Dal momento che il soggetto designato è destinato a morire comunque, qui non si sacrifica più un’anima per un’altra. Lungi dall’essere una consegna forzata, lo si convince a farsi avanti per risparmiare la vita di tutti gli altri. Non solo. L’episodio cui il Talmud si riferisce è narrato in 2 Shemuel, 20: Sheva’ ben Bikhrì era passibile di morte per essersi ribellato contro il re David e si era barricato entro le mura di Avèl Bet Ma’akhah. Quando Yoav generale del re mise l’assedio alla città si fece avanti una “donna saggia” nell’intento di trattare con lui la liberazione. Yoav le spiegò di essere alla ricerca di Sheva’ in quanto “aveva levato la sua mano contro il re”. La donna fece uccidere Sheva’ dagli abitanti della città, ne consegnò la testa a Yoav e l’assedio fu tolto.
   Neanche questa fonte è sufficiente per dirimere il nostro interrogativo. A differenza di Sheva’ ben Bikhrì i nostri ostaggi odierni non hanno commesso nessun crimine da espiare con la pena capitale. D’altronde non si tratta di consegnarli: essi si trovano già nelle mani di Hamas. Forse possiamo confrontarci con un altro famoso brano, tratto questa volta dal Talmud Bavlì: “Due individui sono in viaggio e uno dei due è provvisto di una borraccia d’acqua: se bevono entrambi muoiono, mentre se beve uno solo dei due ha la possibilità di raggiungere l’abitato più vicino. Ben Petorà interpretava che è meglio che entrambi bevano e muoiano piuttosto che uno debba assistere alla morte dell’altro. Finché giunse R. ‘Aqivà e insegnò: ‘La vita di tuo fratello è con te (ma non più di te)’ (Wayqrà 25, 36): la tua vita ha la precedenza su quella di tuo fratello” (Bavà Metzi’à 62a). Anche in questo caso la controversia riguarda la sopravvivenza individuale a fronte della morte collettiva, ma la Halakhah è stata stabilita secondo R. ‘Aqivà. Qual è la ragione della differenza? “L’apparente contraddizione può essere risolta facendo una distinzione fra consegna attiva (chiyuv o ma’asseh) e consegna passiva (shelilah o meni’ah). Se si segue la logica di R. ‘Aqivà e non si passa la borraccia dell’acqua al compagno, la morte di quest’ultimo è semplicemente la conseguenza passiva di un’azione mancata. All’opposto consegnare un’anima ebraica agli assassini è provocarne attivamente la morte. Ecco perché in quest’ultimo caso il principio per cui ‘la tua vita ha la precedenza’ non vale. È meglio morire piuttosto che consegnare alla morte il proprio fratello” (Rav M.A. Amiel, “Ethics and Legality in Jewish Law”, Amiel Library, Gerusalemme, 1992, p. 67 – ingl.).
   A proposito del principio “Non si sacrifica una vita al posto di un’altra” si può citare il caso di Entebbe. Il 4 luglio 1976 l’esercito israeliano intervenne con la forza a salvare gli ostaggi di un volo dirottato da terroristi che avevano condizionato la loro liberazione al rilascio di detenuti pericolosi per la sicurezza internazionale. La vicenda pose almeno due ordini di problemi:
  1. è lecito aderire alla richiesta di scarcerare dei terroristi per non mettere a repentaglio le vite di ostaggi innocenti?
  2. è lecito mettere a repentaglio le vite dei soldati al posto di quelle degli ostaggi?
R. ‘Ovadyah Yossef, allora Rabbino Capo sefardita dello Stato d’Israele, rispose ad entrambe le domande in senso affermativo, invocando il medesimo principio: si ha l’obbligo di mettere a rischio eventuale la propria vita per salvare altri da morte certa. Ciò comporta il permesso di liberare terroristi che in futuro potrebbero attentare a vite umane a fronte dell’imminente esecuzione degli ostaggi. Quanto all’azione dell’esercito, si è esenti dall’intervenire in aiuto della vita altrui solo se il rischio della propria è significativo. In caso contrario esiste l’obbligo di farlo.
   Si può obiettare anche a questo proposito che la situazione oggi è cambiata sotto almeno tre aspetti.
  1. Le fonti antiche si riferiscono per lo più a episodi localizzati, senza una ricaduta sull’intero popolo ebraico.
  2. Oggi c’è una guerra in corso. Le operazioni militari a Gaza non hanno solo lo scopo di liberare gli ostaggi e di punire i responsabili del loro sequestro, ma anche esercitare un’azione deterrente e soprattutto impedire che gli attacchi continuino e si ripetano in futuro.
  3. Il punto a mio avviso giuridicamente più rilevante è però il seguente: non abbiamo alcuna garanzia dello stato di salute degli ostaggi, possiamo ancora ritenerli be-chezqat chayyim (“nella presunzione halakhica di vitalità”)? Pur augurandoci che siano ancora vivi, provati da oltre quattro mesi di quel tipo di prigionia potrebbero trovarsi ridotti allo status halakhico di terefah (“malato terminale”), o meglio di gosses bidè adam (“agonizzante per colpa dell’uomo”). Se in altre condizioni la Mishnah (Yomà 8, 7) stabilisce che per salvare chi è finito sotto le macerie si scava di Shabbat anche se la speranza di ritrovarlo in vita è estremamente tenue e se sopravvivrà pochi istanti soltanto, nel nostro caso si pone la domanda se la salvaguardia dell’intera popolazione non diventi una priorità rispetto al salvataggio di queste persone a ogni costo.
   Sulla base di un episodio occorso a ‘Ullà (Nedarim 22a) una serie di Maestri stabilisce che è permesso a un gruppo di ebrei aggredito da un nemico sanguinario sacrificare uno di loro che sia una terefah piuttosto che venire uccisi (Meirì a Sanhedrin 72b; Minchat Chinnukh, prec. 296; cfr. anche Tif’eret Israel a Mishnah Yomà 8). Ma non tutti sono d’accordo. R. Yechezqel Landau (Praga, sec. XVII) scrive testualmente: “Non si è mai sentito che sia permesso sacrificare una terefah per salvare la vita di un individuo shalem” (“in salute”; Resp. Nodà bi-Yhudah, Mahadurà Tinyanà, Choshen Mishpat n. 59)!
   Qui mi fermo: non spetta a me andare oltre una semplice presentazione dei dati principali del dilemma. Che H. ispiri nei governanti la giusta decisione! Mi limito solo a due raccomandazioni. La prima è legata alla Mitzwah del Qiddush ha-Shem (“santificazione del Nome”). Che la linea intrapresa, quale che sia, non sia fonte di ulteriori divisioni nella nostra compagine. Eviteremo il gioco dei nostri nemici i quali, spingendoci all’odio reciproco e alla lite, mettono a repentaglio di proposito l’unità della comunità ebraica. E soprattutto ricordiamoci che ciascun essere umano è stato creato a immagine divina e pertanto ogni singola personalità è dotata di valore infinito.. La somma di più infiniti non può essere maggiore di un solo infinito. Il popolo ebraico non è mai la semplice somma aritmetica dei suoi membri presi indipendentemente l’uno dall’altro, bensì è un organismo in cui ciascuno è indispensabile. Per l’avvenire auspichiamo solo buone notizie!

(moked, 12 febbraio 2024)

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“Non conosco una storia più vincente, anche se nel dolore, di quella di Israele e del popolo ebraico”

di Davide Romano

Contrariamente a tanti giornalisti che si danno alla politica, lui ha fatto il percorso inverso, passando da fare il politico (eletto in Parlamento una prima volta con i Radicali, e poi un’altra con il PDL di Berlusconi) alla direzione editoriale di un giornale come Libero. In questi cambiamenti lavorativi ha sempre mantenuto salda la sua appartenenza al mondo Occidentale, e in particolare agli USA e Israele. E proprio da qui vogliamo iniziare questa intervista a Daniele Capezzone.

- Ci racconta come nasce il suo rapporto con Israele e il mondo ebraico?
 Sorridendo, potrei dire che nel mio percorso, da quando avevo poco più di vent’anni fino a oggi, mi sono comportato come quegli uccelli che ripetono sempre lo stesso verso, magari modulandolo appena un poco. Scherzi a parte, sono orgogliosamente occidentale; ritengo che l’esperimento “democrazia politica più mercato”, pur pieno di difetti, sia la cosa migliore inventata dagli esseri umani per convivere; e sono convinto che questo modello andrebbe fatto conoscere e promosso (concetto diverso da “esportato”). Israele è l’incarnazione di questo miracolo realizzato peraltro nel contesto più difficile.

- Il giornale che dirige è così schierato dalla parte delle democrazie e contro le dittature, da potere apparire come un quotidiano di minoranze fastidiose. Un po’ come vengono percepite ultimamente le comunità ebraiche a causa del loro sostegno a Israele. Secondo lei l’opinione pubblica si è davvero bevuta tutta la disinformazione anti-israeliana, o crede che la “maggioranza silenziosa” degli italiani resti dalla parte di Israele nella sua lotta contro il terrorismo islamico?
 Si mescolano molte cose. Da un lato certamente molta cattiva informazione, e forse anche qualche detestabile pregiudizio che di tanto in tanto carsicamente riaffiora. Dall’altro c’è però qualcosa che va umanamente compreso, e cioè la paura delle persone normali verso la guerra. C’è l’illusione – di questo si tratta – che la dimensione antagonista e l’eventualità bellica possano essere cancellate dal nostro orizzonte. Ecco, invece si tratta di spiegare alle persone in buona fede che purtroppo le cose non stanno così, e che nei prossimi lustri il mondo promette di essere un posto difficile e insicuro, carico di insidie. Il motto da tenere presente è “estote parati”, siate pronti, in ogni senso.

- La politica italiana sta cambiando, proprio a partire da Israele. A destra abbiamo scoperto una premier Meloni sempre più filoisraeliana (e filo USA), mentre a sinistra il PD della Schlein sta tornando a una politica anti-israeliana (e anti occidentale, si vedano anche le posizioni sempre meno vicine al popolo ucraino). Come spiega questi cambiamenti?
 Anche il centrodestra, in alcune sue aree, ha di tanto in tanto delle scivolate: ma complessivamente il posizionamento del governo in politica estera è eccellente.
Dall’altra parte, invece, la sinistra vive indubbiamente contraddizioni ben maggiori e decisamente più lancinanti. Si paga il prezzo di un lungo viaggio antioccidentale – io lo chiamo così – che ha portato spezzoni del mondo progressista, negli ultimi trent’anni, a simpatizzare con qualunque posizione o istanza, nel mondo, esprimesse pulsioni anti-Occidente: terzomondismo, generica contestazione anti-Usa e anti-Anglosfera, presentazione dell’Islam come “religione di pace” e negazione/rimozione degli aspetti meno rassicuranti di tante situazioni. Poi però la realtà si incarica di presentare il conto e i nodi arrivano al pettine…

- Prima di intervistarla ho voluto sentire amici correligionari, per sapere come la valutano quando va in Tv a difendere Israele. I pareri vanno da: “finalmente uno che sa difendere Israele e sbugiardare la propaganda palestinese in maniera efficace” al meno entusiasta “Non è della mia parte politica, ma quando parla di Israele è bravo”. Insomma, nel merito, tutti riconoscono la sua preparazione sul tema. Cosa risponde ai più critici?
 Credo molto semplicemente che gli amici sinceri si valutino nelle giornate difficili, nei giorni di pioggia, chiamiamoli così. Raramente o mai mi vedrete nei giorni in cui tutti – a parole – manifestano vicinanza: sono ormai sufficientemente vecchio per sapere che quelle sono le circostanze in cui le parole valgono poco e pesano ancora di meno. Gli amici di Israele li vedi nelle giornate in cui il fuoco mediatico ostile è scatenato…

- Il mondo della cultura italiano (e Occidentale in generale) sta rivelando un conformismo inquietante: dal mondo universitario a quello dei media (e per carità di Patria non citiamo alcuni sacerdoti cattolici), c’è un profluvio di parole malate contro ebrei e Israele a partire dal conflitto a Gaza: “genocidio del popolo palestinese”, “Israele Stato di apartheid”, il Gesù bambino che da ebreo diventa palestinese con tanto di Kefiah, paragoni tra Israele e il nazismo….com’è possibile che la realtà venga così tanto stravolta?
 Non c’è da perdere la calma né da disperarsi. C’è da rispondere punto su punto. In questo – per paradosso – anche le giornate più brutte che abbiamo alle spalle hanno un valore e un significato: quello di fungere da “eye-opener”, da circostanza rivelatrice, direi perfino disvelante, delle pulsioni con cui dobbiamo misurarci e delle ipocrisie di chi se ne fa interprete. Pensiamo alla sequenza temporale post 7 ottobre: per 24-36 ore c’era apparente unanimità, poi sono subito cominciati i distinguo, i “ma”, i “però”. Tocca a noi, in quei momenti, con calma e determinazione, smontare quelle furbizie.

- L’ONU sta mostrando il suo volto peggiore, in questi mesi di guerra. Il processo a Israele presso il Tribunale internazionale dell’Aja, lo scandalo dell’UNRWA, il numero spropositato di condanne ONU contro Israele. E dall’altra parte anche l’Unione Europea – che contrariamente all’Onu non ha una maggioranza di dittature – che continua a parteggiare per le dittature palestinesi. Come spiega questa deriva delle istituzioni internazionali?
 È così da molto tempo. Le Nazioni Unite sono da anni uno spazio in cui le dittature si trovano a proprio agio, collaborano tra loro in modo sempre più esplicito e scoperto. Il coinvolgimento dei famigerati dipendenti UNRWA nel 7 ottobre non è un tumore isolato e imprevedibile, ma solo una delle metastasi della malattia principale. Come si fa ad accettare l’idea che Israele, sia in Assemblea generale sia nel Consiglio per i diritti umani, abbia accumulato più condanne e risoluzioni ostili di tutti gli altri paesi messi insieme, inclusi gli stati canaglia?

- Le illustro infine alcune domande che girano all’interno del mondo ebraico per chiederle non necessariamente delle risposte, ma anche una riflessione generale: cosa possiamo fare? Siamo soli contro tutti? È il caso di mollare tutto e andare a vivere in Israele? L’immigrazione islamica nei prossimi anni ci metterà in pericolo come succede in Francia? Passata la guerra tornerà tutto come prima? Da sempre siamo vicini a minoranze come neri e LGBT, perché proprio loro ci continuano ad attaccare?
 Non c’è dubbio: viviamo tempi oscuri, per alcuni versi imperscrutabili, e non ha senso negare o attenuare le ragioni di inquietudine che tutti avvertiamo. L’Occidente è in preda a un odio di sé che fa letteralmente paura. Ciò detto, non si deve avere un atteggiamento negativo o da sconfitti della storia: vale esattamente il contrario, nel senso che non conosco una storia più vincente – anche se nel dolore – di quella di Israele e del popolo ebraico.

(Bet Magazine Mosaico, 14 febbraio 2024)

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L'incubo di una famiglia israeliana è terminato

Con il drammatico salvataggio di Louis Har e Fernando Marman, gli ultimi due dei cinque membri della famiglia di Idan Bejerano, catturati da Hamas il 7 ottobre, si sono riuniti ai loro cari.

di Amelie Botbol 

Idan Bejerano, genero di Louis Har, nella "Piazza degli ostaggi" a Tel Aviv, 4 feb 2024
GERUSALEMME - Il 12 febbraio, il desiderio di Idan Bejerano si è avverato: In un'audace operazione a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, le forze israeliane hanno salvato gli ultimi due membri della sua famiglia allargata, Fernando Simon Marman, 60 anni, e Louis Har, 70 anni, che erano stati presi in ostaggio da Hamas il 7 ottobre.
   Quando Hamas ha invaso il Negev nord-occidentale il 7 ottobre, Fernando Marman, 61 anni, e il suocero di Bejerano, Louis Har, 70 anni, sono stati rapiti dal Kibbutz Nir Yitzhak insieme ad altri tre membri della famiglia: la compagna di Har, Clara Marman, sua sorella Gabriela Leimberg e Mia Leimberg, figlia di Gabriela.
  Tutte e tre le donne sono state rilasciate il 28 novembre, insieme al cane Bella di Mia Leimberg, nell'ambito di un accordo di cessate il fuoco di una settimana tra Israele e Hamas, mentre Marman e Har sono rimasti in prigionia per altri 76 giorni, per un totale di 129 giorni di prigionia di Hamas.
   In un'intervista rilasciata a JNS durante una manifestazione di 24 ore nella "Piazza degli ostaggi" di Tel Aviv nel 100° giorno della presa di ostaggi, Bejenaro, il genero di Louis Har, ha detto: "Louis, Fernando, siamo preoccupati per te. Ci manchi. Vogliamo che torniate a casa il prima possibile. Per favore, tornate subito".
   Dopo aver parlato alla folla e aver fatto un giro della piazza, ha detto: "È commovente vedere tanto sostegno". .... Ci sono così tante persone".
Marman e Har, che sono stati riuniti con le loro famiglie presso il centro medico Sheba Tel Hashomer di Ramat Gan, hanno detto di essere stati tenuti prigionieri nella casa di una famiglia a Rafah, ha riferito il portale di notizie Ynet.
Har è stato accolto a Sheba dai suoi quattro figli e dieci nipoti, una riunione che Bejerano ha descritto ai media israeliani come un momento di gioia e ottimismo.
Mentre Bejerano aveva espresso preoccupazione per l'alta pressione sanguigna di Har e per il fatto che deve dormire con una maschera di ossigeno, i due ostaggi sono in buone condizioni mediche, secondo le Forze di Difesa israeliane.
Tuttavia, Marman non è l'unico ostaggio con condizioni mediche preesistenti e, sebbene siano stati fatti tentativi di inviare farmaci ai prigionieri attraverso la Croce Rossa, non è chiaro se siano arrivati.
"Si sta discutendo di portare medicine a Gaza. È una buona cosa, ma è come curare una vena scoppiata con un cerotto. Non è sufficiente", ha detto Bejerano a JNS durante la manifestazione del mese scorso.
   In una dichiarazione alla stampa dopo l'operazione di salvataggio, il "Forum degli ostaggi e delle famiglie disperse" ha affermato: "Ci congratuliamo con i soldati dell'IDF che hanno dimostrato forza e coraggio nel liberare i due ostaggi, e auguriamo a tutti loro un sicuro e rapido ritorno a casa".
   La dichiarazione continua: "Il tempo sta per scadere per gli altri ostaggi detenuti da Hamas. Le loro vite sono in pericolo da un momento all'altro. Il governo israeliano deve esaurire tutte le possibilità per liberarli". La vita di 134 ostaggi è ancora in bilico".
   L'operazione di salvataggio è avvenuta mentre Israele si preparava a inviare una delegazione al Cairo questa settimana per discutere un nuovo accordo sugli ostaggi con i rappresentanti di Stati Uniti, Egitto e Qatar.
   Domenica, il ministro della Difesa israeliano Yoav Galant ha dichiarato che le informazioni raccolte dall'IDF a Gaza hanno reso possibile un accordo "realistico".
   "Abbiamo penetrato le aree più vulnerabili di Hamas e stiamo usando la loro intelligence contro di loro", ha detto Galant. "Più approfondiamo questa operazione, più ci avviciniamo a un accordo realistico per la restituzione degli ostaggi".
   Domenica è emersa anche la notizia che l'Egitto aveva avvertito Hamas di accettare un accordo sugli ostaggi con Gerusalemme entro due settimane per evitare un'operazione dell'IDF a Rafah, l'ultima roccaforte del gruppo terroristico nella Striscia di Gaza.

(Israel Heute, 13 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Che cosa insegna la liberazione dei due rapiti a Rafah

di Ugo Volli

• Chi sono i liberati
 L’azione coraggiosa e ben organizzata che ha portato alla liberazione dei due rapiti il 7 ottobre riempie di orgoglio e dà soddisfazione in un momento molto difficile per Israele. Ma soprattutto insegna alcune cose che vanno contro la propaganda di Hamas e di coloro che vorrebbero fermare l’autodifesa di Israele. Vale la pena di mettere in chiaro questi insegnamenti anche per contrastare le insensatezze sul “genocidio di Gaza” che vengono propalate continuamente. Il primo insegnamento riguarda i liberati uno sessantunenne e uno settantenne. Non sono prigionieri di guerra perché hanno da tempo superato l’età limite del militare, non sono ostaggi come si usa dire ma rapiti, sequestrati, esseri umani rubati alla propria libertà.

• La complicità e lo sfruttamento dei civili
 Il secondo insegnamento è che i due erano trattenuti in un appartamento normale, custoditi “da una famiglia”; dunque almeno parte delle persone rapite il 7 ottobre sono disperse in mezzo alla popolazione civile. Si sapeva già di rapiti tenuti nella soffitta di un insegnante dell’Unrwa e in uno sgabuzzino di un medico. Ora questo caso conferma che vi è un’osmosi fra i terroristi di Hamas e la gente “normale” di Gaza, sia perché vi sono fra i “civili” non pochi collaborazionisti ai crimini dei terroristi; sia perché gli abitanti di Gaza sono usati dai terroristi sempre e comunque come scudi umani. In un comunicato di Hamas si parla di cento morti provocati dalla liberazione dei sequestrati. Probabilmente la cifra vera è poco superiore alla metà; ma chi ha causato queste perdite sono gli atti illegali dei terroristi: innanzitutto il rapimento di anziani civili sottratti con terribile violenza alle loro case in territorio israeliano, deportati, rinchiusi, umiliati e maltrattati; ma anche il fatto di averli rinchiusi in mezzo a normali case d’abitazione, da cui si è sparato sulle truppe venute a liberare i sequestrati.

• La necessità di espugnare Rafah
 Il terzo insegnamento è che ormai ci sono pochi posti non esplorati dall’esercito israeliano e qui si trovano i rapiti. Il principale è Rafah, al confine con l’Egitto. È in questa città che probabilmente sono concentrati oggi gli israeliani rapiti, ma anche i dirigenti di Hamas e certamente le loro truppe. Chi cerca di impedire alle forze israeliane di entrare in questi luoghi, che se ne renda conto o meno, lavora perché i sequestrati restino in mano ai terroristi, che le forze di questi ultimi non siano distrutte, che i loro dirigenti possano continuare a ordinare nuovi crimini; in una parola, come ha detto Netanyahu, cerca di assicurare la sconfitta di Israele, che invece è vicino alla vittoria. È sbagliato pensare che la trattativa coi terroristi sia la sola strada per risolvere il tormento dei rapiti. Al contrario, solo la pressione militare li può liberare, sia direttamente come è accaduto questa volta, sia ammorbidendo le loro pretese, come accadde a novembre.

• La superiorità dei reparti speciali
 Il quarto punto è che le truppe israeliane, in particolare in questo caso i reparti speciali di Yamam e Shayetet 13 che hanno fatto irruzione nell’appartamento dove erano detenuti i due rapiti, sono straordinariamente abili ed eroici: non hanno subito perdite né feriti, i due vecchi liberati non hanno riportato danni, l’operazione molto complessa che ha compreso l’uso dell’aviazione per creare diversioni, dei carri per vincere il fuoco dalle case nemiche, di un elicottero per portare a casa i liberati, ha funzionato perfettamente. Questo è il tipo di superiorità di cui i reparti speciali danno prova quotidianamente in Giudea e Samaria e che era rimasto in sottofondo nell’operazione di Gaza, perché era mancato un ingrediente fondamentale che normalmente Israele sa trovare molto bene: l’informazione. Ora sembra che ricomincino a pervenire le notizie sulla collocazione dei reparti nemici e sulle infrastruttura rilevanti del terrorismo, dei rapiti. Lo prova anche la scoperta del centro elettronico di comando sotto la sede dell’Unrwa, a Gaza City. È su di loro e sulla capacità del governo di resistere alle pressioni che si basa la speranza di vittoria di Israele.

(Shalom, 13 febbraio 2024)

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Il reporter di Al Jazeera è uno dei capi di Hamas

di Carlo Nicolato

Al Jazeera è da sempre, fin da quando è nata a fine anni ‘90, il megafono di Hamas, l’esegeta delle gesta dei criminali che combattono contro Israele e il principale accusatore dello Stato ebraico. Finora tuttavia non si era mai trovato un collegamento così diretto tra l’emittente e il gruppo terroristico come quello scovato dall’esercito israeliano in un computer portatile requisito in una base di Hamas le scorse settimane, la prova inconfutabile che l’uno è parte integrante dell’altro.
   Si è scoperto infatti che tale pc apparteneva a Mohamed Washah, giornalista che negli ultimi mesi è apparso con regolarità nelle trasmissioni sulla guerra israelo-palestinese di Al Jazeera e che nel contempo risulta essere un comandante di spicco delle unità anticarro dell’organizzazione terroristica. Come ha detto il tenente colonnello AvichayAdraee, portavoce in lingua araba dell’Idf, in un post sulla piattaforma di social media X, Washah «al mattino è un giornalista di Al Jazeera e la sera è un terrorista di Hamas!».

• DOTTOR JEKYLL
 Una specie di dottor Jekyll e mister Hyde inchiodato dal ritrovamento nello stesso laptop di numerose immagini che lo immortalano mentre si addestra nell’uso di armi anticarro e nell’utilizzo dei droni. I documenti del pc provano tra l’altro che Washah ha iniziato a lavorare nel gruppo di ricerca e sviluppo per l’unità aerea di Hamas già nel 2022. «Chissà quanti altri dettagli scopriremo sui terroristi travestiti da giornalisti» ha aggiunto nel suo post il portavoce israeliano.
   E c’è da credere che tali dettagli non tarderanno ad arrivare, gli arabi ne sono sicuri.
   Le principali accuse contro Al Jazeera infatti arrivano dallo stesso mondo arabo che imputa l’emittente di essere non solo la spalla di Hamas, ma anche e soprattutto, attraverso il Qatar, lo zerbino degli ayatollah iraniani. Qualche settimana fa il direttore del Baghdad Post Sufian Al Samarrai si scagliava contro Al Jazeera definendolo «il canale di Al Qaradawi e di Khamenei, che pretende di essere islamico». E, citando l’episodio del razzo della jihad islamica finito sull’ospedale di Gaza che Al Jazeera ha subito addebitato a Israele, l’accusava di «aver seminato l’inganno nelle strade musulmane con l’obiettivo di gettare le persone nella trappola delle bande terroristiche e reclutare jihadisti criminali». Il 3 novembre scorso lo stesso Al Samarrai, commentando il discorso di Nasrallah trasmesso integralmente dall’emittente, ha scritto che «Al Jazeera è la piattaforma di tutti i terroristi che non hanno una piattaforma». Pubblicando una foto dell’ex direttore di Al Jazeera Yasser Abu Hilala con in mano un fucile mitragliatore, il giornalista saudita Matar Al Ahmadi di Al Arabiya ha invece sottolineato che l’emittente qatariota «non è altro che uno strumento per creare caos e anarchia», come dimostrano «le campagne mediatiche e ideologiche a favore di Hezbollah, Al Qaeda e la Primavera Araba». E quelle a favore degli Houthi, come invece sottolinea il giornalista e attivista politico yemenita Ahmed Al-Emad, un sostegno ai terroristi con base nel suo Paese «che supera di gran lunga quello iraniano agli stessi».
   Ma se ci fossero ancora dei dubbi sul tipo di informazione che Al Jazeera sta dando della guerra in corso, basterebbe cercarsi sul web quel video del novembre scorso in cui un paziente di un ospedale di Gaza si lamenta dei combattenti di Hamas che si nascondono tra i malati nel centro medico. Colto alla sprovvista il corrispondente di Al Jazeera gli toglie di bocca il microfono allontanandosi. Che la professione giornalistica poi a Gaza e in Palestina in generale venga affrontata come una sorte di militanza per supportare la lotta terroristica lo dimostra anche e soprattutto la presenza all’attacco del 7 ottobre di diversi reporter locali, collaboratori di varie testate e agenzie anche occidentali. La ong HonestReporting ha documentato che due fotoreporter freelance palestinesi residenti a Gaza che lavoravano per Ap e Reuters si vantarono dei filmati che avevano acquisito mentre accompagnavano «sin dall’inizio» i terroristi di Hamas nell’atroce incursione. Ashraf Amra e il collega fotoreporter Mohammed Fayq Abu Mostafa si sono filmati in un video in cui ridono della scena, da loro girata sul posto, del linciaggio di un soldato israeliano il cui corpo viene buttato giù da un carro armato. Da notare che le foto di Abu Mostafa sono state recentemente selezionate da Reuters e New York Times per essere incluse nelle loro “foto dell’anno 2023”.

Libero, 13 febbraio 2024)

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“Hamas sia indagato per crimini contro l’umanità”

La richiesta dell’associazione Setteottobre alla Corte Penale dell’Aja

L’associazione Setteottobre ha presentato formale atto di richiesta all’Ufficio del Prosecutor della Corte Penale Internazionale (International Criminal Court, ICC) affinché vengano urgentemente promosse tutte le opportune e necessarie indagini sui fatti del 7 ottobre 2023, quando più di 1200 persone ebree e israeliane, la maggior parte civili, sono state uccise e molte altre ferite e rapite da membri di Hamas nel territorio israeliano, in particolare in diversi kibbutz e moshav e in tre piccole città attorno alla Striscia di Gaza. Le condotte perpetrate dai membri di Hamas contro donne, uomini e bambini israeliani presentano elementi di tale gravità da integrare il crimine di genocidio come prescritto dall’Art. 6 (a)(b)(c) ed (e) e i crimini contro l’umanità, come prescritti dall’Art. 7 (a)(b)(d)(e)(f)(h)(k) dello Statuto di Roma.
Nel 2015 l’Autorità Palestinese ha chiesto di essere ammessa allo Statuto di Roma con una dichiarazione ad hoc ed è stata ammessa come “Stato di Palestina”. Di conseguenza, la Corte penale internazionale ha giurisdizione sui crimini commessi sul territorio di Israele il 7 ottobre 2023, essendo i membri di Hamas, autori dell’attacco, cittadini palestinesi.
“Vogliamo che la Corte Penale Internazionale dell’Aja indaghi sugli orrendi crimini commessi da Hamas il 7 ottobre. Sono crimini contro l’umanità. Hamas ha annunciato, ha perpetrato e continua a minacciare di sterminare gli ebrei che vivono pacificamente in Israele. A quel massacro è seguita un’onda drammatica di antisemitismo e di odio verso l’Occidente. Vedere che il Sudafrica abbia trovato ascolto alla Corte di Giustizia Internazionale con l’accusa di genocidio a carico dello Stato ebraico è agghiacciante. È la vittima che diventa carnefice e il carnefice vittima. Speriamo che la nostra iniziativa trovi il supporto di tanti e che all’Aja si possa lavorare per ricercare la verità” – ha spiegato il presidente dell’associazione Stefano Parisi nel presentare il 12 febbraio l’iniziativa di Setteottobre insieme all’avvocato Laura Guercio penalista con abilitazione presso la Corte Penale Internazionale e docente universitario in Relazioni Internazionali, e al giornalista e scrittore Pierluigi Battista.
La richiesta di Setteottobre alla Corte Penale Internazionale è stata presentata anche a seguito dell’appello “Non si può restare in silenzio” sul femminicidio di massa perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023, che ha raccolto più di 17.000 adesioni.
L’associazione Setteottobre condivide e fa proprie le parole del Prosecutor dell’ICC Karim A. A. Khan pronunciate il 30 ottobre 2023 “Abbiamo guardato con orrore le immagini che emergono da Israele il 7 ottobre. Penso che nessuno di noi che sia genitore o abbia figli, nessuno di noi che abbia famiglie, nessuno di noi che sia vivo, nessuno di noi che abbia amore per Dio o amore per l’umanità nel nostro cuore potrebbe non aver sentito il gelo nel cuore nell’ascoltare i vari resoconti che sono giunti da così tanti civili innocenti in Israele le cui vite sono state distrutte in quel giorno fatale. E semplicemente non possiamo vivere in un mondo, non possiamo lasciare un mondo ai nostri figli dove incendi, esecuzioni, stupri e omicidi possano avvenire come se fossero normali, come se fossero da tollerare, come se potessero accadere senza conseguenze. Bambini, uomini, donne e anziani non possono essere strappati dalle loro case e presi come ostaggi, qualunque siano le ragioni. E quando si verificano questo tipo di atti, non possono restare non indagati e non possono rimanere impuniti. Perché questi tipi di crimini che tutti abbiamo osservato, che abbiamo visto il 7 ottobre, sono gravi violazioni, se dimostrate, del diritto internazionale umanitario”. (traduzione non ufficiale).
Nel richiamare e condividere tali parole, l’associazione ha formalmente richiesto al Prosecutor della ICC che tali atti non restino non indagati e impuniti e che siano adottate tutte le misure necessarie affinché la giustizia internazionale possa accertare la responsabilità degli autori dei crimini del 7 ottobre 2023 contro donne, uomini e bambini israeliani. R.I.

(Bet Magazine Mosaico, 13 febbraio 2024)

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Alfiere della propaganda

Francesca Albanese, Relatore Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati presso il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, il medesimo Consiglio attualmente presieduto dall’Iran, la cui peculiarità è avere come fulcro l’Agenda 7, interamente dedicata alla condanna di Israele, si è vista negare l’ingresso nello Stato ebraico.
Quella che il Simon Wiesenthal Center ha definito nel 2022, “un’enciclopedia ambulante anti-israliana”, è, in realtà più di questo. Si tratta, infatti, di una portavoce caricaturale di tutti, ma proprio tutti, i capisaldi della propaganda pro-palestinese, ovvero di quell’insieme di costrutti creati a Mosca negli anni’60, ripetuti senza sosta.
Per la Albanese, Israele è dunque impresa coloniale illegittima, Stato oppressore di un popolo autoctono e, in quanto tale, inibito a difendersi contro i terroristi, che tali non sono essendo come tutti gli oppressi in lotta contro gli oppressori, resistenti. Hamas, ovviamente, rientra nella categoria. Ne consegue che contro di esso Israele non avrebbe il diritto di difendersi
Ultimamente, la relatrice, chiamata impropriamente “avvocato”, non essendo iscritta all’albo, ha aggiunto un’altra perla alla sua collana già smagliante. L’eccidio del 7 ottobre non avrebbe nulla a che vedere con l’antisemitismo. Lo sospettavamo. Si tratta sempre di oppressione, e l’accusa di antisemitismo è il solito paravento atto a sviare l’attenzione da questa terribile realtà.
Bisogna concludere che gli oppressi di Hamas avrebbero redatto nel 1988 uno Statuto mai abrogato e impregnato di tropi antisemiti, per puro ossequio folkloristico, così come sarebbero del tutto irrilevanti le affermazioni esaltate di chi il 7 ottobre tra i carnefici di Hamas, ha scannato giubilante con le proprie mani civili israeliani chiamandoli “ebrei”, come, ovviamente, è del tutto immaginaria la filiazione diretta tra antisemitismo nazista e antisemitismo islamico, di cui studiosi del calibro di Jeffrey Herf, Matthias Küntzel, Klaus Gensicke, ecc. hanno dato puntigliosamente conto, e con cui Hamas è in assoluta consonanza.
C’è da chiedersi se l’Albanese crede fino in fondo a ciò che dice, se è effettivamente e inconsapevolmente un utile idiota del jihadismo, oppure, recita (male) per convenienza solo una parte.
Alla fine conta poco. Conta che, in un momento in cui Israele combatte una guerra esistenziale, non sia concessa la possibilità di entrarvi a chi sostiene apertamente le ragioni di coloro che ne vorrebbero la cancellazione.

(L'informale, 13 febbraio 2024)

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Gli ebrei “ribelli” di Catania portati in tribunale dall’Unione delle comunità

La richiesta nell’atto di citazione in giudizio è chiara: «Divieto di utilizzare la denominazione “Comunità ebraica di Catania” in qualsiasi forma e in qualsiasi sede». Può sembrare soltanto una questione di forma, dietro invece c’è molto di più.
   Una battaglia legale di ebrei contro ebrei, che comincia domani [8 febbraio] al tribunale civile di Catania. Da una parte c’è l’Ucei, l’Unione delle comunità ebraiche italiane guidata da Noemi Di Segni, dall’altra l’associazione “Comunità ebraica di Catania”, nata nel capoluogo etneo sette anni fa e che secondo l’Ucei, appunto, non ha il diritto di definirsi tale. Una denominazione che considerano «illegittima». Perché? «L’associazione privata in questione si è costituita come “Comunità ebraica” al di fuori del perimetro delineato dall’Intesa con lo Stato italiano stipulata nel 1987 e recepita nella legge 101/89 — dicono dall’Ucei — Non ci si può improvvisare “Comunità ebraica” senza percorrere l’iter previsto dalla legge che culmina nel riconoscimento dato con decreto del Presidente della Repubblica. È un tema centrale che nulla ha a che fare con libertà religiosa o di fede, ma riguarda l’uso improprio del nome “Comunità ebraica” che appartiene alle “Comunità” individuate dalla legge e che non può essere utilizzato a piacere da chicchessia».
   Da sette anni, però, un gruppo di ebrei a Catania va avanti per la sua strada. L’associazione “Comunità ebraica di Catania” che conta una cinquantina di persone, a ottobre del 2022 ha inaugurato ufficialmente la sinagoga nei locali del secondo piano del castello di Leucatia messi a disposizione dal Comune. L’occasione era davvero speciale: l’arrivo dei rotoli della Torah, il testo sacro per eccellenza degli ebrei, donati dalla comunità centrale di Washington.
   «Per l’Ucei siamo fumo negli occhi — dice l’avvocato Benito Baruch Triolo, presidente dell’associazione “Comunità ebraica di Catania” — Sono arrivati a citare in giudizio altri ebrei in un tribunale civile. Evidentemente partono dal principio che noi non siamo ebrei, che noi non esistiamo».
   L’Ucei conta 21 comunità in tutta Italia. La “Comunità ebraica di Napoli” ha giurisdizione su quasi tutto il Sud Italia dove sono nate, sempre secondo l’Intesa con lo Stato, le cosiddette “sezioni della Comunità”. Ce ne è una a Palermo che fa capo, dunque, alla “Comunità di Napoli” e di cui è stata per tanti anni animatrice Evelyne Aouate, scomparsa nel 2022,. L’arcivescovo Corrado Lorefice donò a questa sezione l’oratorio sconsacrato di Santa Maria del Sabato, in vicolo della Meschita, dove un tempo nasceva l’antico quartiere ebraico di Palermo, per realizzare la sinagoga proprio dove si trovava prima della cacciata degli ebrei nel 1492.
   Il sogno di Aouate e dell’esiguo gruppo ebraico di Palermo procede a passi molto lenti. Anche se recentemente i vertici dell’Ucei, in visita nel capoluogo siciliano, hanno avuto delle interlocuzioni con il sindaco Roberto Lagalla per provare a sbloccare il progetto che ha bisogno di ingenti risorse per essere realizzato. Lo scorso ottobre, l’Ucei ha aperto anche una “sezione della Comunità” a Catania, città della discordia dove la sinagoga dell’associazione “Comunità ebraica catanese” è attiva da tempo. «L’ebraismo italiano non può essere rappresentato soltanto dall’Ucei — dice Triolo — esistono decine di organizzazioni che insieme fanno quattro volte le comunità ebraiche vere e proprie di cui parla l’Ucei. Non possono giudicare loro chi è ebreo e chi non lo è. La libertà di culto è sancita dalla Costituzione. Una sottomissione più che clericale che non esiste nell’ebraismo internazionale. La nostra comunità ha amici in tutto il mondo ebraico. L’Ucei francese ci vuole riconoscere, quella italiana no. Per essere ebrei, in ogni caso, non abbiamo bisogno di essere riconosciuti da nessuno».
   La citazione in giudizio dell’Ucei contro la “Comunità ebraica di Catania” si basa essenzialmente sulla contestazione dell’uso della parola “comunità”. Da tempo l’Ucei ha diffidato l’associazione catanese in questa direzione, chiedendo anche ai rappresentanti delle istituzioni catanesi di revocare la concessione dei locali dove è stata inaugurata la sinagoga. «Esistono vari gruppi nel territorio italiano che si definiscono ebraici — dicono dall’Ucei — Non sempre composti da soli ebrei e che svolgono attività culturali di interesse ebraico, ma questo non li giustifica certo a definirsi “Comunità ebraiche”. L’Ucei stabilisce rapporti collaborativi con tutti coloro che hanno interesse per l’ebraismo in Italia, purché rispettosi della legge». Ora toccherà a un giudice decidere chi ha ragione.

(la Repubblica, 7 febbraio 2024)

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Per Israele un alleato inaspettato: il Malawi

 di Anna Balestrieri

Negli ultimi mesi, al Kibbutz Zikim, situato nella parte settentrionale del deserto del Negev, nel sud di Israele, alcuni giovani malawiani sono stati impiegati in sostituzione dei lavoratori tailandesi, vittime dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e protagonisti di una fuga di massa nelle settimane successive allo scoppio della guerra. Il kibbutz era stato preda, insieme alla base Zikim ed all’avamposto Yiftach, dell’invasione guidata da Muhammad Sinwar, fratello del leader di Hamas Yahya Sinwar.

IL LEGAME TRA IL MALAWI E ISRAELE
I giovani africani hanno sviluppato un forte senso di attaccamento ad Israele e la questione degli ostaggi li ha colpiti profondamente. Per esprimere il sostegno del paese, un gruppo musicale di connazionali malawiani ha recentemente realizzato un nuovo arrangiamento della canzone “Home”, come preghiera, invito ed auspicio per un ritorno rapido degli ostaggi a casa.. L’introduzione al video recita “Il 7 ottobre 2023 Hamas ha condotto un attacco terroristico contro Israele e ha ucciso persone innocenti.  Hanno rapito oltre 200 persone tra cui donne, bambini e anziani.  ACA-4-HIM chiede al mondo di riportare gli ostaggi a CASA. Israele e gli ebrei hanno il diritto di esistere e difendersi come qualsiasi altro paese”. Il video d’accompagnamento alla canzone, girato in Malawi, vede l’avvicendarsi dei vocalists di ACA-4-HIM, membri di un gruppo a cappella tutto al maschile, con immagini di malawiani recanti cartelli che invitano al rilascio immediato degli ostaggi che “hanno bisogno di medicine e di stare con le proprie famiglie” e ricordano che i malawiani “stanno con Israele”.
 Uno dei lavoratori del team nella piantagione di Zikim ha collaborato per migliorare la qualità del video, e insieme hanno provveduto alla traduzione in ebraico, lavorando con grande passione e impegno. I sottotitoli in inglese facilitano la comprensione a quanti non parlino ebraico.

(Bet Magazine Mosaico, 12 febbraio 2024)

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Liberati due ostaggi a Rafah

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Fernando Simon Marman (60 anni) e Louis Har (70 anni) sono stati liberati a Rafah nel corso di un’operazione notturna dall’IDF, dallo Shin Bet e dalle forze di polizia. I due uomini, rapiti il 7 ottobre nel kibbutz Nir Ytzhak, sono stati trovati in buone condizioni, secondo quanto si apprende dai media israeliani e sono stati portati in ospedale dove hanno ritrovato ad aspettarli le loro famiglie.
Simon e Louis sono stati ritrovati al secondo piano di un edificio a Rafah. Le forze di sicurezza, riportano i media, hanno utilizzato un ordigno esplosivo per sfondare la porta dietro la quale erano prigionieri gli ostaggi. Gli agenti hanno anche affrontato in uno scontro a fuoco i terroristi di Hamas.
   Il generale Yaron Finkelman, capo del comando meridionale dell’IDF, ha gestito e coordinato l’operazione da una base a Be’er Sheva, alla presenza del capo di stato maggiore Herzi Halevi e del capo dello Shin Bet Ronen Bar. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant si sono uniti a loro nel quartier generale militare. “Abbiamo 134 ostaggi ancora tenuti prigionieri e faremo tutto il possibile per riportarli a casa”, ha detto il portavoce dell’IDF.
   “Questa è stata un’operazione impressionante”, ha detto Gallant, spiegando che lui e il primo ministro hanno seguito gli eventi dal centro di comando. “Continueremo a mantenere il nostro impegno per riportare indietro gli ostaggi, in ogni modo possibile”, ha detto.
   Idan Bejerano, genero di Har, ha detto di aver incontrato suo suocero solo brevemente prima che fosse portato per gli esami medici. “Sembrano stare bene, sorridevano ed erano visibilmente sollevati”, ha detto Idan. “Siamo stati chiamati alle 3:30 del mattino e siamo saltati giù dai nostri letti con gioia. Ci è stato detto ‘li abbiamo nelle nostre mani’ e di andare in ospedale. Ci è voluta quasi un’ora per arrivare lì e io non ero sicuro che mia moglie stesse respirando durante quel periodo. Questo è un grande sollievo” ha aggiunto.
   Il presidente argentino Javier Milei ha elogiato la liberazione degli uomini, entrambi con doppia cittadinanza israeliana e argentina. “L’Ufficio del Presidente ringrazia le Forze di Difesa israeliane, lo Shin Bet e la Polizia israeliana per aver portato a termine con successo il salvataggio degli argentini Fernando Simon Marman e Louis Har”, si legge in un post su X.

(Shalom, 12 febbraio 2024)

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Solo la violenza ha senso (con Hamas)!

Circa un'ora dopo la mezzanotte, è iniziata a Rafah, nella striscia meridionale al confine con l'Egitto, l'operazione israeliana per liberare gli ostaggi

di Aviel Schneider

Palestinesi nel luogo in cui due ostaggi israeliani sono stati liberati durante un'operazione israeliana a Rafah, 12 feb 2024
GERUSALEMME - Fernando Marman (61) e Louis Har (70) sono stati liberati in un'operazione congiunta dell'esercito israeliano, del servizio segreto nazionale Shin Bet e di un'unità speciale della polizia israeliana. I due ostaggi erano stati rapiti il 7 ottobre da una famiglia palestinese del kibbutz Nir Itzchak, nella Striscia di Gaza. L'operazione si è conclusa dopo un'ora e gli ostaggi sono stati portati in elicottero all'ospedale Sheba in Israele. Sono in buone condizioni di salute.
Erano circa le 03:00 di notte quando ho ricevuto la notizia che due ostaggi israeliani erano stati liberati a Rafah, poco dopo ne abbiamo dato notizia su Telegram. Queste operazioni di liberazione rafforzano il morale della popolazione e ciò è molto importante in questi momenti. Inoltre, rafforzano la posizione di Israele nei confronti di Hamas nei negoziati per un eventuale scambio di ostaggi. Hamas capisce solo la violenza, non le parole, non la filosofia.
Hamas è sotto shock dopo la drammatica operazione di salvataggio degli ostaggi Fernando Marman (61) e Louis Har (70) a Rafah. Hamas non ha riportato il successo dell'operazione di salvataggio israeliana, ma solo delle perdite da parte palestinese. La dichiarazione ufficiale di Hamas ha affermato che:
    "L'attacco dell'esercito di occupazione nazista alla città di Rafah la scorsa notte e i suoi orribili massacri di civili inermi e di bambini, donne e anziani indifesi, più di un centinaio dei quali hanno perso la vita, sono considerati una continuazione del genocidio e dello sfollamento forzato attuato contro il nostro popolo palestinese. Il governo degli Stati Uniti e il presidente Joe Biden hanno la piena responsabilità di questo massacro perché ieri hanno dato il via libera a Netanyahu e lo sostengono esplicitamente con denaro, armi e appoggio politico per continuare il genocidio e il massacro del nostro popolo".
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato all'ABC l'altro ieri: "Coloro che ci dicono di non agire a Rafah in realtà ci chiedono di perdere la guerra. Agiremo contro i battaglioni del terrore di Hamas a Rafah, la vittoria è alla nostra portata". Netanyahu ha sottolineato che Israele sta lavorando a un "piano dettagliato" per l'evacuazione dei residenti palestinesi della Striscia di Gaza - e ha promesso che Israele garantirà un corridoio di fuga sicuro.
Il successo dell'operazione di liberazione a Rafah spiega molte cose che sono state spesso male interpretate dai media. La pressione militare di Israele nella Striscia di Gaza è l'unico modo per esercitare pressione sul regime di Hamas nella Striscia di Gaza. Senza di essa, i negoziati in Qatar, a Parigi o al Cairo su un possibile scambio di ostaggi con Hamas non hanno alcun senso. Hamas capisce solo una cosa: la violenza! Tutto il resto è inutile contro Hamas!

Israele non abbandona gli ostaggi
Inoltre, l'operazione di salvataggio ha dimostrato ancora una volta che il governo non ha deciso di abbandonare gli ostaggi israeliani. Nella scelta tra sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi israeliani, spesso è sembrato che il governo avesse rinunciato a ogni speranza di liberare gli ostaggi israeliani. I media hanno spesso criticato il fatto che il governo di destra non avrebbe fatto nulla per gli israeliani di sinistra prigionieri dei palestinesi nella Striscia di Gaza. L'unica cosa che è rimasta sono queste dichiarazioni scioccanti dei media.
Il tempo non corre solo contro Hamas, ma anche contro di noi. Hamas è sotto pressione a causa delle operazioni militari israeliane e Israele è sottoposta a forti pressioni anche a causa dei governi stranieri. In entrambi i casi, il tempo gioca a sfavore degli ostaggi israeliani che sono nascosti da qualche parte nel sud della Striscia di Gaza e vengono usati come scudi umani per i terroristi. L'operazione a Rafah è stata preparata da tempo, ma finora le condizioni non erano mature per portarla a termine. Il controllo operativo delle Forze di Difesa israeliane nella Striscia di Gaza è massiccio, forte e di successo. Solo così Israele può avvicinarsi al suo obiettivo di liberare gli ostaggi e distruggere Hamas.

Palestinesi provenienti da tutta la Striscia di Gaza in un mercato a Rafah, 8 feb 2024
Ora diventa chiaro anche il motivo per cui Hamas nelle ultime settimane ha minacciato più volte Israele di interrompere i negoziati per uno scambio di ostaggi se Israele opererà a Rafah. I restanti leader e terroristi di Hamas si nascondono insieme agli ostaggi israeliani nella cosiddetta zona di sicurezza a ovest di Rafah, dove 1,4 milioni di palestinesi vivono nelle tende dei rifugiati. Israele non avrà altra scelta e continuerà a operare a Rafah nonostante le critiche internazionali. E Israele mostrerà più considerazione per i rifugiati palestinesi di quanta ne abbia la sua stessa leadership di Hamas. Anche i palestinesi lo stanno scrivendo sui social network.
Nei social media arabi, i palestinesi sul posto sono senza parole per il successo dell'operazione di salvataggio dell'IDF. È stato riferito che molti palestinesi stanno lasciando Rafah di propria iniziativa e si stanno dirigendo verso le zone di sicurezza designate dall'IDF nel centro della Striscia di Gaza. Sono certi che l'esercito israeliano lancerà presto una grande operazione nella città di confine di Rafah. Israele non ha altra scelta se il governo vuole mantenere la promessa fatta alla popolazione.

Palestinesi con passaporto straniero lasciano la Striscia di Gaza attraverso il valico di frontiera di Rafah il 6 feb 2024
Ieri il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha detto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che Israele "non dovrebbe condurre un'operazione militare nella città di confine con Gaza, densamente popolata, di Rafah, senza un piano credibile per proteggere i civili". Bibi e Joe hanno parlato al telefono per 45 minuti ieri. È stata la prima conversazione tra i due dopo che la settimana scorsa Biden aveva detto che la risposta di Israele a Gaza era stata eccessiva.
I politici egiziani hanno messo in guardia Israele dall'operare a Rafah. Il Ministero degli Esteri egiziano:

    "Sottolineiamo il nostro rifiuto delle dichiarazioni rilasciate dai politici israeliani riguardo all'azione militare israeliana a Rafah. Avvertiamo del pericolo che ciò possa aggravare la catastrofe nella Striscia di Gaza. Chiediamo un'intensificazione degli sforzi internazionali per impedire l'operazione israeliana a Rafah. Continuiamo i colloqui con tutte le parti per raggiungere un cessate il fuoco e un accordo sullo scambio di ostaggi. Chiediamo agli organismi internazionali di aumentare la pressione su Israele".

Ma cosa non c'è nella dichiarazione egiziana? L'accordo di pace non è messo a rischio. Non c'è alcuna minaccia militare da parte dell'Egitto. Cosa dice la dichiarazione egiziana? Soprattutto, rende un servizio a parole ai palestinesi, ai Paesi arabi e alla comunità internazionale. In altre parole, gli egiziani approvano l'operazione israeliana o non hanno nulla contro di essa - senza però menzionarla esplicitamente. Hamas può essere messo in ginocchio solo con la pressione e la forza, e chi non lo capisce non desidera la vittoria di Israele.

(Israel Heute, 12 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Piangere una tragedia e capirne le radici. Israele e quella prova di Amleto

Quello di Israele non è una vendetta cieca, ma un modo, l’unico, forse persino perdente nell’esito finale, di difendere democrazia, libertà, vita anche per conto dell’occidente e dell’Europa tremebonda e insicura

di Giuliano Ferrara

Essere o non essere. Israele non si può permettere la filosofia di Amleto. Il pogrom del 7 ottobre impone a quel paese e a quel popolo di eliminare il suo nemico definitivamente, per essere e per esistere. Non è più complicato di così. A qualunque prezzo? A qualunque prezzo. Le vittime civili della guerra, donne vecchi bambini ragazzi adulti, la morte la sete la fame lo sfollamento le mutilazioni le malattie; l’abbandono dei loro territori al sud e al nord da parte degli ebrei minacciati di annientamento; la degradazione dell’economia, della pace nello sviluppo, dell’immagine internazionale del rifugio ebraico (Golda Meir si domandava che cosa farne della pietà mondiale quando si è morti ammazzati, Fiamma Nirenstein dice che una volta l’unico ebreo tollerato era quello morto, ora fase seconda, non vanno bene né morti né vivi).
   Con l’Ucraina nemmeno tanto sullo sfondo, con il bellicismo delle autocrazie contro le democrazia, con il dilagare del fanatismo sterminatore islamista, con l’Iran prenucleare alleato di Cina e Russia, con tutto questo davvero si può pensare che quello che accade dipenda da un governo di destra o dall’ambizione politica nera di Netanyahu?
   Piangere una tragedia è sacro, siamo tutti parte del coro, non lo si può e non lo si deve evitare. Capirne le radici è realistico e pietoso insieme. Le tregue fanno parte delle guerre. La tregua che chiede Hamas è la sconfitta di Israele, la sua definitiva disumanizzazione, una cosa che gli ebrei divisi come non mai rigettano all’unanimità. Li si può processare per questo? Se al posto di Netanyahu ci fossero Ganz o Lapid, l’opposizione che è nel gabinetto di guerra e quella che ne è restata fuori, si comporterebbero precisamente nello stesso modo, e se non lo facessero sarebbero travolti. Se Hamas si scava un altro bunker, bisogna espugnarlo con altre vittime civili, con il sacrificio dei soldati come conseguenza. Lo sradicamento del terrore e la smilitarizzazione forzata non sono una possibilità per Israele, sono un obbligo. E le tragedie sono sempre connotate dall’inevitabilità del loro procedere tenebroso e moralmente impossibile da giudicare.
   Evacuare, risparmiare il più alto numero possibile di vittime della guerra, tutto questo è nell’interesse dell’umanità e del suo avamposto israeliano, che non disumanizza nessuno, come suggerisce obliquamente il liberal Blinken, piuttosto restaura l’umanità dove si era perduta, nelle nuove Auschwitz. Se Hamas resta dov’è senza pagare il prezzo finale del pogrom e senza essere smantellata, il segnale è luce verde per la Cisgiordania, riunificata nelle coscienze militanti islamiste dal 7 ottobre, per gli Hezbollah nel nord, per gli Houti, per l’Iran e i suoi pasdaran di Siria e Iraq, per le ambizioni di Mosca e Pechino. Quello di Israele non è un lavoro sporco, una vendetta cieca, ma un modo, l’unico, forse persino perdente nell’esito finale ma unico e necessario nella sua tremenda origine, di difendere democrazia, libertà, vita anche per conto dell’occidente e dell’Europa tremebonda e insicura. Che questo compito o destino tocchi alle vittime della Shoah e ai loro discendenti e testimoni di un paese tecnologico e postmoderno, ma dotato di un’anima d’acciaio, è una tragedia nella tragedia. L’inevitabile nell’inevitabile.

Il Foglio, 12 febbraio 2024)

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L’IDF scopre un datacenter sotto la sede della UNRWA a Gaza

Sotto la sede di Gaza dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, comunemente nota come UNRWA, l’esercito israeliano ha fatto una rivelazione sorprendente: sotto il complesso delle Nazioni Unite, Hamas ha occultato uno dei suoi beni più significativi.

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Un datacenter sotterraneo, completo di stanza adibita a gestire la parte elettrica, batterie industriali e alloggi per i terroristi di Hamas, incaricati di gestire i server informatici, è stato costruito strategicamente sotto una posizione che Israele non avrebbe mai considerato inizialmente come obiettivo di un attacco aereo.
La scoperta di questa “server farm” avviene in un contesto di crescenti accuse di collusione tra l’UNRWA e il gruppo terroristico di Hamas, complicando ulteriormente la situazione dell’organizzazione che offre assistenza umanitaria ai rifugiati palestinesi del 1948 e del 1967, nonché ai loro discendenti. Il mese scorso, Israele ha accusato 12 membri del personale dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi di aver partecipato al massacro del 7 ottobre perpetrato da terroristi guidati da Hamas, nel quale hanno perso la vita 1.200 persone e altre 253 furono prese in ostaggio.
Dopo che queste accuse sono diventate di dominio pubblico alla fine dello scorso mese, molti dei principali paesi donatori dell’UNRWA hanno annunciato congelamenti di finanziamenti, suscitando preoccupazioni che l’agenzia potrebbe cessare le sue operazioni a Gaza e altrove nel Medio Oriente entro poche settimane. La recente scoperta del centro dati di Hamas da parte delle IDF, mentre l’UNRWA è sotto un’attenzione sempre maggiore, sembra essere una semplice coincidenza.
La sede dell’UNRWA a Gaza si trova nel quartiere di Rimal, nella città di Gaza, una zona in cui le IDF avevano precedentemente operato, smantellando il battaglione di Hamas locale e ritirando le truppe. All’epoca dell’offensiva terrestre iniziale nella città di Gaza, l’esercito non aveva trovato né sapeva molto sul centro dati di Hamas. Ma nuove informazioni, emerse dagli interrogatori dello Shin Bet ai terroristi catturati, hanno fornito indicazioni su dove scavare.
Il comandante della Brigata corazzata 401, Colonnello Benny Aharon, ha dichiarato durante un tour mediatico del tunnel e del complesso dell’ONU giovedì: ” Tzahal era già stato qui, la prima volta per distruggere il nemico, ma quando siamo stati qui l’ultima volta, abbiamo raccolto molti documenti d’intelligence e prove, molti prigionieri, e grazie a questo siamo arrivati qui. Ora abbiamo effettuato un’operazione mirata per eliminare questo datacenter”. Anche se le accuse di collusioni tra l’UNRWA e Hamas sono cresciute, sembra che la scoperta del centro dati di Hamas sia stata un caso fortuito durante l’inasprirsi delle tensioni.
Il colonnello Nissim Hazan, un alto ufficiale della Brigata 401, ha spiegato che l’ IDF ora si possono effettuare incursioni con meno truppe, ma che richiedono molta più ricerca e pazienza. Sottolinea che ci sono ancora rischi per queste operazioni, citando la morte di due soldati durante l’operazione per raggiungere il centro dati di Hamas.
L’articolo prosegue descrivendo il percorso all’interno del tunnel, con particolari sulla struttura del centro dati e degli alloggi dei terroristi. Rivela anche la presenza di scooter per la mobilità e la connessione del tunnel a un’area vicina della città di Gaza.
Riporta inoltre che il centro dati di Hamas era stato utilizzato per la raccolta di intelligence, l’elaborazione dei dati e le comunicazioni. I dischi rigidi e alcuni computer sono stati portati in Israele per essere esaminati dalle autorità di intelligence prima che il sistema del tunnel fosse demolito in un’esplosione controllata. L’articolo successivamente fornisce dettagli sulla visita al quartier generale dell’UNRWA, sottolineando che la struttura sembrava in gran parte intatta rispetto agli edifici circostanti colpiti dai raid israeliani.
Aharon afferma che durante l’irruzione nell’edificio dell’ONU, l’ IDF ha trovato diverse armi appartenenti a Hamas, indicando una possibile connessione tra il personale dell’UNRWA e il gruppo terroristico. Sostiene che le azioni dell’UNRWA dimostrano una consapevolezza della presenza del tunnel di Hamas sotto la sede dell’ONU. Il capo dell’ IDF sostiene che l’UNRWA fornisce copertura a Hamas, sapendo esattamente cosa sta accadendo sotto terra, e utilizza il suo budget per finanziare alcune delle capacità militari di Hamas. L’articolo conclude citando le accuse a lungo mosse da Israele contro l’UNRWA riguardo alla perpetuazione del conflitto israelo-palestinese attraverso l’estensione dello status di rifugiato a milioni di discendenti di palestinesi fuggiti o costretti ad abbandonare le loro case nel 1948, anziché limitare tale status solo ai rifugiati originali, come avviene con la maggior parte delle popolazioni di rifugiati nel mondo.
L’UNRWA non ha risposto immediatamente alle richieste di commento. In un tweet successivo alla pubblicazione, il capo dell’agenzia, Philippe Lazzarini, ha negato di essere a conoscenza del datacenter di Hamas.

(Israele360, 11 febbraio 2024)

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Perché l'Autorità Palestinese non è meglio di Hamas

L'amministrazione Biden può continuare a sognare di "rinnovare" l'Autorità Palestinese, ma ogni bambino palestinese sa che ciò non accadrà mai finché i leader palestinesi continueranno a pagare molto per l'assassinio degli ebrei e a chiedere l'eliminazione di Israele.

di Bassam Tawil*

Mahmoud Abbas: se avessimo un solo centesimo, lo spenderemmo per le famiglie dei martiri e dei prigionieri
Mentre l'amministrazione Biden continua a promuovere l'idea di avere un'Autorità Palestinese (AP) "rivitalizzata" che governi la Striscia di Gaza il giorno dopo la fine dell'attuale guerra tra Israele e Hamas, i leader dell'AP stanno ancora una volta dimostrando perché non sono molto diversi dai terroristi islamisti sostenuti dall'Iran che vogliono distruggere Israele e uccidere gli ebrei.
Dopo l'assassinio, avvenuto il 2 gennaio a Beirut, in Libano, di Saleh al-Arouri, vice capo dell'"ufficio politico" di Hamas, responsabile di innumerevoli attacchi terroristici contro gli israeliani negli ultimi dieci anni, i dirigenti dell'Autorità Palestinese si sono affrettati a elogiarlo come "martire" ed "eroe", e a condannare Israele per aver presumibilmente ucciso il numero due di Hamas. Questa glorificazione di un acerrimo terrorista non è altro che un pieno sostegno al Jihad (guerra santa) di Hamas contro Israele, come delineato nel suo statuto del 1988, che afferma che "il Jihad come metodo, e la morte per la gloria di Dio come più caro desiderio". (Articolo 8)
Si tratta della stessa Autorità Palestinese i cui leader continuano a incontrarsi regolarmente con gli alti funzionari dell'amministrazione Biden per discutere degli scenari del "giorno dopo" la fine della guerra tra Israele e Hamas. I funzionari dell'amministrazione Biden non hanno nascosto il loro desiderio di vedere un'Autorità Palestinese apparentemente "rinnovata" sostituire Hamas nel controllo della Striscia di Gaza.
Occorre notare che nel 2018 il programma Rewards for Justice del Dipartimento di Stato americano ha offerto ricompense fino a 5 milioni di dollari ciascuna per informazioni che portassero all'identificazione o alla localizzazione di al-Arouri, dirigente politico di spicco di Hamas, e dei leader dell'organizzazione libanese Hezbollah Khalil Yusif Mahmoud Harb e Haytham Ali Tabataba'i.
Al-Arouri, che ha finanziato e diretto le operazioni militari di Hamas in Cisgiordania, ha avuto un ruolo in numerosi attacchi terroristici, dirottamenti e rapimenti. Fu lui a dichiarare la responsabilità di Hamas dell'attacco terroristico compiuto il 12 giugno 2014 in cui tre adolescenti ebrei israeliani, di cui uno, Naftali Fraenkel, con doppia cittadinanza israeliana e americana, furono rapiti e uccisi.
L'amministrazione Biden deve ancora precisare cosa intende quando parla di un'Autorità Palestinese "rivitalizzata".
Se l'amministrazione statunitense spera che la leadership dell'AP metta fine alla campagna di incitamento contro Israele nelle moschee, nei media e nella retorica dei funzionari palestinesi, vive tra le nuvole. Se l'amministrazione Biden crede che l'Autorità Palestinese, come parte di un processo di "rivitalizzazione", porrà fine alla sua infinita glorificazione dei terroristi e smetterà di ricompensarli sistematicamente con stipendi mensili per l'omicidio di israeliani, avrà altresì una brutta sorpresa.
Subito dopo l'uccisione di al-Arouri, la fazione Fatah al governo del presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas ha condannato in un comunicato il "vile assassinio", elogiando il terrorista di Hamas come "un'importante figura nazionale palestinese, combattente e martire". Secondo Fatah, "il martirio di al-Arouri ha ferito i sentimenti di tutti i palestinesi". Fatah ha anche indetto, il 3 gennaio, uno sciopero generale in Cisgiordania per piangere la morte del numero due di Hamas e di altri terroristi del gruppo.
Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah, strettamente associato ad Abbas, ha telefonato al leader di Hamas Ismail Haniyeh per porgere le sue condoglianze per il "martirio" di al-Arouri, affermando: "Con il martirio di Saleh al-Arouri, la Palestina ha perso uno dei suoi leali figli e combattenti che hanno dedicato la loro vita al servizio della causa palestinese".
Anche il primo ministro dell'Autorità Palestinese Mohammad Shtayyeh ha salutato al-Arouri come un "martire" e ha espresso le sue condoglianze a Hamas e ai palestinesi. Shtayyeh ha altresì chiesto a Dio di "coprire [al-Arouri] con la sua immensa misericordia e di accettarlo in Paradiso".
Nella città di Jenin, in Cisgiordania, Jamal Hawil, un alto dirigente di Fatah, ha guidato una manifestazione di protesta per denunciare l'uccisione di al-Arouri, da lui etichettato come "martire".
Hawil ha inoltre elogiato il massacro di Hamas del 7 ottobre, in cui più di 1.200 israeliani furono uccisi, più di 5.000 feriti e oltre 240 rapiti e presi in ostaggio nella Striscia di Gaza; e ha sottolineato come il leader di Hamas ha ispirato l'ondata di attività terroristiche contro Israele in Cisgiordania:
    "Saleh al-Arouri ha invitato i giovani palestinesi [in Cisgiordania] a opporre resistenza con pietre, bombe Molotov, armi e ordigni esplosivi. Le nostre fazioni armate insegneranno [a Israele] una lezione dolorosa".
Non dovrebbe sorprendere che Abbas e altri leader dell'Autorità Palestinese glorificano i terroristi definendoli "martiri" ed "eroi". Nel 2021, Abbas chiese di confortare le famiglie dei terroristi palestinesi uccisi mentre attaccavano gli israeliani. Il presidente dell'AP disse al padre di una terrorista:
    Allah aumenterà la tua ricompensa per la nostra martire [Israa Khzaimiah], per i martiri del popolo palestinese. Allah le permetterà di vivere in Paradiso, e certamente il suo posto è in Paradiso perché è una martire della Palestina e di Gerusalemme. M'inchino sempre ai nostri eroi e alle nostre eroine".
Dopo i brutali massacri degli israeliani perpetrati da Hamas il 7 ottobre, le atrocità sono state celebrate da almeno undici scuole palestinesi, di cui otto gestite dall'Autorità Palestinese, secondo l'Institute for Cultural Peace and Tolerance in School Education (IMPACT-se).
Ad esempio, il liceo maschile di Yaˈabad (nei pressi di Jenin) ) ha detto ai genitori degli alunni che sarebbe rimasto chiuso il 18 ottobre "in segno di rispetto per il sangue puro dei nostri martiri. Dio punisce gli ebrei e coloro che li sostengono".
Allo stesso modo, il 12 ottobre il liceo maschile Adnan Zaki al-Safarini di Tulkarem ha organizzato una manifestazione inneggiante al massacro di Hamas, con la proiezione di un video con il discorso di uno studente, titolato: "Un giorno che vivrà per sempre nella storia della lotta arabo-palestinese (...) il giorno del Diluvio di al-Aqsa [come Hamas ha ribattezzato le atrocità del 7 ottobre]".
    "Sembra che molte scuole nei Territori palestinesi abbiano colto l'occasione degli attacchi del 7 ottobre per celebrare il massacro, glorificando i terroristi di Hamas ed elogiando il loro coraggio e il sacrificio. L'immagine degli alianti, utilizzati dai miliziani di Hamas per perpetrare le atrocità, viene specificamente evocata in alcuni casi, come in un post apparso sui social media di una scuola che mostrava studenti di seconda elementare intenti a colorare disegni raffiguranti terroristi di Hamas su alianti, post pubblicato dal loro insegnante d'arte, con le parole 'Gloriosa Gaza'. Numerose scuole hanno anche colto l'occasione per diffondere messaggi espressamente antisemiti, sperando che Dio [esaudisca il loro desiderio di] 'punire gli ebrei' o definendo gli ebrei 'assassini di profeti', secondo la tradizione delle accuse di deicidio antisemita. Questi dati stanno a indicare che la prossima generazione di palestinesi dovrà essere insensibile alla violenza e alla morte, per considerare gli ebrei e gli israeliani come creature disumane e concepire la propria morte in battaglia come un obiettivo supremo. Alla luce di questo, non si può non giungere alla conclusione che, se lo status quo dell'insegnamento palestinese dovesse continuare, la prossima atrocità sarebbe pressoché assicurata".
Se all'Autorità Palestinese fosse consentito di tornare nella Striscia di Gaza, come vuole l'amministrazione Biden, continuerebbe il suo pluridecennale percorso di educazione al terrorismo. Abbas e la leadership dell'Autorità Palestinese farebbero esattamente ciò che Hamas ha fatto nella Striscia di Gaza negli ultimi vent'anni: allevare un'altra generazione di palestinesi con messaggi di odio verso gli ebrei e di glorificazione dei terroristi.
L'amministrazione Biden può anche continuare a sognare di "rinnovare" l'Autorità Palestinese, ma ogni bambino palestinese sa che ciò non accadrà mai finché i leader palestinesi continueranno a finanziare l'uccisione degli ebrei e a chiedere l'eliminazione di Israele. È tempo che Washington capisca che non esiste una reale differenza tra coloro che perpetrano attacchi terroristici e coloro che li incoraggiano, li glorificano e pagano profumatamente i terroristi per ogni omicidio commesso.
Come l'amministrazione Biden indubbiamente sa, la sostituzione di Hamas con l'Autorità Palestinese non cambierà nulla nella Striscia di Gaza.
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* Bassam Tawil è un arabo musulmano che vive in Medio Oriente.

(Gatestone Institute, 12 febbraio 2024 - trad. di Angelita La Spada)

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Usa e Israele: un rapporto sempre più conflittuale

di Ugo Volli

• Dichiarazioni preoccupanti
 Le relazioni fra Usa e Israele si vanno visibilmente deteriorando. In una conferenza stampa, peraltro caratterizzata da confusioni, buchi di memoria e silenzi imbarazzanti, il presidente Biden ha dichiarato che “la risposta di Gaza è stata over the top”, cioè oltre il limite, esagerata. Un portavoce ha poi specificato che l’espressione non si riferiva alla trattativa degli ostaggi, ma al comportamento di Israele. Il segretario di stato Blinken ha pronunciato pubblicamente una frase che preoccupa per la sua somiglianza a temi antisemiti ricorrenti: “Gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile il 7 ottobre”, ha detto in una conferenza stampa a Tel Aviv. leggendo un discorso preparato, cioè scritto e ben meditato, non in una battuta estemporanea “Da allora gli ostaggi sono stati disumanizzati ogni giorno. Ma questa non può essere una licenza per disumanizzare gli altri”. Vi è anche stato il decreto presidenziale che sanziona quattro dirigenti della Giudea e Samaria, ma minaccia tutti i loro abitanti, fino a ministri importanti come Smotrich e Ben Gvir. Infine vi è l’ammissione di Thomas Friedman, giornalista del NYT che fa anche il consigliere presidenziale, che lo scopo dell’impostazione dei rapporti degli Usa con Israele è far cadere il governo Netanyahu e sostituirlo con una maggioranza più a sinistra.

• Posizioni elettorali
 Si legge spesso in questo atteggiamento una difficoltà di relazioni personali fra Biden (anche in questo erede di Obama) e Netanyahu, il che è certamente vero. Lo si attribuisce anche a interessi elettorali: Biden è in campagna per la rielezione, ha bisogno dei voti dell’estrema sinistra antisraeliana e degli arabi che sono numerosi in certi stati disputati come in Michigan (mentre gli elettori ebrei sono concentrati in stati già sicuri per i democratici come New York). E anche Netanyahu non può cedere troppo agli americani senza perdere l’appoggio della sua base elettorale. Ma vi è certamente di più.

• La posizione di Israele
 Il pubblico israeliano (e anche buona parte dei politici) ha imparato una dura lezione dal 7 ottobre, analoga ma più forte ancora di quella che aveva dovuto subire dall’ondata terroristica fra il 2000 e il 2002: non è possibile convivere con forze terroriste organizzate ai propri confini. Non bisogna credere ai discorsi pacifisti che i loro dirigenti fanno talvolta in inglese per l’audience internazionale, ma alle minacce che continuano a ripetere in arabo per i propri militanti. Non si può ottenere la pace migliorando la condizione economica delle zone palestinesi, perché esse sono governate secondo l’ideologia della distruzione di Israele e non all’interesse della popolazione. Non è dunque possibile accettare la costituzione di un vero stato palestinese accanto a Israele, perché esso diventerebbe un santuario terrorista e investirebbe gli aiuti in armi e fortificazioni antisraeliane come è accaduto a Gaza. Per ottenere una convivenza almeno parzialmente pacifica non basta la minaccia della “deterrenza”, cioè della distruzione delle risorse nemiche, bisogna lavorare ogni giorno sul terreno per disabilitare le minacce terroriste come Israele fa da sempre in Giudea e Samaria. In questa crisi è essenziale distruggere completamente i terroristi e mantenere a Gaza quello stesso livello di sorveglianza attiva. La guerra è contro Hamas, ma bisogna comprendere che la grande maggioranza dei palestinesi lo appoggia e vi sono movimenti terroristi concorrenti, mentre purtroppo non movimenti o personalità influenti che rifiutino il terrorismo e vogliano una pace vera con Israele. E sullo sfondo il problema vero è l’Iran che finanzia e arma chiunque cerchi di distruggere Israele.

• La posizione americana
 Gli Usa non hanno capito tutto questo e non lo vogliono accettare. Per loro Hamas e compagnia sono movimenti politici che certo, possono fare terrorismo e vanno scoraggiati dal farlo, ma con cui bisogna parlare e cercare di mettersi d’accordo: in prospettiva “partner per la pace”. Lo stesso per l’Iran. Il terrorismo nasce dal fatto che le aspirazioni statali dei palestinesi non sono soddisfate e dunque per avere la pace bisogna realizzarle. Bisogna credere alle intenzioni pacifiche proclamate dagli arabi in occidente e non badare alle minacce in arabo. La popolazione “civile” palestinese è tutta innocente e va aiutata, anche se gli aiuti finiscono quasi tutti ai terroristi. Così anche l’Unrwa. Non bisogna esagerare nelle reazioni, la tregua va perseguita anche se così Hamas conserva missili, le truppe e buona parte del sistema di fortificazioni sotterranee.
   Come si vede le impostazioni sono opposte. Gli Usa, o almeno i Democratici, vogliono sì che Israele viva. Ma, come si espresse una volta Kissinger (che era consigliere di Nixon, quindi di un repubblicano moderato) che “non vinca troppo, o magari perda un po’, perché questo faciliterebbe la pace”. O magari servirebbe a migliorare l’immagine degli Usa. C’è una conciliazione possibile? Gli Usa oggi commettono l’errore politico non raro di credere alla loro stessa propaganda e dicono sempre più chiaramente che la colpa della resistenza israeliana sia di Netanyahu e dei suoi “soci cattivi” Smotrich e Ben Gvir. Cercano di ricattare Israele lesinando i rifornimenti militari e l’appoggio politico. Non si rendono conto che proprio con le loro dichiarazioni forniscono argomenti elettorali al primo ministro che detestano, perché la frase di Golda Meir “meglio condannati che compianti” è profondamente condivisa dal pubblico israeliano, salvo isolatissimi estremisti di sinistra. E non capiscono che qualunque governo dovrebbe prendere lo stesso atteggiamento e che perfino gli stati arabi che rendono omaggio verbale allo stato palestinese in realtà non lo vogliono. Paradossalmente, è proprio l’esperienza e la lucidità politica di Netanyahu, la sua capacità di raggiungere compromessi accettabili, che potrà risparmiare a questa amministrazione l’umiliazione di contraddirsi e fallire clamorosamente abbandonando la difesa di Israele.

(Shalom, 11 febbraio 2024)

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L’ambasciatore di Israele Alon Bar protesta contro la campagna ProPal a Sanremo

«Ritengo vergognoso che il palco del Festival di Sanremo sia stato sfruttato per diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile.
Nella strage del 7 ottobre, tra le 1200 vittime, c’erano oltre 360 giovani trucidati e violentati nel corso del Nova Music Festival. Altri 40 di loro, sono stati rapiti e si trovano ancora nelle mani dei terroristi insieme ad altre decine di ostaggi israeliani. Il Festival di Sanremo avrebbe potuto esprimere loro solidarietà. È un peccato che questo non sia accaduto». Le parole dell’ambasciatore di Israele a Roma Alon Bar, diffuse dal suo profilo X, riflettono un sentimento condiviso da molti.
Qualche ora di svago per seguire la canzone italiana nel momento più nazional-popolare del Bel Paese: gli ebrei italiani – e non solo –  che speravano di ritagliarsi questo tempo, in un periodo ormai davvero lungo di angoscia e preoccupazione per la guerra tra Israele e Hamas, scatenata dall’attacco palestinese del 7 ottobre, sono rimasti delusi.
Dal palco Ghali, il rapper di origine tunisina molto amato e seguito dai giovani, ha inserito nella sua canzone  Casa mia (prima o dopo il 7 ottobre non è dato sapere, perché i testi sono stati presentati prima, ma potevano essere modificati fino al 24 novembre)  un passaggio che recita: «Ma, come fate a dire che qui è tutto normale / Per tracciare un confine / Con linee immaginarie bombardate un ospedale / Per un pezzo di terra o per un pezzo di pane / Non c’è mai pace».  Ora, il testo poteva apparire abbastanza “ecumenico” perché Hamas ha bombardato più volte gli ospedali israeliani, come quello di Ashkelon  mentre Israele non ha risparmiato le strutture ospedaliere a Gaza quando ha avuto la certezza che fossero state trasformate in depositi di armi e basi logistiche dai terroristi di Hamas. Ma dopo l’ultima esibizione della serata finale Ghali ha espresso più chiaramente il suo pensiero: “Stop al genocidio”, sposando così una tesi falsa e fuorviante che, come ha sottolineato l’Ambasciatore, semina odio contro Israele e gli ebrei in genere. E la sua preoccupazione è dimostrata dalle centinaia di commenti che sui social applaudono Ghali per il suo “coraggio”.
Ma ci sono stati anche altri episodi: durante l’esibizione del rapper Tedua sulla nave da crociera “contropalco” dell’Ariston, è apparsa una bandiera palestinese tra il pubblico. Nel corso delle cinque serate del festival, diversi gli appelli per la “pace” lanciati dal palco. Se Eros Ramazzotti ha fatto un accenno ai “500.000 bambini nel Mondo vittime di guerra”, Dargen D’Amico è apparso ondivago, chiedendo la prima sera il “cessate il fuoco” in Medio Oriente, poi la seconda sera si è tirato indietro dicendo di non volersi esprimere su questioni politiche, per poi ripensarci ancora nella serata finale quando – forse dopo aver visto il sostegno incassato da Ghali per il suo “coraggio” – ha di nuovo declamato “In questo momento dall’altra pare del Mediterraneo ci sono bambini buttati sul pavimento, perché negli ospedali non ci sono più barelle, bambini mutilati, operati a luce dei cellulari senza anestesia. Se abbiamo il coraggio di voltarci dall’altra parte usiamo quel coraggio per imporre un cessate il fuoco. Cessate il fuoco, per favore. Cessate il fuoco”.
Tutto ciò nel silenzio più totale del conduttore Amadeus che, visto l’andazzo ProPal a senso unico preso dal suo spettacolo, avrebbe potuto almeno esprimere una parola di cordoglio per i giovani del Nova Festival e per il rilascio degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas.
Anche il presidente della Comunità milanese Walker Meghnagi era intervenuto con una nota dopo la prima serata del Festival di Sanremo: «Ieri sera al Festival di Sanremo – scrive Meghnagi  -, uno spettacolo che dovrebbe unire gli italiani, è andata in scena un’esibizione che ha ferito molti spettatori. Ghali ha proposto una canzone per gli abitanti di Gaza, ma a differenza di Ghali non possiamo dimenticare che questa terribile guerra è il prodotto di quanto successo il 7 ottobre».
Anche nel dopofestival da Mara Venier, domenica 11 febbraio, Ghali ha ripetuto, sollecitato a commentare le parole dell’Ambasciatore israeliano: “Stop al genocidio”. Applausi del pubblico.

(Bet Magazine Mosaico, 11 febbraio 2024)

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«Vi spiego perché questa sarà una lunga guerra per la sopravvivenza»

Intervento al VI Congresso dell’Associazione milanese pro-Israele

di Sharon Nizza

Nel 2000, quando avevo 17 anni, è scoppiata la Seconda Intifada. Non sapevo quasi nulla di Israele allora. La mia vita di ebrea milanese fu scossa dalla perenne richiesta di spiegare cosa “stavamo facendo lì ai palestinesi”. Una full immersion di dibattiti durante le occupazioni nelle scuole pubbliche mi portò a decidere, terminato il liceo, di andare a vivere in Israele. Arrivai il 30 luglio 2002 e andai a iscrivermi all’Università ebraica di Gerusalemme. Il giorno successivo, vi fu l’attentato all’Università che lasciò 9 morti. Fu il mio welcome nel Paese. Da allora sono passati 22 anni in cui ho cercato di capire tutte le sfaccettature della realtà israeliana: destra sinistra, religiosi, laici, arabi-israeliani, palestinesi d’Israele e palestinesi dei Territori. La quotidianità era costellata da attentati suicidi nei bus o nei ristoranti, quando i luoghi dei massacri venivano ripuliti nell’immediato e si tornava a vivere. Nel 2005, i dibattiti laceranti intorno al disimpegno da Gaza, che peraltro hanno portato presto a svariati round di guerra con la Gaza gestita da Hamas dopo il colpo di Stato del 2007. La guerra con il Libano nel 2006, la risoluzione Onu 1701 con un Unifil che non è riuscito a farne rispettare i termini, per cui 18 anni dopo, Israele e Libano sono sull’orlo di una nuova guerra. Le fallite trattative di pace di Annapolis nel 2007. E mentre in sostanza regnava lo statu quo rispetto alla soluzione con i palestinesi, il Paese prosperava: economia fortissima, la startup nation, a inizi 2023 Israele svetta al quarto posto al mondo nell’indice di felicità globale. Mi sono sempre detta: tutto ciò è estremamente vitale e interessante, pieno di spunti. Ma la sensazione era sempre di una società che vive un post trauma collettivo. Una polarizzazione perenne tra voglia di vivere e minaccia costante di morte, come in un elettrocardiogramma impazzito. Ovviamente l’ultimo di questi picchi è stato dato dal passaggio immediato, senza possibilità di respiro, dalla frattura interna che aleggiava nel Paese fino al 6 ottobre all’unità palesatasi 24 ore dopo, quando le discordie sono state accantonate – temporaneamente, ma questo è il tema di un altro intervento – per far fronte a un nemico comune.
Faccio questa premessa per dire che, a differenza di tanti altri momenti della storia complessa e dolorosa di questo Paese – e ho parlato solo dei momenti che io ho vissuto in prima persona – quanto è accaduto e sta accadendo dal 7 Ottobre è un qualcosa senza precedenti. Israele è ancora totalmente sommersa nella fase traumatica: nello shock più totale. Quanto accaduto quel sabato nero è senza via di dubbio il peggiore attacco della storia del Paese. E viene paragonato unicamente alla dinamica delle guerra del 48: una lunga guerra per la sopravvivenza. E non solo per le dimensioni della mattanza che ha causato il più sanguinoso eccidio ebraico dalla Shoah in un giorno solo, ma anche per via di un altro elemento critico: Israele ha subito un colpo fatale alla propria deterrenza. E, nello scacchiere mediorientale, non dimostrare capacità di deterrenza è in sostanza una minaccia di morte.
La maggior parte della popolazione israeliana si sente ancora massimo all’8 ottobre. Il trauma accompagna la vita delle persone senza sosta: le foto degli ostaggi – ancora 136 a Gaza a oggi – sono ovunque per strada, nelle stazioni dei treni, all’aeroporto, alla fermata dell’autobus. Ore e ore di telegiornali sono dedicate a raccontare le storie dei caduti, perché’ dare un nome e la dignità di un racconto di vita alle vittime è da sempre un imperativo dell’ebraismo. Molto altro spazio è dedicato anche a esporre storie di eroismo che solo ora emergono. E tante altri elementi che non sono ancora emersi, come i racconti di vittime di abusi sessuali – perché sì, ci sono anche vittime tra i sopravvissuti alla strage secondo dati forniti dal ministero del Welfare – che impiegheranno mesi, forse anni ad emergere, perché il tempo dell’elaborazione di questi crimini non è necessariamente quello dell’item giornalistico, come peraltro il movimento #metoo – “ti crediamo” – ci voleva insegnare, salvo poi mettere al banco delle imputate proprio le vittime israeliane. Un’altra causa dello shock che pervade la società israeliana è peraltro la profonda ferita per la mancanza di solidarietà del mondo.
E poi ci sono ancora circa 150,000 sfollati, di cui 70,000 solo dal fronte Nord, per cui non si capisce minimamente quale sia la prospettiva nel medio raggio. Questo è un evento senza precedenti nell’intera storia del Paese.
Usate solo questo come metro di paragone: fino al 7.10 la società israeliana aveva passato 50 anni e 1 giorno a autoflaggellarsi per quello che veniva considerato il “fallimento della guerra del Kippur”, che invece fu una vittoria in sostanza. Dopo – quello sì fallimento e di portata colossale – il 7.10, alla società israeliana attendono decenni di dura disamine degli eventi e di esame di coscienza.
Il trauma degli israeliani è dato soprattutto dal crollo totale della fiducia nelle istituzioni, perché ancora non è stata formulata una risposta sensata e approfondita alla domanda più critica, ossia come tutto ciò sia potuto accadere il 7.10. In parallelo però, anche questo moto sismico che ha spezzato la fiducia è per forza di cose sospeso nell’aria, perché i soldati vanno a combattere per lo stesso esercito verso cui tutti si pongono la domanda: ma dov’era? E quindi, giustamente, le domande salienti sono rimandate. E, se tanto dolore è intervenuto nelle vite degli israeliani, la speranza è che non si passi all’obliterazione del trauma “per andare avanti”, sul modello tipico dello “iè beseder” (andrà bene) che è la risposta standard di ogni israeliano alla domanda “come va?”. Né tantomeno che non si replichino quelli schemi divisivi che hanno lacerato la società israeliana fino al 6.10.
Dal 7.10 sono stata sottoposta a orrori di ogni genere: vedere costantemente immagini repellenti di massacri, per la maggior parte filmati dai terroristi stessi. Interviste a sopravvissuti che descrivono scene surreali che ci riportano ai pogrom di oltre 80 anni fa. Sfollati che non vogliono tornare a casa fino a quando la minaccia non verrà eradicata. Persone che invece rimangono o tornano perché non vogliono abbandonare, e rischiano di pigliarsi un missile anticarro in ogni momento, come peraltro è successo tre settimane fa a Kfar Yuval al confine nord. Famigliari di ostaggi che vivono con una spada di Damocle sulla testa. Tra tanta complessità e orrore, c’è stato un momento che mi ha profondamente toccato, circa 10 giorni fa, quando mi trovavo di nuovo al Kibbutz Beeri con un gruppo di giornalisti europei. Nili Bar Sinai, 74 anni, sopravvissuta, suo marito ucciso il 7.10 (sua madre peraltro era stata uccisa nell’attentato all’Aeroporto Ben Gurion nel 1972), ci accompagna per i vicoletti del Kibbutz condividendo con noi le ore della mattanza. Alla fine del giro mi chiede in confidenza, sapendo che so l’ebraico: “E’ la prima volta che racconto. Come sono andata?”. Mi ha detto che chiaramente preferirebbe non dover rivivere quei momenti, ma siccome “il mondo non ci crede”, sento l’obbligo di farlo. Eravamo il prossimità della Giornata della Memoria e questa analogia tra negazionismo di oggi e di ieri è stata veramente devastante. Secondo Cyberwell, una Ong che si occupa di monitorare il fenomeno dell’antisemitismo online, circa 1/3 dei contenuti sulle principali piattaforme social nega in un modo o nell’altro che gli eventi del 7.10 siano avvenuti (e una parte di questi crede che Israele li abbia orchestrati da sola). La ricerca è stata fatta su un campione di soli 910 post che hanno raggiunto oltre 26 milioni di visualizzazioni, una cassa di risonanza incredibile. E questo senza calcolare TikTok dove il problema è molto più acuto.
Per Israele, il 7.10 è la linea dello spartiacque con il mondo di Ieri – e non a caso uso il nome del titolo dell’ultima opera di Stefan Zweig, suicida nel 1942 testimone e profeta degli orrori che avrebbero marchiato la civiltà di lì a poco.
Ora, se mettiamo da parte la lettura emotiva e ci concentriamo sull’analisi, la domanda è: come è possibile recuperare una bussola in questo nuovo mondo che sembra senza coordinate? O, quantomeno, come non tornare a quel “mondo di ieri” che ha portato a questo sfacelo? Come evitare ulteriori massacri?
Queste sono domande critiche a cui ancora mancano risposte, perché di nuovo, nella fase trauma è difficile fornire risposte univoche. E poi chiaramente perché tra il dire il fare c’è di mezzo un oceano di interessi diversi e spesso contrastanti, anche tra gli stessi alleati. Quando si parla del “giorno dopo” a Gaza, dobbiamo capire che questo giorno non è una soluzione magica che si paleserà a stretto giro, ma prenderà mesi, e innumerevoli incognite e variabili potrebbero cambiare in corso di cose i piani.
Nel breve raggio, penso che a stretto giro si arriverà a un cessate il fuoco a Gaza perché si entrerà nel vivo delle primarie americane e Biden ha necessità di arrivare a quel momento con meno immagini di devastazione da Gaza. Non a caso si parla molto intensamente ora di un accordo che potrebbe portare al rilascio di ostaggi. Israele si trova, dal primo giorno, in un dilemma fortissimo avendo posto due obiettivi a questa campagna militare: eradicare Hamas e far tornare gli ostaggi.
Personalmente ho sempre creduto che i due obiettivi non fossero compatibili con la realpolitik dettata dall’agenda internazionale: eradicare Hamas è un’operazione che richiederà mesi, forse anni. Peraltro, operativamente non è stata quantificata: in che modo si stabilisce il raggiungimento di questo obiettivo? Con la testa di Sinwar? Di Mohammad Deif? Con l’eliminazione di quanti dei circa 30,000 operativi di Hamas a Gaza? Con la distruzione di quanti km dei circa 800 della Metro, la complessa e fortificata rete di tunnel sotterranea di Hamas a Gaza? 
Se la pressione americana otterrà i suoi risultati, chiaramente Israele non avrà portato a casa uno dei due obiettivi, l’eradicazione di Hamas. Se però dovesse così venire raggiunto il secondo, la restituzione degli ostaggi, la grande domanda è se questo risultato da solo possa essere considerato una vittoria. E qui le opinioni sono diverse. E’ chiaro che la popolazione israeliana è trepidante all’idea di poter salvare gli ostaggi. Questa si potrebbe di certo annoverare come una sorta di “vittoria morale” per un Paese democratico che ha a cuore la vita dei suoi cittadini. Ma il prezzo che comporterà è dilaniante di per sé e oggetto di grande dibattito ora nel Paese: quanti terroristi con sangue sulle mani verranno liberati? Ricordiamo che Sinwar stesso, insieme ad altri 1026 prigionieri palestinesi, venne rilasciato nello scambio per ottenere indietro il solo soldato Shalit nel 2011, peraltro in un’azione lungimirante diretta da Sinwar stesso dall’interno del carcere israeliano e condotta sul campo da suo fratello Mohammad. Poi: la leadership di Hamas godrà di immunità? Avrà un ruolo nel post-Gaza? In sostanza, credo che non si debba essere troppo manichei nel giudicare questa situazione in termini di vittoria o fallimento. Una trattativa che porterà a una cessazione delle campagna militare su vasta scala e al ritorno di tutti o buona parte degli ostaggi, va comunque inquadrata nel più ampio scenario dello scacchiere mediorientale per come si è delineato negli ultimi 4 anni con gli Accordi di Abramo. Quello che non mi pare invece realistico possa accadere a stretto giro è che torni alla ribalta la soluzione dei due Stati, poco attuale e attuabile già da tempo nonostante gli slogan declamati da questo o quel politico quasi a volersi sbrigativamente pulire la coscienza. Non riesco a capire come si possa pensare che, nel momento in cui la fiducia è ai minimi storici – e ricordo che anche civili palestinesi hanno partecipato ai massacri del 7.10 e incarcerato ostaggi nelle proprie case – questo possa accadere.
Qui è importante tenere a mente un principio che è la chiave di lettura del Medioriente: in MO tutto quello che vedi palesemente non conta molto. E’ quello che non vedi che conta ben di più. Quindi: il dialogo tra sauditi e israeliani non si è mai interrotto, ma continua prevalentemente sottobanco, o meglio: i messaggi pubblici che leggiamo in merito non rispecchiano con fedeltà quanto avviene lontano dai registratori. Gli Accordi di Abramo reggono, i Paesi coinvolti (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco) non hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Israele. Il comune denominatore di queste alleanze è dettato prevalentemente dalla volontà di questi Paesi sunniti di assicurarsi di fonte al radicalismo sciita e alle velleità egemoniche iraniane, attraverso le proxy Hezbollah in Libano e Houti in Yemen, nonché di colpire i Fratelli Musulmani (di cui Hamas è la branca palestinese), che non a caso sono fuorilegge negli Emirati, in Bahrein, Egitto e Arabia Saudita. Quindi questi Paesi hanno un interesse molto forte affinché Israele faccia il lavoro sporco contro Hamas a Gaza e per questo le condanne alla guerra intrapresa dall’IDF in reazione agli eventi del 7.10 sono state solo di facciata, e comunque molto deboli. Inoltre, questi Stati (e ben prima di loro, nemici ben più acerrimi come Egitto e Giordania), nonostante le ripetute dichiarazioni in favore di uno Stato palestinese, di fatto hanno sempre perseguito i propri interessi prima di questo obiettivo.
Però ora è necessario, al fine di non replicare gli schemi del mondo di ieri, che i Sauditi abbiano un ruolo più pubblico con Israele e nel post guerra a Gaza: la normalizzazione tra Gerusalemme e Riad prenderà tempo, ma i Sauditi potrebbero intanto influire sulla prossima leadership palestinese a Gaza (che difficilmente sarà quella di Abu Mazen, totalmente priva di consenso popolare, mentre potrebbe essere legata alla sfera del suo rivale Mohammad Dahlan che dal 2011, cacciato da Abu Mazen, è di stanza negli Emirati). Oppure potrebbero avere un ruolo predominante nella ricostruzione di Gaza, marginalizzando il Qatar, il principale attore destabilizzante nell’area, ospite della leadership di Hamas e allo stesso tempo mediatore.
Dopodiché, se anche il fronte Sud si placherà con il raggiungimento di un cessate il fuoco temporaneo, rimane ancora l’incognita enorme del fronte Nord: Israele ha evacuato i circa 70,000 abitanti della fascia di 5km a ridosso con il confine libanese, cosa che non era mai accaduta, nemmeno durante la guerra con il Libano del 2006. Peraltro, gli sfollati continuano a ripetere di non voler tornare a casa, dal momento che le capacità militari e l’arsenale di Hezbollah sono decisamente più distruttivi di quelli di Hamas. Per anni, lo scenario dell’incursione terroristica via terra era previsto dagli analisti proprio su quel fronte con le forze di élite di Hezbollah, la milizia Radwan. Israele potrebbe trovarsi a strettissimo giro di fronte a un altro dilemma atroce: se, a seguito di un raggiunto cessate il fuoco con Gaza, Hezbollah smetterà di colpire Israele come fa dall’8 ottobre, Israele potrà permettersi di infliggere il colpo preventivo che avvierebbe un’altra guerra sanguinosa? Il sentire comune in Israele, tra gli analisti ma anche tra i cittadini stessi che popolano quelle aree, è che se non si risolve la minaccia a Nord ripristinando la deterrenza, Israele nel giro di qualche anno si troverà ad affrontare un nuovo 7.10 anche da Nord. Ma, ora la mia sensazione è che questo scenario verrà posticipato, forse a dopo le elezioni presidenziali americane.

Queste erano solo alcune considerazioni tattiche. Se invece parliamo di soluzioni strategiche, di ampio respiro, che possano cambiare gli approcci tradizionali utilizzati finora, è necessario fare degli interventi radicali su alcuni fronti:
– Ruolo chiave dell’educazione: i libri di testo palestinesi negano sistematicamente il diritto all’esistenza di Israele. Per formare la futura generazione di opinione maker palestinesi, urge monitorare e riformare questo aspetto. Qui includo anche la necessità di sradicare la narrativa della negazione della presenza ebraica antecedente al 48, includesse le comunità ebraiche che sono rimaste nelle terre contese dopo la dominazione romana, anche durante le varie dominazioni musulmane, dai mammelucchi ai turchi e poi chiaramente sotto gli inglesi. Nonché la narrativa ancora più deleteria per cui “Al Aqsa è in pericolo” perché i sionisti vorrebbero distruggerla per costruirvi il terzo tempio: questo, negli ultimi 30 anni è l’argomento principale utilizzato per sobillare la piazza musulmana mondiale contro Israele e non a caso il nome che Hamas ha dato a questa guerra è “Tuffan Al Aqsa”, il Diluvio di Al Aqsa, ricollocando peraltro il conflitto nella sua dimensione ideologico-religiosa e non territoriale, come si ostinano a credere nel mondo occidentale.
– Smantellare l’Unrwa e collocarla sotto l’Unhcr. Dal 1949, le Nazioni Unite hanno lavorato in parallelo per creare l’Unrwa, l’agenzia che si occupa unicamente dei profughi palestinesi e l’Unhcr, che si prende cura di tutti gli altri profughi del mondo. Oltre alla scelta poco limpida di creare due agenzie distinte, il paradosso è che esse hanno anche due mandati diversi: l’Unhcr si occupa di ricollocare i profughi nel Paese di destinazione, dove se il profugo viene poi naturalizzato, giustamente smette di essere seguito dall’agenzia; il mandato dell’Unrwa invece non è ricollocare, bensì fornire assistenza, welfare e lavoro, anche se nel frattempo è stata acquisita altra cittadinanza. Inoltre lo status di rifugiato palestinese viene trasmesso alle generazioni successive, motivo per cui se nel 1949 l’Unrwa aveva preso in gestione circa 750,000 profughi, oggi ne segue quasi 6 milioni nel mondo. Nelle settimane scorse, si è aperto uno spiraglio nella direzione di rivisitare questo ente (che peraltro è anche fornitore di servizi educativi che non rispettano i principi dell’Onu stesso) con lo scandalo per cui diversi lavoratori palestinesi dell’Unrwa sono stati coinvolti nell’attacco del 7.10. Il Segretario Generale Onu ha avviato un’inchiesta in merito e staremo a vedere dove si arriverà.
– L’occidente (e qui includo Israele) deve ammettere di non capire a sufficienza la mentalità mediorientale estremista: che lavora a lungo termine, con pazienza, per un obiettivo specifico che è la distruzione di Israele come entità sovrana in qualsiasi parte di questa terra “from the river to the sea”. Questo punto peraltro è parte chiave dell’analisi che ci porta a capire il fallimento della lettura delle intenzioni di Hamas negli ultimi anni, anche da parte di Israele: l’illusione che fosse diventato un attore razionale interessato al benessere della popolazione, che non fosse interessato al confronto armato per non fare passi indietro rispetto alle condizioni economiche molto migliorate negli ultimi anni grazie all’aumento dei permessi di lavoro e l’influsso di soldi esteri, che invece poi è stato impiegato per la maggior parte nella creazione di tunnel.
– Sullo statu quo non si può costruire un futuro stabile: è assolutamente necessario trovare una soluzione per la questione palestinese. Ma invece che la comunità internazionale continui a pulirsi la coscienza con lo slogan dei due popoli, due stati, soluzione rifiutata dai palestinesi stessi in più incroci critici della storia di questo conflitto, dovrebbe ragionare su soluzioni alternative. Tra le opzioni che possono essere approfondite, c’è quella dello stato binazionale (“from the river to the sea”) con piena cittadinanza a tutti i palestinesi mantenendo però la definizione dello Stato ebraico; oppure la soluzione federale / cantoni /emirati, che andrebbe peraltro anche a rispondere alla divisione interna in Israele a cui abbiamo assistito nell’anno passato. Se la comunità internazionale vuole essere un partner costruttivo, è suo compito uscire dagli schemi mentali che hanno creato solo stallo.
– E visto che probabilmente parliamo di utopie, dal momento che non credo che la comunità internazionale sarà in grado di adottare soluzioni coraggiose e lungimiranti, aggiungo anche: i Paesi occidentali devono bannare TikTok, che altro non è che un agente sovversivo cinese volto a polarizzare le società occidentali. E’ una delle armi deleterie per il medio-lungo termine con cui la Cina combatte la sua guerra contro gli USA, che è chiaramente lo scenario più ampio in cui va letto anche il conflitto mediorientale.

Nonostante la situazione sia davvero tragica e estremamente complessa, voglio anche segnalare alcuni aspetti positivi:
– Non è scoppiato il fronte interno. Gli arabi-palestinesi cittadini di Israele (20% della popolazione) non hanno avviato moti interni a seguito del 7.10 (diversamente da quanto accaduto nel conflitto del maggio 2021). Credo che buona parte di questa calma interna – nonostante l’evidente dramma di una popolazione che si trova in bilico tra identità diverse e in conflitto tra loro – derivi dal trauma enorme dato dal fatto che tra le vittime dei massacri del 7.10 ci sono anche numerosi arabi israeliani (compresi ostaggi tuttora in mano a Hamas), nonostante fosse palese che si trattasse di musulmani/arabi/palestinesi (donne con il Hijab, persone che recitano versi coranici supplicando per la loro vita).
– La resilienza israeliana sta ancora reggendo. Dalle molte conversazioni che ho tenuto con tanti degli sfollati, sopravvissuti ai massacri, si può dedurre che il trend generale sia tornare nei Kibbutz di confine, peraltro noti per essere storicamente roccaforti della sinistra laica israeliana che ha subito un colpo enorme il 7.10. Il che mi ha fatto venire in mente questo articolo di Yuval Elbashan, “Quello che i nostri nemici non capiscono: Be’eri sarà sempre con noi”, che avevo tradotto pochi giorni dopo la guerra. Un estratto:
- “I nostri nemici si sbagliano alla grande, mentre esultano al suono delle pale che hanno iniziato a scavare le tombe dei nostri eroi. Non capiscono che, non appena avremo finito di seppellire i nostri morti, con le stesse pale scaveremo le buche in cui pianteremo gli alberi in loro memoria, nei luoghi che abbiamo difeso strenuamente (…) E sul prato accanto alla sala da pranzo del Kibbutz Be’eri, proprio quello che adesso è un ammasso di macerie fumanti, i bambini giocheranno ancora animatamente, e i vecchi si lamenteranno del rumore che fanno. E nella stessa sala da pranzo, che sarà stata rinnovata più volte nel frattempo, un vecchio scontroso, durante la cerimonia in commemorazione dei membri del Kibbutz per quella strage di un tempo, si lamenterà che “non sono venuti abbastanza compagni” cosa che secondo lui è vergognosa, “perché un popolo che non conosce il proprio passato non ha futuro”. E la maggior parte di quelli che parteciperanno a quella commemorazione non ricorderanno con precisione cosa è successo in quella disgraziata festività e liquideranno le sue parole, alzando gli occhi al cielo, come a voler far intendere che sono stanchi di queste cerimonie che il vecchio costringe loro a fare ogni anno. E il vecchio, che se ne tornerà a casa infuriato per l’indifferenza di questa nuova generazione, non sa che proprio in quei momenti, in una delle stanze dei ragazzi, che distano solo un centinaio di metri dalla sala da pranzo ristrutturata – proprio quella dove una volta, molto tempo prima, era avvenuto un massacro – il suo nipote più giovane sta baciando per la prima volta una ragazza”.
- Ecco, un mesetto fa mi trovato nel Kibbutz Beeri per un reportage proprio su chi è tornato a viverci per seguire i lavori di ricostruzione e soprattutto il lavoro della tipografia e dell’agricoltura. Mentre zappava un campo di patate, ho conosciuto Tom Carbone, figlio di un signore italiano che, di passaggio nel ‘73 in Israele, rimase bloccato per via della guerra del Kippur, e da allora è rimasto a Beeri: Tom è sopravvissuto al 7.10, suo padre si è salvato per miracolo, sua madre è stata uccisa. Dopo meno di un mese, è stato tra i primi a tornare per seguire le coltivazioni che altrimenti sarebbero andate in malora, lasciando moglie e figlioletto nell’hotel sul Mar Morto dove sono dislocati i compagni di Beeri: “Io sono sempre con il sorriso sulla faccia” mi ha detto “ma non significa che non sia triste dentro il mio cuore. Lo faccio per il mio bambino: perché dobbiamo reagire e andare avanti”.
Quanto descriveva Elbashan, è successo quasi nell’immediato, nonostante il trauma e lo shock. E questo è senza dubbio un fattore positivo, in quanto la coesione e la resilienza della società israeliana sono fattori determinanti per fare fronte alle numerose sfide che si prospettano per il futuro del Medioriente.

(Morashà, 11 febbraio 2024)

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Per l’aggressore di Lahav Shapira divieto di accesso all’Università

Il sospettato non può entrare nel campus per tre mesi

Dopo l'aggressione a uno studente ebreo, la Freie Universität Berlin ha tratto le sue conseguenze. Venerdì sera l'università ha annunciato di aver vietato l'accesso al campus al sospettato per proteggere i membri dell'università dopo il violento attacco a Berlino-Mitte, che sarebbe stato motivato dall'antisemitismo. Il divieto è valido per tre mesi in tutto il campus e può essere esteso. I formati di insegnamento online non sono inclusi nel decreto dell'università.
   Lo studente ebreo della FU Lahav Shapira è stato ricoverato in ospedale lo scorso fine settimana con ossa rotte al volto. Un compagno di studi filopalestinese di 23 anni lo avrebbe preso a pugni e calci in una strada di Berlin-Mitte. L'ufficio del pubblico ministero ipotizza un attacco mirato e un contesto antisemita. Il caso sta scuotendo la città da giorni e sta mettendo sotto pressione anche la direzione della FU.
   Dopo l'attacco, il presidente della FU Günter Ziegler ha espresso il suo orrore e ha condannato il reato. "Le nostre condoglianze vanno alla vittima e ai suoi parenti. Gli auguriamo una pronta e completa guarigione", ha dichiarato Ziegler. La solidarietà è estesa a tutte le vittime di ostilità e violenza antisemita.
   "In considerazione del reato, il sospetto sarebbe stato percepito come una minaccia nel campus universitario", ha detto Ziegler. "Per proteggere i membri dell'università e per salvaguardare la pace dell'università, il divieto, che è stato imposto per un periodo iniziale di tre mesi, è indispensabile".
   Secondo l'università, circa 40.000 persone provenienti da oltre 150 nazioni con origini e affiliazioni religiose diverse studiano, insegnano, ricercano e lavorano all'università. "Questa diversità caratterizza l'immagine dell'università", si legge. "L'umanità, il rispetto e la tolleranza sono le pietre miliari della nostra comunità. L'antisemitismo in qualsiasi forma, il razzismo e la discriminazione non sono tollerati".

(Jüdische Allgemeine, 11 febbraio 2024)

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Il maxi tunnel di Hamas sotto al palazzo dell’Unrwa. Netanyahu: a Rafah finiremo entro l’inizio del Ramadan

Il premier programma l’avvio delle operazioni entro due settimane. Prima serve l’ok egiziano.

di Daniele Raineri

L’imminente invasione dell’esercito israeliano a Rafah comincerà «entro due settimane» e dovrà finire «entro il 10 marzo», avrebbe detto il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu secondo la stampa israeliana. Nel primo caso l’avrebbe detto al capo della diplomazia Antony Blinken, per rassicurarlo sul fatto che riuscirà a far evacuare in tempo i civili palestinesi, e nel secondo caso l’avrebbe detto ai suoi generali per ricordare loro che non c’è più tempo: fra un mese comincia il mese sacro di Ramadan e Israele non potrà sfidare per sempre le richieste internazionali di un cessate il fuoco.
   Quattro settimane di tempo quindi per evacuazione e battaglia urbana, con il rischio altissimo che l’operazione di terra dentro l’ultima città non devastata della Striscia si trasformi in un massacro. Ma prima l’esercito israeliano deve trovare un accordo con l’Egitto, che minaccia di sospendere quello di pace del 1979 in caso di operazione di terra contro Rafah.
   Ieri al giorno numero centoventisette di guerra il bilancio ufficiale comunicato dal ministero della Sanità di Gaza - controllato da Hamas - ha superato i ventottomila palestinesi morti. Un bombardamento israeliano ha ucciso 44 persone a Rafah e tra loro ci sono anche il capo dell’intelligence della polizia di Hamas, Ahmed al Yakobi, e altri due ufficiali del gruppo palestinese. Gli aerei israeliani hanno lanciato sulla città anche copie di al Waqah, una pubblicazione in lingua araba dell’esercito israeliano che promette «nient’altro che la verità» e ieri mostrava la foto di un figlio del leader di Hamas, Ismail Haniyeh mentre si godeva la semifinale di Coppa Asia allo stadio in Qatar. Il messaggio alla popolazione di Gaza era: voi siete qui fra sofferenze enormi e loro fanno bella vita all’estero.
   L’esercito israeliano a Gaza City ha trovato un tunnel di Hamas che conteneva quello che descrive come «uno degli asset più importanti e segreti di Hamas: un centro dati sotterraneo con un server usato per l’intelligence e le comunicazioni», e una delle bocche d’ingresso era a pochi metri dal quartier generale dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Il centro segreto era direttamente sotto il palazzo, con l’ovvio intento di proteggerlo dai raid aerei israeliani. Il capo dell’Unrwa, Philippe Lazzarini, ha risposto che l’organizzazione non ne sapeva nulla e le ispezioni periodiche non avevano fatto nascere sospetti. La scoperta si lega alle polemiche nate dopo l’accusa dell’intelligence israeliana contro dodici dipendenti dell’agenzia, poi scesi a sei, che avrebbero partecipato all’attacco del 7 ottobre. L’accusa ha portato alla sospensione dei finanziamenti da parte dei principali Stati sponsor dell’Agenzia

(la Repubblica, 10 febbraio 2024)

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Moody’s abbassa il rating di Israele e declassa l’outlook da “stabile” a “negativo”

L’agenzia di rating Moody’s avverte che “le finanze pubbliche stanno diminuendo” e prevede un onere del debito “materialmente più elevato” a causa della guerra a Gaza; l’outlook viene abbassato a causa del “rischio di escalation” con Hezbollah,

L’agenzia di rating statunitense Moody’s ha abbassato il rating del credito di Israele a causa dell’impatto della guerra in corso con Hamas a Gaza, abbassandolo di una tacca da A1 ad A2.
   In un comunicato, Moody’s ha dichiarato di averlo fatto dopo aver valutato che “il conflitto militare in corso con Hamas, le sue conseguenze e quelle più ampie aumentano materialmente il rischio politico per Israele, oltre a indebolire le sue istituzioni esecutive e legislative e la sua forza fiscale, per il prossimo futuro”. L’agenzia di rating ha anche abbassato le prospettive del debito israeliano a “negative” a causa del “rischio di un’escalation” con il gruppo terroristico libanese Hezbollah, molto più potente, che opera lungo il confine settentrionale.
   In una rara dichiarazione rilasciata durante lo Shabbat, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha minimizzato la decisione di Moody’s. “L’economia israeliana è forte. Il declassamento del rating non è legato all’economia, ma è interamente dovuto al fatto che siamo in guerra”, ha detto il premier.
   “Il rating tornerà a salire nel momento in cui vinceremo la guerra – e la vinceremo”, ha previsto. La guerra a Gaza è stata scatenata dopo il devastante attacco guidato da Hamas del 7 ottobre, in cui i terroristi palestinesi hanno ucciso circa 1.200 persone, per lo più civili, e ne hanno prese 253 in ostaggio nella Striscia di Gaza. In risposta, Israele ha lanciato attacchi aerei e un’offensiva di terra con l’obiettivo di rovesciare il governo di Hamas a Gaza e restituire gli ostaggi.
   Secondo il ministero della Sanità di Gaza, controllato da Hamas, sono morte almeno 27.947 persone nell’enclave, una cifra non verificata che non distingue tra combattenti e civili e che si ritiene includa anche i palestinesi uccisi a causa di missili erranti lanciati da gruppi terroristici nella Striscia. In seguito all’attacco, S&P Global Ratings ha abbassato le prospettive di credito di Israele da stabili a negative per il rischio che il conflitto tra Israele e Hamas si allarghi.
   Fitch, l’ultima delle tre grandi agenzie di rating statunitensi, ha posto Israele sotto osservazione negativa per i rischi derivanti dal conflitto. “L’indebolimento del contesto di sicurezza implica un rischio sociale più elevato e indica istituzioni esecutive e legislative più deboli rispetto a quanto valutato in precedenza da Moody’s”, ha dichiarato venerdì l’agenzia di rating nel comunicato che spiega la sua decisione.
   “Allo stesso tempo, le finanze pubbliche israeliane stanno diminuendo e la tendenza al ribasso del rapporto debito pubblico/PIL precedentemente prevista si è invertita”, ha proseguito l’agenzia.
   “Moody’s prevede che l’onere del debito di Israele sarà materialmente più alto di quanto previsto prima del conflitto”, ha aggiunto. L’annuncio di Moody’s è arrivato mentre la coalizione sta portando avanti un bilancio di guerra emendato per il 2024, che mercoledì ha superato la prima delle tre letture del plenum della Knesset per diventare legge.
   Per pagare l’aumento della spesa per la difesa di circa 70 miliardi di NIS (18,6 miliardi di dollari), il bilancio prevede un taglio lineare del 3% a tutti i ministeri, con alcune eccezioni. Inoltre, taglia circa 2,5 miliardi di NIS (670 milioni di dollari) su 8 miliardi di NIS di fondi di coalizione – fondi discrezionali destinati a progetti di MK e ministri – e contiene un obiettivo di deficit del 6,6% del PIL.
   In particolare, l’attuale piano non contiene alcuna disposizione per ridurre il numero di dipartimenti governativi, nonostante la raccomandazione del Ministero delle Finanze di chiudere 10 ministeri superflui – tra cui il Ministero degli Insediamenti e delle Missioni Nazionali, il Ministero di Gerusalemme e della Tradizione Ebraica e il Ministero dell’Intelligence – per coprire il deficit bellico.
   Prima del voto di mercoledì, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha presentato il bilancio come un pacchetto di spesa responsabile che fornirà le risorse necessarie a Israele per raggiungere la vittoria contro Hamas, pur notando che le spese sostenute durante la guerra non scompariranno con la fine delle ostilità.
   “Alcune delle vulnerabilità ci accompagneranno nel prossimo futuro e graveranno sull’economia. Questo è un punto di svolta nell’economia israeliana che richiede la mobilitazione del governo e di tutti noi come società”, ha affermato. La guerra con Hamas – iniziata il 7 ottobre quando il gruppo terroristico ha condotto un attacco transfrontaliero a sorpresa, uccidendo circa 1.200 persone, la maggior parte delle quali civili, e prendendo in ostaggio circa 240 persone – starebbe costando a Israele almeno 1 miliardo di NIS (269 milioni di dollari) al giorno.

(Israele360, 10 febbraio 2024)

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Un sermone di Joseph Rabinowitz

La settimana scorsa abbiamo presentato un libro sulla figura e l’opera di Joseph Rabinowitz. Dallo stesso libro riportiamo il testo di un sermone che tenne nell’aprile 1891, in occasione del “Venerdì Santo”.

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«Per amor tuo, io soffro vituperio e la vergogna mi copre la faccia» (Salmo 69,7)
«Gli si inginocchiarono davanti, lo schernivano: Salve, re dei Giudei!» (Matteo 27,29)

Cari amatissimi figli di Israele! Esaltiamo insieme l'Eterno, Dio di Israele, che cambia i tempi e le stagioni, avviciniamoci a Lui con preghiere di ringraziamento, a Lui che, secondo la Sua bontà, ha ordinato il mutare dei tempi. Per molti secoli, gli ebrei in questa settimana, quella che precede il santo Pesach, hanno sempre vissuto con grande ansietà, per timore di attirarsi, con parole o azioni, l'ira dei cristiani, la cui ostilità emergeva, facilmente, in questo periodo, perché i padri degli ebrei, prima di Pesach, avevano consegnato Gesù Cristo, per essere flagellato e crocifisso.
Questa ira dei cristiani è costata agli ebrei molto sangue, non sorprende che gli ebrei, da parte loro, mostrino risentimento, quando questa settimana si avvicina, anche al più piccolo ricordo della storia, macchiata di sangue, di Gesù di Nazareth, che l'intero mondo cristiano considera il Cristo, il Figlio del Dio vivente.
Per gli ebrei è doloroso pensare che questa storia sia divenuta un'eredità perpetua, per quasi tutto il mondo, per tutti i popoli. Questa settimana importante era diventata, ugualmente difficile, per entrambe le parti, ma grazie a Dio ora, per la sua bontà ed amore, Egli ha concesso a noi figli di Israele, la libertà di trovarci assieme, nel nostro santuario, in questa grande settimana, nel giorno che ci ricorda la crocifissione di Gesù Cristo, come tutti i veri cristiani possiamo, mediante il Suo Santo Nome e i libri del Vecchio e Nuovo Testamento, arrivare alla conoscenza di questo eterno dramma divino, questa terribile non meritata morte, che il Redentore del mondo ha preso su di sé, con amore e umiltà.
In verità, è la nostra gratitudine, senza confini, verso il Padre Celeste, che ha dato a tutti noi, ebrei e agli altri popoli, in un tempo in cui l'intelletto umano è in rapido progresso, in mezzo ad una fresca fioritura di scienza e di arti, l'opportunità di riconoscere e aprire gli occhi su Gesù, crocefisso e schernito. Proprio come fece il giusto Simeone, quando vide il bambino in braccio a sua madre e riconobbe la salvezza che Dio aveva preparato per tutto il popolo, la luce per illuminare i gentili e la gloria del Suo popolo Israele (Luca 2,31-32).
Ciò che i vecchi occhi del giusto Simeone videro, grazie alla potenza dello Spirito Santo, gli orgogliosi ebrei non poterono vedere, né gli ignoranti e arditi romani. Per il sommo sacerdote Caifa, guida del popolo ebreo, fu facile decidere la morte di Gesù, argomentando che «Fosse conveniente, per noi, che un solo uomo muoia per il popolo, piuttosto che perisca l'intera nazione» (Giovanni 11,50). Non gli venne in mente che quello stesso Gesù, era l'unica persona che forniva prova di essere il Redentore, non solo per i peccati del popolo ebreo, ma anche per quelli di tutta l'umanità. Come disse il profeta: «Egli portò i peccati di molti» (Isaia 53,12).
Nemmeno per il governatore dei gentili a Gerusalemme, il proconsole Pilato. fu difficile consegnare, alla leggera, Gesù agli ebrei dicendo: «Ecco l'uomo!» (Giovanni 19,5). Non aveva la ben che minima idea che gli uomini diventano tali, nel vero senso della parola, solo quando il quadro dell'uomo/Dio, Gesù, è perpetuamente davanti ai loro occhi ed essi seguono con fermezza i Suoi passi.
Solo più tardi, i gentili rigenerati entrarono più pienamente nelle parole «Ecco l'uomo!», parole che furono pronunciate dal loro antico governatore. E molti tra i figli di Israele cominciarono ad ascoltare: «È conveniente, per noi, che un solo uomo muoia per il popolo, piuttosto che perisca l'intera nazione».
Oggi, giorno che ci ricorda le sofferenze e la morte che Gesù Cristo ha preso su di sé a causa dei peccati degli ebrei e dei gentili, dobbiamo unirci con tutti gli uomini,che sinceramente credono che il prezioso e santo sangue del Figlio di Dio, Gesù, lava tutti noi che siamo peccatori, ebrei e gentili. In ginocchio dobbiamo chiedere a Dio Padre:

  1. che Egli possa aprire i nostri occhi, sempre di più, in modo che possiamo vedere in Gesù Cristo la salvezza che Egli ha preparato per tutti i popoli, la redenzione che lava ogni credente dai suoi peccati
  2. che Egli possa versare il Suo Santo Spirito su noi tutti, per far capire a noi ebrei e ai gentili che Gesù Cristo non è venuto nel mondo per seminare conflitti e odio tra gli uomini, ma per permetterci di riconoscere le parole sante dell' apostolo Paolo: «Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due popoli uno e ha demolito il muro di separazione» (Efesini 2,14)
  3. che Egli possa aiutarci ad abbandonare l'uomo vecchio con i suoi peccati e la morte, diventare un uomo completamente nuovo, mediante la vera fede in Gesù, di cui lo Spirito Santo, per bocca di Pilato disse: «Ecco l'uomo!»

Con stupore e timore, rimaniamo in silenzio davanti alla profonda e sconfinata fede che i santi Evangelisti Matteo, Marco, Luca e Giovanni avevano in Gesù Cristo come Messia, il Figlio di Davide, il Re dei Giudei. Dobbiamo ricordare che tutti e quattro i Vangeli furono scritti nel primo secolo, dopo la nascita, la vita terrena, la morte e la resurrezione del Redentore. Accadde quando la gente delle classi elevate della società, considerò con disprezzo quei piccoli libri che parlavano di un Gesù ebreo crocifisso.
Questo avvenne quando era considerato folle e veniva deriso chi apertamente si azzardava a restare nella propria fede in Gesù, il Figlio del Dio vivente, che risorse dai morti e ascese al cielo come Eterno Re sopra la casa di Giacobbe. In tali circostanze, si può pensare che gli Evangelisti fossero piuttosto preoccupati per gli insegnamenti e le parabole che presentavano la vita di Cristo prima che fosse consegnato nelle mani degli ebrei. Vediamo, però, che prestano più attenzione e danno maggiore spazio alle sue sofferenze, si curano di dare ai posteri, una completa descrizione delle derisioni cui Egli fu sottoposto prima della crocifissione e mentre veniva inchiodato sulla croce.
Se per un momento accettiamo le idee del Talmud sugli Evangelisti, cioè che fossero ignobili ingannatori che con varie favole riuscirono ad impressionare le masse semplici per tirarle dalla propria parte, allora si presenta necessariamente la questione: perché non hanno taciuto la morte ignominiosa e non si sono gloriati, raccontando la coraggiosa ed eroica fine della Sua vita? Lo scopo degli Evangelisti era, evidentemente, diverso.
Nella loro descrizione della passione di Gesù, non hanno accentuato i colori per strappare lacrime dagli occhi e compassione dai cuori; non si sono dilungati nel proprio dolore, con lamenti rigati di lacrime, come aveva fatto Geremia al tempo della distruzione di Gerusalemme. Non sentiamo né gemiti né sospiri provocati dalla morte del Redentore. Loro conoscevano bene il Suo desiderio che il popolo non piangesse su di Lui (Luca 23,28). No, essi scrissero i loro Vangeli sull'umiliazione e le sofferenze di Gesù con un divino, sublime, celestiale sorriso sui loro volti, con il riso di cui parla il salmista: " ... Colui che siede ne' cieli, ne riderà ... " (Salmo 2,4). La loro intenzione era di far emergere con maggiore chiarezza l'ignoranza degli uomini, la loro miseria e cecità, affinché comprendessero che i loro poteri e la loro volontà sono privi di significato, che Dio compie la Sua volontà senza che loro la riconoscano, che essi sono soltanto strumenti nelle Sue mani, adempiendo unicamente ciò che Egli ha preordinato, anche se sono convinti di agire secondo la propria volontà.
Gli Evangelisti narrano, nei dettagli, come Gesù fosse stato deriso e svergognato. Allo stesso tempo, raccontano completamente la grande opera che è piaciuta a Dio di adempiere per mezzo loro e portarla a compimento tramite quelli che l'hanno biasimato.
Mentre noi, dopo milleottocento anni, leggiamo dell'ignominia alla quale il Redentore è stato sottoposto, poniamo ai figli del XIX secolo questa domanda: "Chi comprese, prima degli altri, la grande missione di Gesù di Nazareth?' Furono le migliaia di ebrei, farisei e scribi, sadducei e soldati romani che si presero beffe di lui e gridarono: "Crocifiggilo!”?Oppure furono i semplici, i comuni pescatori che in fede hanno creduto in Gesù come Figlio del Dio vivente, il Salvatore del mondo, l'eterno Figlio di David, che Egli era il Re degli ebrei? Non è forse la corona di spine, che per scherno coprì la sua testa, diventata la più preziosa di tutte le corone del mondo? Non è forse vero che i suoi nemici, che per scherno si inchinarono davanti a Lui, si sono poi trasformati in milioni di persone devote che piegano il ginocchio davanti a Lui?
È venuto anche il momento di convincersi che le parole di scherno dei nemici di Cristo: "Salve, re dei Giudei!' in realtà possano facilmente adempiersi, affinché per volontà di Dio gli ebrei possano risorgere, come gli altri popoli, e diventare una nazione vivente; questo avverrà quando perverranno alla fede nel Messia del loro popolo e di tutti i popoli, Gesù di Nazareth, il Re dei Giudei.
Che accesa e forte fede, che vivente e potente fiducia riempiva i cuori degli Evangelisti, così che poterono descrivere tutte le sofferenze e gli insulti ai quali il loro Messia fu esposto da parte dei suoi contemporanei! Si può chiedere da dove ottenessero, i discepoli di Gesù, tale fede, e la profonda convinzione che il Gesù schernito e crocifisso fosse davvero il Signore e il Re del mondo. Io non parlo del modo in cui la fiducia di gente semplice e di pii ebrei fu adempiuta, ma io chiedo: "Da dove ottennero essi stessi tale fiducia?" È vano cercare la risposta nei dati storici e negli eruditi, noi troviamo la risposta negli stessi Evangelisti, in Luca 24,25-30. Egli racconta che dopo la Sua resurrezione dalla morte, Egli chiamò due dei suoi discepoli, lenti a capire le Sacre Scritture e i profeti, e spiegò loro che quanto era accaduto, era l'adempimento delle profezie su di Lui, che il Cristo doveva soffrire e poi entrare nella sua gloria.
Le Sacre Scritture sono la fonte della loro fede! La costante lettura di tali libri, ispirati da Dio, aprì i loro occhi e li aiutò a vedere, in tutte le sofferenze del Cristo, la sua infinita e immutabile gloria. Questi libri, di cui Gesù disse che non un solo iota sarebbe rimasto inadempiuto, dettero loro anche la fede che li convinse e che convincerà il mondo intero.
Cari amatissimi fratelli! Io credo, fermamente e pienamente, che anche voi, sulla base del Salmo 69, che abbiamo letto, che senza dubbio il Redentore lesse ai suoi discepoli, siate capaci di arrivare alla convinzione che il disprezzato e crocifisso Gesù, sia il Cristo, il glorificato Re degli ebrei, che siede alla destra del Padre, fino a che ogni cosa, in cielo e sulla terra, sia assoggettata a Lui, e mediante Lui riconciliata a Dio Padre. Così pregate il Padre Celeste che ci aiuti a comprendere le parole del santo salmista, che guidato dallo Spirito disse:

      Salmo 69
      4  Quelli che mi odiano, senza motivo, sono più numerosi
          dei capelli del mio capo
      8  Sono diventato un estraneo per i miei fratelli.
      
    9  gli oltraggi di chi ti oltraggia sono caduti su di me
    20  ho aspettato chi mi confortasse, ma invano; ho atteso
         chi mi consolasse, ma non ci fu alcuno.
    21  Mi hanno dato fiele come cibo, per dissetarmi
          mi hanno dato da bere aceto
    29  Io sono afflitto e addolorato; la tua salvezza, o Dio,
          mi levi in alto
    35  Poiché Dio salverà Sion.

Dovete imprimere nella vostra memoria le rilevanti parole: "Dio salverà Sion ... " e dovete comprendere che tutte le sofferenze di Gesù avevano questo scopo. Il vostro cuore vivrà se cerca Dio. Nuovi cieli e nuova terra saranno creati, "Lo lodino i cieli e la terra", e i tre concetti: Dio, salvezza e Sion saranno trasformati in una unità indissolubile.
Gesù mostrò che fu per volontà del Padre che egli sopportò il biasimo, ma il Padre Celeste ha anche mostrato di avere esaudito la preghiera di Suo figlio:

    "Non siano confusi quelli che Ti cercano per amore mio, O Dio di Israele" (Salmo 69,6)

Non vergognatevi di Gesù crocifisso! Dovete credere che Dio Gli ha dato il potere di vedere la fondazione della nuova Gerusalemme e che la promessa sarà adempiuta: "Chi ama il Suo nome, vi abiterà" (Salmo 69,36). Amen.


(Notizie su Israele, 11 febbraio 2024)


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Netanyahu ha ordinato all'IDF di prepararsi per una "massiccia operazione" a Rafah

Da almeno tre settimane, lo Stato Maggiore dell'IDF si sta preparando per l'occupazione della città della Striscia di Gaza.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato venerdì di aver ordinato all'IDF e ai servizi di sicurezza di prepararsi per una "massiccia operazione" a Rafah, con l'obiettivo di sconfiggere i quattro battaglioni di Hamas che ritiene stiano operando nella città più meridionale della Striscia di Gaza. In una dichiarazione, l'ufficio di Netanyahu ha detto che il piano affronterà anche la necessità di evacuare la popolazione civile da Rafah, che è diventata una città rifugio con circa 1,4 milioni di palestinesi che vivono lì. 
  In realtà, lo stato maggiore di Tsahal si sta preparando all'occupazione di Rafah da almeno tre settimane. 
  L'esercito israeliano ha già approvato e convalidato il piano preparato per l'operazione a Rafah, che include anche un riferimento all'evacuazione dei civili. Nella sua dichiarazione, l'ufficio di Netanyahu ha affermato: "È impossibile raggiungere l'obiettivo di guerra di eliminare Hamas e lasciare quattro battaglioni di Hamas a Rafah. D'altra parte, è chiaro che un'operazione forte a Rafah richiede l'evacuazione della popolazione civile. Per questo motivo il Primo Ministro ha chiesto all'IDF e all'establishment della sicurezza di presentare al Gabinetto un doppio piano, per evacuare la popolazione e sciogliere i battaglioni. 
  Un funzionario israeliano senza nome ha dichiarato ieri sera alla Reuters che prima di un'operazione a Rafah, Israele autorizzerà l'evacuazione dei civili dalla città a nord della Striscia di Gaza. I segni di preparazione per l'operazione di Rafah sono apparsi per diversi giorni, in un contesto di pressione su Hamas nell'ambito dei negoziati per un accordo. I colloqui sono giunti a un punto morto dopo la risposta di Hamas, definita "delirante" da Netanyahu, che chiede la fine della guerra, il ritiro di Tsahal dalla Striscia di Gaza e il rilascio di massa dei terroristi "pesanti". Gli Stati Uniti hanno annunciato ieri di essere contrari a un'operazione a Rafah, avvertendo che senza "un'attenta considerazione", un'azione nella città potrebbe portare a un "disastro".

(i24, 10 febbraio 2024)

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Tutti gli errori di Israele che hanno portato all’incubo di Rafah

di Lazar Berman

Philadelphi Route
Dopo decenni di sforzi per tenere sotto controllo la minaccia di Hamas, la città più meridionale di Gaza, Rafah, e la Philadelphi Route che la collega al confine con l’Egitto, rappresentano ancora una volta un grosso problema per Israele.
I palestinesi hanno iniziato a scavare tunnel sotto le recinzioni di confine di Israele durante la Prima Intifada alla fine degli anni ’80 e, nei decenni successivi, le Forze di Difesa Israeliane hanno provato una serie di metodi per scoprire i tunnel e impedire ai gruppi terroristici di introdurre nuove armi letali.
  L’attenzione si è concentrata sulla Philadelphi Route, la strada di sicurezza di 14 chilometri che divide le sezioni gazane ed egiziane di Rafah. Ma si trattava di un lavoro pericoloso. Durante la Seconda Intifada, il corridoio è stato il luogo in cui 13 soldati dell’IDF sono stati uccisi nel disastro APC del 2004, e Hamas è riuscito a far esplodere degli esplosivi sotto l’avamposto JVT, uccidendo cinque soldati.
  Nonostante le obiezioni dei servizi di sicurezza israeliani e di molti funzionari, Israele si è ritirato dalla Philadelphi Route nel ritiro da Gaza del 2005. Israele ha permesso all’Egitto di introdurre 750 guardie di frontiera pesantemente armate, che però non sono riuscite a impedire un massiccio aumento del contrabbando nella Striscia.
  Quando Hamas ha espulso con la forza l’Autorità Palestinese da Gaza nel 2007, ha usato i tunnel – e l’occasionale distruzione della barriera di confine con l’Egitto – per riempire le proprie casse e costruire le proprie capacità militari.
  Ora, quattro mesi dopo che Hamas ha usato quelle armi per massacrare 1.200 israeliani e prenderne in ostaggio altre centinaia, Rafah è diventata una questione intricata per la leadership di Israele, che minaccia di far deragliare l’intero sforzo bellico.
  Con l’eccezione di Rafah, le forze israeliane hanno manovrato in tutte le città di Gaza e hanno spinto i combattenti di Hamas nella clandestinità. È difficile immaginare che Israele riesca a raggiungere il suo obiettivo di guerra di rovesciare Hamas se non prende Rafah. La maggior parte dei battaglioni di Hamas ancora funzionanti si trova in città e, se Israele non prende il controllo dell’area di confine, l’organizzazione terroristica al potere a Gaza potrà riprendere a contrabbandare nuove armi – e potenzialmente ostaggi o leader di alto livello – quando i combattimenti finiranno.
  Il primo ministro Benjamin Netanyahu lo ha detto venerdì. “È impossibile raggiungere l’obiettivo bellico di eliminare Hamas lasciando quattro battaglioni a Rafah”, ha dichiarato il suo ufficio in un comunicato.

• UN CRESCENTE GRATTACAPO STRATEGICO
  Ma le circostanze diventano ogni giorno più problematiche per Israele.
  Fin dall’inizio della guerra, Israele ha detto ai gazesi di spostarsi verso sud, e oltre 1 milione di civili si trovano ora nella città e nei suoi dintorni.
  L’Egitto ha avvertito che qualsiasi operazione di terra o spostamento di massa oltre il confine minerebbe il suo trattato di pace con Israele, che dura da quattro decenni.
  “La prosecuzione degli attacchi israeliani su aree densamente popolate creerà una realtà invivibile. Lo scenario di uno sfollamento di massa è una possibilità. La posizione egiziana al riguardo è stata molto chiara e diretta: Siamo contrari a questa politica e non la permetteremo”, ha dichiarato un portavoce del Ministero degli Esteri egiziano.
  Le immagini circolate nelle ultime settimane sui social media hanno mostrato l’Egitto che sembra aver rafforzato le sue difese al confine, con ulteriori muri e filo spinato.
  Anche gli Stati Uniti sono stati sempre più categorici nel mettere in guardia sulle conseguenze di un’operazione a Rafah.
  Il vice portavoce del Dipartimento di Stato americano Vedant Patel ha dichiarato giovedì che gli Stati Uniti “non hanno ancora visto alcuna prova di una seria pianificazione di tale operazione”, aggiungendo: “Condurre un’operazione del genere in questo momento, senza alcuna pianificazione e senza alcuna riflessione, in un’area” dove un milione di persone sono rifugiate “sarebbe un disastro”.
  La Casa Bianca ha lanciato un avvertimento simile.
  “Qualsiasi grande operazione militare a Rafah in questo momento, in queste circostanze, con più di un milione – probabilmente più di un milione e mezzo – di palestinesi che cercano rifugio e hanno cercato rifugio a Rafah senza la dovuta considerazione per la loro sicurezza sarebbe un disastro e non la sosterremmo”, ha dichiarato ai giornalisti il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale John Kirby.
  Aspettare così a lungo per affrontare l’area strategica di confine ha già reso meno probabile che l’IDF sia in grado di farlo, almeno alle condizioni che desidera.
  Rimandare la conquista di Rafah e del confine potrebbe trasformarsi nel più grande errore strategico dell’operazione di terra di Israele contro Hamas.

• UN PIANO CANCELLATO
  Le radici della cattiva gestione della guerra risalgono ad anni prima del suo scoppio.
  Quando il 7 ottobre le jeep di Hamas si sono riversate attraverso decine di brecce nella modernissima recinzione di confine, era quasi un decennio che l’IDF non aveva un piano operativo pronto per conquistare la Striscia di Gaza e sconfiggere Hamas.
  Il Gen. Sami Turgeman, capo del Comando meridionale dell’IDF durante l’operazione Protective Edge nel 2014, ha assunto la sua posizione e ha scoperto che non esisteva un piano del genere. Yoav Gallant, che era in carica quando Hamas ha preso il controllo della Striscia nel 2007, si è rifiutato di crearne uno, e nessuno ha deciso di farlo nonostante i combattimenti contro Hamas.
  Il piano di Turgeman prevedeva tre opzioni, la più grande delle quali prevedeva la presa di controllo di Gaza. La più piccola prevedeva assalti delle brigate dell’IDF contro i battaglioni di Hamas.
  L’opzione media, chiamata Kela David (Fionda di Davide), avrebbe tagliato fuori Gaza City e la Striscia settentrionale da sud, utilizzando la Divisione 162 a nord della città e la Divisione 36 a sud.
  Il piano per la riconquista di Gaza prevedeva che quattro divisioni attaccassero simultaneamente, aggiungendo un assalto della Divisione 98 a Khan Younis e della Divisione 252 a Rafah. Ogni città sarebbe stata isolata dalle altre entro due settimane, e ai civili sarebbero state offerte zone protette lungo la costa. Dopo la rapida conquista della Striscia, sarebbe iniziata la fase di sgombero nelle città.
  Questo piano è stato presentato al gabinetto all’inizio dell’operazione Protective Edge, ma è stato rifiutato.
  Tuttavia, l’esistenza di un piano operativo ben preparato ha avuto dei risultati sul campo.
  “I piani operativi del Comando meridionale per il combattimento nella Striscia di Gaza sono stati aggiornati e approvati”, ha scritto il col. Avi Dahan nella rivista dell’IDF Ma’arachot. “Nel Comando Sud, nella Divisione Gaza e nelle divisioni interforze, si sono svolti processi operativi approfonditi, sono stati preparati preparativi completi per la battaglia e sono stati eseguiti processi di apprendimento e formazione professionale”.
  Questi processi, sostiene Dahan, “hanno aumentato la fiducia professionale dei comandanti e dei soldati, hanno amplificato la preparazione fisica e mentale e hanno migliorato la familiarità con il nemico e il terreno di Gaza”.
  Dopo che Turgeman se ne è andato nel 2015, il suo piano operativo è stato successivamente cancellato e non sostituito da nessuno dei suoi successori, tra cui l’attuale Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi.
  La conquista di Gaza è stata considerata irrealistica, data la chiara avversione della leadership politica a considerare anche solo la possibilità di riassumere la responsabilità per due milioni di gazesi.
  “Le risorse sono limitate”, ha dichiarato un ufficiale che ha lavorato ai piani operativi per Gaza in quel periodo, “e non c’era alcun desiderio di investire risorse in un piano che non aveva alcuna possibilità di essere utilizzato”.

• INCURSIONE INDECISA
  La mancanza di un piano per rovesciare Hamas ha avuto un impatto sul modo in cui l’IDF ha combattuto dopo il 7 ottobre. Poiché aveva bisogno di tempo per elaborare i piani, l’IDF ha aspettato tre settimane per ordinare l’incursione di terra a Gaza, non sfruttando le immediate conseguenze degli attacchi di Hamas, quando la simpatia per Israele era al massimo grazie agli attacchi aerei che hanno iniziato a mietere vittime tra i civili gazani.
  Questo ha influito anche sull’intelligence che Israele possedeva. Se non c’era la possibilità di manovrare in profondità a Gaza, non c’era motivo di spendere risorse per mappare i tunnel di Hamas che non si dirigevano verso Israele.
  Questa scelta ha rallentato notevolmente le operazioni dell’IDF e le ha rese molto più pericolose per le forze di manovra.
  E quando l’incursione è arrivata a fine ottobre, non è stata combattuta in modo aggressivo per massimizzare i vantaggi israeliani.
  “Quando l’offensiva è finalmente iniziata, sembrava che alcune delle sue azioni fossero radicate nel concetto di manovra indecisiva”, ha scritto il generale di brigata (ris.) Eran Ortal. “Tra un approccio decisivo volto a conquistare rapidamente posizioni nemiche cruciali e uno volto a eliminare i terroristi ovunque si trovassero, le manovre dell’IDF erano più in linea con il secondo. Un approccio di manovra richiederebbe molteplici sforzi simultanei per impedire all’avversario di ritirarsi e riorganizzarsi”.
  “Un’offensiva di questo tipo avrebbe dovuto iniziare il più rapidamente possibile, con la massima forza, dirigendosi verso più località contemporaneamente”, ha continuato Ortal.
  Dirigersi prima verso Gaza City aveva perfettamente senso dal punto di vista strategico. I battaglioni di Hamas più efficaci in termini di lancio di razzi si trovavano nel nord della Striscia e la loro portata sarebbe stata in qualche modo limitata se Hamas avesse dovuto sparare da più a sud.
  Gaza City era anche il centro delle capacità di governo di Hamas.
  Ma non è chiaro perché le forze dell’IDF non abbiano preso Rafah allo stesso tempo, come previsto nel piano per la riconquista di Gaza. In quel momento c’erano molti meno civili, il che rendeva più facile per l’Egitto e gli Stati Uniti accettare una grande operazione in quella zona.
  E meno di un mese dopo le atrocità di Hamas – e prima che le vittime gazane avessero raggiunto livelli senza precedenti – ci sarebbe stato molto meno spazio a livello internazionale per criticare Israele mentre dava il via alla sua operazione di terra.

• NESSUN COMPROMESSO?
  Per ora, i leader israeliani promettono che prenderanno Rafah. Mercoledì Netanyahu ha ordinato alle truppe di “prepararsi a operare” a Rafah, dopo aver respinto le “richieste deliranti” di Hamas nei colloqui per l’accordo sugli ostaggi.
  Secondo il funzionario israeliano, non ci sarebbe “nessun compromesso” nel rovesciare Hamas militarmente e politicamente, il che significherebbe operare a Rafah.
  Un secondo funzionario israeliano ha dichiarato giovedì che l’operazione a Rafah non sarà un assalto su larga scala da parte di un’intera divisione, come l’attuale operazione a Khan Younis, ma sarà invece organizzata con raid mirati.
  Le forze israeliane hanno anche intensificato gli attacchi aerei sulla città e le notizie in lingua araba dicono che le forze di terra dell’IDF si stanno avvicinando ai margini di Rafah.
  Nulla di tutto ciò significa, tuttavia, che un’operazione sia scontata. Un ordine di “prepararsi a operare” è diverso da una direttiva di attacco e, poiché Israele sta ancora cercando di fare pressione su Hamas affinché accetti un accordo sugli ostaggi a condizioni più favorevoli, le minacce di prendere Rafah potrebbero far sembrare più urgente un cessate il fuoco immediato ai leader di Hamas.
  Netanyahu ha dichiarato di riconoscere che “una grande operazione a Rafah richiede l’evacuazione della popolazione civile dalle aree di combattimento” e ha dato istruzioni all’IDF di elaborare un piano per farlo, sconfiggendo al contempo le forze di Hamas nella città.
  È possibile che l’IDF conquisti la città, come promettono Netanyahu e la sua leadership bellica. Ma la missione sarebbe stata molto più sicura se la leadership politica e militare di Israele avesse preso più seriamente la minaccia di Hamas prima del 7 ottobre e avesse elaborato un piano più aggressivo nelle settimane successive.

(Rights Reporter, 10 febbraio 2024)

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Con questi amici chi ha bisogno di nemici?

di David Elber

A poche ore dall’eccidio di ebrei commesso il 7 ottobre dai terroristi palestinesi di Hamas, Joe Biden e diverse figure di spicco della sua amministrazione si sono mostrate – come nessun altro – vicine nel dolore allo Stato ebraico. Successivamente, un po’ alla volta, la vicinanza iniziale e il grande sostegno militare americano, sono state sostituite da una realpolitik che ha sempre più penalizzato Israele, fino ad assumere un carattere che si può definire ostile. Ne esamineremo i tratti principali.
   Nell’immediatezza del 7 ottobre, Biden fece un discorso di fraterna vicinanza rivolto all’intero popolo ebraico colpito da un massacro che non si vedeva dai tempi della Shoah. Oltre alla vicinanza a parole, l’amministrazione americana si è adoperata molto per fare arrivare in Israele le munizioni indispensabili per l’offensiva a Gaza finalizzata a eliminare Hamas. Non è passato molto tempo, tuttavia, prima del levarsi delle esortazioni americane a limitare al massimo la morte dei civili, utilizzati da Hamas come scudi umani dietro ai quali nascondere le proprie forze militari e le infrastrutture belliche. Questa condotta, (già sperimentata da oltre 10 anni) oltre che essere in piena violazione del diritto internazionale, per le leggi di guerra rende le infrastrutture civili dei legittimi obiettivi militari, come è sempre successo anche per le guerre condotte dagli Stati Uniti e dalla NATO. Pur conoscendo perfettamente questa realtà, l’Amministrazione Biden non ha mai cessato un momento a richiamare Israele alla tutela dei civili, in un teatro di guerra urbano, dove tutte le strutture civili sono state trasformate in strutture militari nel corso degli anni. Trasformazione urbana di cui sia gli Stati Uniti che la UE sono i maggiori responsabili, avendo per anni finanziato e incentivato l’ingresso di materiali edili senza nessun controllo.
   Analizzando oggettivamente le cifre delle vittime civili, prendendo per vere quelle rilasciate dai terroristi di Hamas, che fanno riferimento a 27.000 vittime complessive senza distinguere tra civili e terroristi, (quelle rilasciate dall’esercito israeliano riferiscono di oltre 10.000 terroristi uccisi), si scopre che il rapporto tra vittime militari e civili è di 1 a 1,7 circa. Si tratta del rapporto tra vittime militari e civili più basso mai registrato in un conflitto militare. Molto più basso di un qualsiasi conflitto al quale hanno partecipato gli Stati Uniti o la NATO o qualsiasi altro paese al mondo. Il dato è stato certificato anche da John Spencer, il maggiore esperto di guerra urbana di West Point. Nonostante ciò, da parte della Casa Bianca, dall’inizio della guerra non sono mai cessate esortazioni a limitare le vittime civili insieme alle critiche per il numero dei morti registrato fino ad ora e considerato troppo alto. La ragione di ciò è esclusivamente determinata dalla politica interna americana. A monte c’è stato una sorta di commissariamento del Gabinetto di guerra e delle sue decisioni, che non ha precedenti.
   Se gli Stati Uniti hanno potuto spingersi così avanti la colpa è senza dubbio dei vertici politici e militari israeliani che hanno messo il paese alla totale dipendenza americana. Al quadro si è aggiunto un sempre più evidente ritardo nelle consegne di munizionamento indispensabile per le operazioni militari, che, come conseguenza, hanno subito un evidente rallentamento.
   L’ultima ingerenza in ordine cronologico, da parte dell’Amministrazione Biden, è relativa ai lavoratori stranieri. Anche in questo caso gli Stati Uniti vogliono avere l’ultima parola su chi può o non può entrare in Israele per lavorare. Siccome Israele ha bloccato l’accesso, per motivi di sicurezza, a oltre 60.000 lavoratori palestinesi, che quotidianamente lavoravano nel paese, (l’80% dei palestinesi ha dichiarato di appoggiare Hamas per il massacro del 7 ottobre), ha iniziato a stringere accordi con India, Sri Lanka e altri paesi per sostituire i lavoratori palestinesi. Agli americani non è piaciuto, quindi si sono attivati subito per accusare pretestuosamente Israele di presunte “violazione di traffico di esseri umani” in modo da costringerlo a riprendersi i lavoratori palestinesi filo Hamas. Non è stato sufficiente. E qui inizia la politica dolosa americana (sempre per ragioni elettorali) che ha permesso la criminalizzazione di Israele a livello internazionale e soprattutto sta mettendo a serio repentaglio l’esistenza stessa dello Stato ebraico, continuando a ribadire in modo ossessivo la necessità della costituzione di uno Stato palestinese.
   L’idea stessa della nascita di uno Stato palestinese che conviva pacificamente a fianco di quello ebraico, dopo quanto è accaduto il 7 ottobre pare una beffa . Dopo 30 anni di intransigenza palestinese in merito ad ogni accordo, tentare di obbligare Israele, alla luce dell’eccidio del 7 ottobre, ad accettare la presenza di uno Stato palestinese ha il sapore di un palese regalo politico per un crimine efferato. Quello che non si è riuscito ad ottenere dopo trent’anni di trattative politiche si cerca di imporlo dopo un massacro di 1.200 persone? Se questo premio lo si è ottenuto uccidendo 1.200 civili, quando anche Giudea e Samaria saranno trasformate in una nuova Gaza, quale sarà il premio per un nuovo eccidio? La Palestina dal fiume al mare?
   Non bisogna essere degli esperti per capire che Gaza è stata trasformata in quello che è oggi avendo un confine non controllato da Israele di pochi chilometri con l’Egitto. Cosa accadrà in Giudea e in Samaria con un confine lungo più di dieci volte quello di Gaza?
   Per Antony Blinken sarebbe l’Autorità Palestinese “rinvigorita” (qualunque cosa significhi) a garantire la pace, così come ha fatto a Gaza 15 anni fa? Oppure anche Giudea e Samaria finiranno sotto il controllo di Hamas?
   Sarebbe grazie a Hamas e al 7 ottobre se uno Stato palestinese vedesse la luce per volontà americana, mentre grazie all’AP, dopo trent’anni di corruzione e trattative ferme, non è mai venuto in essere. Chi ne trarrebbe vantaggio politico, Hamas o l’AP?
   Già oggi, in base a tutti i sondaggi, Hamas gode il favore dell’80% dei palestinesi di Giudea e Samaria, con la nascita di uno Stato palestinese il suo consenso diminuirebbe o aumenterebbe? Quando mai gli americani hanno ottemperato alla promessa di uno Stato demilitarizzato? Se è così semplice perché Gaza è diventata quello che diventata? O il sud del Libano dopo 15 anni dalla Risoluzione 1701 che ne chiedeva la smilitarizzazione? Perché gli americani se ne sono dovuti andare dall’Afghanistan dopo vent’anni di occupazione e il regime che hanno instaurato non è durato neanche un mese dal loro ritiro?
   Gli americani sono ben consci dell’impossibilità pratica di queste idee che hanno il solo scopo di fare risalire il gradimento di Biden agli occhi dell’elettorato musulmano americano e di quello di sinistra tra i democratici a spese della vita di migliaia di civili israeliani.
   In vista delle elezioni che vedranno nel Michigan uno Stato chiave per l’eventuale rielezione di Biden (Stato che ha la presenza della più grande e agguerrita comunità musulmana d’America) Biden e Blinken hanno trovato un capro espiatorio da offrire come compensazione a chi li rimprovera di essere complici di un genocidio. Si tratta dei “coloni”, accusati di “violenze intollerabili” in grado addirittura di destabilizzare la regione.
   Se si leggono le statistiche delle violenze regionali si scopre che a morire per attentati, investimenti, accoltellamenti e lanci di pietre sono proprio i “coloni” e che l’unico palestinese morto per mano di un “colono” è morto perché insieme a numerosi altri aveva preso a sassate la moglie e la figlia piccola di quest’ultimo.
   Tutte le reazioni dei “coloni” che si sono verificate sono state risposte a precedenti attentati palestinesi. Questo non ha impedito all’Amministrazione Biden di emettere una blacklist di “coloni” criminali mentre una blacklist di palestinesi (che in pochi anni hanno ucciso più di cento persone) non è in agenda.
   Prima del dispositivo restrittivo nei confronti dei “coloni” anziché difendere il più fedele alleato americano del Medio Oriente l’Amministrazione Biden ha permesso l’approvazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che non nominava Hamas e i palestinesi come responsabili dell’eccidio del 7 ottobre. Ha proseguito orchestrando una costante pressione su Israele affinché permettesse l’ingresso di carburante, viveri e quant’altro necessario a Hamas per continuare la guerra, dato che si impossessa della maggioranza degli aiuti che entrano a Gaza. Nessuna pressione, invece, sull’Egitto affinché permetta la fuga dai teatri di guerra della popolazione civile stremata. Ma la cosa più clamorosa è avere permesso la farsa che è andata in scena all’Aia presso la Corte di Giustizia Internazionale. Qui si è avuta la conferma del mondo al contrario: uno Stato che subisce un genocidio viene messo alla sbarra per genocidio.
   Gli Stati Uniti, anziché usare tutto il loro potere politico (la Corte di Giustizia è un organo politico) per ostacolare la farsa e aiutare Israele (già colpevole a prescindere) si sono accodati alla farsa (la presidente della Corte è americana) in modo da potere eventualmente ricattare Israele in futuro quando sarà necessario un loro veto al Consiglio di Sicurezza.
   Con questi amici, chi ha bisogno di nemici?
   Le due conferenze stampa che si sono tenute ieri in Israele dopo la quinta visita in Medio Oriente dall’inizio della guerra da parte del Segretario di Stato americano Antony Blinken, evidenziano specularmente due registri divergenti.
   Nel suo intervento, Benjamin Netanyahu, ha chiarito in modo perentorio che la proposta di accordo fatta da Hamas è del tutto irricevibile per Israele, e non avrebbe potuto essere diverso, trattandosi di una sommatoria di richieste esorbitanti culminanti con la cessazione dell’operazione militare a Gaza e la vittoria politica del gruppo terrorista.
   Netanyahu ha ribadito che Israele proseguirà la sua operazione militare nella Striscia fino a quando Hamas non sarà sconfitto, e che ogni accordo che non prevede questo esito sarebbe per Israele un disastro. Solo dopo la sconfitta di Hamas sarà possibile riprendere la strada dell’avvicinamento all’Arabia Saudita interrotto il 7 ottobre.
   La Casa Bianca non ottiene dunque al momento alcuna apertura a una disponibilità negoziale da parte di Israele, non con le proposte attuali avanzate da Hamas. Il cauto ottimismo che un accordo potesse essere raggiunto si è dissipato rapidamente. Resta la convinzione di Israele che la liberazione degli ostaggi ancora detenuti nella Striscia, possa avvenire solo con l’aumento della pressione militare, non con la sua sospensione.
   Antony Blinken ha risposto più tardi, e nella sua conferenza ha ribadito che, pur avendo Israele tutto il diritto di perseguire il proprio obiettivo militare, conseguenza del 7 ottobre scorso, il numero dei civili morti continua a essere troppo alto e che Israele deve fare il possibile per diminuirlo, esortazione che è cominciata fin dal principio della guerra e che risponde alle forti critiche interne al partito democratico e a una parte dell’elettorato sull’appoggio che gli Stati Uniti stanno dando a Israele. Fino qui tutto come da copione, ma c’è un passaggio del discorso su cui occorre soffermarsi ed è quando Blinken dice:
   “Gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile il 7 ottobre. Da allora gli ostaggi sono stati disumanizzati ogni giorno. Ma questa non può essere una licenza per disumanizzare gli altri…La stragrande maggioranza della popolazione di Gaza non ha nulla a che fare con gli attacchi del 7 ottobre. Le famiglie di Gaza la cui sopravvivenza dipende dalla fornitura di aiuti da parte di Israele sono come le nostre famiglie. Sono madri e padri, figli e figlie, che vogliono guadagnarsi da vivere dignitosamente, mandare i propri figli a scuola, avere una vita normale. Ecco chi sono. Questo è quello che vogliono. E non possiamo, non dobbiamo perderlo di vista. Non possiamo, non dobbiamo perdere di vista la nostra comune umanità”.
   Al di là della retorica e di una dose massiccia di demagogia, in queste parole si evidenzia come, dopo quattro mesi di guerra e la perdita di vite di migliaia di civili che vanno sottratti dalla cifra all’ingrosso data da Hamas, la quale comprende anche i jihadisti morti negli scontri, il punto fondamentale per gli Stati Uniti non è più, sempre che lo sia mai stato realmente, la sconfitta di Hamas a Gaza, ma che Israele non si comporti come Hamas.
   Si tratta di una equivalenza insostenibile e profondamente disonesta. Washington sa benissimo che non esiste alcuna possibilità reale per Israele, date le condizioni di combattimento nella Striscia per evitare, pur con tutte le cautele, un numero elevato di morti civili. Sa benissimo che Israele sta combattendo una guerra urbana estremamente complicata, e resa ancora più difficile dalle continue pressioni che subisce per fornire aiuti umanitari che sostanzialmente finiscono nelle mani di Hamas, e appunto per cercare di limitare al massimo il numero delle vittime collaterali. Tuttavia non può evitare di confondere le acque indicando che nella sua risposta Israele sta eccedendo, dando così linfa a tutti coloro, la maggioranza degli attori internazionali, che stanno mettendo Israele sotto accusa e vorrebbero imporgli un cessate il fuoco, primo fra tutti Hamas stesso.
   Si tratta del secondo inequivocabile segnale di un cambio di registro, dopo il dispositivo punitivo nei confronti di quattro coloni della Cisgiordania accusati di “violenza intollerabile”, dispositivo che Netanyahu non ha avuto remora a qualificare davanti a Blinken come un atto grave che mette sotto accusa ingiustamente tutta una categoria di persone le quali, in questo momento critico stanno dando con l’impegno a Gaza il loro contributo alla guerra, sottolineando che nulla di simile è stato disposto contro le ben più gravi violenze dei palestinesi contro i residenti ebrei della regione.
   La distanza tra Washington e Gerusalemme è destinata ad allargarsi. Le esigenze di politica interna americane sulla necessità che la guerra non duri ancora a lungo sono in ovvio contrasto con le dichiarazioni di Netanyahu e l’obiettivo che Israele si è dato fin dal principio, la sconfitta di Hamas. Obiettivo che, nonostante il parere del tutto strumentale di sedicenti esperti, è perfettamente raggiungibile, ma necessita di tempo e impegno.
   Hamas non ha le risorse per potere contrastare a lungo l’offensiva israeliana, ed è il motivo per cui, fin dall’inizio della guerra, ha fatto affidamento sulla via politica, le pressioni internazionali per obbligare Israele a quel cessate il fuoco che gli servirebbe per non capitolare. L’utilizzo del Sudafrica, paese amico e ferocemente anti-israeliano, per accusare Israele di genocidio davanti alla Corte Penale Internazionale, rientra in questa strategia.
   Gli Stati Uniti non chiederanno a Israele il cessate il fuoco, sarebbe troppo esorbitante il prezzo politico da pagare a casa, ma cercheranno di fare il possibile nei giorni che verranno per metterlo nelle condizioni di accettare un accordo per il rilascio degli ostaggi, che, con il pretesto che sia questo il vero obiettivo da raggiungere, gli impedirebbe di vincere la guerra.

(L'informale, 8 febbraio 2024)

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Ondata di antisemitismo dopo il 7 ottobre, ora anche l’intelligenza artificiale usata per diffondere l’odio in Rete

Il rapporto annuale del Cdec centro di documentazione ebraica presentato a Milano al Memoriale della Shoah. Gli episodi rubricati tra ottobre e dicembre sono 216, circa la metà dei quali consumati off line.

di Zita Dazzi

I dati raccolti rilevano un raddoppio netto degli atti di antisemitismo, in Rete e nel mondo reale. A seguito di 923 segnalazioni, sono 454 gli episodi individuati dall’Osservatorio del centro di documentazione ebraica Cdec nel corso del 2023, dato in forte crescita rispetto ai 241 episodi rilevati nel 2022. Ovviamente si tratta della punta dell’iceberg, perché la maggior parte degli eventi resta sommerso, non segnalato, non classificato. Basta solo pensare che il monitoraggio quotidiano del web rileva migliaia di post, video, meme e reel di matrice antiebraica, antigiudaica, antisionista, pubblicati da profili che si richiamano a realtà di estrema destra, estrema sinistra ma anche del radicalismo islamico: nel solo 2023 ne sono stati analizzati in profondità oltre 3500 fra le decine di migliaia reperibili. Al cospirazionismo, principale matrice ideologica che alimenta l’odio contro gli ebrei, si aggiungono ora le reazioni legate alle tensioni in Medio Oriente. Infatti, a seguito dei più recenti sviluppi del conflitto in corso tra Israele e Hamas, gli atti contro gli ebrei sono aumentati nella quantità e mutati nella forma: gli episodi rubricati tra ottobre e dicembre sono 216, circa la metà dei quali consumati off line.
  Di questi 454 episodi analizzati in modo approfondito, 259 riguardano l’antisemitismo in rete e 195 si compongono di atti accaduti materialmente, tra cui una aggressione e 40 casi di minaccia fisica. Fatti che avvengono soprattutto nelle scuole, dove c’è stata anche una ragazzina invitata a buttarsi dalla finestra perché ebrea. Le minacce e gli attacchi avvengono in strada, nelle università, nei luoghi di ritrovo, fin nelle abitazioni, tanto che i giovani ebrei si stanno togliendo ogni segno di riconoscimento a partire dalla kippah, e le comunità ebraiche diffondono a tutti gli iscritti manuali e consigli per evitare rischi di aggressioni.

• L’intelligenza artificiale e il pregiudizio anti-ebraico sul web
  E ora anche l’intelligenza artificiale serve oggi a chi sparge a piene mani odio antisemita in Rete. E’ questa la nuova frontiera della discriminazione e del pregiudizio contro gli ebrei sul web, soprattutto dopo il 7 ottobre che ha fatto registrare una vera e propria ondata di contenuti online che diventano virali e che le stesse piattaforme cercano di bloccare appena li identificano. Per questo la più grande novità è proprio l’utilizzo dell’AI per creare immagini antisemite che non vengano intercettate dai gestori dei principali sociali, dato che la tecnologia permette di avere immagini gratis che lambiscono anche la pedopornografia.
  Il ricercatore Murillo Camuzzi ha spiegato che “sui social vengono ormai rimossi automaticamente molti post antisemiti, ma nel monitoraggio quotidiano che noi facciamo, più che contare i singoli post, cerchiamo di vederne il contenuto. Ci sono video che diventano virali e che alimentano poi migliaia di commenti antigiudaici o nazisti, anche senza riferimenti espliciti al nazismo, invece di citare Hitler un classico è scrivere “il baffetto non ha finito bene il lavoro”. Gli autori stanno attenti a come scrivono, usano diversi codici, parole che non possono essere immediatamente identificate dai gestori delle piattaforme, scelgono emoji che non appaiono antisemite, ma che possono essere comprese facilmente: “Nasoni o etruschi invece di ebrei, pittore austriaco invece che Hitler”. In alcune immagini mostrate ieri dai ricercatori del centro si vede Anna Frank in abbigliamento intimo con dietro una platea di uomini pronti buttarsi su di lei, oppure un tipico ebreo ortodosso con dietro un gorilla armato di mazza.

• Destra, sinistra, islamismo radicale, seconde generazioni: dove abita l’antisemitismo
  “Ma sono solo due dei post e dei meme che ogni giorno a migliaia vengono trovati sui social - ha spiegato Betty Guetta dell’Osservatorio antisemitismo nato nel 1965 -. Questo è stato un anno particolarmente complesso e il carico di lavoro è stato molto superiore rispetto al passato, anche se ovviamente c’è molto sommerso, underreporting, perché molti fatti non vengono segnalati, perché ritenuti minori”. ll web rimane il veicolo principale dell’odio, ma nelle manifestazioni non mancano gli insulti, gli attacchi agli ebrei in quanto tali, gli slogan su Israele che deve scomparire dalla carta geografica. “In Italia l’idea che gli ebrei sostengono la politica di Netanyahu sta diventando l’elemento maggiore, lo abbiamo visto molto nei cortei, fra le seconde generazioni: c’è un peggioramento dell’antisemitismo di destra e di sinistra, anche se le vecchie categorie oggi reggono poco. Il linguaggio e i meme sono usati da gruppi anche di opposta motivazione. C’è una prevalenza di atteggiamenti antisemiti nell’estrema destra e nell’estrema sinistra, ma ormai c’è anche un sentimento diffuso, molto liquido, direbbe Baumann, trasversale quindi”, spiega Guetta.

• Odio contro gli ebrei, le aggressioni fisiche
  Ci sono stati anche casi di minacce e aggressioni fisiche in Italia, soprattutto fra i ragazzi delle scuole superiori, dove sono stati segnalati casi di ragazzi picchiati, minacciati, irrisi, invitati a buttarsi dalla finestra, “casi non molto numerosi ancora in Italia, per fortuna – dice ancora Guetta - a differenza di quel che avviene in Francia per esempio, o nel Regno Unito o in Germania, dove ci sono situazioni gravissime di rischio, anche per motivi diversi, da una parte forte componente islamica, dall’altra neonazista. Comunque la nostra percezione è che l’antisemitismo sia esponenzialmente aumentato dal 7 ottobre, anche se già negli ultimi anni era cresciuto progressivamente”. Vengono segnalati diversi tipi di antisemitismo, di matrice ora antigiudaica, ora antisionista, islamica, legata alla destra radicale, al pregiudizio, agli stereotipi più beceri e antichi, come quando viene detto che gli ebrei sono un “gruppo che fa lobby, che fa affari sporchi, che vuole la sostituzione etnica, addirittura che crea ad arte la pandemia, o spinge per la guerra in Ucraina”. Frequente l’uso dell’appellativo “aschenazita” per indicare gli ebrei, al fine di demonizzarli secondo i consueti canoni narrativi (razzisti, esclusivisti, etc.) ed evitare l’accusa di antisemitismo: “non nutro ostilità verso gli ebrei ma solo contro i falsi ebrei aschenaziti odiati dagli stessi ebrei”.

• Stereotipi sugli ebrei: la ricerca in Rete
  Il 65% italiani pensano che gli ebrei siano oltre 500 mila in Italia, mentre sono in realtà 25 mila, quindi una minoranza. E’ stata fatta una importante indagine demoscopica dal 2007 al 2017 e da essa appare chiaro come, mentre l’Italia si è trasformata enormemente in questi anni, gli stereotipi verso ebrei sono rimasti identici. Si dice ancora che sono “bravi negli affari, un gruppo molto unito, che si sentono superiori agli altri, e non sono bene integrati nel Paese”, stereotipi che sono diffusi in quote larghissime del campione preso in esame. Il ricercatore Stefano Gatti spiega che nel 2023 c’è stato un numero elevatissimo di segnalazioni, un dato che non si registrava da anni, paragonabile solo a quello verificatosi del 1982 guerra del Libano”. E’ lui a spiegare che la diffamazione e l’insulto attraverso il web sono accompagnati da fotomontaggi, caricature, meme, immagini create artificialmente. Ma anche nel mondo offline c’è stato un incremento di vandalismi, minacce, lettere minatorie spedite a domicilio, scritte fatte sui muri delle case dei locali dei luoghi pubblici, fino al coltello infisso al posto della mezuzah che viene messo sullo stipite della porta dalle famiglie ebree. Murillo Camuzzi : nel web come nelle università si è creato un ambiente molto ostile ai giovani ebrei, dopo il 7 ottobre, con una contaminazione fra antisemitismo e antisionismo sempre più vasta, slogan che ricalcano le tesi che vogliono gli ebrei come invasori, occupanti di una terra che non è loro”.

• Cdec: “Debolezza educativa in università e nelle scuole”
   Questo per il Cdec dimostra “una debolezza educativa, specie fra i giovani, nelle scuole: gli eventi dal 7 ottobre in avanti sono un punto di non ritorno, che impone anche a noi di ripensare la nostra missione, il nostro lavoro”, ammonisce Betty Guetta. “L’antisemitismo è molto esplicito, non ci si preoccupa più di parlare contro gli ebrei, lo sdoganamento definitivo avviene grazie al conflitto con i palestinesi, che rende effettivamente molto più libero ogni insulto, fino all’uso della Shoah e i paragoni fra Gaza e i campi di concentramento. Questo tema delle contestazioni, a partire da quelle nelle università, porta poi molti ebrei a eliminare qualsiasi elemento di identificazione, preoccupazione e inquietudine collettiva dopo il 7 ottobre, che porta molti a nascondere la loro ebraicità, dalla lingua ai simboli, compresa la kippah”.

• Il vittimismo degli ebrei
   Guetta aggiunge: “Ci dicono che gli ebrei si piangono sempre addosso che fanno le vittime. La settimana della memoria per noi è molto importante, ma non viene veicolato chi sono davvero gli ebrei. Oggi, si parla solo della guerra o della Shoah, per cui anche a una cena o nei salotti vengono fuori delle discussioni spiacevoli, assieme a tutti gli stereotipi tipici con cui ci si confronta da sempre e in modo crescente. Con la guerra a Gaza tutto è sdoganato. La memoria è molto ingombrante, siamo in una situazione molto traumatica, ci vorrà del tempo per capire dove abbiamo sbagliato anche nella nostra narrazione di quel che sono oggi le comunità ebraiche in Italia e Europa”.
  I principali target (alcuni presi di mira più volte): Liliana Segre, Elly Schlein, David Parenzo, Tobia Zevi.
  "La principale matrice ideologica dell’antisemitismo in Italia continua ad essere quella afferente all’estrema destra (neofascismo e neonazismo) – si legge nel rapporto - anche se gli ultimi tre mesi hanno visto un fortissimo aumento dell’antisemitismo legato ad Israele (espresso da ambienti di matrice progressista) e di tematiche antigiudaiche tradizionali (deicidio, accusa del sangue, cannibalismo rituale, controllo della finanza)”. E se il 27 gennaio la fobia antisemita si scatena, gli odiatori dilagano anche in occasione del Pride. “I Pride a giugno hanno favorito l’ennesima ondata di antisemitismo telematico, le marce dell’orgoglio LGBTQIA+ vengono descritte come trionfo di depravazione globale promossa dai “sionisti” (il Pride è finanziato dagli ebrei sionisti mondiali; sponsor del pride sono le multinazionali filosioniste; sionismo ed ebraismo luciferino credono fermamente nella normalità della depravazione), il cui scopo sarebbe invariato dalla diffusione dei Protocolli, ovvero sovvertire la società cristiana per instaurare un regno giudaico”. E via delirando.

(la Repubblica, 10 febbraio 2024)

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Trenta degli ostaggi sarebbero morti: lo rivela l’IDF

Mentre Israele e Hamas si avvicinano a un accordo per la liberazione degli ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi e di un cessate il fuoco, l’esercito ha rivelato che almeno 30 dei prigionieri ancora detenuti a Gaza, più di un quinto degli ostaggi, sono stati confermati morti. È quanto emerso all’inizio di questa settimana da una valutazione interna dell’esercito israeliano riportata dal New York Times, secondo il quale almeno 30 dei restanti 136 ostaggi catturati da Hamas il 7 ottobre sono stati uccisi. L’Intelligence israeliana ha inoltre valutato informazioni non confermate secondo cui almeno altri 20 ostaggi potrebbero essere stati uccisi.
  Questa notizia rischia di intensificare la controversia in Israele riguardo alla politica del Governo riguardo agli ostaggi a Gaza. Il Jerusalem Post ha precisato che il Forum sugli ostaggi e le famiglie scomparse ha dichiarato dopo la pubblicazione del rapporto che il numero ufficiale fornito loro è che 31 dei 136 ostaggi sono stati confermati uccisi.
  Più di 240 ostaggi sono stati rapiti da Hamas durante il massacro del 7 ottobre. A novembre, come parte di un accordo di cessate il fuoco, sono stati rilasciati poco più di 100 ostaggi, tra cui 81 israeliani.

• Procede l’identificazione di corpi
  La radio KAN Reshet Bet ha riportato venerdì che più di 350 corpi sono stati trasferiti dalla Striscia di Gaza a Israele sin dall’inizio del conflitto, per essere sottoposti a verifica al fine di determinare se fossero i resti di ostaggi israeliani.
  I corpi, come scrive The Jerusalem Post, sono stati trasportati al Centro Nazionale di Medicina Legale di Abu Kabir in Israele. L’IDF ha dichiarato all’inizio della guerra di aver recuperato i corpi dalla Striscia di Gaza nel tentativo di ritrovare quelli degli ostaggi. Coloro che non sono stati identificati come ostaggi sono stati restituiti a Gaza.
  «Il processo di identificazione degli ostaggi, condotto in un luogo sicuro e alternativo, garantisce condizioni professionali ottimali e rispetto per il defunto – ha dichiarato l’IDF -. I corpi identificati come non appartenenti agli ostaggi vengono restituiti con dignità e rispetto». Non è tuttavia chiaro se tra i corpi riesumati siano stati trovati ostaggi. L’IDF non ha commentato immediatamente il rapporto, né ha commentato rapporti simili in passato.

(Bet Magazine Mosaico, 10 febbraio 2024)

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Colette Avital: “Netanyahu ha battuto la sinistra perché non sappiamo più parlare al popolo”

La storica rappresentante dei laburisti: «Il premier vuole un Paese fascista, noi siamo visti come un’élite. Dobbiamo salvare l’indipendenza dei giudici e serve uno Stato palestinese, Barghouti potrebbe guidarlo».

di Lucia Annunziata

TEL AVIV - Rigetto delle élite. Tensione fra le identità sociali. Nazionalismo e Militarismo come rifugio. Un evento che ha portato a galla un mondo denso di differenze, in cui, come vedremo agiscono molte delle stesse forze e lo stesso processo in atto in tutti Paesi Occidentali. È la trasformazione della società israeliana, esposta in maniera cruda dal trauma del 7 ottobre. Come si è arrivati fin qui, di chi sono tutte le responsabilità, e c’è una strada nel futuro di Israele per non rimanere prigioniera di questo trauma?
  Pochi giorni fa in una intervista all’ex colonnello e studioso Gabi Siboni, abbiamo analizzato come ha reagito alla nuova guerra il mondo che risponde al governo attuale. Con questa intervista, che daremo come l’altra in due parti, abbiamo cercato la stessa risposta nel mondo opposto, quello della sinistra, quella del dialogo con i palestinesi, e della protesta contro la trasformazione autoritaria del Paese. Ne abbiamo parlato con una delle protagoniste di questa storia. Colette Avital, diplomatica, militante del Labour, dieci anni membro della Knesset, la prima donna (Golda è una storia a parte) candidata alla Presidenza di Israele. Una donna ancora oggi, con la memoria di chi l’ha vissuta, è ancora una figura nella politica della sinistra di Israele, di cui parla con un sincero spirito critico.

- Benjamin Netanyahu che oggi la sinistra considera il principale colpevole, ha governato per quasi venti anni - dal 1996 al 1999, poi dal 2009 al 2021, e ora è in carica di nuovo dal 2022. Qual è la ragione di tale successo politico, che voi criticate?
 «Questo governo per anni ha diviso il Paese mettendoci gli uni contro gli altri, e principalmente attaccando la sinistra. Lo ricordo quando in Knesset ci chiamava traditori, non patrioti. Essere di sinistra diventò una parola negativa. Dal 2012 in poi quando ci furono una serie di elezioni questo linguaggio una cosa continua, ogni volta un appello a mobilitarsi perché gli arabi “stanno arrivando in massa”. La sinistra e gli arabi son divenuti una cosa negativa, diceva persino che noi avevamo il look dei nemici. Insomma ha creato una frattura nella società . Ma al di là di questo c’è la sua idea di portare avanti una riforma onnicomprensiva per cambiare completamente il sistema di governo di questo paese. Trasformando Israele in una nazione fascista. Fascista nel senso che lui e il suo partito, ma specie lui, devono avere ogni potere. C’è stato nel paese un dibattito su cosa è la democrazia e su questo lui ha detto “siamo la maggioranza e dunque abbiamo il diritto”. Da quel momento si è rotto il senso di cosa è questo paese, che avevamo considerato come una cosa garantita per molti anni. La sorpresa è stata una mobilitazione portata avanti da migliaia di persone. È cominciato con un gruppo di anziani che manifestava sotto la pioggia con gli ombrelli. Dopo due settimane giovani spuntavano da tutte le parti. Non solo qui in Tel Aviv, in 160 posti , in cui si è manifestato per 43 weekend. Era già un movimento contro Netanyahu . Infatti ne ha fermato l’agenda».

- Chi erano questi giovani?
 «Molti non erano connessi ai partiti. La gente in Israele non ha più fiducia nella politica, nei politici. Incluso quelli della sinistra. Ci dicevano “non avete fatto davvero nulla per noi”, non ci piace la vostra leadership. All’improvviso c’è questo movimento che è politico ma non connesso ai partiti . E la novità del 2023. È l’anno in cui c’è un grave crisi di fiducia nel governo non solo per il contenuto delle proposte ma anche per il modo come le presentavano. Come bulldozer: “oggi abbiamo il potere e cambieremo tutto”».

- C’è stato qualcosa che ha provocato questo inizio del movimento?
 «Il momento è stato la proposta di legge fatta per cambiare il sistema, cambiare la forma di governo. A cominciare dall’attacco alla Corte Suprema. Dal momento che noi non abbiamo una Costituzione la Corte è l’unico luogo che garantisce i diritti umani, legali e individuali e dove puoi andare a portare le tue obiezioni. Le dico un esempio sciocco, di tempo fa. Noi in Israele abbiamo avuto la tv molto tardi perché non era considerata “buona”; era un elemento di “corruzione della mente”. Quando finalmente è arrivata venne proibita il venerdì sera. Un cittadino andò alla Corte di Giustizia e disse “io ho diritto di vedere la tv il venerdì sera”. E la Corte di giustizia abolì la legge che lo proibiva. È così che abbiamo avuto la televisione. Questo è un esempio semplice per dire la sua efficacia ma ci sono state negli anni molte decisioni contro le decisioni del governo. Fondamentalmente si tratta del bilanciamento di poteri. Questo è un Paese che vuole essere libero, noi non abbiamo dittatori, questa è la nostra specialità. La gente l’ha capito».

- Poi la guerra scoppia. C’è una specie di relazione fra le due cose? So che sembra una domanda assurda, ma si è spiegato la sorpresa del 7 ottobre anche con il fatto che il Paese fosse distratto dalle sue divisioni interne.
 «Non era vero ma Bibi ha colto l’occasione per dire “ siete stati voi”, perché come Paese siamo divisi: ha condannato tutti eccetto sé stesso. Ma è lui che ha sempre pensato che dare denaro ad Hamas li avrebbe tenuti buoni e avrebbe indebolito l’autorità palestinese “ così non avremo mai uno Stato palestinese”. Che poi era una idea già in testa a Sharon».

- Ma non c’è stata anche una vostra responsabilità nel far arrivare al governo questo gruppo politico?
 «Forse. Per lungo tempo i nostri principi sono stati corretti ma non abbiamo saputo come condividerli con la gente, come parlare al popolo che avremmo potuto o dovuto aiutare a cambiare. Avremmo dovuto fare qualcosa per cambiare il nostro modo per affrontare i problemi. Poi si è innescato un circolo vizioso. I territori sono occupati. C’è terrorismo, i soldati intervengono e c’è altro terrorismo. Questo terrorismo ha spostato sempre più gente a destra e noi non avevamo risposte a questo. Ieri notte ho fatto un discorso a un’associazione americana e mi chiedevano “ancora crede che si possano fare due Stati”?».

- Torniamo al Labour. Lei ha detto che a un certo punto non siete stati più capaci di connettervi con il popolo.
 «Io credo che dobbiamo cambiare i nostri modi, e il tipo di dialogo. Noi appariamo loro come una élite e il popolo non ama le élite. Io credo che élite sia cercare di esser il meglio nelle nostre professioni – non parlo di élite del denaro. Ma con chiunque parli, le élite non sono amate».

- Lei è naturalmente consapevole che la rivolta contro le élite è un processo che sta travolgendo le democrazie Occidentali.
 «Certamente».

- Nelle richieste avanzate da Hamas nella trattativa in corso, viene chiesta la liberazione di Barghouti, e il Mossad è a favore. Perché, visto che è un governo di destra?
 «Vede Marwan Barghouti venne a casa mia sei mesi prima dell’Intifada. Avevamo un gruppo di membri del parlamento e avevamo costruito uno scambio: ci si riuniva a Ramallah e poi dal nostro lato. Ma il Presidente della Knesset non volle metter a disposizione il parlamento, e vennero a casa mia. Marzo 2000. Barghouti si sedette e disse: “ Voi avete fino a settembre per decider cosa fare. Decidere se ci sarà o no una Palestina. Sennò ci sarà una rivoluzione”. Non lo prendemmo seriamente. E a metà settembre partì una nuova Intifada».

- Non ho capito se questo significa che è favorevole al suo rilascio.
 «Io credo che abbia la capacità di uccidere persone, ma anche di saper vivere in pace con noi. Io credo che lui dovrebbe guidare la Palestina. Tutti pensano che le elezioni saranno vinte da Hamas, ma non se metti in campo un’alternativa».
- Siamo così arrivati all’impatto del 7 ottobre. Forse possiamo fermarci qui per il momento.


FINE PRIMA PARTE

*
SECONDA PARTE


Colette Avital: “Il 7 ottobre ha indurito i nostri cuori. Israele vuole solo schiacciare Hamas”
TEL AVIV - Ieri, nell’intervista con Colette Avital, ci siamo fermati al 7 ottobre, quando l’attacco arriva. È l’ennesimo Cigno Nero di questi ultimi anni, e si abbatte su Israele resettando tutti i giochi e cambiando la realtà di ciascuno e tutti. «Nessuno in quel momento voleva parlare di palestinesi – spiega Avital –, perché l’argomento fu immediatamente divisivo. Ma veniva su in ogni caso. La gente voleva soltanto una cosa: destra e sinistra si devono ora unire, poi ci liberiamo delle riforme e poi del governo. C’era tanta gente di questa opinione, persino religiosi: poi con un nuovo governo potremo confrontarci con i palestinesi».

- Quali sono i partiti a sinistra che hanno più influenza?
 «Negli anni come Labour abbiamo perso la nostra influenza. Moltissimi si sono spostati al centro».

- Con chi?
 «Gantz. È il buon ex generale, che parla con tutti in maniera garbata. All’improvviso è il nuovo leader del Labour. Ogni volta che mi guardavo intorno per chiedere “Cosa volete fare?” la risposta era: “Sto parlando con Gantz”. Il Labour ormai è centro-left, né vuole apparire del tutto left. Io sono passata a Meretz, che comunque fa la sinistra».

- Qual è stata, dopo l’attacco del 7/10, la forza della reazione della destra? Questi politici che lei ha descritto soprattutto come desiderosi di potere, cosa offrivano alle persone che voi non eravate capaci di dare? Forse era dopotutto quella sicurezza di cui lei parlava prima?
 «Sì in senso ampio. E poi, in questo Paese la gente ama Bibi. La gente che vota per lui intendo. Per lui c’è un culto che noi chiamiamo “bibismo”, come con Trump, davvero. Il fatto che l’abbiamo portato in tribunale lo ha aiutato. La gente pensa che sia stato perseguitato. Inoltre, c’è un altro elemento: la gente che venne qui dal Nord Africa negli anni Cinquanta. Arrivavano in tanti allora. Loro vennero messi in alloggi temporanei. Gli ebrei che venivano dall’Europa erano invece più scolarizzati. Dal Nord Africa molti erano analfabeti. Questa divisione fra bianchi e neri, bianchi noi, neri i nordafricani è stata dalla destra giocata tutto il tempo. È diventato “Noi abbiamo tutti i privilegi, loro tutte le sofferenze. Ora però è il nostro turno, saremo più forti, ci hanno trattato sempre come se fossimo selvaggi, ora siamo qui e ve la faremo vedere”».

- Il fatto è che la spinta anti-élite è diventata la vera questione al fondo di questi anni.
 «Sì, la ritroviamo in questa nuova forma di antisemitismo. È insegnata nelle Università Usa, attorno a una idea di post colonialismo. Oggi in Usa c’è un razzismo anti-bianchi. E se sei e anche ebreo sei il rappresentante dell’Imperialismo».

- Lei mi ha detto anche che questa tensione è forte anche qui, in Israele. È antisemitismo nel Paese degli ebrei?
 «Certo che c’è. Le do un altro esempio. Il giorno dell’Olocausto noi tutti ci fermiamo e ci alziamo in piedi. Dovunque siamo. Qualcuno, del gruppo che si sente escluso, dice: “Non ci alzeremo in piedi fino a che voi che ci avete trattato male in questo Paese non vi sarete scusati”».

- Dunque, la destra e i religiosi rappresentano meglio questi umori. Ma questo è vero, come dicevamo prima, in Occidente, inclusa l’Europa.
 «Sì, e il peggio è che la destra estrema in Europa è a favore di Israele».

- Dopo il 7 ottobre Israele pare abbia accentuato la sua militarizzazione. Le pare che anche la stessa opinione democratica sembri oggi condividere questa militarizzazione?
 «No, no. La gente che viveva nei kibbutz era tutta di sinistra. Erano quelli che venivano a vivere al confine per essere in contatto con i palestinesi di Gaza. Lavorando con loro. Il fatto è che ora in questa nuova situazione non sarà possibile tornare indietro. Tutti loro hanno vissuto per anni in mezzo agli scontri, ai missili che arrivavano, ma stavolta anche chi è a sinistra pensa che non si tornerà più a prima».

- Perché si è rotta la fiducia. Ma si è rotta con Hamas o anche con tutti i palestinesi?
 «I palestinesi no. Ma vogliono liberarsi di Hamas. Quello che hanno fatto ha indurito tutti i cuori. Parlo con gente di sinistra e dico: “Guardate i palestinesi, i loro figli”. E spesso mi rispondono: “Scusa, ma ora non c’è tempo per discutere”. Vogliono vedere la fine di tutto questo e vogliono che succeda ora. E c’è più di questo: guarda la nostra tv, tutti i canali non indicano mai come direttiva editoriale di non mostrare cosa succede in Gaza. Ma questo è vero anche in altre tv, come Cnn e ora anche il New York Times. Siamo pieni di propaganda sul nostro esercito che è il più etico del mondo».

- E non lo è?
 «Molta gente è andata a combattere con il senso di vendetta: “Gliela faremo vedere”. Ma la verità è che questa guerra ha completamente scosso la nostra fiducia in noi stessi. Israele non è la stessa di prima. Molta gente ormai vive nella paura anche a Tel Aviv. Ed è un riflesso anche della sfiducia nel governo, da cui si sente abbandonata. È stata la società civile che ha preso in mano l’organizzazione per dare ai soldati quello che serve. Gente che va nel nord per cucinare un pasto caldo ai combattenti soldati. Parrucchieri che vanno lì a tagliare i capelli ai soldati, perché si sentano meglio, gente ha portato su un camion lavatrici per lavare la biancheria, e poi volontari per salvare il possibile dei raccolti. Anche io sono andata a raccogliere pomodori».

- Famiglie. È vero che ci sono divisioni anche tra loro?
 «Le famiglie sono di destra e di sinistra. Vogliono la stessa cosa. Ma quelle di destra sono state ricevute da Netanyahu e non vogliono criticarlo. Altre sono invece critiche; e alcune, ma poche, sono andate ai confini per stoppare l’arrivo degli aiuti umanitari ai profughi di Gaza».

- Come Labour nei bei tempi avevate una grande rete di contatto con tutti i socialisti in Europa. Li avete ancora?
 «Certamente, ma non fanno molto. Non hanno, però, lo stesso potere di prima».

- Anche l’Eu in generale non sembra capire davvero cosa succede qui. Bruxelles è stata in contato con voi?
 «No».

- E come e se lo spiega?
 «Hanno elezioni».

- Alla fine pensa che ci sarà un accordo per fermare la guerra?
 «Sì, ma il problema più grave, oggi, è che questa guerra non sta andando da nessuna parte. Porsi come obiettivo di sterminare Hamas, non è molto realistico. Ci sarà eventualmente un accordo, ma dipende dagli americani».

- E i Paesi arabi come si stanno comportando?
 «Lei cosa pensa che stiano facendo?».

- Zero!
 «Meno di zero».

(La Stampa, 9,10 febbraio 2024)
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E' interessante conoscere gli argomenti di un'esimia rappresentante israeliana di quella universale forma di religiosità a cui si potrebbe dare il nome onnicomprensivo di "Sinistrismo". Sarebbe l'opposto corrispondente dell'altrettanto onnicomprensivo termine di "Fascismo". Esiste già uno studio approfondito di questo universale fenomeno culturale esteso ormai in ogni zona del mondo occidentale? M.C.

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"Operazione diluvio Gerusalemme" fallita

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Hamas aveva pianificato un diluvio islamico nel paese per liberare Gerusalemme dagli ebrei. I soldati israeliani hanno mostrato ai terroristi di Hamas catturati cosa significa un diluvio e chi è il peccatore in questo caso. Non i figli di Israele, ma i nemici di Dio. Tutto questo si può vedere in questa immagine.
La foto dei terroristi di Hamas che si arrendono in tute bianche da pioggia, in ginocchio, con le mani legate e bendati, è diventata virale nei giorni scorsi attraverso le reti e i media israeliani. Appesa al muro non c'è solo la bandiera israeliana, ma anche quella bianca e viola della Brigata di combattimento Givati, i cui soldati hanno arrestato i terroristi nella Striscia di Gaza. I terroristi si inchinano non solo alle bandiere e alla Stella di Davide, ma anche a un poster che mostra temporali e tempeste. In fondo al poster c'è una breve frase in arabo. Si tratta del versetto 14 della 29a sura, chiamata Al-Ankabut - Il ragno. Si riferisce alla seconda metà della sura, che contiene la parabola del ragno e della sua casa, come riferimento alla debolezza e alla vulnerabilità della tela del ragno. La prima metà, invece, riguarda Noè e il Diluvio:
"Mandammo Noè al suo popolo ed egli rimase tra loro mille anni meno cinquanta. Poi il Diluvio si abbatté su di loro perché erano ingiusti".
La metà in grassetto del versetto è in arabo sul poster:

وَلَقَدْ أَرْسَلْنَا نُوحًا إِلَىٰ قَوْمِهِۦ فَلَبِثَ فِيهِمْ أَلْفَ سَنَةٍ إِلَّا خَمْسِينَ عَامًۭا فَأَخَذَهُمُ ٱلطُّوفَانُ وَهُمْ ظَـٰلِمُونَ
Il versetto del Corano dice che il Diluvio uccide le persone a causa dei loro peccati. Proprio come la Bibbia dice che Dio punì le persone per i loro peccati con il Diluvio e poi fece una nuova alleanza con loro. 
Ma perché i soldati hanno stampato questo versetto del Corano sul manifesto e lo hanno tenuto sotto il naso dei terroristi in lotta? Il Diluvio è una punizione e in arabo si chiama Tufan (توفان). I soldati israeliani hanno ricordato ai terroristi i loro peccati e ora Allah li ha puniti. Sono prigionieri dell'esercito israeliano. Ma c'è di più.
Per il barbaro attacco al sud di Israele del 7 ottobre, i terroristi di Hamas hanno scelto il nome "Tufan Al-Aksa", il "Diluvio di Al-Aksa". L'organizzazione terroristica palestinese si è autodefinita "Operazione Diluvio Al-Aksa" dal nome della Moschea Al-Aksa di Gerusalemme, la cui "profanazione" da parte degli ebrei è stata utilizzata anche per giustificare l'attacco del Sabba Nero. Sia i media stranieri che quelli israeliani hanno parlato di "Operazione Al-Aksa" senza conoscere il contesto coranico o il significato del nome. Hamas ha scelto la storia biblica, che compare anche nel Corano, e ha pianificato un'operazione terroristica che avrebbe inondato il paese come un diluvio per uccidere tutti gli ebrei, come "Allah ha fatto con i peccatori". Ma il diluvio è andato storto.
Da quel momento, Hamas ha ripetutamente cercato di mobilitare il mondo arabo e musulmano ad attaccare Israele per liberare Gerusalemme, utilizzando lo slogan della Sura 29, il ragno - "Diluvio di Al-Aqsa". I terroristi di Hamas hanno fantasticato su un'inondazione della Gerusalemme ebraica e su una liberazione islamica. I musulmani sognavano un'inondazione di Israele in cui tutti gli ebrei sarebbero morti, come nel racconto biblico. Un diluvio su Gerusalemme. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha dichiarato che l'operazione "Diluvio di Al-Aksa" è stata pianificata al cento per cento dai palestinesi. L'operazione è stata tenuta segreta all'"Asse della Resistenza". "Il fatto che nessuno ne fosse a conoscenza dimostra che questa battaglia è esclusivamente palestinese", ha sottolineato Nasrallah.
Dopo l'attacco nel sud di Israele e i successivi attacchi aerei dell'esercito israeliano nella Striscia di Gaza, Hamas ha invitato il mondo arabo e musulmano a mobilitarsi. Ha pianificato un'inondazione islamica su Israele, in cui terroristi e guerrieri musulmani avrebbero invaso il paese da tutti i lati per liberare Gerusalemme dalle mani degli ebrei e dei sionisti. Questo diluvio bellico però è fallito, perché Hamas ha sorpreso non solo Israele con l'assalto improvviso, ma anche i suoi partner del terrore, gli iraniani e Hezbollah, che erano tutti coinvolti nel piano del diluvio. Hamas ha effettuato l'assalto la mattina presto dello Shabbat da solo.
E adesso questo diluvio si sta abbattendo sui palestinesi della Striscia di Gaza. Adesso i soldati di Givati ricordano ai terroristi che si arrendono il versetto 14 della Sura 29:
  il diluvio è per i peccatori e saranno puniti,
  il diluvio è venuto perché erano ingiusti.

Ora i terroristi sono puniti da Allah per i loro peccati.

(Israel Heute, 9 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele non si ferma: attacco a Rafah

di Mirko Molteni

L'esercito israeliano non ha ancora preso tutta la città di Khan Yunis, nel Sud della Striscia di Gaza, dove è asserragliato il capo militare di Hamas, Yahya Sinwar, che già il premier Benjamin Netanyahu avverte il segretario di Stato USA Anthony Blinken, in visita in Israele, d’aver messo nel mirino Rafah, città al confine con l'Egitto affollata da un milione di sfollati palestinesi, metà della popolazione di Gaza, accalcati in attesa di aiuti umanitari. Rafah è stata bombardata dall'aviazione israeliana, i cui raid avrebbero ucciso 14 palestinesi, ma non siamo ancora ad attacchi massicci. Si prevede però che le truppe ebraiche la raggiungano via terra.

• L’OFFENSIVA
  Dal valico, solo ieri sono entrati nella Striscia 80 camion di cibo e 4 autocisterne, più 22 membri di ong, mentre ne sono usciti, diretti in Egitto, 40 feriti con 36 accompagnatori, più 118 cittadini egiziani. Che Rafah diventi un campo di battaglia, preoccupa il governo del Cairo. Ieri il portavoce del ministero degli Esteri egiziano, Ahmed Abu Zeid, ha detto: «Attacchi israeliani su aree densamente popolate creeranno una realtà invivibile. Siamo contrari a un esodo di massa». L'Egitto teme un'invasione di profughi da una Rafah bombardata. Lo stesso ministro della Difesa ebraico, Yoav Gallant, ha promesso che «presto le nostre truppe arriveranno a Rafah».
   Gli ha fatto eco il capo di Stato Maggiore dell'esercito, generale Herzl Halevi, secondo cui l'azione militare è inscindibile dal cercare di riportare a casa gli ostaggi: «La liberazione degli ostaggi non accadrà senza pressione militare».
   A Khan Yunis l'esercito ha catturato vari terroristi di Hamas sospettati d'aver partecipato ai massacri del 7 ottobre, fra cui membri delle unità Nukhba. Le forze speciali Maglan hanno ucciso due miliziani a distanza ravvicinata e un terzo scoperto sopra il tetto di una scuola. Unità dei paracadutisti e della Brigata Givati hanno ucciso 20 miliziani nella medesima zona, mentre nel Nord della Striscia la 401° Brigata Corazzata ha annientato una decina di terroristi fra cui alcuni che avevano sparato un missile contro un carro armato. L'intelligence ha invece bloccato con un drone un tentativo di una cellula terroristica di fornire ai compagni “sistemi tecnologici”.
   Pur infuriando la guerra, ancora ieri s'è recata al Cairo una delegazione di Hamas, guidata da Halil Al Khaya, ma era atteso anche il capo politico Ismail Haniyeh, per parlare coi mediatori egiziani di negoziati che paiono ridotti al lumicino. NBC News riporta però che Israele potrebbe concedere l'esilio a Sinwar in cambio del rilascio degli ostaggi e della fine del governo di Hamas su Gaza.
   Le milizie libanesi filoiraniane Hezbollah hanno sparato missili sulle basi israeliane nel Nord a Kiryat Shmona, Biranit e sul monte Hermon, col ferimento di tre soldati. In risposta, le forze ebraiche hanno compiuto varie incursioni su postazioni nemiche in Libano, specie a Khiam. Soprattutto, Israele ha centrato con un drone a Nabatieh, a 40 km oltre la frontiera, l'automobile su cui viaggiava un capo di Hezbollah, Abbas Al Debs, ucciso insieme a un suo luogotenente. Al Debs gestiva i contatti coi pasdaran iraniani e si occupava dell'organizzazione delle difese antiaeree in Siria. Il capo dell'aviazione israeliana, generale Tomer Bar, ha ammonito Hezbollah: «Abbiamo centinaia di aerei pronti ad attaccarvi».
   Sempre in giornata, stando a Times of Israel, sono state filmate e diffuse sui siti web libanesi immagini di caccia israeliani spintisi fin sopra la capitale Beirut.

• RAID USA IN IRAQ
  Un’altra uccisione mirata è stata compiuta dagli americani in Iraq. Un drone USA ha centrato a Baghdad, nel quartiere a maggioranza sciita di Al-Mashtal, l'auto di uno dei capi della milizia sciita filoiraniana Kataib Hezbollah, tale Wisam Mohammed Saber Al Saedi. Il raid è una reazione di Washington all'attacco delle milizie alla base statunitense in Giordania dove l’8 gennaio rimasero uccisi tre militari. Ma il governo di Baghdad ha protestato contro l’«aggressione americana» e la «violazione di sovranità che mina gli accordi Iraq-Stati Uniti». Americani e britannici hanno inoltre bombardato basi di droni degli Huthi in Yemen a Shabaka, vicino Hodeida.

Libero, 9 febbraio 2024)

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Il corpo di Meni Godard, scomparso dal 7 ottobre, è stato ritrovato a Gaza

Il kibbutz Be’eri giovedì ha annunciato che uno dei suoi membri, Meni Godard, è stato assassinato in seguito al rapimento del 7 ottobre. Inizialmente si credeva che fosse stato ucciso durante il massacro, ma il suo corpo, prima di questa settimana, non era mai stato trovato. Anche sua moglie, Ayele, è stata colpita a morte quando i terroristi di Hamas hanno preso d’assalto la loro casa. Ora, il kibbutz ha confermato l’assassinio dell’uomo, dichiarando inoltre che il corpo si trova a Gaza. Ci sono altre 30 persone che si pensa siano state uccise durante il massacro, i cui corpi però risultano ancora trattenuti dai terroristi.
   Il New York Times ha riferito che l’IDF ha informato 32 famiglie della morte dei loro cari. Alcune fonti hanno detto al giornale americano che anche altri 20 ostaggi potrebbero essere stati uccisi, ma non c’è stata alcuna conferma definitiva del loro destino. L’esercito israeliano ha affermato che la maggior parte dei rapiti è stata uccisa durante il massacro e che l’IDF sta facendo il possibile, utilizzando tutte le risorse disponibili per ottenere quante più informazioni su coloro che risultano ancora prigionieri nelle mani di Hamas.
   Nel frattempo, le famiglie degli ostaggi continuano a pressare il governo israeliano per il rilascio immediato dei loro familiari. Mercoledì, dopo che il Primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che non avrebbe accettato le richieste di Hamas, le famiglie hanno sottolineato che lasciare gli ostaggi al loro destino a Gaza sarebbe una condanna a morte e una macchia su Israele per le generazioni a venire.

(Shalom, 9 febbraio 2024)

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Uno stato palestinese? Non in questa generazione

di G. Yohanan Di Segni, Gerusalemme

Vorrei sfatare tanti luoghi comuni di cui vedo imbevuti gli ebrei italiani, informati e prevenuti dai media, dalla politica internazionale e perfino dagli articoli che appaiono sul vostro giornale [Pagine Ebraiche, ndr]. Non perché sono un israeliano “di destra”, ma per chiarire il pensiero di quasi tutti gli ebrei d’Israele e controbattere i preconcetti errati di tutti questi “benpensanti”:
– “I poveri palestinesi vittime innocenti scacciati dalle loro case distrutte, affamati dai soldati israeliani e ridotti a profughi, uccisi senza pietà, 17.000 vittime e bambini”. Numeri inventati (contati?) dai rapporti di Hamas e Al-Jazeera, tutt’erba e un fascio con i terroristi che combattiamo dopo l’eccidio del 7 ottobre. I più “buoni” tra i cittadini di Gaza sono quelli che distribuivano caramelle e ballavano ridendo per il massacro degli ebrei (quando non hanno anche loro razziato a Be‘eri), imbevuti dalla propaganda araba, dall’educazione avuta nelle scuole dell’Unrwa.
– “Tutti gli ebrei hanno invaso nel ’48 e nel ’67 la nostra terra e ci cacciano nei campi profughi”. Se fosse un popolo “sano”, da un pezzo avrebbero cacciato il potere di Hamas che con i miliardi di sovvenzioni mondiali e del Qatar ha costruito chilometri di gallerie della morte, missili e decine di ville per i capi, invece di migliorare le condizioni di vita dei cittadini, da quando siamo noi usciti da Gaza per lasciarli liberi di autoamministrarsi.
– “La pace” tanto di moda in Europa e propagandata dal Papa: smettere di combattere gli assassini vuol dire lasciare terroristi a comandare a Gaza, dargli un’altra occasione di riarmarsi e far stragi di ebrei. Si sarebbe potuto far pace con Hitler? No, i regimi disumani vanno annientati senza falsa pietà se si vuole arrivare alla vera pace.
– Gli ostaggi ebrei (e non solo) “vanno liberati subito a qualunque prezzo”. A prezzo di lasciare i terroristi padroni di ripetere la presa di altri ostaggi, di liberare altri migliaia di delinquenti e assassini come quelli liberati per il prezzo di un soldato (Gilad Shalit) nel 2006. Vecchi e bambini catturati sono probabilmente già stati ammazzati e il dolore dei famigliari rischia di essere ancora più forte ricevendo – se riceveranno – le loro salme. Di quei barbari non ci si può fidare a fare accordi né si può mandare a morire altri nostri soldati per cercare di liberarli. È tragico, ma non c’è altra soluzione che cercare di stanare i terroristi che ne fanno scudo umano.
– La terra d’Israele “per due popoli e due stati”: come si può credere che uno stato palestinese indipendente, padrone di armarsi e revanscista, possa vivere in pace ai confini di uno stato ebraico? Il “presidente di Ramallah” da 24 anni non indice elezioni perché sa che le vincerebbero il partito di Hamas, lui stesso paga i terroristi da noi imprigionati per continuare a sostenere gli attentati, nelle scuole si insegna l’odio per gli ebrei e la loro cacciata da tutto Israele (vedi il Programma Politico di Abu Mazen). Bontà sua, pretende – a parole – “solo” uno stato palestinese con capitale Gerusalemme e tutta la Cisgiordania (con la cacciata di tutti gli insediamenti: Juden raus!), tutti i vecchi profughi palestinesi nei confini di Israele. E che intenzioni avranno quelli che sostituiranno Abu Mazen? Per dargli uno stato si deve aspettare una generazione di cittadini arabi che ci assicurino un cambio di mentalità completa! Questi, l’America (e l’Europa) vorrebbe che comandassero a Gaza oggi.
– L’ONU e la organizzazione dei “rifugiati” Unrwa: a Gaza si è dimostrato come tutti gli ospedali, scuole e centri di accoglienza umanitari non sono altro che basi di copertura di armamenti di Hamas, compresi tutti gli “impiegati” locali nelle cui case nascondono armi sotto i letti dei loro bambini, e i “medici senza frontiere” che collaborano coi terroristi ricoverando sotto le gallerie feriti e morti dell’attacco del 7 ottobre.
– Gli “aiuti umanitari ai poveri affamati”: sono ben guardati (e afferrati) dai poliziotti di Hamas che allontanano a bastonate e fucilate chi si avvicina per prendere benzina e farina, che sono necessari per i loro combattenti per prolungare la difesa delle gallerie. Non certo per dar da mangiare e medicine agli ostaggi che nessuno visita (Croce Rossa impotente e volutamente inefficiente).
– Netanyahu e il suo governo. Certamente è stato imprevidente e illuso che la pace potesse prolungarsi con aiuti finanziari e il benestare della popolazione di Gaza: ma questa era proprio la politica pacifista di tutte le sinistre e dell’America! Non poteva certo agire diversamente nei due anni di rivolte popolari e manifestazioni “anti-Bibi”, tacciato di guerrafondaio di destra, e quando tutti i responsabili della sicurezza (Shabak) gli dicevano “sta tranquillo, Hamas non ha intenzione di aprire un conflitto”.
– Europa e America pensano solo ai propri interessi politici ed elettorali, la “pace” è una bella parola che convince tutti quelli che se ne fregano della sicurezza d’Israele e pensano solo a continuare i loro affari con l’Iran, non temendo che l’atomica iraniana possa toccarli. Gli ebrei della diaspora, suffragati dai media venduti agli arabi, pensano che l’antisemitismo rinascente sia solo colpa dei guerrafondai israeliani.
Questo è quanto succede al mondo, e anche la stampa ebraica italiana – al pari di certi giornali israeliani – vi si accoda, riportando articoli dei “pacifisti” e benpensanti che soffrono per le visioni di tendopoli e bambini che piangono. Nessuno si chiede perché l’Egitto non apra le frontiere ai disperati, o perché gli stati europei, o gli “amici” turchi, non ammettano profughi di Gaza come accettano quelli della Ucraina.

(moked, 6 febbraio 2024)

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Riparte il turismo per la Terrasanta

Gli attacchi del 7 ottobre avevano interrotto i flussi ma ora le compagnie aeree hanno ripristinato i collegamenti con Tel Aviv. E lo stand alla Bit è stato tra i più gettonati.

«Siamo qui perché Israele era e rimane una destinazione molto amata dagli italiani». Kalanit Goren, direttrice dell'Ufficio nazionale del turismo israeliano (l'Enit locale, per capirsi), ha commentato con queste parole la recente partecipazione alla Bit di Milano dove il Paese era presente con uno stand. «In questi mesi stiamo lavorando per essere pronti a quando potremo di nuovo accogliere i visitatori italiani. Ricordo che l'Italia è, per noi, il sesto mercato più importante», ha sottolineato Goren, ricordando che la prossima convention della Federazione turismo organizzato di Confcommercio (Fto) si terrà proprio in Israele, a inizio 2025. Un segnale importante, che si unisce a quello che nelle ultime settimane è arrivato dalle compagnie aeree che sono tornate a inserire nei propri operativi la destinazione: da Ryanair a EasyJet, da Neos a Wizz Air, passando per Ita che dall'inizio di marzo tornerà a Tel Aviv. 
   «Alla Fiera Bit abbiamo visto come il desiderio di visitare la nostra terra sia sempre vivo nel pubblico italiano. Decine di persone sono venute nel nostro stand per chiedere informazioni, per essere preparati a ritornare. I voli stanno ripartendo e possiamo dire che da marzo tutte le compagnie che volavano prima del 7 ottobre avranno ripreso. Continuiamo a lavorare con grande impegno», spiega Goren a La Verità. Il conflitto con i terroristi di Hamas ha avuto un forte impatto sull'economia di Israele: la forza lavoro ridotta per i circa 360.000 riservisti chiamati al fronte (sono il 4% della popolazione totale), per gli expats tornati in patria e gli israeliani trasferiti di corsa all'estero. 
   L'attacco sanguinoso dell'autunno scorso è avvenuto proprio mentre l'economia più sviluppata del Medio Oriente stava riprendendo slancio, anche sul fronte turistico. Il periodo compreso tra gennaio 2023 e lo scoppio della guerra ha visto un nuovo record di ingressi dagli Stati Uniti - il principale Paese di origine del turismo verso Israele - con un aumento del 10% rispetto allo stesso periodo del 2019. Nel 2023 sono arrivati complessivamente 3.010.000 turisti con un aumento del 12,5% rispetto al 2022 (2,67 milioni di arrivi). Prima dello scoppio della guerra il 7 ottobre, si stimava che circa 3,9 milioni di turisti avrebbero visitato Israele nel 2023. Questa ripresa prevista dopo la crisi causata dalla pandemia di Covid-19 sarebbe stata molto vicina alle cifre record del 2019 se non ci fosse stato, lo scorso anno, un calo nel numero di turisti in arrivo da Cina, Russia e Ucraina per motivi esterni (guerra Russia-Ucraina e restrizioni al turismo in uscita dalla Cina). Il reddito stimato derivante dal turismo in entrata per il 2023 è di 4,8 miliardi di dollari rispetto ai 4,2 miliardi di dollari nel 2022. 
   Dopo la guerra, il numero di ingressi è diminuito in modo significativo, con 180.000 arrivi nell'ultimo trimestre del 2023, contro le precedenti previsioni di circa 900.000. Ma nel mese di gennaio 2024 ci sono stati 59.000 ingressi turistici, riferisce l'Ufficio centrale di statistica, in aumento rispetto ai 53.000 di dicembre 2023. 
   E si registra una ripresa molto più forte nel turismo in uscita: a gennaio 2024, infatti, 281.000 israeliani hanno viaggiato all'estero rispetto ai 248.000 del dicembre 2023, ma ancora ben al di sotto dei 611.000 israeliani che hanno viaggiato all'estero nel gennaio 2023. «Le indicazioni sono incoraggianti. Mentre alcuni turisti hanno rimandato le loro vacanze a causa della guerra, molti non hanno cancellato la prenotazione e aspettano il momento giusto per tornare a viaggiare. Israele ha molto da offrire come destinazione turistica e non vediamo l'ora di accogliere nuovamente tutti i visitatori nel nostro Paese», conclude Goren.

(La Verità, 9 febbraio 2024)

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Offerto l’esilio al capo di Hamas in cambio di tutti gli ostaggi israeliani

Israele permetterà l’esilio del capo di Hamas Yahya Sinwar dalla Striscia di Gaza in cambio del rilascio di tutti i 136 ostaggi rimasti, ha riferito giovedì la NBC, citando sei funzionari e consiglieri senior israeliani.
Secondo il rapporto, i funzionari israeliani hanno ventilato l’idea di permettere a Sinwar di “andarsene come [Yasser] Arafat ha lasciato il Libano”.
Arafat fuggì dalla capitale libanese di Beirut nel 1982 dopo che un accordo tra gli Stati Uniti e il governo europeo gli garantì un passaggio sicuro in Tunisia via mare. Ora, ha riferito una fonte israeliana alla NBC, Sinwar potrebbe essere pronto a fare un’uscita simile dalla Striscia di Gaza.
“Permetteremo che ciò avvenga a patto che tutti gli ostaggi vengano rilasciati”, ha dichiarato alla NBC un alto consigliere del Primo Ministro Benjamin Netanyahu.
Israele si orienta verso l’esilio dei leader del terrorismo da Gaza
All’inizio della settimana, i media israeliani hanno riferito che Gerusalemme e Washington hanno recentemente discusso un piano per l’esilio di alti membri di Hamas come parte di un più ampio cessate il fuoco e di un accordo sugli ostaggi in discussione. Funzionari della cerchia ristretta di Netanyahu hanno dichiarato in recenti discussioni a porte chiuse che si tratta di un’opzione molto favorevole per Israele, poiché “l’esilio implica la fine della leadership di Hamas”.
In passato si era parlato di una nuova proposta dei mediatori che prevedeva l’esilio dei leader di Hamas dalla Striscia di Gaza in un Paese terzo. Secondo il rapporto, in cambio di ciò, Hamas rilascerebbe tutti i prigionieri israeliani che detiene, ma ciò avverrebbe per gradi fino al ritiro delle truppe dell’IDF da Gaza.

(Rights Reporter, 9 febbraio 2024)

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Mishpatìm. Non gettare le bucce di banana sul marciapiede

di Donato Grosser

La parashà  inizia con le parole “E queste sono le leggi che dovrai presentare agli israeliti” (Shemòt, 21:1).
     Rashì (Troyes, 1040-1105) commenta che la parola “e” collega la parashà precedente dove vi sono i Dieci Comandamenti, con quello che segue, per insegnare che anche le leggi in questa parashà furono date a Moshè al Monte Sinai.
     R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 186) commenta che dopo i Dieci Comandamenti il testo successivo avrebbe dovuto essere quello al capitolo 24, dove l’Eterno dice a Moshè di fare il patto con il popolo. La parashà di Mishpatìm rappresenta invece una distacco da questi argomenti. Invece di continuare con la rivelazione, il testo introduce l’argomento dei danni, che fanno parte delle leggi civili. Per quale motivo la Torà presenta a questo punto l’argomento degli impegni finanziari? Per quale motivo è importante trattare gli argomenti di colui che da’ beni in custodia al prossimo, delle acquisizioni, delle cambiali? Questi argomenti di carattere commerciale apparentemente non appartengono a un codice morale. Il fatto che siano presentate proprio qui significa che la legge civile ha un significato religioso. La distruzione della proprietà e la violazione di domicilio non sono semplicemente violazioni delle legge civile ma anche trasgressioni morali.
     R. Ya’akov Kuli (m. Costantinopoli, 1732) autore dell’opera Me’am Lo’ez, commenta, che è importante sapere che uno dei principi dell’ebraismo è di stare attenti a non causare danni al prossimo (p. 728). Uno dei casi che egli cita, dall’opera halakhica Kenèsset Hagedolà (n.90)  di r. Chayim Benveniste (Costantinopoli, 1603-1673, Smirne) , è quello di una persona che viene posta di fronte a un dilemma: mostraci dove è il tesoro del tuo vicino, o dacci tutto quello che hai, oppure ti uccidiamo. Se la vittima rivela dove è tesoro del vicino, è responsabile della perdita causata al vicino, perché  poteva salvare la propria vita dando tutto quello che aveva. E se fosse stato minacciato di morte se non avesse mostrato dove era il tesoro del vicino, e ha salvato la propria vita rivelando dove è il tesoro del vicino, è ugualmente responsabile perché chi salva la propria vita con quello che appartiene al prossimo è obbligato a pagare il danno causato anche se ha agito così per pikùach nèfesh (pericolo di vita). Un altro caso citato in Me’am Lo’ez tratto dal Tur Chòshen Mishpàt (409 e 412) di r. Ya’akov ben Asher (1269, Colonia-Toledo, 1343) è quello di chi getta acqua per la strada e un passante scivola e si fa male. Il danno causato va risarcito. Questo deriva da quello che è scritto nella Torà che chi scava una fossa nel dominio pubblico è responsabile dei danni causati (Shemòt, 21:33). E chi trova del vetro deve buttarlo in un posto sicuro dove non potrà causare danni ad altri. Così pure chi butta l’immondizia nel dominio pubblico è responsabile dei danni causati, specialmente se butta bucce di angurie e di meloni. Questi sono alcuni esempi della mitzvà della Torà di non causare danni al prossimo. Le bucce di banana non sono citate da questi posekìm, perché arrivarono in Europa molto più tardi.

(Morashà, 9 febbraio 2024)
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Parashà della settimana: Mishpatim (Leggi)

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Yuval e Ofir, sopravvissuti al massacro del 7 ottobre, allargano la famiglia

di Michelle Zarfati

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Quattro mesi dopo essere sopravvissuta insieme a suo marito Yuval e al figlio Tai al massacro di Hamas del 7 ottobre, Ofir Balachsan, residente nel Kibbutz Sufa, ha dato alla luce una bimba, chiamata Cami, che in ebraico significa ‘crescere’. “Invece di sprofondare nella disperazione, ci siamo alzati, siamo vivi e stiamo bene” ha detto la donna ai media locali.
   “Con tutto quello che abbiamo passato, un’esperienza che ancora non riesco ad accettare, sapevo che la piccola sentiva tutto dentro la mia pancia. Ho dovuto mantenere la calma per lei”, racconta Ofir, nascosta per ore in un rifugio antiaereo con suo figlio e i genitori di Yuval, mentre suo marito, il comandante della squadra di sicurezza del kibbutz, ha combattuto con i suoi compagni contro i terroristi di Hamas, infiltrati nelle case dei residenti al Kibbutz Sufa. La donna ha trascorso gli ultimi mesi della sua gravidanza in una camera d’albergo a Eilat.
   “Questo periodo è stato molto frustrante per me. – ha spiegato – Tutto ciò che una donna vuole prima di partorire è un luogo sicuro, e quando non ce l’hai, è davvero difficile. Tutto quello che volevo era partorire e far stare la bambina bene. Sì, non era l’ospedale dove avevo intenzione di partorire, ma comunque, la cosa più importante era rimanere vivi. Dopo la nascita di Cami, quando l’hanno messa su di me è stata una grande vittoria”.
   “Abbiamo perso molti amici e molti altri sono stati rapiti – ha aggiunto – Tre giorni dopo il parto, tutto mi ha colpito. Fino ad allora, mi concentravo sulla gravidanza e sul parto, e dopo che la bambina è venuta al mondo, ho avuto il tempo di pensare. E ripetevo di continuo: e se ci uccidessero? E se ci rapissero? Non riesco a immaginarlo”.
   Ora la famiglia sta cercando di adattarsi alla vita a Ramat Gan, dove si sono trasferiti insieme ad altri membri del loro kibbutz sfollati ormai da Sufa. “Non avremmo mai immaginato di vivere in una città. Tuttavia, in questo momento, non riesco a immaginare di tornare al kibbutz. D’altra parte, non riesco a immaginarmi di vivere da nessun’altra parte. Torneremo a casa quando le condizioni saranno di nuovo adeguate per noi e per la nostra famiglia”.

(Shalom, 8 febbraio 2024)

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Nelle viscere di Khan Yunis, “la stanza di Sinwar”: qui il leader di Hamas si è nascosto con 12 prigionieri

Repubblica è entrata nella rete di tunnel sotto la città di Khan Yunis. In queste stanze, secondo gli israeliani, sono stati tenuti 12 ostaggi sequestrati il 7 ottobre

di  Fabio Tonacci

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KHAN YUNIS – Da sotto, il sopra non esiste. Non si sente, non si percepisce, non si vede. Nell’oscurità umida e afosa di questo tunnel chilometrico che puzza di fogna e innerva le viscere di Khan Yunis, ogni decisione presa sembra priva di conseguenze. Ogni essere umano diventa ombra. Si cammina per centinaia di metri con la testa incassata nelle spalle attraverso gallerie di cemento tutte uguali, larghe sessanta centimetri e alte poco più di un metro e settanta. Non ci sono indicazioni. «Riposa in pace, Abdul Salam», è l’unica scritta, in arabo, letta in un angolo. Le pareti trasudano umidità, bagnando la guaina di plastica dei cavi che portavano l’elettricità alla ragnatela. Ora sono il filo d’Arianna per ritrovare l’uscita.
   Si passano cancelli e porte di ferro, a tratti gli scarponi affondano nella fanghiglia, si entra in cucine rivestite in ceramica colorata e bagni sudici con piastrelle che riproducono il mare con le palme. Niente di più lontano da questo “non luogo”. Si scende giù in profondità. Dieci metri, venticinque metri, trenta metri, più il tunnel va giù più l’ossigeno diminuisce e si fatica a respirare quest’aria esausta, mille volte respirata da altri. «Qui hanno tenuto dodici ostaggi israeliani», dice a un certo punto il generale di brigata Dan Goldfus, comandante della 98° Divisione paracadutisti. «E qui si nascondeva Yahya Sinwar».

• NELLA RAGNATELA DI KHAN YUNIS

FOTO 2
Repubblica è entrata in uno dei complessi principali della rete scavata da Hamas. Importante per la complessità ingegneristica, per ciò che vi è stato trovato dentro e per chi lo abitava. «Per prenderne il possesso abbiamo combattuto intensamente all’interno delle gallerie, che erano minate e piene di trappole», premette l’ufficiale.
   Si accede da un buco in un terrapieno nel mezzo di un quartiere residenziale di Khan Yunis. O meglio, di quel poco che rimane del quartiere: siamo nel centro della seconda città della Striscia di Gaza, devastato, irriconoscibile, spianato dai bulldozer blindati e quasi raso al suolo da più di quattro mesi di bombardamenti. I palazzi non sono danneggiati, sono collassati in cumuli di macerie. Dove ora si apre il cratere con la bocca del tunnel, prima c’era una casa abitata da palestinesi. Attorno, i panni stesi e le piante sul balcone. Di civili non c’è traccia. In superficie si sentono sparatorie, esplosioni, il ronzio delle eliche dei droni che volano nel cielo terso mattutino. Si scendono i quattordici gradoni in muratura della scala iniziale, il mondo si spegne. Si precipita nel buio e nell’assenza dei suoni.

• LA STANZA DEL CAPO

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Quella che viene indicata dal generale Goldfus come «la stanza di Sinwar» è un locale stretto e lungo di 20-25 metri quadrati, con la volta a botte, intonacato e rivestito in ceramica. Il soffitto è più alto rispetto alle gallerie. Sulla parete sono installati gli interruttori per la luce, due staffe con la placca metallica per appendere le televisioni e diverse prese per l’antenna. Forse c’era pure il collegamento a internet, portato trenta metri sotto terra da uno dei tanti fili su cui si inciampa nella penombra. «È probabile...».
   Nella camera i segni di un bivacco abbandonato in fretta: due tavolini di legno, stoviglie, una valigia sventrata, due tappeti, una bombola del gas, un letto di plastica con un materasso marrone, bottiglie d’acqua, libri, del cibo avariato. «Siamo convinti che questa stanza, che fa parte del compound, sia stata utilizzata da Sinwar e da altri leader di Hamas», sostiene l’ufficiale. Non spiega su cosa fondi questa convinzione e non è possibile verificare la circostanza con fonti indipendenti.
   L’impressione è che l’intelligence israeliana abbia acquisito degli elementi in tal senso, ma che li stia ancora valutando e pesando. Oppure che non voglia rivelarli alla stampa per non compromettere la caccia all’uomo che ha ideato il massacro del 7 ottobre. Solo la sua cattura, o uccisione, potrebbe mettere la parola fine ai bombardamenti e agli attacchi aerei che hanno provocato finora 27 mila vittime tra cui molti bambini, secondo il conteggio delle autorità palestinesi.

• IL SEGRETO DEI TUNNEL

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Il tunnel fa parte di quello che l’Idf ritiene essere un «compound», cioè uno snodo cruciale per il comando di Hamas che si dipana sotto Khan Yunis e si connette a centinaia di cavità nel tessuto urbano come quella da cui siamo entrati. «Prima della guerra aveva una funzione solo logistica, dopo è stata riadattato a prigione per nascondere i rapiti dei kibbutz». Un rifugio simile è stato scoperto di recente in un’altra area della città, in quel caso è stato detto che era l’ufficio operativo del fratello di Sinwar, Mohammed.
   Camminando lungo le gallerie e osservandone da vicino la struttura basica, si intuisce come sia stato possibile costruire, negli anni e nella clandestinità, un’opera del genere. Il segreto è nel terreno argilloso della Striscia. Tra le intercapedini dei moduli di cemento si intravede la sabbia, non ci sono mai sasso o pietrisco. Per realizzare la “metropolitana” di Gaza, che secondo alcune stime si estende per 700 chilometri (quasi il doppio di quella, vera, di Londra), i miliziani hanno grattato un terreno morbido, consolidando poi i tunnel con prefabbricati di cemento composti da due stipiti larghi trenta centimetri e un arco sopra. Così per chilometri e chilometri. E milioni di moduli, posti uno di seguito all’altro.
   Insieme a Repubblica ci sono Le Monde, il Wall Street Journal e la Cnn. Le regole di ingaggio per l’embedded sono le solite: alla fine del viaggio, durato cinque ore, l’ufficio della censura militare ha analizzato il materiale video e fotografico raccolto a Khan Yunis e ha chiesto di non pubblicare due immagini esterne attorno all’imbocco del tunnel perché «possono rendere localizzabile la posizione delle truppe». Ai giornalisti è tuttora impedito l’ingresso in autonomia a Gaza.

• LA GABBIA

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Dopo quindici minuti nel dedalo, si suda per il caldo pur stando fermi. Dopo quaranta minuti anche il respiro si fa più faticoso. Il corpo si deve abituare alle inusuali condizioni ambientali, la mente si sforza di non cedere alla claustrofobia. Si ha fame d’aria. Il senso del tempo si perde, cinque minuti diventano mezz’ora, e mezz’ora diventa cinque minuti. «È ciò che hanno sopportato per settimane i dodici ostaggi tenuti in gabbia». In gabbia. E in effetti così appare quest’ultima stanza, pavimentata, rivestita di mattonelle bianche con un motivo arabescato marrone, chiusa da sbarre d’acciaio, con un cancello d’ingresso e un chiavistello. All’interno non ci sono né letti né sedie.
   Niente arredo, nessuna presa d’aria, solo un ventilatore appeso in alto, in prossimità di un varco che conduce a un bagno senza doccia.
   Stavolta Goldfus è prodigo di dettagli. «Siamo certi che i nostri fossero segregati qui perché abbiamo prove forensi». Significa che hanno potuto estrarre il dna da tracce biologiche raccolte nei locali. «Tre di loro sono stati rilasciati durante la tregua di fine novembre». Si tratta di Sahar Calderon, 16 anni, Sapir Cohen, 29 anni, e Or Jacob, 17 anni, che vivevano nel kibbutz Nir Oz, vicino al recinto della Striscia. Anche in questo caso le parole del generale non sono verificabili, ma la descrizione fatta dai tre dopo la liberazione combacia con l’aspetto della gabbia. Degli altri nove ostaggi non si hanno notizie.
   Seguendo a ritroso i cavi dell’elettricità, si ritorna al primo tratto del tunnel, quello più fangoso dove si erano appostate le guardie di Hamas. Da lì si passa alla scaletta dove filtra un raggio di sole del mondo di sopra. Siamo stati giù per più di un’ora, percorrendo gallerie per 900 metri. Lungo il percorso si sono visti diversi cunicoli laterali. Alcuni erano interrotti da sacchi di sabbia. Altri affondavano per chilometri nel ventre molle della città distrutta.

(la Repubblica, 8 febbraio 2024)

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Nessun accordo tra Israele e Hamas. Netanyahu: «Guerra fino alla vittoria totale»

Israele avanza su Rafah nel sud di Gaza

Il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dopo settimane di mediazione, ha affermato mercoledì in una conferenza stampa convocata a Gerusalemme che la vittoria totale a Gaza è a portata di mano, respingendo l’ultima offerta di Hamas per un cessate il fuoco finalizzata a garantire il ritorno degli ostaggi ancora detenuti nell’enclave assediata. Arrendersi alle condizioni «deliranti» di Hamas, ha proseguito il Primo ministro, porterebbe a «un altro massacro che nessuno sarebbe disposto ad accettare». Quanto agli ostaggi, Netanyahu ha confermato che la loro liberazione resta una priorità assoluta ma solo una «maggiore pressione militare» aumenterà le possibilità della loro liberazione. E ha ribadito: «Continueremo fino alla fine. Non c’è altra soluzione oltre alla vittoria completa».
L’annuncio che Israele andrà avanti nella guerra fino alla «distruzione totale» della fazione islamica, con l’esercito che ha avuto l’ordine di avanzare verso Rafah, ha suscitato le reazioni del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, che ha espresso preoccupazione per il potenziale attacco militare di Israele nella città nel sud di Gaza.
Il coordinatore degli aiuti d’emergenza delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, ha dichiarato a sua volta che l’escalation a Rafah rischia di «provocare la morte di ancora più persone» e «ostacolare un’operazione umanitaria già limitata dall’insicurezza».
Nonostante gli sforzi diplomatici e i combattimenti in corso, la situazione attuale nel Medio Oriente rimane quindi molto complessa, instabile e suscettibile a repentini cambiamenti. Le speranze di una tregua rimangono incerte, mentre le cronache della guerra evidenziano un aumento delle proteste tra la popolazione israeliana e palestinese, alimentate dalla prolungata durata del conflitto. L’obiettivo primario rimane il raggiungimento di un accordo tra Hamas e Israele, che includa il rilascio di tutti gli ostaggi ancora detenuti.
Nel frattempo, impegnato nel suo quinto tour diplomatico in Medio Oriente da ottobre, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha incontrato Abū Māzen nella sua ultima tappa a Ramallah, dove il presidente palestinese gli ha chiesto di impedire l’espulsione della popolazione da Gaza e nuove violenze in Cisgiordania e che gli Stati Uniti insistano per la nascita di uno Stato palestinese, come già richiesto dall’Arabia Saudita.
Durante il suo colloquio con Netanyahu, Blinken ha messo in guardia il premier israeliano contro qualsiasi azione che possa esacerbare le tensioni: «Troppe vittime civili, Israele deve garantire gli aiuti umanitari», ha affermato dichiarando che pur «essendo scioccato dal 7 ottobre», ossia dagli attacchi condotti quattro mesi fa da Hamas contro Israele, «penserò alle migliaia di bambini uccisi a Gaza per il resto della mia vita» secondo quanto riportato dal canale israeliano Channel 13.  Blinken ha quindi aggiunto che «un’intesa è ancora possibile», osservando «che gli Stati Uniti lavoreranno incessantemente fino a quando non ci arriveremo».
Gli Stati Uniti vedono la tregua come parte di una strategia più ampia per risolvere il conflitto in Medio Oriente e favorire la normalizzazione delle relazioni tra Israele e i paesi arabi. Intanto un nuovo ciclo di colloqui sugli ostaggi inizia oggi in Egitto.
Come riferisce Reuters, le dichiarazioni di Netanyahu riguardo al suo impegno nel mettere fine al movimento islamico palestinese sostenendo che Israele deve perseguire la completa distruzione dell’organizzazione come unica via per garantire la sicurezza del Paese, sono state respinte dai rappresentanti di Hamas che le hanno definite una mera «spavalderia politica», intendendo che le osservazioni del leader israeliano riflettano solo la sua intenzione di prolungare il conflitto nella regione.
Hamas ha anche annunciato che una delegazione guidata da un alto funzionario, Khalil Al-Hayya, si recherà al Cairo per continuare i colloqui con i mediatori dell’Egitto e del Qatar sulla possibilità di una tregua. Tuttavia, Hamas ha mantenuto una posizione ferma, invitando le fazioni armate palestinesi a continuare la lotta.
L’offerta di tregua di Hamas prevedeva una fase di quattro mesi e mezzo, durante la quale tutti gli ostaggi sarebbero stati liberati e Israele avrebbe ritirato le sue truppe dalla Striscia di Gaza, seguita da colloqui per porre fine alla guerra. Tuttavia, Israele ha precedentemente insistito sul fatto che non avrebbe ritirato le sue truppe finché Hamas non fosse stato completamente eliminato.
In questa situazione, L’IDF è rallentato nel suo attacco alle roccaforti di Hamas, mentre le comunità israeliane vicine a Gaza rimangono insicure. In tutto questo, il numero di ostaggi morti è una preoccupazione, ma nonostante le richieste dei sindaci locali, non ci sono garanzie sulla sicurezza. «Smantellare Hamas non può essere fatto in un breve periodo e si può fare un po’ alla volta». Questa la valutazione sulla situazione della guerra del capo dell’esercito israeliano Herzi Halevi, secondo cui tanti più combattenti e comandanti di Hamas verranno uccisi e infrastrutture distrutte, più i militari si avvicineranno al raggiungimento dell’obiettivo importante» di riportare indietro i prigionieri. «Stiamo facendo un grande sforzo per questo. E non accadrà senza pressione militare», ha aggiunto Halevi.
In queste ore, come si legge, l’Idf ha reso noto di aver catturato decine di sospetti terroristi nella parte occidentale di Khan Younis, tra cui due terroristi che hanno partecipato all’assalto del 7 ottobre e un altro membro della forza d’élite Nukhba di Hamas.
Nella ricostruzione degli ultimi eventi, in un lungo articolo, The Times of Israel scrive che Hamas ha risposto a una proposta di tregua con richieste quasi massimaliste, cercando di sfruttare gli ostaggi israeliani per sopravvivere e riaffermare il controllo su Gaza. Ciò ha portato a un conflitto tra Hamas e Israele, con Netanyahu che cerca la «vittoria assoluta» e Hamas che condiziona la restituzione degli ostaggi alla fine della guerra. Nel frattempo, gli Stati Uniti cercano una soluzione diplomatica, ma la situazione è complicata dall’urgente bisogno di assistenza politica e dalla mancanza di coordinamento tra Israele e l’Egitto.

(Bet Magazine Mosaico, 8 febbraio 2024)

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L’ipoteca americana sulla guerra a Gaza

di Niram Ferretti

Le due conferenze stampa che si sono tenute ieri in Israele dopo la quinta visita in Medio Oriente dall’inizio della guerra da parte del Segretario di Stato americano Antony Blinken, evidenziano specularmente due registri divergenti.
Nel suo intervento, Benjamin Netanyahu, ha chiarito in modo perentorio che la proposta di accordo fatta da Hamas è del tutto irricevibile per Israele, e non avrebbe potuto essere diverso, trattandosi di una sommatoria di richieste esorbitanti culminanti con la cessazione dell’operazione militare a Gaza e la vittoria politica del gruppo terrorista.
Netanyahu ha ribadito che Israele proseguirà la sua operazione militare nella Striscia fino a quando Hamas non sarà sconfitto, e che ogni accordo che non prevede questo esito sarebbe per Israele un disastro. Solo dopo la sconfitta di Hamas sarà possibile riprendere la strada dell’avvicinamento all’Arabia Saudita interrotto il 7 ottobre.
La Casa Bianca non ottiene dunque al momento alcuna apertura a una disponibilità negoziale da parte di Israele, non con le proposte attuali avanzate da Hamas. Il cauto ottimismo che un accordo potesse essere raggiunto si è dissipato rapidamente. Resta la convinzione di Israele che la liberazione degli ostaggi ancora detenuti nella Striscia, possa avvenire solo con l’aumento della pressione militare, non con la sua sospensione.
Antony Blinken ha risposto più tardi, e nella sua conferenza ha ribadito che, pur avendo Israele tutto il diritto di perseguire il proprio obiettivo militare, conseguenza del 7 ottobre scorso, il numero dei civili morti continua a essere troppo alto e che Israele deve fare il possibile per diminuirlo, esortazione che è cominciata fin dal principio della guerra e che risponde alle forti critiche interne al partito democratico e a una parte dell’elettorato sull’appoggio che gli Stati Uniti stanno dando a Israele. Fino qui tutto come da copione, ma c’è un passaggio del discorso su cui occorre soffermarsi ed è quando Blinken dice:
“Gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile il 7 ottobre. Da allora gli ostaggi sono stati disumanizzati ogni giorno. Ma questa non può essere una licenza per disumanizzare gli altri…La stragrande maggioranza della popolazione di Gaza non ha nulla a che fare con gli attacchi del 7 ottobre. Le famiglie di Gaza la cui sopravvivenza dipende dalla fornitura di aiuti da parte di Israele sono come le nostre famiglie. Sono madri e padri, figli e figlie, che vogliono guadagnarsi da vivere dignitosamente, mandare i propri figli a scuola, avere una vita normale. Ecco chi sono. Questo è quello che vogliono. E non possiamo, non dobbiamo perderlo di vista. Non possiamo, non dobbiamo perdere di vista la nostra comune umanità”.
Al di là della retorica e di una dose massiccia di demagogia, in queste parole si evidenzia come, dopo quattro mesi di guerra e la perdita di vite di migliaia di civili che vanno sottratti dalla cifra all’ingrosso data da Hamas, la quale comprende anche i jihadisti morti negli scontri, il punto fondamentale per gli Stati Uniti non è più, sempre che lo sia mai stato realmente, la sconfitta di Hamas a Gaza, ma che Israele non si comporti come Hamas.
Si tratta di una equivalenza insostenibile e profondamente disonesta. Washington sa benissimo che non esiste alcuna possibilità reale per Israele, date le condizioni di combattimento nella Striscia per evitare, pur con tutte le cautele, un numero elevato di morti civili. Sa benissimo che Israele sta combattendo una guerra urbana estremamente complicata, e resa ancora più difficile dalle continue pressioni che subisce per fornire aiuti umanitari che sostanzialmente finiscono nelle mani di Hamas, e appunto per cercare di limitare al massimo il numero delle vittime collaterali. Tuttavia non può evitare di confondere le acque indicando che nella sua risposta Israele sta eccedendo, dando così linfa a tutti coloro, la maggioranza degli attori internazionali, che stanno mettendo Israele sotto accusa e vorrebbero imporgli un cessate il fuoco, primo fra tutti Hamas stesso.
Si tratta del secondo inequivocabile segnale di un cambio di registro, dopo il dispositivo punitivo nei confronti di quattro coloni della Cisgiordania accusati di “violenza intollerabile”, dispositivo che Netanyahu non ha avuto remora a qualificare davanti a Blinken come un atto grave che mette sotto accusa ingiustamente tutta una categoria di persone le quali, in questo momento critico stanno dando con l’impegno a Gaza il loro contributo alla guerra, sottolineando che nulla di simile è stato disposto contro le ben più gravi violenze dei palestinesi contro i residenti ebrei della regione.
La distanza tra Washington e Gerusalemme è destinata ad allargarsi. Le esigenze di politica interna americane sulla necessità che la guerra non duri ancora a lungo sono in ovvio contrasto con le dichiarazioni di Netanyahu e l’obiettivo che Israele si è dato fin dal principio, la sconfitta di Hamas. Obiettivo che, nonostante il parere del tutto strumentale di sedicenti esperti, è perfettamente raggiungibile, ma necessita di tempo e impegno.
Hamas non ha le risorse per potere contrastare a lungo l’offensiva israeliana, ed è il motivo per cui, fin dall’inizio della guerra, ha fatto affidamento sulla via politica, le pressioni internazionali per obbligare Israele a quel cessate il fuoco che gli servirebbe per non capitolare. L’utilizzo del Sudafrica, paese amico e ferocemente anti-israeliano, per accusare Israele di genocidio davanti alla Corte Penale Internazionale, rientra in questa strategia.
Gli Stati Uniti non chiederanno a Israele il cessate il fuoco, sarebbe troppo esorbitante il prezzo politico da pagare a casa, ma cercheranno di fare il possibile nei giorni che verranno per metterlo nelle condizioni di accettare un accordo per il rilascio degli ostaggi, che, con il pretesto che sia questo il vero obiettivo da raggiungere, gli impedirebbe di vincere la guerra.

(L'informale, 8 febbraio 2024)

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Le richieste di Hamas aggravano la frattura tra Israele e Stati Uniti

Mentre Israele trova oltraggiose le richieste di Hamas in materia di ostaggi, gli americani ne sembrano in qualche modo incoraggiati.

di Ryan Jones 

L'amministrazione del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden si sta occupando degli interessi di Israele? O è più preoccupata della propria rielezione a novembre? Queste sono le domande che molti in Israele si pongono alla luce delle diverse reazioni alle ultime richieste di Hamas per il rilascio degli ostaggi.
In cambio dei rimanenti ostaggi israeliani detenuti a Gaza (un terzo dei quali è ora ritenuto morto), Hamas vuole, secondo il Qatar, quanto segue:

  • La cessazione della guerra di Gaza (in modo che Hamas mantenga il controllo del territorio).
  • Il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza (cioè nessun controllo di sicurezza da parte dell'IDF nel dopoguerra).
  • Il rilascio di almeno 1.500 terroristi palestinesi imprigionati, molti dei quali hanno ucciso israeliani, compresi quelli coinvolti nei massacri del 7 ottobre.
  • Il divieto assoluto per gli ebrei di visitare il Monte del Tempio a Gerusalemme.
  • Migliaia di edifici temporanei per la Striscia di Gaza
  • Un massiccio aumento del carburante e delle forniture mediche a Gaza.

In breve, queste sono le condizioni per una vittoria di Hamas. Se riuscirà a strappare queste concessioni a Israele nonostante la devastazione della Striscia di Gaza, avrà vinto la guerra.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha immediatamente etichettato le richieste come "folli" e ha dichiarato che la vittoria di Israele è a portata di mano.
"La risposta di Hamas è stata formulata in modo tale che Israele ha dovuto rifiutarla", ha aggiunto il ministro della Difesa Yoav Galant.
Poco prima della pubblicazione delle richieste di Hamas, il ministro del Gabinetto di Guerra Benny Gantz aveva dichiarato che l'IDF non si sarebbe ritirato dalla Striscia di Gaza in nessun caso fino a quando la minaccia di futuri attacchi di Hamas non fosse stata eliminata. Un mese fa, Gantz aveva chiarito che Israele avrebbe mantenuto il controllo di sicurezza su almeno alcune parti della Striscia di Gaza in qualsiasi quadro postbellico.
Come ha notato Galant, le condizioni presentate da Hamas mercoledì sono chiaramente irrealizzabili. Se Israele le accettasse davvero, equivarrebbe a una capitolazione e garantirebbe virtualmente la prossima invasione terroristica. Dopo tutto, se Hamas da solo ha potuto ottenere tanto inviando 3.000 jihadisti in Israele, si può immaginare cosa si potrebbe ottenere la prossima volta se Hezbollah e altri proxy iraniani si unissero e invadessero con decine di migliaia di terroristi.
Il Segretario di Stato americano in visita, Antony Blinken, ha tuttavia affermato di ritenere che la risposta di Hamas abbia creato "spazio" per il dialogo. Per molti israeliani, il commento di Blinken è stato oltraggioso quasi quanto le richieste di Hamas.
"Oggi abbiamo avuto l'opportunità di parlare con il governo israeliano della risposta che Hamas ha inviato ieri sera", ha dichiarato Blinken ai giornalisti in Israele. Ha sottolineato che alcune delle richieste di Hamas erano effettivamente "irrealistiche", ma che era comunque "essenziale" raggiungere un cessate il fuoco e un accordo sugli ostaggi, e che la risposta del gruppo terroristico aveva creato "spazio" per questo.

• WASHINGTON HA PERSO IL PUNTO DI SVOLTA STORICO
  Gli eventi del 7 ottobre 2023 e la successiva guerra a Gaza sono stati per molti versi un punto di svolta storico. Come dicono gli israeliani, "ciò che è stato, non sarà più". E questo non si riferisce solo alle relazioni tra Israele e i palestinesi.
Le tensioni diplomatiche legate agli sforzi di Israele per difendersi e impedire che gli orrori di questo Shabbat nero si ripetano hanno messo in luce profonde spaccature tra Israele e gli Stati Uniti. O almeno tra Israele e l'attuale amministrazione statunitense.
La Casa Bianca deve capire che il 7 ottobre ha innescato un cambiamento nella psiche israeliana. Gli interessi nazionali degli Stati Uniti non sono più uguali agli interessi nazionali di Israele. Perché per gli israeliani è letteralmente una questione di vita o di morte, e di una morte orribile e straziante.
Alla stragrande maggioranza degli israeliani non interessa più se la Casa Bianca è d'accordo con ciò che pensano si debba fare per proteggere lo Stato ebraico o se gli americani sono favorevoli al modo di risolvere il conflitto. Le formule che escono da Washington sono chiaramente fallite.

(Israel Heute, 8 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Leitmotiv: "L'America è un sostegno di canna rotta che penetra nella mano di colui che vi si appoggia e gliela fora". Ultimi due esempi: Ucraina e Israele. M.C.

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USA: senatori democratici contro l'invio di armi a Israele

di Sarah G. Frankl

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Alcuni senatori democratici stanno spingendo per impedire all’amministrazione Biden di aggirare il Congresso nell’approvare le vendite di armi a Israele, mentre lo Stato ebraico continua la sua guerra contro Hamas con crescente impegno.
Il senatore democratico Tim Kaine, della Virginia, presenterà la prossima settimana un emendamento che, se approvato, cancellerà il testo del supplemento per la sicurezza nazionale da 118 miliardi di dollari che consente all’amministrazione di accelerare i finanziamenti per qualsiasi futura vendita di armi a Israele senza prima informare il Congresso.
   La legislazione più ampia sui confini rischia sempre più di morire al Senato a causa dell’opposizione bipartisan, il che rende improbabile che la disposizione su Israele venga votata. Tuttavia, la spinta di Kaine e della maggioranza del caucus democratico del Senato è l’ultimo esempio della crescente critica da parte dei membri del partito del Presidente Joe Biden riguardo alla gestione della sanguinosa guerra in corso tra Israele e Hamas e al crescente ruolo dell’America in essa.
   “Il Congresso e il popolo americano meritano piena trasparenza sull’assistenza militare a tutte le nazioni”, ha dichiarato Kaine in una dichiarazione all’Associated Press. “Nessun presidente, di nessun partito, dovrebbe scavalcare il Congresso su questioni di guerra, pace e diplomazia”.
   L’emendamento, che ha il sostegno dei presidenti delle commissioni del Senato per le relazioni estere, i servizi armati e l’intelligence, arriva dopo che a dicembre Biden ha aggirato due volte i legislatori per inviare oltre 250 milioni di dollari di armamenti a Israele. Bypassare il Congresso con decisioni d’emergenza per la vendita di armi è un passo inusuale che nelle passate amministrazioni ha incontrato la resistenza dei legislatori che normalmente hanno un periodo di almeno 15-30 giorni per valutare i trasferimenti di armi proposti e, in alcuni casi, bloccarli.

(Rights Reporter, 7 febbraio 2024)

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Pagamenti dall'Iran a Hamas

L'esercito trova prove di pagamenti diretti dall'Iran ad Hamas a Gaza. Secondo le prove, sono stati trasferiti più di 150 milioni di dollari.

TEL AVIV - L'esercito israeliano ha trovato a Gaza prove di pagamenti diretti dall'Iran al leader di Hamas Yahya Sinwar. Lo ha annunciato martedì sera il portavoce dell'esercito Daniel Hagari. L'esercito ha trovato documenti del 2020 che elencano il denaro trasferito dall'Iran ad Hamas tra il 2014 e il 2020.
Sono stati trasferiti circa 150 milioni di dollari USA. In totale, l'Iran ha fornito circa 154 milioni di dollari USA, equivalenti a 140 milioni di euro, ha aggiunto Hagari.

• Trasferimenti per milioni
  Secondo i documenti, Sinwar ha ricevuto 15 milioni di dollari USA nel 2014, 48 milioni di dollari USA nel 2015, 42 milioni di dollari USA nel 2019 e 12 milioni di dollari USA nel 2020.
Oltre alle foto, l'esercito ha rivelato un video che sembra mostrare la scoperta di alcuni dei fondi. Mostra anche una cassaforte e alcune borse con denaro destinato a scopi terroristici. Gran parte del denaro era nascosto nei tunnel. Alcune delle borse erano etichettate: "Speciale - per Jahja Sinwar".
"La scoperta è un altro esempio di come l'Iran esporta il terrore in Medio Oriente", ha dichiarato Hagari. "Il terrore che l'Iran esporta e causa è un problema globale".

(Israelnetz, 7 febbraio 2024)

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Cosa significa essere uno studente ebreo a Berlino

Uno studente ebreo della Freie Universität (FU) di Berlino, Lahav Shapira, è stato ricoverato in ospedale a settimana scorsa con ossa rotte in faccia. Un compagno di studi filopalestinese di 23 anni lo avrebbe preso a calci e pugni. Di seguito un articolo di Hanna Veiler, presidente dell'Unione degli Studenti Ebrei in Germania (JSUD). NsI

di Hanna Veiler

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Quando sabato sera i nostri cellulari hanno squillato e abbiamo ricevuto la notizia che uno studente ebreo era stato picchiato in ospedale, quasi nessuno di noi è rimasto sorpreso. Quello che avevamo avvertito per mesi si era avverato. Il terribile timore che il pericolo sarebbe presto diventato fisico si è concretizzato.
   Tra gli studenti ebrei c'è un'amarezza che non avevamo mai conosciuto prima. È diventata per noi una normalità voltarci sulla strada di casa per assicurarci di non essere seguiti. È diventato normale essere pronti ad affrontare incidenti antisemiti in qualsiasi momento della vita universitaria quotidiana. Il clima in cui si svolge attualmente la vita degli studenti ebrei è nel migliore dei casi indifferente e nel peggiore - e non è affatto un'esagerazione - pericoloso per la vita.
   Il fatto che a uno studente ebreo abbiano rotto il naso nel centro di Berlino e che abbia riportato fratture multiple al volto dimostra chiaramente che agli slogan delle manifestazioni seguono rapidamente i fatti. Coloro che sognano una "intifada da Dahlem a Gaza" o legittimano il massacro del 7 ottobre come resistenza, non esiteranno a colpire quando se ne presenterà l'occasione. Questo tipo di odio per gli ebrei è stato a lungo socialmente accettato nelle università tedesche.
   Basta sostituire la parola "ebreo" con "sionista" per sentire la legittimazione morale a usare la violenza fisica. Perché nella visione antisemita del mondo, i "sionisti" non sono esseri umani. Meritano le loro sofferenze, si sostiene. Un'argomentazione che abbiamo dovuto ascoltare fin troppo spesso dopo il 7 ottobre e che ora sentiamo da molti compagni che difendono l’aggressore, ora che uno di noi è in ospedale con gravi ferite.
   Il fatto che le parole diventino fatti non avrebbe bisogno di ulteriori elaborazioni, soprattutto in questo Paese. È quindi ancora più grave che la direzione universitaria della Freie Universität non sembri essersene resa conto. Sulla base delle dichiarazioni pubblicate finora, è chiaro che la direzione della FU continua a non riconoscere il suo fallimento nell'attacco allo studente ebreo. Negli ultimi mesi, l'antisemitismo ha potuto diffondersi alla FU senza temere conseguenze immediate.
   Il fatto che si sia arrivati a questo punto è indice della decennale relativizzazione della violenza antisemita all'interno del sistema educativo. È la conseguenza della negazione dell'esistenza di un problema di antisemitismo nella propria istituzione, che continua ancora oggi. E sono gli studenti ebrei a pagarne il prezzo.

(Jüdische Allgemeine, 7 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’antisemitismo sorprende Israele

L’atteggiamento dopo il massacro del 7 ottobre non è sempre di condanna verso Hamas

di Meir Ouziel

Dal 7 ottobre gli israeliani vivono in un mondo incomprensibile, verso cui provano sentimenti di offesa, delusione, orrore e dolore. Prima di tutto c’è il dolore di quanti hanno perso i propri cari e di chi ancora vive l’angoscia di familiari tuttora rapiti a Gaza. Ogni israeliano si sente come se lui stesso fosse ostaggio a Gaza. Io conosco cinque famiglie i cui cari sono stati rapiti. Alcuni, tra cui due ragazzine di 8 e 15 anni, sono stati rilasciati, altri, come una giovane donna che conosco, Naama Levy, che ha solo 19 anni, è ancora lì. Oltre a questo dolore, gli israeliani sono avviliti per l’atteggiamento del mondo verso il massacro del 7 Ottobre. Non capiscono perché le organizzazioni per le donne e le femministe del mondo si rifiutino di condannare il rapimento e lo stupro delle nostre giovani. Molti israeliani non dormono la notte, soffrono di incubi incessanti. Nei primi giorni dopo il massacro, io stesso non potevo guardare un bambino ebreo senza provare una fitta di dolore immaginandomelo torturato o assassinato.Gli israeliani sono scioccati dal fatto che, dopo il brutale attacco omicida e di fronte al rapimento a Gaza anche di neonati di meno di un anno, persino in alcune parti del mondo occidentale questi atti sono stati accolti come gesta gloriose. Parliamo di quella stessa parte di mondo che finora gli israeliani e gli ebrei consideravano il bastione della cultura e della morale. E questo fa male. Gli esempi non mancano, a partire dal mondo della musica pop, con Paesi e artisti che rifiutano di accettare Israele all'Eurovisione, per finire con il processo alla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia, dove Israele si trova al banco degli imputati per genocidio.Questa è una ipocrisia incomprensibile. Il numero di civili di Gaza uccisi nelle operazioni di difesa contro Hamas rattrista anche gli israeliani, che stanno facendo più di qualsiasi altro esercito abbia mai fatto nella storia per evitare l’uccisione di civili. E l’esercito israeliano lo fa non perché questo è un obbligo secondo il diritto internazionale, ma innanzitutto perché gli israeliani non vogliono uccidere civili innocenti. L'uccisione e la sofferenza dei civili di Gaza toccano il cuore di tutti.
  Di tutti, tranne che della leadership di Hamas. Che avrebbe potuto porre fine a queste sofferenze immediatamente, annunciando la liberazione degli ostaggi e la fine della loro guerra volta a eliminare Israele. Lo ha detto chiaramente anche il Segretario di Stato americano Blinken durante il suo discorso in Israele a inizi gennaio, rispondendo a una domanda del giornalista di Al Jazeera che descriveva la sofferenza della popolazione di Gaza. Blinken ha risposto che tutte le sofferenze sarebbero potute finire il primo giorno della guerra se Hamas si fosse arreso: “Se Hamas deponesse le armi, liberasse gli ostaggi e si arrendesse, metterebbero fine a tutto ciò già domani”.Gli israeliani sono delusi anche da alcune prese di posizione italiane, come la decisione dell’Italia di interrompere i contratti di fornitura di armi a Israele proprio mentre questa si difende dall’attacco omicida di Hamas. E non si può non menzionare l’odio che esplode nei templi della cultura e dell’istruzione mondiale: le università americane, dove gli studenti ebrei sono minacciati con slogan che gridano al loro sterminio, come il noto “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. Proprio in questi istituti, che sono i paladini delle lotte per i diritti umani e degli animali, si strappano dalle mura i manifesti con le immagini degli ostaggi rapiti a Gaza, tra cui bambini. Tutti questi sono picchi di odio che feriscono ogni israeliano, ebreo e qualsiasi persona che non abbia perso la bussola morale. E in tutto questo, abbiamo anche assistito increduli al rifiuto delle presidenti delle più prestigiose università americane di definire l’invocazione al genocidio contro gli ebrei come semplice violazione del codice di condotta delle università. È vero, in seguito queste presidenti sono state costrette a dimettersi, ma è stato rivoltante constatare che l’invocazione del genocidio degli ebrei suonasse loro così legittima e naturale da ostinarsi a rifiutarsi di condannarla, pur sapendo che le loro parole erano registrate e trasmesse in diretta mondiale.C’è un nome per questa linea di pensiero: antisemitismo.Paradossalmente, l’antisemitismo è una cosa nuova per molti israeliani. Molti tra quelli nati e cresciuti in Israele hanno sentito più volte la generazione più anziana ripetere: "Non sai cosa sia l'antisemitismo". Spesso, gli ebrei della diaspora dicono agli israeliani: “A differenza nostra, voi non capite cosa significhi l'antisemitismo”. Ed è vero.
  Gli israeliani sotto i 75 anni non sapevano davvero cosa significasse l’antisemitismo. Ora lo sanno.Di fronte a un mondo che nutre un odio morboso verso gli ebrei e Israele, le minacce arrivano anche dagli amici più vicini, come gli Stati Uniti. Ogni israeliano è riconoscente all’America, ma uno dei pericoli maggiori in questa fase è la pressione americana per la “soluzione dei due Stati”, una fantasia ingenua ormai, condivisa da diversi Stati, tra cui l'Italia.E anche da molti israeliani. In effetti, Israele ci ha provato più volte a procedere in questa direzione, anche quando si è ritirata, quasi 19 anni fa or sono, dall’intero territorio della Striscia di Gaza, evacuando i fiorenti insediamenti ebraici e lasciando ai palestinesi un’area senza ebrei e senza dominazione israeliana. Da giornalista ero lì durante l'evacuazione e ho visto come le famiglie venivano portate via dall’esercito israeliano, ho visto famiglie lasciare in lacrime le case che avevano costruito, i giardini e gli alberi che avevano piantato. Nonostante la decisione dolorosa e controversa, la speranza allora era che i palestinesi trasformassero la Striscia di Gaza in un’area fiorente. Ma questa idea non ha mai interessato veramente i palestinesi. Tutta la libertà e tutto il denaro che hanno ricevuto negli anni sono stati investiti nei missili lanciati contro i cittadini d’Israele e nella costruzione di un’enorme fortezza sotterranea allo scopo di attaccare perpetuamente Israele, con la finalità di distruggerlo.Di fronte a un mondo del genere, molti israeliani sono sopraffatti dal terribile timore che il noto appello “Mai più” non rappresenti più un vero e sincero impegno.

(la Repubblica, 7 febbraio 2024 - trad. Sharon Nizza)

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Il presidente argentino Javier Milei in visita in Israele. Trasferirà l’ambasciata a Gerusalemme

di Luca Spizzichino

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Il capo di Stato argentino Javier Milei è arrivato ieri in Israele, meta della sua prima visita bilaterale da quando ha assunto la presidenza a dicembre. Appena atterrato Milei ha annunciato la sua volontà di trasferire l’ambasciata argentina a Gerusalemme, tuttavia al momento non sono stati fatti passi concreti.
Il ministro degli Esteri Israel Katz, che ha accolto Milei all’aeroporto Ben Gurion, lo ha ringraziato per aver sostenuto Israele nella guerra contro Hamas a Gaza e per aver riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. “Sei una persona di valori, che si impegna solo per la verità, e non c’è da meravigliarsi che tu abbia scelto di venire subito in Israele per sostenerci nella lotta per la difesa del popolo ebraico contro gli assassini di Hamas”.
   Prima di incontrare il presidente Isaac Herzog, il presidente Milei ha visitato il Muro Occidentale nella Città Vecchia di Gerusalemme, il luogo più sacro, dove è stato immortalato visibilmente emozionato mentre abbracciava il rabbino Shimon Axel Wahnish, con cui studia a Buenos Aires. Infatti, sebbene il capo di Stato argentino non sia ebreo, ha espresso interesse per l’ebraismo e ha parlato della potenziale conversione alla religione. Durante i suoi comizi ha più volte citato passaggi della Torah ed è salito sul palco per un evento elettorale ascoltando la registrazione di uno shofar.
   Durante l’incontro con Herzog, il presidente Milei è stato accolto da una banda dell’IDF, che ha suonato gli inni nazionali di entrambi i paesi. Si tratta del primo benvenuto di questo genere da quando è iniziata la guerra con Hamas il 7 ottobre.
   Nel colloquio tra i due, Herzog ha detto alla sua controparte che Israele “non può aspettare ancora” per riportare a casa gli ostaggi da Gaza. “Visiterete un paese che è stato attaccato il 7 ottobre da una brutale organizzazione terroristica, che ha effettuato un attacco barbaro e sadico contro il popolo di Israele e ha preso in ostaggio centinaia di persone”, ha detto Herzog in una dichiarazione pubblica insieme a Milei. “Ora abbiamo 136 ostaggi a Gaza, preghiamo e lavoriamo instancabilmente per riportarli a casa il prima possibile”. Milei ha dichiarato di aver inviato un disegno di legge al Congresso argentino chiedendo il rilascio di tutti gli ostaggi, compresi i cittadini argentini, e ha aggiunto che sta lavorando per dichiarare Hamas un’organizzazione terroristica.
   Oggi vedrà il primo ministro Benjamin Netanyahu e i membri del suo gabinetto di guerra.

(Shalom, 7 febbraio 2024)

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Corte dell’Aia: giudicherà Israele un presidente ostile a Israele

“Un infelice compleanno a te. 48 anni di occupazione”. La dedica è rivolta a Israele e a firmarla è Nawaf Salam. È il giugno 2015 e, mentre posta sui social il suo messaggio, Salam è in carica come rappresentante permanente del Libano alle Nazioni Unite. Tre anni dopo diventa uno dei quindici giudici della Corte internazionale di Giustizia (Cig). Ieri i suoi colleghi l’hanno nominato nuovo presidente della Corte che ha sede all’Aia.
  L’incarico è triennale e Salam, dopo la nomina, lo ha definito “una grande responsabilità”. All’istituzione Onu è affidato il compito di giudicare le controversie tra stati. Oggi è chiamata a valutare l’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica contro Israele per la guerra a Gaza. Lo farà con il giudice Salam, esplicitamente critico dello stato ebraico.
  “La prima cosa che mi viene in mente in questo momento – ha dichiarato – è la mia costante preoccupazione per Beirut, la mia città”. Il giudice ha espresso l’auspicio che “noi libanesi riusciremo a stabilire lo stato di diritto nel nostro paese e a far prevalere la giustizia”.
  Laureato in giurisprudenza alla Sorbona, Salam ha esercitato da avvocato in Libano, prima di seguire la carriera diplomatica. Nel 2022 era tra i candidati al ruolo di premier del paese dei Cedri. Hezbollah però si era messo di traverso. Salam aveva espresso molte critiche contro il movimento filoiraniano, contrario alla sua nomina. Alla fine era stato scelto l’attuale primo ministro Najib Mikati.
  Ad affiancare Salam alla guida della Cig, sarà l’ugandese Julia Sebutinde, nominata alla vicepresidenza. Sebutinde è stata l’unica a votare contro tutti gli ordini emessi dai colleghi contro Israele lo scorso 26 febbraio.

(moked, 7 febbraio 2024)

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La preghiera di un soldato salva i compagni

Il sergente maggiore Malchiel ben Yosef è stato l'unico a scorgere il terrorista, perché si era rivolto verso Gerusalemme per pregare.

Il sergente maggiore dell'IDF Malchiel ben Yosef ha salvato i suoi commilitoni da un terrorista che era uscito da un tunnel dietro di loro perché si stava rivolgendo a est verso Gerusalemme per la preghiera di  Mincha, la funzione pomeridiana.
L'incidente è avvenuto circa un mese e mezzo fa. Malchiel ha raccontato domenica a Canale 14 che il suo battaglione ha combattuto nella Striscia di Gaza per due mesi e mezzo, anche nel quartiere di Shejaia di Gaza City.
Avevano avuto 48 ore per riposare e recuperare in Israele prima di ricevere l'ordine di rientrare nella Striscia di Gaza. Malchiel si mise in coda con il suo 450° battaglione. I militari che lo precedevano erano già entrati nelle case prima lui.
A un certo punto il suo gruppo si è fermato e lui ha colto l'occasione per pregare prima del tramonto. Si è rivolto a est verso Gerusalemme, la direzione di tutte le preghiere ebraiche, e ha notato un movimento nel bel mezzo della sua preghiera.
"Ho notato, a 10 o 15 metri da me, qualcosa di metallico che si muoveva sul terreno. Mi sono detto che era un gatto o un animale", ha raccontato Malchiel al programma di Canale 14 "The Patriots".
Un attimo dopo, ha visto aprirsi il tetto metallico di un tunnel, che il battaglione non aveva notato al suo passaggio, e uscire un terrorista con un bazooka. Il terrorista si è mosso rapidamente in direzione ovest verso i soldati, che erano già entrati in una casa.
"Sono a sud di lui e lui non mi nota, ricorda Malchiel.
Malchiel, che ammette di essere stato in quel momento sotto shock, ha gridato al terrorista, che si è girato verso di lui. Malchiel ha sparato al terrorista e lo ha colpito. In quella frazione di secondo, i suoi amici, che non avevano notato il terrorista, si sono girati e hanno aperto il fuoco immediatamente.
"Grazie a Dio l'abbiamo eliminato prima che potesse sparare col bazooka", ha detto Malchiel.
Malchiel ha anche lanciato una granata nell'apertura del tunnel per eliminare ogni ulteriore minaccia.
Si è chiesto perché non avesse pregato prima quel giorno, visto che aveva altre opportunità, ma è contento di non averlo fatto.
Malchiel, un ebreo devoto, ha detto che prima dell'incidente, qualche volta si univano a lui altri soldati religiosi per pregare, ma da quando è successo l'incidente, anche i soldati non credenti vogliono pregare conshock lui. Osservazione che ha suscitato la risata generale del pubblico.
Il 450° Battaglione è composto da soldati provenienti dalla Scuola per Ufficiali Professionali e Comandanti di Squadra del Negev (nota con l'acronimo Bislamach), che forma i comandanti di squadra e i sergenti di plotone dell'Arma di Fanteria dell'IDF in tempo di pace.

(Israel Heute, 6 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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I terroristi che potrebbero essere rilasciati in un accordo con Hamas sono responsabili dei più gravi attacchi in Israele

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Si prevede che Hamas chiederà il rilascio di diversi terroristi di alto profilo, i quali stanno scontando più ergastoli nelle carceri israeliane, come parte di un potenziale accordo di tregua e rilascio di ostaggi con Israele, secondo un servizio televisivo andato in onda su Channel 12. L’elenco infatti  include i nomi dei terroristi dietro alcuni dei più grandi attacchi terroristici in Israele durante la Seconda Intifada tra il 2000 e il 2005, come Abdullah Barghouti, Abbas Al-Sayed, Ibrahim Hamed, Ahmad Saadat, Marwan Barghouti e Muhammad Arman.
Legittimo, quindi, temere che con un’eventuale liberazione di questi pericolosi prigionieri si possa ripetere un nuovo 7 ottobre.

Barghouti, l’ingegnere di Hamas, responsabile della morte di 66 persone
   In cima alla lista dei candidati di Hamas c’è Abdullah Barghouti soprannominato “l’ingegnere di Hamas”, e considerato il più grande esperto di esplosivi dell’organizzazione terroristica con la possibile eccezione di Yahya Ayyash, che fu assassinato nel 1996. Barghouti era responsabile della pianificazione di attacchi terroristici come l’attentato suicida del ristorante Sbarro del 2003 a Gerusalemme che uccise 16 persone tra cui sette bambini e una donna incinta; l’attentato suicida del Café Moment nel 2002 che uccise 11 persone; e l’attentato all’Università Ebraica del 2002 che uccise nove persone, tra cui cinque cittadini statunitensi.
In totale, Barghouti è stato responsabile dell’omicidio di 66 israeliani. È stato condannato a 67 ergastoli, il numero più alto mai inflitto a un prigioniero palestinese.

Gli altri prigionieri
   Secondo il rapporto, sulla lista probabile di Hamas c’è anche Abbas Al-Sayed, il comandante dell’ala militare di Hamas nella città di Tulkarem, in Cisgiordania. Pianificò l’attentato suicida del Park Hotel del 2002 a Netanya durante la Pasqua ebraica, che uccise 30 israeliani, per lo più anziani, e ne ferì 140, e divenne l’atto terroristico palestinese più mortale durante la Seconda Intifada. Al-Sayed è stato condannato a 35 ergastoli.
Si prevede inoltre che Hamas cercherà di liberare Ibrahim Hamed, considerato il prigioniero più pericoloso attualmente detenuto da Israele. Era il comandante dell’ala militare di Hamas in tutta la Cisgiordania ed era dietro numerosi atti terroristici. Alla fine Hamed è stato condannato per l’omicidio di 46 civili e gli sono stati comminati 54 ergastoli.
E’ stato fatto anche il nome di Marwan Barghouti (al centro nella foto), il leader della seconda Intifada che sta scontando cinque ergastoli per dieci atti di terrorismo, tra cui l’attacco al Sea Food Market di Tel Aviv, l’uccisione di tre israeliani a Givat Ze’ev e l’attacco di Hadera, in cui morirono sei israeliani.
Nella lista di Hamas dovrebbe figurare anche Ahmad Saadat (a destra nella foto), il leader del Fronte popolare marxista-leninista per la liberazione della Palestina (FPLP). Considerato un simbolo nella società palestinese, Saadat è la mente dell’assassinio del ministro israeliano del turismo Rehavam Ze’evi nel 2001, e condannato a 30 ergastoli. L’anno scorso è stato messo in isolamento come parte di un giro di vite contro una cellula terroristica del FPLP accusata di aver tentato di compiere attacchi in Cisgiordania e che era collegata a membri in prigione.
Anche Muhammad Arman, il leader dei prigionieri di Hamas in detenzione israeliana, è fra i nomi che potrebbero essere rilasciati. Arman è stato uno dei pianificatori dietro l’attentato al Café Moment e l’attentato suicida all’Università Ebraica. Gli sono stati dati 36 ergastoli.

(Bet Magazine Mosaico, 6 febbraio 2024)


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"Barghouti ha le mani sporche di sangue israeliano, ma è il beniamino dei media"  

ROMA - L’israeliano Channel 12 ha rivelato che in cima alla lista dei nomi di Hamas per lo scambio degli ostaggi c’è Abdullah Barghouti, soprannominato “l’ingegnere di Hamas” e il più grande esperto di esplosivi dell’organizzazione terroristica, responsabile della pianificazione di attacchi come l’attentato suicida al ristorante Sbarro di Gerusalemme che uccise 16 persone tra cui sette bambini e una donna incinta; l’attentato suicida al Café Moment (undici morti) e l’attentato all’Università ebraica (nove morti, tra cui cinque cittadini statunitensi). In totale, Barghouti è stato responsabile dell’omicidio di 66 israeliani. E’ stato condannato a 67 ergastoli. Poi c’è Abbas al Sayed, il comandante dell’ala militare di Hamas nella città di Tulkarem, in Cisgiordania, che pianificò l’attentato suicida del Park Hotel del 2002 a Netanya durante la Pasqua ebraica, che uccise 30 israeliani, per lo più anziani, l’atto terroristico palestinese più mortale durante la seconda Intifada. Ibrahim Hamed, considerato il prigioniero più pericoloso attualmente detenuto da Israele, il comandante dell’ala militare di Hamas in tutta la Cisgiordania dietro a numerosi atti terroristici, condannato per l’omicidio di 46 civili. E Muhammad Arman, uno dei pianificatori dietro l’attentato al Café Moment e l’attentato suicida all’Università ebraica. Gli sono stati dati 36 ergastoli.
   Hamas vuole anche il rilascio di Marwan Barghouti, il leader della seconda Intifada che sta scontando cinque ergastoli, con l’aggravante di altri quarant’anni di carcere, per dieci atti di terrorismo, tra cui l’attacco al Sea Food Market di Tel Aviv, l’uccisione di tre israeliani a Givat Ze’ev e l’attacco di Hadera, in cui morirono sei israeliani. Ma a differenza degli altri terroristi, Marwan Barghouti è un beniamino dei media occidentali.
   Il Guardian ha ospitato un suo editoriale di sostegno alla terza Intifada (il New York Times non è stato da meno). La stampa occidentale lo adora e lo paragona a Nelson Mandela: “Il Mandela palestinese” (L’Unità), “Il Mandela palestinese” (Il Sole 24 Ore), “Il Mandela di Ramallah” (La Stampa), “A Mideast Mandela” (Newsweek) e “A Nelson Mandela for the Palestinians” (Herald Tribune). “Barghouti e gli altri Mandela” (Il Fatto Quotidiano).
   In Francia numerose città gli hanno intitolato strade e piazze, come la città di Valenton. Una piazza in suo nome è stata inaugurata a Coulounieix-Chamiers. Il comune socialista di Coulounieix-Chamiers ha votato a larga maggioranza la proposta di nominare il piazzale del Castello di Izards in onore del terrorista palestinese. All’arciterrorista di Ramallah è stata concessa la cittadinanza onoraria da venti città francesi. Una foto di Barghouti è stata esposta al municipio di Stains. E anche Palermo, per iniziativa di Leoluca Orlando, gli ha concesso la cittadinanza onoraria.

• I LEGAMI CON FATAH
  All’inizio della seconda Intifada, Barghouti è diventato il leader delle Brigate dei martiri di al Aqsa e dei Tanzim. “Se non c’è sicurezza per i residenti di Tulkarem, non c’è nessuna sicurezza per i residenti di Tel Aviv”, disse Barghouti ai suoi. Nell’aprile 2002 l’esercito israeliano ha trovato negli uffici di Fatah una quantità di documenti che provavano il passaggio di danaro e di ordini da Yasser Arafat a Barghouti, e su per tutta la catena del terrore. Denaro, cinture di tritolo, fucili: era tutto annotato. Barghouti è responsabile, fra gli altri, dell’assassinio di Yoela Cohen, che aveva l’unica colpa di fare benzina a una pompa scelta come obiettivo. Benjamin Pogrund, il giornalista sudafricano che ha tenuto molti incontri segreti con Mandela, rifiuta qualsiasi confronto con Barghouti: “I bianchi non dovevano preoccuparsi di attentati suicidi e sparatorie”, ha scritto Pogrund.
   Resta il mistero su come un arciterrorista che ha ordinato l’uccisione di decine di ebrei israeliani sia diventato un apostolo della pace. Dopo il 7 ottobre, quando gli stessi media hanno chiamato Hamas “militanti” e non “terroristi”, è molto meno misterioso.

Il Foglio, 6 febbraio 2024)

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Gli interessi americani non sono gli interessi di Israele

di Niram Ferretti

Chiedere a Israele il cessate il fuoco invocato da mesi dall’ONU e dalla galassia “pacifista” della Palestina “libera dal fiume al mare”, comporterebbe per Joe Biden e i suoi consiglieri un rischio troppo grande in termini politici. Nonostante la frangia radicalizzata del partito Democratico e una parte del suo elettorato, l’appoggio a Israele è, negli Stati Uniti, maggioritario. Donald Trump, il presidente americano più filoisraeliano del dopoguerra, si vedrebbe consegnato su un vassoio d’argento un formidabile corpo contundente da usare contro il presidente in carica.
   C’è un altro modo tuttavia per giungere allo stesso risultato, obliquo, subdolo, ed è quello di ottenere una pausa protratta dell’operazione militare a Gaza. Tre, quattro, forse più mesi, in cambio del rilascio degli ostaggi ancora detenuti da Hamas. A quel punto l’operazione militare sarebbe terminata, perché per Israele sarebbe praticamente impossibile riprenderla, e Hamas resterebbe a Gaza come futuro partner per un accordo che preveda un suo ruolo nel governo dell’enclave.
   L’agenda americana è esplicita ed è sempre più determinata dalla contesa elettorale interna che, nei prossimi mesi, entrerà nel vivo: fare finire la guerra legando questo esito alla liberazione degli ostaggi, scongelare l’intesa tra Arabia Saudita e Israele, predisporre il venire in essere di uno Stato palestinese. Vaste programme, che ha la magnifica ambizione di consegnare a Joe Biden la corona d’alloro di pacificatore del Medio Oriente, di nation builder. Un successo clamoroso di politica estera da spendere copiosamente tra gli elettori.
   Il fatto che ciò significhi per Israele il dovere lasciare Gaza senza avere conseguito l’obiettivo principale della guerra in corso, la smilitarizzazione di Hamas, la fine del suo governo e il determinarsi di condizioni fondamentali di sicurezza per i cittadini israeliani residenti nei dintorni della Striscia, è considerato secondario. Tuttavia c’è un problema da risolvere, ed è la resistenza di Netanyahu, il quale ha perfettamente chiaro l’obiettivo americano e sa benissimo che per Israele, per il suo interesse a breve e lungo termine, il piano americano è irricevibile. È necessario quindi prendere tempo, surfare da scaltro e navigato giocatore tra dichiarazioni muscolari sulla irrevocabilità dell’obiettivo di sconfiggere Hamas, sulla non disponibilità alla nascita di uno Stato palestinese e sul governo della Striscia da parte della cleptocrazia di Fatah, connivente con Hamas e, al contempo, lodare gli Stati Uniti per l’impegno profuso e la vicinanza. Ma Netanyahu sa benissimo che si sta lavorando, e non da adesso per rimuoverlo dalla scena, sa benissimo che a porte chiuse Biden lo ha insultato, come avvenne all’epoca di Obama con il celebre chicken shit, merda di gallina a lui rivolto, sa benissimo che dietro gli abbracci e i sorrisi c’è il pugnale, come sa altrettanto bene che in Israele, Biden può contare su militari e politici dell’opposizione che, come lui, vorrebbero defenestrare Netanyahu e hanno già concluso che la vittoria su Hamas non è la priorità, ma lo è la liberazione degli ostaggi, Benny Gantz in testa.
   Senza una vittoria netta di Israele a Gaza verrebbe meno il senso stesso dell’operazione militare, che non è mai stato, non può essere, per quanto duro e doloroso sia evidenziarlo, la liberazione degli ostaggi, non è, in altre parole l’obiettivo umanitario, ma è sconfiggere l’efferata organizzazione criminale che il 7 ottobre scorso ha perpetrato il più grande eccidio di ebrei dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. Senza una vittoria netta di Israele a Gaza, e fuori da ogni retorica, la morte in combattimento di oltre duecentocinquanta soldati dell’IDF, le cui vite non valgono certo meno di quelle degli ostaggi, sarebbe stata un sacrificio inutile.
   Netanyahu, il premier dalle molte morti annunciate e dalle altrettante clamorose resurrezioni, deve combattere con un avversario potente e cinico, che ha già mostrato il cambio di registro con il meschino dispositivo punitivo nei confronti di quattro coloni considerati alla stregua di pericolosi criminali. “La violenza intollerabile” dei coloni, come recita il dispositivo, è nulla più che una oscena esagerazione rispetto a quella ben più violenta e omicida dei palestinesi che da anni si manifesta con regolarità in Cisgiordania.
   È il primo segno del bastone da calare su Israele, ne verranno altri, bisogna prepararsi e tenere duro.
   Gli interessi americani non sono quelli di Israele [Come Volevasi Dimostrare. M.C.].

(L'informale, 6 febbraio 2024)

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I riservisti dell'IDF e le famiglie degli ostaggi marciano attraverso il Paese - "Fino alla vittoria"

"Ci hanno mandato in guerra e ci aspettiamo che una parte di Gaza rimanga sotto il controllo israeliano a tempo indeterminato".

di Amelie Botbol

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I soldati della riserva e le famiglie degli ostaggi detenuti nella Striscia di Gaza sono impegnati in una marcia di cinque giorni attraverso il Paese, denominata "Marcia della Vittoria, fino alla vittoria dell'IDF".
La marcia è iniziata domenica al Kibbutz Zikim, fuori dal nord della Striscia di Gaza, e culminerà giovedì con una manifestazione a Gerusalemme.
"Dopo aver ucciso 1.500 persone, Hamas deve pagare un prezzo pesante e crediamo che i territori già conquistati non debbano essere restituiti", ha dichiarato a JNS Gilad Ach, uno degli organizzatori della marcia.
"Siamo in guerra da 20 anni senza aver sconfitto Hamas. Abbiamo invaso Gaza, perso amici e familiari, siamo ripartiti e poi abbiamo permesso ad Hamas di ricostruire e rafforzarsi", ha detto Ach, direttore esecutivo dell'organizzazione Ad Kan ("It Stops Now"), fondata nel 2015 da un gruppo di ufficiali di sicurezza dell'IDF per combattere i pregiudizi anti-israeliani.
La marcia è organizzata dall'organizzazione "Riservisti fino alla vittoria" (Mahal HaMiluimnikim), fondata da riservisti congedati dopo aver prestato servizio a Gaza e al confine settentrionale di Israele con il Libano dal 7 ottobre.
"Se Israele mantiene l'intera Striscia di Gaza settentrionale come zona militare, Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen capiranno che chi uccide gli ebrei perché sono ebrei pagherà un prezzo alto", ha detto Ach.
"Ci aspettiamo 50.000 persone a Gerusalemme e spero che il nostro governo ascolti la voce dei suoi soldati. Ci hanno mandato in guerra e ci aspettiamo che parte di Gaza rimanga sotto il controllo israeliano a tempo indeterminato", ha aggiunto.
Tra gli oratori ci sono alti ufficiali della riserva recentemente tornati dal campo di battaglia, parenti di ostaggi, rabbini e attivisti.
Campi di protesta permanenti saranno allestiti nei pressi della Knesset a Gerusalemme, vicino al complesso governativo Kirya a Tel Aviv e a "Nova Park", il luogo del festival musicale in cui Hamas e la Jihad islamica palestinese hanno ucciso 364 persone il 7 ottobre. Gli organizzatori intendono anche fare pressione sui rappresentanti eletti e lanciare una campagna mediatica internazionale a sostegno della guerra di Gaza.
"Abbiamo deciso la marcia quindici giorni fa. Il movimento stesso è iniziato circa un mese fa, quando i riservisti sono stati rilasciati dalle linee del fronte", ha detto Matan Wiesel, membro di "Riservisti fino alla vittoria".
"Si parla della fine della guerra e della creazione di uno Stato palestinese. Speriamo che la leadership del Paese rinsavisca e capisca che lo Stato di Israele non può terminare questa guerra come se fosse solo un altro round di combattimenti. Se non prendiamo e controlliamo un territorio nemico significativo, segnaliamo alla regione che lo Stato di Israele è scoraggiato e debole", ha aggiunto Wiesel.
In un messaggio diffuso prima della manifestazione, i Riservisti fino alla vittoria hanno dichiarato: "Durante il loro servizio, i soldati sono stati fortemente frustrati da concessioni che hanno minato il successo militare. Stiamo tornando a una strategia che potrebbe presto portare a nuovi attacchi da parte di Hamas".
Il messaggio includeva anche un video con Itzik Bunzel, il padre del sergente Amit Bunzel, 22 anni, paracadutista di Shoham, ucciso nel centro della Striscia di Gaza il 6 dicembre.
Nel video Bunzel racconta di aver trovato tra gli effetti personali del figlio un quaderno in cui Amit aveva scritto: "Questa volta dobbiamo vincere. Dobbiamo finirla [la guerra a Gaza] con una vittoria schiacciante".
Tra i gruppi che lavorano con i riservisti fino al raggiungimento della vittoria c'è il Tikva Forum, co-fondato da Tzvika Mor, il cui figlio Eitan, 23 anni, è attualmente detenuto da Hamas a Gaza e che si oppone a un accordo di governo "a qualsiasi costo".
"Sento dire che il governo israeliano dovrebbe essere disposto a pagare qualsiasi prezzo", ha dichiarato Mor la scorsa settimana a JNS. "Hanno chiesto al pubblico israeliano se è disposto a sacrificare tutto? E dove tracciano il limite? Sono pronti a inviare anche munizioni?
Tra gli altri partecipanti ci sono le Madri dei soldati dell'IDF, una coalizione di donne che protestano contro le pressioni degli Stati Uniti per aumentare gli aiuti umanitari a Gaza, e la Lobby 1701, che rappresenta gli sfollati del nord e chiede a Washington di sostenere un'operazione militare per espellere l'organizzazione terroristica Hezbollah, sostenuta dall'Iran, dal confine con il Libano.
Molti dei partecipanti sono in prima linea nelle proteste in corso per impedire l'ingresso nella Striscia di Gaza dei rifornimenti provenienti da Israele.
Giovedì, centinaia di attivisti hanno spostato le loro azioni al porto di Ashdod, dove hanno bloccato la partenza di camion destinati alla Striscia di Gaza. Ciò è avvenuto dopo che le Forze di Difesa israeliane (IDF) hanno dichiarato le aree intorno a due valichi di frontiera con la Striscia di Gaza come zone di esclusione militare in risposta alle proteste.
Le proteste hanno portato a diversi arresti, tra cui quello di Yehuda Dee al valico di frontiera di Kerem Shalom, mercoledì. La madre di Dee, Lucy, e le sue due sorelle sono state uccise da un terrorista di Hamas nella Valle del Giordano ad aprile.
Persone bloccano l'ingresso del porto di Ashdod durante una protesta contro il trasporto di aiuti alla Striscia di Gaza, ad Ashdod, nel sud di Israele, il 1° febbraio 2024. foto: Chaim Goldberg/Flash90
Mentre le proteste continuavano a crescere, l'emittente pubblica israeliana Kan 11 ha riferito che alcuni funzionari dell'amministrazione Biden hanno invitato Israele a garantire che gli aiuti continuino a raggiungere la Striscia di Gaza.
A dicembre, dopo le intense pressioni americane e internazionali, il gabinetto di sicurezza israeliano ha autorizzato la riapertura di Kerem Shalom per la consegna degli aiuti. Tutti i valichi di frontiera israeliani verso la Striscia di Gaza sono stati chiusi dopo il massacro del 7 ottobre e solo il valico egiziano di Rafah, nel Sinai, è rimasto aperto.
136 ostaggi sono ancora trattenuti nella Striscia di Gaza, decine dei quali si ritiene siano morti. Il gruppo terroristico ha rapito più di 240 persone, ne ha uccise circa 1.200 e ne ha ferite migliaia durante la sua furia nel sud-ovest di Israele il 7 ottobre.

(Israel Heute, 5 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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È ora di porre fine al jihad dell'UNRWA contro Israele

Ora è chiaro che i vertici delle Nazioni Unite mentivano quando hanno affermato di non essere a conoscenza del coinvolgimento dei loro dipendenti con i gruppi terroristici. In realtà, lo sapevano, ma hanno fatto del loro meglio per compiacere Hamas.

di Bassam Tawil

Philippe Lazzarini, commissario generale dell'Agenzia per il Soccorso e l'Occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), ha annunciato di aver deciso di licenziare alcuni dipendenti della sua agenzia dopo che le autorità israeliane hanno fornito informazioni sul loro "presunto" coinvolgimento nel massacro di israeliani perpetrato il 7 ottobre 2023 da Hamas.
"Per proteggere la capacità dell'agenzia di fornire assistenza umanitaria, ho preso la decisione di rescindere immediatamente i contratti di questi membri del personale e di avviare un'indagine per stabilire senza indugio la verità", ha dichiarato Lazzarini. "Qualsiasi dipendente coinvolto in atti di terrorismo sarà ritenuto responsabile, anche attraverso procedimenti penali".
Il segretario generale dell'ONU Antonio Guterres si è detto "inorridito" dalle accuse israeliane.
Guterres ha chiesto al capo dell'UNRWA di indagare sul coinvolgimento dei dipendenti nelle atrocità di Hamas e di "garantire che qualsiasi dipendente dell'UNRWA che ha partecipato o favorito gli attacchi venga immediatamente licenziato e deferito per un potenziale procedimento penale", ha affermato il portavoce delle Nazioni Unite Stéphane Dujarric. "Verrà condotta una revisione indipendente urgente e completa dell'UNRWA".
L'ONU, che ha a lungo ignorato o negato il coinvolgimento dei suoi dipendenti nell'incitamento e nel terrorismo anti-israeliano, ora si finge sconcertata e inorridita per la partecipazione di alcuni dei suoi dipendenti alle atrocità compiute di Hamas, durante le quali furono uccisi 1.200 israeliani, altre migliaia feriti e più di 240 rapiti e condotti nella Striscia di Gaza come ostaggi. Durante la carneficina del 7 ottobre, gli israeliani e altri (si veda qui e qui) vennero brutalmente assassinati, decapitati, mutilati e bruciati vivi.
Le Nazioni Unite non hanno bisogno di avviare un'indagine "per stabilire la verità" sul coinvolgimento dei suoi dipendenti nel terrorismo e nell'istigazione contro Israele.
Non c'è motivo per cui le Nazioni Unite e i suoi vertici debbano essere "inorriditi". Da anni esistono ampie prove dello stretto legame fra l'UNRWA e Hamas, il gruppo terroristico palestinese che prese il controllo della Striscia di Gaza nel 2007. Ora è chiaro che i vertici delle Nazioni Unite mentivano quando hanno affermato di non essere a conoscenza dei legami dei loro dipendenti con i gruppi terroristici. In realtà, lo sapevano, ma hanno fatto del loro meglio per compiacere Hamas.
L'ex capo dell'UNRWA, Peter Hansen, ha ammesso esplicitamente che i membri di Hamas erano probabilmente dipendenti dell'agenzia. "Oh, sono sicuro che ci sono membri di Hamas nel libro paga dell'UNRWA e non vedo perché sia un crimine", ha detto Hansen alla rete tv Canadian Broadcasting Corporation (CBC), nell'ottobre 2004. E ha aggiunto:

    "Hamas come organizzazione politica non significa che ogni membro sia un militante e noi non facciamo controlli politici ed escludiamo le persone in base alle loro convinzioni".

Negli ultimi anni ci sono stati diversi casi di terroristi palestinesi dipendenti dell'UNRWA o che hanno utilizzato le sue strutture, attrezzature e veicoli per compiere attacchi terroristici.
Tra il 2003 e il 2004, tredici palestinesi dipendenti dell'UNRWA furono arrestati per presunto coinvolgimento in attacchi terroristici per conto di una serie di gruppi terroristici, tra cui Hamas. In un caso, Nahed Rashid Ahmed Attalah, responsabile delle forniture alimentari per i rifugiati dell'UNRWA, utilizzò veicoli delle Nazioni Unite e il suo lasciapassare delle Nazioni Unite per aiutare le attività terroristiche dei Comitati di Resistenza Popolare, un gruppo composto da diversi gruppi terroristici nella Striscia di Gaza. Attalah ammise di aver utilizzato in più occasioni il suo veicolo dell'ONU per trasportare armi, esplosivi e terroristi alla scopo di condurre attacchi terroristici contro Israele.
Dall'inizio dell'attuale guerra tra Israele e Hamas, le truppe israeliane hanno rinvenuto decine di ordigni esplosivi nei bagagli dell'UNRWA, oltre a fucili d'assalto e 15 cinture esplosive. I terroristi di Hamas hanno anche sparato dalle scuole dell'Agenzia contro i soldati israeliani.
In una telefonata registrata, nel dicembre 2023, un palestinese della Striscia di Gaza dice a un ufficiale israeliano:

    "Hamas è coinvolto in tutto. Hamas ha messo le mani sugli addetti all'amministrazione dell'UNRWA. Hamas gestisce l'UNRWA. È responsabile dell'agenzia. Dal giorno in cui Hamas è salito al potere, ha preso il controllo di tutto. I dipendenti dell'UNRWA provengono da Hamas. I capi dipartimento e gli alti funzionari sono membri di Hamas".

In un momento di rara onestà, nel 2021, l'ONU riconobbe che nei programmi scolastici si faceva riferimento a Israele come "il nemico", veniva insegnato ai bambini la matematica contando i "terroristi martiri", e nelle lezioni di grammatica araba veniva inclusa la frase "il jihad è una delle porte del Paradiso".
Nonostante l'ammissione, l'ONU non ha adottato misure sostanziali per porre fine all'incitamento anti-israeliano e, nonostante le rivelazioni, i terroristi di Hamas travestiti da insegnanti hanno continuato a lavorare per le scuole dell'UNRWA, nella Striscia di Gaza.
Di recente, le Forze di Difesa israeliane hanno scoperto copie di lettere indirizzate dal braccio armato di Hamas al Ministero dell'Istruzione controllato da Hamas, in cui si chiedeva che gli insegnanti fossero esentati dalla partecipazione ad esercitazioni di "addestramento militare". La conseguenza è che molti insegnanti palestinesi sono stati assunti dall'UNRWA.
In una lettera si legge:

    "Oggetto:
    Tolleranza sull'orario di lavoro
    Per quanto concerne la questione sopra menzionata, vi chiediamo di garantire al fratello Nur-Aldin Naim Mahmoud Siam, che lavora presso la scuola superiore Aljanan (come insegnante di matematica), un orario di lavoro flessibile, in considerazione dell'incarico con noi sono necessari costanti follow-up".

In un'altra lettera scritta dal braccio armato di Hamas e indirizzata al Ministero dell'Istruzione si legge:

    "Oggetto:
    Concessione di permessi
    Per quanto concerne la questione sopra menzionata, vi chiediamo di concedere un permesso al fratello Moataz Abed-Alrazk Muhammad Alfara, che lavora presso l'amministrazione dell'istruzione a ovest di Khan Yunis, poiché abbiamo bisogno di lui per l'addestramento militare in data 28/09/2023. Questa data non è flessibile".

UN Watch, un'organizzazione non governativa il cui mandato è monitorare l'operato delle Nazioni Unite e delle sue agenzie, ha rivelato il 10 gennaio che gli insegnanti dipendenti dell'UNRWA nella Striscia di Gaza hanno celebrato il massacro di Hamas e hanno elogiato gli assassini come "eroi". Gli insegnanti hanno anche glorificato "l'educazione" ricevuta dai terroristi, condividendo gongolanti le foto di israeliani morti o rapiti e sollecitando l'esecuzione degli ostaggi.
Secondo UN Watch, in un gruppo Telegram composto da 3 mila insegnanti dell'UNRWA nella Striscia di Gaza, sono stati rinvenuti migliaia di post inneggianti all'odio. Questi 3 mila si aggiungono ai 133 educatori e membri dello staff dell'UNRWA che sono stati smascherati per aver promosso l'odio e la violenza, nell'ultimo rapporto di UN Watch del marzo 2023.
Nel gruppo Telegram, l'insegnante dell'UNRWA Waseem Ula, che pubblica regolarmente post sugli stipendi, ha condiviso la foto di un giubbotto suicida imbottito di esplosivo, con la didascalia: "Aspettate, figli dell'ebraismo". Ha inoltre incensato il terrorista di Hamas Akram Abu Hasanen come "amico" e "fratello" e ha pregato Dio di "ammetterlo in Paradiso senza essere giudicato".
L'insegnante dell'UNRWA Shatha Husam Al-Nawajha ha detto dei terroristi di Hamas: "Hanno allattato il Jihad (guerra santa) con il latte della loro madre. Che Allah conceda loro la vittoria".
L'insegnante dell'UNRWA Abdallah Mehjez: "Svolge il lavoro di Hamas esortando i civili di Gaza a NON prestare ascolto ai moniti di allontanarsi dal pericolo, e a fungere invece da scudi umani. Prima dell'UNRWA, questo complice terrorista lavorava per la BBC...".
"Questo è il motivo principale dell'incitamento degli insegnanti dell'UNRWA al terrorismo jihadista", ha affermato Hillel Neuer, direttore esecutivo di UN Watch.
La chat di gruppo su Telegram, creata per sostenere gli insegnanti dell'UNRWA, contiene decine di file con nomi del personale, numeri identificativi, orari e materiale didattico. Eppure, gli insegnanti dell'UNRWA condividono regolarmente video, foto e messaggi che incitano al terrorismo jihadista e celebrano apertamente il massacro di Hamas e lo stupro di civili.
Quando UN Watch ha denunciato il gruppo sui social media, i funzionari delle Nazioni Unite hanno negato che gli insegnanti lavorassero per l'UNRWA.
"Cinque giorni fa, abbiamo denunciato un gruppo Telegram di 3 mila insegnanti dell'UNRWA a Gaza, che condivideva messaggi pieni di elogi per il massacro di Hamas del 7 ottobre. L'UNRWA ha messo in dubbio che lavorino per loro. Il portavoce delle Nazioni Unite ci ha denigrato", ha scritto Neuer.

    "I membri e gli amministratori del gruppo fanno effettivamente parte dell'UNRWA...
    "Gli amministratori del gruppo includono Safaa Mohammad Al Najjar di Rafah (ID UNRWA n. 30026166). Spesso [la donna] condivide informazioni amministrative sull'UNRWA con il gruppo, inclusi gli elenchi dei dipendenti UNRWA...
    "Si rammenti che la posizione dell'UNRWA, nelle parole del [suo portavoce] @Adnan_Hasna, è che 'Non sappiamo chi c'è in questo gruppo Telegram'".

"Nel corso della mia carriera militare ho lavorato a lungo con l'UNRWA sia in Cisgiordania che a Gaza", ha commentato il tenente colonnello della riserva Peter Lerner.

    "Il mio ruolo di ufficiale più anziano in grado, incaricato di intermediazioni umanitarie, era quello di facilitare le operazioni umanitarie. Sono stato un sostenitore nell'establishment della difesa e nel corso degli anni sui social media mi sono speso per sostenere l'importanza dell'attività dell'organizzazione. (...) Ora è il momento della riforma. Riforma del risanamento, in modo che le menti dei bambini palestinesi non possano più essere avvelenate. Affinché possa esserci una visione condivisa di pace in questa terra. Pertanto, la leadership palestinese si assuma le proprie responsabilità (e non le deferisca alle Nazioni Unite). Così il termine rifugiato non verrà sfruttato per cancellare il legame con questa terra da parte dell'uno o dell'altro".

Gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Canada, l'Australia, l'Italia, la Germania, i Paesi Bassi, la Svizzera e la Finlandia sono i Paesi che finora hanno sospeso i finanziamenti all'UNRWA in risposta alle rivelazioni del coinvolgimento dei dipendenti dell'UNRWA nel terrorismo contro Israele. I contribuenti occidentali non dovrebbero finanziare gruppi terroristici mascherati da organizzazioni umanitarie. Queste organizzazioni sono state a lungo al servizio dei regimi antisemiti e degli estremisti islamici che cercavano di distruggere l'unico Stato ebraico al mondo. Resta ora da vedere se questi Paesi si rifiuteranno di cedere alle pressioni dei palestinesi affinché rinnovino i finanziamenti all'UNRWA.
L'idea che membri dello staff dell'UNRWA siano stati coinvolti, abbiano celebrato, sostenuto e fornito assistenza nell'imprigionamento degli ostaggi di Hamas è rivelatrice. Uno degli ostaggi rilasciati nel novembre 2023 è stato tenuto per 50 giorni nella soffitta di un insegnante dell'UNRWA. L'insegnante ha rinchiuso la vittima, gli ha fornito a malapena il cibo e ha trascurato le sue esigenze mediche.
I dipendenti licenziati sono soltanto l'inizio.
L'UNRWA è stata fondata per sostenere il soccorso e lo sviluppo umano dei rifugiati palestinesi, non per sostenere lo sviluppo del terrorismo. È vergognoso che il mondo abbia impiegato così tanto tempo per prendere posizione quando ciò che stava accadendo era sotto gli occhi di tutti.
Gli insegnanti dell'UNRWA che hanno celebrato il massacro degli israeliani hanno semplicemente agito in base a ciò che insegnano da anni ai loro studenti. Gli insegnanti sono complici nella promozione e nell'insegnamento dell'ideologia di Hamas. Hanno dimostrato come l'UNRWA sia diventata un'arma del terrorismo e del jihad contro Israele.
Si può solo sperare che l'amministrazione Biden si renda conto ora del grave errore commesso nel 2021 quando annunciò la ripresa dell'assistenza statunitense all'UNRWA. L'amministrazione Trump aveva sospeso i finanziamenti all'Agenzia dopo averla accusata di essere "piena di sprechi, frodi e sostegno al terrorismo".
È arrivato il momento di smantellare l'UNRWA e porre fine alla farsa dei "profughi" palestinesi. Non ci sono veri rifugiati. Ci sono milioni di palestinesi che vivono, spesso in condizioni indicibili (in modo che Israele possa essere incolpato), sotto il controllo dell'Autorità Palestinese e di Hamas, in Libano, Siria e in Giordania.
Sono le Nazioni Unite che consentono e perpetuano questo abuso dei diritti umani. Questi palestinesi vivono sotto regimi palestinesi e arabi che da tempo avrebbero dovuto assorbirli invece di tenerli nei "campi profughi" con l'euforica promessa "umanitaria" che un giorno inonderanno Israele, trasformando gli ebrei in una minoranza perseguitata nel loro stesso Paese, provocandone quindi la scomparsa.
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Bassam Tawil è un arabo musulmano che vive in Medio Oriente.

(Gatestone Institute, 6 febbraio 2024 - trad. di Angelita La Spada)

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Israele - Medicine errate per i pazienti

I pazienti in Israele hanno ricevuto medicine sbagliate a causa di un grave guasto del sistema, secondo quanto precisato dal Ministero della Salute
   La portata del malfunzionamento è in corso di esame e sarà reso nota al pubblico quando sarà disponibile, ha dichiarato il ministero. Un numero imprecisato di pazienti degli ospedali israeliani ha ricevuto una prescrizione di farmaci sbagliata a causa di un grave malfunzionamento del software Chameleon utilizzato in tutto il Paese, lo ha dichiarato il Ministero della Salute.
  Il malfunzionamento del software medico, parte integrante dei processi operativi e terapeutici dei pronto soccorso e dei reparti ospedalieri di tutto Israele, arriva quando il sistema sanitario sta già vivendo livelli di tensione senza precedenti.
  Il malfunzionamento ha portato alla prescrizione di farmaci errati ai pazienti e la portata del problema è attualmente oggetto di indagine.

• Che cos’è il software Chameleon utilizzato dagli ospedali israeliani?
  Sviluppato da Elad Systems, il software Chameleon è l’elemento informatico centrale degli ospedali israeliani. Fornisce una visione completa di tutti i pazienti di un reparto o di un pronto soccorso e del loro stato di cura attraverso una tabella riassuntiva diretta. Il software presenta sezioni codificate a colori per identificare gli esami di laboratorio, la diagnostica per immagini, le consultazioni, le dimissioni e altro ancora. Cliccando sul nome di un paziente si ottiene una schermata dettagliata con le informazioni mediche complete.
  Circa 10 giorni fa, il Ministero della Salute ha iniziato a ricevere le prime segnalazioni da parte di un ospedale in merito a errori nella cartella clinica di alcuni pazienti. In particolare, le lettere di dimissione di questi pazienti contenevano prescrizioni errate. A seguito di un afflusso di segnalazioni simili, il Ministero ha avviato un’indagine approfondita. Gli ospedali sono stati invitati a verificare l’accuratezza dei farmaci per ogni paziente.

(Israele360, 3 febbraio 2024)

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Le belve di Hamas rifiutano la tregua

Il cessate il fuoco a Gaza si allontana. Nessuna risposta alla proposta arrivata dopo la mediazione di Egitto e Qatar: per ora gli ostaggi restano in mano ai tagliagole.

di Maurizio Stefanini

Contrariamente alle attese, Hamas non ha risposto ieri sera alla proposta di una tregua e del rilascio degli ostaggi elaborata nei giorni scorsi a Parigi e proposta con la mediazione di Egitto e Qatar. Ma comunque si preparerebbe a rifiutarla. Lo riferisce il media saudita Al-Arabiya, ripreso anche dagli israeliani Ynet e Jerusalem Post, secondo cui il gruppo integralista palestinese chiederebbe un maggior numero di detenuti palestinesi da liberare da parte di Israele. La risposta scritta a Egitto e Qatar dovrebbe essere inviata “contemporaneamente” nelle prossime ore e - secondo fonti citate da un altro quotidiano saudita, Al-Sharq - conterrebbe anche la richiesta di un totale cessate il fuoco, da sempre rifiutato da Israele.
   Nel frattempo, non è ancora arrivata nessuna conferma della consegna di farmaci agli ostaggi rapiti da Hamas, a quasi tre settimane dal loro invio. Lo ha scritto il Times of Israel, spiegando di aver chiesto informazioni in proposito all’ufficio del primo ministro ma di non aver ricevuto nessuna risposta sostanziale. Anche il Forum delle famiglie degli ostaggi ha detto di non sapere nulla. In seguito ad un accordo mediato da Egitto e Qatar, con la partecipazione della Francia, Doha aveva annunciato il 16 gennaio che la consegna di medicine per gli ostaggi sarebbe iniziata il giorno successivo insieme alla fornitura di farmaci e aiuti umanitari per la popolazione civile di Gaza. La Croce Rossa internazionale, che non ha mai potuto visitare gli ostaggi, ha chiarito di non essere coinvolta nell'accordo e la sua realizzazione. Alcuni ostaggi, fra cui degli anziani, soffrono di malattie croniche mentre altri sono stati feriti durante il loro rapimento. il Forum delle famiglie aveva chiesto di poter avere una prova visiva della consegna di farmaci ai loro cari.

• L’OBIETTIVO
  A sua volta, il primo ministro israeliano ribadisce di essere contrario a un accordo a ogni prezzo, dal momento che secondo lui «l'obiettivo essenziale è innanzitutto l'eliminazione di Hamas», come ha ribadito all'inizio dell'incontro settimanale del governo. Secondo lui, tre sono le condizioni affinchèé questo avvenga: la distruzione dei restanti battaglioni di Hamas, di cui 17 su 24 sono stati già debellati; il termine delle operazioni di rastrellamento, che l'esercito starebbe attuando con raid nel Nord e nel centro della Striscia; la neutralizzazione della rete di tunnel di Hamas, «che richiede piu' tempo».
   Ieri, infatti, i militari israeliano hanno fatto irruzione nel quartier generale della Brigata Khan Yunis nel sud della Striscia di Gaza, utilizzato per l’addestramento in vista dell'assalto del 7 ottobre in Israele. Lo hanno riferito le Forze di difesa israeliane (Idf) su X, diffondendo materiale fotografico. Il sito, noto come avamposto di Al Qadsa, ospitava anche l’ufficio di Muhammad Sinwar, un alto comandante militare di Hamas e fratello del leader del gruppo a Gaza, Yahya Sinwar, secondo le Idf. Nel sito è stato scoperto infatti un campo di addestramento con ingressi finti alle comunità israeliane, basi delle Idf e veicoli militari. In un’altra parte del complesso si trovava un centro di comando di Hamas e uffici appartenenti agli alti comandanti della Brigata Khan Yunis, oltre a un deposito di missili e a un tunnel che conduceva a una vasta rete sotterranea. Nelle vicinanze, inoltre, i militari hanno trovato anche un sito di produzione di armi. E quando i militari sono arrivati per fare irruzione nell’avamposto hanno anche scoperto trappole esplosive, poi neutralizzate dai genieri. C’è stato anche un tentativo di imboscata, ma gli israeliani hanno risposto con fuoco di cecchini, bombardamento di carri armati e attacchi aerei, uccidendo tutti i nemici.
   Nel corso delle operazioni nel sud di Gaza, inoltre, Israele fa sapere che i militari hanno individuato miliziani di Hamas nascosti fra i civili nei rifugi nell’area occidentale di Khan Yunis. Nei giorni scorsi, circa 120.000 palestinesi sono stati evacuati dal campo di Khan Yunis attraverso un corridoio umanitario istituito dalle Idf. Tra di loro le truppe della Brigata Givati hanno catturato circa 500 presunti terroristi che hanno consegnati ai loro colleghi, per essere interrogati in Israele. Alcuni sono sospettati di essere coinvolti negli attacchi del 7 ottobre. Le truppe della Brigata Givati hanno ucciso circa 550 agenti di Hamas nelle battaglie nell'area di Khan Younis nelle ultime settimane

• IL QUADRANTE
  Ma non si combatte solo a Gaza. Dopo l'attacco in Iraq e Siria contro i gruppi affiliati all'Iran in risposta ai droni lanciati contro una base in Giordania, gli Usa hanno lanciato anche un raid su 36 obiettivi Houthi in 13 località dello Yemen come risposta ai continui attacchi ai mercantili nel Mar Rosso. Il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin ha avvertito i ribelli che dovranno affrontare “ulteriori conseguenze” se non cesseranno gli attacchi contro le navi.
   Ma tra Usa e Israele si evidenziano anche nuove fessure. Dopo le sanzioni Usa a quattro esponenti israeliani considerati estremisti, adesso un alto funzionario della sicurezza israeliana ha confermato che il premier Benyamin Netanyahu si ritirò all'ultimo momento dall’operazione americana nella quale fu ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani nel gennaio di 4 anni fa a Bagdad. «L’operazione era in preparazione da vari mesi», ha spiegato l’alto funzionario all’emittente israeliana Channel 12. «All’ultimo momento Netanyahu ci ha ripensato per paura di una rappresaglia iraniana. C’era una finestra di opportunità non ripetibile e Trump decise che, se Netanyahu aveva paura di farlo, lui lo avrebbe fatto. Ed è quello che è successo». Comunque Israele aveva fornito informazioni cruciali. Le parole dell'anonimo alto funzionario arrivano dopo che Trump si è nuovamente lamentato di essere stato abbandonato all'ultimo momento da Netanyahu per quanto riguarda l’uccisione di Soleimani. Ieri il Wall Street Journal ha pubblicato un’intervista con il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, il politico di estrema destra Itamar Ben Gvir, secondo il quale Trump tratterebbe molto meglio Israele di quanto faccia l’attuale presidente americano Joe Biden.

Libero, 5 febbraio 2024)

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Due settimane di pioggia di fila per la prima volta in più di 30 anni

GERUSALEMME - Per la prima volta in oltre 30 anni, in Israele è piovuto per 14 giorni consecutivi. L'ultima volta era successo nel febbraio 1992. Il servizio meteorologico ha parlato di una "pioggia di benedizione", in quanto è caduta in modo costante e quindi è riuscita a penetrare bene nella terra.
I meteorologi hanno anche annunciato che l'attuale fase di pioggia continuerà fino a martedì. A parte la durata, non è nulla di speciale per il periodo dell'anno, ha dichiarato Amos Porat del servizio meteorologico al sito web Times of Israel. Normalmente un sistema meteorologico come questo dura fino a quattro giorni e poi si allontana.

• Quantità media già raggiunta in alcune zone
  In alcune zone settentrionali e centrali del Paese è già stata raggiunta la quantità media annuale. Questo valore viene misurato a partire da agosto; attualmente è stato superato il 48% di questo periodo annuale. Nelle regioni desertiche a sud di Gerusalemme, solo l'area intorno al Monte Sodoma ha già superato la media annuale.
Le piogge hanno naturalmente un effetto sul livello del Mar di Galilea. Negli ultimi giorni si è alzato notevolmente, a volte di 5 centimetri al giorno. Attualmente il livello è di 210,4 metri sotto il livello del mare. Mancano ancora 1,6 metri alla piena capacità, che è di 208,8 metri.

(Israelnetz, 5 febbraio 2024)

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Se scomparisse Israele

Georges Bensoussan spiega l’ansia antisemita che fermenta in occidente. Il risalto in colore è stato aggiunto. NsI

da “Le Point”

E’ in un contesto di uso militante della Storia che si inserisce la denuncia presentata dal Sudafrica contro Israele per crimini contro l’umanità a Gaza” scrive lo storico Georges Bensoussan su Le Point. “Oggi l’obiettivo è lanciare l’accusa di genocidio dal Sudafrica, che ha ospitato la conferenza di Durban nel 2001, per offuscare il crimine contro l’umanità iniziale da cui deriva l’attuale guerra, quello degli atti commessi il 7 ottobre 2023, la cui natura stessa era genocida. Un accesso di crudeltà, testimone non solo dei “costumi barbari” che avevamo già visto all’opera nel 1929 e nel 1948, ma anche di un piano per eliminare dal mondo un nemico che era stato privato, prima e dopo la sua morte, di qualsiasi carattere umano che lo legasse al nostro mondo. Da qui, la profanazione dei cadaveri, le decapitazioni e persino il “furto” della testa di un soldato, portata a Gaza e conservata in un congelatore con l’obiettivo di scambiarla in seguito per 10.000 dollari (sic). 
  In secondo luogo, si tratta di accusare di genocidio questo popolo in particolare, la cui memoria, in Israele come altrove, è segnata dal ricordo del genocidio. Invertendo l’accusa di genocidio, si vuole anche collocare lo stato di Israele e gli ebrei nel campo degli oppressori, cioè dell’occidente, l’accusato abituale delle Nazioni Unite. Il modo in cui queste ultime hanno accolto la denuncia del Sudafrica nega qualsiasi legittimità morale a queste maggioranze automatiche (57 stati musulmani nelle Nazioni Unite, un solo stato ebraico) che nel 2020, su 23 condanne emesse dall’Assemblea Generale contro gli stati, ne hanno emesse 17 contro lo stato di Israele. Questo ribaltamento della realtà è il carattere distintivo del ragionamento totalitario: “l’amore è odio”, “la pace è guerra”, quando la realtà viene annientata a favore di narrazioni ricostruite. Dietro Israele, l’emblema del male, l’inversione accusatoria pone l’intero occidente sul banco degli imputati del Tribunale della Storia di fronte agli “storici-procuratori”. L’accusa di genocidio (di per sé grottesca: Gaza 1967, 400.000 abitanti, Gaza 2023, 2.300.000 abitanti) infanga la parola e la memoria degli armeni, degli ebrei e dei tutsi. L’odio per il segno ebraico fiorisce, e qui non si tratta tanto di antisemitismo, come nota lo psichiatra Jean-Jacques Moscovitz, quanto di quello che lui chiama asemitismo: il mondo non vuole gli ebrei. E non vuole più lo stato di Israele. 
  In terzo luogo, per quanto folle possa sembrare l’accusa di genocidio, la logica intellettuale che la sottende non mira solo a cancellare la natura genocida degli atti commessi il 7 ottobre, ma a screditare l’occidente per far apparire la storia non occidentale come priva di violenza. Sarebbe un errore ridurre queste accuse di “genocidio” contro lo stato ebraico al solo ambito “decoloniale”. Anche i negazionisti dell’Olocausto in tutto il mondo hanno compreso la posta in gioco. In Francia, ad esempio, non passa settimana senza che il settimanale Rivarol (fondato da ex collaborazionisti) pubblichi titoli sul “genocidio di Gaza” o sulla “pulizia etnica della Palestina”. L’Iran, dove Robert Faurisson è stato accolto in pompa magna nel 2006, si è congratulato ufficialmente della denuncia sudafricana. Far condannare lo stato ebraico per genocidio: la posta in gioco è alta anche per coloro che negano il genocidio ebraico commesso dai nazisti. Il concetto di “genocidio” fu coniato durante la Seconda guerra mondiale da un ebreo polacco, Raphaël Lemkin, in diretto riferimento al genocidio degli ebrei che veniva perpetrato. I seguaci di Robert Faurisson sperano che Israele venga condannato in nome degli stessi princìpi che portarono Eichmann a essere condannato e giustiziato proprio da questo stato. Simbolicamente, l’obiettivo è cancellare l’eredità della Shoah.
  Lo stesso schema mentale si ripete qui. È lo stesso che già nel 1937, con Céline (“Bagatelles pour un massacre”), faceva dell’”ebreo” il guerrafondaio. È lo stesso che oggi fa dello stato di Israele, decretato ultima “propaggine coloniale” dell’Europa, il vettore di una guerra genocida. È uno schema mentale che consiste nell’ostracizzare la “parte cattiva dell’umanità”, un tempo il popolo, ora lo stato, a cui si rimprovera di perseverare nel proprio essere. Qui abbiamo un popolo ebraico, un’“anomalia” nella teologia cristiana, e lì uno stato ebraico, un’“anomalia” nell’Europa post-nazionale. Insomma, gli ebrei sono sempre in controtendenza, e la causa contro di loro non è tanto per una politica quanto per un principio, la loro ostinazione a perseverare in un’esistenza statale condannabile perché anomala in nome di una Storia secolarizzata, ma pur sempre investita di fini ultimi. Stabilire un nesso causale tra una politica israeliana, qualunque essa sia, e degli atti di natura genocida, significa non comprendere la natura profonda di questa crudeltà quando si tratta di cancellare un’esistenza equiparata al male. Perché non ci troviamo di fronte a un discorso guidato dalla ragione, ma a una visione escatologica in cui lo stato di Israele, qualunque sia la sua politica o la sua natura, laica o religiosa, rappresenta la personificazione del principio malvagio dell’umanità che deve essere cacciato dal mondo e da sé stessi per poter sperare in una vita finalmente degna di essere vissuta. Non c’è alcun legame tra una politica israeliana, anche la più riprovevole, e l’essenza genocida di un movimento islamista che non offre alcuna speranza di negoziazione o di compromesso, e non vede altro futuro che la distruzione definitiva dello stato di Israele. E non vuole altro che questo. Più il mondo è allo sbando, più le paure collettive vengono placate dall’antisemitismo unificante. Ci divertiamo a odiarci a vicenda e l’angoscia si riduce a indicare il responsabile di tutti i mali del mondo. Proprio come le paure collettive del passato, quelle nate sulla scia delle grandi epidemie o della caccia alle streghe nell’Europa del Diciassettesimo secolo. 
  Ma dietro la follia collettiva, ci sono sempre uomini e donne fatti di carne e ossa, che non sopportano di essere considerati come l’incarnazione dell’eresia, della profanazione e dell’abiezione. La studentessa ebrea di Bordeaux, il droghiere ebreo di Cracovia, l’ebanista ebreo di Rodi, l’insegnante ebreo di Amsterdam, il muratore ebreo di Atene e il medico ebreo di Colonia morirono tutti delle morti più orrende a causa di queste fantasie omicide. Il poeta palestinese Mahmoud Darwich era perfettamente consapevole di come la vecchia “questione ebraica” europea fosse diventata parte del discorso sul conflitto stesso, quando disse al poeta israeliano Helit Yeshurun: “Sai perché noi palestinesi siamo famosi? Perché voi siete il nostro nemico. L’interesse per la questione palestinese deriva dall’interesse per la questione ebraica. È a voi che sono interessati, non a me! Se fossimo in guerra con il Pakistan, nessuno avrebbe sentito parlare di me”. L’ostracismo ossessivo di uno stato paria spiana la strada alla delegittimazione che precederà il suo smantellamento. La solitudine di Israele risuona nel cuore di un popolo poco numeroso, assediato dai nemici da oltre 75 anni, vittima di un logorio mentale che un giorno lo scuoterà nel profondo. Questa falsa potenza, la cui vulnerabilità è stata rivelata il 7 ottobre, potrebbe un giorno cedere sotto il peso di una guerra persa. Israele, ha detto Ben Gourion, vincerà tutte le guerre tranne l’ultima. I suoi nemici potranno sì subire una sconfitta dopo l’altra, ma continueranno a esistere anche dopo le sconfitte. Non lo stato ebraico. Afflitti dalla solitudine di ottobre, gli ebrei non possono permettersi il lusso del pessimismo. Come Israele non può permettersi il lusso di una sola sconfitta”.

Il Foglio, 5 febbraio 2024)

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Il racconto del padre della piccola Emily, ostaggio di Hamas per 50 giorni

di Michelle Zarfati

In un’intervista all’emittente israeliana Kan News Thomas Hand ha raccontato l’incubo della prigionia a Gaza di sua figlia di 9 anni, Emily. L’uomo ha, inoltre, condiviso che la ragazza, fortemente traumatizzata dal rapimento e della prigionia, utilizza parole in codice per parlare dei terroristi. Emily, è stata rapita dal kibbutz Be’eri dai terroristi di Hamas il 7 ottobre ed è stata rilasciata il 25 novembre, come parte di un accordo di scambio tra ostaggi israeliani con prigionieri palestinesi.
   Parlando del processo di recupero di sua figlia dopo la prigionia durata 50 giorni, Hand ha detto: “È molto, molto brava, sta facendo progressi, si sta riprendendo. Tuttavia, necessita ancora di tempo”, sottolineando però che Emily “non dice molto sulla sua prigionia e che piuttosto usa parole in codice per raccontare di Gaza e per parlare dei terroristi: ad esempio, usa le parole di un qualsiasi cibo o oggetto che non le piace”. Senza parlare direttamente dei rapitori, né far riferimento a episodi durante la cattività nella Striscia di Gaza.
   Thomas ha poi raccontato le condizioni in cui Emily è stata detenuta. “Credevo che fosse giù nei tunnel invece, dal momento in cui è stata rapita, sono scappati da una casa all’altra. Lei è rimasta prevalentemente con gli uomini. Io ero convinta fosse nascosta nei tunnel, lei ha poi rivelato che non era così”. È ancora lunga la strada da fare per tornare ad una vita normale, ma, grazie il sostegno di suo padre e di alcuni specialisti, Emily sta cercando di riprendere in mano la sua adolescenza dopo l’incubo che l’ha coinvolta lo scorso 7 ottobre.

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In Israele nasceranno nuovi centri per curare i disturbi post traumatici

di Sarah Tagliacozzo

Il Ministero della Difesa israeliano ha deciso l’apertura di un centro nazionale per trattare i disturbi post traumatici da stress (PTSD). L’apertura del centro verrà gestita dallo Sheba Medical Center e da una associazione di veterani (la Disabled Veterans IDF Organization).
   La scelta di aprire una struttura di questo tipo è legata alla donazione della Friends of the Israel Defence Forces (FIDF).
   Il tema del disturbo post traumatico è molto sentito in Israele dove, dopo l’attentato del 7 ottobre, si è registrato un drammatico aumento di depressione, ansia e traumi di vario genere.
   La decisione del ministero israeliano dovrebbe portare all’apertura nel territorio israeliano di centri per la salute mentale soprattutto nelle zone più calde del sud e del nord del paese.
   Nei nuovi centri verrà formato personale in grado di trattare in modo efficiente i traumi ricorrendo anche alle più recenti tecnologie, come la simulazione medica del The Israel Center for Medical Simulation (MSR).

(Shalom, 5 febbraio 2024)

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Come garantire la sicurezza d’Israele? Intervista a Yigal Carmon

di Nathan Greppi

Il 7 ottobre 2023, il mondo è rimasto sconvolto nel vedere come la sicurezza dei confini israeliani sia stata facilmente violata dai terroristi di Hamas, nonostante tutte le tecnologie di cui dispongono le forze di difesa israeliane. Negli ultimi mesi, hanno cominciato ad emergere diversi scandali sul fatto che i vertici israeliani sapevano che Hamas stava tramando qualcosa, ma fino all’ultimo hanno sottovalutato la minaccia.
   A questo punto, vale la pena di chiedersi come farà Israele a rialzarsi e a dimostrare di poter proteggere i propri cittadini. A tal proposito, Bet Magazine – Mosaico ha intervistato Yigal Carmon, presidente e fondatore del Middle East Media Research Institute (MEMRI). Già colonnello dell’Aman, il servizio di intelligence militare, è stato consigliere per l’antiterrorismo di due primi ministri israeliani, Yitzhak Shamir e Yitzhak Rabin.

- Quali errori hanno commesso i servizi di intelligence il 7 ottobre?
   Lo scorso 31 agosto, avevo scritto un articolo in cui avvertivo sul probabile scoppio di una guerra fra settembre e ottobre. Nessuno mi ha ascoltato, perché sono stati sottovalutati tutti i segnali. Negli ultimi dieci anni, Hamas ha ricevuto miliardi di dollari dal Qatar, con il permesso del primo ministro Bibi Netanyahu, che pensava così di comprare la tranquillità. Hamas però non combatte per il benessere economico, ma per una fanatica ideologia di stampo religioso. Con quei soldi, che Netanyahu ha lasciato entrare a Gaza in contanti, sono stati costruiti tunnel chilometrici, che costituiscono una trappola per i nostri soldati a Gaza.
   I segnali però erano evidenti. Hamas non aveva nascosto la sua volontà di voler attaccare Israele. Ad agosto 2023, Saleh Al-Arouri, il leader dell’ufficio politico di Hamas, che è stato recentemente ucciso a Beirut, aveva detto che una guerra contro Israele stava arrivando. Inoltre, lo scorso settembre, Hamas aveva pubblicato il video di un addestramento, che prevedeva un attacco contro una base militare e un villaggio in territorio israeliano oltre al rapimento di soldati israeliani. Il governo ha però ha sottovalutato tutti questi segnali.
   Il direttore dello Shin Bet, Ronen Bar, la sera del 6 ottobre era però rimasto a dormire in ufficio. Si era accorto che qualcosa stava accadendo, e aveva organizzato un meeting per la mattina del 7 ottobre. Ma era troppo tardi. I terroristi erano già entrati in territorio israeliano alle 6:30 del mattino.

- Negli anni ’90, lei fu tra i pochi nella cerchia di Rabin ad opporsi agli Accordi di Oslo. A distanza di trent’anni, che cosa è andato storto nei negoziati con i palestinesi?
  I fallimenti dei servizi segreti israeliani nella guerra dello Yom Kippur nel 1973 e dei servizi segreti americani l’11 settembre 2001 sono stati ampiamente discussi. Ma c’è stato un altro fallimento da parte della comunità dell’intelligence israeliana che merita attenzione: per oltre due anni dopo gli accordi di Oslo, firmati il 13 settembre 1993, i suoi esperti non sono riusciti a rilevare la minaccia rappresentata dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di Yasser Arafat. Il clima politico prevalente in Israele, durante i primi anni ’90, ha avuto un effetto negativo sulla valutazione della situazione da parte della comunità dell’intelligence israeliana, e da questi eventi si può trarre una lezione generale.
   Le intenzioni di Arafat erano chiare fin dall’inizio. Firmò a Washington il 13 settembre 1993 la Dichiarazione di principi, conosciuta come Accordo di Oslo I, mentre indossava un’uniforme militare (aveva insistito anche per portare la pistola, ma aveva dovuto rinunciarvi); mentre la cerimonia era ancora in corso, fece mandare in onda su un canale televisivo giordano un suo discorso registrato, in cui spiegava che l’Accordo era solo una fase del Piano a stadi dell’OLP del 1974, che era una versione blanda della Carta dell’OLP: “Non dimenticate che il Consiglio Nazionale Palestinese ha approvato la risoluzione nel 1974. […] Questo è il momento del ritorno, il momento in cui alziamo la nostra bandiera sul primo pezzo di terra palestinese liberata. […] Questa è una fase importante, critica e fondamentale. Lunga vita alla Palestina, libera e araba!”.
   Il 4 maggio del 1994 al Cairo, Arafat firmò con Israele l’accordo Gaza-Gerico, che trasferiva il controllo di Gaza e Gerico all’OLP. Sei giorni dopo, in un discorso in una moschea di Johannesburg, spiegò: “Considero questo accordo niente più che quello firmato tra il nostro profeta Mohammed e la tribù dei Quraysh”. L’accordo citato fu firmato dal profeta dell’Islam nel 628 d.C., in un momento in cui Maometto era militarmente debole ma, dopo essere diventato forte, uccise i membri della tribù dei Quraysh.
   Nel 1993, essendo politicamente debole, Arafat si impegnò per iscritto a far sì che “l’OLP abbandoni l’uso del terrorismo e di altre attività violente”, ma in seguito venne meno al suo impegno. La retorica di Arafat e della leadership dell’OLP, che seguì la firma degli Accordi, dimostrò infatti che l’organizzazione continuava ad attenersi agli obiettivi originari dell’OLP, come definiti nel suo statuto, e all’utilizzo del terrorismo contro Israele.
   Quando il governo israeliano firmò gli accordi di Oslo, presumeva che l’OLP avrebbe combattuto efficacemente Hamas e prevenuto gli attacchi terroristici contro gli israeliani. Tuttavia, un mese prima dell’ingresso dell’OLP a Gaza e Gerico, il primo ministro Yitzhak Rabin avvertì in un discorso alla Knesset del 18 aprile 1994: “Desidero chiarire che qualsiasi disposizione o accordo di fatto concluso dall’OLP con Hamas riguardo alla continuazione del terrorismo di Hamas, impedirà qualsiasi accordo (con Israele), così come la sua attuazione”. Si trattava in realtà di una direttiva rivolta alla comunità dei servizi segreti, affinché verificasse costantemente se esistesse un simile accordo tra l’OLP e Hamas, dal momento che il destino degli Accordi dipendeva da questa questione.
   I segnali minacciosi furono chiari fin dall’inizio, non appena l’OLP entrò a Gaza e a Gerico. L’accordo Gaza-Gerico del maggio 1994 stabiliva: “A eccezione della polizia palestinese di cui al presente articolo e delle forze militari israeliane, nessun’altra forza armata potrà essere istituita od operare nella Striscia di Gaza o nell’area di Gerico”. Eppure, pochi giorni dopo, il comandante delle forze di sicurezza dell’OLP a Gerico, Jibril Rajoub, dichiarò: “L’accordo del Cairo non soddisfa le richieste minime del nostro popolo. Se c’è chi si oppone all’accordo, è libero di intensificare l’escalation armata. Per quanto riguarda le armi possedute a livello nazionale, cioè le armi detenute dalle fazioni nazionali e che sono puntate contro l’occupazione, noi le santifichiamo e ci riconciliamo con loro per responsabilità nazionale”.
   All’epoca, la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana era favorevole agli accordi di Oslo, e gli analisti dell’intelligence israeliana non erano immuni a questo spirito dei tempi. L’errata interpretazione delle azioni di Arafat e del loro significato si era rafforzata anche a livello sociale. Coloro che sollevavano pubblicamente dubbi sulla leadership dell’OLP erano accusati di essere motivati solo dall’ideologia politica. Per molto tempo, l’opinione pubblica israeliana è arrivata al punto di giustificare il comportamento radicale dell’OLP e l’affiliazione al terrorismo, dicendo che “la pace si fa con i nemici”.
   Mentre si accumulavano le prove che Arafat e il suo gruppo stavano violando gravemente gli Accordi, l’opinione pubblica israeliana era disposta ad accettare la bizzarra spiegazione secondo cui queste violazioni erano in realtà necessarie per il bene della pace. La logica era: Israele aveva firmato un accordo con Arafat, ma per attuare l’accordo Arafat deve sopravvivere politicamente tra il suo popolo, e per sopravvivere deve violare gli accordi. In altre parole, l’accordo tra Israele e l’OLP poteva essere attuato solo violandolo.
   È importante che le agenzie di intelligence riconoscano che questo fallimento è avvenuto a causa dell’atmosfera sociale e politica dell’epoca. Ciò è particolarmente importante nell’era odierna dei social network, in cui l’opinione pubblica può essere influenzata piuttosto facilmente. Lo “spirito del tempo” pro-Accordi di Oslo dominava le università, la stampa, l’arena politica, gli ufficiali di alto livello in pensione e i funzionari della pubblica amministrazione. In alcuni ambienti prevaleva addirittura nelle conversazioni quotidiane tra amici.
   Era difficile opporsi agli accordi, e questo ha avuto il suo effetto sul piccolo gruppo di analisti che, all’interno della comunità dell’intelligence israeliana, si occupava di questo argomento. Le loro opinioni personali hanno influenzato inconsciamente la loro interpretazione professionale, e forse alcuni di loro hanno anche temuto di compromettere una storica mossa governativa. Tali fallimenti professionali dovrebbero essere insegnati e studiati nelle scuole di intelligence.
   Voglio aggiungere che io ho sostenuto il movimento delle Village Leagues, formato dai palestinesi dei villaggi che si opponevano all’OLP, con i quali sarebbe stato davvero possibile costruire la pace. Quello delle Village Leagues è un argomento importante, di cui spero si possa parlare più approfonditamente in futuro.

- Come MEMRI, avete denunciato in particolare il ruolo del Qatar nel sostegno a Hamas. Qual è il legame tra Doha e il movimento jihadista?
   Il Qatar è Hamas e Hamas è il Qatar. Ognuno dei 30.000 – 40.000 terroristi di Hamas, ogni missile, ogni drone, ogni motocicletta, ogni arma, ogni proiettile, ogni munizione, ogni chilometro di tunnel a Gaza è stato finanziato dal denaro del Qatar. Negli ultimi dieci anni, Hamas ha infatti ricevuto da Doha miliardi di dollari, che sono serviti a costruire la forza militare del gruppo terroristico.
   L’emittente qatariota, Al-Jazeera, è inoltre il megafono di Hamas. Mohammed Deif, il comandante della loro ala militare, ha dichiarato guerra a Israele proprio con un messaggio trasmesso e amplificato da Al-Jazeera in tutto il mondo arabo. Nel suo messaggio del 7 ottobre, Deif aveva chiamato tutti i palestinesi, sia in Cisgiordania che all’interno della stessa Israele, a unirsi alla guerra. “Alzatevi per sostenere la vostra Moschea di Al-Aqsa. Espellete le forze di occupazione e i coloni (termine utilizzato da Hamas per descrivere tutti i civili israeliani, non solo quelli negli insediamenti) dalla vostra Gerusalemme, e distruggete i muri di separazione”, aveva detto Deif. Il comandante di Hamas aveva poi detto alla popolazione araba “nella Palestina occupata” di “dare fuoco alla terra che sta sotto i piedi dei saccheggiatori occupanti. Uccidete, bruciate, distruggete e chiudete le strade!”.
   Pertanto, il Qatar non può essere un “onesto intermediario”, come invece ha dichiarato sul Wall Street Journal l’ambasciatore qatariota negli Stati Uniti, Meshal bin Hamad Al Thani. Il ricco emirato sostiene infatti tutte le organizzazioni terroristiche islamiste, quali l’ISIS, Al-Qaeda, i talebani e Hamas. Nel 1996 nascose a Doha Khalid Sheikh Mohammed (KSM), diventato la mente dell’11 settembre. Quando l’FBI venne ad arrestarlo, informando anticipatamente soltanto l’emiro, KSM scomparve nel giro di poche ore.
   In un articolo del 2017 Richard Clarke, consigliere per l’antiterrorismo dei presidenti americani Bill Clinton e George H. W. Bush, ha scritto: “È vero che il Qatar è servito da rifugio per i leader di gruppi che gli Stati Uniti o altri Paesi considerano organizzazioni terroristiche. Ciò va avanti da almeno 20 anni. […] Se il Qatar ci avesse dato KSM, il mondo adesso sarebbe un luogo diverso”.

- I sauditi hanno recentemente espresso il loro desiderio di riprendere i negoziati con Israele, a patto che nasca uno Stato palestinese. Che impatto avrà questa guerra sui rapporti tra Israele e i paesi arabi con cui ha stipulato accordi di pace? E quali probabilità ci sono, nel lungo periodo, di un accordo con l’Arabia Saudita?<
   Per adesso, i paesi arabi che hanno firmato gli Accordi di Abramo (Marocco, Sudan, Emirati Arabi Uniti e Bahrein) stanno cercando di mitigare la polarizzazione dell’opinione pubblica, mantenendo però saldi i legami con Israele. La posizione dell’opinione pubblica nel mondo arabo rende però difficile per l’Arabia Saudita firmare un accordo con Israele. Ricordiamo però che molti dei missili lanciati dagli Houthi in Yemen contro Israele sono stati fermati da Riad.

- Cosa dovrebbero fare i servizi di sicurezza israeliani per impedire che si verifichi un altro 7 ottobre? Quale lezione dovrebbero trarre?
  Dobbiamo smettere di pensare che il Qatar possa essere un mediatore, e ricordare che è un nostro nemico. Israele infatti non può uccidere tutti i 40.000 terroristi di Hamas. Se ne rimanessero in vita anche solo 500, vorrebbe dire che il movimento terroristico è ancora in piedi e che controlla la popolazione. Finire Hamas significa eliminare la sua fonte di sostentamento, cioè il Qatar. Per Hamas, il Qatar è la sua ancora di salvezza, la speranza, il futuro e la continuazione della lotta per sradicare Israele e uccidere tutti gli ebrei, come stabilito nello statuto del movimento terroristico.
   L’Iran ha fornito l’addestramento, ma i finanziamenti vengono dal Qatar, dove vivono da intoccabili gli stessi leader di Hamas. Senza quei miliardi di dollari, Hamas non può sopravvivere a lungo. Per togliere l’ossigeno a Hamas è necessario rimuovere la minaccia del Qatar, che sia con sanzioni economiche, operazioni di hackeraggio o altri modi.
   Per quanto riguarda la mediazione del conflitto, possiamo ritornare all’Egitto. Sicuramente anche Il Cairo ha le sue problematiche ma, a differenza del Qatar, ha firmato una pace con Israele e considera i Fratelli Musulmani, dei quali Hamas è una costola, una minaccia al proprio regime.

(Bet Magazine Mosaico, 5 febbraio 2024)

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È Biden che sta facendo politica con la guerra di Gaza, non Bibi

Netanyahu cerca di sconfiggere Hamas. L’amministrazione Biden  - con la sua fittizia “dottrina" - mira a deporre il primo ministro israeliano e a rieleggere il presidente.

di Jonathan S. Tobin

La reputazione del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu come maestro di intrallazzi politici e cinico cercatore di potere è così profondamente radicata nella coscienza pubblica che non c'è letteralmente nulla che possa fare senza essere accusato di agire solo per cercare un qualche tipo di vantaggio sui suoi avversari. Tuttavia, nell'attuale crisi, mentre cerca di guidare il suo traballante governo di unità per raggiungere quelli che potrebbero essere due obiettivi che si escludono a vicenda - l'eliminazione di Hamas e la liberazione degli ostaggi ancora tenuti prigionieri a Gaza - mentre è assediato dalle critiche in patria e all'estero, è possibile che Netanyahu non sia quello che sta davvero giocando a fare politica.
  Anche se nessuno dovrebbe mai sottovalutare la capacità di manovra del primo ministro anche in un momento in cui, dopo il disastro del 7 ottobre, la fine della sua carriera sembrerebbe essere in vista, non è lui che sta cinicamente usando i negoziati con gli ostaggi o i discorsi su ciò che seguirebbe la fine della guerra a Gaza per ottenere punti politici. Qualunque cosa si possa pensare del carattere o delle politiche di Netanyahu, o se debba essere costretto a lasciare il suo incarico a causa della catastrofe che si è verificata sotto il suo controllo, la persona che sta giocando a fare politica con la sicurezza di Israele e il destino dei suoi cittadini è il presidente Joe Biden.
  Netanyahu probabilmente spera ancora di salvare la sua reputazione e di portare a termine il resto del suo mandato dopo essere tornato in carica nel novembre 2022. Ma la caratterizzazione diffusa dalla stampa israeliana e internazionale della sua posizione sui negoziati con gli ostaggi, sulla condotta della guerra e su ciò che accadrà a Gaza una volta terminati i combattimenti, come un altro esempio dei suoi disperati tentativi di rimanere in carica, è largamente inesatta. Forse sta perseguendo due obiettivi che non possono essere raggiunti entrambi e si sta aggrappando al suo obiettivo strategico prebellico di convincere l'Arabia Saudita a normalizzare le relazioni con Israele. Tuttavia, la vera macchinazione in corso in questo momento è a Washington, non a Gerusalemme. È Biden che sta facendo un doppio gioco: sembra disposto a garantire la sopravvivenza di Hamas al potere per regolare i conti con Netanyahu e per sconfiggere l'ex presidente Donald Trump a novembre.

• UNA TRAPPOLA PER GLI OSTAGGI
  È in questo contesto che si inseriscono le discussioni sull'ultima proposta di cessate il fuoco e di liberazione di 136 ostaggi - alcuni vivi e altri presunti morti - in cui il governo doppiogiochista del Qatar svolge un ruolo centrale. Sia che questo sforzo, come quelli precedenti, venga o meno respinto da Hamas, Netanyahu continuerà a subire enormi pressioni da parte delle famiglie degli ostaggi e degli Stati Uniti affinché la guerra venga sospesa o interrotta.
  Il governo di Netanyahu è attualmente assediato da una serie di critiche interne ed estere. Le famiglie degli ostaggi vogliono comprensibilmente che faccia qualsiasi cosa per salvare i loro cari e chiederanno, come chiunque si trovi in quella terribile posizione, concessioni sotto forma di liberazione di terroristi o di interruzione della campagna di Gaza, indipendentemente dal fatto che sia o meno nell'interesse del Paese. Sono sostenuti dai nemici politici di Netanyahu. La maggior parte degli israeliani che hanno passato i mesi precedenti al 7 ottobre a manifestare per la cacciata di Netanyahu e contro la riforma giudiziaria hanno messo da parte la politica in nome di uno sforzo unitario per sconfiggere Hamas. Ma la resistenza anti-Bibi ha dimostrato che, se ne avrà l'opportunità, cercherà di tornare in piazza con l'obiettivo di costringere il primo ministro a lasciare il suo incarico.
  Allo stesso tempo, Netanyahu è anche sotto il fuoco di quegli israeliani che gli rimproverano di non aver portato avanti la guerra contro Hamas con maggior vigore. In particolare, gli rimproverano di essersi piegato alle pressioni americane e internazionali per consentire l'afflusso di aiuti nelle zone di Gaza ancora sotto il controllo di Hamas, il che, pur essendo apparentemente un gesto umanitario, sta quasi certamente sostenendo le forze terroristiche e permettendo loro di continuare a resistere. I suoi critici di destra hanno ragione nel dire che l'accordo sugli ostaggi è una trappola sia per Israele che per Netanyahu.

• LA DOTTRINA RICICLATA DI BIDEN
  Ma sui problemi interni incombe un problema ancora più grande. Biden e la sua squadra di politica estera potrebbero ancora mantenere la promessa di sostenere Israele nella guerra e l'obiettivo di eliminare Hamas. Tuttavia, mentre la guerra si avvia verso il quinto mese, la pratica di Biden di parlare da entrambi i lati della bocca sul conflitto - sostenendo Israele e allo stesso tempo criticandolo e facendogli pressioni per ridurre la sua campagna militare - si è intensificata al punto che potrebbe essere presto raggiunto un punto di svolta. Il coinvolgimento americano nei colloqui con gli ostaggi non sembra essere incentrato tanto sulla liberazione dei prigionieri quanto sull'ostacolare lo sforzo bellico israeliano e mettere in difficoltà Netanyahu.
  Sebbene l'attenzione di Washington per le richieste di creazione di uno Stato palestinese come parte di un accordo post-bellico di vasta portata che preveda la normalizzazione saudita possa essere estremamente irrealistica, è comprensibile solo se vista nel contesto di una manovra per rovesciare la coalizione israeliana e riconquistare a Biden il favore degli elettori di sinistra e arabo-americani, la cui rabbia per il suo sostegno al diritto di Israele all'autodifesa ha messo a rischio la sua campagna di rielezione.
  Alcuni osservatori creduloni potrebbero prendere sul serio la cosiddetta "dottrina Biden", propagandata dall'editorialista del New York Times Thomas Friedman, che dovrebbe risolvere tutti i problemi del Medio Oriente. Friedman ha acquisito una nuova rilevanza nell'ultimo anno perché è stato il fedele portavoce dell'amministrazione, sfruttando la sua posizione al giornale per promuovere la patetica debolezza e le manovre incompetenti dell'amministrazione Biden come una politica brillante. Inoltre, condivide con Netanyahu gli stessi sentimenti di amarezza del team di Biden, alumni dell'amministrazione Obama, che non gli perdoneranno mai di essersi opposto alle loro politiche distruttive nei confronti dei palestinesi e soprattutto all'acquiescenza nei confronti dell'Iran. Le loro idee sono, come tutto ciò che proviene da Friedman, solo una stanca riproposizione di politiche fallimentari del passato a cui le persone ragionevoli hanno smesso di prestare attenzione molto tempo fa.
  Sarebbe un errore perdere troppo tempo a disquisire su questa "dottrina", i cui dettagli sono stati presentati anche dal Segretario di Stato Antony Blinken e da altri democratici, ma è sufficiente dire che la sua proposta di Stato palestinese è morta sul nascere per le stesse ragioni per cui idee simili hanno fallito in precedenza: Né i palestinesi né gli israeliani lo vogliono. I palestinesi hanno rifiutato numerosi accordi che avrebbero dato loro uno Stato indipendente perché avrebbero richiesto di vivere in pace con Israele. E né i presunti "moderati" di Fatah, che gestiscono l'Autorità Palestinese, né Hamas accetteranno la legittimità di uno Stato ebraico, indipendentemente dai confini che verranno tracciati.
  La maggioranza degli israeliani era pronta a dare il benvenuto a uno Stato palestinese se questo avesse significato la pace durante il periodo di euforia post accordi di Oslo negli anni Novanta. Questo sciocco ottimismo si è spento con la violenza della Seconda Intifada, che ha fatto seguito al rifiuto di Yasser Arafat delle offerte di costituzione dello Stato nel 2000 e nel 2001.
  Più precisamente, gli israeliani sanno che il disastroso ritiro di ogni soldato, colono e insediamento da Gaza da parte dell'ex Primo Ministro Ariel Sharon, nell'estate del 2005, ha portato alla creazione di uno Stato palestinese indipendente, governato da Hamas. Ciò ha permesso ai terroristi di costruire una fortezza terroristica sotterranea da cui hanno sparato missili e razzi contro Israele per anni e, infine, di lanciare il pogrom terroristico del 7 ottobre.

• GLI ISRAELIANI POSSONO ESSERE INGANNATI?
  Dopodiché, il gruppo di elettori israeliani che si oppone a concedere ai palestinesi la sovranità e la libertà d'azione per ripetere quelle atrocità da una Gaza ricostruita o da uno Stato in Giudea e Samaria che probabilmente cadrebbe anch'esso sotto il dominio di Hamas è diventato quasi inesistente.
  Né molti israeliani, compreso Netanyahu, devono illudersi che uno Stato palestinese possa convincere i sauditi a normalizzare le relazioni e a unirsi a loro in una grande alleanza contro l'Iran. A prescindere da ciò che dicono pubblicamente, i sauditi non rischieranno l'ira del mondo musulmano facendo un accordo con Israele nel prossimo futuro e sono perfettamente soddisfatti delle strette relazioni sottobanco, anche in materia di sicurezza, che hanno ora con lo Stato ebraico.
  Né è probabile che qualsiasi cosa faccia Biden possa rimediare ai danni provocati nei suoi primi tre anni di mandato, durante i quali ha cercato di resuscitare il pericoloso accordo nucleare con l'Iran dell'ex presidente Barack Obama, allontanando al contempo gli Stati Uniti dai governi di Israele e dell'Arabia Saudita. Tutto ciò ha rafforzato e incoraggiato l'Iran, facendo rivivere la minaccia del terrorismo sostenuto dall'Iran da parte degli Houthi e di altre forze che Biden non può più ignorare dopo la morte di tre militari statunitensi in Giordania la scorsa settimana.
  È anche chiaro che i tentativi di Biden di bilanciare il suo sostegno a Israele e la mancata interruzione del flusso di rifornimenti di armi che consentono la continuazione della guerra (che ha minacciato di interrompere) con il discorso su uno Stato palestinese e gesti come le sanzioni ai coloni israeliani accusati di violenza contro gli arabi non sono altro che manovre politiche a buon mercato.
  La narrativa sulla "violenza dei coloni" è in gran parte fittizia, poiché - sebbene alcuni residenti delle comunità ebraiche in Giudea e Samaria abbiano infranto la legge negli scontri con gli arabi locali - la stragrande maggioranza della violenza in atto proviene dalla direzione opposta: gli attacchi violenti quotidiani di routine contro gli ebrei nei territori. Questi attacchi arabi si sono intensificati dal 7 ottobre, quando le cellule di Hamas hanno cercato di creare un secondo fronte contro Israele. Tuttavia, Biden ignora questo fatto e parla invece di episodi relativamente rari di violenza ebraica.
  Le sanzioni di Biden - un caso di accanimento legale contro quattro persone insignificanti - erano un tentativo di cambiare la conversazione su di lui in Michigan tra gli elettori arabo-americani. E l'affermazione dello Stato palestinese è un modo simile per convincere la base intersezionale di attivisti di sinistra del suo partito che odia Israele (e che è in aperta rivolta contro le sue politiche) a calmarsi e a tornare all'ovile per battere Trump.

• ROVESCIARE NETANYAHU
  L'unica parte del piano di Biden che è realistica è il suo impatto sulla politica israeliana. Porre fine alla guerra contro Hamas prima della sua completa sconfitta farebbe cadere la coalizione di partiti nazionalisti e religiosi che ha ottenuto una maggioranza di 64 seggi alle ultime elezioni. L'idea è quella di cercare di far scegliere a Netanyahu tra gli obiettivi di guerra che si è impegnato a perseguire e la libertà degli ostaggi, tentandolo con discorsi di riconoscimento diplomatico saudita. In questo modo, il primo ministro potrebbe essere criticato per aver dato priorità al mantenimento del suo governo e della sua posizione di potere rispetto alla sorte degli ostaggi o anche alla possibilità teorica di una normalizzazione con i sauditi.
  Ciò che questa formulazione non tiene in considerazione è che la volontà di continuare la guerra contro Hamas fino a spazzarla via non è una questione di compiacere gli elettori estremisti di destra o i suoi partner di coalizione. È ciò che chiede la stragrande maggioranza degli israeliani, che sanno che qualsiasi cosa inferiore allo sradicamento di Hamas sarà una formula per ulteriori orrori terroristici in futuro.
  Netanyahu si trova in una posizione politica impossibile perché non può sia salvare gli ostaggi che sconfiggere Hamas. La situazione è resa ancora più difficile dal tipo di cecchinaggio nei suoi confronti da parte dell'establishment militare e della sicurezza, che è ugualmente se non maggiormente responsabile del disastro del 7 ottobre, e che predica il disfattismo sulla guerra in interviste anonime rilasciate al Times. Se scegliesse di abbandonare lo sforzo bellico per guadagnare un po' di popolarità a buon mercato ottenendo la libertà degli ostaggi - come fece nel 2011 nel disastroso accordo per il rilascio dell'ostaggio Gilad Shalit - potrebbe rimanere in carica per un po' a capo di una coalizione che coinvolge molti dei suoi oppositori. Ma sarebbe un tradimento dei suoi principi, dei suoi elettori e della sicurezza del suo Paese.
  A prescindere dal modo in cui affronterà l'attuale crisi o se sopravviverà in carica, non sembra tanto giocare a fare politica, come sostengono i suoi avversari, quanto piuttosto aggrapparsi all'unica posizione che ha senso se Israele vuole davvero garantire che non ci saranno più attacchi come il 7 ottobre. Biden, invece, non sta facendo altro che giocare con la sua base di partito, cercando di convincerli che condivide il loro disprezzo per le vite israeliane, che è un elemento chiave nelle richieste di un cessate il fuoco prima che Hamas venga eliminato.
  Il fatto che il Presidente dia la priorità alla conquista del Michigan e alla seduzione dei molti odiatori di Israele del suo partito non può essere degnato dai discorsi sciocchi di Friedman su una dottrina che presumibilmente risolverà i problemi della regione con uno Stato palestinese che nessuno vuole veramente. I suoi cinici trucchi possono o meno fargli guadagnare voti, ma il vero perdente nella sua politicizzazione della politica mediorientale è la sicurezza dello Stato ebraico, messa in pericolo dalla sua vendetta contro Netanyahu.

(israel today, 4 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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“Joseph Rabinowitz, il Theodor Herzl del movimento messianico”

Questo libro di Kai Kjær-Hansen è comparso per la prima volta in lingua danese nel 1988. E’ stato poi tradotto e rivisto in inglese nel 1994. Da questa versione inglese EDIPI (Evangelici d’Italia per Israele) ha tratto una traduzione italiana presentata  nel 2017 in un convengo dell’associazione. La storia dell’ebreo Joseph Rabinowitz è ben nota nella letteratura del settore, ma è praticamente sconosciuta in Italia. Può essere utile riportarla all’attenzione perché ebbe il suo punto di svolta intorno all’anno 1880, un periodo altamente critico per gli ebrei di quel tempo nei territori zaristi. La sua esperienza può far riflettere molti: ebrei e cristiani.
Riportiamo per intero la prefazione di Marcello Cicchese.

PREFAZIONE

Questo libro racconta la storia di un ebreo che si è convertito a Cristo. Formulata così, una frase simile provoca immediatamente due reazioni di tipo opposto: di accoglienza gioiosa fra i cristiani e di repulsione disgustata fra gli ebrei. Tenuto conto che per secoli cristianesimo ed ebraismo sono stati vissuti come due campi teologicamente e socialmente contrapposti, il passaggio di qualcuno da un campo all'altro, sempre nella stessa direzione, è stato considerato un tradimento dagli ebrei e una vittoria dai cristiani.
La storia di cui si parla in questo libro si svolge in modo diverso. Un ebreo russo, un vero ebreo di famiglia e tradizione, si converte a Cristo, come tanti altri prima di lui, ma il contesto dei due campi contrapposti in cui questo avviene è fortemente scosso in modo inusuale. E' bene dunque avvicinarsi a questo libro con curiosità e disponibilità a ripensare e mettere in discussione, se necessario, schemi mentali forse ben collaudati perché provenienti da una lunga tradizione, ma non adatti a capire l'imprevedibilità dell'agire di Dio.
Joseph Rabinowitz (1837-1899) è un nome pressoché sconosciuto in Italia. Nasce a Rezina, un piccolo paese della Bessarabia, attuale Moldavia, da genitori appartenenti entrambi a famiglie rabbiniche. Da ragazzo fu affidato per la sua formazione a uno zio materno, un pio e zelante ebreo appartenente ai chassidim, un devoto movimento ebraico molto diffuso a quel tempo nell'Europa dell'Est. Joseph imparò dallo zio a conoscere ed amare la Torà e il Talmud, ma durante l'adolescenza si familiarizzò anche con gli scritti di Moses Mendelssohn, famoso esponente dell'illuminismo ebraico e nonno del compositore Felix Mendelssohn Bartholdy. Le idee dell'ebraismo riformato fecero breccia nella mente vivace del giovane, e come lui stesso dichiarò in seguito, la chiarezza del pensare logico lo fece risvegliare dal sogno talmudico in cui era cresciuto. Pur essendo nato in una famiglia di rabbini e cresciuto in un ambiente chassidico, dall'età di 19 anni Rabinowitz diventò dunque un ebreo "illuminato", cioè aperto al mondo esterno, alla sua cultura e ai suoi costumi.
   Il passaggio dallo chassidismo al libero pensiero potrebbe essere detta la prima conversione di Rabinowitz. Fu in questo periodo di travaglio che ricevette dalle mani di un altro ebreo, che in seguito diventerà suo parente, un Nuovo Testamento nell'edizione tradotta in ebraico dal noto teologo ed ebraista protestante Franz Delitzsch. Non si sa di preciso che cosa ne fece Rabinowitz negli anni seguenti, ma è quasi sicuro che nella sua nuova apertura mentale lo abbia letto, almeno in parte, se non altro per il desiderio di accrescere le sue conoscenze. E' certo comunque che non se ne distaccò mai, anche se per molti anni non diede alcun segno di essere stato convinto o influenzato dal suo contenuto.
Era un ebreo illuminato, ma ben presto arrivò a capire che le luci del progresso non avrebbero fugato le tenebre dell'odio contro gli ebrei: i pogrom che si susseguivano nell'Impero russo ne erano una continua e drammatica conferma. Rabinowitz allora non abbandonò il suo popolo, per cercare soluzioni personali ai suoi problemi. Al contrario, proprio la sua apertura mentale e la sua cultura lo spinsero a cercare per i suoi fratelli una via d'uscita dalla misera situazione in cui si trovavano, e si adoperò affinché questo avvenisse. Anche lui, come Herzl ma prima di lui, era "torturato" dal pensiero di trovare la soluzione della "questione ebraica".
Completò i suoi studi e diventò avvocato, cosa a quei tempi molto rara per un ebreo in Russia, e come tale si impegnò a difendere per quanto possibile le cause dei suoi correligionari. Volle migliorare il suo russo; studiò a fondo la legislazione della Bessarabia; pubblicò articoli sui giornali ebraici di Odessa; si mobilitò per favorire la creazione di scuole di Talmud-Torà affinché gli ebrei potessero studiare il russo e l'ebraico. Da tutti era considerato un "amico del popolo ebraico", anche dai religiosi, che pure certamente non condividevano le sue idee troppo aperte e moderne.
   Nel novembre del 1881 fece domanda al governatore di Bessarabia di aprire una colonia agricola ebraica. Sperava che mediante l'onesto lavoro della terra si potessero alleviare le misere condizioni dei suoi fratelli ebrei, strappandoli dalla disperazione e anche dalla ricerca di equivoche soluzioni attraverso la manipolazione del denaro, cosa che aveva attirato il discredito su tutto il popolo ebraico. Alla fine del febbraio 1882 arrivò la risposta delle autorità: negativa. Nessuna autorizzazione, nessun fondo a disposizione per gli ebrei.
   Dopo questa amara delusione decise, anche su pressioni di amici ed organizzazioni ebraiche, di fare un viaggio in Palestina. Il suo compito era di verificare se quella terra potesse essere il luogo in cui gli ebrei russi avrebbero potuto emigrare e trovare un'onorevole soluzione ai loro assillanti problemi di esistenza.
   Partì, e - fatto importante - portò con sé il Nuovo Testamento che aveva ricevuto in dono. Si mise dunque in viaggio verso la Terra Promessa. Dopo aver fatto tappa a Costantinopoli, arrivò a Giaffa nel maggio del 1882, lo stesso anno in cui gli Hovevei Zion (Amanti di Sion) fondavano Rishon LeZion, il primo insediamento ebraico in Palestina.
   A Giaffa la sua prima impressione fu deprimente, e quelle successive ancora di più. Non gli ci volle molto per capire che la soluzione della questione ebraica non poteva trovarsi in Palestina. Gli sembrava anzi addirittura un imbroglio il tentativo di convincere gli ebrei a lasciare una posizione misera in Russia per emigrare in Palestina e trovarne un'altra ancora più misera. Tuttavia continuò il suo viaggio, avvertendo l'obbligo morale di rendere conto dei risultati della sua visita a coloro che ne erano a conoscenza e si aspettavano delle risposte.
   Arrivò a Gerusalemme, e lì lo squallore della "città santa", a cui tutti gli ebrei rivolgono ogni anno il loro pensiero e indirizzano le loro speranze, non fece che aggravare il suo stato di abbattimento.
Una sera, poco prima del calar del sole, uscì a camminare per le vie di Gerusalemme. Triste e desolato, ripensando allo stato misero e senza speranza in cui si trovava il suo popolo, arrivò sul pendio del Monte degli Ulivi, non lontano dall'orto del Getsemani. E lì, proprio lì, vicino al luogo in cui Gesù aveva supplicato il Padre poco prima di morire, avvenne quella che in seguito sarà definita la sua conversione.
Stranamente, di questa sua conversione in seguito parlò molto poco, e quando ne veniva richiesto era sempre molto parco di parole. Come mai? Sulla base di quanto è avvenuto in seguito, si può azzardare una risposta: perché temeva che i suoi interlocutori cristiani non avrebbero capito. Vedremo più avanti il motivo.
   La notizia della sua conversione si sparse prima di tutto in campo ebraico. E lì purtroppo avvenne quello che spesso avviene in questi casi: fu criticato, calunniato, disprezzato e bandito dalla vita della comunità ebraica.
   Lentamente la notizia si sparse anche in campo cristiano. E anche lì avvenne quello che spesso avviene in questi casi: fu festosamente accolto, onorato come un eroe, sbandierato come un trofeo di guerra. Divenne anche oggetto di contesa tra diverse missioni che in quel tempo lavoravano tra gli ebrei: con collaudate armi diplomatiche "cristiane" si guerreggiò per stabilire a chi si dovesse attribuire il merito di una così importante conversione e a chi spettasse il diritto di "gestirne" i successivi sviluppi.
   Nella zona di Kishinev, la cittadina in cui viveva Rabinowitz quando fece il suo viaggio in Palestina, lavorava da più di vent'anni un ecclesiastico luterano che svolgeva il compito di pastore per la piccola congregazione cristiana locale e per gli insediamenti tedeschi nella zona, oltre che di "cappellano di divisione" per i soldati luterani nell'esercito russo. Si chiamava Rudolf Faltin. Rabinowitz lasciò passare diversi mesi prima di decidersi a comunicargli la sua nuova fede in Gesù, e quando lo fece volle che l'incontro avvenisse in territorio neutro, cioè fuori da edifici ecclesiastici. Non voleva che la sua conversione a Cristo fosse intesa come un abbandono del suo popolo e un passaggio nel campo della società cristiana. In seguito si fece battezzare, ma volle dare al suo atto il significato di testimonianza a Cristo, non di inserimento in una denominazione cristiana già costituita. Il suo battesimo dunque avvenne in forma anomala, in una chiesa di Berlino, dove lui si trovava di passaggio, accompagnato da credenti che lo conoscevano personalmente, e dove probabilmente non sarebbe più tornato.
   Torniamo allora al momento della sua suggestiva conversione a Gerusalemme. "Sul Monte degli Ulivi ho trovato Gesù" scrisse Rabinowitz a un suo amico qualche anno dopo. E tuttavia, quando Franz Delitzsch lesse la bozza della sua autobiografia, gli fece notare che non aveva scritto nulla sul momento della sua conversione. Rabinowitz disse soltanto che la cosa era intenzionale. Perché questa reticenza? La storia di Gesù nei Vangeli dovrebbe far capire che in certi casi anche i silenzi parlano, ma chi non ha orecchie per udire non intende neanche quelli. Chi ascolta il racconto di una conversione spesso è desideroso di sentire quello che già si aspetta, che ha già sentito dire da altri, che forse lui stesso ha detto quando "ha dato la sua testimonianza". Probabilmente Rabinowitz aveva capito che se avesse detto in modo chiaro e preciso tutto quello che aveva sperimentato in quell'occasione, e soltanto quello, molti cristiani avrebbero detto che la sua non era una vera conversione.
   Cerchiamo allora di ricostruire ciò che è essenziale dai frammenti che ci sono pervenuti. Il peso che gravava su Rabinowitz quando si trovava a Gerusalemme e camminava sul Monte del Ulivi non era costituito dai suoi peccati personali, ma dalla misera, disperata condizione in cui si trovava il suo popolo in quel momento. Il problema del peccato gli salì alla mente, ma in quanto peccato del suo popolo. Il Muro del Pianto vicino a lui gli fece ricordare il passo di 2 Cronache 36:14-16, in cui il Signore annuncia la distruzione di Gerusalemme:
    "Tutti i capi dei sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, seguendo tutte le abominazioni delle nazioni; e contaminarono la casa dell'Eterno, ch'egli avea santificata a Gerusalemme. L'Eterno, Dio dei loro padri, mandò loro a più riprese degli ammonimenti, per mezzo dei suoi messaggeri, poiché voleva risparmiare il suo popolo e la sua propria dimora: ma quelli si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti".
E il testo continua con le parole che più di tutto colpirono Rabinowitz: " ...
    finché l'ira dell'Eterno contro il suo popolo arrivò al punto che non ci fu più rimedio".
Come colpito da una luce dal cielo, comprese che le sofferenze degli ebrei e la desolazione della Palestina erano dovute al loro persistente rigetto del Cristo. Il rimedio doveva essere trovato in Lui.
   Un uditore di uno dei pochi racconti che Rabinowitz fece della sua esperienza riporta per iscritto alcune parole:

    "«Improvvisamente una frase del Nuovo Testamento, che avevo letto 15 anni prima senza prestarvi attenzione, trafisse il mio cuore come un raggio di luce: 'Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi' (Giovanni 8:36)». Da quel momento la verità che Gesù è il Re, il Messia, l'unico che salva Israele, prese forza sulla sua anima. Profondamente commosso, tornò immediatamente al suo alloggio, afferrò il Nuovo Testamento, e mentre leggeva il Vangelo di Giovanni fu colpito da queste parole: ' ... senza di me non potete fare nulla' (Giovanni 15:5). In questo modo, per la provvidenza di Dio Onnipotente, fu illuminato dalla luce del Vangelo. 'Yeshua Achinu' (Gesù nostro fratello) rimase da allora lo slogan, con cui ritornò in Russia."

La formula "Gesù nostro fratello" caratterizzò immediatamente la forma in cui la fede di Rabinowitz si manifestò in pubblico nei primi tempi. In ambito cristiano era indubbiamente nuova; qualcuno la trovò interessante, altri la criticarono, perché sembrava svalutare la grandezza del Signore Gesù. Quel "nostro" evidentemente si riferiva agli ebrei, e questo poteva apparire riduttivo ed esclusivo a chi non è ebreo. Qualcuno poi fece notare a Rabinowitz che non basta confessare Gesù come figlio di Davide, Messia e redentore d'Israele, bisogna riconoscere in Lui l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. A questo Rabinowitz arrivò molto presto; infatti le sue predicazioni in seguito conterranno sempre pressanti inviti al ravvedimento e alla fede in Gesù per il perdono dei peccati. Ma questo aspetto della salvezza per fede in Gesù, pur essendo fondamentale, non fu il primo a toccare Rabinowitz: come prima cosa per lui ci fu l'inaspettata scoperta dell'amore di Gesù per il suo popolo. Era venuto a Gerusalemme per trovare il modo in cui aiutare gli ebrei di Russia ad uscire dalla miseria senza vie d'uscita in cui si dibattevano, e non lo trovò. Ma trovò Gesù. Era venuto per alleviare le sofferenze dei suoi fratelli ebrei, e nel momento in cui disperava di poterlo fare trovò il "nostro fratello Gesù". Questo gli aprì la mente e il cuore, rendendolo attento a tutte le parole di Gesù, anche quelle che all'inizio non l'avevano colpito, cioè la sua morte, la sua risurrezione e il perdono dei peccati per tutti coloro che credono in Lui. Pochi anni dopo la sua conversione ebbe a dire: "Per prima cosa ho onorato Gesù come grande essere umano con cuore compassionevole, poi come colui che ha desiderato il bene del mio popolo, e alla fine come colui che ha portato i miei peccati".
   In questo senso, la conversione di Rabinowitz, avvenuta negli stessi anni in cui si avviava il movimento del sionismo, ha valore di segno storico. Per secoli convertirsi a Cristo per un ebreo significava percorrere un cammino di allontanamento dal suo popolo: un cammino che alla fine doveva portare a un netto, doloroso distacco dalla comunità di origine. Il percorso di Rabinowitz è stato diverso: è l'amore per il suo popolo che gli ha fatto scoprire Gesù, facendogli trovare in Lui Qualcuno che gli ebrei possono chiamare "nostro fratello Gesù". Sul pendio del Monte degli Ulivi, Rabinowitz scoprì che Gesù ama il suo popolo, e in quel momento capì che soltanto in Lui si trova la soluzione definitiva della "questione ebraica". Questo cambiò radicalmente la sua vita.
   La storia della conversione di Rabinowitz non ha il lieto fine che di solito si legge nei racconti missionari. Dopo pochi anni ci fu rottura irreparabile tra l'ebreo Rabinowitz e il luterano Faltin. Provare a dire chi avesse ragione è cosa ardua, e anche rischiosa, perché dal giudizio che si formula possono emergere inaspettati punti deboli della teologia di chi giudica. A entrambi gli uomini si può concedere di aver voluto sinceramente servire il Signore nel quadro della loro comprensione del messaggio evangelico, ma è proprio la società cristiana in cui si muoveva Faltin e in cui ha tentato di inserirsi Rabinowitz che ha fatto naufragio davanti all'emergere di un movimento spirituale inaspettato. E' stato il Signore a suscitarlo, ma il corpo dei credenti in Gesù non ha saputo riconoscerlo ed affrontarlo in modo adeguato perché si è fatto trovare teologicamente e spiritualmente impreparato.
   Il gruppo che si era formato intorno alla predicazione di Rabinowitz prese il nome di "Israeliti del nuovo patto", ma non divenne mai una chiesa locale secondo il modello neotestamentario. Il motivo potrà sorprendere: perché in essa non si poteva battezzare. La singolarità di questa situazione fa emergere la gravità teologica di una concezione della chiesa che vive in osmosi con la società politica organizzata: in Russia il battesimo era un atto civile con il quale si diventava ufficialmente cristiani, e pertanto potevano amministrarlo soltanto persone autorizzate dal governo. Faltin aveva la licenza per battezzare, Rabinowitz no, nonostante ne avesse fatto regolare richiesta scritta. Un ebreo che si convertiva a Cristo poteva andare a farsi battezzare dal pastore Faltin, ma da quel momento cessava ufficialmente di essere ebreo e diventava un cristiano appartenente alla chiesa luterana. E questo, Rabinowitz non lo voleva assolutamente. «La soluzione della questione ebraica starebbe nel fatto che gli ebrei diventano luterani?» diceva polemicamente. Secondo lui, chiunque poteva andare a farsi battezzare da chi voleva « ... e diventare luterano, russo o romano, ma il mio popolo, il mio gruppo, quello che il governo mi ha permesso di fondare, non può e non deve diventare tedesco, russo o romano! Non hanno nessun motivo per diventare qualcosa d'altro: loro sono ebrei, il mio popolo è Israele».
   Dopo la rottura con il pastore luterano, Rabinowitz non perse totalmente l'appoggio delle chiese e delle missioni estere. Aiuti finanziari continuarono ad arrivargli da varie parti per la prosecuzione della sua opera di evangelizzazione tra gli ebrei. Questo però non sembra aver contribuito ad un sano sviluppo del nuovo movimento: i soldi, che pure sono importanti per molte cose, in campo spirituale spesso si rivelano essere una trappola tremenda.
   Per concludere, bisogna dire che questo libro non è certamente il primo a raccontare la storia di Joseph Rabinowitz. Anzi, l'autore prende in esame, analizza e confronta testi di una letteratura già estesa sull'argomento. Per questo non sempre risulta di facile lettura, ma sempre di enorme interesse, perché solleva quasi ad ogni pagina problemi che richiedono una valutazione e spingono alla riflessione. E' un libro problematico, perché tocca problemi di comprensione della Scrittura che a quel tempo non erano stati affrontati e tali sono rimasti ancora oggi in larga parte della cristianità che pigramente si adagia su posizioni di una tradizione che nei casi migliori ha escluso o emarginato Israele e in quelli peggiori l'ha additato come centro di tutti i mali. Lo scossone che sarebbe potuto venire da una lettura attenta ed umile del testo biblico è arrivato invece attraverso uomini che non a caso, ancora una volta, sono ebrei. Nel movimento degli "Israeliti del nuovo patto" di Kishinev erano già presenti tutti i temi di discussione e i problemi di identità che si ritrovano oggi nel movimento degli ebrei messianici, in Israele e nel mondo. Chi è a conoscenza dei fatti potrà verificarlo nella lettura di questo libro.
   Quanto a Joseph Rabinowitz, conviene ricordarlo con le parole di una dichiarazione che fece nel 1888: «Ho due soggetti che mi assorbono interamente: uno è il Signore Gesù Cristo, l'altro è Israele».

(Notizie su Israele, 4 febbraio 2024)


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"Dottrina Biden": gli Stati Uniti esaminano le opzioni per il riconoscimento di uno Stato palestinese

Il cambio di rotta in politica estera incontrerebbe grandi resistenze in Israele.

L'amministrazione Biden sta contraddicendo decenni di politica estera statunitense prendendo in considerazione un piano per riconoscere unilateralmente uno Stato palestinese, nonostante la forte opposizione di Israele.
   Sia Axios che il New York Times hanno riferito mercoledì di questo potenziale cambiamento nell'approccio americano alla creazione di uno Stato palestinese, che finora ha enfatizzato i negoziati diretti tra Gerusalemme e Ramallah.
   Secondo il rapporto di Axios, che cita due funzionari statunitensi che hanno familiarità con la situazione, il Segretario di Stato Antony Blinken ha chiesto una revisione delle opzioni politiche per il riconoscimento di uno Stato palestinese dopo la conclusione della guerra di Israele contro Hamas a Gaza.
   Nei mesi successivi all'attacco terroristico nel sud di Israele del 7 ottobre, l'amministrazione Biden ha sostenuto l'esistenza di uno Stato palestinese come parte di un patto di normalizzazione e di un'iniziativa di sicurezza regionale tra Israele e Arabia Saudita.
   Prima dell'attacco di Hamas, la questione palestinese non era vista come un ostacolo importante alla distensione tra Gerusalemme e Riyad, ma la posizione dell'amministrazione Biden sembra essere cambiata, con i sauditi che sottolineano il percorso verso uno Stato palestinese come precondizione per la normalizzazione.
   Un alto funzionario statunitense ha dichiarato ad Axios che alcuni membri dell'amministrazione Biden ritengono che il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese debba essere il primo, e non l'ultimo, passo nei colloqui per risolvere il conflitto israelo-palestinese.
   Ciò contraddice la dottrina del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, che vede nell'espansione delle relazioni con il mondo arabo la chiave per risolvere la questione palestinese. Ne sono un esempio gli Accordi di Abramo del 2020, con cui Israele ha stabilito relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan con la mediazione dell'amministrazione Trump.
   La coalizione di destra e religiosa di Netanyahu si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese.
   L'opposizione alla creazione di uno Stato palestinese è diffusa anche tra l'opinione pubblica israeliana.
   Secondo l'ultimo sondaggio "Peace Index" pubblicato la scorsa settimana dall'Università di Tel Aviv, il 66% degli intervistati ebrei si è detto contrario alla creazione di uno Stato "palestinese" accanto a Israele, mentre il 27% si è detto favorevole alla creazione di una "Palestina".
   L'editorialista del New York Times Thomas Friedman ha scritto che la spinta di Biden a riconoscere eventualmente uno Stato palestinese smilitarizzato in Giudea, Samaria e Gaza "non avverrà fino a quando i palestinesi non avranno sviluppato una serie di istituzioni e capacità di sicurezza definite e credibili per garantire che questo Stato sia vitale e non possa mai minacciare Israele".
   E ha continuato: "I rappresentanti dell'amministrazione Biden si sono consultati con esperti all'interno e all'esterno del governo statunitense su varie forme di riconoscimento della statualità palestinese".
   Secondo Friedman, la "Dottrina Biden per il Medio Oriente" includerebbe anche una posizione dura nei confronti dell'Iran, compresa una risposta militare ai proxy del terrore iraniano nella regione come ritorsione per l'uccisione di tre soldati statunitensi in una base in Giordania da parte di un drone. Inoltre, l'alleanza di sicurezza degli Stati Uniti con l'Arabia Saudita sarebbe "notevolmente ampliata" e comprenderebbe una normalizzazione delle relazioni tra Israele e l'Arabia Saudita.
   Inoltre, Axios ha riportato diverse opzioni che l'amministrazione Biden potrebbe adottare, tra cui il riconoscimento bilaterale di uno Stato palestinese, il ritiro del veto contro l'ammissione della "Palestina" come membro a pieno titolo del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e l'invito ad altri Paesi a riconoscere uno Stato palestinese. Il ministro degli Esteri britannico David Cameron ha dichiarato lunedì che il Regno Unito sta valutando la possibilità di riconoscere uno Stato palestinese.
   Giovedì Blinken dovrebbe incontrare a Washington il ministro israeliano per gli Affari strategici Ron Dermer per discutere della guerra di Gaza e dei piani per il giorno successivo alla fine dei combattimenti a Gaza, nonché della normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita. Dermer ha avuto un incontro simile con il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan mercoledì.
   Inoltre, Blinken si recherà in Israele per tre giorni a partire dal 3 febbraio, il suo sesto viaggio nello Stato ebraico dall'invasione del Negev nord-occidentale da parte di Hamas il 7 ottobre.

(Israel Heute, 3 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’Europugnalata a Israele: C’è il rischio di un genocidio

Lettera di ottocento funzionari Ue e Usa

di Mirko Molteni

Oltre 800 funzionari governativi degli Stati Uniti e di 11 paesi dell'Unione Europea hanno criticato Israele con una lettera aperta, detta “Dichiarazione Transatlantica”, ma sotto anonimato. Accusano Israele di «agire senza limiti» causando «morti civili prevenibili». I funzionari pro-Gaza, dissentono dalla linea prevalente dei paesi occidentali: «Esiste il rischio che le politiche dei nostri governi stiano contribuendo a violazioni del diritto internazionale, crimini di guerra e pulizia etnica o genocidio». Un funzionario americano «con 25 annidi esperienza», sempre anonimo, ha detto alla BBC: «Le voci di coloro che comprendono la regione e le sue dinamiche non sono state ascoltate. Non stiamo fallendo nel prevenire qualcosa, siamo attivamente complici».
   Su una tregua Israele-Hamas con scambio tra ostaggi e detenuti palestinesi, l’attesa è spinosa. Il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha telefonato al capo dell’alleata Jihad Islamica, Ziad Nakhaleh concordando che Israele deve garantire non una tregua temporanea, ma la fine del conflitto. L'intransigenza nel chiedere la fine della guerra è stata confermata dal portavoce di Hamas Osama Hamdan, che alla tivù libanese LBC ha aggiunto che lo stato ebraico dovrebbe liberare detenuti di alto rango. Ha citato Marwan Barghouti, esponente di Fatah, in galera dal 2002 con cinque ergastoli a causa di tre attentati che uccisero cinque israeliani. Sul cessate il fuoco il ministro della Difesa Yoav Gallant ha chiarito che «non riguarderà il fronte Nord verso il Libano», da dove Hezbollah spara razzi sulla Galilea.
   Ieri caccia dell’aviazione israeliana hanno distrutto postazioni di Hezbollah ad Aitaroun e altri villaggi libanesi. Aerei con lo scudo di Davide hanno anche colpito una base in Siria, presso Damasco, dove pasdaran iraniani addestrano gli alleati. Il raid sulla Siria ha ucciso un miliziano iraniano, uno iracheno e un terzo di nazionalità ignota. Nella Striscia di Gaza, i commandos israeliani dei nuclei Maglan ed Egoz hanno debellato gruppi di fuoco di Hamas. È stato diffuso un filmato palestinese in cui un cecchino di Hamas spara su tre soldati ebraici che camminano vicino a un carro armato, ferendone uno alla spalla. Altri alleati dell'Iran, gli yemeniti Huthi, hanno lanciato un missile balistico verso Israele tentando di colpire Eilat, ma l'ordigno è stato abbattuto da un razzo antimissile israeliano Arrow. Basi degli Huthi nell'area di Al Jar sono state bombardate da caccia americani e inglesi.

Libero, 3 febbraio 2024)

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Il gioco sporco dell’Amministrazione Biden

di Niram Ferretti

L’ordine esecutivo dell’Amministrazione Biden relativo a quattro coloni in Cisgiordania (su cinquecentomila), accusati di “violenza intollerabile” contro attivisti israeliani di sinistra, ma soprattutto di palestinesi, intimiditi e feriti, non può suscitare sorpresa. Si tratta di un pegno elettorale da pagare a chi, all’interno del partito democratico e soprattutto tra gli elettori, ha criticato il presidente americano per il suo appoggio a Israele.
   Ma non si tratta solo di questo. Più la guerra tra Israele e Hamas, prosegue, più l’Amministrazione Biden mima nei confronti dello Stato ebraico, l’impostazione ideologica dell’Amministrazione Obama. In realtà, la solidarietà iniziale post 7 ottobre, platealmente esibita, nascondeva già le insidie che gradualmente si stanno dipanando.
   Già dal principio si è reso subito chiaro che Israele non sarebbe stato libero di condurre la sua risposta militare contro Hamas se non sotto stretta supervisione americana. La vicinanza di Washington ha comportato una sorta di commissariamento del Gabinetto di guerra, dal quale, per non urtare Joe Biden sono subito stati esclusi dai consulti Itmar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, considerati dalla Casa Bianca troppo falchi, financo estremisti. Meglio sicuramente l’anodino Benny Gantz, ex Capo di Stato Maggiore, rivale politico di Netanyahu e più malleabile.
   Di seguito, gli Stati Uniti hanno imposto a Israele di coniugare la risposta militare con aiuti umanitari sempre più copiosi accompagnandoli costantemente da esortazioni demagogiche sulla necessità di  ridurre al massimo la morte dei civili.
   Nessuna guerra recente, sicuramente non quelle condotte dagli Stati Uniti e dai loro alleati, è stata combattuta e viene combattuta come quella in corso a Gaza, dove ogni mossa di Israele è scrutinata spasmodicamente e imbrigliata da una fitta rete di obblighi morali che nessun altro Stato ha mai dovuto osservare così scrupolosamente.
   Se c’è una cosa che questa guerra ha messo in luce in modo esplicito è quanto sia profondo il livello di subordinazione israeliana nei riguardi degli Stati Uniti a cui, negli anni, è stato sostanzialmente appaltato il comparto produttivo bellico, obbligando Israele a potersi opporre solo con fatica alle imposizioni americane.
   L’Amministrazione Biden ha dunque iniziato a riproporre in modo perentorio il vecchio paradigma dello Stato palestinese, la sua urgente necessità, come se il 7 ottobre non avesse mostrato inequivocabilmente quale sia il rischio enorme di avere uno Stato palestinese sulle colline della Cisgiordania.
   È questo un portato storico-culturale della protervia americana, della convinzione di sapere meglio degli altri in cosa consista il loro bene, che forma devono dare alla loro politica estera, e quale struttura statale possa funzionare meglio a migliaia di chilometri di distanza. I fallimenti clamorosi in Iraq e in Afghanistan non hanno insegnato niente. Gli Stati Uniti, e non certo a cominciare da questa amministrazione, sono quarant’anni che insistono sulla necessità del venire in essere di uno Stato palestinese, che, nei loro sogni, dovrebbe essere pacifico e democratico e riconoscere la legittimità piena di Israele.
   A questo obiettivo irrealistico si è poi aggiunto quello di volere stabilire chi, in un eventuale post Hamas, debba governare Gaza, optando per Fatah, che non ha mai condannato l’eccidio del 7 ottobre e supporta da sempre il terrorismo provvedendo a sostenere i terroristi in carcere, e le famiglie di quelli che invece sono stati uccisi.
   L’Amministrazione Biden non ha alcun interesse a che la guerra si prolunghi. In questo senso, l’accordo sugli ostaggi è una tappa indispensabile per affrettarne la conclusione, facendo in modo che il cessate il fuoco che ne fa parte duri quel tanto che ne renda impraticabile la ripresa.
   Questo esito sarebbe il peggiore possibile per Israele perché comporterebbe la non sconfitta di Hamas e dunque il suo ruolo politico futuro all’interno della Striscia.
   Sull’appeasement, sul evitare il confronto diretto e duro con i propri avversari più coriacei, Joe Biden persegue la linea disastrosa impostata da Barack Obama, come si sta vedendo in merito all’Iran, il quale attende che Israele lasci Gaza senza avere sconfitto Hamas per proclamare la vittoria e organizzare la guerra che verrà.

(L'informale, 3 febbraio 2024)

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Israele in guerra: il ministro israeliano Gideon Sa'ar si oppone alla volontà di Anthony Blinken di riconoscere uno Stato palestinese

di Alain Sayada

Il ministro israeliano Gideon Sa'ar si oppone al desiderio di Anthony Blinken di riconoscere uno Stato palestinese
In un post sul suo account X (ex Twitter) questa mattina, Gideon Sa'ar, ministro israeliano e membro del gabinetto di sicurezza del governo di emergenza, ha dichiarato di rifiutare i piani del Segretario di Stato americano Antony Blinken di riconoscere eventualmente uno Stato palestinese dopo la guerra a Gaza.
"Riconoscere uno Stato palestinese è il peggior tipo di short-termism. Significa dire ai palestinesi: uccidete quanti più ebrei potete, violentate le loro donne, prendete ostaggi e sarete ricompensati con uno Stato. Uno Stato che senza dubbio continuerà la lotta armata contro Israele", ha dichiarato Gideon Sa'ar
Recentemente, il sito israeliano Walla ha rivelato che Anthony Blinken ha ordinato al Dipartimento di Stato americano di preparare una bozza che esamini la possibilità di un riconoscimento americano e internazionale dello Stato di Palestina all'indomani della guerra a Gaza.
Il Segretario di Stato americano ha anche chiesto al Dipartimento di Stato di presentare proposte su come potrebbe essere uno "Stato palestinese smilitarizzato", basandosi su vari modelli provenienti da tutto il mondo.
Lo Stato di Israele è in stato di guerra dal barbaro e sanguinoso attacco noto come "Diluvio di Al Aqsa" orchestrato da Hamas il 7 ottobre 2023. Il gruppo terroristico palestinese, infiltratosi in località del sud di Israele, ha ucciso 1.400 civili e soldati israeliani, tra cui 375 giovani israeliani brutalmente uccisi durante un rave party nel Negev meridionale.
Più di 10.000 persone sono rimaste ferite. 136 civili israeliani e stranieri, tra cui donne, bambini e anziani, sono tenuti in ostaggio da Hamas nella Striscia di Gaza.

(Israel Heute, 3 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Col Milleproroghe sospese di nuovo le multe ai renitenti

di Patrizia Floder Retter

Un emendamento della Lega a prima firma Alberto Bagnai, che sposta il pagamento della sanzione di 100 euro a inizio 2025, riaccende l'odio nei confronti dei non vaccinati. «Così il Carroccio cerca di recuperare qualche zerovirgola per le Europee», scriveva ieri il Foglio, rimarcando il concetto: « La Lega torna a lisciare il pelo alla galassia no vax», Per chi non avesse afferrato, questo sarebbe «l'ultimo colpo di coda leghista alla corrente antivaccinista». Al momento, si tratta solo di una segnalazione di modifica al decreto-legge Milleproroghe presentata da Bagnai, «uno dei più convinti nemici del vaccino», secondo l'autorevole opinione di Repubblica. Nelle commissioni Affari costituzionali e Bilancio riunite mercoledì scorso in sede referente, il deputato ha proposto che la sospensione della multa non sia «fino al 30 giugno 2024» ma venga sostituita dalla dicitura «fino al 31 dicembre 2024».
   Per essere precisi, l'emendamento è riferito all'articolo 7, comma 1-bis, del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199. Nella sostanza, è la richiesta di un'ulteriore proroga, perché circa 1,6 milioni di italiani non siano costretti a dare all'Agenzia delle Entrate e Riscossione i 100 euro di una multa iniqua, inflitta dall'allora ministro della Salute, Roberto Speranza.
   Non sembra possibile, infatti, o non c'è sufficiente volontà politica per eliminarla dai balzelli in quanto «i soldi potenzialmente ricavati dalle sanzioni sono stati inseriti nel conto delle entrate dal Mef. Per cancellare la norma andrebbero trovate le coperture alternative, per circa 170 milioni di euro», ricorda Repubblica. Un'ulteriore proroga (sarebbe la terza), perlomeno congela una misura pensata con l'unico obiettivo di calpestare definitivamente i diritti dei cittadini che non volevano porgere il braccio a un siero sperimentale.
   Commentando le reazioni scomposte all'emendamento di Bagnai, il senatore della Lega Claudio Borghi ha sottolineato su X che, se ci si deve occupare ancora di questa sanzione, è per «i danni di Speranza che si protraggono nel tempo». Aggiungeva: «Pazienza, andremo avanti a prorogare fino a quando il sole, trasformandosi in una gigante rossa, risolverà la questione contabile. Nb: anche stavolta ci abbiamo dovuto pensare noi». Una stoccata agli alleati di governo, che non hanno pensato ad
   emendamenti in quella direzione. «Una maggioranza, almeno in alcuni suoi componenti, non proprio amica dei vaccini non riesce ad eliminare le sanzioni», ironizzava ieri il quotidiano del gruppo Gedi. Intanto Bagnai, professore di politica economica, perlomeno prova a spostare in avanti i termini della sospensione.
   La sua proposta fa parte dei circa 200 emendamenti super segnalati dai gruppi politici della Camera. Da 1.200 che erano alla presentazione, in una settimana si sono ridotti della metà e dopo quindici giorni sono scesi a circa 200. Le commissioni proseguiranno
   l'esame la prossima settimana, l'emendamento dovrebbe essere tra quelli in discussione da mercoledì 7 febbraio. Se approvato, blocca ancora una volta l'invio dell'avviso di addebito per violazione dell'obbligo vaccinale. In caso contrario, dal prossimo primo luglio tornerà a esacerbare l'animo di 1,6 milioni di contribuenti. Insegnanti, operatori sanitari, forze dell'ordine, over 50 che si rifiutarono di sottostare all'obbligo vaccinale contro il Covid e diventarono inadempienti. Dovevano pagare la sanzione, misura introdotta dal governo Draghi a partire dal febbraio 2022 e in vigore fino a metà giugno di quell'anno, le persone che non avevano ancora iniziato il ciclo vaccinale primario, coloro che non lo avevano completato e anche i renitenti di fronte al booster.
   Il ministero della Salute passò all'Agenzia delle entrate-Riscossione gli elenchi con i cittadini da multare, anche attraverso i dati della tessera sanitaria (l'auspicato controllo informatico), poi cambiò il governo e a dicembre 2022 un emendamento sempre della Lega, approvato dalla commissione Giustizia del Senato assieme ad altri riguardanti il decreto anti rave, sospese il pagamento. Doveva riprendere dal i luglio 2023 ma nel decreto legge Omnibus pubblicato il 10 maggio scorso c'era stata un'ulteriore proroga, fino a giugno 2024. Nel frattempo, ci sono stati circa 1.400 ricorsi davanti al giudice di pace, in diversi hanno anche già pagato e vorrebbero indietro i soldi. Sarebbe ora di fare piazza pulita di una vergognosa eredità dell'epoca Speranza.

(La Verità, 3 febbraio 2024)
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"Sarebbe ora di fare piazza pulita di una vergognosa eredità dell'epoca Speranza”. Così si conclude questo articolo, ma purtroppo la vergogna che dovrebbe far arrossire le autorità di quel momento, e anche chi ha dato loro un credito immeritato, continua. Questo fa capire perché la striscia iniziale di questa pagina, “Dichiarazione di obiezione di coscienza”, non è stata tolta. Il responsabile del sito è tuttora considerato “inadempiente” dalla legge. Ma sono i legislatori, di allora e di adesso, ad essere inadempienti. Ed è bene che questo si ricordi. M.C.

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Inizia la riapertura delle scuole nelle comunità del Sud di Israele

di Luca Spizzichino

Riapriranno le scuole in alcuni villaggi nel Sud di Israele. Questo l’annuncio fatto dall’esercito israeliano nelle scorse ore. La decisione è stata presa dopo che l’IDF ha ottenuto il controllo operativo di zone chiave della Striscia di Gaza e una notevole riduzione del lancio di razzi.
I militari prevedono il ritorno di un gran numero di civili dopo oltre quattro mesi lontani da casa.
Questa scelta arriva dopo quella ad inizio gennaio di far ritornare a casa i residenti di sei villaggi che si trovano tra i quattro e i sette chilometri dal confine. Le prime comunità ad essere state riaperte si trovano nel corridoio di Ashkelon e nella regione di Shaar Hanegev.
Contestualmente alla riapertura delle scuole, l’IDF ha abbassato il livello di pericolo dal livello 2 al Livello 3. Ora è consentito a 100 persone di riunirsi al chiuso e fino a 300 all’aperto, mentre prima i limiti erano 50 al chiuso e solo 100 all’aperto, il che rendeva difficile o impossibile la gestione degli istituti scolastici.
Per quanto riguarda invece il Nord, l’esercito israeliano ha affermato che non è ancora previsto il rimpatrio dei residenti e che le scuole non riapriranno prima della pausa estiva.
Al confine settentrionale l’IDF non è ancora riuscito a ridurre il lancio di razzi o missili anticarro di Hezbollah. A causa del continuo lancio di razzi più di 500 case hanno subito danni strutturali.
In un rapporto il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ha affermato che le tre comunità più colpite sono state: Metulla, con 131 case danneggiate, Shlomi con 130 e Manarah con 121.

(Bet Magazine Mosaico, 2 febbraio 2024)

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Lo schermidore israeliano vince l'oro in Qatar

DOHA - Lo schermidore israeliano Yuval Freilich ha vinto l'oro al Grand Prix di mercoledì in Qatar. Lo Stato del Golfo ospita la leadership dell'organizzazione terroristica Hamas, responsabile del massacro del 7 ottobre. Lo slogan ebraico "Am Israel Chai" (Il popolo di Israele vive) era stampato sulla tuta da scherma del 29enne.
In finale, Freilich ha sconfitto l'italiano Federico Vismara per 15:9 e l'inno israeliano è stato suonato durante la cerimonia di vittoria nella capitale Doha. Tuttavia, non è la prima volta che ciò accade: "HaTikva" è già stata suonata ai Campionati mondiali di judo nel maggio 2023.
Il Qatar non intrattiene relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico. Il capo del Comitato olimpico israeliano, Gili Lustig, ha parlato di un "successo impressionante". "La vittoria in Qatar e lo sventolare della bandiera israeliana in tempi come questi, su questo palcoscenico unico, è l'orgoglio israeliano al suo apice".
   La vittoria non è il primo grande successo per Freilich: nel 2019 è stato il primo israeliano a vincere l'oro ai Campionati europei di Düsseldorf. Il cavaliere mancino è all'8° posto nella classifica mondiale della Fédération Internationale d'Escrime (FEI).

• CRESCERE CON LO SPORT
  Freilich è nato nel 1995 nell'insediamento di Neve Daniel, a sud-ovest di Gerusalemme. Quando aveva cinque anni, la famiglia si è trasferita in Australia. Anche lui ha iniziato a praticare la scherma in quel periodo. La famiglia è tornata in Israele nel 2004.
   Come ebreo devoto, Freilich osserva i comandamenti della Torah. Nel 2008 ha intentato una causa contro l'Associazione israeliana di scherma perché organizza gare anche di Shabbat. Tuttavia, ha perso la disputa legale e ha iniziato a gareggiare anche di Shabbat, come riportato dal sito di notizie "Arutz Scheva".
   Uno dei suoi obiettivi sportivi, tuttavia, è quello di partecipare ai Giochi Olimpici di Parigi quest'anno. La vittoria in Qatar è un passo avanti, ma ci sono ancora diversi tornei di qualificazione da disputare.

(Israelnetz, 2 febbraio 2024)

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Le voci sull’accordo per i rapiti e le pressioni americane

di Ugo Volli

• Sul terreno
  Le operazioni sul terreno a Gaza nell’ultimo periodo non sono affatto cessate, ma hanno assunto un aspetto più vicino alla routine di una grande operazione di polizia che dà la caccia ai criminali e soprattutto ai loro capi, distrugge i loro rifugi, cerca di individuare i rapiti per liberarli prima che siano uccisi. E che al tempo stesso subisce ogni tanto gli agguati dei fuorilegge, anche nelle zone che erano state ripulite. È un gioco del gatto e del topo che per funzionare deve andare avanti a lungo. Lo stesso accade al Nord: ci sono scambi di colpi con Hezbollah, operazioni aeree in profondità, capi eliminati, ma nonostante gli allarmi le operazioni restano a questo livello e non si evolvono in guerra aperta.

• Le trattative per un accordo sui rapiti
  In questa condizione, prevale il livello politico dello scontro, dove Israele è letteralmente assediato dalla pressione congiunta di Qatar, Egitto e soprattutto degli Stati Uniti che vogliono un cessate il fuoco. Ogni giorno viene fuori una nuova versione di un accordo: due mesi di cessate il fuoco oppure tre settimane o forse un mese rinnovabile o per sempre; scarcerazione di tre terroristi condannati per ogni rapito, oppure 30 o addirittura 300; ritiro delle truppe israeliane da Gaza, o solo da certe zone, con o senza le ispezioni aeree; ritorno degli abitanti di Gaza nelle zone del nord o meno, e così via. Netanyahu continua a dire che liberare i rapiti è un obiettivo fondamentale, ma che ciò non può essere fatto a tutti i costi, che è necessario far sì che il 7 ottobre non possa ripetersi. Ma le voci continuano.

• La politica americana contro il governo Netanyahu
  La ragione di questa pressione è stata messa in chiaro da Thomas Friedman, l’editorialista del New York Times che è stato l’ascoltato consigliere antisraeliano di Obama e cerca di avere lo stesso ruolo con Biden: si tratta di “mettere l’asticella dell’accordo abbastanza in alto” da provocare l’implosione del governo di Netanyahu, magari attraverso l’uscita della destra di Smotrich e Ben Gvir e la loro sostituzione con Lapid, un cambio che dovrebbe preludere a nuove elezioni e alla liquidazione di Netanyahu e della destra. Dell’”asticella alta” fa parte anche la proposta paradossale di rispondere al 7 ottobre, una terribile aggressione terroristica proveniente da una forza palestinese come Hamas e approvata da tutte le altre e secondo i sondaggi anche dal pubblico, con l’approvazione di uno stato palestinese: un premio per il terrorismo e la garanzia della sua continuazione. Questa politica è evidente anche nella direttiva presidenziale con cui Biden ha deciso ieri sanzioni contro quattro esponenti delle comunità ebraiche in Giudea e Samaria colpevoli, secondo lui, di “aggressioni ai danni dei palestinesi” (ma evidentemente non giudicati come tali né dai tribunali né dall’amministrazione militare, visto che sono in libertà) e ha fatto trasparire che solo per un pelo non ha inserito nella lista Smotrich e Ben Gvir.

• Le reazioni in Israele
  Peccato per Biden e per i suoi alleati dentro la politica israeliana che l’elettorato di Israele non abbia dimenticato che il 7 ottobre è stato reso possibile innanzitutto dalle politiche di conciliazione con i palestinesi promosse dalla sinistra (e da alcuni corpi separati dello stato, incluso lo Stato Maggiore) e che la maggioranza nei sondaggi si opponga alla chiusura anzitempo dell’operazione a Gaza. Ci sono le manifestazioni di alcune delle famiglie dei rapiti, che comprensibilmente chiedono di fare “qualunque cosa” per liberare i loro cari, ma vi sono anche quelle di altre famiglie di rapiti, di caduti in guerra e anche di riservisti, che invece si oppongono agli aiuti che finiscono in mano a Hamas e vogliono che la guerra continui fino alla vittoria, come dal canto suo ripete instancabilmente Netanyahu. E anche i sondaggi, che un paio di mesi fa facevano prevedere un rovesciamento del quadro politico, ora mostrano una sostanziale continuità con gli ultimi cicli elettorali. Insomma, nonostante la pressione americana e le voci che si susseguono, Israele continua a voler combattere i terroristi. Un compito che naturalmente dipende dalle Forze Armate.

(Shalom, 2 febbraio 2024)

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Biden sanziona gli ebrei, non i tagliagole

La Casa Bianca sbaglia il bersaglio e mette sulla lista nera i responsabili della "violenza intollerabile" contro i palestinesi.

di Matteo Legnani

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato un ordine esecutivo grazie al quale il Dipartimento di Stato e quello del Tesoro potranno imporre sanzioni nei confronti dei coloni israeliani coinvolti in violenze con i civili palestinesi in Cisgiordania.
   Il provvedimento, che va a potenziare una direttiva emanata lo scorso dicembre dal Dipartimento di Stato con la quale era stata negata a dozzine di coloni la possibilità di ottenere un visto per gli Usa, è stato emesso nei confronti di quattro cittadini israeliani, che non potranno avere accesso a proprietà negli Stati Uniti, né effettuare transazioni finanziarie con entità statunitensi, né ottenere visti per l'ingresso negli Stati Uniti.
  
• MISURA OSTILE
 Ma, da ora in poi, «il governo federale potrà sanzionare chiunque abbia dato il via o partecipato a rivolte con atti che includono aggressioni nei confronti dei civili, distruzione delle proprietà o qualsiasi atto che abbia determinato il ferimento o la morte di un civile palestinese», hanno spiegato a Washington alcuni funzionari dell’amministrazione durante un briefing virtuale organizzato con un ristretto gruppo di giornalisti. Si tratta di misure che vengono solitamente adottate nei confronti di terroristi o di soggetti, come alcuni sostenitori di Putin in Russia, considerati una minaccia per la sicurezza nazionale americana.
   Il provvedimento, che è il primo apertamente ostile nei confronti di Israele dall’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre, ha inevitabilmente suscitato l'indignazione del governo israeliano. «La stragrande maggioranza dei residenti di Giudea e Samaria sono cittadini rispettosi della legge, molti dei quali stanno combattendo in questo momento in servizio attivo e di riserva per proteggere Israele«, ha detto il premier Benjamin Netanyahu.
   «Israele agisce contro tutti coloro che violano la legge, e in ogni luogo e quello adottato contro i coloni è un provvedimento drastico del quale non c’è ragione».
   Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, ha aggiunto che «quella delle violenze dei coloni è una bugia diffusa dai nemici di Israele per diffamare i coloni stessi. Così facendo - ha proseguito l'esponente della destra israeliana- gli Stati Uniti si uniscono a una campagna immorale che trasforma le vittime in aggressori e legittima il versamento del sangue dei coloni».
   Il New York Times ha messo in evidenza la tempistica tutt'altro che casuale del provvedimento. Biden è infatti atteso in queste ore a un evento elettorale in Michigan, che è lo Stato con il maggior numero di residenti arabo-americani, «centinaia di migliaia di elettori che vivono soprattutto nell'area metropolitana di New York», scrive il Times. E che è stato terreno di numerose proteste nei confronti dell'amministrazione, accusata dagli arabo-americani di aver indiscriminatamente appoggiato la guerra di Israele nella Striscia di Gaza.
  
• STRATEGIE ELETTORALI
  Come tale, il Michigan sarà uno Stato critico per il presidente in carica a caccia di un secondo mandato: lì, nel 2020, sconfisse Trump con un margine di appena 154mila voti su un totale di 5,5 milioni di voti validi. Nel 2020 i distretti con una elevata concentrazione di residenti arabo-americani avevano votato con largo margine a favore di Biden. Ma, da allora, quel consenso è andato erodendosi in modo significativo. Il Times cita un sondaggio commissionato alla fine dello scorso mese di ottobre dall'Arab American Institute, secondo il quale l'appoggio degli arabo-americani nei confronti di Biden e della sua amministrazione sarebbe crollato di 42 punti negli ultimi tre anni, dal 59% al 17%. La stessa governatrice del Michigan, la democratica Gretcen Whitmer, ha detto a 'Face the Nation'sulla CBS che "il presidente potrebbe dover fronteggiare proteste venendo qui". Urgeva dare un segnale, e il vecchio Joe ha scelto di stangare i coloni, finendo per strizzare l’occhio ai terroristi.

Libero, 2 febbraio 2024)

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I “coloni”, barriera necessaria

di Davide Cavaliere

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L’Amministrazione Biden ha sanzionato quattro «coloni» israeliani — Shalom Zicherman, Eitan Tanjil, David Chai Chasdai e Yinon Levi — a suo dire responsabili di violenze «inaccettabili» a danno dei palestinesi in Giudea e Samaria. 
Non una sola parola è stata pronunciata contro la ben più endemica e omicida violenza araba a danno degli ebrei della «Cisgiordania». Gli agricoltori israeliani vengono bastonati, i loro campi incendiati, le loro proprietà regolarmente danneggiate, nel silenzio della comunità internazionale. 
I sedicenti «coloni», come i primi sionisti, hanno costituito gruppi di autodifesa, dato che il governo israeliano si preoccupa più di blandire Washington che di difendere i suoi cittadini. Ha ragione il ministro Bezalel Smotrich quando dichiara che la campagna contro la «violenza dei coloni» altro non è se non una «menzogna antisemita che i nemici di Israele diffondono con l’obiettivo di diffamare e danneggiare i pionieri e le imprese di insediamento e quindi diffamare l’intero Stato di Israele». 
Il rifiuto di voler considerare il contesto in cui vivono gli ebrei della Giudea e della Samaria, o quelli delle città più vicine a Gaza, induce numerosi individui e organizzazioni a collocare sullo stesso piano etico aggressori e aggrediti. Parlare di «estremisti di entrambe le parti» è sintomo di una confusione morale grave.
Gli ebrei che si difendono, che reagiscono ai quotidiani soprusi arabi, non possono essere equiparati ai terroristi di Hamas e ai loro fiancheggiatori della «Cisgiordania». La mostrificazione dei «coloni», presentati come fondamentalisti religiosi e razzisti dalle intenzioni genocidiarie, è degna della peggiore propaganda nazista.   
Inoltre, qui su L’Informale, abbiamo pubblicato decine e decine di articoli per spiegare che la Palestina non è stata «colonizzata» e che non esistono insediamenti «illegali». Non ci ripeteremo.  
Questa volta ci limitiamo ad affermare che i cosiddetti «coloni» sono l’Israele più autentico, i veri eredi dei pionieri sionisti, uomini e donne decisi a rivendicare l’identità ebraica dello Stato. I «coloni» sono la prima linea di difesa di Israele, l’argine che impedisce alla marea jihadista di straripare. Se loro sloggiano, per Medinat Yisra’el è finita.
Dopo quella dell’ebreo «sradicato» e quella dell’ebreo «avido», abbiamo una nuova caricatura antisemita: l’ebreo «colono», ossia l’ebreo troppo religioso e troppo patriota, contro il quale può essere esercitata ogni violenza verbale e fisica.  
Questo ebreo troppo ebreo, che non si rassegna a scomparire ma che, caparbio e risoluto, rivendica la propria identità, ecco, questo ebreo, per il mondo «avanzato», deve morire. Non la chiameranno più «soluzione finale» ma «decolonizzazione». Dopo la «decolonizzazione» della Giudea e della Samaria verranno quelle di Haifa e Tel Aviv.  
I nemici d’Israele dicono «colono» ma intendono «israeliano» ed «ebreo». Un giorno guarderemo alle calunnie lanciate contro i residenti ebrei della Giudea e della Samaria come oggi guardiamo a quelle contenute nei Protocolli dei Savi Anziani di Sion
Bisogna che i presunti «coloni» si armino davvero; che difendano il loro diritto a vivere da ebrei in terra ebraica. Secoli di storia li autorizzano a vivere in quelle piane e su quelle alture. Dalla loro sopravvivenza dipende l’esistenza stessa dello Stato ebraico. 
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L'America si rivela sempre di più per quello che è: "Un sostegno di canna rotta che penetra nella mano di chi vi si appoggia e gliela fora". E' stata così per molti, sarà così anche per Israele? M.C.

(L'informale, 2 febbraio 2024)

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Trovate a Gaza tombe ebraiche dei veterani della Prima Guerra Mondiale

di Michael Soncin

FOTO 1
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FOTO 3
Nei giorni scorsi i soldati dell’IDF (Forze di Difesa Israeliane) operanti nella parte centrale di Gaza hanno trovato un cimitero in buono stato con diverse tombe risalenti ad oltre un secolo fa, appartenenti ai veterani ebrei, che combatterono nell’esercito britannico durante il 1° conflitto mondiale.
  Pattugliando la zona nei pressi della città di Al-Mawasi hanno visto che molte tombe avevano il Maghen David (Stella di Davide). Alcuni hanno subito ritenuto che questa fosse la prova che Hamas conserva anche le tombe ebraiche, ma invece come riportato sul sito Ynet così non è.
  Il tenente colonnello Oren, comandante del 74° battaglione ha detto:« Questa struttura è gestita dal Regno Unito attraverso le autorità locali della Striscia di Gaza. È un luogo davvero speciale, un posto che sembra un angolo di paradiso, verde e incontaminato in mezzo alle macerie. Ha subito qualche danno durante le battaglie, ma può essere restaurato. Abbiamo notato la Stella di David sulle tombe con nomi come “Goldreich”. Dopo qualche giorno, siamo tornati sul posto e abbiamo pregato davanti alle tombe dopo molti anni».
  Oren raccontato che fra le centinaia di tombe presenti, erano 7 quelle di veterani ebrei. «Abbiamo fotografato i nomi e le brevi descrizioni della battaglia in cui sono caduti. È stato un momento emozionante».
  Vicino al cimitero i soldati hanno trovato una fabbrica gestita dai terroristi di Hamas adibita alla produzione di armi e munizioni. L’IDF per non violare la sacralità del luogo ha deciso di evitare di controllare se ci fossero dei tunnel costruiti dai terroristi, sotto il cimitero.
  Oren ha poi aggiunto: « Abbiamo trovato tunnel costruiti da Hamas sotto altri cimiteri. Eravamo stupiti di trovare un luogo così sacro in questa zona maledetta. Stiamo combattendo qui perché hanno fatto lo stesso più di un secolo fa».

(Bet Magazine Mosaico, 2 febbraio 2024)

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Yitrò. La critica costruttiva del goy

di Ishai Richetti

La Parashà di Yitro inizia col versetto: “Yitro, il sacerdote di Midyan, il suocero di Moshe, sentì tutto ciò che D-o fece a Moshe e a Israele, il Suo popolo – (cioè) che Hashem ha portato Israele fuori dall’Egitto”. [Shemot 18:1]. Rashi insegna: Yitro aveva sette nomi: Reuel, Yeter, Yitro, Chovav, Chever, Keni e Putiel. Il nome Yeter (che significa aggiunta) gli venne dato perché causò l’aggiunta di un passaggio della Torà, a partire dal versetto che inizia con “Veata techezè” [Shemot 18:21], in cui consiglia a Moshe di cercare “uomini di mezzi, persone timorate di D-o, uomini di verità, persone che disprezzano il denaro” e di nominarli “capi delle migliaia, capi delle centinaia, capi delle cinquantine e capi delle decine” per giudicare il popolo in ogni momento, alleggerendo così il peso su Moshe e sul popolo, in quanto la precedente procedura in cui tutte le domande e le controversie venivano rivolte a Moshe personalmente causava lunghe file e stanchezza. Perché Rashi ha bisogno di insegnarci che questa è la Parasha aggiunta alla Tora in onore di Yitro? Non è ovvio? Inoltre, la “Parasha di Yitro” non inizia con le parole “Veata techezè”, che è il versetto che descrive la sua proposta per la soluzione al problema che aveva notato, ma inizia diversi versetti prima: “Fu il giorno successivo che Moshe si sedette per giudicare la gente, e la gente rimase accanto a Moshe dalla mattina alla sera. Il suocero di Moshe vide tutto quello che stava facendo alla gente e disse: “Cos’è questa cosa che fai alla gente?” Perché te ne stai solo con tutta la gente che ti sta accanto dalla mattina alla sera?’” [Shemot 18:13-14]. Perché Rashi non dice che la Parasha che Yitro ha aggiunto alla Tora per la quale è chiamato Yeter è la Parasha che inizia con le parole “Il suocero di Moshe vide tutto quello che stava facendo alla gente…”?
  Una possibile soluzione fornita dai Chachamim è che la critica non è mai un’aggiunta positiva. Chiunque può criticare, dire: “Non è una buona idea”. “Quello che stai facendo non funziona. Ti stai rovinando, stai rovinando la gente!”, “Non va bene!” L’aggiunta, il “Yeter”, avviene quando si porta un’idea creativa di cosa si dovrebbe fare per risolvere un problema. Ecco perché Rashi dice che il passaggio che Yitro ha aggiunto per il quale gli è stato dato un nome aggiuntivo è il passaggio che inizia con la sua soluzione e non con il problema: “Veata techezè….” Ciò porta a una domanda più fondamentale: Perché è stato necessario un Yitro, un pagano che era stato il sommo sacerdote dell’idolatria a Midyan, per insegnare agli ebrei che avevano bisogno di un sistema giudiziario di tribunali piccoli, medi e di una corte suprema? Non avremmo potuto capirlo da soli?
  L’Or haChaim risponde a questa domanda commentando che secondo lui questa è un’affermazione rivolta al popolo ebraico di tutte le generazioni sul fatto che tra le nazioni del mondo ci sono persone molto intelligenti alle quali potrebbe valere la pena dare ascolto. Includendo questo passaggio nella Torà, sostiene l’Or haChaim, D-o fa una dichiarazione: “…E tu sarai per me un segula (tesoro) tra tutte le nazioni…” [Shemot 19:5]. Deludendo forse qualcuno e sfatando qualche mito e qualche stereotipo, da questo versetto non si evince che la base di questa dichiarazione di D-o sia l’estrema intelligenza della nazione chiamata segulà (tesoro). Da diverse parti della Torà si evince che Hashem non ha scelto solo per il cervello o per l’estrema intelligenza, ma perché amava i nostri Patriarchi, Avraham, Yitzchak e Yaakov. Questo amore non è basato sul fatto che fossero dei geni, ma perché erano brave persone, erano ba’alè middot (persone con tratti caratteriali personali eccezionali). Per enfatizzare questa idea, il preambolo del ricevimento dei Dieci Comandamenti è la storia del sacerdote pagano che fu in grado di trovare difetti nel processo adottato fino ad allora e suggerire misure correttive.
  Rabbenu Bechaye scrive nel suo commento: Venite a vedere il grande status rappresentato dei tratti caratteriali, perché i grandi uomini della Torà come Noach, Avraham, Yaakov, Moshe e altri non furono mai elogiati per la loro intelligenza, la Torà non li loda mai per il loro genio. Sono sempre elogiati in termini di middot tovot (tratti caratteriali positivi). Questo insegna che la caratteristica principale da perseguire è, oltre alla saggezza, l’integrità e la rettitudine. La Torà, ci è stata donata per merito della rettitudine dei nostri antenati, siamo “Am Segulà” (la nazione tesoro di D-o) grazie e a causa dell’integrità e della rettitudine dei nostri patriarchi, integrità che abbiamo dentro di noi e che dobbiamo fare emergere. Yitro, in aggiunta a queste caratteristiche, ci illustra che a volte vale la pena rivolgersi o ascoltare consigli che ci arrivano da chi è lontano da noi per diversi aspetti per quanto riguarda le buone idee e il pensiero creativo, persino ad un sacerdote pagano. Yitro rappresenta colui che, grazie alla sua saggezza, ottenuta secondo i Chachamim sperimentando tutti i culti pagani dell’epoca, arriva a riconoscere la grandezza e l’unicità di D-o, ed ha il merito di essere il primo ad essere registrato nella Torà come colui che benedice dicendo Baruch HaShem.
  Ecco perché questa Parashà è “Parashat Yitro”. Questa Parashà, tramite l’analisi di chi era Yitro, la sua trasformazione e i suoi consigli ci illustra il motivo del grande merito che gli è stato dato, ma ci illustra anche quali sono le qualità che dobbiamo perseguire. Saggezza, buone middot e accettare consigli costruttivi dal prossimo. Questa è la ricetta per la crescita e il miglioramento personale, una ricetta universale e così valida da essere riportata appena prima dei Dieci Comandamenti.

(Kolot - Morashà, 2 febbraio 2024)
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Parashà della settimana: Itrò (Ietro)

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Il piano della tregua tenta anche Hamas

I miliziani in Egitto per trattare sei settimane di "respiro". Un video dalla Striscia: «I capi al ristorante, noi sotto gli spari»

di Mirko Molteni 

La trattativa fra Israele e Hamas per il rilascio degli ostaggi prosegue. In serata NBC News ha riportato indiscrezioni di «un ufficiale israeliano» secondo cui «ci sono forti indicazioni che l'accordo sugli ostaggi progredirà», anche se il governo israeliano ancora non concorda ufficialmente col piano scaturito dal vertice di Parigi fra Israele e gli stati mediatori: USA, Egitto e Qatar. Le bozze sono all' esame del gabinetto di guerra e il premier Benjamin  Netanyahu ha ribadito ai parenti degli ostaggi «l'impegno a riportarli a casa». 
   La proposta emersa dal vertice di Parigi fra il capo della CIA William Burns, il capo del Mossad David Bamea e il capo dei servizi segreti egiziani Abbas Kamel prevederebbe tre fasi. Nella prima fase, rilascio di donne, bambini e anziani israeliani; nella seconda tutti i militari ebraici rapiti; nella terza la restituzione delle salme degli ostaggi morti. Secondo il Washington Post, la durata della tregua sarebbe di 6 settimane} prolungabile, e verrebbero liberati tre detenuti palestinesi per ogni ostaggio ebraico. Il giornale americano ha inoltre ipotizzato che verrebbe chiesto all'esercito israeliano di «ritirarsi dalle città della Striscia di Gaza», compromesso fra opposte posizioni. 
   Un responsabile di Hamas, Muhammad Nazal, ha ribadito la richiesta a Israele di «ritiro totale da Gaza», ma Netanyahu si oppone: «Non ci ritireremo». Un ritiro parziale dai centri abitati, ma non da tutta la Striscia, potrebbe metter d'accordo entrambi. Il Dipartimento di Stato USA starebbe valutando il riconoscimento americano di uno stato palestinese alla fine della guerra per accelerare la «soluzione a due stati». Secondo la tivù Kan, Hamas vorrebbe per far rilasciare anche tutti i miliziani delle forze Nukhba catturati il 7 ottobre. Sono le formazioni d'élite del movimento impiegate nelle infiltrazioni che hanno scatenato la guerra. Israele non s'è ancora espressa su tale spinosa condizione. L'oltranzista ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha minacciato di uscire dal governo se verrà accettato il piano di tregua, ma il capo dell'opposizione Yair Lapid s'è detto pronto a rimpiazzarlo. 
   Anche Hamas pare tentata dall'accordo, per avere ristoro dopo mesi di bombardamenti. Ieri una delegazione del movimento s'è recata al Cairo, pare guidata dal capo politico Ismail Haniyeh, che vive al sicuro tra Qatar e Turchia, per parlare con Kamel, reduce da Parigi. Frattanto il Consiglio di Sicurezza dell'Onu s'è riunito, su richiesta dell'Algeria, per parlare della sentenza della Corte dell' Aja, che chiede a Israele di «prevenire atti di genocidio a Gaza». Ma i civili palestinesi iniziano a individuare in Hamas la loro disgrazia. Dopo le proteste popolari dei giorni scorsi contro il movimento, ieri è stato diffuso un video in cui uno sfollato palestinese urla che «i capi di Hamas vanno al ristorante, noi mangiamo proiettili». 
   Ripreso tra Khan Yunis e Rafah, il profugo dice: «La gente è stupida, non capisce niente. Noi non abbiamo nulla a che fare con tutto ciò. Sono stati Sinwar e Haniyeh. Haniyeh è in un ristorante in Turchia e Sinwar è sotto terra a mangiar carne, mentre noi siamo qui a mangiare proiettili in testa». Yahya Sinwar, capo militare di Hamas, è rintanato nei tunnel di Khan Yunis, dove l'esercito ebraico avanza metro su metro. Per il portavoce militare Avichay Adraee «sono stati smantellati due dei quattro battaglioni di Hamas nella città». Inoltre «è stata distrutta una fabbrica della Jihad Islamica in cui venivano prodotti razzi, missili anticarro, mine ed ordigni esplosivi, oltre a un tunnel». Intanto l'Unrwa, l'agenzia Onu dei rifugiati di cui membri palestinesi sarebbero stati complici di Hamas negli attacchi del 7 ottobre, ha fatto sapere di «essere costretta a lasciare Khan Yunis a causa dei combattimenti». 

Libero, 1 febbraio 2024)

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Netanyahu: "Ho delle linee rosse. Non accetteremo un accordo a qualsiasi prezzo"

"Non metteremo fine alla guerra, non ritireremo Tsahal dalla Striscia di Gaza, non rilasceremo migliaia di terroristi".

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha rilasciato mercoledì sera una dichiarazione video in cui ha sottolineato che "Israele sta cercando di trovare un altro quadro per il rilascio dei prigionieri, ma devo insistere che non è a qualsiasi prezzo". "Abbiamo delle linee rosse", ha continuato, "in particolare: non porremo fine alla guerra, non ritireremo l'IDF dalla Striscia di Gaza, non rilasceremo migliaia di terroristi".
Il Primo Ministro ha affermato che, oltre a lavorare per liberare gli ostaggi, Israele sta lavorando per raggiungere gli altri obiettivi della guerra, ovvero "eliminare Hamas e garantire che Gaza non rappresenti mai più una minaccia". "Stiamo lavorando insieme su questi tre obiettivi e non ne abbandoneremo nessuno", ha aggiunto.

(i24, 1 febbraio 2024)

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Il prezzo da pagare

La liberazione degli ostaggi, “ad ogni costo”, come era scritto su un cartello di una manifestante a Tel Aviv è, di fatto, la richiesta per la capitolazione di Israele nei confronti di una sanguinaria organizzazione terroristica che ha perpetrato il maggiore eccidio di ebrei dalla Seconda guerra mondiale ad oggi.
Il prezzo delle trattative con i terroristi, in genere, è quello di mettere chi tratta in posizione di inferiorità, per l’ovvia ragione che, chi detiene gli ostaggi, ha sempre concretamente un vantaggio da ottenere se non maggiore, proporzionato a quello della controparte.
La partita che Israele sta giocando con Hamas a Gaza è ancora del tutto aperta, la vittoria non è affatto conseguita e Hamas farà tutto quello che gli è possibile perché non abbia luogo, in questo senso gli ostaggi sono la pedina più importante da giocare.
Benjamin Netanyahu, sotto la forte pressione delle famiglie degli ostaggi e della Casa Bianca che vuole l’accordo, essendo esso in allineamento con la dottrina Biden, proseguimento di quella Obama, di appeasament in Medio Oriente, con l’Iran soprattutto, cerca di resistere.
La resistenza di Netanyahu, che dopo la catastrofe del 7 ottobre di cui è certamente in buona parte responsabile insieme a tutto l’appartato di sicurezza e dell’esercito israeliano, non piace agli Stati Uniti i quali vorrebbero che la guerra a Gaza si concludesse in fretta per avvantaggiare Biden nella sua corsa elettorale, e anche a chi, nel Gabinetto di guerra, in testa Benny Gantz, sembra ritenere che la priorità di Israele non sia più quella di smantellare Hamas a Gaza ma di liberare gli ostaggi.
È la ragione per la quale si cerca di presentare Netanyahu come un oltranzista a sua volta ostaggio dei suoi alleati di governo. Non è certo un caso, quindi, che Yair Lapid, il leader di Yesh Atid, si è prontamente offerto di rimpiazzare i partiti della destra nazionalista se questo dovesse servire per il rilascio degli ostaggi.
A Washington, Lapid è molto apprezzato. Non crea problemi ed esegue prontamente le indicazioni ricevute, sarebbe dunque l’ideale al posto degli “impresentabili” Ben Gvir e Smotrich, la cui colpa principale e di non volere uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza, che invece l’Amministrazione Biden vorrebbe imporre a Israele.
Il tentativo di rimuovere Netanyahu e il governo in carica dalla scena è, con il concorso esterno americano, in corso da quando è stato eletto, e si è palesemente manifestato durante il periodo delle manifestazioni contro la riforma della Giustizia, sui cui itinere la Casa Bianca ha ingerito pesantemente.
Netanyahu e questo governo restano dunque l’unico forse troppo fragile bastione per contrastare le mosse americane insieme a quelle della variegata galassia dell’opposizione di governo intese a fare perdere a Israele la guerra a Gaza e consegnare la vittoria a Hamas.
Da giorni ormai si rincorrono le voci di un accordo tra Israele e Hamas finalizzato alla liberazione dei 132 ostaggi rimasti nelle mani dell’organizzazione jihadista a Gaza. L’ultima versione dell’accordo secondo il Washington Post, prevede un cessate il fuoco per la durata di sei settimane, lo scambio di ostaggi e detenuti palestinesi in un rapporto di 3 a uno, e un ritiro sostanziale dell’esercito israeliano dal terreno di combattimento della Striscia.
Difficile immaginare scenario peggiore.
Il 23 novembre scorso, Alex Nachumson scriveva su Arutz Sheva:
“Israele deve avere un obiettivo in mente, ovvero sconfiggere e distruggere Hamas il più rapidamente possibile. Questo è l’unico modo per garantire la sicurezza e l’incolumità dei suoi nove milioni di cittadini, a breve e lungo termine, poiché le conseguenze strategiche per qualsiasi cosa che non sia una vittoria completa e assoluta potrebbero avere enormi implicazioni esistenziali. La migliore probabilità di liberare gli ostaggi è vincere questa guerra…Yaha Sinwar ha dimostrato che continuerà a combattere senza curarsi dello spargimento di sangue degli abitanti di Gaza. È pronto a sacrificare il suo stesso popolo per la sua causa. Non è possibile nessun ragionamento o richiesta morale con un uomo simile. Ha bisogno di essere costretto in un angolo finché non si arrende o viene distrutto.
Solo una vittoria di Israele potrà concludere questa guerra, liberare gli ostaggi e garantire allo Stato ebraico sicurezza e stabilità”.
Due mesi dopo, le cose stanno andando in tutt’altra direzione. Israele non sta vincendo la guerra, la sta perdendo, e la sta perdendo dal momento stesso in cui la priorità non è più quella di eliminare Hamas da Gaza e garantire la sicurezza futura di Israele, ma quella di liberare gli ostaggi.
Fu Benny Gantz a chiarirlo un po’ più di un mese fa, quando disse che l’obiettivo principale era diventato la liberazione degli ostaggi. Di fatto le cose stanno in questi termini nonostante i bellicosi proclami di Netanyahu e la continua sottolineatura che l’obiettivo della guerra non è mutato. I fatti lo smentiscono.
Israele la guerra la sta perdendo perché all’obiettivo bellico, la distruzione di Hamas, ha anteposto quello umanitario, la liberazione degli ostaggi.
Come ha sottolineato Daniel Pipes, http://www.linformale.eu/il-campo-di-battaglia-reale-conta-piu-delle-opinioni-al-riguardo-intervista-a-daniel-pipes/“Vorrei che il governo israeliano presentasse la sconfitta di Hamas come il modo migliore per ottenere il ritorno degli ostaggi”, ma la sconfitta di Hamas è lontana, non è certo la condizione per la liberazione degli ostaggi.
Pensare che, nel caso in cui l’accordo con Hamas dettagliato dal Washington Post, andasse in porto, dopo un mese e mezzo, l’operazione militare israeliana riprenderebbe con lena e determinazione, è semplicemente puerile.
L’accordo che si prospetta è figlio di una disomogeneità interna al Gabinetto di guerra tra visioni diverse su come condurre la guerra relativamente agli obiettivi da conseguire, e della fortissima pressione americana nell’orientarla il più possibile non nel senso di una reale vittoria per Israele ma di una mezza vittoria, che equivale, di fatto, a un fallimento.
Il fallimento è già a monte, nella trattativa con un’efferata organizzazione criminale, che non si sta affatto piegando alle richieste israeliane, ma sta contrattando alla pari cercando di ottenere il massimo vantaggio possibile.
Non si evidenzia alcuna debolezza di Hamas in questo accordo, ma la sua forza contrattuale. Hamas non è costretto a liberare gli ostaggi, lo fa perché ritiene, a ragione, di poterne lucrare la maggiore convenienza politica e militare.
Non è necessario essere apocalittici per vedere il profilarsi di un disastro, apparecchiato da un Gabinetto di guerra debole sotto commissariamento americano, e le cui ripercussioni, se le cose andranno come sono state annunciate, agiranno pesantemente su Israele negli anni che verranno.

(L'informale, 1 febbraio 2024)

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Angelica e Yehuda a Firenze spiegano “la pace vera”

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Se c’è una cosa che Israele non può permettersi né oggi né mai è “di non avere speranza”, racconta Angelica Edna Calò Livne, attivista italo-israeliana per la pace e residente del kibbutz Sasa sulla frontiera con il Libano. Dei circa 500 residenti abituali, per via dei timori di un possibile attacco di Hezbollah sulla falsariga del 7 ottobre, sono rimasti appena una ventina. Un ristretto gruppo di cui fanno parte lei e suo marito Yehuda, responsabile della sicurezza del kibbutz. Romana di nascita, emigrata in Israele ventenne, Angelica parla dal Salone dei Duecento di Palazzo Vecchio a Firenze, dove spiega cosa significa per lei “pace”, che resta meta da perseguire con passione “ma certo non con chi ci vuole distruggere come Hamas ed Hezbollah”. Pace, sottolinea l’attivista, ospite del Consiglio comunale, della Comunità ebraica e dell’associazione Italia-Israele, è costruzione di incontro e convivenza. Una normalità “dal basso” che è la cifra di Beresheet LaShalom, il laboratorio multiculturale e multireligioso animato da oltre vent’anni dai coniugi Livne, oltre all’esperienza quotidiana di Sasa dove ebrei e arabi lavorano fianco a fianco anche in queste settimane difficili, in un paese “che è ancora in pieno trauma” e con razzi che dal vicino Libano passano spesso sopra le loro teste (uno ha colpito in dicembre una abitazione del kibbutz, per fortuna disabitata). Yehuda, che la sta accompagnando in una serie di incontri in tutta Italia, annuisce. “Con una mano lavoriamo, con l’altra siamo pronti a imbracciare il fucile per difenderci”, sottolinea l’uomo, nel descrivere la quotidianità “al fronte” di Sasa.
  Aprendo la serata Enrico Fink, il presidente della Comunità ebraica fiorentina, aveva detto che “la pace è un percorso per niente scontato e semplice: non la si costruisce con gli slogan, con prese di posizione facili, con un post su Facebook”. L’invito di Fink è a “toglierci dagli occhi quei pregiudizi che condizionano il dibattito anche nella nostra città”. La professoressa Silvia Guetta, intervenuta in rappresentanza dell’associazione Italia-Israele, ha denunciato che “dopo il 7 ottobre ci si sarebbe potuti aspettare delle reazioni unanimi” di solidarietà e che “invece c’è stato chi ha voltato le spalle”, citando organizzazioni come Amnesty International e definendo l’accusa a Israele di compiere un genocidio da parte del Sudafrica “infondata e infamante”. Gadi Piperno, il rabbino capo di Firenze, ha raccontato che suo padre è stato operato di recente da un medico arabo che gli ha salvato la vita. Questo per dire che “le corsie degli ospedali israeliane sono piene di medici e infermieri arabi: tutta Israele è così”, ha detto il rav. Ghila Lascar, consigliera dell’Unione giovani ebrei d’Italia, ha poi testimoniato dal pubblico l’inquietudine degli studenti ebrei davanti al nuovo clima di odio e risentimento che ha contagiato anche gli atenei. Mentre l’editore Daniel Vogelmann si è scagliato contro chi, anche nella sfera politica, asseconda tali pulsioni.
  Conclusa l’iniziativa, si è svolta in Comunità una cena in onore di Angelica e Yehuda, oltre che del console onorario d’Israele Marco Carrai, vittima in questi giorni di una campagna di delegittimazione che punta a un suo passo indietro da presidente dell’ospedale pediatrico Meyer.

(moked, 1 febbraio 2024)

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Gli eroi di Israele, tra travestimenti e missioni da serie tv

di Ugo Volli

• In ospedale, a Jenin
  Una vecchia incapace di camminare con una coperta sulle ginocchia su quella che dalla telecamera di sorveglianza sembra una sedia a rotelle, spinta da due parenti; e poi medici, infermieri, personaggi in costume arabo, una donna con un cestone. D’improvviso tutti abbandonano i loro travestimenti, tirano fuori le armi automatiche e si muovono in maniera efficiente e coordinata in un ambiente che ha l’aria della sala d’aspetto di un ospedale, ma che nasconde un nucleo terrorista. Dopo dieci minuti tre pericolosi terroristi sono eliminati e gli incursori spariscono. Non è una scena di Fauda, ma quel che è accaduto davvero nei giorni scorsi nell’ospedale di Jenin, in un filmato pubblicato da fonti palestinesi. I portavoce militari israeliani confermano che è stata liquidata una cellula pericolosa, che stava progettando incursioni in stile 7 ottobre.

• Le azioni dei corpi speciali
  Non è la prima volta che accade. Anzi, è quasi sistematico. In altri filmati delle scorse settimane si vedono camion per il trasporto di merci, donne debitamente velate, automobili civili un po’ scassati con la targa palestinese, furgoni di tutti i tipi. Sono tutti travestimenti che servono alle forze dell’ordine di Israele di arrivare senza farsi riconoscere a portata dei terroristi. È grazie all’audacia e all’inventiva delle loro azioni che le cellule terroriste in Giudea e Samaria hanno potuto finora fare danni molto limitati nel corso della guerra: vi sono state centinaia di azioni, migliaia di perquisizioni e di arresti, e circa 374 terroristi liquidati. Talvolta si tratta di incursioni sotto travestimento come quest’ultima, più spesso, per circondare interi quartieri e eliminare pericoli consistenti, agiscono forze più ampie che usano mezzi e trasporti truppe blindati, spesso preceduti da bulldozer che strappano l’asfalto sulle strade davanti ai mezzi militari, in modo da far emergere le bombe sotterranee che spesso vi sono nascoste.

• Lo Yamam
  L’azione di Jenin è stata un’operazione congiunta di esercito, Shabak (l’agenzia di sicurezza interna, il cui nome è la vocalizzazione delle iniziali Shin-Bet, sigla dell’espressione ebraica Sherùt ha-Bitachòn ha-Klalì che significa “servizio di sicurezza generale”) e soprattutto dello Yamam (un’altra sigla che sta per Yeḥida Merkazit Meyuḥedet, cioè “unità speciale centrale”) della polizia di frontiera, nata nel 1974, di cui si dice che abbia un organico di circa 200 uomini, per lo più reduci dai corpi speciali delle forze armate, sottoposti a allenamento intensivo e addestrati a muoversi sotto travestimento.

• Gli altri reparti di Mista’arvim
  Per questo aspetto di agire travestiti da palestinesi, Yamem e le altre unità analoghe (fra le altre l’Unità 367 delle forze armate, detta Shimshon, cioè, Sansone; Duvdevan, ossia “ciliegia”, ufficialmente unità 217 della 89ª Brigata delle forze armate; i Gideonim, “Gedeoni”, unità 33 della polizia), sono chiamati Mista’arvim, cioè più o meno “gli arabizzanti”: un nome che ricorre anche in Fauda. Per un verso essi sono gli eredi dei coraggiosissimi agenti segreti del Mossad (“l’Istituto”, cioè il servizio di sicurezza esterno), ebrei provenienti dai paesi arabi che a partire dalla guerra d’Indipendenza hanno agito sotto travestimento nei paesi da cui erano immigrati, fornendo preziosissime informazioni alla difesa di Israele; il più famoso di loro è Eli Cohen, ebreo egiziano e celebre agente in Siria ai tempi della guerra dei sei giorni.

• La Sayeret
  Per altro verso questi reparti derivano dalle unità Sayeret (letteralmente, pattuglia commando o reparti di ricognizione, articolati a seconda delle unità come Palsar, cioè Plugat Siyur, “compagnia di ricognizione” o Gadsar, cioè Gdud siyur, “battaglione da ricognizione”. Ce n’è in tutti i reparti delle forze armate, fra cui Shayetet 13 (flottiglia 13) della Marina, Sayeret Shaldag dell’Aeronautica, Sayeret Matkal dello Stato Maggiore, Sayeret Golani della brigata Golani, di per sé un reparto di eccellenza; Sayéret Yahalóm del genio militare, particolarmente impegnata in questi giorni nella liquidazione dei tunnel di Hamas. Insomma Israele combatte con la tecnologia elettronica, che talvolta può fallire, come è accaduto il 7 ottobre; con l’aviazione, che è preziosa ma in molti casi non può intervenire. Ma soprattutto vince grazie ai suoi eroi che affrontano il corpo a corpo il nemico, usando la forza e l’astuzia insieme.

(Shalom, 1 febbraio 2024)

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Uri Buri, un’oasi di pace nel cuore di Acco

La storia e la filosofia di vita del celebre chef Uri Jeremias: “L’unico modo per garantire un futuro alle prossime generazioni è che le persone imparino a vivere.

di Fiammetta Martegani

Per gli amanti della cucina israeliana dal 1997 Uri Buri rimane uno di quei pilastri indistruttibili per cui vale una gita fuori porta fino ad Acco. Eppure, nel 2021 – nel corso del quinto conflitto tra Israele e Gaza, a seguito del quale si erano verificati pesanti scontri tra ebrei e musulmani, anche all’interno delle città miste – qualcuno aveva dato fuoco alle mura di questo storico ristorante, cercando di distruggere non solo l’attività del celebre chef Uri Jeremias, ma anche l’ormai storico simbolo di convivenza che questo ristorante rappresentava da decenni, sia per la ricchezza culturale dello staff che tra gli assidui frequentatori.
   Oggi, a distanza di tre anni, non si è ancora scoperto chi sia stato il colpevole. Ciò nonostante, Jeremias, già il giorno dopo l’incendio, aveva dichiarato a tutti i media nazionali: “non so chi abbia appiccato il fuoco ma so chi mi ha aiutato a spegnerlo: la nostra comunità di Acco, di ebrei ed arabi, uniti.”
   Dopo impegnativi lavori di ristrutturazione, già nel 2022 Uri Buri aveva riaperto i suoi battenti accogliendo, come sempre, le diverse comunità che vivono ad Acco e nel nord di Israele. A distanza di due anni, e nel mezzo di quello che ormai è il settimo conflitto con Gaza, questo ristorante continua a simboleggiare un luogo iconico di convivenza.
   Il quotidiano Haaretz è andato ad intervistare lo chef Jeremias per riflettere su quanto era accaduto allora e quanto, oggi più che mai, questo luogo abbia assunto un ruolo fondamentale nel rappresentare l’unione tra ebrei e arabi israeliani, sempre più forte dopo il 7 ottobre. Tanto che alla domanda, cruciale, del perché avessero dato fuoco proprio a Uri Buri, Jeremias spiega che il ristorante era stato bruciato proprio per ciò che rappresentava, ovvero un’icona di convivenza: “È stato come bruciare una bandiera, un simbolo. Per usare un’iperbole, mi sarei quasi offeso se avessero bruciato altri posti e non il mio. Ma non mi sono dato per vinto. Dal mio punto di vista, io ho sempre fatto ciò in cui credo e in cui continuo a credere. Per questo, dopo essermi accertato di salvare la vita della mia squadra e dei clienti che erano al ristorante, non ho aspettato un giorno per cercare di riaprire il più velocemente possibile. Sono, di indole, un ottimista. Una persona che quando arriva a un bivio e deve decidere, sceglie sempre la parte della luce e della speranza, e mai il lato della disperazione. Chiudere il ristorante avrebbe fatto il gioco dei rivoltosi. Sarebbe stato come dar loro un premio, oltre a punire i nostri ospiti, che vengono da tutto Israele e da tutto il mondo. Soprattutto sarebbe stato come punire l’intera città di Acco. Se, dopo tutto quello che il ristorante ha rappresentato nel corso degli anni, non avessi riaperto, questo avrebbe avuto un impatto devastante su tutto il tessuto della vita sociale e culturale di Acco. E io non ho mai smesso un secondo di credere in questo incredibile luogo di convivenza”.
   Quando il giornalista Rotem Maimon gli domanda se forse uno degli scopi dell’attacco fosse stato proprio quello di fargli smettere di crederci, Jeremias risponde che proprio per  questo non si sarebbe mai dato per vinto: “Non si tratta di credere in Acco, ma nello Stato di Israele. Per me, l’unico modo possibile per garantire un futuro alle prossime generazioni è che le persone imparino a vivere insieme e a rispettarsi a vicenda come dichiarato nella Dichiarazione d’Indipendenza. È il miglior antidoto contro tutti gli estremisti. L’estremismo, infatti, è un corpo canceroso che opera in modo sproporzionato rispetto al suo peso nella popolazione, proprio per sconvolgere la vita di tutti i giorni. Ad Acco ci siamo sempre sentiti ‘protetti’,  perche’ qui c’erano più persone che desideravano una vita in condivisione rispetto a quelle che non la volevano”.
   Jeremias non ha tardato a riflettere anche sui diversi problemi di criminalità che spesso riguardano la società araba israeliana, specie all’interno della stessa comunità, tra i giovani, spesso frustrati, talvolta sfruttati da spacciatori e criminali perché minorenni e, in quanto tali, non perseguibili per legge. Anche per questo per il rinomato chef un luogo come Uri Buri rappresenta per questi giovani proprio un esempio di opportunità di lavorare in un contesto di convivenza e di fiducia tra gli uni e gli altri: “Chiunque venga assunto qui sa esattamente dove sta andando a lavorare. Ho costruito un microcosmo di convivenza e coloro che lo trovano inadatto non verranno mai a lavorare qui. Anche perche’ ad Acco non c’è alternativa. Non esiste un luogo in cui poter dire: ‘Lavorerò solo in un posto dove non ci sono arabi, né donne, né gay, né non so cosa…’. Qui, semplicemente, non esiste”.
   Jeremias è nato nella vicina cittadina di Nahariya, nel 1944, da genitori scappati dalla Germania nazista e ancora oggi, a ottanta anni, vive nella stessa cittadina con sua moglie Yael. È cresciuto in una casa “insolita”, dice, quindi non ha avuto altra scelta che diventare una persona “insolita”: “Era una casa sempre aperta che prendeva anche bambini in affidamento, quando all’epoca non esistevano ancora istituti o altri posti simili. Era sempre piena di bambini che a volte stavano con noi per anni, inclusa una ragazza araba di Acco che, ancora oggi, è per me come una sorella”.
   Ovviamente in questi giorni bui Uri Buri soffre drammaticamente, come tutto il settore dell’accoglienza, della totale mancanza di turismo. Ma in sua assenza, sono gli israeliani che, da tutto il Paese, continuano a riempire le tavole di Jeremias: “Molti hanno sentito il bisogno di venire a sostenerci per mostrare solidarietà e ringraziarci per non aver mai gettato la spugna”. Oltre ad un incredibile dose di ottimismo, anche la sua passione per il cibo e per la tavola accompagna la sua vita da anni. Il menù, specializzato in pesce e frutti di mare, presenta sempre gli stessi piatti classici, con piccole modifiche qua e là, e comprende solo piatti che Jeremias ama mangiare lui stesso.
   Da anni non mancano la solita zuppa di funghi, il sashimi di salmone in salsa di soia con sorbetto al wasabi, la zuppa densa di pesce nel latte di cocco, il barramundi alla griglia, gli anelli di calamari, le cozze in salsa di panna e “riso bianco della nonna”. Tradizione ed innovazione, tanto che nel frattempo Jeremias è diventato anche uno dei proprietari di una startup che si occupa di food tech, con una grande attenzione nei confronti dell’ambiente e degli animali, specializzandosi nella produzione vegan-friendly. Nel team è il responsabile sia dell’aspetto culinario che del reclutamento degli investitori e degli esperti nel settore. Si potrebbe descrivere Jeremias come un visionario, sia in cucina che in politica. Del resto, la tavola, per definizione, è sempre stato uno dei più importanti momenti di condivisione e di comunione. E a distanza di 27 anni della sua apertura – e nonostante i tempi di guerra – questa piccola oasi di pace nel cuore di Acco non fa che confermarlo.

(JoiMag, 1 febbraio 2024)

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