Ramadan esplosivo
Non ci sarà alcun accordo per il rilascio degli ostaggi prima del mese di digiuno islamico del Ramadan. Hamas sa esattamente come mettere Israele all'angolo. Hamas sta giocando con le emozioni della società israeliana. Da giorni Israele chiede la lista dei nomi degli ostaggi israeliani ancora vivi, ma la leadership di Hamas a Gaza e in Qatar si rifiuta di trasmetterla a Israele. Questo sta facendo arrabbiare la società israeliana, che sta quindi esercitando una pressione ancora maggiore sul governo di Gerusalemme. Domenica prossima inizia il Ramadan, il periodo di digiuno musulmano di quattro settimane, e questo è sempre il momento più brillante per dichiarare disordini e guerra contro Israele. La causa scatenante è sempre la stessa: "i sionisti vogliono distruggere la Moschea di Al-Aqsa sul Monte del Tempio". Così Hamas e la Jihad islamica hanno invitato i palestinesi e il mondo arabo a fare del Ramadan il "mese del terrore". Hamas & Co. vogliono far precipitare il Paese nell'inferno solo per salvarsi dall'inferno della Striscia di Gaza. Il Ramadan è il miglior esplosivo per questo!
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Da qualche parte, dalle profondità della terra, il leader di Hamas ha invitato qualche giorno fa i palestinesi a prendere d'assalto il Monte del Tempio a Gerusalemme all'inizio del Ramadan e a marciare verso la Moschea di Al-Aqsa. In questo modo, Hamas ha aumentato la pressione sui negoziati in corso per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Pochi giorni fa, il ministro della Difesa israeliano Yoav Galant ha avvertito che Iran, Hezbollah e Hamas stanno cercando di usare il Ramadan per infiammare la regione al fine di causare una nuova catastrofe contro Israele dopo il 7 ottobre. Secondo Galant, sperano di provocare i palestinesi di Giudea e Samaria, Hezbollah e gli arabi e i musulmani di tutta la regione ad attaccare Israele e a dirigere la loro rabbia contro Israele, usando come pretesto il Monte del Tempio ebraico e le rivolte in Giudea e Samaria. I terroristi hanno tempo, perché non hanno nulla da perdere. Israele la pensa diversamente e vuole risolvere tutto immediatamente. Nel processo vengono commessi degli errori. Continuamente
La Jihad islamica e Hamas hanno aspettato il Ramadan per trasformare queste quattro settimane in un mese di terrore. I terroristi stanno pianificando attacchi nel cuore biblico della Giudea e della Samaria e attacchi nella Striscia di Gaza. Abu Hamza, portavoce delle Brigate Al-Quds della Jihad islamica, ha invitato gli Stati arabi ad attaccare Israele ora:
«Non ci sono scuse per nessuno che trascuri la lotta che stiamo conducendo per la nazione islamica, soprattutto per coloro che hanno eserciti, aerei e artiglieria. Non è forse giunto il momento di mobilitare le vostre artiglierie come hanno fatto i popoli liberi dello Yemen, del Libano e dell'Iraq? Non è forse giunto il momento di togliervi di dosso l'abito della schiavitù e dell'umiliazione nei confronti dell'America, il grande diavolo, e seguire l'esempio degli onorevoli? Agli arabi e ai musulmani diciamo: come vi rivolgete ad Allah con la preghiera obbligatoria e il digiuno, così rivolgetevi alla Palestina con l'arma e l'impegno del jihad. Siamo in grado di continuare la lotta, non importa quanto tempo ci vorrà.»
Israele deve prepararsi a questo nei prossimi giorni e settimane. I terroristi riusciranno a mobilitare la popolazione araba e i palestinesi sia in Giudea e Samaria che in Israele per attaccare o ribellarsi? Tutto ciò avviene in un momento in cui si spera in un accordo tra Israele e Hamas per il rilascio degli ostaggi e per un cessate il fuoco. Washington sta spingendo per un accordo di questo tipo. Ma Hamas continua a renderlo difficile, rifiutandosi di collaborare con i mediatori egiziani e qatarioti. L'apparato di sicurezza israeliano presume che Hamas voglia aspettare l'esplosivo mese di Ramadan per vedere cosa si sviluppa durante queste quattro settimane.
La terminologia usata da Hamas in vista del Ramadan è parte della terminologia usata dall'Iran nel corso degli anni per descrivere la sua strategia contro Israele. Tra questi, il riferimento all'"unità dei campi di battaglia", un termine per "unità dei teatri" o "unità dei fronti". Questi fronti includono le milizie sostenute dall'Iran in Libano, Siria, Iraq e Yemen. L'Iran ha tentato di minacciare Israele in un arco di 5.000 miglia dal Libano attraverso la Siria e l'Iraq fino al Mar Rosso e di nuovo a Gaza. Finora, tutte le parti minacciano conseguenze terribili se dovesse scoppiare una guerra su più fronti, compreso Israele. Non credo che nessuno voglia davvero questa guerra, ma è possibile che una milizia iraniana la inizi durante il Ramadan, costringendo tutte le parti a una guerra globale.
Il ministro della Difesa israeliano è stato uno dei principali sostenitori della distruzione di Hamas e ha cercato di convincere il gabinetto di guerra a lanciare un attacco preventivo contro Hezbollah in Libano all'inizio della guerra. Il capo del governo israeliano Bibi pose il veto. In questo momento, ha detto Galant, una guerra deve essere accompagnata senza esitazione da una riduzione delle tensioni nei territori palestinesi di Giudea e Samaria. Le tensioni devono essere ridotte ora. Per questo motivo, i servizi di sicurezza israeliani stanno discutendo con la leadership politica sull'organizzazione delle preghiere musulmane sul Monte del Tempio ebraico. Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, vuole permettere solo a poche migliaia di musulmani di recarsi sul Monte del Tempio, mentre il sistema di sicurezza non è d'accordo e parla di decine di migliaia. I ministri religiosi non vogliono mostrare alcuna considerazione per i musulmani durante il Ramadan e, se possibile, chiudere loro il Monte del Tempio ebraico.
L'apparato di sicurezza israeliano, compreso il capo del servizio di sicurezza Shin Bet, Ronen Bar, vede la limitazione del numero di visitatori al Monte del Tempio come un rischio di esplosioni ancora maggiori nel Paese. Questo aumenta la rabbia dei musulmani fino al punto di esplodere. La questione è se questo aspetto debba essere preso in considerazione o no. Due considerazioni diverse che sono pericolose in entrambi i casi per Israele durante le quattro settimane. Ben-Gvir avverte il suo governo di non cedere agli arabi e di non aprire il Monte del Tempio ai musulmani come avviene ogni anno. In tempo di guerra e finché gli ostaggi israeliani saranno trattenuti nella Striscia di Gaza, questo sarebbe solo un premio per i terroristi, ha detto Ben-Gvir. Israele deve smettere di ingannare se stesso e non deve mostrare paura".
Il ministro della Difesa israeliano Galant ha posto il veto al ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir di limitare l'accesso al Monte del Tempio per gli arabi israeliani o i palestinesi durante il Ramadan. È il sistema di sicurezza a decidere, non Ben-Gvir. Se le cose rimarranno così è una questione da vedere.
Il Ramadan è l'annuale teatro politico o spettacolo che i palestinesi mettono in scena sempre con la stessa scusa, come se "gli ebrei volessero conquistare la moschea di Al-Aqsa". Ogni anno, durante il Ramadan, chiedo a tutti i palestinesi che conosco se credono davvero che vogliamo distruggere o conquistare la loro moschea sul sito del tempio ebraico. Tutti mi rispondono di no, "ma". "Non siamo responsabili di ciò che dicono gli altri", è il loro ma. Il Ramadan è una pericolosa polveriera quest'anno. Israele deve essere attento e intelligente e non deve fare il gioco dei terroristi in nessun caso. D'altra parte, quest'anno Israele deve pensare prima a se stesso e non agli altri. La considerazione per gli altri (non per il proprio vicino) non ha dimostrato il suo valore nel corso degli anni. Ognuno può interpretarlo come vuole.
(Israel Heute, 7 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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"Vietata agli ebrei”
E’ Londra nei weekend di protesta per Gaza. L’allarme dello zar dell’antiestremismo.
ROMA - Nel 2014 George Galloway dichiarò Bradford, dove aveva vinto le elezioni, “zona libera da Israele”. Il deputato di Respect disse che i turisti israeliani non erano i benvenuti a Bradford: “Abbiamo dichiarato Bradford una zona libera da Israele. Non vogliamo nessun bene israeliano, non vogliamo nessun servizio israeliano, non vogliamo nessun accademico israeliano, non vogliamo nessun turista israeliano”. Ora che Galloway, vincitore nel seggio di Rochdale, torna a Westminster, a Londra lo segue quello spirito malefico.
Le proteste filo palestinesi stanno trasformando Londra in “una zona vietata agli ebrei”, ha denunciato lo zar dell’antiestremismo, Robin Simcox, consigliere indipendente del ministero dell’Interno, che ha avvertito: “Diventeremo uno stato autoritario se sarà consentito a Londra di trasformarsi in zona interdetta agli ebrei”. Anche Suella Braverman, l’ex ministro dell’Interno, ha fatto appello a un linguaggio simile a Simcox: “Parti di Londra sono diventate zone interdette agli ebrei, ciò è totalmente inaccettabile. Abbiamo visto l’antisemitismo salire alle stelle”. Una paura confessata anche dal deputato conservatore Lord Wolfson, che alla Camera dei Lord ha detto di essere più preoccupato per la sicurezza di sua figlia che indossa una stella di David nella metropolitana di Londra che per la sicurezza di suo figlio, che serve nell’esercito israeliano. Provocazione, ma per molti è cronaca londinese.
Poi Wolfson ha rivelato: “Le società ebraiche universitarie non rendono più pubblico il luogo in cui si riuniscono. Il discorso viene distribuito poco prima dell’incontro. Questo non è un gruppo clandestino nella Russia sovietica, ma una società ebraica in questo paese nel 2024”.
Tre persone sono state aggredite a Leicester Square, una delle piazze dello shopping londinese, dopo essere state sentite “parlare ebraico”. “Ci hanno sentito parlare e hanno detto: ‘Sei ebreo?’”, ha detto Tehilla, che vive a Londra da quando aveva 13 anni. “Ho detto ‘sì, sono ebrea’, e poi hanno iniziato a cantare ‘Palestina libera’, e ‘dannati ebrei’. In 15-20 hanno iniziato ad attaccarci fisicamente”. Intanto un video di “morte agli ebrei” arrivava da un altro angolo della capitale inglese, le scuole ebraiche di Londra dispensavano gli allievi dal portare la divisa perché li identificava come ebrei e le case ebraiche toglievano le mezuzah.
Due sere fa, all’attrice ebrea Tracy-Ann Oberman la polizia consigliava di non lasciare un teatro londinese dopo uno spettacolo in cui interpretava il ruolo principale, a causa delle manifestazioni filo palestinesi nella zona. Nelle stesse ore, nella metropolitana di Londra, un ebreo con la kippah veniva aggredito al grido di “la tua religione uccide”. Intanto un ebreo ortodosso veniva pugnalato quasi a morte a Zurigo al grido di “Allahu akbar” e un ebreo veniva picchiato fuori da una sinagoga a Parigi.
Sulla Bild ai primi di febbraio, il leader degli ebrei tedeschi Josef Schuster aveva avvertito che ci sono “zone interdette agli ebrei” in Germania. “Uno sviluppo che non mi aspettavo cinque anni fa ed è allarmante”.
Pochi se le aspettavano, le zone vietate agli ebrei in Germania e figuriamoci a Londra. Ma anche se è marzo, i frutti della “diversità multiculturale” in Europa stanno maturando un po’ prima del previsto.
Il Foglio, 9 marzo 2024)
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David Parenzo contestato all'università Sapienza di Roma: «Fascista, razzista!» Lui gira un video: «Non mi fanno parlare»
Tensione prima dell'incontro sulla parità di genere. Collettivi scatenati per la presenza di Azione universitaria (destra): «Lei copre il genocidio in Palestina». «Io sono per il dialogo».
di Flavia Fiorentino
«Non mi vogliono far parlare, non mi vogliono far parlare qui alla Sapienza» ha esclamato più volte David Parenzo mentre con il cellulare riprendeva i ragazzi che, srotolando la bandiera della Palestina, lo contestavano urlandogli in faccia: «Sei un razzista, un fascista!» Il giornalista e conduttore dell'«Aria che tira» su La7 subito dopo ha postato il video da lui stesso girato sul suo profilo Instagram. Tra le tante voci, una ragazza gli strillava: «Lei vuole utilizzare la questione femminile, strumentalizzandola per giustificare il genocidio in Palestina…» E Parenzo ha replicato: «Guardate che a Gaza non ci sono i movimenti a favore delle donne... E i gay vengono messi in carcere, nella migliore delle ipotesi. Venite qui, salite sul palco, confrontiamoci. Io sono sempre per il dialogo».
• Il valore della politica Parenzo, di fronte a una platea dove erano rimasti soltanto gli studenti di «Azione universitaria», ha poi detto, con un po’ d’ironia: «Mai avrei pensato di dover essere difeso da gente di destra», e riallacciandosi al tema del confronto, ha richiamato «il valore della politica e la necessità di dialogo tra posizioni diverse. L’antipolitica e la stagione di Grillo — ha spiegato — speriamo di essercele lasciate alle spalle: anche loro si sono istituzionalizzati e formato un partito riuscendo a esprimere anche una candidata valida come la Todde . C’è bisogno di una nuova classe dirigente e non c’è terreno migliore dei movimenti giovanili che crescono proprio nelle università. Comunque, al netto dei fatti di oggi — ha concluso Parenzo — basta che nessuno si faccia male e non si danneggino le aule dell’ateneo, “Viva anche la contestazione!”
• «Fermezza e cautela da parte delle forze dell'ordine» Solidarietà al giornalista da parte di tutte le forze politiche e anche dal ministro dell'Interno Matteo Piantedosi. «Mi ha telefonato - ha dichiarato Parenzo - e devo ammettere che le forze dell'ordine in questa occasione sono state impeccabili. La mia paura era che qualcuno potesse farsi male , invece per fortuna hanno saputo gestire la situazione in modo da evitare incidenti».
(Corriere della Sera, 9 marzo 2024)
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Un dubbio
Lettera al direttore di "Il Foglio"
Un dubbio. I parlamentari italiani in missione a Gaza per testimoniare le sofferenze dei civili, oltre a redarguire Israele, si ricorderanno di lanciare un appello a quel che resta di Hamas ad arrendersi, uscire dai tunnel e issare bandiera bianca? Cioè la via più breve per far cessare subito la guerra e liberare gli abitanti della Striscia dalla dittatura criminale che ha fatto subire loro le conseguenze delle sue azioni. O se ne dimenticheranno?
Guido Salvini
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Suggerisco ai parlamentari in missione a Gaza – dove ovviamente è giusto andare perché è in corso una tragedia vera, tragedia causata in primo luogo dai terroristi che usano da anni i palestinesi inermi come scudi umani – di leggersi un formidabile articolo pubblicato ieri sul Point e firmato da Bernard-Henri Lévy. “Potete perseverare nel cantare ‘cessate il fuoco! cessate il fuoco’: questo avrebbe l’inevitabile effetto di dare la vittoria a Hamas, di prolungare la sua presa su una popolazione di cui ha fatto la cavia nella sua corsa verso la morte e di vedere la sua aura crescere e crescere anche oltre Gaza, con tutte le conseguenze catastrofiche che si possono immaginare. Oppure potete auspicare che la comunità internazionale, e comunque i paesi sostenitori di Hamas, chiedano all’aggressore due cose molto semplici, che avrebbero come conseguenza immediata la fine di questa guerra atroce e delle sofferenze che essa genera: la liberazione, non di una manciata, ma di tutti gli ostaggi israeliani ancora vivi; e deporre le armi riconoscendo, in un modo o nell’altro, la sconfitta. Chi avrà il coraggio di pretenderlo? Chi si preoccuperà abbastanza del destino degli israeliani e degli abitanti di Gaza da costringere l’aggressore a fermare il suo mostruoso ricatto?”. Già, chi?
Il Foglio, 9 marzo 2024)
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La Sinistra ama gli ebrei morti
Lettera al direttore di “La Gazzetta di Lucca”
Caro direttore, sembra certo che la sinistra ama gli ebrei morti. Li serve alla sua tavola politica e culturale come arma contro il “rinascente” nazismo che peraltro fu bestiale anche a prescindere dall’obbrobrio dell’olocausto ebraico. Ma siccome in tutta evidenza non rinasce né il nazismo né il fascismo, i cortei, i sermoni, le denunce, i timori sparsi a piene mani servono solo ad alimentare il suo mondo onirico; dentro al suo barile c’è più poco da raschiare: le sue ricette salvifiche si sono rivelate tutte fallimentari alla crudele prova della realtà. Miti e leggende infranti da miseria e oppressione. L’opposizione sui fatti reali, sui risultati ottenuti, sui progetti esposti va evitata perché se ne esce con le ossa rotte: bisogna continuare a spacciare “l’oppio dei popoli”. Continuare a dipinge “gli altri” secondo le proprie convenienze e i propri miti: una mistificazione soffocante che dura da anni e che comincia a sgretolarsi solo in questi mesi provocando la furibonda reazione di tutto l’establishment che usa ogni mezzo per difendere la posizione, butta nell’arena sofisticati teoremi, paludati esegeti, ignari ragazzotti, cialtroni di mestiere, anarchici di comodo, giudici consociati, burocrati guardoni; tutto fa brodo in difesa della fortezza finalmente assediata. Gli ebrei vivi sono invece fastidiosi, sono persecutori dei palestinesi, popolo mite ed accogliente, libero di esprimere opinioni e scelte di vita, estraneo alla dittatura dei terroristi di Hamas pur avendoli votati in massa (liberamente? Costretto dai kalashnikov?). Il quale Hamas continua ad emettere comunicati cui tutti danno credito acritico: sono la fonte dell’unica verità, anche di fronte a prove contrarie. Ci siamo dimenticati del razzo Israeliano sull’ospedale di Gaza che aveva fatto 500 morti? Il razzo era di Hamas e per fortuna di morti ne fece meno di 50 (sempre troppi). Ci siamo dimenticati dei miliziani di Hamas che sottraggono il cibo ai civili armi in pugno, che si nascondono dentro le ambulanze, che rubano il carburate dagli ospedali. Ci siamo dimenticati dei funzionari ONU che hanno condiviso con gli animali di Hamas gli eccidi del 7 ottobre ma sono tuttora attivi come “neutrali” operatori umanitari e fonte credibile di informazione globale, ci siamo dimenticati delle basi di Hamas negli ospedali e nelle scuole per costringere l’esercito di Israele a fare più morti possibile fra i civili palestinesi, usati come scudi umani da sempre, ci siamo dimenticati i tentativi, armi in pugno degli eroici miliziani di Hamas di impedire ai civili di lasciare Gaza nord per esporli alle pallottole israeliane e venderli sul mercato del dissenso? I colpevoli sono solo gli israeliani vivi. Titoli cubitali sui giornaloni: Gutierrez che tuona solo contro Israele, il Sud Africa che accusa Israele di genocidio (fra parentesi il Sud Africa fa parte del BRICS: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, con l’aggiunta nel 2024 di Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti: una bella combriccola in termini di rispetto delle regole democratiche e dei diritti umani). La Corte di Giustizia ha rigettato l’accusa di genocidio: mezza colonnina a pagina 26! Nessuno in piazza. La gran cassa degli occidentali da piazza ha memoria corta e informazione monoculturale: più di mille manifestazioni a favore dei palestinesi (e di Hamas!), poche decine, oscurate e contrastate a favore di Israele. Ci pensano i cattivi maestri a manipolare i ragazzi da mandare in piazza (che però, secondo i dati ministeriali, sono meno dell’1% degli studenti: il 99% per fortuna è immune), gli infiltrati a provocare scontri con la polizia, le segreterie dei partiti e i mezzi di comunicazione dei miliardari ad accusare governo, ministro e gli stessi poliziotti di neofascismo, di sadismo. La narrazione è che, non i miliziani di Hamas ma gli israeliani sono sadici genocidi, che la nostra polizia è composta da squadristi felici di bastonare innocenti ragazzi che manifestano pacificamente, che hanno deciso per proprio conto di raggiungere la sinagoga probabilmente per deporvi fiori e opere di bene, per che altro? Che sputano sui poliziotti, li insultano, li provocano nella speranza che reagiscano, Bisogna metterci d’accordo: sputare, insultare, spintonare, provocare la polizia è democratico e dunque non solo è permesso ma è anche virtuoso? È questa la tesi della sinistra? Che lo dica con chiarezza. Mentre a Torino l’assalto anarchico all’auto della polizia per liberare un immigrato clandestino condannato 13 volte per reati pesanti, che, finalmente, stava per essere rispedito a casa sua, è gradito al Manifesto, è quasi in odore di eroismo da parte dei difensori del diritto di asilo e contro la polizia fascista di uno Stato fascista come è diventata l’Italia. E il generale Vannacci? Reprobo, ignorante che scrive stupidaggini secondo i tromboni e le trombone ospiti costanti di RAI, di Mediaset, e del nuovo approdo predisposto dal milionario di turno: “La 7” del signor Cairo. Tutti sacerdoti della verità e titolari dei giudizi: questo buono, questo cattivo. Vuoi mettere le vette letterarie della defunta Murgia, della loquace Bompiani o del geniale Saviano! Gli intellettuali e i letterati di sinistra, per quante c. dicano danno grandi apporti alla cultura, alla qualità e alle virtù di vita degli italiani e dell’umanità intera: sono accolti da tutte le reti, espongono in libera arroganza i loro assiomi, bollano di incompetenza, ignoranza, partigianeria, incapacità di analisi, compromissioni col potere, chi degli interlocutori non la pensa come loro e contemporaneamente proclamano che il Governo reprime il dissenso, che c’è aria di fascismo, di pensiero unico (detto da loro!). Mentre non meritano comizi, raduni, sfilate, i 1057 prigionieri politici del Combinado del Este a Cuba, gli oltre 200.000 del sistema carcerario della Corea del Nord, con la perla del campo di sterminio di Yodok, i 48.699 censiti nei Laogai della Cina di Xi Jin Ping, gli innumerevoli poveretti detenuti in Iran, in Arabia Saudita o nello Yemen, dove prosperano gli Houthi mantenuti dagli Ayatollah iraniani come Hamas, come gli oppressori dei libanesi Hezbollah. Neanche suscitano non dico apprensione ma neanche attenzione, le “stazioni di polizia d’oltremare” istituite dalla Cina in giro per il mondo e operative anche in Italia, per esempio a Prato: siccome non sono fasciste non costituiscono pericolo. Pericolosi sono i poliziotti, la Meloni e i suoi alleati. E così sia. Francesco Pellati
(La Gazzetta di Lucca, 9 marzo 2024)
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Israele e il mondo capovolto
Il risalto in colore è stato aggiunto. NsI
di David Elber
Esiste veramente un mondo capovolto, è quello che entra in scena tutte le volte che Israele è al centro dell’attenzione. Lo si è capito bene a partire dal 7 ottobre.È passato solo poco tempo dall’eccidio di civili israeliani compiuto dai palestinesi e già i falsi amici di Israele e i suoi alleati hanno gettato la maschera per mostrare la realtà di quello che pensano ma non hanno il coraggio di dire apertamente: lo Stato di Israele è fondamentalmente, in quanto tale, dalla parte del torto. A quale altro Stato al mondo coinvolto in una guerra come conseguenza di un attacco è richiesto di difendersi senza causare morti tra i civili?.
Se a questo aggiungiamo che la Striscia di Gaza è caratterizzata da un autentico mondo sotterraneo (ad oggi sono stati scoperti oltre 800 km di tunnel) sottostante quartieri densamente abitati, come è possibile sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi senza coinvolgere i civili? A titolo di nota va ricordato che gli 800 km di tunnel (una stima prudenziale calcola siano costati oltre un miliardo di dollari) sono stati costruiti con il favoreggiamento della UE e degli USA che hanno stanziato i fondi necessari tramite ONG pseudo-umanitarie e agenzie ONU colluse con i terroristi.
Rapidamente gli “amici” di Israele hanno iniziato a criticarlo per essersi difeso: l’accusa principale è che i morti civili sono troppi. Si, i civili morti sono tanti, ma come in ogni guerra, anzi, leggendo le cifre fornite dal fantomatico “ministero della salute di Gaza”, cioè l’ufficio di propaganda dell’organizzazione terroristica di Hamas, si scopre che l’operazione militare di Israele, conti alla mano, ha causato molti meno morti civili in rapporto ai combattenti uccisi in operazioni militari meno complesse condotte dalla NATO in Serbia o dagli USA in Afghanistan e in Iraq. Perché allora queste critiche feroci? Perché Israele è considerato inficiato dalla colpevolezza di essere nato.
• Poniamoci una serie di domande
Perché gli “amici” e gli alleati di Israele hanno iniziato, uno alla volta (USA, Gran Bretagna, Francia per citare i più importanti) a dichiarare che vogliono riconoscere un inesistente Stato di Palestina dopo il 7 ottobre e la guerra che ha causato? Perché nessuno tra gli “amici”, dopo l’eccidio del 7 ottobre, ha dichiarato l’intenzione di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme per dare un concreto e fortissimo messaggio di vicinanza al popolo ebraico aggredito? Perché nessuno di essi sta esercitando pressioni sul Qatar (il vero padrino di Hamas) per la liberazione degli ostaggi magari minacciandolo di boicottaggio? Perché nessuno tra gli “amici” e alleati di Israele ha mandato aiuti per gli oltre 150.000 sfollati israeliani del sud e del nord di Israele? Perché nessun falso alleato di Israele ha mai chiesto apertamente ad Hamas di arrendersi e deporre le armi per porre fine alla guerra? Perché nessuno ha mai chiesto a Hezbollah di interrompere l’aggressione nei confronti di Israele che va avanti dall’8 ottobre? Perché l’UNIFIL non muove un dito per allontanare i terroristi libanesi dal confine come previsto dalla Risoluzione ONU 1701? Perché tutti gli “amici” di Israele accusano quattro “coloni” di atti violenti in Giudea e Samaria e chiudono entrambi gli occhi davanti alla trentennale violenza palestinese (anche dei membri dell’AP) nei confronti degli ebrei che ha causato centinaia di morti e migliaia di feriti? Perché ai civili di Gaza non è permesso lasciare la Striscia e mettersi in sicurezza in Egitto? Perché i cosiddetti alleati di Israele hanno accolto milioni di profughi dalla Siria, dall’Ucraina e da molti paesi africani che non sono in guerra mentre negano ai palestinesi di potersi mettere in salvo sostenendo che questa sarebbe “pulizia etnica”? Un’unica risposta viene subito alla mente, perché Israele è uno “Stato coloniale” e trovarsi in un territorio che gli appartiene legalmente da oltre 100 anni è considerato illegale.
La conseguenza di questa palese politica volta a delegittimare Israele in ogni circostanza sta avendo gli effetti sperati: un’opinione pubblica schierata quasi totalmente con un organizzazione terroristica che vuole la distruzione dello Stato ebraico facendosi scudo della propria popolazione civile, vista come sacrificabile per ottenere la simpatia dei manifestanti che scendono in piazza per accusare Israele di genocidio.
I veri responsabili morali dei sempre maggiori atti di antisemitismo che si stanno verificando in Europa e in America, sono le classi politiche dei rispettivi paesi, sempre pronte e concordi nel delegittimare e accusare Israele anche quando si difende.
È un vero mondo capovolto quello che vede sempre e solo Israele sul banco degli imputati anche quando, pur avendo subito un reale tentativo di genocidio, viene portato di fronte alla Corte di Giustizia Internazionale per essere accusato del tentativo che ha subito.
(L'informale, 8 marzo 2024)
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“Lo Stato di Israele è fondamentalmente, in quanto tale, dalla parte del torto”. “Israele è considerato inficiato dalla colpevolezza di essere nato”. Sono le diffuse convinzioni registrate dall’autore di questo ottimo articolo. A questo si può aggiungere che la “colpa di essere nato” ricade ovviamente su chi lo ha fatto nascere. Ma chi è il padre di Israele? Il Faraone non lo sapeva, e allora il Signore incaricò Mosè di metterlo al corrente: “Tu dirai al Faraone: ‘Così dice L’Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito'”. Il seguito di quella storia è noto, e non finì bene per il Faraone. E si può essere biblicamente certi che non finirà bene neppure per i molti faraoni dei nostri tempi. M.C.
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Maratona di Gerusalemme, la corsa dei 40mila in solidarietà agli ostaggi
GERUSALEMME – Primo tra gli uomini è arrivato il 33enne Melkamu Jember. Mentre a imporsi tra le donne è stata la 35enne Noah Berkman. Entrambi israeliani ed entrambi tra i favoriti della vigilia. Però forse mai come quest’anno “hanno vinto tutti”, ha scandito lo speaker complimentandosi con gli oltre 40mila podisti presenti alla tredicesima edizione della maratona di Gerusalemme. Un’edizione dal grande impatto emotivo, caratterizzata dal ricordo del pogrom del 7 ottobre e dall’angoscia per la sorte degli ostaggi. Tanti oggi hanno corso con le loro foto sulla maglia, alcuni ne avevano anche tre o quattro. Ancor prima che la gara avesse inizio toccante è stata l’esibizione sul palco di Artifex, all’anagrafe Yarin Ilovich, il dj scampato al massacro del Supernova festival e che ha riproposto stamane il repertorio eseguito cinque mesi fa per il popolo del rave.
Al via anche numerosi soldati, regolari e riservisti. L’edizione è stata loro dedicata dal sindaco
Moshe Lion
Moshe Lion
che ha corso lui stesso la cinque chilometri. “Sono orgoglioso di aver battuto il record di partecipanti alla maratona. E sono ancora più orgoglioso che ciò sia avvenuto come forma di tributo e solidarietà all’esercito, alle forze di sicurezza e di soccorso”, ha dichiarato il primo cittadino. Lion si è poi confrontato con alcuni giornalisti della stampa internazionale, rispondendo anche alle domande di Pagine Ebraiche. “Oggi più che mai”, ha affermato, “era importante esserci: esprimere la nostra solidarietà e al tempo stesso la nostra volontà di vita”. Dei 40mila della maratona, la quasi totalità erano israeliani. Ma tra loro c’erano oltre un migliaio di persone giunte dall’estero, anche da molto lontano. “È un segnale importante e che ho molto apprezzato. Gerusalemme è una città speciale, una casa per tutti. Vogliamo continuare a batterci per questo, sviluppando anche nuovi progetti legati allo sport”.
(moked, 8 marzo 2024)
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Scoperta una rara moneta del periodo della rivolta di Bar Kochba
di Jacqueline Sermoneta
Una rara moneta, risalente al periodo della rivolta di Bar Kochba (132 e.v), è stata ritrovata nella Riserva Naturale di Mazuq Ha-he’teqim, nel deserto della Giudea. Da un lato è scritto in antico alfabeto ebraico “Eleazar il sacerdote” con l’immagine di una palma da dattero, dall’altro “Anno primo della redenzione d’Israele” con un grappolo d’uva.
A portarla alla luce, insieme ad altre tre monete dello stesso periodo con l’iscrizione “Shimon”, un team di archeologi del Judean Desert Survey Project dell’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA), il cui scopo è recuperare i preziosi manufatti prima che vengano sottratti dai saccheggiatori. Lo scavo è effettuato in collaborazione con il Ministero dei Beni Culturali e l’Ufficio Archeologico per l’Amministrazione Militare della Giudea e Samaria.
Esistono diverse ipotesi sull’identità del sacerdote Eleazar. Secondo gli studiosi, potrebbe riferirsi a Rabbi Eleazar Hamod’ai, vissuto ai tempi di Rabbi Akiva, allievo di Rabbi Yohanan ben Zakai. Si pensa che abbia svolto un ruolo religioso significativo al tempo della rivolta di Bar Kochba e che abbia vissuto nella città di Beitar. Il Talmud racconta che morì proprio in questa città,probabilmente durante la rivolta. (Talmud di Gerusalemme: Ta’anit 4:5).
Dal 2017, l’Unità di prevenzione dei furti archeologici dell’IAA sta esplorando sistematicamente il deserto della Giudea. Tra i reperti scoperti in questi sette anni ci sono frammenti di rotoli dei Dodici Profeti Minori, quattro spade romane e il più antico cesto mai ritrovato.
“Gli scavi nel deserto della Giudea non finiscono mai di stupirci. – ha detto Eli Escuzido, direttore dell’IAA – Ci auguriamo che anche in questa stagione si possano fare importanti ritrovamenti”.
(Shalom, 8 marzo 2024)
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7 marzo: in piazza lo stupro di massa delle donne israeliane
Un grido per il diritto al ricordo e alla liberazione
Il silenzio delle bandiere. Non ne sventola neppure una in questa piazza di solito gremita da moltissimi vessilli spesso aggressivi, protervi, urlanti. Oggi in piazza San Babila non è così. Per questioni di sicurezza, per non accendere gli animi, per evitare episodi spiacevoli, dicono. Eh sì, allora meglio lasciar perdere, niente vessillo blu e bianco d’Israele, solo cartelli e pettorine gialle per ricordare in questo 7 marzo, alla vigilia della festa della donna, – esattamente cinque mesi dopo -, tutte le ragazze, le figlie, le madri, le nipoti, le ragazzine stuprate e uccise il 7 ottobre durante la mattanza di Hamas e la conseguente, vergognosa, minimizzazione – per non dire il silenzio – che ne è seguito da parte di femministe, organizzazioni umanitarie in difesa dei diritti umani e delle donne, Ong, eccetera… Circa trecento sono le persone riunite qui in San Babila, per questo flash mob vibrante e composto, mentre sul palco si alternano i discorsi e gli interventi. Tutto d’intorno, sulle panchine al sole, c’è la gente in pausa che mangia panini, che scarta insalatone e apre schiscette: tutti osservano curiosi e in silenzio, ascoltano parole che non afferrano del tutto, “ma di che cosa stanno parlando?” si chiedono tra loro, “israeliane? Ostaggi? Sette ottobre?, ma ormai siamo a marzo…”. “Stupri? Capirai, con tutto quello che succede qui da noi in Italia, con sti’ femminicidi…”. E allora capisci che un quieto chissenefrega si alza dalle panchine, una rapida alzata di spalle si china sul pranzo veloce di mezzogiorno mentre la fretta di correre altrove si riprende i suoi diritti. E tutto stride, tutto ha un effetto straniante in questa piazza italiana sotto un sole grifagno: straniante come possono esserlo il lutto e il dolore che isolano e ti fanno vivere in una bolla a parte; straniante come il soffio dell’indifferenza su un’anima che si ritrae, ferita; straniante come questo toccare con mano il cozzare delle diverse percezioni e, in ultima analisi, il sonoro chissenefrega che sussurra tutto intorno. Molte ragazze tengono dei cartelli a braccia alzate, hanno i pantaloni sporchi e macchiati di rosso per simulare il sangue degli stupri, mostrano fotografie di giovani donne e scritte con Verità per Israele, Basta indifferenza… È un flash mob per i diritti delle donne israeliane dimenticate, per lo stupro di massa pianificato a tavolino e perseguito come arma di guerra da Hamas, esattamente come fece l’Isis con le donne yazide o come accade adesso nelle carceri della Repubblica islamica dell’Iran, stupro come tecnica di rieducazione per le attiviste anti-regime. Il palco è rivolto verso corso Europa, in molti salgono a parlare, il tutto dura meno di un’ora. Franco Modigliani – uno degli organizzatori –, si sofferma sulla narrazione dei fatti, sull’efferatezza delle violenze filmate dagli stessi assassini, rievoca lo stupro reiterato delle donne ancora in ostaggio e il cui incubo non finisce. Modigliani presenta i numerosi oratori: Rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano, Manuela Sorani consigliere della Comunità ebraica, Roberta Vital e Emanuela Alcalay dell’ADEI WIZO, Olga Kola presidente di Woman Care per la difesa della donna, l’avvocato Stefania Zaparrata presidente di Scarpetta Rossa (che si occupa di difesa della donna contro la violenza), Mashi Hazan di Wow, la dottoressa Pepe dell’AMPI (Associazione milanese pro Israele), Silvia Sardone, europarlamentare della Lega e consigliere comunale, Diana De Marchi consigliere comunale del Partito Democratico e Presidente commissione pari opportunità e diritti civili, Mariangela Padalino consigliere comunale di Noi Moderati, Margherita Mazzoccolo del direttivo Italia Viva e Assessore alle politiche sociali di Pieve Emanuele. Hanno concluso – con vibranti parole di lotta e di riscatto – l’attivista Tamara Campagnano e Gabrielle Fellus di I respect. L’evento aveva il patrocinio della Comunità Ebraica di Milano, dell’AMPI, dell’ADI, di Woman Care, di Scarpette Rosse.
(Bet Magazine Mosaico, 7 marzo 2024)
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Vayakhèl. Un doppio Moshè
di Rav Adolfo Locci
“Poi Mosè parlò a tutta la raunanza de’ figli d’Israele, e disse: Questo è quello che l’Eterno ha ordinato: Prelevate da quello che avete, un’offerta all’Eterno; chiunque è di cuor volenteroso recherà un’offerta all’Eterno: oro, argento, rame” (Esodo 35:4-5). “Moshè fece…come l’Eterno aveva ordinato a Mosè” (Esodo 39:43).
L’invito ad offrire da parte di Moshè al popolo, per la costruzione del Tabernacolo, è diretto, senza intermediari (gli anziani, i capi tribù). Nel momento in cui si deve costruire il simbolo dell’unicità di D-o e del popolo ebraico, Mosè fa appello al cuore di tutti. Non è un caso che nella parashà di Vayaqel, la parola “lev/cuore” compaia sette volte. Tutti devono offrire, non importa tanto o poco, è importante che tutti offrano per sentirsi parte attiva di un progetto comune. Per questo è necessario che l’invito all’offerta sia fatto attraverso l’esempio diretto della guida. Un andante famoso ci ricorda che quando le parole escono da cuore entrano nel cuore; forse è proprio questo l’ingrediente fondamentale per aspirare a una vera e stabile unità, magari insieme a una adeguata capacità di comunicare e dialogare. Ecco come Mosè riesce ad adempiere al suo dovere di costruire il tabernacolo.
Ma perché la Torà, quando conferma che Mosè aveva fatto tutto secondo quanto gli era stato comandato dal Signore, non usa un pronome (“come l’Eterno aveva ordinato a lui”) ma ripete il suo nome per due volte? Sembrerebbe quasi che la Torà parli di una seconda persona che si chiama Mosè del quale D-o si è servito.
La risposta di Rav Elchanan Wasserman (1875-1941) è illuminante.
E’ ovvio che si tratta di un solo Mosè, ma la Torà vuole sottolineare che il nostro Maestro si sia come sdoppiato per compiere la volontà del Signore. E questo lascia un grande insegnamento.
Per ogni azione che facciamo, in ogni situazione che viviamo, c’è un prima e un dopo. Nel caso in questione, c’è un Mosè che esegue il suo dovere di costruire il Tabernacolo, grazie al contributo di tutti nessuno escluso, in modo preciso e attinente alle disposizioni ricevute, e un Mosè che a cose fatte non pretende nulla dal proprio dovere.
In effetti, è persona rara colui che non solo fa qualcosa di buono, di giusto, insomma il proprio dovere, ma che poi si mette da parte, come se l’adempimento di quel dovere non lo riguardasse più e dal quale non vuole alcun merito per se stesso. Basta essere una persona di cuore… Shabbat Shalom!
(Morashà, 8 marzo 2024)
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Parashà della settimana: Va'Jakel - Pecudè (Convocò - Inventario)
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Italia-Israele – Salta nomina ambasciatore a Roma
Il governo israeliano ha ufficialmente ritirato la nomina ad ambasciatore in Italia dell’ex sindaco di Maale Adumim, Benny Kashriel. A riportarlo per primo, il sito in ebraico del giornale ynet. Dietro al passo indietro, scrive il quotidiano, il rifiuto italiano di Kashriel perché “sindaco di una città oltre la Linea Verde e in passato capo del consiglio di Yesha (organismo ombrello del mondo degli insediamenti)”. Ad esprimere la propria contrarietà al nome indicato da Gerusalemme, scrivono diversi media israeliani, sarebbe stato direttamente il capo dello Stato Sergio Mattarella.
Ynet riporta di una richiesta del governo israeliano al presidente Isaac Herzog di mediare con il Quirinale sul nome di Kashriel. L’opposizione è però rimasta.
Ora il ministro degli Esteri israeliano sta pensando di reindirizzare l’ex sindaco di Maale Adumim verso l’ambasciata in Ungheria. Per l’incarico a Budapest era già stato scelto il diplomatico Jonathan Peled, confermato dall’esecutivo ungherese nel dicembre scorso. Ora Peled potrebbe invece diventare il candidato a guidare la rappresentanza a Roma. Il suo è il profilo di un diplomatico di carriera. Nato a Gerusalemme e cresciuto nel kibbutz Neot Mordechai, a pochi chilometri dal confine con il Libano, ha ricoperto numerosi ruoli al ministero degli Esteri. È stato poi ambasciatore in Australia, El Salvador e Messico.
(moked, 7 marzo 2024)
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"Pace? Cancellare Hamas e rieducare"
di Fiamma Nirenstein
Lo incontriamo dove il cuore di Israele pulsa con battiti più veloci: Ron Dermer (nella foto a sinistra) ci accoglie in un ufficio accanto alla sala del Gabinetto di guerra. Entrano in quella sala Netanyahu, Gantz, i capi militari e dei servizi segreti. Lui è ministro degli Affari Strategici. Netanyahu se deve discutere di qualcosa di veramente difficile sceglie Dermer che non è mai stato nel Likud né in altri partiti e risponde solo alla sua propensione politica e morale.
- Ministro, lei che è sempre stato un patriota, dopo il disastro del 7 ottobre, non si sente colpito nel sentimento di vittoria del popolo ebraico sulla storia? «Certo. La promessa di Israele, non consiste solo nel ritorno degli ebrei alla terra d'origine, ma anche nella nostra capacità di difenderci. Il 7 ottobre di fatto la promessa è stata rotta: il nostro compito è ricostituirla. Il punto di partenza è la distruzione di chi ha lanciato l'attacco. Hamas non deve sopravvivere come forza militare organizzata. Punto».
- Ma non sono troppi i «perché» e i «di chi è la responsabilità» che aleggiano sulla società israeliana? «Le domande sono tante e tutti dovremo rispondere, anche io, ministro di questo governo. Adesso, dal 7 ottobre, tutti combattono con bravura».
- Il mondo si chiede qual è lo scopo della guerra e come deve finire? «La guerra deve rimuovere Hamas, distruggere la sua capacità militare, mettere fine al suo potere politico e assicurare che Gaza non rappresenti più una minaccia».
- Ma tutto il mondo spinge per un cessate il fuoco. «Prima di tutto, dobbiamo necessariamente rimuovere Hamas, e chi non lo capisce non conosce il Paese. La gente d'Israele lo esige...».
- Da lontano si vede una battaglia di cui è difficile comprendere i passi e la conclusione possibile. «Primo punto: dobbiamo distruggere Hamas che non è una banda, ma un esercito con 24 battaglioni. 18 sono stati sgominati, ma solo il 50% dei terroristi è fuori gioco. Oltre a questi abbiamo altri 6 battaglioni. Se li lasciamo sul terreno, Hamas riprenderà possesso di Gaza».
- Ma dove è Sinwar? Perché le gallerie non sono distrutte? «Le distruggiamo passo passo. Ma, numero due, dobbiamo sconfiggere la leadership, via via che si va a Sud e ci occupiamo di Rafah, aumenta la possibilità di arrivare ai leader...».
- Perché non siete ancora arrivati alla leadership? «Siamo vicini, lo spazio gli sta venendo a mancare. Una volta presi, il punto numero tre è la strategia che sostengo dall'inizio: resa, esilio. Con questo potremo riprenderci gli ostaggi; dopo la sconfitta e la resa le rimanenti forze possono andare in Qatar o in Libano. Finalmente inizierà il giorno dopo».
- Ovvero? Una leadership che gestisca la Striscia? «Finché c'è Hamas, non può esserci futuro. Dopo possiamo muoverci su demilitarizzazione e deradicalizzazione. Oggi ho più speranze sul conflitto di quante ne abbia avute in 30 anni...».
- Sta parlando dello Stato palestinese di cui Biden sembra essere il maggior paladino? «Biden è un presidente sionista, da subito ci ha sostenuto con la sua visita. Quanto allo Stato palestinese anni fa, a un dibattito, chiesi alla gente che cosa ne pensava. Il 90% era a favore. Quando ho chiesto in quanti lo volessero armato, nessuno era d'accordo, lo stesso quando ho chiesto se dovesse controllare lo spazio aereo fra il Giordano e il mare o se dovessero avere un patto militare con l'Iran».
- Biden continua a suggerirlo. «Riconoscere uno Stato palestinese sarebbe, oggi, il maggiore premio per il terrorismo del 7 ottobre. Chi ama la pace non può volere che un palestinese fra anni possa guardarsi indietro e dire che la strage di massa degli ebrei ha catapultato avanti la loro causa. Hanan Ashrawi, la portavoce palestinese, dopo un attacco terrorista fu intervistata dalla Bbc. Il giornalista disse: Non avrete uno stato finché non combatterete il terrore e farete pace. La risposta fu: Noi siamo un popolo con diritto all'autodeterminazione, quindi avremo uno Stato. Se decidiamo di fare la pace, è un altro tema. Lo scopo dello Stato era il conflitto, non terminarlo. Noi invece non vogliamo che si separi lo Stato dalla pace. Per questo non accetteremo diktat e ogni pace sarà negoziata».
- Ma anche nel gabinetto di Guerra appaiono posizioni più disponibili alla visione americana. «La Knesset ha votato unita, non ci sarà una soluzione imposta che rappresenti un rischio per Israele. Quando si sentono tante critiche dei media su Netanyahu o sull'unità della coalizione, è un messaggio in codice per criticare Israele. Sulle politiche di guerra, militarmente e diplomaticamente, il governo rappresenta la grande maggioranza».
- La critica internazionale è puntata sugli aiuti umanitari e sul grande numero di morti e feriti palestinesi, con l'accento su quanto la condizione dei palestinesi a Rafah può diventare un disastro umanitario. E si dice che attaccare Rafah può bloccare la trattativa sugli ostaggi. «Sugli ostaggi, 112 sono stati liberati. Restano 134 di cui parte potrebbe non essere più in vita: sappiamo che la via più realistica per rivederli è con un accordo. Quanto a Rafah: se lasciamo in piedi i battaglioni abbiamo perso la guerra; ma attueremo strategie per muovere quanti possiamo a Nord e studieremo come fargli ricevere aiuti. È un impegno morale. A Gaza più di metà dei residenti è sotto i 18 anni: sarebbe folle negare aiuto. Resta la domanda di dove va a finire. E mi creda, l'ultima «pita» se la prende Hamas. Quanto ai cittadini di Gaza durante la guerra, il nostro impegno è stato ed è colossale, direi senza precedenti, in avvertimenti, telefonate, strade sicure. Hamas è responsabile della loro tragedia».
- Come vuole veder finire questa guerra? «Dobbiamo assicurarci la demilitarizzazione dell'area: il confine con l'Egitto deve essere sigillato così da impedire passaggi di armi e uomini; dobbiamo poter condurre operazioni militari, sperando che siano sempre meno nel tempo. Occorre anche un cuscinetto che provveda alle comunità intorno la possibilità di vivere in sicurezza».
- Ma come si abbandona la prevalenza del controllo militare? A chi si affida la Striscia? «Occorre ciò che a me sembra altrettanto importante, la deradicalizzazione. Altrimenti fra 20 anni ci odieranno nello stesso modo. Dopo una vittoria militare è possibile cambiare l'odio palestinese in convivenza? Altrimenti ci prendiamo in giro. Oggi l'85% dei palestinesi dell'Anp sostiene la strage. La questione è cambiare cultura. Cosa impara un bambino? Occorre un cambiamento basilare. La Germania e il Giappone furono deradicalizzati e ci vollero anni. Anche oggi società si stanno trasformando: l'Arabia Saudita e i Paesi del Golfo».
- E come comincerà questa trasformazione? «Con la sconfitta militare».
- Prevede l'apertura di un grande fronte anche con Hezbollah? «La nostra è una scelta di deterrenza attiva. Hezbollah non sembra volere una guerra. Al Sud vogliamo cambiare la situazione con la guerra, al Nord con la diplomazia. Tuttavia siamo pronti a combattere: è la prima volta che abbiamo visto l'asse dell'Iran che ci combatte da ogni parte. Anche gli Houthi si sono mobilitati per stringere l'assedio. La nostra vittoria sarà una vittoria anche per gli Stati Uniti». E certo anche per l'Europa.
(il Giornale, 7 marzo 2024)
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Il 7 marzo a Milano e Roma una manifestazione per denunciare le atrocità commesse da Hamas, in Israele, contro le donne
di Michael Soncin
Il 7 ottobre 2023 il gruppo terroristico di Hamas, durante il terribile pogrom, che da Gaza ha invaso Israele, ha commesso uno tra i più grandi stupri di massa dei nostri tempi. Tutte le donne che sono state vittime di queste indicibili atrocità non devono essere dimenticate. Per questo motivo, giovedì 7 marzo 2024 alle ore 13:00, in piazza San Babila (lato c.so Europa) a Milano, si terrà una manifestazione solidale, per denunciare la grande indifferenza e silenzio verso le donne ebree e israeliane. All’evento hanno aderito diversi enti tra cui: l’ADEI, Associazione Donne Ebree d’Italia; la Comunità Ebraica di Milano, l’A.M.P.I; Associazione Milanese Pro Israele; l’ADI, Associazione Amici d’Israele.
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• A Roma una maratona oratoria organizzata dall’associazione Setteottobre
Lo stesso messaggio verrà ribadito a Roma, sempre nella giornata del 7 marzo, proprio in prossimità del giorno della Festa della Donna. Il luogo scelto a cui prenderà il via la maratona è piazza SS. Apostoli, alle ore 18:00.
Ancora una volta, non si può tacere contro gli stupri, le uccisioni, i smembramenti e le torture compiute da Hamas. Un silenzio tuonante commesso da buona parte del mondo occidentale, che non è passato inosservato. A tacere sono state diverse organizzazioni internazionali che lavorano nel campo dei diritti umani, e pure, paradossalmente, alcune componenti del mondo femminista.
Grazie all’appello Non si può restare in silenzio a cui hanno aderito 17.000 persone, è stato possibile all’associazione Setteottobre di poter presentare un formale atto di richiesta all’Ufficio del Prosecutor della Corte Penale Internazionale, affinché Hamas venga indagato per crimini contro l’umanità e genocidio. L’appello che ha raccolto migliaia di firme è stato promosso da: Andrée Ruth Shammah, Alessandra Kustermann, Silvia Grilli e Anita Friedman.
Le giornate di Milano e Roma vogliono anche ricordare le donne, uomini, bambini, giovani e vecchi che ancora sono ostaggi nelle mani di Hamas. Ricordarli per chiedere ancora una volta il rilascio immediato, di fronte ad un mondo che sembra averli dimenticati, o che forse ha fatto finta.
Diverse donne del mondo delle istituzioni, della politica e della cultura saranno presenti, inclusa una parte del mondo femminista, per dare una risposta anche alle mancate e nette denunce, senza distinguo, che sono invece venute a mancare.
(Bet Magazine Mosaico, 7 marzo 2024)
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Il rapporto dell’Onu sugli stupri del 7 ottobre normalizzato e silenziato dai vertici delle Nazioni Unite
di Ugo Volli
Dopo quasi cinque mesi dai fatti e parecchio tempo dopo che erano state pubblicate due grandi inchieste molto documentate sul tema, quella del New York Times di fine dicembre e quella dell’ARCCI (Associazione dei centri di crisi sullo stupro in Israele) del 20 febbraio, finalmente anche l’Onu ha pubblicato un rapporto sulle violenze sessuali compiute dai terroristi di Hamas sulle donne israeliane durante il pogrom del 7 ottobre e in seguito sulle donne rapite. L’indagine, condotta con una metodologia particolarmente restrittiva, come se non si trattasse di analizzare un terribile episodio collettivo, ma di trovare le prove legali di singoli crimini, ha perciò lasciato impregiudicati una serie di episodi gravissimi, la cui conoscenza è basata non su prove materiali ma sulla testimonianza dei sopravvissuti; ma alla fine non ha potuto non riconoscere la fondatezza delle denunce.
• Le conclusioni
Il rapporto dell’Onu usa anche formule giuridiche particolarmente caute e del tutto prive di empatia per le vittime: “Sono state raccolte anche informazioni circostanziali credibili, che potrebbero essere indicative di alcune forme di violenza sessuale, tra cui la mutilazione genitale, la tortura sessualizzata o trattamenti crudeli, inumani e degradanti”. Si afferma inoltre che il gruppo di ricerca “ha trovato informazioni chiare e convincenti secondo cui alcuni ostaggi portati a Gaza sono stati sottoposti a varie forme di violenza sessuale legata al conflitto e ha fondati motivi per ritenere che tale violenza possa essere in corso”.
• Il rapporto dell’ARCCI
Per rispetto alle vittime e alla verità, vale la pena di accostare a queste le conclusioni del rapporto dell’ARCCI: “Diverse testimonianze, interviste e altre fonti indicano l’uso di pratiche sadiche da parte dei terroristi di Hamas, volte a intensificare l’umiliazione e la paura degli abusi sessuali. […] I corpi di molte vittime sono stati trovati mutilati e legati, con gli organi sessuali brutalmente attaccati [dove] in alcuni casi, sono state inserite delle armi”. Il rapporto afferma che in molti casi le famiglie sono state costrette a guardare i terroristi compiere atti di violenza sessuale sui loro familiari. In molti casi, le vittime sono state uccise in seguito allo stupro, ma alcune sono state uccise durante l’atto stesso. Il rapporto descrive in dettaglio con angosciante chiarezza come i defunti furono ulteriormente profanati, con i genitali sia maschili che femminili sfigurati in modo grottesco. Le donne venivano legate agli alberi, trascinate per i capelli e venivano amputati gli organi, compresi quelli sessuali. Il rapporto descrive dettagliatamente anche lo stupro di uomini.
• La reazione israeliana
In risposta al rapporto, l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Gilad Erdan ha criticato l’organismo internazionale per aver impiegato così tanto tempo a riconoscere ciò che è accaduto alla periferia di Gaza e soprattutto per non trarne le conseguenze: “Ora che [dopo 5 mesi] viene pubblicato il rapporto sulle atrocità sessuali e sugli abusi che i nostri ostaggi stanno subendo a Gaza, la vergogna del silenzio delle Nazioni Unite – che non tiene nemmeno una seduta sulla questione – grida al cielo”. Il ministro degli Esteri Israel Katz ha richiamato Erdan in Israele “per consultazioni”, un provvedimento che nella diplomazia internazionale equivale quasi alla rottura delle relazioni. Katz ha criticato il segretario dell’ONU Antonio Guterres per non aver convocato una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite “dichiarando Hamas un gruppo terroristico e imponendo sanzioni ai suoi sostenitori”. Ha detto che Israele non ha ancora sentito “una sola parola” dal capo delle Nazioni Unite sul rapporto.
• Hamas cerca di negare l’evidenza
Dopo la pubblicazione del rapporto, il gruppo terrorista ha rifiutato di riconoscerlo, nonostante la sua estrema cautela: “Questo rapporto è arrivato dopo i falliti tentativi israeliani di provare quelle false accuse, volte solo a demonizzare la resistenza palestinese”, ha dichiarato un portavoce di Hamas. Niente di nuovo in questa negazione: dal 7 ottobre in poi i militanti di estrema sinistra e le femministe organizzate, che in altri contesti hanno sempre sostenuto che le accuse di violenza sessuale non dovrebbero mai essere messe in dubbio, hanno cercato di screditare le testimonianze delle vittime di stupro, tentando di seppellirle sotto dubbi e controaccuse di razzismo e islamofobia.
• L’atteggiamento dell’Onu
In effetti, l’atteggiamento dell’Onu non è cambiato alla luce del suo stesso rapporto. Le richieste di Israele per la convocazione urgente del Consiglio di Sicurezza sul tema non sono state accolte. La “special rapporteur” delle Nazioni Uniti sulla violenza sessuale Reem Alsalem non ha firmato il rapporto, e in cambio ha sottoscritto in questi giorni con sei altri alti funzionari dell’Onu un appello per la condanna di Israele dopo il sanguinoso assalto di folla ai camion degli aiuti, in cui non si parla dei rapiti né della violenza alle donne, ma in cambio un si chiede “cessate il fuoco permanente” e “un embargo sulle armi e sanzioni contro Israele, come parte del dovere di tutti gli Stati di garantire il rispetto dei diritti umani e fermare le violazioni del diritto internazionale umanitario da parte di Israele”. È la posizione di Hamas. D’altro canto anche il rapporto si conclude con la richiesta di un “cessate il fuoco umanitario”.
(Shalom, 7 marzo 2024)
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Le prove offerte da più parti sono più che sufficienti a rivelare che l'assalto del 7 ottobre è la chiara manifestazione di un odio diabolico (nel senso letterale di operato del Diavolo) contro il popolo che Dio presenta al mondo come "mio figlio" (Esodo 4:22). E' lo stesso intento che l 'Avversario di Dio ha cercato di attuare nel massacro della Shoah. Con l'avvicinarsi del tempo della fine, Satana è costretto a rivelare le sue reali intenzioni, e Dio glielo consente anche per conoscere le vere intenzioni di chi osserva, valuta e giudica l'avvenimento. Chi esita a riconoscere la vera natura di questo fatto con motivazioni di "comprensione" per i "poveri palestinesi" si mette dalla parte del Diavolo. Chi scrive si assume la responsabilità davanti a Dio di quello che dice, come si spera che facciano tutti quelli che parlano diversamente. M.C.
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L’audace e realistico piano di Netanyahu per “il giorno dopo Hamas”
di Daniel Pipes
Lo scorso mese, il primo ministro Benjamin Netanyahu si è presentato al Gabinetto di guerra israeliano con un breve documento intitolato “il giorno dopo Hamas”. Il passaggio chiave in esso contenuto stabilisce che Gerusalemme intende lavorare principalmente con i gazawi per ricostruire il loro territorio. “Gli affari civili e l’ordine pubblico saranno gestiti da attori (funzionari) locali con esperienza amministrativa”, recita il testo, attori che non saranno identificati con Paesi o entità che sostengono il terrorismo e non riceveranno alcun pagamento da loro. Al fine di attuare questo piano di autogoverno, l’esercito israeliano ha avviato un progetto pilota informale di ciò che chiama “zone umanitarie”, nelle aree a nord di Gaza di cui Hamas ha perso il controllo. Questi organi di Governo locali sono costituiti da leader della comunità, i cui compiti includeranno la distribuzione degli aiuti umanitari e la revisione dei programmi scolastici. L’idea che gli israeliani lavorino con gli abitanti di Gaza è coraggiosa, audace e controversa. Si trova a dover far fronte a due critiche principali. In primo luogo, gli Stati Uniti e altri Paesi vogliono consegnare Gaza all’Autorità palestinese, che governa gran parte della Cisgiordania e mira alla distruzione di Israele. In secondo luogo, molti israeliani e palestinesi sostengono che Gerusalemme non troverà quegli “attori locali” con cui lavorare. Eppure, il piano di Netanyahu, e l’ottimismo in esso implicito, sono ineccepibili. La proposta prevede una Gaza dignitosa gestita da gazawi dignitosi. E questo non è inconcepibile. Il piano riconosce che gli abitanti di Gaza hanno vissuto 17 anni di vero inferno: sono stati sfruttati dai loro governanti come carne da cannone per scopi di pubbliche relazioni. A differenza di altri regimi dittatoriali, che sacrificano i soldati per ottenere vittorie sul campo di battaglia, Hamas sacrifica i civili per incassare sostegno politico. Più gli abitanti di Gaza sopportano la miseria, più Hamas può accusare con convinzione Israele di aggressione, e più ampio e più veemente diventa il sostegno di cui gode a livello globale. Tuttavia, una serie di prove indicano che gli abitanti di Gaza rifiutano di essere usati come pedine nella strategia del gruppo terroristico. Due sondaggi d’opinione condotti prima del massacro di Hamas del 7 ottobre mostrano che gli abitanti di Gaza vogliono vivere una vita normale. Il primo sondaggio, realizzato dal Washington Institute for Near East Policy a metà del 2023, ha rilevato che il 61 per cento desidera che vengano offerti più posti di lavoro israeliani a coloro che vivono a Gaza e in Cisgiordania. Il 62 per cento vuole che Hamas mantenga il cessate il fuoco con Israele, e il 67 per cento crede che “i palestinesi dovrebbero concentrarsi su questioni pratiche (…) e non sui grandi piani politici o sulle opzioni di resistenza”. Il 72 per cento afferma che “Hamas non è stato in grado di migliorare la vita dei palestinesi a Gaza” e l’82 per cento concorda sul fatto che “i palestinesi dovrebbero fare più pressione per sostituire i propri leader politici con altri più efficienti e meno corrotti”. L’87 per cento ritiene che “molte persone sono più preoccupate della propria vita personale che della politica”. Il secondo sondaggio, condotto da Arab Barometer alcuni giorni prima dell’inizio della guerra ha rilevato che “la stragrande maggioranza degli abitanti di Gaza è frustrata dall’inefficace governance del gruppo armato dovendo sopportare estreme difficoltà economiche”. Questi risultati sono stati confermati sul campo. Dal 7 ottobre, i video hanno mostrato folle di abitanti di Gaza che gridavano “abbasso Hamas,” maledicendo i leader del gruppo, e affermavano: “La gente vuole porre fine alla guerra. (…) Vogliamo vivere!”. Anche il furto di aiuti umanitari da parte di Hamas avrebbe provocato rabbia e tensione a livello locale. La stessa resistenza ha cominciato a farsi strada nei media popolari. Le interviste in diretta degli abitanti di Gaza sulle reti dei media arabi spesso diffondono inavvertitamente sentimenti critici nei confronti di Hamas e dei suoi sostenitori statali. In un’intervista del 5 novembre ad Al Jazeera, un uomo anziano e ferito diceva dei membri di Hamas: “Possono andare all’inferno e nascondersi lì”. Il giornalista lo ha subito interrotto. Questi e altri dati indicano che molti gazawi desiderano essere liberati da Hamas. Per quanto possano essere ostili allo Stato ebraico, vogliono disperatamente lasciarsi alle spalle l’attuale squallore, anche se ciò significa lavorare con Gerusalemme. Israele, quindi, può ragionevolmente aspettarsi di trovare molti cittadini di Gaza disposti a creare una nuova autorità di Governo capace di assumere una serie di compiti, dal mantenimento dell’ordine, ai servizi pubblici, a quelli municipali e all’amministrazione, fino alle comunicazioni, all’insegnamento e all’urbanistica. Una Gaza dignitosa richiederà un rigido Governo militare israeliano, che supervisioni un duro stato di polizia sulla falsariga di quelli che esistono in Egitto e Giordania. In questi Paesi, i cittadini possono condurre una vita normale purché si tengano lontani dai guai e si astengano dal criticare chi governa. In tali condizioni, Gaza potrebbe diventare dignitosa ed economicamente sostenibile. Come hanno dimostrato Singapore e Dubai, la democrazia non è necessaria affinché un simile progetto abbia successo. Se gli israeliani avranno l’acume e la tenacia necessari per far sì che ciò accada, avranno tratto qualcosa di positivo dalla tragedia.
(l'Opinione, 7 marzo 2024 - trad. di Angelita La Spada)
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Scuola, Israele e conflitto con Hamas: tra cattivi maestri e coraggio, come guidare i giovani a conoscere
Non si fermano, nelle città italiane ed europee, le manifestazioni e le proteste pro Palestina animate anche da studenti liceali e universitari, scoppiate a partire dallo scorso ottobre nelle piazze o negli istituti scolastici e nelle accademie. Cori e bandiere palestinesi hanno colorato cortei e facciate di edifici istituzionali come il liceo Einstein di Torino o il campus universitario Einaudi sempre nel capoluogo piemontese, l’università L’Orientale e il liceo Vico di Napoli, le università di Salerno e Padova, la Sapienza di Roma e il liceo Pilo Albertelli sempre nella capitale. Il 9 novembre, a Milano, un blitz di alcuni studenti ha interrotto un convegno in corso alla Statale per protesta contro il “genocidio del popolo palestinese”. Episodi simili si sono verificati in altri atenei. Lo scorso 17 novembre un gruppo di manifestanti e studenti ha calato lungo la Torre di Pisa una lunga bandiera palestinese, dopo essere entrato con forza nel noto monumento toscano, mentre nel corso della stessa giornata a Firenze un altro gruppo di manifestanti con bandiere palestinesi alla mano ha bloccato le porte per accedere alla Cupola del Brunelleschi, al punto che il personale dell’Opera del Duomo di Firenze ha dovuto per precauzione chiudere gli accessi alla cattedrale. Tutti episodi che lasciano trasparire una linea di pensiero e di azione che si diffonde fra non pochi giovani e studenti, a volte minando il normale e libero scambio di idee nelle scuole e negli istituti, a discapito di chi difende posizioni o la stessa esistenza di Israele o semplicemente a discapito dell’essere ebrei.
• Episodi e situazioni nelle scuole in Francia La memoria corre veloce a casi passati e recenti avvenuti in istituti scolastici in Francia, dove quasi la metà dei musulmani considera i fatti del 7 ottobre 2023 come un atto “di resistenza”. Lo svela un’inchiesta dell’Ifop, il più autorevole istituto sondaggistico francese, che in merito al conflitto fra Israele e Hamas mostra una grande separazione tra i francesi di religione islamica e il resto della popolazione. Dati preoccupanti a cui non sono seguiti precisazioni o reazioni da parte dei responsabili della comunità islamica francese, nemmeno di fronte a recenti casi di minacce ai professori avvenuti nei licei.
Lo scorso marzo, proprio l’Ifop aveva realizzato un’inchiesta secondo cui un professore su tre è minacciato nelle scuole francesi e la maggior parte delle minacce viene da studenti di confessione musulmana. A Parigi, lo scorso dicembre, in un istituto superiore della banlieue, un docente di matematica è stato minacciato di morte su Instagram da un suo allievo, mentre in un liceo un’insegnante è stata accusata di islamofobia per aver mostrato in classe l’immagine del quadro ‘Diana e Atteone’ di Giuseppe Cesari che raffigura delle ninfe senza vestiti. La professoressa è stata accusata di razzismo secondo dichiarazioni poi ritrattate da alcuni studenti di religione islamica, che nel frattempo erano tuttavia stati difesi dai genitori che avevano protestato contro la scuola. Una dinamica e una concatenazione di fatti e di false accuse che ricordano il tragico caso dell’assassinio del professore di storia e geografia Samuel Paty, accoltellato e poi decapitato da un giovane jihadista il 16 ottobre 2020 a Éragny, una cittadina della Val-d’Oise (Île-de-France), al culmine di una campagna d’odio scaturita da calunnie e poi diffusa sulle reti social.
• Il caso dello striscione pro Palestina e del professore accusato al liceo di Cuneo Avvenimenti accaduti al liceo classico Peano Pellico di Cuneo sono saliti alle cronache dopo che un professore si è opposto a uno striscione con la scritta “stop al genocidio” appeso da uno studente lo scorso 21 febbraio. L’Unione Studenti ha pubblicato una nota contro il gesto del professore di storia e filosofia Paolo Bogo, che ha fatto rimuovere lo striscione a dire del sindacato studentesco anche minacciando gli alunni e tacciandoli di antisemitismo. Un presidio di solidarietà agli studenti coinvolti, con le bandiere della Palestina, è stato promosso due giorni dopo in piazza Galimberti nella città piemontese, mentre lo striscione in questione è stato riappeso.
Nel frattempo, è stato lo stesso professore Bogo a rispondere alla protesta e dare la sua versione, in una lunga lettera aperta (in fondo a questo articolo il testo integrale) in cui dichiara: “Probabilmente la mia passionalità sulla questione mediorientale è stata travisata”, chiarendo che lo striscione era stato rimosso “con il consenso della presidenza perché una scuola o meglio i muri esterni di una scuola non sono i luoghi per prese di posizione sulla politica estera”.
“È una situazione orribile, come lo sono tutte le guerre, ma non è un genocidio – sottolinea l’insegnante nel suo scritto in merito alla situazione a Gaza -. Affermare che invece è in corso un genocidio, ovvero la sistematica decisione di eliminare un popolo perché è quel popolo lì, è un modo subdolo di far passare l’idea che gli ebrei siano i nuovi nazisti. Se in questa scuola ci sono degli ebrei penso che vedere uno striscione del genere li faccia sentire oggetto di odio. Io sogno un mondo dove la complessità è riconosciuta perché solo in questo modo i problemi possano essere risolti. Non con slogan semplificatori e irrispettosi nel dramma in atto, anche se pronunciati o scritti in buona fede”.
“In questo caso specifico, come abbiamo detto nelle numerose lezioni dedicate a questo argomento e anche nei giorni scorsi, la situazione è troppo complessa per essere semplificata – ha altresì precisato il professore -. Esiste un gruppo terroristico che, dopo aver lanciato e di fatto inventato l’uso sistematico del terrorismo suicida, dal 1994 boicotta gli accordi di pace e da 16 anni controlla Gaza creando un clima di terrore e lanciando missili e attacchi su Israele. Ultimo ovviamente il pogrom del 7 ottobre, la peggiore caccia all’ebreo dai tempi del nazismo”.
• La testimonianza di una professoressa di un liceo di Milano, ex insegnante della scuola ebraica Per lanciare uno sguardo alla situazione e al clima nelle scuole milanesi a partire dal conflitto fra Israele e Hamas abbiamo raccolto la testimonianza di L. V., insegnante di letteratura inglese in un liceo della città, membro della nostra comunità e già docente della scuola ebraica negli anni scorsi. “La mattina di lunedì 9 ottobre sono entrata a scuola frastornata come tutti noi dai fatti del 7 ottobre – esordisce la professoressa -. Davanti a me c’era uno studente che interloquiva con il docente di storia chiedendogli: ‘Prof, ha sentito che cosa è successo in Israele’? Una situazione che di per sé appariva lineare: uno studente che ha sentito una notizia di attualità che magari non capisce fino in fondo e che con dei buoni modi chiede spiegazioni all’insegnate di storia. Ma il collega, con me che passavo di fianco, gli ha risposto: ‘È successo che finalmente i palestinesi hanno alzato la testa’! E la conversazione è continuata su questo tono. In quel momento ho davvero compreso che il mondo della scuola, data anche l’età media dei docenti, alcuni dei quali figli del ’68, è ancora in mano a un’ideologia da guerra fredda. Molti insegnanti non sono ancora usciti dalla logica per cui Israele rappresenta l’America e quindi il nemico da condannare sempre e comunque. Purtroppo, questo è anche ciò che insegnano in classe. Come si può rispondere a uno studente che ‘hanno finalmente alzato la testa’, avendo massacrato 1.200 persone a sangue freddo e avendo fatto quello che sappiamo? Io sono rimasta senza parole, seppur in genere io rimanga difficilmente senza parole. Ma ero esterrefatta”.
“Sono accaduti altri episodi, da quando lo Stato di Israele ha iniziato a dire che l’esercito sarebbe entrato a Gaza – continua la docente -. In sala professori, per esempio, i colleghi si dicevano scandalizzati sostenendo che Israele aveva dichiarato guerra ai palestinesi! Quella volta, con più sangue freddo, ho risposto dicendo che Israele non aveva dichiarato guerra ai palestinesi e che c’era stato un pogrom con 1.200 morti… ma la loro controrisposta è stata: “Quello non è un atto di guerra”! Questo è il clima che rispira e questo è ciò che queste persone insegnano nelle classi”.
Il liceo dove insegna L.V è inoltre stato di recente occupato dagli studenti, in protesta su vari temi. “Hanno fatto un ‘panettone’ di cose diverse – spiega l’insegnante -: no al caro vita a Milano, no alla mancanza di infrastrutture, alla scuola che cade a pezzi e… stop al genocidio! Ma la cosa più allucinate è accaduta quando il dirigente scolastico ha convocato un collegio docenti per aggiornarci sull’occupazione in corso e per riportare le rivendicazioni degli studenti. Lui stesso ha sottolineato che si trattava di un ‘panettone’ di temi differenti, dal no al caro vita a stop al genocidio, ripetendolo però pari pari senza aggiungere altro e quindi in un certo senso sdoganando il termine ‘genocidio’! Ormai questa è la parola dell’anno: nemmeno un dirigete ha l’energia per dire ai suoi docenti o ai ragazzi che occupano la scuola che, a prescindere dalla valutazione politica che si voglia dare, la definizione di quei fatti non può essere ‘genocidio’! I ragazzi del liceo, che risentono di quella visione politica da anni Settanta, andrebbero così in piazza per la Palestina come farebbero contro il carovita, come se fosse un modo per convogliare rabbia e proteste adolescenziali, ma non conoscono per niente i fatti. Se si chiedesse loro quali sarebbero i territori che Israele starebbe occupando, loro risponderebbero: ‘tutto’. Ma come tutto? Allora Israele andrebbe cancellato dalle mappe? Non conoscono la storia, anche perché nessuno la insegna loro”.
A scuola sono poi successi altri episodi: sono state trovate nei bagni delle stelle di David con vicino il numero 1 e il numero 2 e delle scritte che recitano ‘free Gaza’. “L’atmosfera che si respira è molto pesante – rivela la docente -. Ci sono persone che per esempio all’improvviso smettono di parlarti. Da non credere. Per settimane, quando io entravo in sala professori cadeva il silenzio. Poi, visto che in genere col tempo tutto si alza o si abbassa, come una marea, dopo il mese di novembre le acque hanno iniziato a calmarsi un po’ e l’attenzione non era più così alta su questi fatti di cronaca. Ma per lungo tempo ho faticato a stare in sala professori, perché da parte di alcuni sentivo ostilità. Comunque, penso che dire di fronte a un collega ebreo che “finalmente i palestinesi hanno alzato la testa” sia davvero qualcosa di pesante. Come se venisse tolto il coperchio da un vaso di Pandora che nel corso degli anni non ha mai smesso di esserci. C’era stato anche un sistematico boicottaggio delle attività legate al Giorno della Memoria. Personalmente, non ho invece ricevuto alcuna ostilità da parte dei ragazzi – conclude L.V. -, da un lato perché mi illudo che mi vogliano bene, ma è anche vero che dall’altro potrebbero avere timore delle conseguenze scolastiche”.
• La lettera del professore di Cuneo ai suoi studenti liceali che hanno affisso uno striscione “stop al genocidio” sulla facciata della scuola: “Gentilissimi studenti, penso che ci sia stato un qui pro quo. Probabilmente la mia passionalità sulla questione mediorientale è stata travisata. Voi mi conoscete. Gli altri no. Il cartellone è stato rimosso con il consenso della presidenza perché una scuola o meglio i muri esterni di una scuola non sono i luoghi per prese di posizione sulla politica estera. Se proprio la scuola volesse farlo, lo decide il consiglio di istituto. E non un gruppo di persone. Se chiunque lo potesse fare, perché non scrivere frasi razziste, proclami politici o inni ad una squadra di calcio? Sarebbe un caos.
Ma in questo caso specifico, come abbiamo detto nelle numerose lezioni dedicate a questo argomento e anche nei giorni scorsi, la situazione è troppo complessa per essere semplificata. Esiste un gruppo terroristico che, dopo aver lanciato e di fatto inventato l’uso sistematico del terrorismo suicida, dal 1994 boicotta gli accordi di pace e da 16 anni controlla Gaza creando un clima di terrore e lanciando missili e attacchi su Israele. Ultimo ovviamente il pogrom del 7 ottobre, la peggiore caccia all’ebreo dai tempi del nazismo.
Sappiamo che l’attuale governo israeliano è imbarazzante. Che una parte dei settlers della Cisgiordania è violenta (non a caso sono oggetto di sanzioni Usa). Che l’uso della forza da parte israeliana è stato a volte esagerato. Sappiamo anche che la popolazione di Gaza è stretta tra Hamas che la controlla e non la lascia fuggire e Israele che finisce per colpirla (ma non volontariamente) per snidare Hamas e trovare i 130 ostaggi nei 700 chilometri di tunnel. Ma è anche vero che l’esercito israeliano manda messaggi dal cielo e scrive messaggi sui cellulari per spingere i Gazawi a spostarsi per non essere colpiti. È una situazione orribile, che personalmente mi crea una sofferenza enorme perché amo questi popoli sfortunati.
È una situazione orribile. come lo sono tutte le guerre, ma non è un genocidio. Affermare che invece è in corso un genocidio, ovvero la sistematica decisione di eliminare un popolo perché è quel popolo lì, è un modo subdolo di far passare l’idea che gli ebrei siano i nuovi nazisti. Se in questa scuola ci sono degli ebrei penso che vedere uno striscione del genere li faccia sentire oggetto di odio.
Io sogno un mondo dove la complessità è riconosciuta perché solo in questo modo i problemi possano essere risolti. Non con slogan semplificatori e irrispettosi nel dramma in atto, anche se pronunciati o scritti in buona fede”.
(Bet Magazine Mosaico, 6 marzo 2024)
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Ragazzo ebreo salvato da un soldato tedesco durante la seconda guerra mondiale, il ricordo a Palermo
Un fatto storico di grande umanità che viene celebrato con una targa in maiolica, installata all’interno del giardino dei Giusti
di Anna Cane
Emozionato e commosso Gabriele Beretvas, figlio di Luigi, ragazzo ebreo salvato da un sergente tedesco, durante la seconda guerra mondiale. Un fatto storico di grande umanità che viene ricordato con una targa in maiolica, installata stamattina all’interno del Giardino dei Giusti, in via Alloro a Palermo. Va ricordato Richard Abel, sergente tedesco che ha salvato la vita di cinque ebrei e lo studente palermitano, Luigi Beretvas, uno dei ragazzi che al sergente dall’animo buono deve la vita.
La cerimonia è stata organizzata dall’associazione Conca d’Oro insieme al Comune. La storia di Richard e Luigi è stata raccontata dal professore Alessandro Hoffmann. L’episodio si è svolto in Tunisia, a Dépienne, il 12 dicembre 1942. Cinque ragazzi da Tunisi, occupata dalla Wehrmacht, stavano cercando di raggiungere l’esercito alleato. I giovani sono stati catturati da una pattuglia tedesca e affidati al sergente Abel che avrebbe dovuto consegnarli a un reparto delle squadre di protezione. Abel, invece, liberò i cinque ragazzi salvando loro la vita.
Luigi Beretvas era cittadino italiano, di religione ebraica, residente in città in via Cluverio, figlio di Leopoldo Beretvas, di origine ungherese, docente della facoltà di medicina. Luigi, anche lui medico, muore a Parigi nel dicembre del 1991, lasciando cinque figli. La famiglia Beretvas, per tutta la vita, è rimasta legatissima a Richard Abel. Alla cerimonia oggi erano presenti i rappresentati della chiesa cattolica, dell’istituto siciliano di studi ebraici e della comunità religiosa islamica e gli studenti del liceo artistico Catalano, Convitto nazionale Giovanni Falcone, e degli istituti comprensivi De Amicis - Leonardo Da Vinci, Rita Borsellino e Padre Puglisi.
«Abel mise gli ebrei italiani in condizione di fuggire – racconta Pino Apprendi – da una morte sicura e dopo una ricerca del prof Hofmann, abbiamo pensato nella dodicesima giornata europea dei Giusti dell'Umanità 2024, di aggiungere questa maiolica in questo giardino alla presenza dei bambini perché i più piccoli devono comprendere che ciò che è accaduto purtroppo può tornare come in questo periodo storico».
Il professore Hofmann sottolinea che si tratta «dell’unico caso di un tedesco che ha salvato un ebreo palermitano». Emozionato e commosso Gabriele Beretvas, figlio di Luigi, davanti alla targa che riporta il nome di suo padre. «E’ un giorno speciale per me – dice – sono venuto di proposito da Parigi per ricordare Richard e mio padre. Il sergente tedesco ha sempre fatto parte della mia famiglia dal dopoguerra in poi».
La maestra Anna Costanza dell’istituto Rita Borsellino spiega l’importanza della partecipazione dei piccoli studenti a eventi commemorativi come questo. «Oggi non facciamo la solita lezione tra i banchi di scuola - dice la maestra – e quello che i bambini oggi ascolteranno, sono sicura, rimarrà nei loro cuori». A rappresentare il Comune c’è l’assessore alla Cultura e neo vicesindaco, Giampiero Cannella. «Ricordiamo un giusto che merita grande attenzione – dice Cannella – perché decide di non consegnare alle SS i giovani ebrei ma di farli fuggire. Un giusto che testimonia come alla fine l’umanità possa prelevare anche sulle ideologie e sulle appartenenze».
(Giornale di Sicilia, 6 marzo 2024)
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A Milano protesta contro il convegno alla Statale in cui la voce di Israele è censurata
Martedì mattina, 5 marzo, alle 8.30 in via Conservatorio fuori dalla Facoltà di Scienze politiche si è tenuta una protesta contro il convegno
“Una terra senza pace: la questione israelo-palestinese”.
La contestazione, organizzata dalle associazioni
ADI
(Amici di Israele),
AMPI
(Associazione Milanese Pro Israele) e dal
Museo della Brigata Ebraica
, era volta a denunciare il
“populismo propal”
offerto agli studenti lungo l’intera giornata dell’incontro che, per esempio, come Keynote Speech presentava esclusivamente personalità faziose e notoriamente anti-israeliane come
Francesca Albanese
e
Moni Ovadia.
Questi ultimi, non a caso, spesso ospiti di incontri della sinistra più estremista.
“Da una università ci saremmo aspettati che agli studenti fossero offerti i
diversi punti di vista del conflitto,
mettendo a confronto le ragioni di entrambe le parti, non
un festival della faziosità
– dichiara
Davide Romano,
presidente del Museo della Brigata Ebraica -. Lo stesso tipo di conferenze ci sono state in USA, con i risultati che abbiamo visto: aggressioni agli studenti ebrei, mancanza di denuncia dell’antisemitismo poiché “dipende dal contesto”, ecc. La manifestazione è stata autorizzata dalla Questura e si è tenuta in maniera pacifica e ordinata. Per motivi di sicurezza non abbiamo potuto annunciarla prima ai media, poiché
il rischio di aggressione da parte dei “pacifisti” sarebbe stato alto.
Questa è la situazione in Italia nel 2024.
La voce di Israele cancellata
, i sostenitori di Israele e della sua democrazia costantemente sotto la minaccia della violenza dei propal“.
(Bet Magazine Mosaico, 5 marzo 2024)
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Perché è Israele che combatte
di Niram Ferretti
Nell’Occidente che ha ormai ripudiato come un relitto del passato il mestiere delle armi, ogni guerra appare come un affronto stesso alle magnifiche sorti e progressive, ma, più di tutte le guerre che non hanno mai smesso di insanguinare il mondo, con attenzione alterna o oblio totale da parte dei media, sono le guerre che combatte Israele, le più esecrate. Ovvero sono le guerre degli ebrei, quelle che gli ebrei combattono dopo essere stati aggrediti, stuprati, uccisi, massacrati.
Nel suo seminale, Making David into Goliath, How the world turned against Israel, Joshua Muravick scrive: “Le sette settimane di guerra tra Israele e Hamas nell’estate del 2014 generarono il maggiore rigurgito di antisemitismo dalla caduta del nazismo…ironicamente, poco di esso si manifestò nel mondo arabo…Ma in Europa e qui è là in America Latina, in Africa e anche negli Stati Uniti e in Canada, episodi di attacchi e di violenza nei confronti degli ebrei si susseguirono uno dopo l’altro”.
Nove anni dopo, e con una guerra, sempre contro Hamas, entrata nel suo quinto mese, (la più lunga intrapresa da Israele dopo quella del ’48-’49), il rigurgito di antisemitismo è aumentato esponenzialmente insieme a una criminalizzazione dello Stato ebraico che ha raggiunto il culmine di condurlo davanti a un tribunale con l’accusa di genocidio. Libello del sangue aggiornato. Al posto delle azzime impanate con il sangue dei bambini cristiani, c’è Israele assetato di quello dei civili arabi.
La guerra di Israele a Gaza è stata trasformata dalla propaganda nella più mostruosa guerra mai combattuta negli ultimi decenni, e la propaganda ha avuto gioco facile nel contesto di un clima culturale in virtù del quale non importa se si è aggressori o aggrediti in un conflitto armato su larga scala, poiché esso è da condannare a priori in quanto tale: non possono esistere guerre giuste, le guerre sono tutte intrinsecamente da aborrire. Non è solo pacifismo, sarebbe troppo riduttivo, troppo semplice, ma la convinzione radicata che la Storia, che l’Occidente ritiene di incarnare, sia avviata verso un avvenire in cui le uccisioni di massa per ragioni religiose, politiche, ideologiche sono destinate a scomparire. Che le guerre fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti non abbiano mai smesso di essere combattute è irrilevante, resta ferma l’idea che prima o dopo, sotto l’esempio occidentale, cesseranno anche lì.
La guerra scatenata dalla Russia in Ucraina due anni fa, ha infranto il mito. Forse si è coltivata una illusione eccessiva dopo ormai quasi ottanta anni di relativa pace occidentale. Putin ha rimesso tutti in riga, ha costretto a prendere coscienza che il disarmo, lo spopolamento degli eserciti, non è la politica europea migliore, soprattutto se un domani prossimo si dovesse chiudere l’ombrello protettivo americano.
La guerra in Ucraina è passata mediaticamente in secondo piano al momento, l’attenzione si è concentrata quasi esclusivamente su quanto accade a Gaza, sul numero dei civili morti, sugli sfollati, sulla catastrofe umanitaria, tutte conseguenze inesorabili, inevitabili, di ogni guerra, nessuna esclusa, anche se questa sembra essere la prima combattuta. La prima in cui, queste conseguenze sono capitate.
Si sono dimenticati facilmente i più di trecentomila civili morti nella guerra in Siria, per la cui morte nessuno ha mai usato il termine genocidio o i quarantamila civili morti, secondo i Servizi curdi, a Mosul nel 2017, per i quali, anche in quel caso, nessuno usò il termine.
La guerra che Israele combatte a Gaza, dopo il più grave attentato perpetrato sul proprio territorio dalla sua nascita, è la madre di tutte le guerre, è l’Apocalisse, è l’orrore che nessuno ha mai visto prima e nessuno vedrà più in futuro. È rappresaglia, è vendetta, è la logica di Lamech, è la notte della civiltà, è l’iperbole assoluta. È l’Occidente che dice, cessate il fuoco, non importa se Hamas non verrà sconfitto, importa solo che si smetta di combattere, che si ponga fine a ciò che le guerre hanno sempre causato, vittime civili. Qui, soprattutto qui, deve smettere, perché? Perché è Israele che combatte.
(L'informale, 6 marzo 2024)
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Anche il pensiero di questo autore si muove nella sfera del "sogno occidentale", la cui pecca starebbe nel fatto che la civiltà occidentale (indiscutibilmente superiore - pensano - perché promuove democrazia e libertà) si sia cullata nella convinzione che si sarebbe estesa in modo naturale a tutto il mondo, e che i sacri valori dell'Occidente non avrebbero più avuto bisogno di essere difesi con le armi. Ed ecco quindi il funesto allineamento delle guerre di Ucraina e Gaza: non si difende abbastanza la civiltà contro il barbaro Putin e ci si ritrova a combattere contro il barbaro Sinwar. E nel secondo caso si contano i morti. Perché si tratta di Israele. Anche in questo si caso si dice, in altro modo, che Israele va difeso come baluardo di civiltà (occidentale). E si continua a sperare nell'«ombrello protettivo americano», e ci si lamenta perché l'America insiste a non volerlo aprire tutto anche su Israele. Perché "Israele siamo noi", dicono i pro-Israele che continuano a cullarsi nel sogno occidentale. Ma non è vero. M.C.
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Hamas: «Perso il conto degli ostaggi»
I terroristi: «Sfruttare il Ramadan per lo scontro». Sparito nel nulla il leader Sinwar
di Stefano Piazza
Più passano i giorni e più l' atroce bluff di Hamas sugli ostaggi si mostra in tutta la sua drammaticità. In un'intervista alla Bbc, Basim Naim, uno dei tanti funzionari, ha affermato che l'organizzazione non può fornire a Israele una lista degli ostaggi in vita perché non sa quanti siano e dove si trovino. Nell'intervista, rilanciata dai media israeliani, Naim dice che «tecnicamente è impossibile sapere chi è ancora vivo, chi è morto per i raid israeliani o per fame a causa del blocco israeliano». Naim ha continuato: «Gli ostaggi si trovano in zone diverse, nelle mani di gruppi diversi: abbiamo chiesto una tregua anche per raccogliere informazioni».
In realtà Israele non richiede l'elenco nominale degli ostaggi ancora in vita, ma solo il loro numero, insieme al numero dei detenuti palestinesi richiesti in cambio. Questo è stato precisato da fonti israeliane. Ma quanti sono gli ostaggi in vita? Secondo Yedioth Ahronoth, Israele stima che ci siano circa 40 ostaggi vivi che potrebbero essere liberati con un accordo, ma il numero preciso non è noto. Noi della Verità non siamo sorpresi perché che gli ostaggi non sono più 134, lo abbiamo scritto nelle scorse settimane dopo essere stati in Israele e aver partecipato a vari briefing di sicurezza. Così come non siamo sorpresi di quanto afferma il dirigente di Hamas («Impossibile sapere esattamente chi è ancora vivo, chi è morto per i raid israeliani o per farne»), perché è esattamente quello che diranno per giustificarne la morte. Vista la posizione di Hamas, lo Stato ebraico ha deciso di non inviare una delegazione al Cairo per partecipare ai colloqui con Hamas, mediati dagli Stati Uniti, il Qatar e l'Egitto, dato che è ormai chiaro che si tratta di un gigantesco inganno.
Mentre l'organizzazione terroristica ai tavoli della diplomazia finge di voler trovare un accordo per il cessate il fuoco, i suoi dirigenti chiamano alla rivolta e alla violenza durante il Ramadan, il mese sacro dei musulmani che inizierà il prossimo 10 marzo. Osama Hamdan, portavoce di Hamas in Libano, ha dichiarato durante una conferenza stampa a Beirut che i palestinesi «dovrebbero trasformare ogni momento del Ramadan in un'opportunità di scontro», Nulla di nuovo, perché Hamas ha costantemente promosso
una rivolta più ampia, sia in Cisgiordania, dove la violenza è in aumento a partire dall'inizio del conflitto, sia tra la minoranza palestinese in Israele. Hamdan non ha fornito dettagli sui negoziati per un cessate il fuoco, tuttavia ha avvertito Israele e Usa dicendo: «Ciò che non hanno ottenuto sul campo di battaglia, non lo otterranno tramite manovre politiche»,
Crescono anche i timori che la guerra si allarghi al Libano e un eventuale conflitto lungo il confine meridionale del Paese «sarebbe incontenibile», secondo quanto affermato dall'inviato speciale americano, Amos Hochstein, durante la sua visita a Beirut, mentre proseguono gli sforzi diplomatici per fermare gli scontri tra Hezbollah e Israele. «Un semplice cessate il fuoco temporaneo non è sufficiente. Una guerra circoscritta non può essere contenuta», ha affermato Hochstein, che ancora non sapeva che Israele in un raid ha ucciso nel Sud del Libano il nipote del leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah. Sempre a proposito di Hamas, secondo il Wall Street Journal , il leader militare del gruppo, Yaya Sinwar, da circa una settimana sarebbe «offline» e non avrebbe più parlato con i vertici dell' organizzazione.
Infine, mentre su Israele cadono i missili degli Hezbollah (un morto e otto feriti) è arrivata la smentita delle dimissioni del portavoce Hagari, e a Gaza sono entrati 277 camion di aiuti umanitari protetti dagli israeliani. Si tratta del numero più alto raggiunto in un singolo giorno dall'inizio della guerra.
Non si placa intanto il braccio di ferro tra Israele e Onu. In serata Gerusalemme ha richiamato il suo ambasciatore per il «silenzio» sulle violenze sessuali di Hamas e ha accusato: «Oltre 450 terroristi impiegati a Gaza dall'Unrwa».
(La Verità, 5 marzo 2024)
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Portavoce dell’IDF rivela le registrazioni shock dei dipendenti dell’UNRWA
di Luca Spizzichino
Il portavoce dell’IDF Daniel Hagari durante la sua consueta conferenza stampa ha reso pubbliche le intercettazioni di alcuni insegnanti dell’UNRWA che hanno preso parte al massacro di Hamas del 7 ottobre.
“La strage commessa da Hamas il 7 ottobre è il massacro più documentato della storia. I terroristi di Hamas hanno filmato la loro stessa crudeltà. Col passare del tempo, vengono rivelate sempre più testimonianze, ogni giorno più informazioni”, ha detto Hagari, che si è presentato davanti alle telecamere, smentendo di fatto le voci secondo le quali si fosse dimesso. Ieri in mattinata, infatti, si era diffusa la notizia delle dimissioni di Hagari e altri ufficiali di alto rango dell’IDF per protestare contro decisioni operative nella guerra di Gaza.
“Abbiamo il dovere di svelare la verità su coloro che hanno preso parte al massacro del 7 ottobre” ha affermato il portavoce, rivelando i nomi di alcuni dipendenti dell’UNRWA membri di organizzazioni terroristiche a Gaza. Il primo nome rivelato è stato quello di Yusef Zidan Salimam Al-Khuairl, un impiegato dell’agenzia ONU che lavorava come insegnante in una scuola elementare delle Nazioni Unite a Gaza. Nell’intercettazione si sente il terrorista parlare al telefono circa 7 ore dopo che Hamas ha iniziato a invadere Israele. Durante la chiamata, Al-Khuairl si vanta di aver messo le mani su una “SABAYA”, termine arabo che significa “prigioniera” che è “proprietà” del rapitore. Il termine, ha ricordato il portavoce, “veniva usato dall’Isis per descrivere le donne yazidi catturate e alle quali sono state fatte cose orribili”.
Nel corso della conferenza stampa, Hagari ha reso pubblici i
nomi di altri terroristi impiegati dall’UNRWA: Bakr Mahmoud Abdallah Darwish, terrorista di Hamas e consulente scolastico in una scuola dell’UNRWA, Ghassan Nabil Mohammad Sh’hadda El Jabari, terrorista di Hamas che lavora nel Ministero della Salute gestito da Hamas, e Mamdouh Hussein Ahmad al-Qak, un terrorista palestinese della Jihad islamica e insegnante in una scuola elementare dell’UNRWA.
“Sono oltre 450 i dipendenti dell’UNRWA che fanno parte di gruppi terroristici a Gaza. – ha sottolineato – Questa non è una semplice coincidenza, è un fatto sistematico”.
“L’uso della violenza sessuale come arma è un problema globale” ha aggiunto Hagari, che ha richiesto una “risposta globale all’utilizzo dello stupro e della violenza sessuale come arma da parte di Hamas”.
(Shalom, 5 marzo 2024)
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Meglio tardi che mai: report delle Nazioni Unite conferma gli stupri di Hamas
di Anna Balestrieri
Dopo cinque mesi dal sanguinario attacco di Hamas del 7 ottobre, la commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha emesso un rapporto dettagliato.
• Il contenuto del rapporto Il rapporto delle Nazioni Unite afferma che questi sono avvenuti in almeno tre luoghi: il sito del festival musicale Nova e i suoi dintorni, Road 232 e Kibbutz Re’im, riporta la BBC, che aggiunge di aver visto e ascoltato prove di stupri, violenze sessuali e mutilazioni di donne in prima persona.
“Un team di esperti delle Nazioni Unite ha affermato che ci sono “fondati motivi per ritenere” che vi siano state violenze sessuali, compresi lo stupro e lo stupro di gruppo, durante l’attacco guidato da Hamas contro Israele il 7 ottobre. Guidata dall’inviata speciale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale Pramila Patten, la squadra si è recata in Israele tra il 29 gennaio e il 14 febbraio e lunedì ha pubblicato un rapporto con i risultati.”
“Sono state raccolte informazioni chiare e convincenti sugli stupri e sulle torture sessuali commessi contro gli ostaggi sequestrati durante gli attacchi terroristici del 7 ottobre”, si legge nel rapporto di 24 pagine delle Nazioni Unite.
• La preoccupazione per gli ostaggi Pramila Patten ha aggiunto in un comunicato stampa diffuso insieme al rapporto che ci sono ragionevoli motivi per ritenere che tale violenza, che include altri “trattamenti crudeli, inumani e degradanti”, possa continuare contro coloro – donne, bambini e uomini – che sono ancora detenuti da Hamas a Gaza.
L’inviata ha sottolineato, secondo il Guardian, che “la mancanza di fiducia da parte dei sopravvissuti agli attacchi del 7 ottobre e delle famiglie degli ostaggi nelle istituzioni nazionali e nelle organizzazioni internazionali, come le Nazioni Unite, così come lo sguardo indagatore dei media nazionali e internazionali su coloro che hanno reso pubblici i propri racconti, hanno ostacolato il contatto con i sopravvissuti degli attacchi, compresi i potenziali sopravvissuti/vittime di violenza sessuale”.
Il team delle Nazioni Unite è del parere che la reale portata della violenza sessuale commessa durante gli attacchi del 7 ottobre e le loro conseguenze potrebbero “impiegare mesi o anni per emergere e potrebbero non essere mai del tutto note”.
• Il lavoro del team delle Nazioni Unite La missione composta dalla signora Patten e da nove esperti ha condotto 33 incontri con rappresentanti israeliani dal 29 gennaio al 14 febbraio, esaminando più di 5.000 immagini fotografiche e 50 ore di riprese video. Ha condotto 34 interviste riservate, comprese quelle con sopravvissuti e testimoni degli attacchi del 7 ottobre, con ostaggi rilasciati, primi soccorritori ed altri.
• La reazione israeliana In risposta al rapporto, il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha richiamato l’ambasciatore del paese presso l’ONU, Gilad Erdan, per consultazioni immediate. Il governo israeliano ha espresso frustrazione per la gestione delle Nazioni Unite, poiché Hamas non ha subito alcuna ripercussione da parte della comunità internazionale e a tutt’oggi non è né dichiarata un’organizzazione terroristica né sono state imposte sanzioni ai suoi sostenitori.
• La reazione palestinese Il team di esperti è stato chiamato anche a verificare accuse di violenza sessuale da parte di cittadini israeliani nei confronti di palestinesi in Cisgiordania. Le accuse di abusi sessuali condotte da parte di israeliani nei territori dell’Autorità Palestinese sono riconducibili all’esposizione di parti intime durante le perquisizioni di sospetti o alle minacce verbali di stupro a familiari nel corso di interrogatori. L’inchiesta non ha trovato prove di stupro a danno di cittadini palestinesi.
(Bet Magazine Mosaico, 5 marzo 2024)
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Dopo cinque mesi l’ONU si ricorda delle donne violentate
Il rapporto dell’ONU sulla violenza sessuale mostra le prove di aggressioni da parte dei terroristi durante il massacro del 7 ottobre, rese note 5 mesi dopo; Eden Wesley, che ha fornito una testimonianza cruciale, si chiede: “E se la mia testimonianza non fosse esistita?”
Il rapporto dell’inviato del Segretario Generale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti, pubblicato lunedì, include la testimonianza di Eden Wesley, che ha fornito al New York Times una prova cruciale per la sua indagine sui crimini sessuali di Hamas: la fotografia intitolata “la donna con il vestito nero”.
In seguito alla presentazione del rapporto, che presenta prove perlopiù circostanziali del fatto che i terroristi di Hamas hanno fatto ricorso alla violenza sessuale e allo stupro durante l’attacco del 7 ottobre, la Wesley ha espresso il suo sdegno nei confronti delle Nazioni Unite per aver precedentemente ignorato e negato queste azioni.
“Ho visto con i miei occhi ciò che i terroristi hanno fatto alle donne. È vergognoso e scioccante. Oltre agli omicidi e ad altri orrori, ho visto corpi smembrati. Le donne sono state violentate e ora, dopo cinque mesi, ve ne ricordate? È esasperante che il rapporto venga pubblicato solo ora”, ha dichiarato.
“Da quando ho visto la donna con il vestito nero, non sono più riuscita a dormire. E se la mia testimonianza non fosse esistita? Non ci sono altre testimonianze come la mia. Se questa è l’unica prova visiva, allora cosa? Stanno mentendo tutti? La cosa che le donne temono di più è lo stupro. Alcune preferirebbero morire piuttosto che essere violentate. Sentivo di parlare a nome di quella ragazza”, ha aggiunto. Al di là del rapporto, Wesley spera che i terroristi di Hamas siano chiamati a rispondere delle loro azioni. “Spero che i terroristi non vengano lasciati liberi. Che non vengano messi a tacere e che si faccia qualcosa per i loro crimini”, ha detto.
“Non credo che qualcuno agirà contro Hamas, ma mi aspetto che vengano giudicati per le loro azioni. Che sia fatta giustizia. Spero davvero che qualcuno alle Nazioni Unite si svegli e si renda conto dell’inferno che hanno passato le donne. L’ho visto con i miei occhi”. Ha descritto come i terroristi abbiano “violato i loro corpi prima di ucciderle”. Sono sicura che ci sono molte altre donne che hanno subito cose orribili lì e non sono pronte a parlarne. Per me è importante dire loro che se ti tieni tutto dentro, la cicatrice non svanirà. Peggiorerà solo con il tempo”.
Dopo l’attacco a sorpresa del 7 ottobre, Wesley è andata a cercare la sua migliore amica al Nova Music Festival. È tornata senza di lei dopo che la sua amica è stata rapita a Gaza, ma le sue fotografie sono servite come prova visiva delle atrocità. Ha raccontato gli orrori di quella missione di ricerca, compresa l’immagine della “donna con il vestito nero”, che è diventata un simbolo degli stupri subiti dalle donne per mano dei terroristi di Hamas.
“Ho deciso di andare a cercarla”, ha ricordato Wessely. “Tutti mi dicevano di non andare perché c’erano terroristi ancora in libertà nella zona. Ma io andai, con altri tre amici, nel luogo che ci aveva indicato sulla Route 232.
“C’erano scene orribili: centinaia di cadaveri, corpi di persone che stavano per metà dentro e per metà fuori dalle auto, parti di corpi sparsi lungo la strada. Nessuno era ancora venuto a prenderli. Abbiamo cercato il mio amico, ma con mio grande dispiacere c’erano solo cadaveri lungo l’autostrada. Pensavamo di poter trovare una pista per capire cosa le fosse successo, così abbiamo continuato a cercare.
“All’improvviso, ho visto i corpi di un uomo e di una donna. Ho chiesto ai miei amici di fermarsi. Sembrava che fosse stata violentata, uccisa e data alle fiamme. Le hanno sparato e hanno bruciato anche il suo corpo. Aveva una mano che le copriva il viso, una ferita da arma da fuoco sulla guancia e non aveva le mutande. Le hanno sollevato il vestito, l’hanno violentata e poi le hanno dato fuoco. Non è uno spettacolo che gli occhi umani possono sopportare. Le persone con cui mi trovavo erano molto angosciate e volevano tornare a casa”.
• Il rapporto conferma le prove di aggressioni sessuali
Il rapporto dell’ONU sulle violenze sessuali di Hamas del 7 ottobre presenta principalmente prove circostanziali che dimostrano che i terroristi di Hamas hanno commesso crimini sessuali durante l’attacco ad Israele, tra cui casi di stupro, stupro di gruppo, aggressione sessuale, mutilazioni genitali, nudità e legatura dei corpi.
Pramila Patten, rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale nei conflitti, che ha visitato Israele con il suo team il mese scorso per raccogliere prove sulle atrocità, pubblicherà il rapporto completo lunedì. Il rapporto pubblicato dalla Patten e dal suo team conferma le prove di violenza sessuale avvenute durante l’attacco del gruppo terroristico del 7 ottobre. Inoltre, il rapporto conferma che le donne ostaggio di Hamas a Gaza hanno subito violenze sessuali e si teme che questi crimini siano ancora in corso.
Tuttavia, il rapporto rileva che, a causa dei vincoli di tempo e della capacità professionale del team, non è attualmente in grado di attribuire tutti gli incidenti dell’attacco ad Hamas, data la possibilità che alcuni siano stati compiuti da terroristi della Jihad islamica o da civili gazani infiltratisi in Israele dopo l’attacco iniziale. I risultati del rapporto indicano che durante l’attacco stesso sono state commesse violenze sessuali, comprese prove circostanziali di stupri, aggressioni sessuali, spari contro donne nude e legate al Nova Music Festival e lo stupro di due donne sulla Route 232, oltre a mutilazioni genitali su corpi nella zona.
Il rapporto afferma che “sulla base della totalità delle informazioni raccolte da fonti multiple e indipendenti nelle diverse località, ci sono ragionevoli motivi per credere che durante gli attacchi del 7 ottobre 2023 si siano verificate violenze sessuali legate al conflitto in diverse località della periferia di Gaza, anche sotto forma di stupri e stupri di gruppo. Sono state raccolte anche informazioni circostanziali credibili, che potrebbero essere indicative di alcune forme di violenza sessuale, tra cui mutilazioni genitali, torture sessuali o trattamenti crudeli, inumani e degradanti.
“Per quanto riguarda gli ostaggi, il team della missione ha trovato informazioni chiare e convincenti che alcuni ostaggi portati a Gaza sono stati sottoposti a varie forme di violenza sessuale legate al conflitto e ha ragionevoli motivi per credere che tali violenze possano essere in corso”.
(Israele 360, 5 marzo 2024)
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Ecco perché Hamas usa l’umanitarismo come un’arma
Parla
Matti Friedman. Il saggista e giornalista israelo-canadese: "Hanno compreso la psiche occidentale. Non gli interessa Gaza”.
di Giulio Meotti
ROMA - “Gli osservatori occidentali non capiscono che Hamas non ha alcun interesse a proteggere il proprio popolo, come farebbe l’Italia. Con Hamas, un gruppo religioso radicale islamico, abbiamo persone pronte a sacrificare più persone possibili, per cui un disastro umanitario è cosa buona e giusta per loro”.
Così al Foglio Matti Friedman, intellettuale e giornalista canadese che vive a Gerusalemme, scrive su testate dal New York Times all’Atlantic, autore di libri di successo (dal “Codice di Aleppo” all’ultimo per Giuntina, “Spie di nessun paese. Le vite segrete alle origini di Israele”) e che nel 2014 rivelò la sua esperienza come giornalista dell’Associated Press che fece scalpore perché raccontava la trasformazione e la manipolazione della narrazione su Israele.
Giovedì scorso, con i morti nella calca per il cibo, Hamas ha cercato di innescare una bomba nell’opinione pubblica nella speranza di fermare le operazioni anti terrorismo di Israele nella Striscia di Gaza. “Ogni disastro umanitario pone pressioni solo su Israele per fermare la guerra e consentire a Hamas di uscire vittorioso” ci dice Friedman. “Per questo hanno costruito centinaia di tunnel sotto Gaza. Il loro bollettino delle vittime a Gaza non farà altro che far arrabbiare ancora di più la comunità internazionale e questa rabbia non sarà rivolta a Hamas, che ha iniziato la guerra il 7 ottobre, ma contro Israele. La narrazione umanitaria è un’arma di Hamas”.
Secondo Friedman, Hamas legge la mentalità occidentale e tenta di portarla a sé. “Sono molto intelligenti nel capire come funziona la psiche occidentale. Quando lavoravo all’Associated Press, i miei colleghi pensavano che quelli di Hamas fossero dei primitivi. Ma sono molto abili nel manipolare giornalisti che non parlano arabo o ebraico. Hamas sa cosa sta facendo, perfettamente. A ogni ciclo di violenza, Hamas ha visto che la comunità internazionale ha diretto la sua rabbia non contro Hamas, che inizia le guerre, ma contro Israele che si difende. Hamas vede che ogni guerra logora un po’ di più la posizione israeliana nel mondo e che il mondo costringerà Israele a fermarsi e che Hamas sarà ancora là. Così è stato nel 2009, nel 2014, nel 2021 e temo anche stavolta. Hamas sa come funziona la stampa internazionale: dopo due settimane dal 7 ottobre, la storia era ancora una volta la violazione di Israele del diritto internazionale. Lo vediamo con la conta dei morti: la stampa internazionale riferisce ‘secondo fonti di Gaza’, come se a Gaza non ci fosse Hamas. Hamas sa come lavorano Amnesty, Human Rights Watch e le agenzie dell’Onu, che possono essere arruolate nella loro guerra”. Resta il mistero di come molte correnti della cultura occidentale si siano schierate dopo il 7 ottobre dietro gli stendardi di “Palestina libera dal fiume al mare”. “Non è uno strano fenomeno che islamisti fanatici che non hanno niente in comune con liberal occidentali, in termini di donne, gay, laicità, si siano alleati?”, chiede Friedman. Lo stesso vale per l’ondata di odio antiebraico in tutte le nostre capitali. “Volevano scatenare questa ondata di antisemitismo nel mondo. Sapevano che l’antisemitismo si sarebbe scatenato dopo il 7 ottobre. Hamas aveva una comprensione molto chiara dell’odio antiebraico che c’è non solo nel mondo islamico, ma anche in Europa e in occidente”. La loro è una lunga guerra, conclude Friedman. “Non cercano vittorie concrete, alla occidentale. Pensano che la guerra contro Israele alla fine annichilirà la presenza degli ‘infedeli’ in questa parte di mondo. E gli osservatori laici in occidente non hanno mai davvero capito questa visione. La naïveté occidentale è una delle loro armi”.
Il Foglio, 5 marzo 2024)
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Cresce l’odio verso Israele negli USA
Cresce l'odio verso Israele negli Stati Uniti soprattutto nella sinistra estrema, tanto che alcuni facinorosi hanno attaccato persino Alexandria Ocasio-Cortez, cioè la nemica numero uno di Israele nel Partito Democratico, accusandola di fare poco.
di Sarah G. Frankl
Manifestanti di estrema sinistra e filo-palestinesi hanno avvicinato la deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez mentre usciva da un cinema di Brooklyn, chiedendole di bollare come “genocidio” la guerra di Israele contro Hamas a Gaza.
Il filmato mostra Ocasio-Cortez che dice con rabbia alla manciata di disturbatori che in effetti l’ha fatto, anche se non è chiaro quando. In un’intervista di fine gennaio, si è spinta fino a dire che un numero crescente di americani ritiene che il termine descriva accuratamente la situazione a Gaza e che non dovrebbe essere ignorato.
L’incidente di lunedì è sembrato evidenziare la natura radicale di molti manifestanti anti-Israele negli Stati Uniti, che si stanno rivoltando contro alcuni dei membri più progressisti del Congresso, compresi quelli che, come Ocasio-Cortez, hanno criticato molto apertamente Israele e sostenuto la causa palestinese.
“Ti rifiuti di chiamarlo genocidio”, si sente uno dei manifestanti gridare a Ocasio-Cortez mentre lascia il teatro. “Non va bene che ci sia un genocidio e che tu non ti opponga attivamente”.
“Stai mentendo!” Ocasio-Cortez risponde con un urlo, aggiungendo poi di non volersi confrontare con chi la sta riprendendo perché è convinta che pubblicheranno solo in parte la sua risposta e toglieranno dal contesto le sue osservazioni.
“Ho già detto che lo era. E voi farete finta che non sia così. Ancora e ancora. È una cosa fottuta, amico. E non state aiutando queste persone”, ha detto Ocasio-Cortez mentre si allontanava.
(Rights Reporter, 5 marzo 2024)
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La sveglia ha suonato
La sveglia ha suonato il 7 ottobre. Tutti i settori della popolazione si sono svegliati. La sinistra si è spostata più a destra, la destra è diventata ancora più estrema e i fan di Bibi si sono allontanati da Bibi. Gli ebrei ortodossi, che prima si rifiutavano di prestare servizio nell'esercito per motivi religiosi, ora stanno prendendo in considerazione il servizio militare. È proprio durante la guerra che i soldati e i riservisti di tutte le classi e regioni del Paese hanno imparato a conoscersi di nuovo e hanno capito che siamo tutti un unico popolo. Le persone si stanno svegliando dalle loro idee e dai loro sogni. Non è facile. Ma succede quando un popolo è in difficoltà, come ora. Israele è ancora in uno stato di shock, molti direbbero che la gente è in uno stato di post-trauma. Solo tra gli arabi in Israele non si vede alcun risveglio.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Molti di voi probabilmente conoscono il famoso paroliere, compositore e musicista israeliano
Idan Raichel
. È noto per il suo "Progetto", che combina musica elettronica con testi tradizionali ebraici e musica orientale e africana. Qualche giorno fa ha dichiarato davanti a una telecamera: "Come è possibile non spostarsi a destra?". Quello che è successo nel Paese sta facendo svegliare la gente, compreso Idan Raichel, che in passato era molto popolare all'estero per la sua world music e per la sua posizione di sinistra: "Sulla questione della guerra, non c'è altra scelta che spostarsi sempre più a destra. L'intera guerra è un grande crimine di guerra dall'inizio alla fine. Anche se sei di sinistra, come puoi comportarti in una guerra come questa dopo tutto quello che è successo?" Idan è sposato con Damaris Deubel, e vive con le sue figlie a Tel Aviv. Idan ha deciso di concludere ogni concerto con l'inno israeliano Hatikva. Accetta il fatto di non essere più invitato sui maggiori palcoscenici del mondo come un tempo, a causa del suo spostamento a destra. In un altro post su Instagram, Raichel ha scritto che ora condanna la maggior parte dei palestinesi della Striscia di Gaza come terroristi perché non si sono opposti all'organizzazione terroristica Hamas. "Avrebbero potuto essere coraggiosi - ed entrare in tutti i tunnel stanotte e opporsi ad Hamas", ha scritto Raichel, aggiungendo: "Avrebbero potuto combatterli, anche a costo di migliaia di persone - e riportare tutti gli ostaggi, cacciare l'organizzazione terroristica di Hamas e iniziare a ricostruire le loro vite. E’ invece niente!” Tutto è cambiato anche per la nota cantante e attrice israeliana
Miri Mesika
. Dopo il barbaro attacco del 7 ottobre, ha perso ogni memoria delle fantasie di sinistra. «Sono liberale, favorevole alla democrazia e alla parità di diritti. Ma ora non solo sono diventata più di destra, non vedo più nessuno, solo noi. Non mi riconosco più. Prima volevo sempre vedere l'altra persona e capire cosa la ferisce, cosa la fa soffrire", ha detto Mesika in un'intervista. Ha ricordato le parole della sua defunta nonna, che era una combattente del Lechi (Combattenti per la Libertà di Israele, un'organizzazione sionista paramilitare clandestina durante il Mandato britannico). “Mirina, tu non capisci la profondità della storia tra i popoli. Non conosci la loro mentalità, non hai mai vissuto con gli arabi". Mi sono rifiutata di crederle. Sono avvilita dal fatto che l'odio sia tanto profondo che un bambino di due anni odia gli ebrei». Mesika e Raichel sono solo un piccolo esempio di personalità di sinistra che non vogliono più saperne delle loro fantasie di sinistra sui palestinesi. D'altra parte, si sono svegliate anche le persone che non vedono più Bibi come Re Davide o come l'auspicato salvatore.
Alon Davidi
Alon Davidi
è stato sindaco della città meridionale di Sderot, a soli due chilometri dalla Striscia di Gaza, per undici anni. In questi anni, nessun'altra città come Sderot ha sofferto per il lancio di razzi come la sua. Sderot vive nel terrore da 23 anni e il candidato di Alon Davidi - il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu - ne è responsabile. "Non appena la guerra sarà finita, Netanyahu dovrà alzarsi e andarsene. Tutti sono stati arroganti e hanno diffuso bugie sul fatto che Hamas fosse stato sconfitto. Per anni ho implorato il governo e l'apparato di sicurezza di lanciare un'offensiva di terra nella Striscia di Gaza e distruggere Hamas. Ma non è successo nulla", ha dichiarato Alon Davidi in un'intervista a Walla.
Alon Davidi è un elettore del Likud di lunga data e amico di Bibi. La stragrande maggioranza degli abitanti della città di Sderot sono elettori del Likud. Ma ora per Alon, come per molti altri a Sderot, la situazione è cambiata. "Non so se Bibi sia pronto ad assumersi la responsabilità di ciò che ha fatto nei 23 anni in cui abbiamo sofferto per il terrorismo. Dobbiamo dire onestamente che è stato al timone per la maggior parte del tempo", ha accusato Davidi. "Bibi è l'uomo che ha reso Hamas il potente mostro che è diventato". Davidi è solo un esempio dei tanti che pubblicamente non si fidano più di Benjamin Netanyahu. Tra l'altro, questo si sente dire da molti elettori del Likud nel Paese. La maggior parte di loro parla di un nuovo inizio nella politica israeliana. Tutti devono essere sostituiti. Persino il ministro della Sanità ortodosso Moshe Arbel, del partito sefardita Shas, ha recentemente invitato la popolazione ortodossa a prestare servizio nell'esercito. Nelle due settimane successive all'attacco di Hamas al sud di Israele, più di 2.000 giovani ebrei ortodossi appartenenti a questa comunità religiosa si sono offerti volontari per il servizio. In passato, solo pochi ebrei ultraortodossi hanno prestato servizio nell'esercito israeliano, il che ha provocato risentimento e contribuito alle recenti proteste contro il governo. Gli ebrei ultraortodossi rappresentano circa il 15% della popolazione israeliana e sono la comunità in più rapida crescita del Paese. Tradizionalmente rifiutano di prestare servizio nell'esercito, ma credono di fare il loro dovere impegnando i giovani tra i 13 e i 22 anni nello studio a tempo pieno della Torah, che getta una rete protettiva su Israele e sulla società ebraica. Ma negli ultimi mesi sempre più studenti ortodossi della Torah vogliono prendere le armi e combattere, e non solo loro. Anche uno dei nostri dipendenti, un ebreo ortodosso padre di quattro figli, sta pensando di fare un breve servizio militare. Questo è stato un vivace dibattito nei media negli ultimi mesi, perché gli studenti ortodossi della yeshiva hanno visto il bisogno tra la gente e hanno voluto unirsi alla lotta. Ma spesso non è così facile perché i loro rabbini sono contrari e vogliono fermarli. Non tutti, ovviamente, ma la maggioranza. Ma nelle menti dei giovani ebrei ortodossi si è sviluppato un nuovo modo di pensare.
Il risveglio del 7 ottobre ha scosso la società israeliana. Quello che è successo finora nel Paese non può rimanere così. La gente ha perso la fiducia in se stessa e tutti - o la maggior parte - si sono svegliati. Israele deve svegliarsi, ripensare e rivalutare se la pace con i suoi vicini palestinesi sia davvero possibile. L’incarico nella visione deve essere ripreso in mano. In politica, ma soprattutto con Dio. So che per molti è difficile da capire, ma Dio è coinvolto, perché il popolo di Israele è tornato nella Terra Promessa secondo le visioni bibliche dei profeti.
(Israel Heute, 4 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele cambierà la canzone per partecipare all’Eurovision
di Luca Spizzichino
Israele ha accettato di cambiare il testo della canzone scelta per poter partecipare all’Eurovision 2024. Lo ha annunciato questa mattina la Israeli Public Broadcasting Corporation (KAN), in seguito alla notizia sull’esclusione dello Stato Ebraico nel caso avesse portato un testo che ha a che fare con il massacro del 7 ottobre da parte dei terroristi di Hamas: la canzone, infatti, è ritenuta dall’Unione Europea di radiodiffusione “politica” (la canzone proposta si intitolava “October rain”).
Modificare la canzone consentirà a Israele di partecipare all’Eurovision. “La Israeli Public Broadcasting Corporation [KAN] ha lavorato nelle ultime settimane per intraprendere le misure necessarie che consentiranno a Israele di partecipare all’Eurovision Song Contest di quest’anno”, ha dichiarato la KAN in una nota.
“Nonostante il disaccordo con la posizione dell’Unione europea di radiodiffusione (EBU), che cercava di squalificare le canzoni presentate da Israele in quanto politiche, la KAN ha seguito il consiglio del presidente Isaac Herzog, che ha proposto di apportare le modifiche necessarie per consentire a Israele di essere rappresentato sul palco dell’Eurovision” si legge ancora nella nota.
“Il presidente ha sottolineato che proprio in questo momento, quando i nostri nemici cercano di boicottare lo Stato di Israele da ogni piattaforma, Israele deve alzare la voce con orgoglio e a testa alta, e sventolare la sua bandiera in ogni sede internazionale. Soprattutto quest’anno.”
“KAN si è rivolto agli autori delle due canzoni, ‘October Rain’ [che è stata scelta per rappresentare Israele all’Eurovision] e ‘Dance Forever’ [che si è classificata seconda], e ha chiesto loro di adattare i testi preservando l’aspetto artistico. La KAN esaminerà poi i nuovi testi e sceglierà quale canzone inviare all’EBU, in modo che approvi la partecipazione di Israele.”
(Shalom, 4 marzo 2024)
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«L’Ia viola le leggi e i nostri diritti»
L'esperta: «Il business della sorveglianza sostiene la tesi del vuoto giuridico e si appella all'etica. Questi sistemi non sono intelligenti in senso proprio. Ci profilano per prevedere le nostre azioni, però non sono attendibili».
di Fabio Dragoni
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Daniela Tafani
, docente di Filosofia politica all'Università di Pisa, perché si occupa di intelligenza artificiale? «Perché i sistemi di intelligenza artificiale sono artefatti, prodotti del lavoro umano. E possono avere proprietà politiche. Danno e tolgono potere e possibilità ad alcune persone, per conto di altre persone».
- L’intelligenza artificiale sostituirà quasi del tutto l'essere umano, visto che di fatto ragiona come un essere umano? «Chiamiamo "intelligenza artificiale", tra gli altri, i sistemi di apprendimento automatico. Non ragionano affatto, sono piuttosto statistiche automatizzate. Stefano Quintaralli propone di chiamarli approcci sistematici agli algoritmi di apprendimento e alle inferenze delle macchine: in inglese, l'acronimo è Salami. Le verrebbe in mente di chiedersi se i Salami abbiano una coscienza o capiscano quello che scrivono? O possano sostituirci?»
- Irridente. «Oggi esistono soltanto sistemi di intelligenza artificiale "debole o ristretta". Eseguono uno o pochi compiti specifici. Funzionano per i compiti particolari per i quali sono stati programmati. Ad una condizione: che ciò che incontrano non sia troppo diverso da quello che hanno sperimentato in precedenza. Non esiste invece alcun sistema di intelligenza artificiale generale o forte", in grado di eseguire, in modo integrato, le azioni che gli esseri umani compiono invece facilmente, senza nemmeno farci caso. Nessuno, oggi, ha idea di come realizzare l'intelligenza artificiale in senso proprio. Chi la annuncia come prossima, lo fa per· ragioni di marketing. E anche per esercitare un potere e sfuggire alle proprie responsabilità. Annunci a noi familiari solo perché abbiamo visto qualche film o letto qualche romanzo di fantascienza».
- Lei parla di intelligenza artificiale sub-simbolica rispetto a ciò che c'era prima. Di tipo simbolico. O sbaglio? «Approcci che convivono. L'approccio simbolico deriva dalla logica e procede attraverso la manipolazione di simboli. Poiché richiede che il programmatore scriva quello che la macchina deve fare, non consente di trattare funzioni, quali il riconoscimento delle immagini, delle quali non siamo in grado di esplicitare tutte le regole che pur seguiamo. Le faccio un esempio: nessuno di noi saprebbe elencare tutte le caratteristiche che ci consentono di distinguere un cane da un gatto, malgrado abbiamo imparato facilmente a farlo, fin da bambini, in modo istantaneo e infallibile. I sistemi sub-simbolici di apprendimento automatico (machine learning) non richiedono invece simili istruzioni. Sono sistemi di natura sostanzialmente statistica, che consentono di costruire modelli a partire da esempi».
- Non colgo la differenza. Colpa mia, sicuro. «Non sono "istruiti" dal programmatore, ma sono calibrati statisticamente per· partire dai dati. Nell'esempio di prima, partono da milioni di immagini di cani e di gatti, etichettate come tali da esseri umani. E’ all'intelligenza artificiale sub-simbolica che si devono i più recenti progressi nello svolgimento di compiti quali la traduzione automatica, il riconoscimento facciale, la ricerca per immagini o l'identificazione di contenuti musicali».
- Pur sempre qualcosa di sovrumano, su! «I sistemi informatici svolgono singole funzioni con maggiore velocità e potenza. Di certo anche la sua lavatrice lava le lenzuola molto più rapidamente rispetto a quanto farebbe lei. Direbbe che la sua lavatrice è sovrumana?»
- Non lavandole a mano, non so ... «Vede, l'antropomorfizzazione delle macchine è una tendenza spontanea, ma è anche coltivata e indotta da una narrazione che le grandi aziende tecnologiche finanziano, per perseguire obiettivi aziendali: se un prodotto viene presentato come un essere animato, con prestazioni e difetti simili a quelli degli esseri umani, chi lo smercia può sfuggire alle sue responsabilità. C'è addirittura chi sostiene che per i danni prodotti, ad esempio, dalle auto "a guida autonoma", dovremmo prevedere una "responsabilità distribuita" tra i produttori e le vittime».
- Lei sostiene che l'intelligenza artificiale è prodotta da quei player il cui modello di business è «la sorveglianza». «E’ un derivato della sorveglianza. La costruzione dei sistemi di apprendimento automatico richiede potenti infrastrutture di calcolo ed enormi quantità di dati nella disponibilità dei soli giganti della tecnologia. Grazie ad un modello di business fondato sulla sorveglianza, sono già attrezzate per intercettare grandi flussi di dati e metadati individuali. E hanno le infrastrutture computazionali per la raccolta e l'elaborazione di tali dati. Questa sorveglianza viola i nostri diritti e ci danneggia. Perciò, come è già accaduto, ad esempio, col tabacco, le aziende finanziano una famiglia di narrazioni: tra queste, l'idea, del tutto infondata, che ci sia un vuoto giuridico e che i nostri diritti non valgano se chi li sta violando usa un'app, per violarli».
- Quindi un qualcosa che di fatto infrange la legge che c'è ora. Lei sostiene! « Sì, una "bolla giuridica", come la chiama Marco Giraudo. Una generale violazione di diritti giuridicamente tutelati. Una narrazione che ci ha impedito, fin qui, di constatare che le aziende stanno violando leggi vigenti, applicabili anche ai nuovi prodotti. Le aziende affiancano alla tradizionale "cattura del regolatore" - ossia alle azioni delle lobbies per ottenere che la regolazione giuridica non nuoccia al loro modello di business - la cattura culturale: con un'operazione di propaganda, si ottiene che il regolatore e l' opinione pubblica condividano in partenza l'impostazione desiderata e che chiunque esprima preoccupazioni sia etichettato come retrogrado o luddista».
- Tra i sistemi «fuorilegge» lei include l'uso dell'intelligenza artificiale in chiave predittiva ... «Nei sistemi di ottimizzazione predittiva, si utilizza l'apprendimento automatico per prevedere il futuro di singoli individui e prendere decisioni conseguenti: gli studenti vengono valutati sulla base del voto che si prevede riceverebbero se sostenessero l'esame. I candidati a un posto di lavoro vengono assunti o scartati sulla base di una previsione della loro futura produttività. La polizia si affida a statistiche automatizzate per prevedere chi commetterà un crimine o dove un crimine verrà commesso e agire di conseguenza».
- II film “Minority Report”! «Questi sistemi non sono in realtà in grado di prevedere il futuro di singole persone, per la semplice ragione che è impossibile. Credere in ciò equivale a nutrire la convinzione - caratteristica delle antiche attività divinatorie e, oggi, dell'astrologia - che il futuro sia già scritto e leggibile. La decisione produce ciò che si pretende di prevedere: se predico che solo nei quartieri più poveri si spaccerà droga e mando solo lì la polizia, è solo lì, ovviamente, che la polizia troverà qualche reato da perseguire. Con il passaggio dalla previsione alla decisione, la profilazione sociale dunque si autoavvera, legittimando così i pregiudizi incorporati nella descrizione statistica iniziale».
- Profezie che si autoavverano ... «L'impiego dei sistemi di ottimizzazione predittiva è incompatibile con lo Stato di diritto. Possiamo prevedere che il latte nel frigorifero andrà a male in una settimana, ma assumere di poter prevedere il comportamento umano con la stessa precisione equivale a trattare le persone come “cose" incapaci di scegliere, anziché come persone capaci di autodeterminarsi. Siamo trasformati in un flusso di dati e non possiamo sapere in anticipo quali aspetti del nostro comportamento, delle nostre caratteristiche o della nostra identità faranno sì che un sistema ci associ a una certa categoria o etichetta. Sa che l'antropologo ed economista Brett Scott ha scoperto di essere stato etichettato, in una classificazione automatizzata, come potenziale "mamma a basso reddito"? Con le immaginabili conseguenze, tra gli altri, nell'ambito creditizio».
- Si può evitare la discriminazione nell'utilizzo dell'intelligenza artificiale? «Irrilevante, per i sistemi di ottimizzazione predittiva. Se un sistema non funziona, perché non è possibile che funzioni, il fatto che il suo impiego produca discriminazioni non è di alcun rilievo. Se dall'insieme dei pixel della foto di una persona non è possibile prevedere se quella persona sarà una brava lavoratrice, questa previsione resta impossibile anche se la cospargo con la polvere magica dell'intelligenza artificiale. Se il sistema, ad esempio, formulasse previsioni che svantaggiano le persone bionde, dovrei preoccuparmene? No, perché se anche eliminassi il pregiudizio contro le persone bionde, otterrei al massimo un sistema non discriminatorio verso le persone bionde e tuttavia, come prima, non funzionante, ossia non capace di prevedere il futuro dei singoli individui. In ogni caso, quel sistema non deve essere utilizzato.
- L'etica nell'utilizzo può aiutare? «L'etica non c'entra. Si tratta di prodotti fuorilegge, i cui produttori cercano di convincerci che il diritto vigente non si applichi ai loro sistemi "intelligenti" e che servano perciò nuove leggi. Le aziende parlano di "etica" per proporre che ci affidiamo al loro buon cuore e per sfuggire al diritto. Se la sua lavatrice le allagasse la casa, che penserebbe di un tecnico che le dicesse che in realtà la lavatrice funziona perfettamente e che le manca solo di diventare (grazie all'"etica delle lavatrici") abbastanza buona da decidere di non allagarle la casa? Come le lavatrici, i sistemi di intelligenza artificiale sono artefatti, ossia oggetti. Non vi è motivo per sottrarne la distribuzione e la commercializzazione alla legislazione ordinaria».
(La Verità, 4 marzo 2024)
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INTELLIGENZA ARTIFICIALE
Poi l’uomo disse:
facciamo il robot a nostra immagine e somiglianza.
Lo formò con materia digitale
gli soffiò nei sensori un algoritmo vitale
e il robot divenne un congegno semovente.
Il peccato originale del robot deve ancora arrivare.
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Tenere duro
di Niram Ferretti
La partenza di Benny Gantz per gli Stati Uniti dove incontrerà a Washington la vicepresidente Kamala Harris e il Consigliere per la Sicurezza Jake Sullivan e quindi membri del Congresso di entrambi gli schieramenti, è non solo irrituale, (Netanyahu, nella sua veste di primo ministro non è stato consultato), ma mette in luce, se ce ne fosse ancora bisogno, le manovre in corso per condurre Israele a elezioni anticipate nel pieno della guerra a Gaza.
L’ingresso di Benny Gantz, leader dell’opposizione di governo nel Gabinetto di guerra, è uno dei pegni che Netanyahu ha pagato all’Amministrazione Biden, ostile al suo governo dal giorno stesso del suo insediamento.
Gantz è uomo di fiducia e a Washington sarebbe indubbiamente da preferirsi al bad fucking guy, attualmente in carica. Gantz, il quale, qualche mese fa, aveva dichiarato che lo scopo primario della guerra era il ritorno a casa degli ostaggi, è perfettamente in linea con la volontà di Washington che non ha, come priorità, la smilitarizzazione di Hamas e la netta vittoria di Israele nella Striscia, ma un accordo con il gruppo jihadista responsabile dell’eccidio del 7 ottobre, che porti un cessate il fuoco sufficientemente lungo da permettere a Joe Biden di lucrarvi elettoralmente facendo in modo che si prolunghi indefinitamente.
Tutto questo è propedeutico al progetto manifesto della Casa Bianca e annunciato a più riprese, la nascita di uno Stato palestinese, nonostante non lo vogliano Netanyahu e i suoi alleati e soprattutto non lo vogliano la maggioranza degli israeliani.
Per gli ideologi, la realtà è ininfluente, ciò che conta sono le chimere, e la chimera dello Stato palestinese come soluzione del conflitto aleggia da trent’anni, ed è stata alimentata da tutte le amministrazioni americane che si sono succedute, con un’unica eccezione, quella presieduta da Donald Trump, la più rivoluzionaria e piantata a terra relativamente alle sorti e al futuro di Israele.
Trump e i suoi consiglieri vedevano benissimo che la chimera era ciò che è, una pura illusione la cui consistenza si era già rivelata tale a partire dal 2000 con la chiusura di Arafat ad ogni compromesso e l’innalzamento continuo di pretesti per costringere Israele a cedere sempre di più, ma mai abbastanza.
I primi a non volere la nascita di uno Stato palestinese sono sempre stati gli arabi, e per un motivo molto semplice, farlo nascere li obbligherebbe a riconoscere la legittimità territoriale di Israele. Ed è questa, per motivi squisitamente religiosi, la ragione per la quale, nonostante i cedimenti di Israele, non è mai nato. Ci sono poi le ragioni ovvie che hanno spinto e spingono Netanyahu a opporsi, ovvero la sicurezza nazionale. Uno Stato palestinese in Cisgiordania, a pochi chilometri da Tel Aviv, dopo l’esperimento di Gaza, comporterebbe un apparato militare di vigilanza costante, sarebbe per l’Iran uno straordinario cavallo di Troia situato nel ventre dello Stato ebraico. Tutto questo per i sognatori americani è irrilevante. Non sono bastati i vent’anni di permanenza in Afghanistan dove la democrazia avrebbe dovuto dare frutti duraturi invece del ritorno dei talebani, non è bastato il fallimento iracheno, là dove la democrazia, ancora, si sarebbe realizzata, non è bastata la politica di appeasement con l’Iran che ne ha solo incrementato l’insidiosità. Non è bastato, infine l’ulteriore fallimento nel cercare di fare di un sanguinario ras egiziano che si fingeva palestinese, un nation builder. Tutto questo è come se non fosse mai accaduto, come se la pagina della storia fosse bianca.
L’argine all’esiziale progetto americano è Netanyahu, è il governo in carica, dove coriacei nazionalisti, spesso sopra le righe, ma assai realisti, sanno esattamente di che stoffa sono fatti i loro interlocutori arabi, li conoscono perfettamente perché sono nativi del luogo come loro, radicati in una realtà di cui respirano l’odore fin da bambini, non come i funzionari americani in carica, per i quali il Medio Oriente è sostanzialmente frutto di astrazioni, di teoremi i cui postulati sono completamente errati.
Le elezioni anticipate in Israele, mentre a Gaza ancora si combatte e Hamas pur non avendo più il controllo del territorio, che è già di per se un risultato di grande rilevanza, è ancora operativo, sarebbero il modo per tentare di disarcionare Netanyahu, anche se poi, il risultato potrebbe sorprendere ancora. Nessun politico né in Israele né fuori da Israele ha smentito così tante volte i de profundis che gli erano stati intonati.
Non ci saranno accordi al ribasso, ha dichiarato il premier, rincalzato da Bezalel Smotrich, il più netto e lucido al governo insieme all’altro “appestato” Itmar Ben Gvir, riguardo alla necessità di finire il lavoro a Gaza, smantellare Hamas, e se è possibile, sperando sia possibile, salvare la vita agli ostaggi, non si sa ancora esattamente quanti, che i carnefici del 7 ottobre tengono ancora prigionieri.
(L'informale, 3 marzo 2024)
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Norvegia: dopo il 7 ottobre, l’odio antiebraico è più esplicito e violento
Intervista a Torkel Brekke
di Nathan Greppi
Con la guerra tra Israele e Hamas scoppiata dopo il 7 ottobre, sono aumentati esponenzialmente gli appelli per il boicottaggio dello Stato Ebraico, soprattutto in ambito accademico. Ancor più che in Italia, ciò è molto sentito in paesi come la Norvegia, dove almeno quattro università hanno tagliato i ponti con gli atenei israeliani.
L’astio per gli ebrei e Israele nel mondo culturale norvegese ha radici più profonde del conflitto con Hamas a Gaza; nel 2006, quando Israele si ritrovò in guerra con gli Hezbollah in Libano, ci fu il caso dello scrittore Jostein Gaarder, tra i più celebri del paese e il cui romanzo Il Mondo di Sofia ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Gaarder scrisse sul quotidiano Aftenposten che l’ebraismo era “un antica religione di un popolo in guerra”, contrapposta all’idea cristiana che “il regno di Dio è nella compassione e nel perdono”.
Nonostante l’ostilità verso Israele sia assai diffusa nel paese dei fiordi, non mancano coloro che cercano di opporvisi: uno di questi è lo storico delle religioni
Torkel Brekke
, docente presso la Scuola Norvegese di Teologia ad Oslo e autore di numerosi saggi e ricerche sull’antisemitismo e l’islamofobia. Il suo ultimo libro, Ingen er uskyldig (“Nessuno è innocente”), racconta come una parte della sinistra norvegese non abbia mai fatto i conti con l’antisemitismo tra le sue fila, coltivando nel tempo teorie complottiste sugli ebrei e arrivando a giustificare i massacri di civili israeliani del 7 ottobre.
- Quanto era diffuso l’antisemitismo in Norvegia prima del 7 ottobre? E cosa è cambiato dopo? Storicamente, i dati sull’antisemitismo erano molto bassi in Norvegia; rispetto ad altri paesi, in passato vi era una minore propensione a dire brutte cose sugli ebrei in quanto tali. Ma nell’ultimo decennio, vi è stato un considerevole aumento dell’antisionismo e dell’antisemitismo legato a Israele. Molte persone ostili a Israele hanno fatto apertamente ricorso a classici stereotipi antisemiti.
Ciò che è cambiato, dopo il 7 ottobre, è che questo odio è diventato molto più esplicito ed evidente, soprattutto agli occhi degli ebrei norvegesi. Inoltre, dopo i massacri, io e molti altri ci aspettavamo che i politici norvegesi esprimessero la loro vicinanza ad Israele e agli ebrei, ma non è avvenuto. Non solo, ma il governo laburista ha chiesto al Re di Norvegia Harald V di non esprimere le sue condoglianze agli israeliani. E questo è singolare, perché il Re in passato ha espresso più volte il suo cordoglio alle vittime del terrorismo. Per come la vedo io, vi è un’incapacità di vedere gli israeliani come degli esseri umani.
- Tra i partiti politici, quali sono i più vicini agli ebrei e Israele? E quali invece sono i più ostili? Già da prima del 7 ottobre, il partito più filoisraeliano è un partito di destra populista, noto come il Partito del Progresso. Sono populisti, ma non estremisti, e si muovono entro i parametri della democrazia. Mentre dopo il 7 ottobre, è diventato evidente come i partiti più antisraeliani siano quelli di estrema sinistra, e in particolare il Rødt (“Rosso”), legato al marxismo rivoluzionario.
- Nel suo ultimo libro, ha denunciato l’antisemitismo presente nei sindacati e nei partiti di sinistra norvegesi. Come nasce questo odio? Dopo il 1948, gran parte della sinistra era vicina al sionismo socialista. Ma come nel resto d’Europa, tutto è cambiato nel 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni. Da quel momento in poi, la Norvegia ha “scoperto” i palestinesi, percepiti come “oppressi” nella visione terzomondista, e tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 è nato il movimento filopalestinese, legato in particolare alla sinistra marxista.
Da queste frange estreme, in seguito il movimento si è diffuso nel mainstream. Per “mainstream” non intendo tanto nel Partito Laburista, che pur avendo dei membri filopalestinesi cerca nel complesso di essere pragmatico, quanto nei sindacati, nella società civile e nelle alte sfere della chiesa norvegese.
- In molti paesi occidentali, l’antisemitismo è diffuso tra le comunità islamiche. In Norvegia, quali sono i rapporti tra ebrei e musulmani? Prima del 7 ottobre erano in buoni rapporti, per diverse ragioni: la prima è che una parte dei finanziamenti pubblici che ricevono le minoranze religiose viene utilizzata per promuovere iniziative di dialogo interreligioso. Un altro motivo è che la comunità ebraica norvegese è molto piccola, di circa 1.300 persone.
Dopo il 7 ottobre, queste relazioni sono andate distrutte. Ciò è avvenuto per vari motivi: già lo scorso novembre, quando si commemorava la Notte dei Cristalli, le organizzazioni musulmane cercarono di dirottare la giornata per trasformarla in una commemorazione dei palestinesi uccisi. Ciò ha sconvolto la comunità ebraica, che ha preso le distanze dall’evento.
Alla fine, le due comunità si sono trovate talmente in disaccordo che hanno smesso di parlarsi. Per fare altri esempi, la maggior parte dei leader musulmani non ha mostrato alcuna empatia per le vittime israeliane del 7 ottobre, mentre dall’altra parte molti politici hanno solidarizzato senza esitare con i palestinesi.
- Lo Stato è consapevole dei rischi per la comunità ebraica? Se sì, cosa fanno le autorità per proteggerla? Ovviamente, la polizia e i servizi di sicurezza sono all’erta. Quello che invece preoccupa, è che a differenza di quel che è successo in altri paesi europei, quali la Svezia, la Danimarca, la Germania o il Regno Unito, in Norvegia molti politici sono rimasti in silenzio dopo il 7 ottobre, e non hanno mostrato particolare vicinanza agli ebrei norvegesi. Sono consapevoli dei rischi, ma si preoccupano di più di come vengono percepiti da altre minoranze, come quella musulmana.
(Bet Magazine Mosaico, 3 marzo 2024)
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Nei cortei anti Israele spiccano i dem a braccetto con chi predica odio
Ieri sfilate senza disordini in diverse città con in prima linea amministratori del Pd. Pioggia di insulti (pure alla Segre), foto della Meloni imbrattata di sangue.
di Davide Perego
Il Pd e la sinistra hanno scelto da che parte stare: dalla parte della piazza che grida slogan come «Noi la Palestina la vogliamo, non esiste Israele che è uno stato che occupa», «Palestina libera fino alla vittoria», «Abbattere le frontiere dal Brennero alla Palestina», «Fuoco alle galere», oppure che imbratta la foto del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con mani insanguinate. La saldatura tra la gioiosa macchinina da guerra di Elly Schlein e il fronte italiano pro Palestina è avvenuta a Pisa, dove numerosi esponenti politici locali della sinistra, e del Partito democratico in particolare (su tutti, il presidente dem della Provincia, Massimiliano Angori), hanno partecipato al corteo-minestrone («In piazza contro le bombe e i manganelli», il titolo), organizzato da studenti e ragazzi per protestare per gli scontri dello scorso 23 febbraio in città tra manifestanti e forze dell'ordine, insieme a collettivi universitari, docenti delle scuole superiori e sindacati (complessivamente, quasi 5.000 persone alla manifestazione). Tra gli striscioni apparsi lungo il serpentone di partecipanti, «Pisa non ha paura» e «Israele Stato fascista e terrorista».
Momenti di particolare tensione si sono registrati soprattutto a Trento, dove un corteo anarchico ha sfilato per le vie del centro storico della città per sostenere la Palestina, ma anche per esprimere solidarietà agli imputati del processo per i disordini che si erano registrati al Brennero nel 2016. Numerosi muri sono stati imbrattati con scritte e insulti, prese di mira anche le banche e la sede dell'università.
A Roma i manifestanti (presenti tra gli altri la Comunità palestinese in Italia, gli attivisti di Cambiare rotta, Unione popolare, Rifondazione comunista e alcune sigle anarchiche) se la solo presa un po' con tutti: la foto di Giorgia Meloni, ritratta in compagnia del presidente israeliano Benjamin Netanyahu, è stata imbrattata con impronte di mani insanguinate. Qualcuno se l'è presa con la senatrice a vita Liliana Segre, agitando lo striscione «Liliana Segre io ti stimo ma non sento la tua voce sulle stragi di Gaza». In un altro si leggeva: «Avete superato i nazisti. Fosse Ardeatine: 10 per ogni ucciso a via Rasella. Gaza: 25 per ogni ucciso il 7 ottobre». Tra i bersagli del corteo anche il segretario del Pd, Elly Schlein, ritratta in una fotografia accanto agli striscioni «Fermiamo il genocidio, Palestina libera» e «Governo Meloni complice del genocidio», e Matteo Salvini, accusato di «complicità in genocidio». In testa al corteo i ragazzi palestinesi hanno esposto dei lenzuoli bianchi con scritto in rosso «Stop genocidio». I giovani si sono poi sdraiati per terra mentre dalle casse risuonava il rumore di bombe e missili. Infine Maya Issa, presidente del movimento degli studenti palestinesi, al megafono ha scandito più volte lo slogan «Noi la Palestina la vogliamo, non esiste Israele che è uno Stato che occupa e che ha colonizzato la nostra terra». A suggellare la scampagnata è partita la superhit di ogni serpentone, Bella ciao, intonata nei pressi dell'università La Sapienza.
A Milano sono stati 1.500, secondo gli organizzatori, i partecipanti al corteo. A tenere banco è stata la spaccatura all'interno dell'Anpi locale, conseguente alle dimissioni del presidente, Roberto Cenati, contrario all'utilizzo del termine «genocidio» per l'operazione militare di Israele a Gaza. Cenati è stato spesso preso di mira durante il pomeriggio al grido di «Vergogna», «E l'ennesima provocazione», e «Meno male che te ne sei andato». «Da tantissimi iscritti all'Anpi non era più ben visto nazioni erano sempre a favore di Israele che condividiamo se si parla della Shoah, ma in questo momento non è il caso di stare dalla parte di un governo che sta massacrando una popolazione», hanno sostenuto i partigiani meneghini prima del rompete le righe, avvenuto davanti alla stazione Centrale. Immancabili gli slogan contro Giorgia Meloni «perché manda soldati e armi». Qualcuno ha anche scandito «Joe Biden assassino». A Firenze, infine, i manifestanti si sono radunati davanti al consolato degli Stati Uniti, blindato dalle forze dell'ordine. Anche qui la benedizione della sinistra si è materializzata con la presenza di Antonella Bundu e Dmitrij Palagi, consiglieri di Sinistra progetto Comune. Altre mobilitazioni si sono tenute a Trieste, a Torino, dove i manifestanti hanno tenuto a sottolineare che «il Comune è gemellato con Gaza» e Empoli, dove insieme agli studenti hanno sfilato anche le femministe di Non una dimeno, gli ultras della locale squadra di calcio e i candidati sindaco, Alessio Mantellassi (centrosinistra) e Leonardo Masi (Buongiorno Empoli-M5s).
(La Verità, 3 marzo 2024)
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«Quello in Palestina non è genocidio». Presidente di Anpi Milano si dimette»
Cenati lascia l'associazione spaccata dalla difesa a oltranza dei «partigiani» di Hamas.
di Giuseppe Pollicelli
Alla fine Roberto Cenati, presidente della sezione milanese dell' Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia), ha optato per le dimissioni irrevocabili. Dopo alcuni giorni di riflessioni sofferte, ha concluso che l'unica scelta possibile fosse quella di un passo indietro e, dunque, di dire addio dopo quasi tredici anni alla guida dell'Anpi di Milano.
Il motivo all'origine della drastica decisione è riassumibile in una parola: genocidio. Un vocabolo che viene ormai regolarmente adoperato, in particolare negli ambienti della sinistra, per definire gli attacchi nei confronti dei palestinesi ordinati nella Striscia di Gaza dal premier israeliano Benjamin Netanyahu in reazione all'attentato terroristico condotto da Hamas il 7 ottobre 2023. Un utilizzo che però, secondo Cenati, è del tutto improprio e, pertanto, non accettabile. Sul punto, l'ormai ex presidente dei partigiani milanesi era stato molto chiaro già alcuni giorni fa, in un'intervista rilasciata al Corriere della sera:
«E una parola che va usata con grande attenzione. Nel 1948 l'Onu ha adottato una convenzione che qualifica come genocidio "l'uccisione sistematica di membri di un gruppo nazionale, etnico, o religioso". Non sussistono tali condizioni nell'attuale conflitto», aveva detto. Per poi proseguire: «Il governo israeliano sta determinando una tragedia umanitaria, con stragi di civili, soprattutto bambini, donne e anziani, vittime del conflitto originato dal barbaro attacco del 7 ottobre. Il governo di Netanyahu si prefigge di annientare Hamas, che nel suo statuto prevede la distruzione di Israele e l'eliminazione degli ebrei, ma non ha come obiettivo la distruzione fisica, sistematica e totale del popolo palestinese, né le altre misure prefigurate nel termine genocidio. E poi c'è un altro slogan che non ci piace di quei cortei: quando si chiede che lo Stato palestinese si estenda dal Giordano al Mediterraneo. Significa che si vuole l'eliminazione di Israele».
Il punto di vista di Cenati, tuttavia, si è presto rivelato minoritario all'interno dell'Anpi e così, dopo l'assenza ai cortei filopalestinesi svoltisi fino a oggi, anche la sezione milanese parteciperà, in accordo con la direzione nazionale dell'associazione, al corteo pro Palestina che si terrà il 9 marzo a Roma e che vedrà tra i suoi protagonisti anche la Cgil. Un corteo fra i cui slogan annunciati figura anche quello seguente: «Impedire il genocidio». A quel punto Cenati non ha potuto fare altro che dimettersi, coerentemente con le opinioni da lui espresse. Non si è fatta attendere la replica di Gianfranco Pagliarulo, che dell' Anpi è il presidente nazionale, il quale ha commentato così la mossa di Cenati: «Le parole del presidente dell'Anpi milanese mi lasciano stupito. Una delle parole d'ordine per la grande manifestazione del 9 marzo è "impediamo il genocidio", parole che utilizza il tribunale penale internazionale. Dire "impediamo", poi, significa che non c'è ancora un genocidio ma c'è pericolo che accada». Naturalmente il contrasto su di un singolo termine cela una ben più profonda e lacerante contrapposizione di carattere politico: da una parte, nell'Anpi, c'è chi, sostenendo tuttora la proposta sintetizzata dalla frase «due popoli e due Stati», prende in considerazione ragioni e torti di entrambe le parti in conflitto; dall'altra, ed è con ogni evidenza la parte più consistente, ci sono coloro per i quali esistono un solo carnefice e una sola vittima, rispettivamente il governo israeliano e i palestinesi della Striscia, e per i quali gli esponenti di Hamas non vanno considerati dei terroristi ma esclusivamente dei valorosi partigiani (appunto) impegnati in una drammatica lotta di liberazione.
Un grande scrittore italiano di origine ebraica, Carlo Levi, diceva (è il titolo di un suo libro) che «le parole sono pietre». Non è meno vero per la quasi totalità della sinistra italiana, compresa da oggi anche l' Anpi milanese: purché le pietre siano quelle dell'Intifada palestinese e non altre.
(La Verità, 3 marzo 2024)
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Perché Israele sta perdendo la guerra della comunicazione
di Ugo Volli
• Le diverse dimensioni del conflitto
“La guerra – scrisse duecento anni fa il generale prussiano Von Klasewitz, fondatore della strategia moderna – è la continuazione della politica con altri mezzi.” Ma è vero anche l’inverso: le guerre si combattono anche sul fronte politico, cioè diplomatico e, nell’età delle comunicazioni di massa e dei social media, soprattutto su quello comunicativo, non solo dei paesi in guerra, ma soprattutto del resto del mondo che può appoggiare l’una o l’altra parte, influendo sul loro rapporto di forza. Nella guerra di Gaza Israele sta vincendo tutte le battaglie sul terreno, ma è in difficoltà sul fronte diplomatico, dove molti paesi che secondo la logica avrebbero dovuto appoggiarlo, gli hanno voltato le spalle, come in Europa la Norvegia, la Spagna, il Belgio, l’Irlanda: o minacciano di farlo.
• La guerra politica
Soprattutto Israele sta perdendo la guerra della comunicazione, come era già successo in passato, per esempio nelle due guerre del Libano. Le ragioni di questa sconfitta, che avviene nonostante una qualificata presenza ebraica nei mezzi di comunicazione, sono diverse. La prima è che le risorse messe in gioco dai nemici di Israele nel campo della cultura e della comunicazione sono immense, senza paragone con quelle dello stato ebraico. Il Qatar prima di tutto, ma anche l’Iran e le forze legate alla Fratellanza Musulmana hanno speso miliardi di dollari nelle università e nei mezzi di comunicazione, assicurandosi il predominio non solo di queste istituzioni ma anche dei manager delle più grandi imprese e dei politici che vi vengono formati. La seconda ragione è l’ideologia “intersezionale” che punta a unire tutti i nemici della tradizione occidentale, anche se in contraddizione fra loro. Gli islamisti sono appoggiati dai nostalgici del socialismo, dai militanti del “transgender”, dagli estremisti razzisti anti-bianchi, cui qualche volta si aggiungono ali moderniste estreme di varie denominazioni cristiane. E’ una coalizione che ha un grande potere di ricatto sui media e sui politici.
• Pallywood
La terza ragione è che il fronte palestinese ha preso la guerra contro Israele come obiettivo centrale, mentre questo non è accaduto fra gli israeliani, anche fra la maggioranza che non si fa illusioni pacifiste e che pensa però giustamente che il compito centrale dello stato sia di assicurare il benessere dei cittadini e non di distruggere i propri vicini. Questo carattere di militanza totale antisraeliana non riguarda solo Hamas, ma tutti i settori della società palestinese, che non hanno alcuno scrupolo a mentire, inventare scene inesistenti, esagerare le perdite, cercare di mitizzare episodi che mettano in cattiva luce Israele e gli ebrei, senza riguardi per la realtà. C’è a Gaza e nei territori dell’Autorità Palestinese una vera e propria fabbrica della falsa comunicazione, che qualcuno ha chiamato “Pallywood” (da “Hollywood” più “Palestina”, ma anche con un’assonanza con le bugie che in gergo si chiamano “palle”). Essa era già in opera 75 anni fa durante la guerra di indipendenza, con il falso di Deir Yassin; agì poi con particolare intensità durante la prima guerra del Libano, attribuendo falsamente a Israele il massacro di Sabra e Chatila, compiuto dai cristiani libanesi; poi ancora durante la “seconda Intifada”, con la pretesa strage di Yeniun, l’”assedio” della basilica di Betlemme, il falso omicidio del ragazzino Mohammed Al Doura e altri episodi analoghi. Tutte storie che rafforzano il vecchio pregiudizio antisemita diffuso in Occidente come nell’Islam.
• Il “bombardamento” dell’ospedale
Questa fabbrica seriale di menzogne non si è mai arrestata durante la guerra di Gaza. I propagandisti di Hamas hanno preteso che non ci fossero morti civili il 7 ottobre, poi che i morti li avesse provocati l’aviazione israeliana, spesso ha usato alcuni gruppi di attori (sempre gli stessi, denunciati invano in rete) che facevano finta di essere morti, altre volte di essere feriti, affamati, morti di nuovo, in lutto per la fine dei loro familiari; a un certo punto si inventò il bombardamento israeliano dell’ospedale Al-Ahli Arabi Baptist Hospital a Gaza City, denunciando 500 morti mentre la realtà dimostrata poi con i filmati e le prove sul campo era che un missile della Jihad Islamica diretto contro i civili israeliani era caduto per un malfunzionamento nel cortile dell’ospedale, senza nessun intervento israeliano, provocando qualche decina di vittime.
• I numeri delle vittime
Il caso più clamoroso e continuo e anche di maggior successo di menzogna alla “Pallywood” è la comunicazione quotidiana dei numeri dei morti palestinesi proveniente da qualche propagandista di Hamas che si definisce “Ministero della salute di Gaza”, anche se a Gaza oggi non ci sono né governi, né ministeri, né organismi in grado di fare statistiche complessive sulle vittime della guerra. Ma ogni giorno si propalano questi numeri, secondo cui sembra che Israele riesca nel miracolo masochista di non colpire mai i propri nemici armati, cioè i terroristi, ma quasi solo donne e bambini. Molte fonti, anche Shalom due volte, hanno pubblicato analisi che mostrano, numeri alla mano, che questi “dati” sono del tutto inverosimili. Ma essi continuano a essere citati e stanno alla base della più velenosa operazione contro Israele, quella che gli attribuisce un “genocidio” dei palestinesi, ottenendo così libero gioco per invertire la colpa della Shoà e poter dire che Israele fa ai palestinesi quel che i nazisti hanno fatto agli ebrei – e dato che le cose stanno così, probabilmente i nazisti non hanno sbagliato se non nel “non finire il lavoro”.
• Il caso dei rifornimenti
L’ultima clamorosa fabbricazione di Pallywood è avvenuta venerdì scorso, quando alcuni camion di rifornimenti alla popolazione civile di Gaza, arrivati al nord della striscia sotto scorta israeliana, sono stati assaliti da una folla violenta, al cui interno si erano mescolati terroristi di Hamas che volevano sequestrare i rifornimenti a loro uso, come spesso fanno. L’assalto della folla è stato convulso, alcune persone si sono calpestate a morte a vicenda, altre sono finite sotto i camion che fuggivano perché i conducenti avevano a loro volta paura per la loro vita; altre ancora sono state coinvolte in uno scontro a fuoco fra i soldati israeliani di scorta e i terroristi di Hamas che avevano iniziato a sparare loro addosso. I rifornimenti a Gaza sono resi così difficili dalle circostanze che la maggior parte dei paesi interessati, inclusi gli Usa, hanno deciso di usare il metodo lento e inefficiente di paracadutarli, per non restare coinvolti nei parapiglia. Questo incidente non è il primo del genere e la responsabilità è di Hamas che cerca di prendere per sé i rifornimenti (in cui talvolta sono mescolati anche materiali militari, come è emerso in diversi casi; e inoltre dell’Unrwa che gestisce i rifornimenti non a favore della popolazione palestinese ma di Hamas. Ma la propaganda l’ha trasformato in una colpa di Israele, anzi addirittura in un “raid” dell’esercito israeliano, come ha titolato vergognosamente “L’osservatore Romano”. La conclusione è semplice. Non solo gli ebrei e gli amici di Israele, ma tutti coloro che tengono a un’informazione corretta, che è il presupposto della democrazia, devono combattere questo sistema di menzogne, diffamazioni, guerra comunicativa contro Israele.
(Shalom, 3 marzo 2024)
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Emmanuele. Dio con noi
Dalla Sacra Scrittura
MATTEO 1
- Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
- E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
- Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
- Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
- Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
- Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
SALMO 145
- Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
- Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
- L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
- Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
- Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
GENESI 2
- L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
- gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
ISAIA 53
- Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
GIOVANNI 20
- Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
- Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
PROVERBI 8
- Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
- quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
- quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
- io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
- mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
GENESI 2
- E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
GIOVANNI 3
- Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
1 CORINZI 15
- Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
GENESI 3
- E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
ISAIA 7
- Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
GIOVANNI 12
- “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
ESODO 3
- E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni;
- e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
ESODO 29
- Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
- E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
- E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
- E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
- Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
GIOVANNI 1
- E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
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La guerra più difficile nella storia di Israele
di
Elena Loewenthal
È una guerra difficile, tremendamente difficile. Forse la più difficile delle tante che nei suoi settantacinque anni di storia Israele si è trovato a combattere suo malgrado, nessuna di esse voluta e iniziata dallo Stato ebraico. È una guerra non lineare, perché cominciata con un pogrom a tutti gli effetti. La violazione massiccia di confini considerati sino al 7 ottobre protetti, un massacro di civili, il rapimento di una smisurata quantità di persone, uomini, donne e bambini. Ad oggi, ci sono ancora più di cento ostaggi nelle mani di Hamas. Vivi? Forse. Come? Chi lo sa. È una guerra lunga e logorante. Più di tante altre. Perché è tutt’altro che una guerra lineare, sul terreno, sul campo di battaglia, sul piano mediatico. L’equazione «le vittime (della Shoah) sono diventate i carnefici» continua a raccattare consensi ovunque nel mondo, con la purtroppo prevedibile conseguenza di una montata di antisemitismo.
È un’equazione pratica, che mette al riparo da ogni complessità, fa risparmiare qualunque sforzo di ragionare sull’intrico di circostanze che questo conflitto porta con sé. Non è invece facile mettere il mondo di fronte a una domanda tanto necessaria quanto scomoda: di chi è la responsabilità di queste – tante, troppe – vittime? Di chi è la responsabilità della fame che attanaglia Gaza e che è lo sfondo dell’eccidio di due giorni fa, attorno al convoglio di aiuti? No, non è certamente solo di Israele.
Le responsabilità – tante e diverse, tutte nefaste – delle condizioni a Gaza, prima e durante questa guerra, non sono tutte di Israele. Anzi. La disparità evidente di questo conflitto, circa millecinquecento morti in Israele a fronte di decine di migliaia a Gaza, non è colpa né responsabilità soltanto di Israele. Se le decine di migliaia di missili lanciati nelle prime settimane di guerra da Gaza verso il territorio d’Israele non avessero incontrato un sistema di difesa concepito per proteggere i cittadini israeliani (ebrei, arabi e quant’altro), i morti in Israele sarebbero innumerevoli, il Paese e la sua umanità sarebbero stati cancellati. L’obiettivo di Hamas era e resta quello. Il fatto che i morti israeliani siano molti di meno di quelli palestinesi di Gaza non significa che Israele sia più “cattivo”, crudele e aggressivo del suo nemico. La disparità nel numero delle vittime non è la conseguenza dell’accanimento d’Israele, del suo essere diventato carnefice da vittima che era. È invece l’evidenza di una guerra non lineare, di responsabilità che vanno cercate lontano, ma soprattutto nei sotterranei, politici e materiali: in quei tunnel che Hamas ha scavato sotto scuole e ospedali, facendo dei palestinesi di Gaza un popolo di scudi umani. E tutto questo, che dura da molti anni, è non meno terribile della guerra in corso.
Senza contare un altro aspetto, secondario, ma rilevante: l’informazione. Quando qualche mese fa un missile lanciato troppo maldestramente da Gaza è finito nel parcheggio di un ospedale, poco lontano, l’opinione pubblica e la politica mondiale non ci hanno messo più di un quarto d’ora ad accusare Israele di un fantomatico massacro. Quando Israele dichiara di avere le prove che alcuni dipendenti dell’Unrwa hanno partecipato attivamente al massacro del 7 ottobre, l’opinione pubblica e la politica mondiale reagiscono in primis con un certo qual scontato scetticismo. Questa guerra non è lineare anche perché è il teatro di una dissimmetria comunicativa sull’attendibilità delle fonti. Il presupposto di ogni informazione che arriva è che lo Stato ebraico la manipola, mentre dal fronte opposto, Hamas, giunge tal qual è nella sua verità. Il contesto mediatico ha, certo, un peso infinitamente meno rilevante rispetto a quello umano, di chi la guerra la subisce davvero. Su entrambi i fronti. E questa è una guerra che sta facendo troppe vittime.
Tutto questo senza, naturalmente, dimenticare le colpe e le mancanze di un governo israeliano pessimo, incapace di gestire questa guerra e ragionare sul futuro prossimo del paese. Netanyahu e i suoi ministri hanno commesso e continuano a commettere errori imperdonabili, che dovranno scontare. Ma questa guerra e le decine di migliaia di vittime innocenti che sta mietendo ha dei mandanti ben precisi, ed è a loro più che allo Stato ebraico che vanno ascritte, le responsabilità di ciò che continua ad accadere.
(La Stampa, 2 marzo 2024)
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All’amica di una vita Elena Loewenthal sento la necessità di rispondere, proprio perché la considero un’amica:
- “la disparità evidente di questo conflitto non è colpa né responsabilità soltanto di Israele”: allora Israele ha delle colpe se i capi di Hamas usano, sì, usano, i propri concittadini come proprio scudo, come scrive dopo, con molta attenzione alle parole usate, a solo parziale spiegazione? E allora anche lei mette sullo stesso piano Israele e Hamas? Che sia più onesto Sinwar che spiega esattamente quella che è la sua strategia vincente grazie alla cecità dell’Occidente?
- forse che migliaia di missili non arrivavano nei cieli di Israele anche prima del 7 ottobre? Dimenticati per non giustificare la pazienza mostrata dal sempre colpevole Netanyahu (colpevole probabilmente, ma lei sentenzia già, senza attendere il responso della già annunciata Commissione di inchiesta, che “continua a commettere errori imperdonabili”)?
- anche la testata che la pubblica è in prima linea per la da lei, giustamente criticata, informazione; ma anche lei ci mette del suo: in questa guerra non c’è stato solo “un missile lanciato troppo maldestramente da Gaza” a uccidere cittadini di Gaza; tutti ignorati da Elena.
- è “un governo israeliano pessimo, incapace di gestire questa guerra” ad avere la responsabilità di tale gestione? Non forse il Comando Supremo dell’IDF insieme al Gabinetto di Guerra del quale fanno parte due parlamentari dell'opposizione, Gantz e Eisenkot oltre, chissà poi perché, altissimi funzionari USA, che sovente partecipano ufficialmente alle riunioni.
Emanuel Segre Amar
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Gantz vola a Washington senza l’OK di Netanyahu. È rottura? La rivelazione di Ynet ha messo in imbarazzo il gabinetto di guerra di Sarah G. Frankl
Secondo quanto appreso da Ynet, il Ministro
Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra, volerà a Washington domenica prossima per una serie di incontri, senza però essersi coordinato con il primo ministro
Benjamin Netanyahu.
L’Ufficio del Primo Ministro ha espresso rabbia per la rivelazione di Ynet e ha chiarito che Gantz sta andando a Washinton senza l’approvazione del Primo Ministro, in contrasto con i regolamenti governativi, che “richiedono che ogni ministro coordini il suo viaggio in anticipo con il Primo Ministro, compresa l’approvazione del piano di viaggio”.
Secondo i collaboratori di Netanyahu, “il Primo Ministro ha chiarito al Ministro Gantz che lo Stato di Israele ha un solo Primo Ministro”. Da Washington, Gantz dovrebbe proseguire per Londra.
Il viaggio a Washington di Benny Gantz arriva in un momento in cui gli sforzi per assicurare un accordo per lo scambio di ostaggi sono in corso senza successo da tempo, e in mezzo a rivelazioni di stampa secondo cui il governo americano sta perdendo la pazienza per la condotta di Netanyahu nella guerra con Hamas oltre alle accuse di essere condizionato negativamente dai suoi partner di governo
Itamar Ben Gvir e
Bezalel Smotrich.
All’inizio della settimana, il Presidente Joe Biden ha sottolineato che Israele deve perseguire la pace con i palestinesi per la sua sopravvivenza a lungo termine. Durante un’apparizione al “Late Night with Seth Meyers”, il Presidente ha avvertito che il “governo incredibilmente conservatore” del Paese rischia di perdere il sostegno internazionale.
“Israele ha avuto il sostegno schiacciante della stragrande maggioranza delle nazioni. Se continua così con questo governo incredibilmente conservatore, con [il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar] Ben-Gvir e altri, perderà il sostegno di tutto il mondo, e questo non è nell’interesse di Israele”, ha dichiarato nell’intervista a Myers.
(Rights Reporter, 2 marzo 2024)
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Inverosimile non dire che la continuazione della guerra è voluta da oltre l’80% degli israeliani (di tutte le confessioni religiose) e non denunciare il sempre più evidente tentativo dell’Amministrazione USA di far cadere il governo democraticamente eletto di un paese amico. Emanuel Segre Amar
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L'ostilità dell'amministrazione Biden verso Israele cresce in vista delle elezioni americane
L'idea che Israele stia creando più terroristi combattendo il terrorismo, insieme alla richiesta di uno Stato palestinese, fa parte di una campagna per danneggiare Israele.
di Israel Kasnett
L'amministrazione Biden sembra essere sempre più ostile nei confronti di Israele dopo aver invertito la "Dottrina Pompeo", imponendo sanzioni ai coloni e a un'azienda che produce parti per il sistema Iron Dome di Israele, e passando a un linguaggio più duro per quanto riguarda la richiesta di un cessate il fuoco.
C'è uno scollamento fondamentale tra la terra della fantasia politica di Washington e la realtà della vita in Israele dopo il 7 ottobre", ha dichiarato a JNS Richard Goldberg, consigliere senior della Fondazione per la Difesa delle Democrazie.
Nonostante quello che il governo statunitense possa credere, "non c'è alcun percorso di pace senza che Israele distrugga tutte le rimanenti strutture di comando e controllo di Hamas a Gaza, riformi massicciamente l'Autorità Palestinese, smantelli l'UNRWA ed escluda i patroni di Hamas come il Qatar da qualsiasi coinvolgimento", ha affermato Goldberg.
Come se non bastasse, a novembre si terranno le elezioni presidenziali statunitensi e l'amministrazione Biden teme di perdere voti chiave sostenendo Israele. Per paura di perdere il Michigan e altri Stati con un'alta percentuale di musulmani, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden sembra disposto a mettere a repentaglio Israele per ottenere il sostegno di un blocco di voti in cui l'odio per gli ebrei è molto diffuso.
"Penso che stiamo assistendo a un momento di opportunismo in cui gli ideologi di sinistra alla Casa Bianca stanno usando il pretesto di un problema politico in Michigan e la prospettiva di una normalizzazione saudita-israeliana per far passare tutte le cattive idee politiche che sono state respinte per anni", ha detto Goldberg. "I numeri dei sondaggi del Michigan non giustificano la necessità di Biden di attaccare Israele, e Riyadh si preoccupa molto di più della difesa e degli impegni nucleari degli Stati Uniti che di una soluzione a due Stati".
Se è vero che gli Stati Uniti hanno posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza, i funzionari della Casa Bianca si sono pronunciati contro un assalto di terra israeliano a Rafah e l'amministrazione Biden sta spingendo per una soluzione a due Stati, un'idea che la maggior parte degli israeliani attualmente rifiuta. La Knesset israeliana lo ha confermato quando si è espressa contro il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: "La Knesset si è espressa a grande maggioranza contro il tentativo di imporre la creazione di uno Stato palestinese. Il voto invia un chiaro messaggio alla comunità internazionale: il riconoscimento unilaterale non avvicina la pace, ma la allontana".
I cittadini di Israele e i loro rappresentanti alla Knesset sono oggi più uniti che mai, ha dichiarato Netanyahu.
"Abbiamo votato in modo schiacciante contro una mossa che metterà a rischio Israele e la realizzazione della pace prima di aver ottenuto una vittoria completa su Hamas", ha aggiunto.
Il leader dell'opposizione israeliana Benny Gantz ha sottolineato che anche lui si oppone fermamente a passi che porterebbero al riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese. "Oggi abbiamo approvato a larga maggioranza una risoluzione alla Knesset che si esprime contro la proclamazione unilaterale di uno Stato palestinese. Dopo il 7 ottobre, sarebbe un errore dare un tale sostegno al terrorismo", ha dichiarato.
L'amministrazione Biden sta anche ignorando importanti sondaggi, come quelli condotti dal Palestinian Centre for Policy and Survey Research, che mostrano che la maggior parte dei palestinesi sostiene Hamas.
Oltre alle crescenti pressioni internazionali su Israele affinché accetti un cessate il fuoco e riconosca uno Stato palestinese a prescindere dal rilascio da parte di Hamas dei 134 ostaggi israeliani che detiene, numerosi critici accusano Israele di allevare una nuova generazione di terroristi mentre cerca di distruggere Hamas.
In un recente programma televisivo, il comico Jon Stewart ha fatto questa affermazione. Anche il presentatore televisivo Piers Morgan e altri hanno ripetuto questo mantra.
Tuttavia, il presidente dell'FDD, Clifford May, ha respinto questa affermazione, affermando che i palestinesi sono testimoni di ciò che sta accadendo a Gaza e sanno che il terrorismo non paga.
"Anche se Hamas è solo indebolito, abbiamo visto alcuni gazesi esprimere questo cambiamento di opinione", ha affermato.
"Considerato il sistema educativo delle scuole di Gaza gestite da Hamas, è improbabile che molti abitanti della zona siano favorevoli alla coesistenza pacifica con Israele, ma molti ora cambieranno idea perché gli israeliani si sono vendicati di Hamas per l'invasione e le atrocità del 7 ottobre", ha affermato.
"Se Hamas vincerà la guerra che ha iniziato, i palestinesi probabilmente impareranno la lezione che il terrorismo paga, che i loro sacrifici erano necessari perché è l'unico modo per progredire verso la distruzione di Israele", ha aggiunto.
May ha sottolineato che mentre Israele continua a decimare Hamas, i palestinesi stanno giungendo a una conclusione molto diversa da quella suggerita da personaggi come Stewart e Morgan.
"Se Hamas non vince", ha detto May, "i palestinesi potrebbero giungere alla conclusione che il terrorismo è un vicolo cieco - in senso figurato e letterale".
"Si chiederanno: per quale scopo Hamas ha portato questa distruzione su Gaza? Perché ha costruito tunnel per proteggersi e usare noi - civili innocenti, uomini, donne e bambini - come scudi umani?".
Invece di unirsi alle file dei terroristi, ha detto May, forse i palestinesi dovrebbero "iniziare a pensare a delle alternative".
L'idea che Israele stia creando più terroristi combattendo Hamas, unita alla spinta di Washington per uno Stato palestinese unilaterale e ad altre mosse apparentemente ostili, "equivale a una campagna BDS per costringere Israele a fare concessioni che mettono a rischio la sua sicurezza", ha detto Goldberg.
Il presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, Mike Johnson (R-La), sabato ha rimproverato la Casa Bianca per la sua ostilità nei confronti di Israele.
"L'amministrazione Biden deve smettere di minare Israele e di sostenere gli sforzi per delegittimarlo. È sbagliato e sconsiderato", ha twittato.
"Questo deve essere condannato da entrambi gli schieramenti a Washington", ha affermato Goldberg.
(Israel Heute, 1 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Roberto Cenati annuncia le dimissioni irrevocabili dalla presidenza provinciale dell’Anpi Milano dopo la rottura con i circoli
Ha annunciato formalmente le sue dimissioni
Roberto Cenati, che ormai da molti mesi vede i circoli di base dell’associazione dei partigiani prendere iniziative unilaterali senza consultarsi con i vertici. L’annuncio è stato dato all’assemblea cittadina dei circoli Anpi con poche parole, dopo alcuni giorni di sofferta riflessione. E in modo netto e pacato, com’è nel suo stile, Cenati ha sottolineato che questa decisione nasce da “motivi di dissenso politico”. Dopo il suo intervento, in sala è calato il gelo. Ma ora inizia un dibattito che si annuncia teso. E’ noto infatti che spesso alcuni circoli milanesi, in aperto contrasto con la linea politica moderata e atlantista di Cenati, hanno preso iniziative in aperto contrasto, scendendo in piazza a fianco delle sigle antagoniste o, più di recente, con i movimenti pacifisti, anti militaristi e con quelli filo palestinesi. Cenati, che si riconosce fortemente nel solco della tradizione della sinistra italiana anti-fascista e democratica, ha apertamente criticato chi manifestava il suo dissenso alla guerra scendendo in piazza assieme a centri sociali, sindacati di base e frange estreme del mondo antisionista. Gli episodi in cui i circoli si sono mossi autonomamente non si contano da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, fino al più recente conflitto in Palestina. Ma ci sono stati anche screzi legati a Milano, come il flash mob di un circolo Anpi a novembre davanti al Piccolo Teatro, dopo la nomina di La Russa nel cda. Cenati avrebbe volentieri evitato quel presidio. Oggi il presidente non vuole rilasciare dichiarazioni, anche perché non ha ancora fatto una scelta, ma non è un mistero che lui non condivida spesso le posizioni dell’Anpi nazionale guidato da Gianfranco Pagliarulo, che ha una linea politica molto più vicina per esempio ai movimenti pacifisti schierati contro l’invio delle armi all’Ucraina. Qualche giorno fa, in un’intervista al Corriere della sera, Cenati aveva spiegato tutta la sua perplessità di fronte all’adesione di alcuni circoli Anpi alla manifestazione per Gaza di sabato scorso. Negli ultimi quattro mesi ha espresso forte solidarietà alla Comunità ebraica dopo i fatti del 7 ottobre, manifestando anche la sua irritazione verso i circoli “ribelli” che si uniscono a cortei dove serpeggiano anche slogan antisemiti, in mezzo alla protesta per i massacri a Gaza. Una posizione, dunque, molto difficile la sua, con la base che si ribella e che decide di testa sua a quali cortei e iniziative prendere parte. Con le persone con cui si è confidato il presidente in carica dell’Anpi milanese ha confessato la sua contrarietà a trasformare l’associazione in un piccolo partito della sinistra, che deve prendere posizione su tutto. L’umore di Cenati è nero in questi giorni, ancora ieri confidava ad amici e collaboratori di essere allo stremo delle forze per le tensioni interne all’Anpi di Milano. Le dimissioni annunciate oggi verranno formalmente discusse la prossima settimana al Comitato provinciale di Anpi Milano, cui spetta il compito di accettarle o rifiutarle. Cenati è in carica da 13 anni e non si sente più appoggiato dai suoi iscritti, non è in sintonia con la sua base. E a quasi 72 anni, sempre più spesso racconta di essere stanco, di vivere una fase di stress personale. Avrebbe ancora tre anni di mandato. Ma ogni giorno negli ultimi due anni, dovendo governare un’associazione sempre più turbolenta, si è domandato chi glielo fa fare. La comunità ebraica di Milano ha già fatto sapere di volergli tributare un’attestazione di solidarietà per il lavoro svolto in questi anni a favore del rispetto e della tolleranza, mentre il consigliere comunale Daniele Nahum annuncia di voler proporre Cenati per il prossimo Ambrogino d’Oro.
(la Repubblica, 2 marzo 2024)
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Il ritorno delle compagnie aeree farà abbassare i prezzi?
Diverse compagnie aeree riprenderanno i voli da Israele nel prossimo mese, ma non si prevede un’offerta di posti pari a quella dell’anno scorso.
Dopo un lungo periodo in cui molte compagnie aeree hanno evitato Israele a causa della guerra, diverse riprenderanno le operazioni all’aeroporto Ben Gurion
nel prossimo mese. Tra queste Wizz Air, Cyprus Airways, Air India, United Airlines, ITA Airways, Brussels Airlines e EasyJet. Si prevede che altri voli verso Israele riprenderanno ad aprile, e all’inizio di maggio si aggiungerà Delta Air Lines.
Nel frattempo, le compagnie aeree straniere che hanno già ripreso a volare verso Israele stanno aumentando la frequenza dei voli, tra cui Air France, Ethiopian, Flydubai e Lufthansa. La concorrenza sulle rotte aumenterà e gli israeliani sperano che questo faccia scendere il livello delle tariffe, attualmente elevato. Tuttavia, questo non significa ancora un’estate regolare per i viaggiatori: le compagnie aeree stanno tornando con esitazione e con un volume inferiore rispetto agli anni precedenti. La domanda locale di voli sta aumentando con l’avvicinarsi della festività della Pasqua ebraica, ma è ancora molto al di sotto di quella che era prima dello scoppio della guerra nell’ottobre dello scorso anno, mentre il turismo in entrata, ad eccezione dei mercati ebraici, è al minimo, il che influenzerà gli orari nella prossima stagione di viaggi.
Il direttore generale di Arkia, Oz Berelowitz, afferma: “Per il prossimo periodo, fino a luglio, i voli per la Turchia e il Marocco, i voli dal Terminal 1 e le tariffe last minute sono stati tutti cancellati, e c’è un calo significativo dell’offerta di voli low-cost e dell’infinita gamma di destinazioni che c’era in passato”. Allo stesso tempo, Berelowitz descrive una domanda record per destinazioni vicine come Atene, Batumi, Montenegro, Tbilisi, Bucarest, Roma e Dubai.
Per quanto riguarda il lungo termine, Berelowitz ritiene che sempre più compagnie aeree straniere torneranno al Ben Gurion, ma non con lo stesso volume dell’anno scorso. “La guerra crea modelli diversi nei sentimenti dei consumatori riguardo agli acquisti. L’incertezza e i timori per il futuro fanno sì che le persone rimandino gli acquisti fino all’ultimo minuto. La decisione viene presa su due piedi e la vacanza è molto breve.
“Da una media di 4,5 notti nel febbraio 2023, siamo scesi a una media di 3,5 notti nel febbraio 2024. D’altra parte, siamo un Paese affollato e isolato, la voglia di uscire e rinfrescarsi cresce e quindi i numeri aumenteranno di settimana in settimana. I prezzi saranno più alti dell’anno scorso. La Pasqua e l’Eid al-Fitr coincidono, la Turchia è fuori dalla mappa e al Ben Gurion c’è solo un piccolo numero di compagnie aeree straniere”. Tali Noy, vicepresidente vendite e marketing dell’agenzia di viaggi ISSTA, afferma: “Tra le destinazioni vicine vediamo Atene, Budapest e Amsterdam protagoniste. Finora la tendenza prevalente è stata quella di prenotare viaggi a breve distanza a febbraio e marzo.
“Anche l’estate comincia a riempirsi e ci aspettiamo un aumento sostanziale delle tariffe a causa dell’eccesso di domanda e della carenza di offerta di voli. Stiamo già assistendo a un forte aumento dei prezzi dei biglietti, e ci si può aspettare che questo valga anche per gli hotel, perché la domanda al di fuori di Israele è alta per la prossima estate”.
Noy prevede anche un aumento della domanda per le destinazioni più lontane, con un aumento delle prenotazioni per New York e la Thailandia. Attualmente, El Al è l’unica compagnia aerea che opera diverse rotte verso gli Stati Uniti: circa 50 voli settimanali per New York, Boston, Miami, Los Angeles e Fort Lauderdale. United Airlines, che riprenderà a breve i voli per Israele, offre un solo volo giornaliero per New York.
Fonti del settore affermano che il ritorno delle compagnie aeree straniere in Israele contribuirà ad abbassare le tariffe e che, anche se in questa fase stanno applicando prezzi elevati anche in relazione a se stesse, stanno dando battaglia a El Al. Alla fine sarà la concorrenza a dirlo e, man mano che crescerà, El Al dovrà abbassare i suoi prezzi. “Più compagnie aeree torneranno, più possibilità ci saranno per i voli in coincidenza, il che potrebbe abbassare ulteriormente le tariffe per gli Stati Uniti”, ha dichiarato una fonte dell’industria aeronautica.
La Turchia non sarà un’opzione per gli israeliani quest’estate. L’uscita di Turkish Airlines dal mercato dell’aviazione israeliano lo ha cambiato radicalmente e, dall’inizio della guerra, gli aeroporti della Grecia e di Cipro hanno iniziato a sostituire Istanbul come destinazioni per i voli di collegamento verso ovest, mentre gli Emirati Arabi Uniti sono l’hub preferito per i voli di collegamento verso est.
(Israele360, marzo 2024)
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Commissione Ue, 50 milioni all'Unrwa: sconcerto di Israele
di Ugo Elfer
L’Unione europea procederà al pagamento di 50 milioni di euro all’Unrwa. L’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi vedrà aumentato il sostegno di 68 milioni nel 2024. È quanto comunica l’Esecutivo comunitario in una nota. Il 29 gennaio la Commissione europea aveva annunciato una valutazione dei finanziamenti all’Unrwa alla luce delle accuse su diversi membri del personale dell’agenzia negli attacchi del 7 ottobre. A seguito degli scambi con la Commissione, l’Unrwa ha indicato di essere pronta a garantire che venga effettuata una revisione del suo personale per confermare che non abbia partecipato agli attacchi e che siano messi in atto ulteriori controlli per mitigare tali rischi in futuro. Ha acconsentito all’avvio di un audit condotto da esperti esterni nominati dall’Ue, che esaminerà i sistemi di controllo per prevenire il possibile coinvolgimento del personale e delle risorse in attività terroristiche. L’Unrwa è d’accordo sul rafforzamento del suo dipartimento di investigazioni interne e della governance che lo circonda.
La notizia del versamento di 50 milioni di euro all’Unrwa da parte dell’Ue ha destato lo sconcerto di Israele. Lo scorso 20 febbraio, l’ambasciatore israeliano all’Onu, Gilad Erdan ha pesantemente attaccato le istituzioni delle Nazioni Unite. “A Gaza Hamas è l’Onu e l’Onu è Hamas”. Erdan era intervenuto nella sessione del Consiglio di sicurezza nella quale gli Stati Uniti hanno posto il veto, per la terza volta, a una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco a Gaza, e ha criticato le recenti parole del coordinatore umanitario delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, secondo cui Hamas non è un gruppo terroristico, ma un movimento politico, “quando tutti sappiamo che si tratta di un’organizzazione terroristica”. Il diplomatico aveva anche criticato Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, per aver affermato che gli attacchi del 7 ottobre contro Israele non sono stati un esempio di antisemitismo, poiché non commessi contro gli ebrei in nome della loro religione, ma contro l’occupazione israeliana della Palestina. Per quanto riguarda la stessa Unrwa, Erdan era arrivato a dire che “il 12 per cento dei suoi dipendenti sono membri di Hamas, e almeno 236 di loro sono terroristi attivi in questa organizzazione, il che prova che l’Unrwa è parte della macchina terroristica di Hamas, e che ne fa un’organizzazione terroristica”.
(l'Opinione, 1 marzo 2024)
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Joe Biden è in un vicolo cieco
Ha perso la fiducia di Gerusalemme ed è odiato dagli arabi
di Gianni Pardo
I giornali dicono che, malgrado le sue pressioni su Israele in favore dei palestinesi, Joe Biden probabilmente non sarà votato dagli arabo-americani, e questo potrebbe costargli la Casa Bianca. I musulmani gli rimproverano di non avere costretto Israele a piegarsi ai diktat di Hamas, dimenticando che il Presidente degli Stati Uniti non ha questo potere. Israele è uno Stato indipendente, oggi sufficientemente forte per dire di no a chi non si fa i fatti suoi. Poi gli arabi rimproverano a Biden di essere rimasto, almeno formalmente, pro-israeliano. Ed anche in questo caso dimenticano che si può sognare che la Luna sia quadrata, come spesso fanno loro, e pretendere che altri se ne convincano, ma altrettanto non può fare il Presidente degli Stati Uniti. La verità è troppo lampante per poterla travisare. E questa verità dice che non Israele ha aggredito Gaza, ma l'inverso. Gaza ha prima aggredito Israele per anni (con i razzi) e il 7 ottobre scorso col più macroscopico casus belli che si ricordi nei secoli recenti. Dunque Gaza è l'aggressore, e Biden non può trattare Israele da aggressore.
A Gaza si combatte una guerra secondo i canoni di Hamas. Infatti, dal suo lato, niente esercito regolare. Niente divise. Niente distinzione fra obiettivi civili e obiettivi militari. Niente applicazione delle norme delle Convenzioni di Ginevra. Israele, per vincere questa guerra, non può andare per il sottile. Cerca di risparmiare i civili, ma non può occuparsi né del loro benessere, né della salvaguardia delle loro case o dei loro ospedali, totalmente trasformati in obiettivi militari. In una situazione del genere Biden, più di quanto ha fatto, non poteva fare.
Ma si può dire di più. Oggi, come sempre, per avere il favore degli arabi (non importa se americani o mediorientali) bisogna accettare dei presupposti inaccettabili: che Israele non esiste; che l'entità sionista deve essere distrutta dal fiume al mare; che la Palestina appartiene solo ai palestinesi; che Israele ha aggredito Hamas; che gli arabi hanno sempre ragione, checché facciano, e gli israeliani sempre torto, checché facciano.
Invece qui chi ha torto è Joe Biden. Avrebbe dovuto sapere sin dal principio che mai e poi mai avrebbe ottenuto il sostegno degli arabi, perché un Presidente degli Stati Uniti non può sostenere programmi criminali come quelli di Hamas. Ecco la riprova: se non ci fosse di mezzo l'antisemitismo, e se Israele, sostenuta dagli Stati Uniti, dichiarasse che ha il programma di uccidere tutti i palestinesi, si può dubitare che il mondo alzerebbe un unanime grido di orrore? E allora come mai non c'è nessuna espressione di orrore per lo statuto di Hamas?
Il Presidente di uno Stato decente non può né sostenere simili programmi, né allearsi con chi li sostiene. E avrebbe dovuto dirlo subito, alto e forte, presentandosi come il portabandiera dei valori occidentali; invece è sembrato flirtare con i palestinesi, per giunta senza ottenere nulla da Israele, se non dei fermi no, equivalenti a porte sbattute in faccia. Joe Biden avrebbe dovuto sapere che Israele non è più lo Stato malfermo che ha vinto per miracolo nel 1948, e quello che, in altre occasioni, ha ceduto alle ingiunzioni degli Stati Uniti. Gli anni sono passati e Israele è cresciuta fino a divenire un piccolo gigante militare, con cui nemmeno il reboante Iran osa confrontarsi. Ma non l'Iran soltanto. Nessun Paese arabo ha osato fornire sostegno militare a Gaza, l'Egitto ha anzi minacciato di accogliere a cannonate i gazawi che volessero fuggire nel Sinai.
In queste condizioni, che avrebbe dovuto fare, Biden? Constatato che il campo del disonore (dare ragione a chi ha torto) non sarebbe stato in ogni caso produttivo, doveva scegliere risolutamente il campo dell'onore, cioè non il sostegno ai terroristi aggressori, ma il sostegno ad una democrazia che, aggredita, osa difendersi. Avrebbe perduto il sostegno degli arabi-americani? Sì. Ma, agendo diversamente e implorando ogni giorno Israele di non vincere la guerra, ha forse ottenuto il loro sostegno?
Ci sono momenti della storia in cui certe frasi incombono come un Fato spietato, cui nessuno può sfuggire. Qui vanno citate le parole di Churchill dopo il Convegno di Monaco del 1938: «Britain and France had to choose between war and dishonour. They chose dishonour. They will have war»; l'Inghilterra e la Francia dovevano scegliere fra la guerra e il disonore. Hanno scelto il disonore. E avranno la guerra». Nel nostro caso, Biden ha scelto la parte che ha torto, la parte incontentabile e non ne ha ricavato nulla. Forse, anche per questo, non sarà rieletto. Non avrebbe fatto meglio a schierarsi con chi aveva ragione, come del resto ha fatto per l'Ucraina? Perché mai bisogna sfidare la Russia, potenza nucleare, e inchinarsi poi davanti agli arroganti che rifiutano la pace da settantasei anni? Per una volta che l'interesse e l'onore convergevano, non era difficile evitare di sbagliare. Ma – a quanto pare – l'errore deve avere un suo fascino irresistibile.
(ItaliaOggi, 1 marzo 2024)
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Parashà di Ki Tissà: Cos’è la libertà
di Donato Grosser
Quando Moshè scese dal monte dopo la rivelazione del Sinai egli portò con sé le tavole della legge. Nella parashà è scritto: “Moshè si dispose a discendere dal monte, recando in mano le due tavole della testimonianza, tavole scritte dai due lati, scritte sull’una e sull’altra faccia. Queste tavole erano opera divina e i caratteri incisi sulle tavole erano caratteri divini” (Shemòt, 32: 15-16).
Questo versetto è oggetto di interpretazione nei Pirkè Avòt (Massime dei padri, 6:2). R. Yehoshua’ ben Levi, riferendosi alle parole “inciso sulle tavole”(nel testo “charùt ‘al ha-luchòt”), afferma: “Non leggere charùt (inciso), ma cherùt (libertà), perché l’uomo non è mai così libero come quando si occupa dello studio della Torà”.
R. Shimshon Refael Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) nel suo commento ai Pirkè Avòt scrive: “Proprio come la Torà ci nobilita, così anche il suo studio veramente devoto ci rende liberi, liberi da errori, liberi dalle tentazioni dei desideri fisici e liberi dall’oppressione della moltitudine di preoccupazioni e tribolazioni della vita di ogni giorno”.
R. Mayer Twersky (Boston, n. 1960) in Insights and Attitudes (p. 124) osserva che il commento dei Maestri a prima vista è sconcertante sia dal punto di vista metodologico sia nella sostanza. Dal punto di vista metodologico perché essi generano artificialmente una derashà cambiando la vocalizzazione di una parola (da charùt e cherùt). Dal punto di vista della sostanza perché apparentemente la Torà con le sue mitzvòt proscrittive (che proibiscono) viene a limitare la libertà e non a darla.
R. Twersky, per risolvere la questione, cerca una definizione della parola libertà. Parafrasando la definizione del dizionario Webster egli scrive: “Superficialmente la libertà implica (entails in inglese) la liberazione dal controllo e dalle richieste di alcune persone o potere”. Sembra quindi ironico che lo studio della Torà venga rappresentato come la via verso la libertà. In verità tuttavia l’autentica libertà non dipende solo dalla liberazione politica, ma principalmente dalla liberazione interna. L’autentica libertà implica libertà dagli istinti e dalle passioni. Una persona che è ostaggio della propria ira, o che non è capace di frenare il suo desiderio del piacere fisico, o che è sempre spinto a cercare onore e ricchezze, potrà esser libero dal punto di vista politico ma conduce una vita da bruto.
Al contrario, una persona che raffina i suoi istinti e le sue passioni e si nobilita, e facendo così si impegna a seguire la volontà divina, è una persona veramente libera. Lo studio della Torà conduce a un’autentica libertà esistenziale in due modi. In primo luogo l’atto di studiare Torà e di assimilare la parola divina, purifica ed eleva lo spirito. Questo vale per ogni parashà della Torà ed ogni argomento del Talmud. Ma è doppiamente vero riguardo ai principi fondamentali dell’ebraismo, il cui studio fornisce un’addizionale consapevolezza di libertà.
R. Shimshon Nachmani (Modena, 1706-1778, Reggio Emilia) nel suo commento ai Pirkè Avòt risolve il dilemma in modo diverso. Chi non si occupa di Torà è servo del suo istinto. E chi si occupa di Torà è ugualmente servo, ma del suo Creatore. Per questo il testo dei Pirkè Avòt continua con le parole “E colui che si occupa di Torà, si eleva”. Nonostante che in un modo nell’altro egli sia un servo, esser servo dell’Eterno è una grande cosa perché, come dice il proverbio, il servo di un re è anche un re.
(Shalom, 1 marzo 2024)
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Parashà della settimana: Ki Tissà (Esodo 30:11-34:35)
di Marcello Cicchese
"Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio" (Esodo 31:18).
Con queste parole si concludono i primi quaranta giorni e quaranta notti trascorsi da Mosè con l'Eterno sul monte Sinai. Il verbo originale qui tradotto con "finire" (calah, כלה) è usato per la prima volta nella Genesi: "Così furono portati a compimento (calah) il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Dio, nel settimo giorno portò a compimento (calah) il lavoro che aveva fatto" (Genesi 2:1-2). Quindi il testo dell'Esodo potrebbe essere reso in questo modo: "Quando l'Eterno ebbe portato a compimento il suo parlare a Mosè ecc.".
Le parole che Dio dice a Mosè sul Sinai costituiscono dunque un discorso compiuto, in sé perfetto, a cui non c'è nulla da aggiungere, così come non c'è nulla da aggiungere alle parole con cui Dio ha creato il cielo e la terra. Alla fine del suo discorso Dio consegna a Mosè due tavole di pietra, da Lui stesso tagliate, su cui ha scritto col suo dito le "dieci parole" (Deuteronomio 4:13). Sono dette "tavole della testimonianza" perché la pietra di cui sono formate avrà il compito di essere un testimone muto del patto stipulato tra Dio e il popolo. Qualcosa di simile avvenne nel patto di non aggressione che stipularono Labano e Giacobbe prima di separarsi. "Giacobbe prese una pietra, e la eresse in monumento. E Giacobbe disse ai suoi fratelli: 'Raccogliete delle pietre'. Ed essi presero delle pietre, ne fecero un mucchio... E Labano disse: 'Questo mucchio è oggi testimonio fra me e te'" (Genesi 31:45-55).
QUAL È IL DONO?
Se si vuol parlare di "dono della Legge", si deve dire che il dono che Dio fa al popolo è proprio questo: le due tavole di pietra, tagliate e lavorate dalle Sue mani, scritte col Suo dito, insieme alle parole che le hanno accompagnate.
Ma il vero dono che Dio fa al popolo non è questo, così come il vero dono che uno sposo fa alla sposa non è l'anello che le infila al dito il giorno delle nozze: quello è soltanto un testimonio muto del dono di sé che l'uomo fa alla donna, ricevendone a sua volta un dono simile, in un legame d'amore che in quanto tale è pensato e dichiarato infrangibile. È nella prima notte di matrimonio che comincia ad esprimersi questo dono, quando ciascuno dei due si mostra all'altro senza gli abiti di copertura che servono a proteggere dai pericolosi sguardi di chi non ama.
Questo dono di Sé al popolo il Signore l'ha fatto quando sulle pendici del monte Sinai si è fatto vedere nella sua gloria dai settanta anziani d'Israele (Esodo 24:9-11), senza "stendere la mano" contro di loro, perché poco prima si era collegato al popolo in un patto di sangue che era un vincolo d'amore.
SEGNI DISTINTIVI
Questo dono di Sé, unico in tutta la storia dell'Antico Testamento, è un fatto di grandezza eccezionale; la sua importanza è molto sottovalutata dai commentatori. Qui abbiamo uno dei segni che rendono unico il popolo ebraico, perché nella sua storia ha visto qualcosa che nessun altro popolo ha mai visto. E' un segno indelebile, perché il fatto di aver visto non può essere cancellato da quello che avviene dopo.
Un altro segno che rende unico il popolo ebraico è descritto in questa parashà: nessun popolo ha commesso un atto di idolatria così grave come quello compiuto da Israele all'inizio della sua storia d'amore col Signore. Nei commenti ebraici si cerca in vari modi di diminuirne la gravità, ma non è assolutamente possibile. Come avvenne nel giardino di Eden, nel silenzio di Dio, l'uomo ha preso l'iniziativa e con la sua azione ha infranto il patto su cui si fondava il suo rapporto d'amore col Signore.
Dio allora comunica a Mosè la sua intenzione di distruggere il popolo; ma alla fine non lo fa. Se si giudica coi nostri metri, qualcuno potrebbe dire che il Signore ha un carattere emotivamente instabile: prima dice di voler fare di questo popolo il suo tesoro particolare, poi dice di volerlo distruggere, poi ci ripensa e non lo fa. Dio certamente ha emozioni, ma le esprime sempre nei limiti della sua giustizia. Il rapporto con gli uomini è sempre, in primo luogo, di carattere giuridico. L'accordo fatto con Israele era un patto di sangue, dunque il trasgressore doveva morire. Indipendentemente dalle emozioni, Dio manifesta il proposito di dar corso a questa forma di giustizia. Ma a questo punto interviene un "cavillo giuridico" di cui deve tener conto: è Mosè a presentarglielo.
L'INTERVENTO DI MOSÈ
Mosè è parte del popolo, ma non ha partecipato al peccato. Che fare? Dio fa a Mosè questa proposta: staccati dal popolo, lascia che io lo distrugga e "io farò di te una grande nazione" (Esodo
32:10). Proposta allettante, ma era la stessa che Dio aveva fatto ad Abramo (Genesi 12:1-3). Mosè glielo fa tornare alla memoria: "Ricordati di Abraamo, di Isacco e di Israele..."
, e lo invita a pentirsi dei suoi propositi (Esodo 32:11-13). Risultato: "L'Eterno si pentì del male che aveva detto di fare al suo popolo" (Esodo 32:14).
Apparentemente, Dio si è rimangiato la parola. Ma anche nell'Eden era successo qualcosa di simile; Dio aveva detto all'uomo: "Nel giorno che ne mangerai, certamente morrai" (Genesi 2:17); eppure l'uomo ne mangiò e in quel giorno non morì. Ma in quel giorno, come dice l'apostolo Paolo, entrò nel mondo la morte: "... per mezzo d'un sol uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato v'è entrata la morte, e in questo modo la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" (Romani 5:12).
In modo simile, l'adorazione idolatrica del vitello d'oro, all'inizio del rapporto d'amore con Dio, ha fatto entrare la morte nella storia del popolo ebraico. Non è forse questo un carattere peculiare di questo popolo: dare l'impressione di essere sempre sul punto di morire; far nascere in molti il pensiero che sia degno di morire, e in altri la voglia stessa di vederlo morire? Ma questo non è avvenuto; e non avverrà, perché questo popolo porta in sé un altro segno distintivo: quello della risurrezione dai morti.
Tornando alla figura di Mosè, si può osservare che in lui giocano due parti, una divina e una umana: rappresenta Dio davanti al popolo e rappresenta il popolo davanti a Dio. Sul monte Sinai Mosè gioca la parte del popolo e chiede a Dio di desistere dalle sue intenzioni genocide. Quando poi scende in pianura e vede il popolo gozzovigliare nell'idolatria, si mette dalla parte di Dio e rompe clamorosamente le tavole della testimonianza. Le tavole adesso sono rotte, ma continuano ad essere tavole di testimonianza; solo che invece di testimoniare di un patto concluso, adesso testimoniano di un patto rotto. E' in questo momento che Mosè prende coscienza dell'ira di Dio e se ne rende partecipe: ordina di colpire con la spada tutti coloro che sono coinvolti attivamente nell'orgia idolatrica.
UN PECCATO PERDONATO?
Il giorno dopo Mosè torna dall'Eterno, ma stavolta non per rimproverarlo. Ora capisce la gravità di quello che il popolo ha fatto; capisce le ragioni dell'ira di Dio e semplicemente, umilmente, chiede a Dio di concedere al popolo il suo perdono. Mosè dunque si mette di nuovo dalla parte del popolo, senza coinvolgersi nel suo peccato. Ai suoi fratelli dice: "... forse otterrò che il VOSTRO peccato sia perdonato" (Esodo 32:30); a Dio dice: "... perdona ora il LORO peccato" (Esodo 32:32). Mosè dunque sottolinea di non avere peccato, e tuttavia non prende le distanze dal popolo, ma è pronto a seguirne le sorti: "... altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto" (Esodo 32:32).
Prima Mosè aveva posto al Signore una questione di coerenza, ricordandogli il patto con Abramo, ora gli pone una questione di giustizia: può Dio cancellare, insieme al popolo peccatore, un uomo che fa parte del popolo ma non è stato partecipe del suo peccato?
Il Signore prende in considerazione l'istanza di Mosè e gli concede di non sterminare il popolo. Ma non dice che perdonerà. Alle suppliche di Mosè, Dio risponde con una concessione, non con il perdono: "Ora va', conduci il popolo dove ti ho detto. Ecco, il mio angelo andrà davanti a te; ma nel giorno che verrò a punire, io li punirò del loro peccato" (Esodo 32:34).
In nessuna parte dell'Antico Testamento si dice che Dio abbia perdonato al popolo il peccato del vitello d'oro. Potrebbe essere questo il "peccato originale" di Israele, che il mondo cerca continuamente e molti dicono di aver trovato, chi qui chi là? Forse, ma se è così, è un peccato contro Dio, non contro gli uomini. Ed è un peccato a cui Dio stesso si è preoccupato di porre rimedio. Quale? Per capirlo bisogna aspettare il seguito. Fino alla venuta del Messia.
(da "Sta scritto", pp. 138-143)
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Verona – L’emozione del Bar Mitzvah
A distanza di alcuni anni dall’ultima volta nella sinagoga di Verona si è celebrato un Bar Mitzvah, la cerimonia di ingresso nella maggiorità religiosa ebraica che i maschi raggiungono all’età di 13 anni. A compiere il grande passo è stato David Harkatz Gaida, preparato negli studi dal rabbino della città Tomer Corinaldi. “È stata una cerimonia commovente, non consueta per una piccola comunità come la nostra”, spiega il padre del ragazzo, il tenore italo-argentino Angel Harkatz. “In sinagoga c’erano tanti amici non solo veronesi ma anche di altre comunità, venuti anche da lontano per condividere la nostra gioia. È stata una giornata indimenticabile. Mia moglie Georgia e io siamo riconoscenti a chi l’ha resa possibile: oltre al rav e a sua moglie Zohar per il loro prezioso aiuto, al Consiglio comunitario per la generosa partecipazione, ai parenti e amici accorsi”. David è diventato Bar Mitzvah lo scorso Shabbat, leggendo in sinagoga la parasha Tetzavvé, la ventesima porzione settimanale della Torah. Il giorno dopo ha indossato per la prima volta i Tefillin, i filatteri che si legano sul braccio sinistro e sulla testa.
(moked, 1 marzo 2024)
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Shin Bet e polizia di Gerusalemme sventano un piano terroristico coordinato con Hamas a Gaza
Lo Shin Bet e l'Unità centrale della polizia distrettuale di Gerusalemme hanno rivelato giovedì un complotto terroristico sventato, pianificato da due terroristi in coordinamento con un terrorista di Hamas a Gaza.
Le due agenzie hanno aperto un'indagine sui due uomini all'inizio di febbraio, dopo che erano stati sollevati sospetti sul fatto che i due individui avessero contattato un agente straniero e complottato per commettere terrorismo.
Lo Shin Bet e la polizia distrettuale di Gerusalemme hanno scoperto il complotto utilizzando agenti sotto copertura. Il 6 febbraio 2024, gli investigatori del dipartimento di polizia del distretto di Gerusalemme e un'unità sotto copertura della polizia di Gerusalemme hanno arrestato i due sospetti.
• I sospetti di Nablus arrestati
Uno dei terroristi è un 17enne israeliano residente a Shuafat, Gerusalemme Est, che lavorava insieme al cugino, il secondo terrorista, un 29enne palestinese residente a Nablus. Con l'aiuto dell'IDF, il terrorista più anziano è stato arrestato e preso in custodia. I due sospetti sono stati interrogati e la loro detenzione è stata prolungata.
L'indagine della polizia ha rivelato che i terroristi avevano contattato di propria iniziativa un membro di Hamas nella Striscia di Gaza prima dello scoppio della guerra tra Israele e Hamas.
Il minorenne ha cercato di compiere un attacco terroristico contattando membri di Hamas per imparare a produrre materiali esplosivi. Ha anche cercato su Internet istruzioni su come costruire bombe e ha usato Telegram per conversare con il membro di Hamas.
• Negoziazione con un terrorista di Hamas
Il giovane terrorista ha contattato il cugino, gli ha raccontato il suo piano e gli ha chiesto di negoziare con il terrorista di Hamas, identificandosi come parte di una cellula terroristica che voleva compiere attacchi contro gli israeliani. Il terrorista più anziano ha accettato di aiutare il terrorista più giovane e si è assunto la responsabilità di continuare i contatti e i negoziati con il terrorista di Hamas a Gaza.
Oltre a ricevere istruzioni su come fabbricare esplosivi, i terroristi hanno cercato di ottenere armi e finanziamenti per realizzare una sparatoria e un attentato contro gli israeliani. Dopo lo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, i contatti tra i due terroristi e gli operativi di Hamas a Gaza sono stati interrotti.
Con la conclusione delle indagini, sono state raccolte prove contro i due terroristi e all'inizio di questa settimana è stata depositata la dichiarazione del procuratore contro di loro. La loro detenzione è stata prolungata e, giovedì mattina, l'ufficio del procuratore ha annunciato che sarebbe stata presentata un'accusa contro i due terroristi.
(Info-Israele.news, 1 marzo 2024)
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Festival di Sanremo e oltre: sono solo canzonette? ®
Ebbene no, il caso Ghali lo dimostra
di Paolo Salom
[Voci dal lontano occidente] Quando ero bambino, nel lontano Occidente, il ricordo della Shoah era ovunque. E l’antisemitismo, che pure covava in molte anime, era comunque un sentimento da nascondere, un’idea che suscitava orrore per il senso comune. Mai più, si diceva, mai più l’odio contro gli ebrei tornerà a correre nella nostra società, in Europa, nel mondo. Già, il mondo: allora era diviso in due. E l’Unione Sovietica sosteneva con parole e fatti l’unica parte di umanità che ancora sognava di distruggere gli ebrei, tutti, non soltanto Israele: sosteneva gli arabi.
Molte cose sono cambiate da allora. Alcune in meglio: lo Stato ebraico, a dispetto di una situazione di conflitto permanente e di tragedie ripetute, continua a progredire, a crescere, a vivere. Diversi Paesi arabi hanno firmato la pace con lo Stato ebraico, altri sono pronti a farlo. In Occidente, invece, il tempo sembra essere fluito al contrario. L’antisemitismo è riemerso nelle forme più odiose. Oggi viene chiamato antisionismo ma il significato è il medesimo. Gli odiatori degli ebrei e di Israele sono tornati a farsi vedere, a testa alta, nelle nostre strade, nei nostri quartieri, nelle scuole e nelle università. Agli ebrei è consigliato di non mostrare pubblicamente forme di religiosità che possano rivelare la loro identità. Capita che giovani e meno giovani siano aggrediti e picchiati, qualche volta ci scappa il morto (è successo a Los Angeles, qualche mese fa, quando un pensionato che manifestava per Israele è stato colpito sulla testa con un megafono da un docente di origine araba). Qualcuno dirà: questo odio è di importazione, è arrivato insieme ai milioni di immigrati musulmani che hanno lasciato i loro Paesi per rifarsi una vita nel lontano Occidente. Sarà anche vero: ma per noi cosa cambia? Cosa cambia se un cantante famoso come Ghali (di famiglia tunisina) può permettersi, senza contraddittorio alcuno, di vomitare le sue menzogne (“fermate la guerra, fermate il genocidio!”) dal palco di Sanremo, mentre metà Italia (e chissà quanti altri Paesi collegati) ascoltano nei loro salotti le amene canzonette i cui motivi entrano subito nelle orecchie?
Che cosa cambia per noi quando il sistema mediatico (e badate: in Italia siamo messi molto meglio che altrove) ripete senza verifica alcuna le menzogne diffuse da Hamas e i loro padroni (leggi: Iran) su quanto accade a Gaza? I pochi, non soltanto ebrei, che osano dire la verità – e cioè che a Gaza non c’è stato alcun genocidio ma solo una guerra che Israele ha dovuto fare per la propria sopravvivenza e dopo essere stato attaccato – sono immediatamente aggrediti e messi all’indice come “servi dei sionisti”. In poche parole, un mondo all’incontrario, proprio come negli anni fatali del nazismo e del fascismo, dove chi lotta per il bene è considerato “il male assoluto”, e chi cerca il vero genocidio, quello degli ebrei (di nuovo!), è un “combattente per la libertà”.
È certo comprensibile che molti tra noi siano spaventati. Il futuro per la diaspora è tornato a mostrare nuvole oscure. Questa guerra, provocata ad arte con una crudeltà mai vista dai tempi tragici della Seconda guerra mondiale, ha scatenato le forze più malvagie dell’umanità, ha riportato il mondo all’epoca di violenze e pogrom inventati ad arte per nascondere i fallimenti e le mancanze di altri. Noi siamo un obiettivo facile. Ma abbiamo la forza della consapevolezza con noi: non siamo soli, e Israele è lì, solido e vitale, il nostro scudo dal male.
(Bet Magazine Mosaico, 1 marzo 2024)
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Oslo antisemita
di Giulio Meotti
La "catena per la pace" dei musulmani norvegesi di fronte alla sinagoga di Oslo. Dietro a una manifestazione come questa, dove la parola "pace" viene usata al posto di "distruzione di Israele", c'è la Norvegia: il paese europeo in assoluto più ostile a Israele.
“Per favore, boicottate il mio paese”, ha scritto mercoledì sul Wall Street Journal Torkel Brekke, professore di Storia delle religioni all’Università di Oslo. E’ successo che mentre la Cina diventava il principale partner della Norvegia nella ricerca tecnologica, superando Stati Uniti e Regno Unito, quattro istituzioni accademiche in Norvegia sospendevano le collaborazioni con le università israeliane. L’Università di Oslo ha interrotto i legami con l’Università di Haifa. L’Università di Notodden ha interrotto i rapporti con l’Università di Haifa e l’Hadassah College di Gerusalemme. L’Università di Bergen ha cessato di collaborare con l’Accademia di arti Bezalel, così come la Scuola di architettura di Bergen. La Norvegia è il paese più antisraeliano dell’emisfero occidentale. Il Consiglio comunale di Trondheim, la terza città più grande del paese, ha approvato una mozione che chiede ai residenti di boicottare personalmente i beni israeliani, una città che aspira a essere “deisraelizzata”. Poi è stata la volta di un’altra città norvegese, Tromso, il cui Consiglio comunale ha approvato una mozione simile. Tromso, la città dove i turisti da tutto il mondo vanno a vedere l’aurora boreale, è gemellata con Gaza e ha ospitato anche funzionari di Hamas in visita. Quando arrivarono i nazisti, i norvegesi gli consegnarono tutti gli ebrei di Tromso, dove oggi sono rimasti soltanto due ebrei.
Nonostante gli ebrei in Norvegia siano solo lo 0,003 per cento della popolazione totale, Oslo è ormai la capitale dell’antisemitismo europeo.
Tutte le università norvegesi si sono rifiutate di ospitare Alan Dershowitz per un giro di conferenze. II sindacato norvegese che rappresenta i lavoratori dell’energia e delle telecomunicazioni ha boicottato l’Histadrut, il sindacato israeliano.
“Sono profondamente turbato nel constatare che una moderna forma di antisemitismo si sta diffondendo nel mio paese”, scrive Brekke sul Journal. “Sebbene mascherato sotto un altro nome – ‘antisionismo’ – le sue radici sono rintracciabili in un ben documentato apparato sovietico di propaganda anti israeliana e anti occidentale. Questa ideologia velenosa è una minaccia per gli ebrei. “Nel frattempo, il settore norvegese della ricerca e dell’innovazione si è affrettato ad approfondire la cooperazione con la Cina”.
“La Norvegia è uno dei paesi più aggressivi al mondo contro Israele”, dice Brekke al Foglio. “Nel 1967 la Norvegia ha visto l’ascesa di una sinistra radicale per la quale i palestinesi erano un simbolo. Qui c’è una ambizione globale a guidare la lotta contro Israele: l’antisionismo è diventato parte del mainstream. Potevi già trovare negli anni Ottanta richieste di boicottaggio d’Israele. Ma oggi a causa della guerra a Gaza nelle università ci sono voci apertamente a favore. Dagli anni 70 ai Duemila, come in Unione sovietica, qui c’era una posizione antisionista classica. Oggi descrivono Israele come un progetto coloniale da smantellare con il ritorno dei rifugiati. Dopo il 7 ottobre abbiamo avuto una esplosione di simboli palestinesi sui social. Vorrebbero un felice stato multiculturale al posto di Israele, uno stato utopico, ‘oh non vogliamo vedere gli ebrei morire ma uno stato unico per arabi ed ebrei’, c’è molta naïveté. C’è una piccolissima comunità ebraica in Norvegia, molto vulnerabile, sotto attacco ed è uno choc. Molti pensano che non hanno un futuro qui”.
E mentre il grande quotidiano nazionale Aftenposten scrive che “la Norvegia rischia di diventare un paese senza popolazione ebraica”, il rabbino capo di Oslo, Yoav Melchior, questa settimana dice: “Mai tanto antisemitismo dai tempi del nazismo”.
Il Foglio, 1 marzo 2024)
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I capisaldi della propaganda
Chi, sano di mente e addetto alla propaganda ne modificherebbe dei capisaldi che funzionano assai bene?
Quello che è accaduto oggi a Gaza, dove 38 camion pieni di viveri sono stati assaliti dalla folla è diventato l’ennesimo atto di accusa contro l’IDF, responsabile secondo Hamas (secondo Hamas…) di avere sparato intenzionalmente sui civili causando la morte di cento di loro. Non sarebbe stato il sovraffollamento della calca a causare i morti, ma l’intento omicida dell’esercito israeliano.
Nel pieno corso della Seconda Intifada, aprile 2002, vi fu a Jenin un combattimento virulento tra esercito israeliano e palestinesi. Gli israeliani vennero accusati di avere ucciso deliberatamente 500 persone, che presto aumentarono esponenzialmente, raggiungendo, secondo la solerte voce di Ahmed Abdel Rahman, allora Segretario generale dell’Autorità Palestinese, l’ordine delle migliaia. Si parlò di genocidio. Prima che le cifre reali dei deceduti venissero rese pubbliche, 53 palestinesi e 23 soldati israeliani, la versione falsa del massacro era stata diffusa con successo.
Lo stesso anno il regista arabo israeliano Mohammad Bakri realizzò un film dal titolo, Jenin, Jenin nel quale i soldati israeliani venivano mostrati come assassini a sangue freddo che sparavano su donne, anziani e bambini. Portato successivamente in tribunale dai soldati reduci dell’episodio, il regista dichiarò che la sua versione dei fatti era “artistica”, ovvero intesa a presentare la “verità palestinese”, in altre parole, a farsi megafono della propaganda.
Il 18 ottobre scorso a Gaza, l’esplosione che aveva causato un incendio all’ospedale Al Ahli, causata da un razzo lanciato male dalla Jihad islamica, venne subito attribuita a un bombardamento volontario di Israele. I morti, dai presunti 500 annunciati da Hamas, diventarono poco più di 10, ma prima che fosse resa pubblica la verità dei fatti, la fake news aveva già fatto il giro del mondo.
Hamas ha solo una possibilità di sopravvivere nella Striscia, e questa possibilità è l’interruzione della guerra, senza questa opzione non ha alcuna possibilità di potere avere la meglio sull’esercito israeliano. Per questo motivo, più ci sono morti civili, più Hamas può lucrare sulla pressione internazionale affinché Israele interrompa l’operazione militare conseguenza dell’eccidio del 7 ottobre. Più Israele viene considerato programmaticamente omicida, meglio è.
La presentazione distorta dei fatti e la criminalizzazione di Israele è un elemento fondamentale per riuscire nell’intento.
(L'informale, 29 febbraio 2024)
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Israele: operazione di terra contro Hezbollah a primavera?
Israele sta preparando una operazione di terra contro Hezbollah a primavera? Funzionari vicini al Presidente degli Stati Uniti Joe Biden temono che Israele stia pianificando di lanciare un’operazione di terra contro Hezbollah in Libano nei prossimi mesi, secondo quanto riportato dalla CNN.
Secondo il rapporto, l’amministrazione Biden ha tenuto briefing di intelligence sulla questione, preparandosi alla possibilità che il gruppo terroristico Hezbollah, sostenuto dall’Iran, non possa essere convinto a ritirarsi dal confine attraverso misure diplomatiche.
Parlando con la CNN a condizione di anonimato, un funzionario ha dichiarato che l’amministrazione Biden “opera nell’ipotesi di un’operazione militare israeliana nei prossimi mesi”.
Il funzionario aggiunge che non si aspetta un’operazione imminente “nelle prossime settimane”, ma “forse in primavera”.
Dall’8 ottobre, Hezbollah ha scambiato il fuoco con l’esercito israeliano attraverso il confine meridionale del Libano, a sostegno del suo alleato palestinese Hamas, che ha lanciato un devastante attacco in Israele il 7 ottobre.
(Rights Reporter, 29 febbraio 2024)
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Tunisia: folla assalta una sinagoga abbandonata
di Nathan Greppi
Domenica 26 febbraio, una folla ha preso d’assalto e incendiato gli alberi nel cortile di una sinagoga abbandonata nella città di Sfax, sulla costa est della Tunisia. Secondo il Times of Israel, nessuno sarebbe rimasto ferito nell’attacco, anche perché oggi non risulta vivere più nessun ebreo a Sfax.
Oltre a dare fuoco al cortile, i manifestanti hanno danneggiato le finestre della sinagoga. Tuttavia, i vigili del fuoco sarebbero riusciti a domare l’incendio prima che l’edificio finisse bruciato.
Dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas scoppiata dopo il 7 ottobre, si tratta del secondo episodio di questo genere in Tunisia: a metà ottobre, quando Israele venne accusata di aver colpito l’ospedale Al-Ahli a Gaza (in realtà colpito da un razzo della Jihad Islamica palestinese), centinaia di manifestanti sventolanti bandiere palestinesi ridussero in macerie il sito di un’antica sinagoga ad Al Hammah, dove è sepolto il cabalista del ‘500 Rav Yosef Ma’aravi. Il tutto senza che la polizia intervenisse.
Un tempo la Tunisia ospitava una numerosa comunità ebraica. Tuttavia, se nel 1948 erano 105.000 gli ebrei nel paese, oggi ne sono rimasti appena un migliaio. Il 9 maggio 2023, sull’isola di Djerba, un militare tunisino scatenò una sparatoria nella Sinagoga El Ghriba, sull’isola di Djerba. Il bilancio complessivo fu di 6 morti e 8 feriti.
(Bet Magazine Mosaico, 29 febbraio 2024)
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Ci risiamo: Eurovision rifiuta un’altra canzone israeliana
di Michelle Zarfati
Ancora incertezza sulla partecipazione d’Israele all’Eurovision Song Contest. Dopo aver rifiutato la prima canzone “October Rain” di Eden Golan, l’Unione Europea di radiodiffusione (EBU) ha respinto anche il pezzo alternativo dal titolo “Dance Forever” della stessa cantante. A rivelarlo il notiziario israeliano Ynet sulla base di una dichiarazione rilasciata dal Ministero degli Esteri.
“Dance Forever”, che fa riferimento al massacro di Hamas avvenuto il 7 ottobre al Nova Festival, in cui i terroristi di Hamas hanno ucciso 364 giovani israeliani e rapito altre decine di ragazzi a Gaza, sembra essere stato respinto per lo stesso motivo. Perché considerato nuovamente “troppo politico”.
Il presidente Isaac Herzog ha commentato dicendo che “si sta occupando per assistere con ogni mezzo alla questione Eurovision. E che è importante garantire che Israele rimanga in gara”. Anche il ministro degli Esteri, Israel Katz, ha protestato contro la decisione, dicendo: “siamo autorizzati ad utilizzare la musica per comunicare ciò che abbiamo passato”.
La seconda canzone, presentata all’EBU insieme a October Rain, è stata scritta dalla cantante che dovrebbe rappresentare Israele all’Eurovision, Eden Golan,
insieme al compositore Ron Biton, al musicista Yinon Yahel e alla cantante Mai Sepadia. Nel frattempo, i funzionari israeliani continuano nella loro ricerca di una soluzione con l’EBU, ma le fonti coinvolte nelle discussioni dicono di essere “pessimiste” circa il raggiungimento di un risultato favorevole.
(Shalom, 29 febbraio 2024)
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Il governo paga l’effetto Zelensky
Il sostegno acritico alla causa ucraina non piace e inizia a essere punito nelle urne. La «credibilità internazionale» non sempre porta consensi: basta pensare a Draghi.
di Franco Battaglia
I commentatori politici che hanno analizzato il voto in Sardegna hanno trascurato, a me pare, il ruolo avuto dalla posizione del governo sull'Ucraina. lo non sono un commentatore politico, ma un semplice elettore che assume che ciò che passa per la mia mente passi anche per quella di altri semplici elettori. Mai e poi mai avrei potuto immaginare di essere gratificato di arrivare a 70 anni e vedere questo mio Occidente sostenere con le armi un Paese nelle mani di corrotti e fascionazisti. Lo Stato ucraino è giovanissimo, ha appena 33 anni, ma nacque male: già nella Costituzione che si dette ghettizza quasi il 40% dei propri abitanti, che sono quelli che parlano russo, perché all'articolo 10 il russo è bandito dalla lingua ufficiale del Paese. Meraviglia che l'Occidente, sedicente democratico, sia stato determinato e sia determinato ad accasarselo senza chieder di cambiare quell'articolo: la guerra civile è cosa che stava già scritta lì. E poi il colpo di Stato. Anzi i colpi di Stato. Nel 2008 la parte che vinse le elezioni fu costretta a rinunciare a governare: rifecero le elezioni e si mise a governare la parte che pochi mesi prima aveva perso, ma governarono talmente male che furono mandati a casa. Nuovo colpo di Stato nel 2014, a danno di chi aveva vinto legittime elezioni e quanto scritto in Costituzione si realizzava: la guerra civile, che si protrasse per 8 anni con l'Occidente desaparecido.
Amici ucraini mi hanno raccontato una scena d'ordinaria quotidianità nel Paese: la polizia ha il potere di fermare gli autobus in transito per la strada, entrare, adocchiare i viaggiatori maschi, e su due piedi arrestarli e mandarli o al fronte o, se renitenti, in prigione. L'Occidente ha distrutto un Paese,
Volodymyr Zelensky ha distrutto il proprio Paese. Vedere
Meloni che se lo abbraccia e bacia ... beh, credo sia troppo. Chiunque può studiare il caso Ucraina: non si vede una ragione, neanche una, per stare dalla sua parte. Chiunque può giocare a indossare i panni del giudice, ascoltare le due parti contendenti e farsi un'opinione delle cose: il fatto è che la narrazione occidentale emerge fasulla e illogica, quella di
Vladimir Putin no.
Ecco,
Meloni paga (e vieppiù pagherà in futuro) le sue scelte di campo sulla guerra. Converrebbe a tutti che ella prenda le distanze da quel caporale ucraino senza sbilanciarsi con inopportune e stomachevoli smancerie, che può lasciare tutte alla
Ursula von der Leyen. Se spera di monetizzare la conquistata credibilità internazionale, pensi a
Mario Draghi, internazionalmente accreditatissimo ma, si fosse presentato alle elezioni, sai i dissensi. Stare nella e sostenere la Ue, stare nella e sostenere la Nato sono cose che van bene e possono farsi digerire a chi la vede diversamente, ma solo se lo starci dentro e il sostenerle significa far sentire la propria voce e non genuflettersi. E’ la voce che vorrebbe sentire chi
Giorgia Meloni ha votato è la voce di chi afferma: «Italia innanzitutto». Ma coi fatti, non con le parole. Le ultime bollette di luce e gas che mi sono arrivate io posso permettermele perché sono fortunato, ma molti non lo sono altrettanto e prima di andare al seggio devono passare alla posta o in banca a pagarle.
Giorgia Meloni governerà fino alla fine della legislatura perché ha i numeri, conquistati con la fiducia e con la speranza. Ha ancora altri anni davanti a sé per convincere che saranno state fiducia e speranza ben poste. I suoi elettori non sono né gli ottusi che del Pd votano anche uno spaventapasseri, né i vaffaisti del M5S, tutta pancia e niente cervello, ma sono elettori che a non andare a votare non ci pensano due volte. Ci rifletta, Giorgia.
(La Verità, 29 febbraio 2024)
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Ottimo articolo, conciso e puntuale, condivisibile dall'inizio alla fine. Giorgia Meloni, che su questioni di politica interna sa esprimersi in modo documentato ed efficace, su questioni di grosso peso internazionale ha mostrato, nelle prese di posizione e nelle interviste, una preoccupante mancanza di competenza e superficialità. E' preoccupante, se essere credibili in Europa e nell'Occidente significa essere manovrabili da chi muove le pedine sulla scena internazionale. Ottenere l'accordo con personaggi come Ursula von de Leyen, manifestare tenerezze con saltimbanchi come Zelensky non porta consensi e, soprattutto, non fa bene sperare per il bene della nazione e dei cittadini. Speriamo che se ne accorga presto, lei e il suo governo M.C.
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Scenari auspicabili per il Day After a Gaza
di David Elber
Ormai sono emerse prove così sostanziali di infiltrazioni terroristiche al loro interno, da rendersi necessario impedire al suo personale l’accesso al territorio. Al contempo va impedito che i lauti finanziamenti internazionali giungano ai gruppi terroristici. Pensare che dei terroristi sotto copertura ONU possano riprendere a controllare la scolarizzazione della popolazione palestinese è uno dei più gravi errori che si possono commettere, in grado di inficiare completamente la vittoria sul campo. L’educazione sia a Gaza che in Giudea e Samaria deve essere strettamente monitorata e denunciata se assumerà nuovamente i connotati antisemiti attuali. Ciò potrà avvenire solo con il concreto impegno di USA e EU, entrambi finanziatori del sistema educativo palestinese. Allo stesso modo, le infrastrutture amministrative essenziali per la popolazione civile dovranno essere affidate a palestinesi non collusi con il terrorismo e mantenute strettamente sotto una reale supervisione internazionale. Impegni di questo tipo assomigliano a meri auspici ma sono alla base di ogni futuro colloquio di pace. Se l’educazione dei palestinesi rimane quella attuale parlare di “pace” è solo una pura illusione.
Come cercare di fare perdere a Israele guerra? La risposta a questa domanda si articola su due fronti. Il primo riguarda gli Stati Uniti, il principale alleato dello Stato ebraico e quello che, dal 7 ottobre in poi, pur continuando a fornire aiuto militare, ha iniziato sempre di più a rimarcare distanze e malcontento sulla conduzione della guerra.
Bisogna procedere con ordine. Dal sincero cordoglio e dalla costernazione a seguito del barbaro eccidio del 7 ottobre perpetrato da Hamas, e dal viaggio in Israele di Joe Biden, dalla solidarietà espressa, dai gesti concreti, l’invio di forze e portaerei per mostrare all’Iran e a Hezbollah, nei giorni subito dopo la risposta israeliana su Gaza, che gli Stati Uniti non avrebbero permesso un allargamento del conflitto.
Il tempo passa veloce, i morti civili a Gaza aumentano anche se il loro numero è molto inferiore a quello dei morti nelle guerre americane in Iraq, ma la propaganda contro Israele è da sempre la più forte e pervasiva, e si arriva alla surreale accusa di genocidio, nonostante i morti dichiarati, tra cui non si distingue quali sono i miliziani di Hamas e i civili veri, non siano neanche l’uno per cento degli abitati di Gaza. La Casa Bianca inizia a rimodulare il suo appoggio. Improvvisamente la reazione israeliana diventa “over the top”, i bombardamenti, “indiscriminati”, i palestinesi non vanno “deumanizzati”. In Cisgiordania, quattro coloni vengono colpiti da sanzioni decise a Washington a causa di “violenza intollerabile”, cioè sassate, ferimenti, intimidazioni, accuse mosse da ONG, e dalle quali viene omesso il contesto, la scia continua di omicidi da parte palestinese che ha insanguinato la Cisgiordania nel 2023. Su questa virata pesano due fattori, la campagna elettorale americana, e, in particolare, lo scontento della comunità musulmana con epicentro in Michigan nei confronti di Joe Biden, il rischio dell’astensione in uno Stato chiave, l’incalzare dell’avversione progressista verso Israele.
Washington ha ora bisogno che si giunga a un accordo con Hamas per la liberazione degli ostaggi, prima del 10 marzo, inizio del mese sacro di Ramadan. Costi quel che costi? L’importante è ottenerlo, poi si vedrà. Intanto si fermerà la guerra per almeno sei settimane, utili per non farla riprendere, per abortire l’offensiva di Israele su Rafah. Chi non vuole la tregua viene bollato come estremista, è il caso di Bezalel Smotrich e di Itamar Ben Gvir.
Netanyahu tiene botta, e risponde per le rime quando Joe Biden, sotto dettatura, dichiara che con l’attuale governo, Israele perderà il supporto internazionale. Citando un sondaggio recente, il primo ministro israeliano afferma che negli Stati Uniti l’appoggio al governo in carica e all’obiettivo di sradicare Hamas è maggioritario.
Nella dichiarazione di Biden c’è un evidente messaggio, rivolto allo “stronzo” Netanyahu, cambia alleati o, vieni a più miti consigli se non vuoi problemi grossi. Netanyahu non si fa intimidire. Sa che un eventuale boicottaggio di Israele da parte americana mentre sta combattendo una guerra, potrebbe costare caro a Biden. Otterrebbe sì l’approvazione islamica e in parte il plauso democratico, ma darebbe al campo repubblicano e a Trump un assist formidabile. Il sottotesto di Netanyahu è: fai attenzione, gli Stati Uniti sono a maggioranza per la sconfitta di Hamas.
Biden ha bisogno di un cessate il fuoco. Glielo chiede Dearborn, glielo chiede la parte più radicale del partito democratico, glielo chiede la Chiesa Episcopale afroamericana, glielo chiede il Dipartimento di Stato, ma il cessate il fuoco non è nell’interesse di Israele. L’interesse di Israele è di eliminare da Gaza la minaccia di Hamas, ripristinare la sicurezza a sud, evitare un altro 7 ottobre. Le amministrazioni americane passano, Israele resta.
Il secondo fronte è quello interno. È quello rappresentato dalla sinistra, dal radicalismo di Ehud Barak, per il quale, Netanyahu è diventato un’ossessione, è quello di chi dice che la guerra a Gaza non può essere vinta e che l’obiettivo principale è la liberazione degli ostaggi. Sono i nemici di Netanyahu, sono i conciliatori, sono quelli che, sì, la sicurezza di Israele è importante, certo, ma prima di tutto va tolto di mezzo il governo in carica e va sostituito con un governo aperturista, più pronto ad accordarsi con l’agenda americana che vorrebbe dissotterrare il cadavere dello Stato palestinese seppellito da due intifade, soprattutto la seconda, quella più violenta, per imporlo, obtorto collo ai recalcitranti.
Barak, di suo, aveva già concesso ad Arafat nel 2000, tutto il possibile, e fu grazie al rifiuto arabo se da 24 anni non sorge uno Stato arabo nel cuore di Israele, di cui, in questi ultimi sedici anni, Hamas ha offerto un campione a Gaza culminato con la mattanza atroce di ottobre.
Una guerra si può vincere solo sconfiggendo l’avversario, chi l’ha provocata. Non esistono vittorie a metà, si chiamano sconfitte. Rafah deve essere l’obiettivo successivo, la continuazione, prima del finale di partita, nonostante Joe Biden, nonostante coloro, all’interno di Israele, per i quali la salvezza degli ostaggi vale più del futuro del paese.
(L'informale, 28 febbraio 2024)
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“Le sciarpe dell’amore”: un piccolo grande gesto per gli ostaggi israeliani
di Jacqueline Sermoneta
Lavorare a maglia per gli ostaggi, sperando nella loro liberazione. Questa è l’iniziativa partita da Kate Gerstler, Saven Hilkowitz e Shawna Goodman Sone che, in seguito ai tragici eventi del 7 ottobre, hanno deciso di realizzare sciarpe per gli israeliani ancora prigionieri a Gaza, da donare al loro ritorno.
Tuttavia, come riporta il Times of Israel, il progetto “Le sciarpe dell’amore” è poi diventato internazionale: le donne, infatti, immigrate in Israele da Paesi diversi – Canada, Sud Africa e Inghilterra -, dopo aver pubblicato un appello sui social, hanno scatenato moltissimi volontari, che si sono offerti di aiutarle nella realizzazione. Ad ogni persona, dunque, è stato comunicato il nome del rapito: “Mentre si lavora a maglia o all’uncinetto, si pensa a quell’ostaggio”, ha raccontato Hilkowitz che ha confezionato la sciarpa per Ella Elyakim, otto anni, ora rilasciata. “Ci siamo sentite come se li avessimo conosciuti. – ha aggiunto – Osservi il loro viso su un poster, ma quando lavori a maglia per loro, pensi, ‘A questa bambina piacerà il rosa o il verde? È sportiva o è interessata ad altro?”
Già a dicembre, le tre donne avevano ricevuto decine di sciarpe – ora il numero è salito a circa 140 – , accompagnate spesso da note personali. “Le lettere sono così profonde. Quando abbiamo iniziato, non pensavamo che sarebbe successo tutto questo. – ha detto Goodman Sone – Non avevamo idea che [realizzare sciarpe] avrebbe potuto nutrire così tante persone e calmare il senso di impotenza”.
Un’altra questione che le donne hanno affrontato e superato è stata la logistica della consegna. Shawna Goodman Sone, fondatrice del programma Summer Camps Israel, attraverso l’Agenzia Ebraica per Israele è riuscita a entrare in contatto con il ‘Forum sugli ostaggi e le famiglie scomparse’ e ha organizzato il trasporto delle sciarpe in una tenda allestita nella Piazza degli ostaggi di Tel Aviv. Inoltre, grazie ad un amico legato alla comunità beduina, ne sono state consegnate altre quattro, realizzate per ostaggi beduini, due dei quali sono stati liberati alla fine di novembre a Rahat. “Tutto questo ci ha avvicinato alla causa e alla realtà della situazione. – ha aggiunto Goodman Sone – Si tratta di un interesse condiviso e un piccolo gesto sociale; e cercare di fare qualcosa invece di limitarsi a lasciar scorrere il destino”. “Per chi realizza sciarpe – conclude Hilkowitz – diventa un lavoro sacro”.
(Shalom, 28 febbraio 2024)
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Dopo il 7 ottobre - Economia di guerra, territorio inesplorato
di Claudio Vercelli
La guerra non è mai un fatto esclusivamente militare. Come tale, la guerra chiama in causa il riversamento che si misura, pressoché da subito, sui civili. Ossia sulle società, nel loro insieme e quindi nel lungo periodo. Veniamo al dunque. Il ministero delle Finanze d’Israele ha stimato che nel 2023, rispetto alle attese di una crescita del 2,7% (in parte destinata anche a coprire gli effetti altrimenti depressivi, di lungo periodo, del Covid), la reale evoluzione del Paese non supererà il 2%. Possono sembrare stime irrilevanti e per nulla problematiche. In sé, tuttavia, potrebbero segnare anche un cambio di passo, tenuto conto che anzitempo il Paese cresceva di anno in anno oltre il 4%. Ma da quando il conflitto con i palestinesi si è rabbiosamente riacceso, l’attenzione verso Israele – come potenziale partner di investimenti internazionali – si è ridotta. Non a caso. Tanto per capirci: l’afflusso di capitali esteri, per Gerusalemme, è da sempre strategico rispetto alla sua economia. La quale, altrimenti, non può basarsi sulle sue sole risorse: non ha le spalle sufficientemente larghe. Da quarant’anni a questa parte l’attrattività degli investimenti stranieri è quindi divenuta un nodo cruciale dell’evoluzione israeliana.
Se fino agli anni Settanta un’economia essenzialmente “statalista”, quindi dipendente dal supporto pubblico nazionale, sembrava essere l’autentica nervatura di un’intera collettività, da allora in poi le cose sono cambiate velocemente. In accordo non solo con l’incontrovertibile rilevanza degli endemici problemi nazionali (inflazione sistematica, cronico deficit della bilancia commerciale, disoccupazione crescente, strutturale debolezza della moneta nazionale, potenziale default del bilancio statale e così via), ma anche con una diversa idea del ruolo dello Stato rispetto alla sfera pubblica. A oggi, in Israele, non a caso abbiamo a che fare con un sistema misto, che coniuga pubblico e privato – al pari dell’Italia e delle società europee. Laddove il pubblico, comunque, sempre meno surroga il privato. Ma non per questo si risolve in esso, di fatto altrimenti deflettendo dai suoi obblighi. Tuttavia, se le economie continentali europee vivono e crescono in un contesto regionale non ostile, per Israele le cose sono ben diverse. E il paese sconta il suo isolamento geografico e politico. Hamas, attaccando, dal 7 ottobre 2023 in poi aveva calcolato anche questo effetto di ritorno in quanto, nelle società odierne, non conta esclusivamente l’aspetto ideologico, politico, civile e culturale. Semmai, interviene anche, e soprattutto, quello materiale.
Per capirci: si sta insieme solo e comunque se i propri bisogni elementari, come tali incomprimibili, ma anche non solo questi, possano essere soddisfatti: non si tratta esclusivamente di un calcolo di natura materialista ed utilitario. Poiché nessuna esistenza individuale, così come di gruppo, riesce a riprodursi se non trova degli addentellati, ovvero un qualche riscontro, nel comune sentire. Che è tale poiché non solo dei propri pari ma anche del resto del mondo. In tale senso, al momento, Israele è comunque isolato. Ne potremmo discutere all’infinito. Non si tratta di attribuire colpe assolute (che sono comunque molte) così come di riconoscere ragioni esclusive. Semmai, è questione di andare oltre l’asfittico orizzonte che si manifesta contrapponendo «identità» incontrovertibili (ossia, “io sono a prescindere da tutto il resto”) a quant’altro.
Torniamo al dunque, ovvero all’economia. Per l’anno appena iniziato il ministero delle Finanze prevede una crescita nazionale dell’1,6%. Qualora, si intenda, che la «guerra del Sukkot» si esaurisca progressivamente con l’attenuazione delle violenze al confine meridionale, quei sessanta chilometri di linea di interposizione che dividono Israele a Gaza. Le medesime ipotesi ritengono che se tutto finisse a breve il Prodotto interno lordo d’Israele potrebbe licenziarsi, al 31 dicembre dell’anno corrente, sulla linea del 2,2%. Qualora la conflittualità dovesse proseguire per tutto l’anno presente, allora non si andrebbe oltre lo 0,2% – posto che ad ottobre del 2023 l’aspettativa di crescita ruotava invece intorno al 3,4%. Una differenza, quindi, non da poco. In quanto se la crescita di un paese è data anche dal livello dei consumi individuali e familiari, ad oggi ci si trova dinanzi ad una forte compressione degli uni così come degli altri. Non di meno, le esportazioni – voce fondamentale della bilancia dei pagamenti – si sono fortemente ridimensionate. Poiché, come molti analisti rilevano, se la situazione bellica si accompagna a una generale incertezza sui costi che potrebbe ingenerare, è non meno plausibile che l’impatto sull’economia israeliana sarà superiore a quello sperimentato nelle crisi degli ultimi due decenni. Prendiamo quindi atto dello scenario che si prospetta, che ha poco o nulla a che fare con il passato. Siamo in una sorta di terra sconosciuta.
(moked, 28 febbraio 2024)
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Come cercare di fare perdere a Israele la guerra
di Niram Ferretti
Come cercare di fare perdere a Israele guerra? La risposta a questa domanda si articola su due fronti. Il primo riguarda gli Stati Uniti, il principale alleato dello Stato ebraico e quello che, dal 7 ottobre in poi, pur continuando a fornire aiuto militare, ha iniziato sempre di più a rimarcare distanze e malcontento sulla conduzione della guerra.
Bisogna procedere con ordine. Dal sincero cordoglio e dalla costernazione a seguito del barbaro eccidio del 7 ottobre perpetrato da Hamas, e dal viaggio in Israele di Joe Biden, dalla solidarietà espressa, dai gesti concreti, l’invio di forze e portaerei per mostrare all’Iran e a Hezbollah, nei giorni subito dopo la risposta israeliana su Gaza, che gli Stati Uniti non avrebbero permesso un allargamento del conflitto.
Il tempo passa veloce, i morti civili a Gaza aumentano anche se il loro numero è molto inferiore a quello dei morti nelle guerre americane in Iraq, ma la propaganda contro Israele è da sempre la più forte e pervasiva, e si arriva alla surreale accusa di genocidio, nonostante i morti dichiarati, tra cui non si distingue quali sono i miliziani di Hamas e i civili veri, non siano neanche l’uno per cento degli abitanti di Gaza. La Casa Bianca inizia a rimodulare il suo appoggio. Improvvisamente la reazione israeliana diventa “over the top”, i bombardamenti, “indiscriminati”, i palestinesi non vanno “deumanizzati”. In Cisgiordania, quattro coloni vengono colpiti da sanzioni decise a Washington a causa di “violenza intollerabile”, cioè sassate, ferimenti, intimidazioni, accuse mosse da ONG, e dalle quali viene omesso il contesto, la scia continua di omicidi da parte palestinese che ha insanguinato la Cisgiordania nel 2023. Su questa virata pesano due fattori, la campagna elettorale americana, e, in particolare, lo scontento della comunità musulmana con epicentro in Michigan nei confronti di Joe Biden, il rischio dell’astensione in uno Stato chiave, l’incalzare dell’avversione progressista verso Israele.
Washington ha ora bisogno che si giunga a un accordo con Hamas per la liberazione degli ostaggi, prima del 10 marzo, inizio del mese sacro di Ramadan. Costi quel che costi? L’importante è ottenerlo, poi si vedrà. Intanto si fermerà la guerra per almeno sei settimane, utili per non farla riprendere, per abortire l’offensiva di Israele su Rafah. Chi non vuole la tregua viene bollato come estremista, è il caso di Bezalel Smotrich e di Itamar Ben Gvir.
Netanyahu tiene botta, e risponde per le rime quando Joe Biden, sotto dettatura, dichiara che con l’attuale governo, Israele perderà il supporto internazionale. Citando un sondaggio recente, il primo ministro israeliano afferma che negli Stati Uniti l’appoggio al governo in carica e all’obiettivo di sradicare Hamas è maggioritario.
Nella dichiarazione di Biden c’è un evidente messaggio, rivolto allo “stronzo” Netanyahu, cambia alleati o, vieni a più miti consigli se non vuoi problemi grossi. Netanyahu non si fa intimidire. Sa che un eventuale boicottaggio di Israele da parte americana mentre sta combattendo una guerra, potrebbe costare caro a Biden. Otterrebbe sì l’approvazione islamica e in parte il plauso democratico, ma darebbe al campo repubblicano e a Trump un assist formidabile. Il sottotesto di Netanyahu è: fai attenzione, gli Stati Uniti sono a maggioranza per la sconfitta di Hamas.
Biden ha bisogno di un cessate il fuoco. Glielo chiede Dearborn, glielo chiede la parte più radicale del partito democratico, glielo chiede la Chiesa Episcopale afroamericana, glielo chiede il Dipartimento di Stato, ma il cessate il fuoco non è nell’interesse di Israele. L’interesse di Israele è di eliminare da Gaza la minaccia di Hamas, ripristinare la sicurezza a sud, evitare un altro 7 ottobre. Le amministrazioni americane passano, Israele resta.
Il secondo fronte è quello interno. È quello rappresentato dalla sinistra, dal radicalismo di Ehud Barak, per il quale, Netanyahu è diventato un’ossessione, è quello di chi dice che la guerra a Gaza non può essere vinta e che l’obiettivo principale è la liberazione degli ostaggi. Sono i nemici di Netanyahu, sono i conciliatori, sono quelli che, sì, la sicurezza di Israele è importante, certo, ma prima di tutto va tolto di mezzo il governo in carica e va sostituito con un governo aperturista, più pronto ad accordarsi con l’agenda americana che vorrebbe dissotterrare il cadavere dello Stato palestinese seppellito da due intifade, soprattutto la seconda, quella più violenta, per imporlo, obtorto collo ai recalcitranti.
Barak, di suo, aveva già concesso ad Arafat nel 2000, tutto il possibile, e fu grazie al rifiuto arabo se da 24 anni non sorge uno Stato arabo nel cuore di Israele, di cui, in questi ultimi sedici anni, Hamas ha offerto un campione a Gaza culminato con la mattanza atroce di ottobre.
Una guerra si può vincere solo sconfiggendo l’avversario, chi l’ha provocata. Non esistono vittorie a metà, si chiamano sconfitte. Rafah deve essere l’obiettivo successivo, la continuazione, prima del finale di partita, nonostante Joe Biden, nonostante coloro, all’interno di Israele, per i quali la salvezza degli ostaggi vale più del futuro del paese.
(L'informale, 28 febbraio 2024)
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Alla Biennale di Venezia, gli artisti contro Israele chiedono il boicottaggio
Mentre scriviamo, sono più di 8.000 gli artisti internazionali che hanno chiesto l’esclusione del padiglione israeliano alla prossima Biennale d’Arte di Venezia, che si terrà dal 20 aprile al 24 novembre. L’appello è stato lanciato da un collettivo nato da poco, chiamato ANGA (Art Not Genocide Alliance).
di Nathan Greppi
La petizione chiede “l’esclusione di Israele dalla Biennale di Venezia […] affermiamo che offrire un palcoscenico a uno Stato impegnato in continui massacri contro il popolo palestinese a Gaza è inaccettabile”. Vengono altresì fatte analogie con i boicottaggi del Sudafrica ai tempi dell’apartheid e con le sanzioni alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, a causa della quale la Biennale ha escluso ogni collaborazione con il governo di Mosca. Tra i firmatari, spiccano artisti di fama internazionale come Nan Goldin, Mike Parr e Brian Eno, oltre ad artisti italiani come Adelita Husni Bey, Rossella Biscotti e Paolo Canevari.
Per il momento, la Fondazione Biennale di Venezia sembra non aver ceduto alle pressioni; pur non avendo commentato la petizione, hanno fatto sapere che le situazioni passate del Sudafrica e della Russia non sono paragonabili a quella attuale, e che la presenza del Padiglione d’Israele attualmente non è in discussione. A rappresentare lo Stato Ebraico, ci sarà l’artista Ruth Patir in una mostra curata da Mira Lapidot e Tamar Margalit.
• IL CASO DELLA BERLINALE
Queste polemiche giungono dopo che alla Berlinale, tenutasi dal 15 al 25 febbraio, c’è stata un’altra controversia: l’attivista palestinese Basel Adra e il giornalista israeliano Yuval Abraham, registi del documentario No Other Land che ha vinto il premio per il Miglior Documentario, hanno accusato Israele di “genocidio” e di “apartheid”, oltreché di non permettere agli arabi di votare (anche quest’ultima una bufala, dal momento che gli arabi in Israele possono votare ed essere eletti nella Knesset da sempre).
Le loro parole hanno suscitato reazioni forti da parte dei politici tedeschi: la Ministra per la Cultura e i Media, Claudia Roth, ha definito “inaccettabile che, in una serata del genere, registi internazionali non affrontino il bestiale attacco terroristico di Hamas contro più di mille persone (…) e il loro crudele assassinio e non dicano una parola sugli oltre 130 ostaggi che sono ancora trattenuti da Hamas”. Mentre il sindaco di Berlino, Kai Wegner, ha scritto su X/Twitter: “Ciò che è successo ieri alla Berlinale è stata una relativizzazione intollerabile. L’antisemitismo non ha posto a Berlino, e questo vale anche per la scena artistica. Mi aspetto che la nuova direzione della Berlinale garantisca che tali incidenti non si ripetano”.
(Bet Magazine Mosaico, 27 febbraio 2024)
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I ragazzi del Moshav Netiv HaAsara tornano a festeggiare insieme Bar e Bat-Mitzvà
di Michelle Zarfati
La scorsa domenica, a Tel Aviv, il Moshav Netiv HaAsara ha organizzato una cerimonia generale di Bar e Bat-Mitzvà per i suoi giovani. Nonostante la guerra abbia costretto i residenti a evacuare la cittadina e a spostarsi in diverse zone del Paese, i ragazzi si sono uniti nuovamente per festeggiare tutti assieme questo importante passo. Tra gli adolescenti presenti c’era anche Koren Tasa: suo padre e suo fratello sono stati entrambi uccisi nel terribile attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre.
“Quando sono insieme, vedere la loro profonda connessione è semplicemente bellissimo. Nonostante tutto quello che abbiamo passato, sono il nostro futuro. Abbiamo cercato di preservare la tradizione delle celebrazioni del Bar e Bat-Mitzvà per le famiglie e, con molto sforzo, ci siamo riusciti. Questo fa parte della nostra vittoria”, ha detto Orit Lev di Netiv HaAsara.
Circa 20 membri del Moshav, situato a nord del confine della Striscia di Gaza, sono stati uccisi nell’attacco di Hamas. I terroristi si sono infiltrati nel Moshav dal cielo usando i parapendio. I membri del Moshav, colti di sorpresa, hanno tentato di combattere valorosamente contro i miliziani, ma molti hanno perso la vita. Da quel sabato, gli abitanti del Moshav sono stati sfollati in varie località tra Tel Aviv, Gan Yavne, Ashkelon e nelle aree circostanti. Nessuno sa ancora quando tornerà a casa, poiché la distanza ravvicinata tra Netiv HaAsara e il confine della Striscia di Gaza non lo consente per il momento.
Il grande evento ha avuto luogo nel weekend e i ragazzi hanno avuto la possibilità di festeggiare insieme alle famiglie e agli amici. La celebrazione è stata supportata da Michael Kitai e da sua moglie, con l’assistenza del Keren Hayesod e del Fondo per le vittime del terrorismo dell’Agenzia ebraica. Questa iniziativa ha rappresentato un’altra testimonianza del sostegno e dell’impegno reciproco dei donatori di Keren Hayesod nei confronti dei residenti dello Stato di Israele. “Continueremo il nostro importante ruolo nella raccolta di fondi per lo Stato di Israele e per il sostegno al suo popolo” ha detto Weinstock-Gabay, CEO ad interim e direttore generale del Keren Hayesod.
Ayelet Nahmias-Verbin, presidente del Fondo per le vittime del terrorismo dell’Agenzia ebraica, ha aggiunto: “Pochissimi eventi mi hanno commosso dalla tragedia del 7 ottobre come questo evento per i figli di Netiv HaAsara. È una comunità forte e sorprendente e il suo sistema di sostegno reciproco è una testimonianza della resilienza umana. Ringrazio i donatori per il caloroso abbraccio di questi bambini. Servirà senza dubbio da ancoraggio nel loro processo di riabilitazione personale e comunitario”.
(Shalom, 27 febbraio 2024)
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Addio a Jacob Rothschild, filantropo ed erede della famiglia di banchieri
Rampollo della dinastia di banchieri britannici, Jacob si è spento all'età di 87 anni dopo una carriera ricca di successi
, finanziere, filantropo e membro illustre della rinomata dinastia bancaria britannica Rothschild si è spento a 87 anni. Una vita segnata da un profondo impegno nel mondo finanziario e nel sostegno alle cause umanitarie
, Rothschild è stata un faro per molti, per quelli che l'hanno ammirato e "studiato", lasciando un'eredità indelebile nella storia economica e sociale europea.
Nato nell'aprile del 1936, Lord Rothschild ha trascorso i primi anni di formazione all'Eton College, culminando gli studi con una laurea in storia al Christ Church, Oxford. Sin da giovane, Jacop dimostra un'intelligenza acuta e una determinazione senza pari, qualità che avrebbero caratterizzato e segnato tutta la sua carriera, che inizia nel 1963 nella compagnia di famiglia, la NM Rothschild & Sons
.
Entrato a far parte della prestigiosa azienda subito dopo l'università, Lord Jacob si è subito fatto notare per l'ineguagliabile talento in ambito finanziario. Tuttavia, è stata la sua ambizione e visione a portarlo a rompere con le tradizioni familiari per fondare, con la sua quota, nel 1980 la J Rothschild Assurance Group
a Londra. Questo momento segna l'inizio di un nuovo capitolo nella sua vita professionale.
Oltre a dedicarsi al suo impero finanziario, diversi e notevoli sono stati i ruoli professionali svolti da Rothschild nel corso della sua carriera. Rothschild divenne presidente di RIT Capital Partners
nel 1988 per poi dimettersi nel 2019. È stato vicepresidente di BSkyB Television,
ha diretto RHJ International (ora noto come BHF Kleinwort Benson Group) ed è stato anche membro del consiglio del Ducato di Cornovaglia per l'allora Principe di Galles. Inoltre, appassionato d'arte, ha servito come fiduciario della National Gallery dal 1985 al 1991 e ha presieduto il National Lottery Heritage Fund. Nel 2002, la regina Elisabetta II lo ha insignito dell'Ordine del Merito per il suo impegno nei campi delle arti, della letteratura, dell'apprendimento e della scienza.
Ma la sua influenza si estendeva ben oltre i confini del mondo finanziario e culturale. Figlio di Victor, terzo barone Rothschild, e di una madre di fede anglicana convertita all'ebraismo, Lord Jacob è stato un devoto marito per cinquant'anni (sposò Serena Mary Dune) e un padre amorevole per i suoi quattro figli. Proprio alla primogenita Hannah, Lord Jacob lascia un patrimonio di circa 950 milioni di euro
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Il contributo di Lord Rothschild alla filantropia
è stato altrettanto significativo. Con donazioni generose a favore di varie cause, ha dimostrato un profondo senso di responsabilità sociale. In particolare, è stato di notevole rilievo il suo sostegno a Israele attraverso la presidenza della Yad Hanadiv, la fondazione di famiglia, attraverso la quale ha donato circa 75 milioni di euro a supporto di alcune cause.
L'eredità dei Rothschild, che risale al 1815 grazie all'abile manovra finanziaria di Nathan Mayer Rothschild, ha avuto in Lord Jacob un custode devoto e visionario. La sua leadership in RIT Capital Partners e il suo coinvolgimento in diverse istituzioni finanziarie e culturali hanno contribuito a modellare il panorama economico e artistico europeo. Pertanto Lord Jacob rimarrà un emblema e un autentico punto di riferimento nel settore.
(affaritaliani.it, 27 febbraio 2024)
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Intollerabile diktat all’Italia del piccolo duce di Kiev
Il leader che, con la legge marziale, ha sospeso le elezioni, cancellato 11 partiti e mandato in cella oppositori e giornalisti non venga a impartirci lezioni: da noi vige la libertà di parola.
di Maurizio Belpietro
Volodymyr Zelensky deve aver scambiato l'Italia per l'Ucraina. Infatti, come se fosse il comandante in capo del nostro Paese, se n'è uscito dicendo di essere al lavoro per preparare una lista di «filo putiniani» da sottoporre non soltanto al nostro governo, ma da presentare anche alla Commissione europea. In casa nostra ci sarebbero troppi fan dello zar e questo disturba il leader supremo di Kiev, il quale, dopo aver fatto repulisti di tutti i collaboratori non allineati con il suo pensiero (l'ultimo a farne le spese è stato il popolarissimo capo di stato maggiore dell’esercito,
Valery Zaluzhny,
cioè colui che invece dei vertici internazionali in questi due anni ha frequentato le trincee) a quanto pare ha intenzione di fare lo stesso anche in Italia. «Riuscirete a zittirli?», si è chiesto, « riuscirete a fare capire alle vostre opinioni pubbliche che la Russia non è solo una minaccia per l'Ucraina, ma per tutti voi? Le società europee sono pronte a questa sfida? Vedo che non lo siete ancora, voi italiani, i tedeschi e gli altri».
Orbene, la nostra democrazia ha tanti difetti, a cominciare dal fatto che l'esecutivo ha spesso le mani legate e non riesce a fare le riforme di cui questo Paese ha urgente necessità. Tuttavia, non credo che debba prendere esempio dall'Ucraina, che la democrazia forse nemmeno sa che cos'è. Da noi non si incarcerano gli oppositori solo perché si oppongono. Né si mettono fuori legge alcuni partiti in quanto non piacciono a chi comanda.
Con l'adozione della legge marziale,
Zelensky
non soltanto ha cancellato le elezioni, rinviandole sine die ma fin dal marzo del 2022, ovvero poche settimane dopo l'invasione da parte della Russia, ha di fatto cancellato 11 partiti, uno dei quali occupava 44 seggi in Parlamento. In pratica, con un colpo di mano, il Consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa dell'Ucraina ha preso la decisione di far sparire, vietandone qualsiasi attività, una rappresentanza politica non proprio minoritaria, con la scusa che le attività di quei gruppi miravano-alla divisione o alla collusione». Già che c'era,
Zelensky
ha pure fatto arrestare il capo della Piattaforma di opposizione per la vita, ritenendolo, anche lui come forse alcuni italiani nel suo mirino, un pericoloso putiniano.
Ma a far le spese del giro di vite impartito dal presidente ucraino dopo l'inizio del conflitto non sono stati solo gli esponenti politici dell'opposizione, bensì anche i giornalisti non allineati. Uno di questi
Gonzalo Lira,
fra l'altro cittadino cileno americano, è stato incarcerato con l'accusa di aver creato e distribuito materiale che giustificava l'invasione russa, ed è morto in carcere nel gennaio scorso.
Yuriy Tkachev,
critico verso la svolta europeista, è stato messo agli arresti già nei giorni immediatamente successivi all'invasione e con l'accusa di alto tradimento sono scattate le manette pure per
Gleb Lyashenko,
un blogger spesso critico nei confronti di
Zelensky.
Per non dire poi delle emittenti tv, sottoposte a un rigoroso controllo, al punto che pare di avere un canale unico.
A un certo punto è finito nei guai pure
Petro Porosenko,
ex presidente ucraino, uno che certo non può essere definito filo russo, al quale, pur senza finire in galera, è stato impedito di lasciare l'Ucraina, fermandolo alla frontiera per bloccare un viaggio in cui erano programmati incontri all'estero con esponenti europei e americani. Una mossa che il sindaco di Kiev,
Vitali Klitschko,
altro uomo politico non proprio nelle grazie di
Zelensky,
ha commentato dicendo che di questo passo l'Ucraina non sarà molto diversa dalla Russia, «dove tutto dipende dal capriccio di un uomo».
Viste le premesse di questi due anni di guerra, si capisce l'uscita in conferenza stampa
dell'attore prestato alla politica. Per lui, chi lo critica è un nemico da eliminare, mettendolo in carcere o impedendogli di manifestare il proprio pensiero. A
Zelensky
forse sfugge che nel nostro Paese esiste un ostacolo chiamato Costituzione, che all'articolo 21 assicura libertà di espressione a chiunque, anche a coloro i quali non la pensino come la maggioranza. Da noi si discute perché un gruppo di manifestanti che voleva sfondare un cordone di polizia messo a tutela di un obiettivo sensibile è stato respinto con i manganelli. Probabilmente, in Ucraina ci si stupirebbe se le forze dell'ordine non arrestassero i partecipanti al corteo, incarcerandoli e buttando la chiave.
Capisco che due anni di guerra possano dare alla testa. Comprendo che
Zelensky
abbia dovuto trasformarsi da comico in statista, anzi in eroe (sarà per questo che sta sempre in mimetica?), ma questo non giustifica alcune sue espressioni da dittatorello. Da due anni l'Italia paga il conto di una guerra che non ha voluto, sostenendo l'Ucraina pur tra tanti dubbi. La sola cosa che dovrebbe fare il signore che minaccia di compilare liste di proscrizione, dunque è ringraziare il nostro Paese. E non impartirci lezioni di democrazia, di cui non soltanto non abbiamo bisogno, ma che con questa arroganza cominciano a dare fastidio alla maggioranza dell’ opinione pubblica nazionale. La pazienza è tanta, ma la misura è colma.
(La Verità, 27 febbraio 2024)
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Preoccupa allora che con tale personaggio la nostra premier abbia fatto pubblica mostra di amorosi intenti
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Perché il governo palestinese si è dimesso e cosa succede ora a Gaza
La decisione arriva dopo la pressione degli Stati Uniti sul presidente Abbas per scuotere l’Autorità Palestinese
di Nello Gatto
GERUSALEMME - Si è dimesso il governo palestinese. Stamattina, all'apertura della riunione di gabinetto, il premier palestinese, Mohammed Shtayyeh, ha annunciato che ha rassegnato nelle mani del presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, le dimissioni dell’esecutivo. Shtayyeh, ha spiegato che la decisione arriva in conseguenza «degli sviluppi politici, di sicurezza ed economici legati all’aggressione contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza e all’escalation senza precedenti in Cisgiordania, compresa la città di Gerusalemme». Shtayyeh ha specificato che le dimissioni sono state decise per consentire la formazione di un ampio consenso tra i palestinesi per poi poter addivenire a nuovi e più solidi accordi politici e poter meglio gestire quindi lo scenario post guerra Israele-Hamas.
Le dimissioni del governo palestinese arrivano anche poi nel contesto della crescente pressione degli Stati Uniti sul presidente palestinese Abbas per scuotere l’Autorità Palestinese e iniziare a lavorare su una struttura politica che possa essere idonea a governare la Striscia di Gaza dopo la guerra. «Di conseguenza, vedo che la prossima fase e le sue sfide richiedono nuovi accordi politici e governativi che tengano conto della realtà emergente nella Striscia di Gaza, dei colloqui di unità nazionale e dell'urgente necessità di un consenso interpalestinese basato su base nazionale, un'ampia partecipazione, l'unità dei ranghi e l'estensione della sovranità dell'Autorità palestinese su tutta la terra della Palestina», ha aggiunto il premier, precisando che per questo motivo ha presentato le dimissioni del governo al presidente Abbas.
Le dimissioni del premier e del gabinetto, arrivano il giorno della convocazione a Mosca di tutte le fazioni palestinesi per un incontro. Il governo russo, tramite il viceministro degli esteri Mikhail Bogdanov, ha convocato nella capitale tutti i partiti e movimenti palestinesi per trovare la quadra con un accordo e una visione condivisa del futuro. Tra Fatah, il partito che governa la Cisgiordania e Hamas non corre buon sangue, c'è anche stata una guerra civile tra palestinesi. Hamas ha guidato l'unico governo eletto palestinese prima di essere dimesso da Abu Mazen, il quale non ha più convocato elezioni legislative dal 2006, proprio per timore che il gruppo che controlla Gaza potesse rivincerle.
Negli ultimi tempi, hanno fatto entrambi fronte comune contro Israele e quando si è cominciato a parlare del controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese nel dopo Gaza, visti anche i diktat israeliani sulla presenza di Hamas, la stessa Anp ha detto che è pronta a passare il testimone al gruppo di Gaza. Ora si attendono gli sviluppi da Mosca per definire il futuro. Secondo analisti, ci sarà un governo di transizione mentre non si definiscono dettagli e scenari per il futuro della Striscia e dei Territori.
(La Stampa, 27 febbraio 2024)
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Gaza: nuove prove del sequestro degli aiuti umanitari da parte di Hamas
Secondo le informazioni ottenute da fonti di sicurezza da i24NEWS, i camion degli aiuti umanitari che entrano nella Striscia di Gaza vengono immediatamente sequestrati da uomini armati affiliati ad Hamas. Queste requisizioni sistematiche avvengono già da diverse settimane.
A prova di ciò, una foto scattata a Gaza mostra un uomo armato che si sporge da un camion confiscato, con gli aiuti che conteneva mentre si preparano per essere trasportati ad Hamas e ad altre organizzazioni terroristiche nella fascia costiera.
Questa non è la prima volta che emergono prove del sequestro di aiuti umanitari entrati nella Striscia di Gaza da parte di Hamas. Negli ultimi mesi sono diventate comuni le immagini che mostrano gli uomini armati dell’organizzazione terroristica appollaiati sui camion degli aiuti umanitari. Nelle ultime settimane, sui social media sono circolati ampiamente anche diversi video di abitanti di Gaza presi di mira dal fuoco dei terroristi di Hamas mentre cercavano di accedere alle spedizioni di aiuti umanitari.
L’aumento degli aiuti umanitari è una delle condizioni poste dall’organizzazione terroristica nelle trattative in corso per un imminente accordo sulla liberazione degli ostaggi.
(DayFR Italian, 26 febbraio 2024)
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L’auto pieghevole sviluppata in Israele potrebbe cambiare la guida urbana
City Transformer manda il prototipo di un’auto pieghevole sulle strade di Tel Aviv, e promette che la produzione del modello migliorato è già iniziata e i veicoli sono attesi sul mercato a luglio; il prezzo ancora troppo alto rende l’auto meno vendibile.
Una innovazione israeliana sta facendo girare la testa per le strade di Tel Aviv. Il prototipo di un’auto pieghevole prodotto da City Transformer sta facendo il suo debutto con quella che descrive come “la prima auto adattabile al mondo” che si riduce di dimensioni per “guidare come un’auto e parcheggiare come una motocicletta”. L’auto elettrica si riduce da 2,5 metri (poco più di 8 piedi) ad appena 1 metro (3,2 piedi) di larghezza e può raggiungere i 90 km/h (57 miglia). Fondata nel 2014, City Transformer afferma che la sua versione migliorata sta per entrare nelle linee di produzione dello stabilimento Cecomp di Torino, in Italia, e sarà disponibile per la vendita a luglio. Sono stati ordinati 1.000 esemplari in Israele, da utilizzare per le squadre di emergenza medica, e altri 1.000 sono stati ordinati in tutto il mondo. Il costo sarà di 16.000 euro al lordo dell’IVA e di altre imposte e in Israele dovrebbe raggiungere i 100.000 NIS, mettendo in dubbio la sua commerciabilità. Nella sua versione più stretta, l’auto non può superare i 40 km/h (24 miglia). Premendo un pulsante sul volante, si estende per tutta la sua larghezza e può occupare una corsia. All’interno delle ruote posteriori è presente una coppia di motori che forniscono al massimo 20 cavalli e che impiegano 5 secondi per raggiungere una velocità di 50 km/h, quasi il doppio rispetto ad altre auto elettriche moderne. Il peso di soli 450 chili è sufficiente per inserirsi facilmente nel traffico cittadino. Le batterie di produzione coreana garantiscono 180 chilometri di autonomia, che scendono a soli 120 chilometri se si accende l’aria condizionata. Come molti dei suoi concorrenti, per azionare i freni è necessaria una certa forza, perché l’amplificatore dei freni è stato lasciato fuori per mantenere il peso del veicolo basso. Il sedile del guidatore è sorprendentemente comodo e le ampie portiere facilitano l’ingresso e l’uscita dall’auto. Il sedile posteriore è ovviamente più difficile da raggiungere, ma la maggior parte degli utenti lo terrebbe ripiegato per ottenere uno spazio più ampio nella parte posteriore. Nonostante le dimensioni ridotte, il trasformatore ha un diametro di rotazione relativamente ampio, pari a 8,5 metri (quasi 27 piedi). Il parcheggio è facile e l’azienda sostiene che fino a quattro veicoli possono condividere un parcheggio medio in città. Si tratta di una soluzione brillante per l’uso urbano che combina la manovrabilità con la velocità e la stabilità, ma ha un prezzo elevato e, a meno che non venga ridotto, il trasformatore non sarà altro che una curiosità.
(Israele360, 26 febbraio 2024)
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Argentina, ipotesi di trasferimento a Gerusalemme dell’Ambasciata in Israele
Il presidente dell’Argentina Javier Milei ha confermato la sua intenzione di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Lo ha detto, secondo una nota del ministero degli esteri, appena arrivato in Israele, accolto dal responsabile degli esteri Israel Katz. ‘Voglio ringraziarla – ha detto Katz – per aver riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e per aver annunciato adesso il trasferimento dell’ambasciata argentina a Gerusalemme, capitale del popolo ebraico e dello Stato d’Israele”.
Il premier Benyamin Netanyahu estende ”un caloroso benvenuto” al presidente argentino Javier Milei e si compiace del suo annuncio relativo al trasferimento a Gerusalemme dell’ambasciata dell’Argentina. Lo rende noto un comunicato ufficiale. ”Il premier – prosegue il comunicato – ne aveva parlato col presidente Milei dopo la sua elezione e si felicita che egli abbia mantenuto la promessa”. Netanyahu incontrerà Milei domani e – precisa il comunicato – in quella occasione ”discuterà dell’ulteriore rafforzamento delle relazioni fra i due Paesi”.
(Il Denaro, 26 febbraio 2024)
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Firenze, bandiere di Israele in Consiglio Comunale
Cocollini: “Necessaria un’azione forte dopo la gravità di quanto avvenuto sabato"
“Chi semina vento raccoglie tempesta, dice il detto. Ed è quanto è puntualmente avvenuto oggi in Consiglio comunale. Ho deciso - dichiara il vicepresidente vicario del Consiglio comunale Emanuele Cocollini - di esibire bandiere di Israele per significare il nostro sdegno per i contenuti di molti degli interventi dei relatori del convegno, dal titolo “Pace e giustizia in Medio Oriente focus Palestina”, di chiara matrice antisemita, anche nella sua più moderna accezione di antisionismo come riferimento esplicito alla definizione di antisemitismo dell'IHRA (approvata dal Consiglio comunale). Un convegno che, è bene sottolinearlo, è costato 5.917 euro, soldi dei fiorentini.
Assordante è stato il silenzio di sindaco e presidente del Consiglio che ha organizzato l’evento, non solo sulle gravissime affermazioni dei relatori, ma anche sulle offese rivolte al console onorario di Israele Marco Carrai comparse nella piattaforma dove veniva trasmesso lo streaming on line, che richiedevano un’immediata dissociazione che invece non è mai arrivata.
Per questi motivi rivendico quanto ho inteso simboleggiare oggi in Consiglio comunale. Un atto per ristabilire la verità e respingere l’odio contro Israele e gli ebrei che il convegno di sabato ha portato fin nel cuore della nostra città”, conclude Cocollini.
(Nove da Firenze, 26 febbraio 2024)
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Accordo tra Israele e Hamas prima che inizi il Ramadan: “Rischio escalation senza l’ok”
Le delegazioni a Doha dopo la bozza di Parigi. Ipotesi governo tecnico per l’Autorità palestinese
di Fabiana Magrì
TEL AVIV - Nessuno può trattenersi in chiacchiere sulle gradinate attorno alla “vasca da bagno”, il nomignolo in slang locale per la piazza antistante la Porta di Damasco. L’atmosfera è tesa con l’approssimarsi del Ramadan, scadenza sensibile e sacra per i musulmani. E la polizia, ampiamente schierata, è pronta a impedire ogni accenno di assembramento. Per i vicoli del quartiere musulmano in Città Vecchia, a Gerusalemme, la tensione diventa desolazione, con quasi tutti i negozi chiusi e nessun turista di passaggio. È così dall’inizio della guerra. Se la settimana che manca all’inizio del mese del digiuno, dell’astinenza, della carità e della preghiera, portasse l’atteso accordo tra Israele e Hamas, la desolazione certo non si risolverebbe nell’immediato, ma almeno la tensione si potrebbe disinnescare. In caso contrario, ha messo in guardia re Abdallah di Giordania, «la continuazione della guerra a Gaza durante il Ramadan potrebbe portare all’espansione del conflitto». «Speriamo che nei prossimi giorni si possa arrivare a un’intesa ferma e definitiva» si è sbilanciato alla Cnn il Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan. «Ma dovremo aspettare e vedere», ha messo poi le mani avanti. Tutto sta ad Hamas, secondo Benjamin Netanyahu. Se la fazione palestinese abbandonasse «le sue pretese deliranti» e assumesse «posizioni ragionevoli», allora – ha detto il premier israeliano a Cbs News – un accordo sarebbe possibile. Si riparte da Parigi, tracciando una linea su quanto rilanciato da Hamas al Cairo, e si prosegue a Doha. Adesso sì, le premesse sembrano più concrete. Dopo aver esaminato gli sviluppi del secondo atto francese con la mediazione di Usa, Egitto e Qatar, il gabinetto di guerra israeliano ha inviato una nuova delegazione nella capitale dell’emirato arabo. Una squadra di esperti di medio livello, ma con il compito di discutere già di dettagli tecnici. Tuttavia un funzionario di Hamas, ieri sera, ha smontato l’ottimismo che circola sostenendo che «non riflette la realtà». Nel complesso scenario si è inserito anche il rincorrersi di indiscrezioni e smentite riguardo la possibilità di imminenti dimissioni del primo ministro dell’Autorità palestinese Mohammed Shtayyeh, per favorire un nuovo governo tecnico. Secondo Sky News, che ne aveva dato notizia, questi sviluppi avrebbero rafforzato le notizie secondo cui Hamas avrebbe accettato tale soluzione per la ricostruzione di Gaza dopo la guerra. Notizia subito respinta da Ramallah dove fonti dell’Anp hanno invece evocato questa possibilità per il futuro, ma non ora. L’alternativa, in caso di ennesimo fallimento dei colloqui, è l’operazione militare israeliana a Rafah subito. Netanyahu ha precisato tuttavia alla Cbs che un accordo per la liberazione degli ostaggi ritarderebbe soltanto l’intervento di Tsahal, che resta necessario nella città più meridionale della Striscia perché si tratta dell’ultima roccaforte di Hamas nell’enclave. A quel punto, una volta avviata la missione, l’esercito sarà a «settimane, non mesi» – ha aggiunto Netanyahu – dalla conclusione dell’obiettivo militare a Gaza. Sulla necessità di mettere in sicurezza i civili prima di entrare «boots on the ground» a Rafah, Israele si dice «sulla stessa lunghezza d’onda» degli Usa. Un piano per evacuare i rifugiati palestinesi verso nord, probabilmente lungo la costa, sta per raggiungere le scrivanie di Washington. Il quadro aggiornato dell’accordo prevede che Hamas rilasci circa 40 ostaggi sequestrati a Gaza in cambio di un cessate il fuoco di sei settimane e della liberazione di centinaia di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, secondo fonti citate dal sito Axios. Lo scambio avverrebbe “a rate” come nella prima tregua, quella di fine novembre.
(La Stampa, 26 febbraio 2024)
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Gruppo di “esperti” ONU per i Diritti collabora con Hamas?
Un gruppo di cosiddetti "esperti" del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, tra i quali la famigerata Francesca Albanese, chiede un embargo di armi per Israele e il divieto di condivisione della intelligence che pregiudicherebbe la liberazione degli ostaggi
Sabato il Ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha accusato il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite di collaborare con Hamas, dopo che un gruppo di funzionari delle Nazioni Unite per i diritti umani ha chiesto un embargo sulle armi a Israele, affermando che qualsiasi esportazione di armi o munizioni allo Stato ebraico per l’uso a Gaza è “probabile che violi il diritto umanitario internazionale”. Nella dichiarazione, rilasciata sotto gli auspici dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, i cosiddetti “esperti in materia di diritti” hanno affermato che tutti i Paesi hanno la responsabilità di non vendere armi “se si prevede, dati i fatti o i modelli di comportamento passati, che saranno utilizzate per violare il diritto internazionale”. Lo stesso vale per l’intelligence militare, si legge nella dichiarazione. In risposta alla dichiarazione, il Ministero degli Esteri ha ribadito che Israele sta combattendo la guerra per autodifesa e che “anche di fronte ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità commessi dai terroristi di Hamas, Israele ha agito e continuerà ad agire in conformità con il diritto internazionale”. Il Ministero ha aggiunto che le richieste di un embargo sulle armi contro Israele sono “in realtà richieste di sostegno all’organizzazione terroristica di Hamas” e che il divieto per gli Stati di condividere l’intelligence con Israele rappresenta “una richiesta per impedire che gli ostaggi vengano riportati a casa”. Katz ha poi accusato il Consiglio per i diritti umani di cooperare con Hamas e di cercare di minare il diritto di Israele all’autodifesa. “Ignorare i crimini di guerra, i crimini sessuali e i crimini contro l’umanità commessi dai terroristi di Hamas costituisce una macchia che non può essere cancellata sull’ONU come organizzazione e personalmente sullo stesso Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres”, ha affermato. Gli esperti dell’ONU hanno elogiato un tribunale olandese che, all’inizio del mese, ha stabilito che il governo deve fermare l’esportazione di parti di jet da combattimento F-35 a Israele. I funzionari hanno anche elogiato il Belgio, l’Italia, la Spagna e un’azienda di armi giapponese per aver sospeso i trasferimenti di armi a Israele e hanno notato che anche l’Unione Europea li ha recentemente scoraggiati. Hanno esortato Stati Uniti e Germania, i maggiori fornitori di armi di Israele, nonché Francia, Regno Unito, Canada e Australia a fare la stessa mossa. “I funzionari statali coinvolti nell’esportazione di armi possono essere individualmente responsabili penalmente per il favoreggiamento di crimini di guerra, crimini contro l’umanità o atti di genocidio”, hanno poi minacciato. Molti degli esperti erano relatori speciali delle Nazioni Unite: esperti indipendenti e non retribuiti incaricati dal Consiglio per i diritti umani. Non parlano a nome delle Nazioni Unite, ma riferiscono le loro scoperte ai meccanismi di indagine e monitoraggio del Consiglio. I funzionari hanno chiarito che i trasferimenti di armi ad Hamas e ad altri gruppi terroristici sono già vietati a causa delle loro violazioni del diritto umanitario internazionale. Tuttavia, hanno aggiunto che “il dovere di ‘garantire il rispetto’ del diritto umanitario si applica ‘in tutte le circostanze’, anche quando Israele dichiara di contrastare il terrorismo”.
Il team di decine di esperti indipendenti che ha appoggiato la dichiarazione include la famigerata relatrice speciale per i Territori palestinesi Francesca Albanese, che all’inizio del mese è stata ufficialmente bandita da Israele per la sua apparente giustificazione dei brutali massacri di Hamas del 7 ottobre, dopo aver twittato che le vittime sono state uccise “in risposta all’oppressione di Israele”. In precedenza, Albanese aveva detto che Israele stava commettendo “atrocità a Gaza” e che i palestinesi erano “a grave rischio di genocidio”. In una dichiarazione del 14 ottobre, ha accusato Israele di mirare alla pulizia etnica di Gaza, senza menzionare il devastante attacco shock di Hamas contro Israele. Durante il conflitto del 2014 tra Israele e Hamas, Albanese ha affermato che la “lobby ebraica” controllava gli Stati Uniti. Ha anche simpatizzato con le organizzazioni terroristiche, ha respinto le preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza, ha paragonato gli israeliani ai nazisti, ha accusato lo Stato ebraico di potenziali crimini di guerra, ha detto che Israele controlla la BBC e ha affermato che lo Stato ebraico inizia le guerre per avidità. Per anni, Israele ha accusato il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di essere “ossessivo, di parte e anti-Israele”. Ha scelto il punto 7 dell’Agenda, il punto permanente del Consiglio per i diritti umani, che non esiste per nessun altro conflitto, riservato alle presunte violazioni israeliane dei diritti umani contro i palestinesi e gli altri arabi, oltre a una serie di risoluzioni adottate contro Israele che accusano il Paese, tra l’altro, di apartheid. La guerra è iniziata il 7 ottobre, quando Hamas ha lanciato un attacco senza precedenti contro Israele, uccidendo circa 1.200 persone, per lo più civili, e rapendone 253. In seguito all’attacco, Israele ha giurato di smantellare l’organizzazione terroristica e di recuperare gli ostaggi. Il ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, sostiene che quasi 30.000 palestinesi sono stati uccisi da Israele nei combattimenti successivi, ma il numero non può essere verificato in modo indipendente perché si ritiene che includa sia i terroristi di Hamas che i civili, alcuni dei quali sono stati uccisi come conseguenza del lancio di razzi del gruppo terroristico stesso. L’IDF afferma di aver ucciso più di 12.000 terroristi a Gaza, oltre a circa 1.000 uccisi all’interno di Israele il 7 ottobre e immediatamente dopo. Israele ha continuato a ribadire che sta combattendo la guerra a Gaza in conformità con il diritto internazionale e che compie grandi sforzi per evitare danni ai civili, ma che le vittime sono inevitabili quando si combatte un gruppo terroristico profondamente radicato nella popolazione civile e che opera da edifici residenziali, ospedali, scuole, rifugi, moschee e altro. Haaretz ha riferito all’inizio del mese che l’IDF stava avviando un’indagine su specifici episodi segnalati di potenziali violazioni del diritto internazionale da parte delle truppe. Secondo il rapporto, una squadra appositamente formata esaminerà incidenti come l’attacco a un funzionario di Hamas, che avrebbe ucciso decine di civili, la distruzione di un campus universitario e l’uccisione accidentale di tre ostaggi israeliani.
(Rights Reporter, 26 febbraio 2024)
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“Pacifisti” contro la pace: in 15mila a Milano “per la Palestina” e “contro Israele”
Manifestazione propal nazionale a Milano
di Sofia Tranchina
Una manifestazione per «ribadire l’opposizione di classe a tutte le guerre» – secondo le dichiarazioni dei Cobas coinvolti nell’organizzazione – è partita il 24 febbraio da Piazzale Loreto, Milano, inserendosi nei sabati per la Palestina che da mesi sfilano nella città meneghina. Tra i presenti, Opposizione Studentesca Alternativa, Potere al Popolo, Unione Sindacale di Base, il Centro Sociale Cantiere, API (Associazione dei Palestinesi d’Italia) e GPI (Giovani Palestinesi d’Italia). Presente anche l’ex deputato del Movimento 5 Stelle Alessandro Di Battista, lì «per chiedere il riconoscimento dello stato di Palestina come Stato Sovrano Indipendente». Lo zeitgeist (spirito del tempo), allattato da anni di propaganda antisionista figlia di un retaggio antisemita profondamente radicato, ha permesso agli oratori di far passare, approvare e condividere l’idea che auspicare la distruzione totale di Israele sia un messaggio “di pace”. Così l’islamismo violento, promosso e finanziato dall’Iran – e, secondo recenti accuse, dalla Russia – si diffonde tra una folla di giovani italiani che marciano per la città inneggiando: «in-ti-fa-da! Intifada pure qua!». Per questo, in una manifestazione che ha visto sfilare circa 15mila persone “per la Palestina e contro Israele”, l’unica insegna effettivamente di Pace è stata fatta a brandelli a pochi minuti dall’inizio, da una folla accanita e incattivita. Sull’insegna in questione compare in inglese la scritta “dal fiume al mare costruisci la pace”, che riprende e modifica lo slogan «Palestina unica dal fiume al mare», in toni che anziché polarizzare cercano dialogo. Sotto, compaiono anche le scritte: “Hamas è Isis”, “Riportateli a Casa”, “Cessate il Fuoco” e “Due Stati” (scritto con i colori della bandiera palestinese e della bandiera di Israele). «Cos’è questa schifezza?» ha urlato per primo un manifestante, strappando l’insegna a chi la portava. «“Hamas is Isis” tua sorella!» ha aggiunto, facendo a brandelli il cartone e buttandone i pezzi per terra, calpestandoli e imprecando, completamente indisturbato: nessuno degli autoproclamatisi “attivisti per la pace” è intervenuto per difenderne la libertà d’espressione. Forse perché, questa volta, l’espressione da difendere non era polarizzante né semplicistica, ma si è fatta bensì carico di una riflessione stratificata forse fuori luogo in un corteo che, con la scusa della “causa palestinese”, ha avuto il permesso di marciare per tutto un pomeriggio cantando e urlando slogan per la distruzione dello Stato Ebraico. Dopo pochi istanti, un gruppo di manifestanti ha accerchiato la portatrice del cartello, bullizzandola e urlando «via i sionisti dal corteo!», bollando così come sionista l’insegna. Insegna che chiedeva, oltre a un dialogo per la pace, un cessate il fuoco e il riconoscimento di due stati per due popoli, senza tralasciare però la richiesta della liberazione degli ostaggi: forse è questo che non è piaciuto agli attivisti meneghini?
• GLI SLOGAN DELLA MANIFESTAZIONE “PACIFICA”
Tra le insegne sfoggiate invece indisturbate sono comparsi solo inni di polarizzazione: «Israele non esiste», «fuori l’entità sionista dalla storia», e persino «there is no both sides in genocide» (non ci sono due parti nel genocidio), constatazione che insabbia in toto il massacro del 7 ottobre e ignora gli intenti dichiaratamente genocidi di Hamas nei confronti del popolo ebraico. «Vogliono farci credere che esistano Gaza, Israele e Cisgiordania. Non è così. Noi sappiamo che la Palestina è una, dal fiume al mare!» urlano dal carro, cancellando deliberatamente Israele dalla cartina geografica, e inculcando a una folla che pare inerme: «chi sono i terroristi?» – «Israele!» rispondono tutti con una voce unica; «chi sono i criminali?» – «Israele!»; «Israele, fascista, stato terrorista!», «Israeliani peggio dei nazisti!». «Non vogliamo la pace, non stringeremo mai la mano allo stato sionista!», si smaschera la stessa voce, dal carro. Ma la frase, anziché suscitare fischi e indignazione, è stata accolta da applausi e canti dei manifestanti, e pace e guerra, invocati vanamente, rimangono meri significanti dai confini sfumati, usurpati del proprio significato. E così l’eroismo malriposto dei buoni intenzionati si scontra con la maschera di interessi più grandi di quanto forse non si siano resi conto loro stessi. Si è ascoltata una frase che giustifica il massacro di Hamas: «Il 7 ottobre è stato un tentativo di evasione dalla prigione a cielo aperto di Gaza», ignorando il ritiro totale di Israele da Gaza nel 2005. Dopo qualche ora, la manifestazione ha assunto i toni violenti dei “pacifisti contro la pace”, con sassi che hanno ferito un’agente di polizia, spaccato macchine e danneggiato la vetrina del Carrefour di viale Doria.
(Bet Magazine Mosaico, 26 febbraio 2024)
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"Non nominare la guerra!"
Le chiese sono invischiate in una ridicola commedia degli errori. Gli eventi del 7 ottobre, la guerra a Gaza, con il conseguente aumento dell'antisemitismo globale, hanno spinto molti israeliani a cercare Dio.
di Charles Gardner
È una delle battute più famose di una delle commedie televisive britanniche più popolari di tutti i tempi: la serie degli anni Settanta Fawlty Towers, in cui lo sfortunato Basil Fawlty (interpretato da John Cleese) gestisce un fatiscente albergo sulla costa.
Tutto andava sempre storto e gli spettatori, di solito l'intera famiglia seduta a casa davanti alla TV, ridevano a crepapelle. L'iconica battuta "Non nominare la guerra! - appare ripetutamente in un episodio con un ospite tedesco.
Per Manuel, il cameriere spagnolo, questa frase era un'istruzione del tutto inutile, che non faceva altro che peggiorare la situazione.
Qual è il punto? Beh, le chiese in Sudafrica (e senza dubbio anche qui nel Regno Unito) hanno il discutibile onore di dare agli oratori ospiti di una certa missione ebraica la stessa istruzione: ” Non parlare della guerra! -
Hanno detto che vogliono sempre sentir parlare degli sforzi che si fanno per raggiungere gli ebrei con il Vangelo, che loro hanno portato a noi per primi, ma chiedono che non si faccia riferimento all'attuale guerra di Israele contro Gaza. Probabilmente perché lo considerano una commistione tra politica e religione, che potrebbe incoraggiare gli ascoltatori a prendere posizione sulla questione.
Ma di recente una appartenente a questa missione si è recata dal suo medico, una dottoressa ebrea, per un forte raffreddore, ed è stata proprio la conversazione sulla guerra a innescare una seria discussione sul Vangelo.
La dottoressa era atea, e già altre volte aveva preso in giro la sua amica per aver citato la Bibbia. Ma questa volta la dottoressa era mostrata affascinata dalle profezie dell'Antico Testamento. Queste parlano di enormi eserciti che attaccheranno Israele dal nord e poi del Messia ebraico che verrà in loro soccorso, ed essi "guarderanno a colui che hanno trafitto", per citare il profeta Zaccaria (capitolo 12, versetto 10).
La dottoressa confessò di avere “la pelle d'oca". Era chiaro che sapeva esattamente che cosa si intendesse, anche se non si parlava di Gesù. Come dice Isaia: "Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni" (Isaia 53:5)!
La brava dottoressa dunque ebbe la possibilità di riflettere sulla crisi di Gaza e sulla domanda che una volta aveva fatta: "Perché tutti ci odiano?".
Il contesto è cruciale nella comunicazione del Vangelo, e l'aumento globale dell'antisemitismo innescato dalla guerra è un'ottima occasione per attirare l'attenzione non solo degli ebrei che ancora non credono, ma anche dei cristiani che ancora non capiscono, quello che oggi sta succedendo.
Dio non si è separato dagli ebrei, non ha abbandonato o rifiutato il suo popolo eletto. Ha un amore eterno per il suo popolo ed è pronto a riabbracciarlo in una relazione restaurata.
La resistenza violenta contro il popolo ebraico è un'immagine del feroce conflitto spirituale con cui Satana fa del suo meglio per impedire questa riconciliazione. Gesù tornerà solo quando questo avverrà.
Tralasciare il contesto della guerra e lo tsunami di antisemitismo che ne è seguito, non agevola la diffusione del Vangelo e della profezia biblica. Significa piuttosto chiudere la porta del cielo davanti alla gente, come Gesù aveva accusato i leader religiosi di fare. Al contrario, la guerra sta portando molte persone a pensare all'eternità.
Come si spera che anche la dottoressa capisca, la cura per tutti i nostri problemi si trova in Colui che ha preso su di sé i nostri peccati sulla croce, versando il suo sangue e morendo per noi.
C'è una guerra - sia spirituale che fisica - che infuria per le anime di uomini e donne: facciamo un grande torto ai nostri ascoltatori se neghiamo questa realtà.
La pace arriverà, ma non prima che il Principe della Pace si sia posato sul Monte degli Ulivi, a est di Gerusalemme! (Giobbe 19:25, Zaccaria 14:4, Atti 1:11)
(Israel Heute, 26 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Dara Horn: Perché ricordare la Shoah non aiuta contro l’antisemitismo
Giornalista, autrice di saggi, docente di letteratura yiddish ed ebraica, Dara Horn è l’autrice di People Love Dead Jews (La gente ama gli ebrei morti), volume pubblicato da Norton & Co nel 2021. In una intervista fatta da Elie Petit per tribunejuive.info, pubblicata il 16 febbraio, Horn si interroga sulle ambiguità con cui l’Occidente – gli Stati Uniti in particolare – si rapportano agli ebrei, a partire dall’idea – appunto – che “gli ebrei morti” suscitino molto più interesse di quelli vivi. La trasformazione in un simbolo, che sia della memoria sterilizzata della Shoah, o della vittima impotente, del capro espiatorio, è una sorta di disumanizzazione, da lei equiparato a una negazione della dignità umana, col risultato di portare facilmente all’odio e all’antisemitismo.
Spinta dalle domande ricorrenti postele dai media in seguito agli atti di antisemitismo negli Stati Uniti, l’autrice si è interrogata sulla impossibilità di evitare l’argomento: essere ebrei rende automaticamente necessario rispondere alle sollecitazioni in materia? Considerando almeno altrettanto sconcertanti i frequenti tentativi di non riconoscere la matrice antisemita delle aggressioni, nonostante gli investimenti compiuti sul fronte didattico, Horn è arrivata alla conclusione che l’insegnamento della Shoah segue uno schema inadatto a combattere le violenze contemporanee: raccontare una storia passata che sicuramente colpisce e rattrista permette però anche a chi la scopre di distaccarsi, e di dare per scontato che non sia possibile qualcosa di simile si ripeta oggi.
People Love Dead Jews è il suo sesto libro. Horn è partita dalla convinzione che gli ebrei abbiano un ruolo rilevante nell’immaginario globale. Un immaginario che però nulla ha a che fare con quello che sono veramente. È in se stesso, questo, un tipo di antisemitismo che può presentarsi in diverse forme e va combattuto: porta gli ebrei a raccontarsi in una maniera falsata, a mettere in secondo piano la realtà attuale, il quotidiano, la ricchezza culturale artistica e vitale del presente per lasciare spazio alla narrazione della Shoah.
Dopo il 7 ottobre, però, è comparsa la sensazione che invece neppure gli ebrei morti “vadano bene”, proprio perché stanno facendo quello che invece la narrazione sostiene non avessero mai neppure tentato: reagire, difendersi, dimostrare una qualche capacità di reazione. È forse proprio su questo che si gioca l’amore per gli ebrei: funziona sino a quando sono percepiti come impotenti, non in grado di impedire il proprio massacro. Difendersi e reagire no, quello non è permesso.
(moked, 25 febbraio 2024)
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Ecco perché un attacco a Rafah è inevitabile
Se parli con decine di soldati e ufficiali ti diranno tutti la stessa cosa: l'attacco alla città di Rafah è inevitabile se veramente si vuole distruggere Hamas
di Maurizia De Groot Vos
In questi giorni in cui le speranze dei parenti degli ostaggi nelle mani di Hamas sono appese a un filo, si fanno sempre più serrati i preparativi per l’attacco a Rafah, la città meridionale della Striscia di Gaza ormai ultimo bastione di Hamas.
Rights Reporter ha sentito diversi ufficiali di prima linea delle forze di difesa Israeliane (IDF) sui preparativi di questa che sembra la resa dei conti finale tra Israele e Hamas.
«Senza l’operazione di terra a Rafah Hamas sopravvivrebbe, il che è un risultato inaccettabile» dice il Tenente Colonnello RF. «Dov’è la condanna internazionale di Hamas per non aver rilasciato gli ostaggi e non essersi arreso? Hamas non può prevalere militarmente, quindi dipende dalle pressioni internazionali su Israele; se queste cessassero, Hamas non avrebbe più dove rivolgersi, rendendo molto più probabile la resa» conclude in Tenente Colonnello.
«Forse mi è sfuggita la risoluzione approvata dall’ONU o dal Consiglio di Sicurezza che condanna l’attacco di Hamas. Il gruppo delle donne dell’ONU ha impiegato mesi per condannare l’uso dello stupro come arma nell’attacco di Hamas. Quindi siamo chiari: dal 1948 l’ONU non ha sostenuto Israele» ci dice il Maggiore HF chiaramente inferocito verso le Nazioni Unite che anche in queste ore lanciano messaggi affinché Israele non dia il via all’attacco su Rafah.
«Sì, la guerra è orribile. Ma Israele non ha altra scelta» ci dice il maggiore JF. «Sentiamo parlare di come non condurre una guerra contro Hamas, ma non di come farlo in modo efficace. Sentiamo una dura condanna da parte di Paesi che non hanno nulla a che fare con Israele, ma ancora una volta nessuna soluzione al problema esistenziale di Israele con Hamas» prosegue. «Ci chiedono di non attaccare Rafah ma non attaccare Rafah significa permettere ad Hamas di sopravvivere» continua. «Hamas ha condotto un attacco selvaggio e ha dichiarato la sua intenzione di continuare a farlo finché Israele non sarà eliminato e la sua popolazione ebraica scacciata. Perché dobbiamo permettere ad Hamas di sopravvivere?»
«Nessuno finora ha risposto a una domanda fondamentale: come può Israele accettare un cessate il fuoco permanente con un’entità che, per motivi religiosi e non politici, ha commesso un massacro come non se ne sono mai visti nei tempi moderni e ha promesso di farlo ancora e ancora» ci dice il Capitano YP. «Nessun Paese, nonostante le pontificazioni, permetterebbe a un’entità del genere di esistere lungo il proprio confine. Quindi sì, Israele ignorerà la comunità internazionale perché non accetterà di suicidarsi, attaccheremo Rafah e chiuderemo il conto con Hamas una volta per tutte».
Oggi o domani il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dovrebbe convocare il Governo per l’approvazione dei piani operativi riguardanti l’attacco a Rafah e la messa in sicurezza dei civili. Si parla insistentemente di un “forte coordinamento” con l’Egitto che potrebbe addirittura ricevere i piani operativi prima dell’attacco a Rafah.
(Rights Reporter, 25 febbraio 2024)
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Cosa accadrà a Gaza dopo la guerra? La posizione di Israele
di Ugo Volli
• Una fase complessa
La fase attuale della guerra di Gaza è molto complicata e difficile da capire: l’esercito israeliano continua a combattere soprattutto con operazioni speciali per eliminare i terroristi che agiscono di nascosto, ma allo stesso tempo prepara l’operazione per liberare l’ultimo grosso centro controllato da Hamas e cioè Rafah, dove probabilmente sono nascosti i capi terroristi e sono anche tenuti prigionieri come scudi umani gli israeliani rapiti. Contemporaneamente sono ripartiti i colloqui per uno scambio fra rapiti e terroristi detenuti, che implica una tregua che dovrebbe sospendere proprio l’operazione a Rafah, come cercano del resto di ottenere gli Usa. Nel frattempo prosegue la guerra leggera al nord, fra puntate israeliane e lanci di razzi.
• Il progetto per “il giorno dopo”
In questo contesto ieri c’è stato uno sviluppo significativo. Fra le azioni che l’amministrazione Biden ha intrapreso per “bilanciare” a favore dei palestinesi la vittoria di Israele c’è stata la richiesta insistita che lo stato ebraico dettagliasse i suoi progetti ha per “il giorno dopo”. È una richiesta che non si fa mai in guerra, perché qualunque risposta ha l’effetto di legare le mani al vincitore o di minacciare le sue alleanze. Ma il governo israeliano deve cercare di minimizzare gli scontri con Biden, che pensa soprattutto a non scontentare la sinistra democratica in vista delle elezioni e dunque Netanyahu ha ufficializzato al gabinetto di guerra di venerdì la posizione israeliana sull’esito della guerra, anche se in una maniera che certo non soddisfa l’amministrazione americana. Il piano inizia stabilendo la condizione per la fine della guerra: Israele continuerà a combattere fino a raggiungere i suoi obiettivi, cioè la distruzione militare e politica di Hamas e della Jihad islamica, il ritorno dei rapiti e la rimozione di ogni minaccia alla sicurezza dalle comunità circostanti.
• A medio termine
Israele dovrà mantenere la libertà di operare in tutta la Striscia per prevenire la rinascita dell’attività terroristica, come fa in Giudea e Samaria. Netanyahu prevede la “completa smilitarizzazione di Gaza… al di là di ciò che è necessario per le esigenze di mantenimento dell’ordine pubblico”. La dichiarazione non cita direttamente l’Autorità Palestinese e quindi non esclude esplicitamente la sua partecipazione alla gestione di Gaza dopo la guerra. Dice però che gli affari civili a Gaza dovranno essere gestiti da “personalità locali” con “esperienza amministrativa”, con la condizione che non siano legati a “paesi o entità che sostengono il terrorismo”. Ciò significa escludere qualunque complice di Hamas, della Jiahd Islamica, dell’Iran, ma anche dell’Unrwa che ha appoggiato il terrorismo e dell’Autorità Palestinese che paga gli stipendi ai terroristi catturati o le pensioni alle famiglie di quelli morti. In sostanza si allude ai capi delle tribù del territorio, secondo un’ipotesi sostenuta da Mordechai Kedar. Dato il coinvolgimento di numerosi dipendenti dell’Unrwa nelle atrocità del 7 ottobre, Israele lavorerà poi per sostituire del tutto l’agenzia con “organizzazioni umanitarie internazionali responsabili”. Israele inoltre promuoverà anche un “piano di de-radicalizzazione… in tutte le istituzioni religiose, educative e assistenziali di Gaza”. Questo obiettivo sarà promosso “il più possibile con il coinvolgimento e l’assistenza dei paesi arabi che hanno esperienza nella promozione della de-radicalizzazione” e consentirà l’inizio della ricostruzione di Gaza solo dopo il completamento della smilitarizzazione della Striscia e l’inizio del “processo di de-radicalizzazione”. “Il piano di riabilitazione sarà finanziato e guidato da paesi accettabili per Israele”.
• Il territorio
Netanyahu ha quindi detto che per garantire la sicurezza delle comunità intorno alla Striscia, Israele intende stabilire una zona cuscinetto inutilizzabile dagli abitanti, situata all’interno del confine della Striscia. Per quanto riguarda il confine tra Gaza e l’Egitto, Israele imporrà una “chiusura” al contrabbando per impedire la rinascita dell’attività terroristica. La chiusura dovrà essere realizzata con l’assistenza degli Stati Uniti e in collaborazione con l’Egitto “per quanto possibile”. Inoltre Israele manterrà il controllo di sicurezza “su tutta l’area a ovest della Giordania”, cioè di Giudea e Samaria “per impedire il rafforzamento degli elementi terroristici e contrastare le minacce da loro verso Israele”. Il piano si conclude riaffermando i principi adottati nei giorni scorsi sia dal gabinetto che dalla Knesset: Israele rifiuta qualsiasi diktat si voglia imporgli per un accordo permanente con l’Autorità palestinese; esso potrà essere raggiunto solo attraverso negoziati diretti tra le parti, senza precondizioni. Un altro principio è che Israele continuerà ad opporsi al riconoscimento unilaterale di uno stato palestinese, che considera un “regalo per il terrorismo”.
(Shalom, 25 febbraio 2024)
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Quando la musica diventa arena politica. Le ultime polemiche
Ci risiamo. Dopo la bella notizia di qualche giorno fa, ossia che un gruppo di 400 attori, musicisti e altre figure dello spettacolo – tra cui Helen Mirren, Liev Schreiber, Julianna Margulies, Boy George, Sharon Osbourne e Gene Simmons – hanno firmato una lettera aperta a sostegno della partecipazione di Israele alla 68ª edizione dell’Eurovision Song Contest che si terrà a Malmö, in Svezia, dal 7 al 11 maggio, per l’ennesima volta, Israele è di nuovo sotto tiro. Motivo? Come riferiscono il Jerusalem Post e altri giornali israeliani, in dubbio è ancora la partecipazione dello Stato ebraico all’Eurovision a causa della canzone “October Rain”, che oltre a non c’entrare nulla con la politica e con il conflitto in corso, non si sa bene da quante persone sia stata ascoltata finora (pare da pochissime). Conclusione: potrebbe essere squalificata dalla European Broadcasting Union (EBU) a causa di «testi politici». (L’EBU è l’ente che associa diversi operatori pubblici e privati del settore della tele-radiodiffusione su scala nazionale). Volete sapere quali sono le parole ignominiose della canzone “October Rain” che hanno destabilizzato e sconvolto alcuni fan dell’Eurovision che si sono lamentati per il fatto che la traccia si riferisse chiaramente al 7 ottobre e non dovrebbe essere consentita in un evento canoro non politico? Ecco qualche verso (in calce all’articolo il testo completo, tutto in inglese, con una chiusura in ebraico):
«Qualcuno ha rubato la luna stanotte /Ha preso la mia luce / Tutto è in bianco e nero / Chi è lo sciocco che ti ha detto / Che i ragazzi non piangono […]. Ballando nella tempesta / Non abbiamo nulla da nascondere / Portami a casa / E lasciami il mondo alle spalle / E ti prometto che mai più / Sono ancora bagnato da questa pioggia d’ottobre / Pioggia d’ottobre […]».
Così, messi a disagio per le critiche di qualche fan seccato, i grandi capi dell’Eurovision si stanno rompendo la testa per decidere se squalificare o meno la canzone incriminata che dovrà essere eseguita dall’affascinante e talentuosa Eden Golan, vincitrice del concorso The Next Star, scritta da Avi Ohion, Keren Peles e Stav Beger. Ma come sempre, nel frastuono delle controversie e delle polemiche, c’è qualcosa di comico, se non altro per l’assurdità della situazione. Mentre il mondo si divide su questioni di testi e di cittadinanza, c’è da chiedersi se non stiamo perdendo di vista il vero spirito dell’Eurovision: la musica e il divertimento. Ad ogni modo tutta questa storia non è piaciuta affatto all’emittente pubblica Kan che ha prontamente chiarito che Israele non ha la benché minima intenzione di cambiare il testo. Al che l’EBU ha preso tempo rispondendo che «sta attualmente esaminando attentamente i testi, un processo confidenziale tra l’EBU e la Public Broadcasting Corporation fino a quando non verrà presa una decisione finale. Tutte le emittenti hanno tempo fino all’11 marzo per inviare ufficialmente le loro canzoni. L’EBU ha inoltre aggiunto che «se una canzone non soddisfa i criteri per qualsiasi motivo, alla società viene data l’opportunità di presentare una nuova canzone o un nuovo testo in conformità con le regole del concorso». Il ministro della Cultura e dello Sport Miki Zohar ha definito «scandalosa» l’intenzione dell’EBU. La voce «è una canzone commovente, che esprime i sentimenti della gente e del Paese in questi giorni e non è politica», ha affermato. Ha aggiunto: «Ci auguriamo tutti che l’Eurovision rimanga un evento musicale e culturale e non un’arena politica, dove i Paesi partecipanti possano portare sul palco la loro unicità e nazionalità attraverso la musica». Il ministro ha poi esortato l’EBU «a continuare ad agire in modo professionale e neutrale, e a non lasciare che la politica influisca sull’arte». Di fatto, come molti lettori ormai sanno, l’Eurovision di quest’anno, che si terrà in Svezia a maggio, non è stata certo esente da politicizzazione e polemiche e soprattutto nei confronti di Israele.
(Bet Magazine Mosaico, 25 febbraio 2024)
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Milano, il corteo pro Palestina: città in tilt, tensioni e bandiere bruciate. In 20 mila arrivati da tutta Italia
Esponenti dell’associazionismo insieme alla sinistra radicale e agli antagonisti si sono ritrovati sabato a Milano. Tra i presenti anche l'ex deputato pentastellato Alessandro Di Battista. Danneggiato il Carrefour. E spuntano cartonati della premier Meloni, del ministro Salvini e di Netanyahu.
di Matteo Castagnoli e Pierpaolo Lio
Kefiah al collo e inni all’Intifada. Richieste di cessate il fuoco e bandiere (israeliane e statunitensi) bruciate. Per l’ennesimo sabato, il popolo filopalestinese sfila in piazza a Milano, questa volta in versione evento «nazionale»: alla fine saranno 20 mila i manifestanti, provenienti da un po’ tutto il Centro e Nord Italia. Un enorme corteo e tante anime — palestinesi, immigrati nordafricani, sindacalismo di base, il mondo dell’associazionismo, la sinistra radicale, gli antagonisti — che marciano dietro le parole d’ordine «con la resistenza palestinese, blocchiamo le guerre coloniali e imperialiste», come da striscione bilingue d’apertura. Per tutto il pomeriggio manderanno al collasso il traffico caotico di una città già messa alla prova dall’assalto del popolo della moda. Ma i timori di un replay degli scontri avvenuti il giorno prima a Firenze e Pisa sfumano in un paio di momenti di tensione, che si registrano quando le frange più estreme provano a sfidare l’imponente dispositivo di sicurezza. Alla fine, a far più discutere saranno i cartelli con i volti della premier Giorgia Meloni, del ministro Matteo Salvini e del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, tra gli altri, macchiati di vernice rossa, come fosse sangue posticcio. «Predicano pace ma diffondono odio e violenza, accarezzando i terroristi di Hamas. Senza vergogna», è la reazione immediata del vicepremier e leader leghista in un post sui social. In mezzo alla folla, a manifestare dopo aver raccolto le firme per una legge «per il riconoscimento di uno Stato di Palestina», c’è invece l’ex cinquestelle Alessandro Di Battista. Per strada, il corteo sembra sottoposto a una cura a base di ormone della crescita: più cammina, più i partecipanti si moltiplicano, come le bandiere palestinesi che spuntano ovunque e in ogni foggia. All’arrivo delle avanguardie nel cuore della città, nel centralissimo largo Cairoli, meta finale a due passi dal Duomo, i militanti che stanno in coda saranno ancora impegnati ad avanzare a metà percorso, marciando al ritmo della hit pacifista sanremese di Ghali, divisi dai primi da quasi un’ora di cammino. In un paio d’occasioni, dalla manifestazione, pacifica, si sganciano piccoli gruppi con intenzioni più battagliere. Si muovono rapidi, hanno i volti coperti, e in piazza Repubblica provano a deviare dal tragitto. Il loro obiettivo è raggiungere il vicino consolato americano, ma saranno subito bloccati dalle forze dell’ordine. La reazione sono le fiamme a una bandiera israeliana e a una a stelle strisce, seguito da un fitto lancio di uova (e un paio di grossi petardi che però non scoppiano) contro i reparti mobili schierati in assetto antisommossa. Il secondo tentativo si registra qualche centinaio di metri più avanti. Sono sempre in pochi a muoversi, e sempre a volto coperto. Danneggiano la vetrina del Carrefour, colosso francese della distribuzione secondo loro «colpevole» di contribuire alla guerra israeliana a Gaza. Poi iniziano una sassaiola contro alcune auto delle forze dell’ordine: le pietre danneggiano due vetture della Guardia di Finanza e una della polizia locale. All’interno di quest’ultima, un’agente rimane ferita dai frammenti di vetro del lunotto che finisce in frantumi. I fumogeni segnano la fine della lunga giornata di protesta. È il rompete le righe. Ad anticiparlo è l’iniziativa di un antagonista: s’arrampica sulla statua di Garibaldi per dare alle fiamme un’altra bandiera d’Israele.
(Corriere della Sera, 25 febbraio 2024)
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"Predicano pace ma diffondono odio e violenza", ha detto Matteo Salvini. Ha torto? Sì, risponderà qualcuno, anzitutto perché l'ha detto il segretario della Lega, e questo basta per non darvi credito, almeno in certe zone dell'area politica. E poi, dicono, i manifestanti sono contro le guerre coloniali, quindi sono per la pace e contro le guerre d'odio delle potenze imperialiste.
Ma è chiaro che si tratta di odio. Puro odio contro lo Stato d'Israele, centro e punto di riferimento di tutti gli ebrei sparsi per il mondo. Puro odio che si rivela come approvazione dell'odio con cui si è compiuto il massacro del 7 ottobre.
Questa perla di odio si arricchisce poi di una grande varietà di sfumature tra il politico e il religioso, ma non è necessario indagarne le radici, gli sviluppi e le circostanze che ne hanno favorito il concretarsi, perché quello che conta è la chiarezza dell'obiettivo da raggiungere: gli ebrei.
Ma non è vero che è antisemitismo - obietterà qualcuno -, non tiriamo fuori la solita storia dell'antisemitismo perché oggi è diverso, diranno. E ti elencheranno gli antisemitismi del passato; e ti faranno notare le differenze; e ti diranno che oggi è tutto diverso. E invece è sempre lo stesso, perché l'antisemitismo è come l'acqua: cambia nel tempo lo stato in cui si presenta, ma la sua struttura molecolare è sempre la stessa.
Una cosa che disturba particolarmente nelle esasperazioni filopalestinesi è che mettono nello stesso calderone Israele e Stati Uniti. Ma è la stessa cosa che fanno anche tanti amici occidentali di Israele. In forma schematica: Netanyahu contro Sinwar sarebbe come Biden contro Putin. Questo paragone tra la guerra in Ucraina e la guerra in Gaza è esiziale per Israele. In entrambi i casi l'America si rivela come un falso amico, con conseguenze che già adesso sono disastrose per l'Ucraina, e potrebbero diventarlo presto anche per Israele se per qualche ragione Dio decidesse di non esaudire le preghiere di chi davvero ama Israele. M.C.
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Il fondamento per cui credere nel regno messianico
Estratto dal libro Sulle orme del Messia
di Arnold G. Fruchtenbaum
APOCALISSE, cap. 20
- Poi vidi un angelo che scendeva dal cielo e aveva la chiave dell'abisso e una grande catena in mano.
- Egli afferrò il dragone, il serpente antico, che è il diavolo e Satana, e lo legò per mille anni,
- lo gettò nell'abisso che chiuse e sigillò sopra di lui perché non seducesse più le nazioni finché fossero compiuti i mille anni, dopo i quali dovrà essere sciolto per un po' di tempo.
- Poi vidi dei troni e a coloro che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare. E vidi le anime di quelli che erano stati decapitati per la testimonianza di Gesù e per la parola di Dio e di quelli che non avevano adorato la bestia né la sua immagine e non avevano preso il marchio sulla loro fronte e sulla loro mano; ed essi tornarono in vita e regnarono con Cristo mille anni.
- Gli altri morti non tornarono in vita prima che fossero trascorsi i mille anni. Questa è la prima risurrezione.
- Beato e santo è colui che partecipa alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la morte seconda, ma saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno con lui quei mille anni.
I premillennaristi sono stati spesso criticati per aver basato la propria fede nel Millennio poggiandosi soltanto su un brano della Scrittura, Apocalisse 20. Poiché si trova in un libro ben conosciuto per l’ampio utilizzo di simboli, si dice sia sciocco considerare i mille anni in senso letterale. Ma questa non è certo una critica valida.
Per cominciare, anche se è vero che il libro dell’Apocalisse utilizza molti simboli, è già stato dimostrato che il significato di tutti quei simboli è spiegato o nel libro dell’Apocalisse stesso, o altrove nelle Scritture. Inoltre, gli anni non sono mai usati in senso simbolico all’interno del libro. Se sono simbolici, il loro simbolismo non sarebbe spiegato da nessuna altra parte. Il riferimento ai 1.260 giorni, 42 mesi e 3 anni e mezzo, sono tutti letterali e non simbolici. Di conseguenza, non vi è alcuna necessità di considerare i mille anni in un senso diverso da quello letterale. La scelta di spiritualizzare il testo impone sempre a chi interpreta l’onere della prova su chi lo interpreta. Senza prove oggettive, il risultato sarà un’interpretazione soggettiva.
Naturalmente, è vero che la figura dei mille anni si trova solo in Apocalisse 20. Ma è ripetuta per ben sei volte in un solo testo, e se la ripetizione ha di per sé uno scopo, è quello di rafforzare un concetto.
Anche se è vero che il Millennio (cioè, i mille anni) si trova solo in Apocalisse 20, il motivo per cui credere nel regno messianico non si poggia solamente su questo brano. In realtà, si appoggia su ben altro. La base per credere nel regno messianico è duplice. In primo luogo vi sono le promesse non ancora adempiute relative ai patti ebraici, promesse che si possono adempiere solo in un regno messianico. In secondo luogo, ci sono le profezie inadempiute dei profeti ebrei. Ci sono numerose profezie dell’Antico Testamento che parlano della venuta del Messia, il quale regnerà sul trono di Davide e governerà su un regno di pace. C’è una grande quantità di materiale nell’Antico Testamento relativo al regno messianico, e la convinzione dell’esistenza di un regno messianico poggia sul fondamento di un’interpretazione letterale di questo enorme materiale.
L’unico vero contributo che l’Apocalisse apporta alla conoscenza del regno sta nel fatto che rivela quanto tempo durerà il regno messianico - vale a dire mille anni, da cui deriva il termine usato, cioè Millennio. Questa è l’unica verità chiave riguardante il regno che non era stata rivelata nell’Antico Testamento.
È alla luce di questo, si può capire il motivo per cui gran parte del libro è dedicato alla grande tribolazione e così poco al Millennio. Nonostante gran parte del materiale in Apocalisse 4-19 si trovi sparsa nelle pagine dell’Antico Testamento, non è possibile collocare questi eventi in sequenza cronologica utilizzando solo l’Antico Testamento. Il libro dell’Apocalisse fornisce la struttura per cui questo può essere fatto. Una grande parte del libro dell’Apocalisse è stata utilizzata per raggiungere questo obiettivo.
D’altra parte, tutte le varie caratteristiche e sfaccettature del regno messianico sono state già rivelate nell’Antico Testamento. Si ritraggono le caratteristiche generali della vita nel regno, che non sollevano il problema di un ordine sequenziale. Di conseguenza, non vi era alcun motivo per cui spendere molto tempo sul regno messianico nell’Apocalisse. La maggior parte di ciò che era necessario rivelare era già stato fatto nell’Antico Testamento.
Tuttavia, c’erano due cose riguardo al regno messianico che non erano state rivelate nell’Antico Testamento. La prima era la durata del regno messianico. Nonostante i profeti dell’Antico Testamento avessero previsto un lungo periodo di pace nel regno messianico, non avevano rivelato quanto sarebbe durato. Per rispondere a questa domanda, l’Apocalisse dichiara che sarebbe durato esattamente mille anni. Un secondo aspetto, che era sconosciuto ai profeti dell’Antico Testamento, erano le circostanze che avrebbero posto fine al regno e che avrebbero portato all’ordine eterno. Anche questo è rivelato nel libro dell’Apocalisse. Questi due elementi sono tutto ciò che Apocalisse 20 aggiunge alla conoscenza del regno messianico. I motivi per credere al regno messianico non poggiano su questo brano, bensì sulle numerose profezie dei profeti dell’Antico Testamento.
Un altro motivo per credere all’instaurazione del regno poggia sui quattro patti incondizionati che Dio ha sancito con Israele, rimasti ancora inadempiuti. Questi patti sono incondizionati e quindi il loro adempimento dipende unicamente da Dio, non da Israele. Essi sono anche incompiuti, e poiché Dio è Colui che mantiene le promesse, dovranno adempiersi in futuro. Possono compiersi solo nel quadro del regno messianico o regno millenario.
Il primo di questi è il patto Abrahamitico, il quale prometteva un seme eterno che si sarebbe sviluppato in una nazione e avrebbe posseduto la terra promessa, con confini ben definiti. Anche se la nazione - Israele - continua a esistere, in tutto l’arco della sua storia non ha mai posseduto tutta la terra promessa. Affinché queste promesse si avverino, ci deve essere un futuro regno. Inoltre, il possesso della terra non era stato semplicemente promesso alla discendenza di Abrahamo ma ad Abrahamo personalmente quando Dio gli disse “Tutto il paese che tu vedi, io lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre” (Genesi 13:15). Affinché Dio possa mantenere la Sua promessa ad Abrahamo (nonché a Isacco e a Giacobbe), ci deve essere un futuro regno.
Il secondo patto è il patto della terra, che parlava di una riunificazione mondiale degli ebrei e del re-impossessamento della terra a seguito della loro dispersione. Nonostante la dispersione si sia già verificata e sia tutt’oggi effettiva, il raduno e recupero della terra attende ancora il proprio compimento nel futuro. Anche questo richiede un regno futuro.
Il patto davidico è il terzo patto, e prometteva quattro cose eterne. Una casa eterna (dinastia), un trono eterno, un regno eterno e una persona eterna. La dinastia divenne eterna perché culminava in una persona eterna: Gesù il Messia. Per questo motivo, anche il trono e il regno saranno eterni. Ma Gesù non si è ancora mai seduto sul trono di Davide, per governare il regno d’Israele. Il ristabilimento del trono davidico e il governo del Messia nel regno, attendono ancora un futuro compimento. Richiede un regno futuro.
L’ultimo di questi patti è il nuovo patto, che parlava della rigenerazione e della salvezza nazionale d’Israele, che comprende ogni singolo membro ebreo della nazione. Anche questo attende il suo compimento finale e richiede un regno futuro.
Sono gli estesi scritti profetici, nonché i patti, che forniscono il fondamento per cui credere a un futuro regno messianico, e non semplicemente un capitolo di un libro altamente simbolico.
Per riassumere, la base per credere in un regno messianico è duplice: le promesse inadempiute dei patti ebraici e le profezie inadempiute dei profeti ebrei.
(da "Sulle orme del Messia", 25 febbraio 2024)
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Israele presenta la sua visione per il dopo Hamas a Gaza
Striscia tagliata in due
di Giulio Meotti
ROMA - Quattro mesi e mezzo dopo l’inizio della guerra tra Israele e Hamas, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha svelato il suo piano per il “giorno dopo”, sottoposto all’approvazione del gabinetto di guerra e opposto ai desiderata della comunità internazionale. Di fatto, il controllo d’Israele della Striscia di Gaza. Gli obiettivi a breve termine rimangono invariati: distruggere le capacità militari e le infrastrutture governative di Hamas e del Jihad islamico, garantire il rilascio degli ostaggi e prevenire qualsiasi minaccia per Israele da parte della Striscia nel futuro. Nel medio termine, Israele manterrà la libertà di operazione militare a Gaza, creerà una zona cuscinetto e per contrastare il contrabbando di armi e uomini lungo il confine tra Egitto e Gaza creerà un “fianco di sicurezza”.
Se la ricostruzione di Gaza sarà affidata a “paesi arabi accettati da Israele”, secondo la formula, si parla di governo civico della Gaza postbellica e di “professionisti con esperienza manageriale” e “funzionari locali”. Su questo punto, Israele resta vago. Funzionari selezionati da chi? Chi governerebbe a Gaza con il rischio di essere ucciso da Hamas, come avvenne con il golpe ai danni dell’Anp nel 2007?
Il piano non prevede ruoli per l’Autorità palestinese di Ramallah, ma sancisce la chiusura dell’agenzia delle Nazioni Unite per i palestinesi, Unrwa, accusata di complicità con Hamas, e l’istituzione di un nuovo organismo internazionale (Israele ieri ha arrestato otto dipendenti dell’Unrwa accusati di terrorismo).
Sul terreno, l’esercito israeliano sta espandendo una strada attraverso il centro di Gaza per facilitare le operazioni militari e fa parte dei suoi piani per mantenere il controllo di sicurezza sull’enclave. Un rimodellamento della geografia della Striscia volto a garantire libertà di movimento all’esercito e una presa sul territorio, per evitare un nuovo 7 ottobre che ha ucciso 1.200 israeliani.
Il corridoio a sud di Gaza City, che si estende per dieci chilometri dal confine israeliano alla costa, divide Gaza in due. Questo consentirà all’esercito di continuare a muoversi rapidamente attraverso l’enclave anche dopo il ritiro. Israele sta costruendo una buffer zone di un chilometro all’interno di Gaza, dove ai palestinesi sarà vietato l’ingresso. Prima del 7 ottobre, la buffer zone era all’interno di Israele, motivo per cui i terroristi erano riusciti a sfondare. Jacob Nagel, ex consigliere israeliano per la Sicurezza nazionale oggi membro della Foundation for Defense of Democracies, ha parlato di divisione tra il nord di Gaza e il resto dell’enclave.
Netanyahu è sotto pressione, da parte degli americani che hanno messo in guardia Israele dal modificare i confini di Gaza, e dall’estrema destra del suo governo, che vorrebbe ristabilire a Gaza gli insediamenti israeliani. Il piano d’Israele mette in guardia contro il “riconoscimento unilaterale di uno stato palestinese”, evidente riferimento ai timori che gli Stati Uniti possano compiere un passo del genere.
Quando la 401esima brigata dell’esercito israeliano ha invaso la Striscia alla fine di ottobre ci ha messo un’intera settimana di feroci scontri a fuoco per raggiungere la punta nord-occidentale di Gaza City. Ora la stessa brigata impiega due ore. Chiunque governerà Gaza, se la vedrà con questa nuova topografia post 7 ottobre.
Il Foglio, 24 febbraio 2024)
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Intensificazione dei combattimenti tra Israele e Hamas a Khan Younis
Israele scopre deposito d’armi in casa di ufficiale Hamas durante operazioni militari
Israele ha annunciato un’escalation dei combattimenti con il gruppo militante Hamas nella città di Khan Younis, situata nel sud della Striscia di Gaza. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno condotto un’incursione nella casa di un alto ufficiale dell’intelligence di Hamas, scoprendo un deposito di mortai nascosto in borse dell’Unrwa e altri equipaggiamenti militari. Durante l’operazione, è stato individuato e distrutto un tunnel utilizzato da Hamas.
Le azioni militari hanno visto numerosi scontri tra le forze israeliane e i militanti di Hamas. Secondo l’IDF, molti operatori di Hamas sono stati neutralizzati durante un’ampia operazione nel quartiere Zeitoun di Gaza City. Le truppe israeliane, usando un drone, hanno individuato una cellula di Hamas che pianificava di lanciare missili anticarro e hanno rapidamente ordinato un attacco aereo. Durante queste operazioni, sono state rinvenute molte armi di Hamas insieme a documenti.
Nel frattempo, il bilancio delle vittime nella Striscia di Gaza continua a salire, con almeno 29.606 persone uccise dall’inizio del conflitto il 7 ottobre, secondo il ministero della Salute di Gaza. Le tensioni nella regione sono in aumento, con gli scontri che coinvolgono attacchi aerei, operazioni terrestri e violenze su entrambi i fronti.
Gli Stati Uniti hanno dichiarato di aver distrutto sette missili da crociera antinave che il gruppo ribelle Houthi dello Yemen intendeva lanciare nel Mar Rosso. Nel frattempo, in seguito a un attacco Houthi contro una nave mercantile di proprietà britannica, una massiccia fuoriuscita di petrolio si è estesa nel Mar Rosso, causando un grave problema ambientale.+
(Libero, 24 febbraio 2024)
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E’ ipocrita voler vincere il conflitto senza avere armamenti né soldati
Se è nobile essere commossi per la sorte dell’Ucraina, poi bisogna guardare ai freddi numeri. Kiev non potrà mai vincere perché non dispone di abbastanza uomini e fucili per respingere l’invasione.
di Maurizio Belpietro
Il Fondo monetario internazionale ha confermato per il Paese di Putin una crescita del 2,6 per cento: il triplo di quella attesa in Europa
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Sul loro petrolio c’è l’embargo occidentale, ma noi siamo i primi a comprarlo dall’India, aggirando le misure che abbiamo stabilito
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Per fare la guerra oltre alle armi ci vogliono i soldati, ma se scarseggiano entrambi l'esito più probabile del conflitto è la sconfitta o la resa più o meno onorevole. E inutile girarci intorno, fare appelli e lanciare minacce, i primi per chiamare alla riscossa un fronte comune, le seconde per spaventare i più recalcitranti e convincerli della necessità di resistere all'aggressore. Se non ci sono i soldati e neppure le armi, la guerra è persa e se non sarà a breve lo sarà più avanti, cioè dopo altre centinaia di migliaia di morti e di feriti. Non si è filoputiniani se si dicono queste cose, e neppure si è pavidi: si è semplicemente realisti.
La guerra per interposta nazione, vale a dire l'Ucraina, non ci ha mai convinto, perché è comodo sostenere un conflitto, la difesa sacrosanta dell'indipendenza di una nazione di fronte all'invasione. Ma non è detto che oltre a essere comodo, un conflitto così combattuto sia anche vincente. A due anni di distanza dal giorno in cui le truppe di Mosca varcarono il confine ucraino, al di là degli inviti patriottici e un po' enfatici di politici e commentatori, la realtà è davanti ai nostri occhi non è molto bella: continuare a ignorarla non ci aiuterà a cambiare le cose.
Abbiamo scritto nei giorni scorsi di come l'economia russa non sia crollata nonostante le sanzioni. Il Fondo monetario internazionale, per il 2024 ha confermato una crescita del 2,6 per cento, quasi il triplo di quella attesa in Europa. Sappiamo che a gonfiare i conti di Mosca contribuisce la spesa militare, ma è una realtà di fatto che i conflitti siano sempre stati un volano per la crescita, basti pensare a quello che è accaduto nella storia del secolo scorso. Dunque, è meglio non farci troppe illusioni sulla caduta del regime di Putin in tempi brevi e soprattutto è ora di mettere da parte le aspettative sui risultati delle sanzioni, dato che, come abbiamo spiegato, le misure adottate dagli Stati Uniti e dai Paesi alleati sono regolarmente aggirate e spesso dalle stesse nazioni che dovrebbero applicarle. Sul petrolio c'è l'embargo, ma l'Europa lo compra sottobanco dall'India; su quello che non è vietato importare, come il grano e prodotti agroalimentari, gli stessi Paesi Ue, tra i quali l'Italia, fanno a gara a chi compra di più, raddoppiando, triplicando e in qualche caso decuplicando gli acquisti. Dunque, se l'obiettivo è mettere in ginocchio Mosca e la sua economia, stiamo facendo letteralmente il contrario.
Ma questo è niente. Perché prima di discutere di tutto ciò è necessario guardare in faccia due aspetti, ovvero i soldati e le armi. Per quanto riguarda i primi, è evidente che le truppe ucraine da sole non potranno mai bastare a vincere la guerra. Nessuno sa dire quanti militari abbia perso Kiev nei 24 mesi di conflitto, ma nonostante la propaganda tenda a minimizzare, si parla di oltre 150.000 uomini. Per rafforzare le linee sotto attacco ci sarebbe bisogno di mezzo milione di militari, forse addirittura 700.000, ma molti dei giovani in età da battaglia sono scappati all'estero e altri hanno disertato, al punto che sono state imposte delle politiche di reclutamento forzato, che in pratica somigliano molto a rapimenti e rastrellamenti per spedire al fronte chi si è sottratto alla chiamata alle armi. Senza contare le vittime, Kiev dispone di 500.000 militari, di cui 200.000 in servizio attivo.
La Russia di 1,4 milioni uomini, più 250.000 riservisti, che però potrebbero in breve aumentare.
Quanto alle armi, i conti sono presto fatti. Secondo recenti stime, Mosca produce 115-130 missili a raggio lungo e 100-115 missili a raggio corto ogni mese, oltre a 30 missili balistici per il sistema Iskander. A ciò si aggiungono 300-350 droni kamikaze, ma lo stock accumulato al momento sarebbe di oltre mille, nonostante gli 800 lanciati nel solo mese di dicembre. Lo scorso anno la Russia ha prodotto due milioni di munizioni per l'artiglieria, ma secondo stime estoni, il numero sarebbe stato più alto, ossia 3,5 milioni, che quest'anno potrebbero diventare 4,5. In pratica, i russi sparano 10.000 colpi d'artiglieria al giorno. Per capire la disparità, basti dire che le industrie della difesa dell'intera Europa si sono impegnate a produrre in un anno un milione di pezzi di artiglieria, dunque all'incirca un quinto di quelli che escono dalle fabbriche di Putin.
A questo punto, invece di appelli e allarmi, serve rispondere a una domanda chiave: come si fa a vincere una guerra senza soldati, senza armi e con sanzioni che sono aggirate perfino da coloro che le hanno messe? Capite perché quando parliamo del conflitto fra Ucraina e Russia, e di tutto il resto si finisce sempre lì, alla grande ipocrisia occidentale, che difende i principi ma solo a parole?
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Il leader Usa sfida lo Zar
Biden: «Se il Cremlino non paga per l'aggressione, andrà avanti»
«Annuncio più di 500 nuove sanzioni contro la Russia per la sua guerra di conquista contro l'Ucraina e per la morte di Navalny, un coraggioso attivista anti-corruzione e il più accanito leader dell'opposizione di Putin». Lo ha dichiarato il presidente americano Joe Biden in una nota della Casa Bianca. Il leader statunitense ha detto di auspicare che il capo del Cremlino «paghi un prezzo ancora più alto per l'aggressione all'Ucraina e la repressione» in Russia, dato che «se Putin non paga il prezzo della morte e della distruzione che sta diffondendo, andrà avanti». Biden ha inoltre aggiunto che «gli ucraini stanno finendo le munizioni. L'Ucraina ha bisogno di più rifornimenti dagli Stati Uniti per mantenere le loro posizioni di fronte agli implacabili attacchi della Russia, che sono resi possibili da munizioni e armi provenienti da Iran e Corea del Nord». Il presidente americano ha sollecitato la Camera dei rappresentanti «ad approvare il provvedimento bipartisan di spesa supplementare per la sicurezza nazionale prima che sia troppo tardi», E ha aggiunto che «opporsi fa solo il gioco di Putin. La storia ci guarda. Non riuscire a sostenere l'Ucraina in questo momento critico non sarà dimenticato. Ora è il momento di essere forti al fianco dell'Ucraina e essere uniti ai nostri alleati e partner».
(La Verità, 24 febbraio 2024)
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«America for ever»
di Marcello Cicchese
Vediamo quali sono le conclusioni che si possono trarre a questo punto dalla politica americana. Biden dice che Putin deve pagare il prezzo della sua aggressione all'Ucraina, e quindi lì la guerra deve andare avanti, costi quello che costi. Domanda: ma per la sua aggressione a Israele, anche Hamas dovrà pagare qualcosa? Sì, dice Biden, ma senza esagerare, perché adesso ci sono ben 30.000 morti palestinesi, tra cui chissà quanti bambini, e sono troppi. Davvero troppi. E poi - dice - che c'entrano i palestinesi con Hamas? Sì, ma, e i russi? Che c'entrano i russi con Putin? Perché per due anni li avete demonizzati come persone, per il semplice fatto che hanno il passaporto russo? E se siete sensibili ai morti e prendete nota con cura degli aggiornamenti palestinesi pubblicati da Hamas, perché non esigete la pubblicazione dei morti ucraini? facendovi aggiungere eventualmente anche la cifra presunta dei morti russi.
La sintetica conclusione che si può trarre sulla politica americana è quella di una disgustosa ipocrisia moraleggiante a difesa dei propri interessi di predominio internazionale. L'America (USA) sta gradatamente perdendo la sua supremazia mondiale, e come fa spesso una grande potenza in declino, cerca di rallentare la sua discesa facendone pagare il prezzo maggiore agli alleati, che fino a quel momento ha trattato come suoi sottoposti. L'America ha interesse a che la guerra in Ucraina continui al fine di logorare le forze del nemico russo. E le va molto bene che questo avvenga a spese di ucraini ed europei. Gli americani guardano, rumoreggiano, pontificano e lasciano che a morire siano gli altri. L'Ucraina, liberata o no, alla fine della guerra sarà diventata uno straccio di nazione, in balia di non si sa chi. E questo non per l'iniziale, limitata invasione russa, ma perché gli anglo-americani hanno preteso che la guerra continuasse fino al raggiungimento del loro obiettivo: la disintegrazione della Federazione russa e la sua sparizione come grande potenza. Non ci sono riusciti, hanno fatto male i conti, come accade spesso agli americani. E adesso stanno cercando di farne pagare il conto ad altri.
Tutto questo si collega con politica americana verso Israele, che è sempre la stessa, ma in condizioni molto diverse.
In Israele l'America non ha interesse a che la guerra continui perché questo andrebbe a detrimento delle sue alleanze con i paesi arabi. Qui è il caso di contare i morti. Putin deve pagare, tutto e subito, Sinwar invece no: lui, si può farlo pagare a rate. Anche in questo caso hanno fatto male i conti. Adesso è Israele a dire: no, Sinwar deve pagare. E subito, costi quello che costi. Da Israele i costi sono pagati giorno per giorno, con la caduta dei propri figli in guerra, non di quelli degli altri, come accade in Ucraina. Ma il Presidente americano insiste, e poiché il Presidente israeliano resiste, lui dice che è "un figlio di p." Così si trattano gli alleati che non si allineano, secondo la pucciniana '"America for ever". Israele però non ci sta a far la parte di madama Butterfly.
(Notizie su Israele, 24 febbraio 2024)
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Media d’assalto
Sopravvissuti al 7 ottobre fanno causa alle testate dei freelance che attaccarono Israele con Hamas
ROMA - Alcuni sopravvissuti al pogrom di Hamas contro Israele del 7 ottobre e le famiglie delle vittime dell’attacco terroristico hanno intentato una causa contro l’Associated Press, accusando l’agenzia di stampa di essere complice della follia omicida del gruppo terroristico palestinese, a causa del lavoro dei fotoreporter freelance che accusano di essere stati incorporati nei ranghi di Hamas che hanno invaso Israele. I querelanti sono cittadini israelo-americani che hanno partecipato al festival musicale Supernova, dove i terroristi hanno massacrato 360 persone. Hanno presentato una denuncia in Florida, facendo causa all’Ap ai sensi della legge antiterrorismo.
I sopravvissuti del 7 ottobre accusano l’Ap di “sostenere materialmente il terrorismo” acquistando immagini riprese durante e dopo l’attacco. HonestReporting aveva pubblicato un rapporto in cui mostrava che i fotografi utilizzati da Ap, Reuters, New York Times e Cnn fornivano immagini scattate mentre l’attacco era in corso. L’organizzazione ha elencato quattro fotoreporter i cui nomi compaiono nelle foto dell’Ap scattate nella zona di confine tra Israele e Gaza: Hassan Eslaiah, Yousef Masoud, Ali Mahmud e Hatem Ali. La denuncia si concentra principalmente su Eslaiah che, secondo HonestReporting, ha attraversato il confine con Israele e scattato foto di un carro armato in fiamme. E poi dei terroristi che entravano nel kibbutz Kfar Aza, dove decine di israeliani sono stati massacrati. Sia Mahmud sia Ali hanno scattato foto di israeliani rapiti da Israele a Gaza, afferma il rapporto. Eslaiah è apparso in una foto del 2020 mentre veniva baciato dal leader di Hamas a Gaza Yahya Sinwar.
Ap, Reuters e New York Times hanno tutti negato di essere a conoscenza dell’attacco del 7 ottobre. Da allora, Ap e Cnn hanno interrotto i rapporti con Eslaiah. “Non c’è dubbio che i fotografi abbiano partecipato al massacro del 7 ottobre e che Ap avrebbe dovuto sapere, attraverso la semplice due diligence, che le persone che stavano pagando erano affiliati di Hamas e partecipanti all’attacco terroristico che stavano documentando”, si legge nella denuncia.
“Ap non era a conoscenza in anticipo degli attacchi del 7 ottobre, né abbiamo alcuna prova che lo fossero i giornalisti che hanno contribuito alla nostra copertura”, ha risposto l’agenzia di stampa.
E tra i vincitori dei George Polk Awards c’è proprio un giornalista che lavora per il New York Times accusato di essersi infiltrato in Israele la mattina dei massacri. Il premio è stato assegnato a Yousef Masoud. Il New York Times ha risposto così alle accuse: “False e scandalose”.
HonestReporting ha anche documentato che, durante il 7 ottobre, due fotoreporter freelance residenti a Gaza che lavoravano per Ap e Reuters si vantarono dei filmati che avevano acquisito mentre accompagnavano “sin dall’inizio” i terroristi di Hamas. Ashraf Amra e il collega fotoreporter Mohammed Fayq Abu Mostafa si sono filmati dicendo: “Eravamo lì due ore fa, dall’inizio”. Smentiscono così gli organi d’informazione internazionali che avevano difeso i loro collaboratori locali sostenendo che non erano stati informati dell’attentato. Abu Mostafa esortava i palestinesi ad approfittare di fare irruzione in Israele, dicendo: “Consiglio a chi può andare: vada, vada! E’ un evento unico che non si ripeterà”.
Se è vero quello che dicono le testate internazionali accusate, cioè che non avevano ovviamente alcuna notizia della partecipazione preventiva dei loro corrispondenti al 7 ottobre, restano due domande: chi sono i freelance di cui si servono? E, nel caso di una loro acclarata presenza sui luoghi dell’attentato, è lecito usarne le immagini?
Dopo il caso del giornalista di al Jazeera Mohammed Wishah che aveva un secondo lavoro come comandante nelle unità missilistiche anticarro di Hamas, Israele accusa anche Ismail Abu Omar, un giornalista di al Jazeera ferito in un attacco israeliano vicino a Rafah, nel sud di Gaza, di essere un agente di Hamas. Oltre a lavorare per la stazione di proprietà del Qatar, Abu Omar avrebbe prestato servizio come vicecomandante di compagnia nel battaglione East Khan Younis di Hamas. La mattina del 7 ottobre, Abu Omar si è infiltrato in Israele e ha filmato dall’interno del kibbutz Nir.
Il Foglio, 24 febbraio 2024)
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Hamas potrebbe accettare ritiro parziale di Israele dalla Striscia
RIAD - Il movimento islamista palestinese Hamas potrebbe rinunciare a chiedere il ritiro completo di Israele dalla Striscia di Gaza, almeno in un primo momento, come parte di un accordo per il cessate il fuoco. Lo ha riferito una fonte vicina al movimento al sito d’informazione saudita “Asharq”, secondo cui Hamas ha “ammorbidito” le precedenti richieste per raggiungere un accordo. In particolare, il gruppo islamista sembrerebbe disponibile ad accettare una tregua temporanea invece di un cessate il fuoco permanente e lo scambio di un numero di prigionieri palestinesi molto minore rispetto a quanto richiesto nelle precedenti trattative.
(Nova News, 24 febbraio 2024)
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RAM 2, l’unità responsabile dell’assistenza ai soldati ricoverati
All’interno del RAM 2, l’unità del Corpo Medico dell’IDF responsabile dell’assistenza ai soldati ricoverati, si sono verificati significativi ampliamenti dall’inizio del recente conflitto.
Le unità RAM 2 svolgono un ruolo cruciale nel rispondere alle esigenze pratiche ed emotive dei soldati feriti e delle loro famiglie, fungendo anche da collegamento con l’esercito per loro conto. A partire dalla recente guerra contro Hamas a Gaza, le unità RAM 2 sono diventate più grandi e più attive che mai. Tipicamente gestite da soldati che adempiono al servizio obbligatorio e da un ufficiale comandante, queste unità sono attualmente composte principalmente da riservisti, con una notevole enfasi sul coinvolgimento delle donne sia in tempo di pace che durante i conflitti. In Israele mancano ospedali militari dedicati, per cui i soldati feriti e malati vengono curati in centri medici civili. Le unità RAM 2 sono presenti nei principali ospedali del Paese per vigilare sul benessere dei soldati e delle loro famiglie. Secondo le statistiche del Ministero della Difesa pubblicate il 12 febbraio, oltre 2.880 soldati regolari e riservisti feriti sono stati ricoverati in ospedale durante il conflitto, di cui 1.326 dall’inizio dell’offensiva di terra, il 27 ottobre. Attualmente, 344 soldati sono ancora in ospedale. Il tenente colonnello Yonit Malkai, comandante del RAM 2 del Centro medico del Sheba, sottolinea l’importanza della comunicazione immediata e critica con le famiglie dei soldati feriti. Quando sono coscienti e in grado di parlare, i soldati vengono messi al telefono per informare i genitori del loro benessere. Questo piccolo gesto ha un peso emotivo significativo per le famiglie nei momenti di incertezza. L’unità RAM 2 del Sheba, comandata da Malkai, è composta da circa 50 soldati, per lo più riservisti. L’unità è divisa in varie sezioni, ognuna responsabile di diversi aspetti del sostegno ai soldati e alle loro famiglie. Questo supporto si estende non solo ai soldati feriti in guerra, ma anche a quelli ricoverati in ospedale per motivi di routine, come malattie, incidenti o ferite non legate al conflitto. Una sezione di RAM 2 riceve gli elicotteri dell’IDF in arrivo che trasportano soldati feriti, mentre un’altra stabilisce un contatto con i pazienti coscienti nel pronto soccorso o nella sala traumi. L’unità assicura un supporto continuo alle famiglie durante le prime ore critiche, fornendo aggiornamenti sulle condizioni del soldato e facilitando la comunicazione con il personale medico. Il sistema RAM 2 comprende personale medico dell’IDF responsabile del collegamento con il personale medico dell’ospedale, ufficiali di salute mentale che si occupano del benessere psicologico dei soldati feriti e un’altra sezione che si occupa delle questioni pratiche per le famiglie, come l’alloggio e il trasporto. I membri del RAM 2, che vanno da professionisti medici a soldati di varie unità, collaborano per garantire un’assistenza completa ai soldati ricoverati. L’unità coinvolge anche il Rabbinato dell’IDF per identificare i soldati in stato di incoscienza, e compiti logistici come la messa in sicurezza delle armi e la fornitura di oggetti personali fanno parte delle responsabilità della RAM 2. Nonostante alcuni aspetti del lavoro del RAM 2 siano logistici e banali, il tenente colonnello Malkai sottolinea la missione critica di fornire supporto emotivo. Che si tratti di tenere la mano di un genitore o di un soldato o di offrire una spalla su cui piangere, i legami che si formano durante questo periodo difficile sono considerati inestimabili e duraturi. La dedizione dell’unità ai soldati e alle loro famiglie sottolinea l’importanza del loro ruolo all’interno del Corpo medico dell’IDF.
(Israele360°, 23 febbraio 2024)
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Pubblicato il piano di Netanyahu per il dopoguerra a Gaza
Il piano tende ad escludere dalla gestione di Gaza l'Autorità Palestinese, almeno fino a quando manterrà questa forma. Chiusura della UNRWA ma non subito
di Sarah G. Frankl
Giovedì sera il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato al gabinetto di sicurezza un documento di principi sulla gestione di Gaza dopo la guerra, con l’obiettivo di installare “funzionari locali” non legati al terrorismo per amministrare i servizi nella Striscia al posto di Hamas. Il documento, pubblicato nella notte in Israele, è in gran parte una raccolta di principi che il premier ha espresso fin dall’inizio della guerra, ma è la prima volta che vengono formalmente presentati al gabinetto per l’approvazione. Per oltre quattro mesi, Netanyahu ha rinunciato a tenere discussioni nel gabinetto di sicurezza sul cosiddetto “giorno dopo” la guerra, temendo che ciò potesse portare a fratture nella sua coalizione di destra. Alcuni dei suoi ministri di estrema destra mirano a utilizzare tali riunioni al fine di spingere per il ripristino degli insediamenti israeliani a Gaza e per il controllo permanente della Striscia – politiche a cui il premier dice di opporsi e che sicuramente porterebbero alla dissipazione del rimanente sostegno di Israele in Occidente. A Netanyahu è bastato dire che non permetterà all’Autorità Palestinese di tornare a governare Gaza. A volte ha qualificato questa affermazione dicendo che Israele non permetterà all’Autorità palestinese nella sua forma attuale di tornare nell’enclave palestinese, indicando che Israele potrebbe convivere con un’Autorità palestinese riformata sul tipo che l’amministrazione Biden sta studiando. Altre volte, però, Netanyahu ha rifiutato in maniera più generica di permettere a Gaza di diventare “Fatahstan”, riferendosi al partito politico guidato dal presidente dell’AP Mahmoud Abbas. In particolare, il documento di principi che Netanyahu ha presentato ai ministri del gabinetto di sicurezza durante la riunione di giovedì sera non nomina specificamente l’Autorità palestinese né esclude la sua partecipazione alla governance postbellica di Gaza. Invece, dice che gli affari civili a Gaza saranno gestiti da “funzionari locali” che hanno “esperienza amministrativa” e che non sono legati a “Paesi o entità che sostengono il terrorismo”. Il linguaggio è vago, ma potrebbe riguardare gruppi che ricevono finanziamenti dal Qatar e dall’Iran – come Hamas – o forse l’Autorità Palestinese, il cui programma di welfare include pagamenti a terroristi condannati e alle loro famiglie. Una dichiarazione dell’ufficio di Netanyahu ha affermato che il documento si basa su principi ampiamente accettati dall’opinione pubblica e che servirà come base per le future discussioni sulla gestione postbellica di Gaza. Il piano inizia stabilendo un principio per l’immediato: L’IDF continuerà la guerra fino al raggiungimento dei suoi obiettivi, che sono la distruzione delle capacità militari e delle infrastrutture governative di Hamas e della Jihad islamica, la restituzione degli ostaggi rapiti il 7 ottobre e la rimozione di qualsiasi minaccia alla sicurezza della Striscia di Gaza proiettata nel lungo termine. L’IDF manterrà una libertà operativa indefinita in tutta la Striscia per prevenire la ripresa delle attività terroristiche, si legge nel documento, che lo descrive come un principio a medio termine. Il piano afferma che Israele andrà avanti con il suo progetto già in atto di stabilire una zona cuscinetto di sicurezza sul lato palestinese del confine della Striscia, aggiungendo che rimarrà in vigore “finché ci sarà una necessità di sicurezza”. Questo punto del piano è direttamente in contrasto con uno dei principi dell’amministrazione Biden per il dopoguerra a Gaza, che afferma che non ci sarà alcuna riduzione del territorio dell’enclave. Il documento presentato da Netanyahu offre anche i dettagli più concreti fino ad oggi riguardo ai piani di Israele per il confine tra Egitto e Gaza, che è stato afflitto dal contrabbando sia in superficie che in profondità. Il documento afferma che Israele imporrà una “chiusura al confine meridionale” per prevenire la ripresa delle attività terroristiche. La chiusura sarà mantenuta con l’assistenza degli Stati Uniti e in cooperazione con l’Egitto “per quanto possibile”, si legge nel documento, in un apparente riconoscimento della disapprovazione del Cairo per l’apparente violazione della sua sovranità. Il Cairo ha respinto le richieste israeliane di assumere il controllo del corridoio di Philadelphi sul confine tra Egitto e Gaza, ma in privato ha indicato una maggiore flessibilità, come hanno riferito diplomatici statunitensi e arabi. Sia gli Stati Uniti che l’Egitto, tuttavia, sono meno propensi a cooperare con tali piani che non siano parte di un’iniziativa più ampia volta a creare un percorso verso un eventuale Stato palestinese – cosa che Netanyahu rifiuta. Il documento aggiunge che “la chiusura a sud sarà costituita da misure volte a prevenire il contrabbando dall’Egitto – sia nel sottosuolo che in superficie, compreso il valico di Rafah”. Sempre nella fase intermedia, Israele manterrà il controllo della sicurezza “su tutta l’area a ovest della Giordania”, da terra, aria e mare, “per prevenire il rafforzamento degli elementi terroristici in [Cisgiordania] e nella Striscia di Gaza e per sventare le loro minacce verso Israele”, si legge nel documento. Il piano di Netanyahu prevede la “completa smilitarizzazione di Gaza… al di là di quanto necessario per il mantenimento dell’ordine pubblico”. Aggiunge che Israele sarà responsabile della realizzazione di questo obiettivo per il prossimo futuro, lasciando potenzialmente aperta la porta ad altre forze per finire il lavoro in seguito. Oltre ai “funzionari locali” che Netanyahu immagina responsabili dell’ordine pubblico e della fornitura di servizi civili, il documento aggiunge che Israele promuoverà anche un “piano di de-radicalizzazione… in tutte le istituzioni religiose, educative e assistenziali di Gaza”. Anche questo sarà portato avanti “per quanto possibile con il coinvolgimento e l’assistenza dei Paesi arabi che hanno esperienza nella promozione della de-radicalizzazione”. Questa linea sembra essere un cenno ai Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, ma entrambi hanno ripetutamente chiarito che non giocheranno alcun ruolo nella riabilitazione di Gaza a meno che non sia parte di un quadro finalizzato a un’eventuale soluzione a due Stati. Gli analisti hanno espresso anche un forte scetticismo nei confronti dell’obiettivo di Netanyahu di consacrare i leader dei clan palestinesi non affiliati, notando la probabilità che qualsiasi leader di comunità palestinese visto cooperare apertamente e unilateralmente con Israele sarà rapidamente delegittimato e forse vedrà addirittura la sua vita in pericolo. Dicono che uno sforzo simile è stato fatto dagli Stati Uniti dopo l’invasione dell’Iraq due decenni fa, ma che si è ritorto contro di loro. Di conseguenza, la comunità internazionale sta spingendo affinché l’Autorità palestinese finisca per governare Gaza, dato che dispone già di alcune infrastrutture per farlo. La sua legittimità tra i palestinesi è carente, ma le parti interessate sperano che la situazione cambi dopo l’introduzione di una serie di riforme. Un funzionario israeliano, che ha rivelato giovedì scorso che questo aspetto del piano è già in fase avanzata, ha sostenuto che l’AP non dovrebbe essere inclusa nella governance post-bellica per la sua mancata condanna dell’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre, quando migliaia di terroristi guidati da Hamas si sono scatenati in una furia omicida nel sud di Israele, uccidendo 1.200 persone e prendendo 253 ostaggi. Un altro aspetto chiave del documento di principi di Netanyahu è la chiusura dell’agenzia di soccorso delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, l’UNRWA. Il documento rileva il presunto coinvolgimento di 12 dipendenti dell’UNRWA nell’assalto del 7 ottobre e afferma che Israele lavorerà per sostituire l’agenzia con “organizzazioni umanitarie internazionali responsabili”. Nel breve termine, tuttavia, un alto funzionario israeliano ha dichiarato che Gerusalemme si oppone allo scioglimento immediato dell’UNRWA. Il funzionario ha spiegato che l’UNRWA è attualmente la principale organizzazione di distribuzione degli aiuti sul territorio e che la sua chiusura rischia una catastrofe umanitaria che potrebbe costringere Israele a cessare i combattimenti contro Hamas. In particolare, il documento chiarisce che Israele permetterà l’inizio della ricostruzione di Gaza solo dopo il completamento della smilitarizzazione della Striscia e l’avvio del “processo di de-radicalizzazione”. “Il piano di riabilitazione sarà finanziato e guidato da Paesi graditi a Israele”, si legge nel documento, ancora una volta in contrasto con molti dei Paesi considerati potenziali donatori, che chiedono che la ricostruzione di Gaza sia accompagnata da un orizzonte politico per i palestinesi. Il piano di Netanyahu si conclude ribadendo un paio di principi adottati all’inizio di questa settimana sia dal Gabinetto che dalla Knesset: Israele rifiuta categoricamente qualsiasi imposizione internazionale riguardo a un accordo permanente con i palestinesi, che dovrebbe essere raggiunto solo attraverso negoziati diretti tra le parti, senza precondizioni; Israele continuerà a opporsi al riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese, che considera una “ricompensa per il terrore”.
(Rights Reporter, 23 febbraio 2024)
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Fabio Brescacin e i datteri dei Kibbutz: «lavorare con Israele è giusto e sano»
Dopo il tentativo di boicottaggio, intervista al fondatore di NaturaSì che lavora da trent’anni con coltivatori israeliani, dei quali apprezza la gestione. Alle critiche risponde: «Non entriamo in diatribe politiche, ma guardiamo a persone e qualità della frutta. Apprezzo la competenza agricola di Israele»
di David Fiorentini
“Miriamo a creare relazioni trasparenti e durature con i nostri clienti e i nostri fornitori. L’azienda deve sforzarsi di perseguire un continuo processo di miglioramento professionale e di efficienza per dare un servizio sempre più appropriato e meno costoso agli altri attori del processo economico.” Questa è parte della
missione di EcorNaturaSì, la catena di alimentari specializzata in prodotti biologici e biodinamici, che recentemente è stata criticata per la vendita di datteri israeliani. Per approfondire la questione e comprendere la posizione dell’azienda, abbiamo intervistato il presidente e fondatore Fabio Brescacin. Nato a Conegliano Veneto (TV), classe 1955, si è laureato in Scienze Agrarie all’Università degli Studi di Padova, e dopo un’esperienza all’estero presso l’Emerson College in Inghilterra, è tornato in Italia dove ha intrapreso la sua avventura nel mondo bio.
- Non è il primo anno che importate i datteri dai kibbutz in Israele. Come siete entrati in contatto con loro? Guardi, la storia è abbastanza lunga. Circa 30 anni fa, abbiamo iniziato a collaborare con un agricoltore triestino di religione ebraica, che dopo la Seconda Guerra Mondiale era riuscito ad andare in Israele, fondando di fatto il biologico nel paese. All’epoca, avevamo particolarmente bisogno di carote bio durante l’inverno, perché non le facevamo ancora in Italia, e quindi abbiamo lavorato diversi anni con lui e il suo Kibbutz.
In seguito, ci siamo interfacciati con una cooperativa israeliana, Hadiklaim, la quale a sua volta ci ha messo in contatto con i due Kibbutz, che attualmente ci forniscono datteri. Da qui abbiamo iniziato a importare i datteri e devo dire che ci siamo trovati molto bene, perché sinceramente è un dattero di ottima qualità, che la gente apprezza.
Tra l’altro, due nostri colleghi li hanno visitati qualche anno fa e hanno avuto un’ottima impressione, per cui a maggior ragione abbiamo continuato a lavorare con loro.
- Quest’anno invece avete ricevuto varie critiche in merito alla vostra collaborazione con un’azienda israeliana. Come avete reagito? Quest’anno abbiamo ricevuto alcune segnalazioni che contestavano il fatto che noi vendevamo prodotti israeliani. Però noi abbiamo risposto a tutte quante dicendo che non entriamo in questioni politiche, ma guardiamo alle persone, guardiamo alla realtà.
La nostra posizione è questa, e vale per tutti, non solo per Israele e Palestina. Noi guardiamo alle realtà concrete che lavorano, per questo continuiamo a lavorare con questi Kibbutz, così come lavoriamo con fornitori di datteri egiziani e tunisini.
La gente è libera di fare le proprie scelte. Io volevo andare in Israele proprio in primavera, su invito dei responsabili dei Kibbutz, però adesso in questa situazione non sarà possibile.
Abbiamo anche un’agenzia di viaggi che collabora con noi, ViandantiSì, e avevo previsto proprio di organizzare dei tour in Israele, magari inserendo questi Kibbutz nel programma. Appena sarà possibile mi piacerebbe andare giù, anche con i consumatori o magari invitando proprio quei critici, affinché vedano chi c’è dietro queste linee di produzione e si facciano un’idea concreta e reale della situazione.
- Pensa che questi tentativi di boicottaggio possano influenzare le vostre scelte in termini di collaborazioni future? Soprattutto se poi si declinano in una diminuzione delle vendite… In realtà abbiamo venduto bene, non abbiamo ancora i conti finali, ma i dati che mi stanno dando i miei colleghi sono mediamente superiori a quelli degli scorsi anni, abbiamo fatto un bel lavoro per i datteri, siamo contenti.
Come già detto, guardiamo alle realtà: questo vale per la Cina, dove di certo non ci interfacciamo con persone a caso, ma con fornitori di fiducia, lo stesso per l’India o il Sud America. In questi anni abbiamo creato una rete che reputiamo virtuosa, indipendentemente dalle situazioni politiche o dei governi locali; altrimenti non potremmo più importare nulla.
La chiave è stata la trasformazione di queste critiche in opportunità positive. Abbiamo intensificato i confronti con i fornitori, ci hanno inviato dei video, insomma abbiamo avuto un’ottima occasione per approfondire. In questo modo, siamo riusciti a creare relazioni più strette con le persone, e grazie a questo ci siamo ancora più convinti della nostra scelta.
(Bet Magazine Mosaico, 23 febbraio 2024)
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Come gli Stati Uniti hanno abbandonato Israele sotto Biden
di Robert Williams
"Vengo in Israele con un unico messaggio: Non siete soli", ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden subito dopo il massacro del 7 ottobre da parte dell'organizzazione terroristica Hamas di israeliani, musulmani, americani, europei, filippini e thailandesi che si stavano godendo un sabato di vacanza nel sud di Israele. "Finché gli Stati Uniti resteranno in piedi - e resteranno in piedi per sempre - non vi lasceremo mai soli", ha continuato Biden.
“Sono venuti in superficie ricordi dolorosi e cicatrici lasciate da millenni di antisemitismo e dal genocidio del popolo ebraico. Il mondo ha guardato, sapeva, e non ha fatto nulla. Non staremo a guardare e a non fare nulla di nuovo. Né oggi, né domani, né mai. Israele deve tornare a essere un luogo sicuro per il popolo ebraico. E ve lo prometto: Faremo tutto ciò che è in nostro potere per assicurarci che lo sia".
Non ci è voluto molto, tuttavia, perché l'amministrazione Biden stravolgesse completamente questa promessa. L'inversione di rotta è iniziata con le richieste degli Stati Uniti a Israele di ridimensionare le operazioni militari, che erano già state ridotte al di là di qualsiasi operazione militare nella storia della guerra urbana, al punto da mettere in pericolo la vita dei soldati israeliani. Le Forze di Difesa Israeliane hanno lanciato migliaia di volantini che esortavano i gazesi a fuggire a sud verso aree di sicurezza designate. Invece di bombardare a tappeto, che avrebbe evitato la morte di centinaia di soldati israeliani, l'IDF ha condotto solo attacchi aerei mirati e ha manovrato a piedi attraverso vicoli e centinaia di chilometri di tunnel con trappole esplosive. Hamas, nel frattempo, sparava sui suoi stessi cittadini per impedire loro di fuggire per mettersi in salvo, in modo che l'IDF dovesse combattere i terroristi di Hamas incorporati nella popolazione civile.
"Israele ha messo in atto più misure per prevenire le vittime civili di qualsiasi altra nazione nella storia", ha scritto John Spencer, uno dei maggiori esperti di guerra urbana e sotterranea, che presiede gli studi sulla guerra urbana presso l'Istituto di Guerra Moderna dell'Accademia Militare degli Stati Uniti di West Point.
Ciononostante, l'amministrazione Biden ha intensificato le sue critiche fino a insinuazioni sfacciate contro Israele di presunte malefatte nella sua guerra a Gaza. "Il 7 ottobre gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile", ha dichiarato il Segretario di Stato americano Antony Blinken durante una visita in Israele all'inizio di febbraio. "Gli ostaggi sono stati disumanizzati ogni giorno da allora, ma questo non può essere una licenza per disumanizzare gli altri", ha proseguito Blinken, insinuando che Israele stesse "disumanizzando" i gazesi.
"Il tributo giornaliero che le operazioni militari [di Israele] continuano a fare a civili innocenti rimane troppo alto. Esortiamo Israele a fare di più per aiutare i civili, ben sapendo di dover affrontare un nemico che non si atterrebbe mai a questi standard".
Nessuno sa quanti civili siano stati uccisi a Gaza. I numeri delle vittime sono emessi esclusivamente dal Ministero della Sanità di Gaza - gestito, ovviamente, da Hamas, che classifica ogni vittima come civile. Quando Blinken "accusa Israele - in modo impreciso, ingiusto e diffamatorio - di disumanizzare i palestinesi", ha commentato l'ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Michael Oren, "ci disumanizza e contribuisce alla delegittimazione di Israele e alla demonizzazione degli ebrei in tutto il mondo". All'inizio di febbraio, Biden ha dichiarato ai giornalisti: "Sono del parere, come sapete, che la condotta della risposta a Gaza - nella Striscia di Gaza - sia stata sopra le righe". La segretaria stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha poi cercato di "chiarire" il commento dicendo che Biden intendeva dire che Israele deve garantire che le sue "operazioni siano mirate e condotte in modo da proteggere i civili innocenti". Il governo statunitense, tuttavia, è pienamente consapevole che Israele fa più di qualsiasi altro esercito - persino più degli Stati Uniti - per proteggere i civili. Il portavoce della Casa Bianca John Kirby, contrammiraglio della Marina in pensione, ha dichiarato il 13 febbraio:
"Li abbiamo visti [le IDF] intraprendere azioni - a volte azioni che nemmeno i nostri militari sarebbero in grado di intraprendere - in termini di informazione delle popolazioni civili prima delle operazioni, dove andare o non andare".
Kirby ha anche definito l'azione legale del Sudafrica contro Israele per la sua guerra a Gaza "priva di merito, controproducente e completamente priva di qualsiasi base di fatto".
Recentemente, l'amministrazione Biden ha fatto un ulteriore passo avanti nella sua posizione anti-Israele. Il Dipartimento di Stato americano sta ora "indagando" sugli attacchi aerei israeliani a Gaza, che avrebbero ucciso decine di civili, e sulle accuse che Israele abbia usato il fosforo bianco in Libano. L'obiettivo, secondo i funzionari statunitensi che hanno parlato con il Wall Street Journal, è "determinare se uno dei più stretti alleati dell'America abbia usato impropriamente le sue bombe e i suoi missili per uccidere civili". Inoltre, l'amministrazione Biden avrebbe indagato "per mesi" sulla campagna militare di Israele a Gaza, nonostante le rassicurazioni sul fatto che non stesse facendo nulla del genere. Kirby ha dichiarato ai giornalisti il 4 gennaio:
"Non sono a conoscenza di alcun tipo di valutazione formale fatta dal governo degli Stati Uniti per analizzare il rispetto del diritto internazionale da parte del nostro partner Israele... dobbiamo adottare un approccio diverso in termini di tentativo di aiutare Israele a difendersi".
Tuttavia, l'Huffington Post ha scritto il 13 febbraio che, secondo funzionari dell'amministrazione Biden non citati, le indagini si sono svolte sia nel Dipartimento di Stato che in quello della Difesa:
"A livello interno, i funzionari statunitensi hanno valutato le possibili violazioni del diritto internazionale da parte di Israele per mesi, e stanno continuando a farlo, ha appreso l'HuffPost da quattro fonti che hanno familiarità con le discussioni private sulle valutazioni".
La cosa più eloquente dell'abbandono di Israele da parte degli Stati Uniti, mentre combatte il terrorismo per conto della civiltà occidentale, sono le notizie secondo cui Biden, in coalizione con Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e rappresentanti palestinesi, avrebbe fretta di ricompensare Hamas per il massacro del 7 ottobre - che ha giurato di ripetere "ancora e ancora" finché Israele non sarà annientato - con un piano "irreversibile" per la creazione di uno Stato palestinese. Secondo il Washington Post del 14 febbraio:
"L'amministrazione Biden e un piccolo gruppo di partner mediorientali si stanno affrettando a completare un piano dettagliato e completo per una pace a lungo termine tra Israele e i palestinesi, che includa un calendario preciso per la creazione di uno Stato palestinese, che potrebbe essere annunciato già nelle prossime settimane".
Il gruppo di Paesi che vogliono imporre a Israele una soluzione a due Stati si estende ben oltre il Medio Oriente:
"La cerchia dei sostenitori di un piano deciso si estende oltre il piccolo gruppo di coloro che ci stanno lavorando direttamente. Il ministro degli Esteri britannico David Cameron ha espresso pubblicamente il suo interesse per un rapido riconoscimento di uno Stato palestinese. L'Unione Europea sta "cercando di capire come possiamo lavorare insieme per avere un piano più ampio che si concentri effettivamente sulla fine del conflitto", ha dichiarato Sven Koopmans, rappresentante speciale dell'Unione Europea per il processo di pace in Medio Oriente. Si tratta di un vero e proprio processo di pace che vuole arrivare a uno Stato palestinese indipendente e pienamente riconosciuto e a uno Stato di Israele sicuro e pienamente integrato nella regione. È fattibile? È estremamente difficile, ma in assenza di altri piani, siamo interessati a perseguirlo".
L'unico Paese rilevante che apparentemente non è stato invitato alle discussioni "urgenti" è Israele. Evidentemente il mondo non lo considera uno Stato sovrano a cui è consentito prendere le proprie decisioni in materia di sicurezza. Invece, Israele deve presumibilmente essere costretto a fare la "pace" con un nemico che ha giurato di stuprare, mutilare, torturare, bruciare e uccidere fino all'eliminazione di ogni ebreo nella terra. Il governo israeliano ha immediatamente rilasciato una dichiarazione:
"Israele rifiuta categoricamente i dettami internazionali riguardanti un accordo finale con i palestinesi. Tale accordo sarà raggiunto esclusivamente attraverso negoziati diretti tra le parti, senza precondizioni. Israele continuerà ad opporsi al riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese. Tale riconoscimento, sulla scia del massacro del 7 ottobre, darebbe un'enorme ricompensa a un terrorismo senza precedenti e impedirebbe qualsiasi futuro accordo di pace".
Tuttavia, anche questo è stato distorto dai media ostili. Secondo Honest Reporting:
“Quello che la dichiarazione di Israele non ha fatto sul riconoscimento unilaterale è stato opporsi alla statualità palestinese in generale. Cioè, Israele non ha rifiutato apertamente l'idea che uno Stato palestinese possa essere formato come parte di un accordo di pace più ampio... Il fatto è che Israele ha dimostrato più volte di essere disposto a negoziare con i palestinesi e di non opporsi alla realizzazione di uno Stato palestinese.... Per i media suggerire il contrario è solo revisionismo storico".
L'interesse principale dell'amministrazione Biden, tuttavia, sembra chiaramente non essere quello dei fatti. Piuttosto, sembra essere quello di diffamare e prendere le distanze da Israele, forse nella speranza di ottenere più "swing states" nelle prossime elezioni americane di novembre.
Biden sta perdendo elettori, tuttavia, per ragioni diverse dalle sue opinioni su Israele. Si può cominciare con il recente rapporto Hur del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, secondo il quale Biden non sarebbe stato accusato dei crimini che avrebbe commesso, di aver preso illegalmente e conservato in modo non sicuro documenti classificati, perché è un "uomo anziano e di buone intenzioni con scarsa memoria"... perfetto per guidare il Paese? Da quando Biden ha iniziato il suo mandato nel gennaio 2021, l'America ha visto anche "un'inflazione galoppante"; una frontiera aperta che il direttore dell'FBI Christopher Wray, secondo la Commissione per la sicurezza interna della Camera, ha detto che "pone [una] grave minaccia alla sicurezza", così come, ha avvertito Wray:
“la Cina ha la capacità di 'creare scompiglio' nelle infrastrutture statunitensi e di danneggiare direttamente gli americani .... i nostri impianti di trattamento dell'acqua, la nostra rete elettrica, i nostri oleodotti e gasdotti, i nostri sistemi di trasporto.... colpi bassi contro i civili fanno parte del piano della Cina".
Infine, c'è il pericolo incalcolabile per il Medio Oriente e il Nord America di un regime iraniano con ambizioni illimitate, in procinto di produrre bombe nucleari illimitate.
Biden, evidentemente, non sembra intenzionato a rendere Israele o il mondo libero di nuovo un luogo sicuro. Almeno non se questo potrebbe compromettere la sua rielezione.
(Gatestone Institute, 22 febbraio 2024 - trad. ilvangelo-israele.it)
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Parashà di Tetzavè: Il proselita e i vestimenti del kohèn gadòl
di Donato Grosser
In questa parashà l’Eterno diede istruzioni a Moshè per il confezionamento dei vestimenti dei kohanìm. Otto vestimenti per Aharon, che doveva essere kohèn gadòl, e quattro per gli altri kohanìm.
Nella Torà è scritto: “Farai confezionare per Aharon, tuo fratello, vestimenti sacri, segno di dignità e magnificenza” (Shemòt, 28:2).
Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) nel suo commento alla Torà, a proposito dei vestimenti del kohèn gadòl, scrive che il kohèn gadòl “… dev’esser distinto e sontuoso con abiti di dignità e magnificenza, proprio come dice la Scrittura, «Come uno sposo che si adorna di un diadema» (Yesha’yà, 61:10), poiché questi vestimenti sono come quelli che i monarchi indossavano al tempo in cui fu data la Torà. Così troviamo in riferimento alla tunica [di Yosef quando il padre Ya’akòv] «Gli fece una tunica a di tessuto a quadretti di colori variegati» (Bereshìt, 37:3) e r. Avraham Ibn Ezra (Tudela, 1089-1167, Calahorra) spiega «Che lo vestì come i figli di antichi re»”.
Che i vestimenti del kohèn gadòl fossero di stile regale lo conferma il Talmud nel trattato Meghillà (12a) dove è raccontato che re Achashverosh, in occasione della grande festa che fece a Shushàn, si adornò con i vestimenti del kohèn gadòl.
Rashì (Troyes, 1040-1105) spiega che questi vestimenti erano parte del bottino che re Nevuchadnetzar aveva preso da Gerusalemme quando aveva conquistato la città.
Nel Talmud (Shabbàt, 31a) è raccontato che questi vestimenti suscitarono l’immaginazione di un gentile che passava vicino a una scuola: “… un gentile che stava passando dietro a una scuola, sentì la voce di un maestro che stava insegnando Torà ai suoi studenti. Il maestro leggeva il versetto: «E questi sono gli vestimenti che faranno: un pettorale, un dorsale, un manto, una tunica lavorata a quadretti, un turbante e una cintura» (Shemòt, 28:4). Il gentile disse: Questi vestimenti a chi sono destinati? Gli studenti gli dissero: al kohèn gadòl. Il gentile disse tra sé: andrò a convertirmi affinché mi nominino kohèn gadòl.
Si presentò a Shammai e gli disse: Convertimi a condizione che tu mi nomini kohèn gadòl. Shammai lo respinse con l’asta di misura da geometra che aveva in mano. Andò da Hillel; Hillel accettò di convertirlo [Maharsha], ma prima gli disse: Non è forse appropriato che solo chi conosce i protocolli della regalità venga nominato re? Vai e impara i protocolli reali impegnandoti nello studio della Torà.
Il gentile andò a leggere la Torà. Quando arrivò al versetto che dice [che solo i leviti potevano avvicinarsi al Mishkàn] e che «… lo straniero che si avvicinerà morirà» (Bemidbàr, 1:51), il gentile disse a Hillel: A chi si riferisce questo versetto? Hillel gli disse: Anche a Davide, re d’Israele. Il gentile fece una deduzione a fortiori: Il popolo ebraico è chiamato figlio dell’Onnipresente, e per l’amore verso di loro Egli ha detto: «Israele è Mio figlio primogenito» (Shemòt, 4:22). Con tutto ciò anche riguardo a loro è scritto: «E lo straniero che si avvicinerà morirà». Se così, a maggior ragione questo vale anche per un proselita come me venuto con nient’altro che il bastone e la borsa da viaggio.
Il gentile andò da Shammai e gli disse che ritrattava la sua richiesta di essere nominato kohèn gadòl, dicendo: Sono davvero degno di essere kohèn gadòl? Non è scritto nella Torà: «E lo straniero che si avvicina morirà?». Poi andò da Hillel e gli disse: Hillel, hai avuto pazienza [con me], sii benedetto per avermi portato sotto le ali della Presenza Divina”.
(Shalom, 23 febbraio 2024)
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Parashà della settimana: Tetsavè (Ordinerai)
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Attentato a Ma’ale Adumin, un morto, molti feriti
In licenza da una settimana dopo mesi di combattimento a Gaza, Hanania Ben Shimon, riservista di 23 anni, questa mattina era in auto con sua madre sull’autostrada 1. Si stavano dirigendo verso Gerusalemme, quando sono rimasti bloccati nel traffico vicino all’insediamento di Ma’ale Adumin. Là tre terroristi palestinesi sono scesi da un’auto a poca distanza e hanno iniziato a sparare con armi automatiche contro le macchine ferme. Hanno ucciso un ragazzo di 26 anni, Matan Elmaleh, e ferito altre dieci persone, tra cui Adi Zohar, una donna di 30 anni incinta. Il nascituro sta bene, riportano i media israeliani. La madre ha riportato ferite gravi, ma non è in pericolo di vita. “Ha visto un’auto centrarne un’altra davanti a lei. Ha pensato a un incidente. – ha raccontato il padre della donna, Eli Biton – Poi la portiera del conducente si è aperta. Il terrorista è andato dritto verso Adi. Lei ha visto l’arma e lui le ha sparato una volta, continuando la sua strada verso altri veicoli. È un grande miracolo che sia viva”.
Nel caos dell’attentato terroristico, Hanania è stato tra i primi a rispondere alla minaccia. “Ha sparato il primo proiettile attraverso il finestrino dell’auto, poi è uscito e ha lottato con uno dei terroristi. È riuscito a eliminarlo, rimanendo a sua volta ferito”, ha raccontato il padre del riservista a ynet. Hanania è ora ricoverato in ospedale con diverse ferite di proiettile all’addome. “È cosciente, le sue condizioni sono descritte come moderate. – ha spiegato il padre – Sono certo che si rimetterà presto e tornerà per salvare altre vite”.
Due dei terroristi sono stati eliminati sul posto, mentre un terzo è stato colpito mentre cercava di fuggire dalla zona. È ricoverato, ma non sono state rese note le
sue condizioni. I tre sono arrivati da Betlemme con due veicoli diversi, creando loro volutamente l’ingorgo, secondo le ricostruzioni dei testimoni. Per la dinamica e per le armi usate – tra cui un M16 – la polizia israeliana ritiene si tratti di un attacco pianificato da tempo. In uno dei veicoli dei terroristi c’erano diversi proiettili e una granata.
Autorità e residenti di Maale Adumim hanno più volte definito l’area teatro dell’attentato come “una trappola mortale” per la facilità con cui si creano ingorghi e per la difficoltà eventualmente di fuggire. “Abbiamo avvertito decine di volte le forze di sicurezza del timore di un attacco su questa strada trafficata. Abbiamo chiesto nuovi checkpoint e di separare i veicoli israeliani da quelli palestinesi”, ha dichiarato Benny Kashriel, sindaco di Ma’ale Adumim.
(moked, 22 febbraio 2024)
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Stupri di massa, mutilazioni e atti bestiali
Il rapporto sugli abusi sessuali subiti dalle vittime e dai rapiti del 7 ottobre
di Sarah Tagliacozzo
L’Associazione israeliana dei Centri della Crisi sugli Stupri (ARCCI) ha pubblicato un rapporto sugli abusi sessuali, le violenze e le mutilazioni subite dalle vittime dell’attacco terroristico nel sud di Israele il 7 ottobre e durante la prigionia nella Striscia di Gaza da parte degli ostaggi rapiti dai terroristi di Hamas.
Il rapporto è stato presentato all’inviato speciale sulle violenze sessuali nelle zone di conflitto e mette in luce il ricorso sistematico allo stupro e agli abusi sessuali nei confronti sia di uomini che di donne.
Le autrici del rapporto, Klar-Chalamish e Noga Berger, hanno analizzato dati pubblici e riservati, testimonianze ed interviste a medici e al personale che ha prestato il primo soccorso alle vittime dell’attentato. Sono stati pubblicati solo dettagli provenienti da fonti considerate attendibili.
Le principali aree in cui si sarebbero verificati episodi di violenza sessuale sono i kibbutz, l’area in cui si stava svolgendo il Supernova festival, le basi militari a cui si aggiungono gli abusi sessuali subiti dagli ostaggi nella Striscia di Gaza.
L’indagine pubblicata riporta che molti stupri sono avvenuti con la collaborazione di più di un terrorista e a volte di fronte ad un pubblico di partner, familiari o amici, per aumentare il dolore e l’umiliazione di tutti i presenti.
Testimonianze e dati cruenti che secondo Orit Sulitzeanu, presidente dell’Associazione, «non lasciano spazio a smentite o disattenzioni. L’organizzazione terroristica di Hamas ha scelto di ferire strategicamente Israele in due modi chiari: rapendo cittadini e commettendo crimini sessuali sadici».
Tra le informazioni incluse emerge che gli stupri sarebbero stati particolarmente violenti e perpetrati con la minaccia delle armi. Molte le testimonianze raccolte comprendono i racconti di sopravvissuti che hanno assistito agli stupri da parte di più terroristi che hanno anche ferito, picchiato e poi ucciso la vittima.
«Molti dei corpi delle vittime sono stati trovati mutilati e piegati, con gli organi sessuali attaccati brutalmente e in alcuni casi anche con armi inserite al loro interno. Alcuni corpi sono stati scoperti con trappole esplosive». Inoltre, in alcuni cadaveri di donne e bambine, secondo quanto riportato dall’indagine, sono stati trovati coltelli inseriti negli organi genitali.
Tra le testimonianze raccolte vi è quella di un soccorritore, Noam Mark, che ha rinvenuto i corpi di tre giovani donne che avevano partecipato al Supernova Festival. I loro corpi sono stati scoperti in un kibbutz e riportavano evidenti segni di violenza sessuale.
Le autrici del rapporto sottolineano che «mentre le cicatrici dei nostri cuori si rifiutano di guarire e le anime delle nostre sorelle e fratelli ci gridano dalle profondità della terra, una parte significativa di coloro che consideravamo partner ha risposto nel silenzio e nella negazione di questi orrori. Vi invitiamo ad alzare la voce e a non permettere che il grido di queste vittime si affievolisca».
(Shalom, 22 febbraio 2024)
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Macché sanzioni: siamo in affari con Putin >
Due anni di retorica sullo zar moribondo, l'esercito russo a pezzi, il crollo imminente. Risultato: centinaia di migliaia di morti mentre volano le importazioni alimentari da Mosca (il grano duro fa + 1.164%) e, grazie alle triangolazioni, pure quelle di petrolio.
di Maurizio Belpietro
Negli ultimi due anni ci hanno raccontato che la Russia non avrebbe potuto resistere alle sanzioni internazionali, che Putin era gravemente malato e forse addirittura già morto, e quand'anche non fosse passato a miglior vita, le lotte di potere al Cremlino, comunque, lo avrebbero presto disarcionato. Non conto le analisi pubblicate dalla stampa italiana e straniera sul crollo delle importazioni di gas e petrolio, sull'esclusione dal sistema bancario di regolazione dei crediti, sui tremori delle mani e dei piedi dello zar, indicati come spia di una malattia degenerativa, sull'impreparazione delle truppe russe, sul golpe di Prigozhin e sulla controffensiva ucraina. Tutto lasciava presagire che la guerra sarebbe finita presto e, inevitabilmente, che a essere sconfitta dall'alleanza occidentale sarebbe stata Mosca. Peccato che niente di tutto ciò si sia verificato e che ora, da giorni, la grande stampa sia piena di allarmi sulle prossime mosse di Putin, il quale non si accontenterebbe del Donbass, ma si preparerebbe tra uno, due o cinque anni ad attaccare un Paese Nato e a invadere - udite, udite - l'Europa. Dalle principali capitali del Vecchio continente e dai vertici della Nato arrivano preoccupati solleciti che invitano gli Stati che fanno parte della Ue ad armarsi. Un po' perché se vince Trump l'America promette di disinteressarsi dei destini europei, e un po' perché l'orso russo è diventato il nuovo babau, da agitare al momento giusto, quando c'è qualche difficoltà. Allora, così come non ho quasi mai creduto alle previsioni ottimistiche circolate all'inizio della guerra sul collasso di Mosca, sull'assassinio di Putin, sulla rivolta degli oligarchi e degli intellettuali russi, né ho mai pensato che davvero lo zar fosse gravemente malato o addirittura passato a miglior vita e già sostituito da una controfigura o che la controffensiva avrebbe avuto alcuna possibilità di indurre l'invasore alla resa, oggi non credo che la Russia si prepari ad altre guerre dopo quella con l'Ucraina. Per Putin è già una vittoria aver tenuto le posizioni conquistate con il blitz del 24 febbraio di due anni fa e addirittura aver resistito a tutte le sanzioni occidentali, costruendo nuove alleanze con Cina, Iran, Corea del Nord, presentandosi come mediatore o catalizzatore delle istanze in Medio Oriente, dopo lo scoppio della guerra fra Israele e Hamas. No, non credo che Mosca affili le armi per un conflitto che inevitabilmente vedrebbe coinvolti direttamente i Paesi Nato. Fino a oggi Putin ha combattuto contro l'America e l'Europa per interposta nazione. O meglio: contro un popolo che è dieci volte inferiore al suo. Centomila soldati ucraini morti non equivalgono a centomila militari russi morti. Kiev sta vedendo scomparire quasi una generazione, la stessa cosa non si può dire della Russia. Perché le guerre non si combattono solo con i droni e i cannoni, ma come abbiamo visto anche nelle trincee, e l'Occidente può spedire tutte le armi che vuole, ma poi serve qualcuno che al fronte prema il grilletto. E siccome non penso che l'opinione pubblica americana ed europea sia pronta a combattere una guerra, così come non ritengo che lo voglia fare la Russia, perché sarebbe un massacro dall'una e dall'altra parte con un'estensione del conflitto ad altri Paesi, non mi convincono affatto gli allarmi di questi giorni sulla possibilità di attacchi alla Nato. Dunque, come mai all'improvviso tutti sembrano temere questa ipotesi? Per la semplice ragione che il consenso intorno all'Ucraina è ai minimi. Secondo un sondaggio dell'European council on foreign relations, solo il 10% degli europei pensa che l'Ucraina possa sconfiggere la Russia. Tutti gli altri o temono una vittoria russa o auspicano che dal conflitto si esca in fretta con un compromesso. Credo che i dati spieghino meglio di tante chiacchiere perché le cancellerie europee agitino il pericolo di un attacco di Mosca a un Paese Ue. Se il rischio è una nuova invasione, fra uno, due o cinque anni, non ci si può sedere adesso a un tavolo con Putin, perché un dittatore è un dittatore e non ci si può fidare. L'unica soluzione resta la guerra a oltranza, fino alla fine, anche se la vittoria è impossibile o sempre meno credibile. Tuttavia, il comportamento dell'Occidente e anche dell'Italia è ambiguo. Mentre lanciano allarmi su allarmi, sottobanco con Mosca continuano a trafficare. È significativo il dato delle importazioni di grano, che noi da quando c'è la guerra abbiamo decuplicato. Dai cereali ai semi e all'olio di girasole, per finire alle barbabietole, la bilancia commerciale con la Russia pende a favore di quest'ultima con cifre a doppio e qualche volta triplo zero. Per quanto riguarda poi le esportazioni, non aumentano verso la Russia, ma gli invii di merce in Paesi confinanti ed esclusi dalle sanzioni fanno pensare che le triangolazioni siano molto attive. Così come sono vivaci gli scambi con Paesi come l'India, dove si ricicla il greggio russo. Cioè, siamo alla solita ipocrisia politica. Si lanciano allarmi, si finge di fare la guerra o lo si fa fare ad altri, ma sotto sotto gli affari continuano. Tanto a morire non sono gli occidentali, ma gli ucraini e i sudditi di Putin. Il motto armiamoci e partite dunque vale sempre. Per lo meno per l'industria degli armamenti.
(La Verità, 22 febbraio 2024)
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Purtroppo anche tanti amici di Israele si sono lasciati incantare dalla favola dell'eroe Zelensky che lotta eroicamente contro il tirannico Putin per difendere la libertà di tutti noi occidentali democratici. Gli articoli di Repubblica sul tema sono stati a lungo riportati e condivisi. Come per il covid, le menzogne costruite e diffuse con scientifica acribia hanno ottenuto un successo considerevole, almeno per un certo tempo. Adesso gli americani si mettono a contare i morti palestinesi, fino a 300.000 dice qualcuno. Ma i morti ucraini, per non dire quelli russi, quanti sono? Qualcuno li ha messi in conto? Li ha contati? Si potevano risparmiare? Per gli americani no, perché qui è in gioco la libertà, la democrazia, la civiltà occidentale, per la cui difesa devono essere eroicamente accettati lutti e sacrifici (soprattutto quelli degli altri). Nella guerra contro Hamas invece è soltanto in gioco l'esistenza di quello strano, cocciuto popolo che è Israele. E per così poco, pensano in tanti, non vale la pena di rischiare la vita di tanti palestinesi oppressi, di tanti piccoli bambini educati, ma solo per gioco, a uccidere ebrei quando saranno grandi. M.C.
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Belgio, imam legge nel Parlamento di Bruxelles versetti del Corano che incitano a uccidere ebrei
In Belgio un imam ha recitato in parlamento un versetto del Corano che invita i musulmani a uccidere e fare prigionieri gli ebrei. È accaduto lo scorso 13 febbraio durante una cerimonia di premiazione dei residenti di origine pakistana a Bruxelles, organizzata su iniziativa del deputato del partito socialista e vicepresidente del parlamento francofono di Bruxelles Hasan Koyuncu, insieme alla locale Associazione Amici di Bruxelles. L’imam, Qari Muhammad Ansar Norani, aveva preso parte all’evento.
L’estratto del Corano in questione, recitato dall’imam, è il versetto 33:26 della Surah Al-Ahzab, che viene così tradotto: “E fece scendere dalle loro roccaforti quelli della Gente del Libro che sostenevano l’alleanza nemica e gettò l’orrore nei loro cuori. Voi ‘credenti’ ne uccideste alcuni e ne faceste prigionieri altri”, laddove, nel Corano, gli ebrei vengono chiamati appunto la “Gente del Libro”.
Al fatto sono seguiti commenti e reazioni, riportati dal Jerusalem Post. Il presidente del Parlamento, Rachid Madrane, ha dichiarato su X: “Il Parlamento non è altro che il tempio della democrazia. Lo ricorderò all’organizzatore di questa visita e ai capigruppo e proporrò di integrare esplicitamente il rispetto della neutralità nei regolamenti [del parlamento]”.
La deputata Darya Safai ha nell’occasione specificamente ricordato una sua pregressa detenzione a Teheran, con queste parole: “Con gli stessi canti che si sentono qui al Parlamento di Bruxelles ci svegliavamo ogni mattina nella prigione degli ayatollah; dovevamo pregare nella nostra cella con le stesse parole e nello stesso momento diversi iraniani venivano impiccati per dare un esempio agli altri. Sono riuscita a uscire viva da quella prigione, a differenza di molti altri, e mi sconvolge ancora di più sentire la stessa cosa qui in Belgio, ventiquattro anni dopo, nel cuore della democrazia occidentale”.
Il deputato belga Theo Francken, critico nei confronti dell’organizzatore dell’evento, ha scritto su X, ex Twitter: “Quest’uomo ha invitato quell’imam. È vicepresidente del Parlamento. Può rimanere tale”?
Il deputato federale alla Camera dei rappresentanti Ben Achour Malik ha dichiarato sempre su X che “il Parlamento è un luogo di democrazia. Il luogo di un dibattito pubblico in cui si confrontano idee molto diverse. La sedia di un parlamento non è un luogo da cui si possono recitare preghiere, nemmeno durante una visita casuale”.
Il Segretario di Stato della regione di Bruxelles Nawal Ben Hamou ha invece lasciato l’evento durante i fatti accaduti.
L’ambasciatore di Israele in Belgio Idit Rosenzweig ha scritto su X di essere “assolutamente inorridita” e che l’imam “avrebbe potuto scegliere qualsiasi altra cosa, ma non un messaggio simbolico e spaventoso per chiunque conosca il Corano, recitandolo direttamente in parlamento, nel parlamento di Bruxelles, una città con 18.000 ebrei che stanno già vivendo un aumento dell’antisemitismo e della paura”.
Tra il 7 ottobre e il 7 dicembre, l’agenzia antidiscriminazione belga UNIA ha registrato 91 fatti critici accaduti in Belgio correlati al conflitto, 91 avvenimenti che hanno di gran lunga superato i 57 registrati in tutto il 2022. Di questi, 66 erano di natura antisemita e otto erano anti-islamici o anti-arabi.
“Il Belgio, insieme alla Francia, guida la linea più pro-Hamas e anti-Israele di tutta l’Europa, e non c’è da stupirsi che con loro l’Islam radicale stia dilagando – ha dichiarato il ministro per gli Affari della Diaspora Amichai Chikli al Jerusalem Post –. Voltare le spalle a Israele è stato un complesso errore strategico”.
(Bet Magazine Mosaico, 22 febbraio 2024)
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7 ottobre – Quando mi inviti nel tuo kibbutz, nonna?
di Angelica Calò Livnè
Da quando sono nati, i miei nipotini non hanno mai ricevuto un fucile giocattolo né pistole di alieni, quelle che si accendono con mille luci e producono rumori allegri, né sparabolle di sapone… al massimo ci è stato permesso, come nonni, di donare un arco con le frecce per ricordare la festa di Lag Baomer. “Vi prego di non portare ai bambini nessun gioco che ricordi la guerra per favore”. Quando il papà è tornato da Gaza ha nascosto l’M16 sotto la giacca. I bambini accarezzano il papà. “Papà, sei un soldato?”. Questi 300.000 papà richiamati, o arrivati immediatamente a Gaza, il 7 ottobre si sono trasformati nel giro di poche ore in soldati. Anche quelli che ormai avevano consegnato le divise, le scarpe e tutto l’equipaggiamento. In questi giorni i nipotini ci chiedono ripetutamente: “Nonna, perché non ci inviti più al kibbutz?”. Per un bambino non c’è niente di più bello dei prati sconfinati, del piccolo zoo dove si possono prendere in grembo leprottini e cincillà, la sala del jimboree e le lasagne calde davanti al Hermon piene di neve. “Fra un po’ tesoro, quando farà meno freddo E ti preparerò una lasagna personale tutta per te!” E fra me e me penso: “Quando sarò più tranquilla e riaprirò le persiane di casa, e guarderò’ col cuore sereno le colline del Libano.”
Tel Aviv è una città super interessante, specialmente per chi ha l’abbonamento al Museo e alla grande biblioteca Beit Ariela, ma ora là, su tutta la piazza, c’è la ricostruzione dei tunnel di Gaza dove sono tenuti prigionieri parte degli ostaggi. Ci sono banchi con tutte le scarpe, gli occhiali, e gli oggetti personali ritrovati nei boschi vicino a Re’im tra le rovine del Festival Supernova (chi è stato a Majdanek può capire la sensazione che si prova davanti a queste immagini) e tutti i muri intorno sono tappezzati di foto di centinaia di volti. Bring them home. “Ma chi sono questi signori nonna?”. Mi sforzo alla ricerca di risposte. E per ora di risposte non ne abbiamo: potremo festeggiare Purim? Pesach? Attaccheranno? Si calmeranno?
In ogni caso noi siamo pronti e che nessuno, nessuno, né cantanti da 4 soldi né giornalisti frustrati, ignoranti e di parte, che possa venire a dirci cosa pensa perché non ci interessa! Siamo noi quelli che devono puntare il dito verso il mondo, siamo noi, con le nostre famiglie che siamo sotto i missili di cui nessuno parla. Siamo noi che stiamo lottando per la nostra sopravvivenza e non per distruggere l’altro!
(moked, 22 febbraio 2024)
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Uomini e faine
Il seguente articolo è uscito sull'ultimo numero del periodico mensile "Nuovo Monitore Napoletano". Ci è stato inviato direttamente dall'autore, un nostro fratello in fede che sentitamente ringraziamo per il suo lavoro e per lo sforzo che ha fatto per diffonderlo. NsI
di Tommaso Todaro
La faina, questo animaletto misconosciuto!1 Eppure vive nelle dimore dell’uomo, nei poderi campestri, nelle stalle e nelle legnaie, sortendone per la caccia solo di notte. Con il suo corpo sinuoso e snello penetra ovunque, nei sottotetti delle vecchie case scostando le tegole, a caccia di lucertole, gechi e topi, scala agevolmente gli alberi e i vecchi muri delle case, in cerca dei nidi degli uccelli, di cui divora le uova e i piccoli nati, penetra nelle colombaie, dove fa strage di piccioni e, se trova un varco, nei pollai e nelle conigliere, scannando tutto ciò che vi trova. Non disdegna neppure i mici malfermi sulle zampe e, all’occorrenza, altri animaletti come le rane e qualche serpentello. Un tempo le si dava la caccia per la pelliccia, che a fine ‘800 si vendeva a 15 lire, la metà di quella della martora, che era più pregiata. D’inverno è facile scoprirne la dimora per le impronte che lascia sulla neve e allestire una sorta di trappola formata da un sacco aperto, cinto con una fune a nodo scorsoio, posta all’imbocco della tana, solitamente posta nella cavità di un albero. L’animale, disturbato dal fumo prodotto dagli sterpi incendiate alla base dell’albero, usciva dal nascondiglio e s’infilava nella trappola.2 Nei miei ricordi d’infanzia rimane impressa la scena della strage di galline nel piccolo pollaio familiare, giacevano a terra lorde di sangue 7- 8 galline, tutte sgozzate ma non mangiate, a testimonianza della insaziabile sete di sangue e crudeltà dell’intruso. Pur essendo un animale sanguinario che uccide per abitudine più che per alimentarsi, svezza e cura con ogni attenzione la prole sino a che i cuccioli, trascorso un anno, diventano autonomi. E’ raccapricciante vedere una faina addentare il collo di un micetto ancora malfermo sulle zampe, ma è ancor più orripilante e mostruoso il comportamento delle faine umane che il 7 ottobre ultimo scorso ha attuato una crudele, violentissima aggressione ai danni di civili inermi che travalica il peggiore stile nazista e le violenze di quei sanguinari che furono lo spagnolo Francisco Franco, l’argentino Juan Domingo Peròn e il cileno Augusto Pinocet, per citarne solo alcuni dei paesi c.d. “civili” . Sono passati quattro mesi. Il 7 ottobre 2023 Hamas, la Jihad Islamica, i “Martiri di Al Aqsa” di Fatah e qualche organizzazione terroristica minore, poco prima dell’alba, aprirono la guerra con Israele sparando migliaia di missili sulle città israeliane, distruggendo con razzi gli impianti di sorveglianza, sfondando con esplosivi e bulldozer la barriera di protezione del confine internazionalmente riconosciuto in 26 punti, invadendo il territorio israeliano con circa 3000 terroristi su jeep, motociclette e parapendio a motore, uccidendo le guardie di frontiera e i militari di guardia e poi invadendo, loro e i “civili” che li avevano seguiti, le località vicino al confine, compreso il prato dove si svolgeva una festa musicale, celebrando un’orribile sagra di morte, torture, stupri, rapimenti. Come è noto, gli israeliani di tutte le età assassinati in quelle ore furono oltre 1200, più di 240 i rapiti, circa 5000 i feriti, migliaia le donne stuprate.3 Il culmine della ferocia è stato raggiunto al Kibbutz Kfar ‘Aza dove quaranta bambini e neonati sono stati massacrati e alcuni decapitati. Ancora oggi rimangono nelle mani dei terroristi 134 ostaggi (uomini, donne, vecchi e bambini) che con cinismo vengono usati come merce di scambio. All’inizio era conosciuta semplicemente come “la donna con il vestito nero”. In un video sgranato la si vede supina, con il vestito strappato, le gambe aperte e la vagina esposta. Il suo volto è bruciato in modo irriconoscibile e la mano destra le copre gli occhi. Il video è stato girato nelle prime ore dell’8 ottobre da una donna alla ricerca di un amico scomparso nel luogo del rave nel sud di Israele dove, il giorno prima, i terroristi di Hamas avevano massacrato centinaia di giovani israeliani. Inizia così il lunghissimo articolo comparso sul N.Y. Times del 29 dicembre 2023 e totalmente tradotto da Right Reporter del 2 gennaio u. s. che andrebbe letto per intero.4 Nei punti che seguono ho tentato di esporre sinteticamente alcuni degli argomenti che ritengo più pertinenti alle attuali vicende. 1) Israele occupa abusivamente il suolo su cui è insediato. È quanto vorrebbe far credere tanti benpensanti di ogni colore politico, ma le sue origini sono del tutto legali. Il fondamento è costituito per ultimo dalla deliberazione 181/II del 29 novembre 1947 dell’Assemblea delle Nazioni Unite che approvò la spartizione del mandato britannico di Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo. Gli ebrei accettarono la spartizione, ma la Lega Araba oppose un netto rifiuto e al momento della proclamazione dello Stato di Israele, avvenuta il 14 maggio 1948, cinque stati arabi ben armati (Egitto, Siria, Iraq, Giordania e Libano) iniziarono una guerra che si concluse nel 1949 con la chiara vittoria israeliana. Le origini della legittimazione dello Stato Ebraico risalivano però a molti anni prima, a partire dal 1917, con la dichiarazione Balfour, che promise la costruzione di una “National home”, ossia di una patria per il popolo ebraico, promessa recepita dalla Conferenza di San Remo tenutasi nel dopoguerra (19-26 aprile 1920) dalle potenze vincitrici e dalla delibera della Società delle Nazioni del 24 luglio 1922 istitutiva del mandato per la Palestina che definiva i diritti legali degli ebrei in Palestina (comprendente Giudea, Samaria e Giordania), la cui amministrazione fu affidata all’impero britannico. Il governo inglese non mantenne però il suo impegno e favorì per convenienza le popolazioni arabe ma l’impegno rimane tuttora in piedi, essendo stato ripreso dall’art. 80 della carta fondativa delle Nazioni Unite. In definitiva lo Stato Ebraico occupa legittimamente il suolo sul quale è insediato ma ciò non si può dire del Libano, della Giordania, dell’Irak e della Siria, creati arbitrariamente dalle potenze coloniali per favoritismi di convenienza.5 2) Il diritto di Israele prima che dagli uomini è stato sancito però ben quattromila anni addietro da Colui che ha fondato “I cieli e la terra” e scaturisce dalla promessa ad Abramo, che ogni buon israelita dovrebbe tenere in mente: «Alza ora gli occhi e guarda, dal luogo dove sei, a settentrione, a meridione, a oriente, a occidente. Tutto il paese che vedi lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre. E renderò la tua discendenza come la polvere della terra; in modo che, se qualcuno può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti. Alzati, percorri il paese quant'è lungo e quant'è largo, perché io lo darò a te» (Genesi 13:14-17). L’adempimento della promessa avverrà alla distanza di circa 300 anni, dopo l’esodo dall’Egitto e sotto la guida di Giosuè. 3) “Free Palestine from the river to the sea”. Palestina libera dal fiume al mare, urlano i sostenitori della Palestina per le piazze e le strade del mondo occidentale, ma i più non sanno quello che dicono, qual è il fiume? Dov’è il mare? Non lo sanno. Per molti il mare è il Mar Nero, per altri il fiume è il Nilo e invece si tratta del fiume Giordano e del Mar Mediterraneo. Non possiedono una vera conoscenza del mondo islamico e di quello ebraico, non sanno che differenza c’è tra sunniti e sciiti e non hanno mai letto un solo verso della Bibbia né una sura del Corano. Ma tutto questo non importa, la geografia e la storia sono solo un dettaglio, l’essenziale è dare sfogo a istinti antisemiti. L’era dei “Protocolli” non è mai tramontata, il Mein Kampf è tradotto anche in arabo e milioni di persone continuano ad abbeverarsi a quelle fonti.6 Quelle folle urlanti per lo più non si rendono neppure conto di invocare all’unisono, coi terroristi, il genocidio del popolo ebraico e una Palestina Judenfrei, ossia libera dagli ebrei. 4) “Due popoli, due Stati”. Questo sostengono da sempre europei ed americani, senza considerare che i palestinesi non sono affatto interessati a un loro Stato accanto a quello di Israele ed hanno sempre opposto a questa soluzione un netto rifiuto. Così, rifiutarono la possibilità di diventare uno Stato con il piano di spartizione originario delle Nazioni Unite del 1947, con gli Accordi di Camp David del 1978, col vertice di Camp David del 2000 e con le offerte israeliane del 2008. Nel 2008 in particolare Israele offrì più terra di quella richiesta (il c.d. piano Olmert), ma Abu Mazen oppose un reciso, definitivo no. Dalle mie parti si dice: «Quannu ‘u sceccu nun voli ‘mbiviri, ambatula chi nci frischi!» ossia: «Quando l’asino non vuole bere è inutile che gli fischi».7 Il ritiro di Israele da Gaza nel 2005 fu un’altra opportunità per i palestinesi di iniziare a costruire uno Stato, ma la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 e la sua violenta presa del potere a Gaza nel 2007 hanno condotto al disastro che oggi è sotto gli occhi di tutti. Per tutti questi anni Hamas non si è mai preoccupato delle condizioni economiche della popolazione che governa, ridotta a una comunità di assistiti dalla carità internazionale (USA, Europa, Qatar, Iran, Turchia). Unico obiettivo è l’indottrinamento dei giovani alla violenza secondo l’ideologia della distruzione di Israele, servendosi anche delle scuole ONU gestite da quell’ente deleterio a che è l’UNRWA, e non gli interessi della popolazione. Ovviamente, con l’obiettivo di ricacciare a mare gli ebrei e di rimpiazzarli con uno stato palestinese “dal fiume al mare”. In questi ultimi giorni si rumoreggia tanto nel mondo occidentale - in primis l’amministrazione Biden con le elezioni alle porte - sulla istituzione di uno Stato palestinese dimenticando che ai palestinesi (di tutte organizzazioni politiche, non solo Hamas), di avere uno Stato non importa proprio nulla se non, magari, come strumento contro Israele. Il loro obiettivo finale rimane sempre quello d’impadronirsi del territorio “dal fiume al mare”, cioè l’abbattimento dello Stato Ebraico e lo sterminio degli ebrei. 5) Israele ha una superficie di 20.770 kmq e di 27.799 Kmq comprendendo Giudea e Samaria, con una popolazione che non arriva ai 10 milioni di abitanti dei quali il 20% sono arabi-israeliani. Più o meno come la nostra Lombardia, ma costituisce per gli arabi un corpo estraneo in un tessuto formato esclusivamente dal mondo musulmano, che a più riprese ha tentato di estrometterlo con ripetute aggressioni. Sabato 15 maggio 1948 in cui scadeva il Mandato Britannico sulla Palestina, gli eserciti dei paesi arabi vicini attaccarono la comunità ebraica d’Israele devastando tutto ciò che incontravano, in prosecuzione della campagna iniziata alla fine dell’anno precedente, con l’obiettivo d’impedire la nascita dello stato ebraico proclamato il giorno prima, venerdì 14 maggio. In quell’occasione la Giordania s’impadronì della Cisgiordania e l’Egitto della striscia di Gaza ma nessuno si prese il disturbo di creare uno stato palestinese. Gerusalemme e la West Bank (sponda occidentale o Cisgiordania) rimasero in mano giordana sino al 1967 (per circa 19 anni), liberati con la guerra dei sei giorni (5-10 giugno 1967) quando, finalmente, Gerusalemme fu riunificata. La terza massiccia invasione del territorio israeliano, con l’intento di ricacciarlo a mare, avvenne nel 1973 (guerra del Kippur, 6-25 ottobre 1973) che vide Israele ancora vittorioso. Israeliti e Arabi, che hanno la comune origine in Abramo (i primi da Sara, i secondi dalla serva egiziana Agar), proprio perché fratelli, dovrebbero vivere in pace e armonia ma così non è mai stato, sin dai giorni antichi, quando i figli di Edom (i discendenti di Esaù), esultavano nel vedere la distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor menzionata dal salmista: «Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme dicevano: Spianatela, spianatela, fin dalle fondamenta!» (Salmo 137:7). E Abdia, menzionando le colpe di Esaù, figlio di Isacco e fratello di Giacobbe: «A causa della violenza fatta a tuo fratello Giacobbe, tu sarai coperto di vergogna e sarai sterminato per sempre. Quel giorno tu eri presente, il giorno in cui gli stranieri portavano via il suo esercito, e i forestieri entravano per le sue porte e tiravano a sorte su Gerusalemme: anche tu eri con loro. Ah! Non gioire per il giorno della sventura di tuo fratello. Non ti rallegrare per i figli di Giuda nel giorno della loro rovina… Ma sul monte Sion ci saranno degli scampati, ed esso sarà santo; e la casa di Giacobbe possederà ciò che le appartiene. La casa di Giacobbe sarà un fuoco, e la casa di Giuseppe una fiamma; e la casa di Esaù come paglia che essi incendieranno e consumeranno; non rimarrà più nulla della casa di Esaù, perché il Signore ha parlato.» (Abdia tutto il libro di 21 versetti) Per l’Iran è un altro discorso. Essi non discendono da Abramo, sono musulmani ma non arabi e non hanno alcuna affinità con il mondo ebraico. 6) Femminismo e stupri di massa. Di fronte alle sevizie, alle mutilazioni, agli stupri, all’assassinio e al rapimento di tante donne ebraiche avvenuto durante il selvaggio attacco di Hamas del 7 ottobre le associazioni femministe sono rimaste completamente in silenzio. La cosa pare essere non è di loro interesse. 7) Dulcis in fundo. E il Vaticano, cosa ne pensa? Anche il solo porsi la domanda è fatica sprecata, il Vaticano è stato da sempre antisemita e un tempo finanche propugnatore della conversine forzata degli ebrei, al punto da spingere al rapimento dei bambini di cui il caso Mortara rappresenta il caso più noto. Papa Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, proveniente dalle fila dei Gesuiti, dal 1973 al 1979 era Provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina, epoca che vide decine di migliaia di argentini arrestati e tenuti illegalmente prigionieri dalla polizia, torturati, assassinati e scomparsi nel nulla (i c.d. desaparecidos) per i quali le Madri di Plaza de Mayo chiedono ancora giustizia. L’odierno Papa avrebbe dovuto gridare a squarciagola ai quattro venti contro tali misfatti e invece ha adottato la politica del silenzio (qualcuno malignamente dice del collaborazionismo), sulla scia di Papa Pacelli definito da John Cornwell “Il Papa di Hitler” (Garzanti, 2002) Quanto alla vicenda della guerra in atto, I rabbini d’Italia così si sono espressi: «Ieri l’incontro del Papa con i parenti degli ostaggi rapiti da Hamas, da tempo richiesto e sempre rinviato, è stato finalmente possibile perché è stato seguito da un incontro con parenti di palestinesi prigionieri in Israele, così come riportato dal Papa, mettendo sullo stesso piano innocenti strappati alle famiglie con persone detenute spesso per atti gravissimi di terrorismo”, scrive il Consiglio dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia. “E subito dopo il Papa ha pubblicamente accusato entrambe le parti di terrorismo. Queste prese di posizione al massimo livello seguono dichiarazioni problematiche di illustri esponenti della Chiesa in cui o non c’è traccia di una condanna dell’aggressione di Hamas oppure, in nome di una supposta imparzialità, si mettono sullo stesso piano aggressore e aggredito».8 Che poi i palestinesi mentano su temi fondamentali della Bibbia, al Vaticano poco importa. Si proclamano discendenti dei Filistei e perfino dei Cananei, discendenti dei Gebusei che abitavano anticamente quei luoghi. Abramo era un iracheno, Gesù un palestinese, il Tempio di Gerusalemme non è mai esistito, Israele non è mai stato una nazione e così via. «Tiampi e guerra, vinzogne cumu terra», soleva dire mia madre, il cui marito ne aveva combattuto due (Abissinia e fronte greco-albanese) ed era stato fra gli internati militari italiani (IMI) in Germania dal 14 settembre del ’43 alla liberazione nel ‘45. Per il cattolicesimo della Bibbia se ne può fare benissimo a meno, quel che conta è il diritto canonico e la teologia tomistica. Non illudiamoci, i tempi difficili per Israele devono ancora venire, ma è altresì certo che tutte le potenze del male non potranno mai sradicarlo dalla sua terra.
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NOTE 1. Gli adulti, capaci di balzi improvvisi e incredibili, pesano un paio di chili, sono lunghi una sessantina di centimetri dal muso all’estremità della coda, con corpo allungato e flessibile, zampe corte, pelame breve e colore bruno-castano in tutto il corpo ad eccezione del collo e del petto, di colore bianco. 2. Atti della Società dei Naturalisti di Modena, Serie III, vol. I, 1883. 3. Ugo Volli su Shalom del 7 febbraio u.s 4. Il rapporto del NYT sulle violenze sessuali di Hamas del 7 ottobre 5. Per chi vuole approfondire suggerisco l’opuscolo di Eli E. Hertz Questa terra è la mia terra, mandato per la Palestina, aspetti legali dei diritti ebraici, seconda edizione italiana 2019, curata dalla EDIPI, Evangelici d’Italia per Israele, con prefazione di Ugo Volli, Marcello Cicchese e Rinaldo Diprose, in vendita presso la CLC di Firenze al prezzo di € 6,00. 6. Nel 1938, anno delle leggi razziali, furoreggiava da noi la versione italiana dei “Protocolli dei Savi anziani di Sion”, edita in Roma da “La Vita Italiana”, rassegna mensile di politica, diretta da Giovanni Preziosi, che si vendeva a 12 lire la copia. Si è trattato di un clamoroso, ampiamente dimostrato, falso storico. 7. L’asino si conduceva alla sorgente per l’abbeverata a fine giornata di lavoro, di ritorno dalla campagna e talora per invogliarlo a bere si emettevano ripetuti, appositi deboli fischi. Se non beveva se ne riparlava alla fine della giornata successiva. 8. I rabbini italiani: “Il Papa mette sullo stesso piano aggressori e aggrediti. Da lui gelida equidistanza”
(Nuovo Monitore Napoletano, 22 febbraio 2024)
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Dalle esperte sulle donne all'Unrwa, l'Onu sempre più schierato contro Israele
di Giulio Meotti
Finalmente l’Onu condanna i crimini sessuali. Contro Israele? No, da parte di Israele. Esperte delle Nazioni Unite, note per le loro opinioni anti-israeliane, accusano le forze militari israeliane di aver commesso crimini contro donne e ragazze palestinesi, inclusi stupri. “Siamo scioccati dalle notizie sugli attacchi deliberati e sull’uccisione extragiudiziale di donne palestinesi”, hanno detto le esperte. Hamas ieri ha inneggiato alla dichiarazione delle esperte delle Nazioni Unite. Israele ha risposto che sono accuse false da parte di personalità note per la militanza contro lo stato ebraico. Una “solo giorni fa ha legittimato il massacro del 7 ottobre”, ha detto Israele, e un’altra “ha pubblicamente messo in dubbio le testimonianze delle vittime israeliane di violenza sessuale e di genere”.
Anche il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze, la giordana Reem Alsalem, ha firmato la dichiarazione degli esperti. A dicembre, il Jerusalem Post ha riferito che Alsalem aveva liquidato come “disinformazione” le notizie di stupri e abusi sessuali sulle donne da parte di Hamas. Intanto Israele diffondeva le foto dei dipendenti dell’agenzia Onu per i palestinesi, Unrwa, mentre prendevano parte al massacro del 7 ottobre. Trenta in tutto, non più dodici, come si era detto inizialmente.
Il ministro della Difesa di Israele, Yoav Gallant, ha svelato l’identità dei membri del personale delle Nazioni Unite che “hanno partecipato attivamente” all’attacco di Hamas. “Oltre a questi dodici operatori, abbiamo indicazioni basate sull’intelligence, secondo cui oltre trenta dipendenti dell’Unrwa hanno partecipato al massacro, hanno facilitato la presa di ostaggi, hanno saccheggiato e rubato nelle comunità israeliane e altro ancora”, ha detto Gallant ai giornalisti. Dei tredicimila dipendenti dell’Unrwa a Gaza, almeno il dodici per cento è affiliato a Hamas e Jihad islamica palestinese (Pij). “Si sa che 1.468 lavoratori sono attivi in Hamas e nella Pij. Inoltre, 185 operatori dell’Unrwa sono attivi nel braccio militare di Hamas e 51 sono attivi nel ramo militare della Pij”, ha concluso Gallant.
Continuano a emergere prove che l’agenzia delle Nazioni Unite abbia assistito Hamas e persino le Nazioni Unite si sono sentite obbligate a indagare dopo che le nazioni occidentali hanno congelato i futuri finanziamenti. Ma l’indagine apparentemente indipendente per far luce sulla collusione dell’Unrwa non ispira molta fiducia. Ora si scopre dal Wall Street Journal che almeno due delle tre agenzie selezionate per condurre la revisione indipendente hanno rilasciato dichiarazioni in cui si schieravano contro Israele e difendevano l’Unrwa. Uno dei revisori è l’Istituto danese per i diritti umani. A gennaio uno dei suoi ricercatori più esperti, Peter Vedel Kessing, ha elogiato il caso sudafricano davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, dove Israele è accusato di “genocidio”. Poi c’è Catherine Colonna, l’ex ministro degli Esteri francese incaricato di guidare l’inchiesta indipendente sull’Unrwa. Non ci vuole molto, scrive il Journal, per trovarla su X (ex Twitter) che elogia l’Unrwa e il lavoro del suo leader Philipe Lazzarini definendoli “plus utile que jamais” (più utile che mai).
“La Mezzaluna Rossa palestinese ha avuto un ruolo attivo nei massacri del 7 ottobre”. L’ambasciata d’Israele presso la Santa Sede ieri ha affidato ai social un messaggio polemico (stavolta nemmeno troppo velato) nei confronti di Papa Francesco che ha ricevuto in udienza Younis Al Khatib, presidente della Mezzaluna Rossa Palestinese, l’organizzazione umanitaria che fa parte del movimento internazionale della Croce Rossa. Dopo le polemiche dei giorni scorsi con l’ambasciatore Raphael Schulz sull’andamento della guerra e le parole di Pietro Parolin, i rapporti tra Vaticano e Israele sono di nuovi ai minimi storici. Israele ha postato il filmato ripreso il 7 ottobre, la mattina del pogrom, al valico di Erez, l’unico passaggio pedonale tra Gaza e Israele, in cui un terrorista di Hamas ferito viene tratto in salvo ed evacuato su una ambulanza della Mezzaluna Rossa che, come mostrano le immagini, faceva parte del piano operativo dell’attacco. Il Sottosegretario generale dell’Onu e capo dell’agenzia “UN Relief” Martin Griffiths intanto a Sky News dichiarava che non considera Hamas un gruppo terroristico. Il 7 ottobre, oltre al confine sud d’Israele, sembra che sia crollato anche l’alibi umanitario.
Il Foglio, 21 febbraio 2024)
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La demonizzazione di Israele è una "catastrofe internazionale"
L'autorevole ricercatore sull'antisemitismo Charles Asher Small dichiara a JNS che è in corso una guerra contro lo Stato ebraico, non solo fisica, ma anche intellettuale e filosofica.
di Amelie Botbol
Il 25 dicembre 2023, centinaia di persone hanno manifestato in Rockefeller Square e nel centro di Manhattan con lo slogan anti-Israele "Il Natale è cancellato". Foto: Lev Radin/Shutterstock.
Per Charles Asher Small, la demonizzazione dello Stato di Israele è una pericolosa forma di antisemitismo.
è una pericolosa forma di antisemitismo che colpisce gli ebrei di tutto il mondo.
In un'intervista approfondita con JNS, Small, direttore fondatore dell'Istituto per lo Studio dell'Antisemitismo Globale e della Politica (ISGAP) con sede a New York ed ex presidente del Comitato di Solidarietà del Congresso Nazionale Africano, ha commentato la decisione del Sudafrica di portare Israele davanti alla Corte Penale Internazionale per le accuse di genocidio. Ha anche presentato la sua recente ricerca che denuncia il finanziamento incontrollato della Texas A&M University da parte del Qatar.
D: Può parlarci un po' dell'ISGAP? R: L'ISGAP è un'organizzazione internazionale che si occupa di mappare, decifrare e combattere l'antisemitismo contemporaneo.
D: Come definite l'antisemitismo? R: Ciò che distingue l'antisemitismo da altre forme di odio è che è intrinsecamente genocida, secondo Robert Wistrich, considerato una delle maggiori autorità mondiali in materia di antisemitismo.
La vecchia forma di bigottismo cristiano e religioso esiste ancora. Anche la forma razzista dell'antisemitismo esiste ancora in alcuni luoghi. Tuttavia, la forma di antisemitismo attualmente prevalente è un attacco a chi sono gli ebrei come popolo, un attacco a come definiamo noi stessi e il nostro legame con la terra di Israele.
In quest'epoca di neoliberismo, l'Islam radicale è diametralmente opposto alla nozione ebraica di autodeterminazione in "terra islamica". Gli ebrei sono l'unico gruppo non musulmano che si autodetermina nella regione. Pertanto, lo Stato di Israele deve essere distrutto dal Califfato.
Inoltre, è emersa l'Alleanza rosso-verde, un'alleanza di intellettuali progressisti postmoderni che vogliono sostituire l'egemonia occidentale e il potere occidentale. Secondo questa visione di estrema sinistra, gli ebrei sono la punta della lancia dell'egemonia e del colonialismo occidentale. Dal punto di vista della sinistra radicale, Israele deve essere smantellato.
In questo momento di crisi economica, la sinistra radicale, la destra radicale e l'Islam politico stanno attaccando il centro, sebbene abbiano ideologie molto diverse. In un certo senso, tutti utilizzano l'antisemitismo genocida come elemento centrale delle loro ideologie e delle loro pratiche.
D: Crede che l'antisionismo sia antisemitismo? R: La definizione di antisemitismo dell'International Holocaust Remembrance Alliance è chiara. Negare l'autodeterminazione del popolo ebraico e ritenerlo responsabile della politica dello Stato di Israele nel mondo è una forma di antisemitismo.
In uno studio che ho condotto con [lo studioso di Yale] Edward Kaplan, abbiamo intervistato 10.000 persone di 10 Paesi europei e abbiamo definito sia l'antisemitismo classico che quello che abbiamo chiamato "Israel bashers". Chi era antisemita in senso classico aveva una probabilità 13 volte maggiore di essere anti-Israele. Abbiamo dimostrato scientificamente ciò che tutti sanno già.
D: Lei ha parlato di alcune forme di antisemitismo. La forma più virulenta di antisemitismo oggi proviene dall'Islam? R: Gli Stati si stanno indebolendo. L'Islam politico sta sostituendo le istituzioni statali in molti Paesi con questa perversione dell'Islam. Si collega all'antisemitismo occidentale e all'antisemitismo postmoderno "progressista" nei circoli intellettuali dell'Occidente.
Purtroppo, l'Islam politico ha utilizzato i pogrom contro Israele degli ultimi mesi per promuovere la sua soluzione finale. I nazisti hanno nascosto in una certa misura la loro soluzione, mentre questi barbari la riprendono per ottenere più seguaci.
Nelle università, ciò è sostenuto da professori e organizzazioni studentesche. Questo è il risultato dell'alleanza rosso-verde che è sbocciata negli ultimi mesi.
Il popolo ebraico conosce il legame tra gli islamisti radicali e coloro che si definiscono progressisti. La demonizzazione dello Stato di Israele è una pericolosa forma di antisemitismo che colpisce gli ebrei in Francia, Quebec, Stati Uniti e Belgio. Lo vediamo nelle strade di Londra. È una catastrofe internazionale e dobbiamo svegliarci, capire perché sta accadendo e iniziare a reagire.
D: A cosa attribuisce il rapido aumento dell'antisemitismo nelle università? R: Quando gli intellettuali occidentali nelle università affermano che Israele è uno Stato di occupazione di apartheid, razzista, fascista e nazista, allora i docenti e gli studenti ebrei in questi spazi liberali in queste università diventano il nemico di ciò che è buono e decente. Le università sono in prima linea in questa guerra contro il popolo ebraico e in questa esplosione di antisemitismo in Occidente.
La guerra contro il popolo ebraico viene condotta in questi luoghi dove i giovani europei occidentali e nordamericani imparano a diventare cittadini del mondo. È qui che si scatena la guerra politica e intellettuale, ed è qui che viene utilizzato il soft power dei Fratelli Musulmani e del Qatar.
Stanno investendo molto nelle università e questo ha un impatto sulla visione del mondo in Occidente.
D: Chi sono i principali gruppi che guidano questo sviluppo? Studenti per la giustizia in Palestina (SPJ) e l'Associazione degli studenti musulmani? R: Sono tutti attivi. SJP è nato dall'Associazione Musulmana Americana. Sono tutte propaggini dei Fratelli Musulmani.
Dopo il 7 ottobre, SJP ha dichiarato di non sostenere la lotta, ma di farne parte. Gli studenti americani di SJP affermano di far parte di un'organizzazione terroristica. Sono molto chiari su ciò che stanno facendo. Sono le truppe d'assalto che rendono la vita difficile agli studenti e ai docenti ebrei nel campus, come piccoli nazisti, direi.
La forma più dannosa e pericolosa di sostegno da parte del Qatar e dei Fratelli Musulmani è il finanziamento di centri di ricerca e cattedre che spostano il discorso sul popolo ebraico in Israele e sulle idee ebraiche di democrazia.
D: Può parlarmi della vostra ricerca che ha scoperto un finanziamento incontrollato del Qatar alla Texas A&M? R: Nella nostra ricerca abbiamo scoperto che decine di milioni di dollari di fondi non documentati affluiscono dal Qatar alle università occidentali negli Stati Uniti, in Canada e in Europa.
Sappiamo che il regime del Qatar ha prestato giuramento spirituale ai Fratelli Musulmani. Seguono le fatwa e le sentenze religiose della Fratellanza, la cui ideologia di base fonde l'antisemitismo europeo con una perversione dell'Islam.
Il regime del Qatar che sposa questa ideologia, un Paese con meno di 300.000 abitanti, dona più fondi alle università americane di qualsiasi altro Paese al mondo.
Perché un Paese che sostiene lo smantellamento dello Stato di Israele, l'uccisione degli ebrei e la distruzione della democrazia dovrebbe dare così tanto denaro a istituzioni e università molto importanti nel campo dell'istruzione superiore?
Il Qatar sta usando il "soft power" per promuovere questa ideologia e allontanare Israele dall'Occidente, e usa l'antisemitismo per dividere gli Stati Uniti e le altre democrazie. E ci sta riuscendo.
D: Pensa che la decisione della Texas A&M di chiudere la sua filiale in Qatar sia un primo passo nella lotta contro questa ideologia? R: Lo spero. L'ISGAP chiede trasparenza alle università americane, francesi e canadesi in Qatar. Devono rendere noti i loro accordi contrattuali con il regime qatariota.
Hanno cercato di sopprimere la pubblicazione di questi contratti. Dobbiamo capire con piena trasparenza la natura dei progetti di ricerca finanziati, perché abbiamo scoperto oltre 500 progetti di ricerca presso la Texas A&M di cui il Qatar detiene i diritti di proprietà intellettuale, e circa il 10% di questi progetti potrebbe avere un doppio uso, secondo i nostri esperti.
I nostri esperti ritengono che potrebbero avere implicazioni militari e persino nucleari. Chiediamo al governo americano di tenere delle audizioni e chiediamo la fine delle università americane e occidentali in Qatar.
D: Che cosa si può fare al riguardo o è stato raggiunto il punto di svolta? R: Non abbiamo altra scelta che combatterli.
Il 7 ottobre sono stati compiuti dei massacri da parte di un movimento sociale reazionario che si oppone diametralmente alla democrazia. A parte la questione ebraica o israeliana, si tratta di un movimento sociale reazionario sessista, omofobo e contrario agli altri, che vuole distruggere la democrazia. Hanno commesso e pubblicizzato questo massacro.
Quando siamo tornati nelle nostre università il 9 ottobre, c'erano professori che sostenevano la barbarie di un movimento genocida, reazionario e con un culto della morte.
Un mese fa insegnavo alla Columbia University. In una delle migliori università del mondo, c'erano professori e studenti laureati che sostenevano che bisognava porre fine all'occupazione con ogni mezzo necessario e che i sionisti stessi avevano creato la violenza con la loro stessa esistenza in questo Paese.
Ma sul campo di battaglia cinetico del Medio Oriente, dove Hamas, Hezbollah, Iran e altri attaccano fisicamente Israele, sono in gioco anche questioni intellettuali e filosofiche.
La guerra è condotta contro il popolo ebraico e contro la democrazia. Dobbiamo capire la mentalità del nostro nemico. Lo abbiamo sottovalutato per troppo tempo e dobbiamo capire e combattere questo attacco al popolo ebraico, a Israele, all'Occidente e alla decenza umana.
Eli Wiesel ha detto che l'antisemitismo inizia con il popolo ebraico, ma non finisce mai con il popolo ebraico. Questo non è solo un problema degli ebrei e di Israele. È un attacco alla decenza umana e alla democrazia.
Cercando di distruggere gli ebrei e l'ebraismo, l'antisemitismo cerca anche di distruggere la civiltà. Nella Shoah sono stati uccisi sei milioni di persone, 80 milioni di europei sono morti e in molti Paesi è stata distrutta l'intera infrastruttura.
Questa è una minaccia per tutti noi. I nostri nemici capiscono la nostra cultura, parlano la nostra lingua e comprendono il nostro sistema educativo e governativo, mentre noi non capiamo la loro lingua e la loro cultura e non conosciamo nemmeno la loro ideologia.
Imponiamo la nostra visione della realtà agli altri. L'Occidente ha avuto questo problema per molto tempo. Dobbiamo capire e rispettare i nostri nemici per poterli combattere.
D: È d'accordo con il presidente israeliano Isaac Herzog che le accuse di genocidio contro Israele mosse dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia sono un moderno "libello di sangue" e un esempio di antisemitismo? R: Assolutamente sì. Posso dire con orgoglio di essere stato presidente del Comitato di solidarietà del Congresso nazionale africano. Come giovane studente ebreo progressista, ho lavorato con la leadership dell'ANC.
Vedevo il movimento anti-apartheid e l'ANC come un pioniere di una democrazia sociale in cui tutte le persone, indipendentemente dalla razza, dal sesso, dalla religione e dal reddito, fossero uguali di fronte alla legge e alla democrazia.
Trent'anni dopo, abbiamo un governo che è letteralmente in combutta con il regime rivoluzionario iraniano, il Qatar e Hamas, il che è contrario alla Carta della Libertà del Sudafrica e alla visione della democrazia di Nelson Mandela.
Il Sudafrica sta conducendo un'opera di diffamazione e il presidente israeliano Herzog ha tragicamente ragione al 100%.
Il fatto che l'ANC e il governo sudafricano del 2024, che ha ereditato il lavoro di Nelson Mandela, Oliver Tambo e Walter Sisulu e di altri che hanno sacrificato le loro vite per la democrazia sociale, siano in combutta con Hamas, il regime rivoluzionario iraniano e il regime dei Fratelli Musulmani del Qatar è un affronto al popolo sudafricano.
Il fatto che il partito di governo sudafricano, il partito corrotto del 2024, faccia causa comune con i sostenitori del vero apartheid, del vero nazismo e del vero razzismo e inviti Hamas dopo che questi ha commesso un massacro razzista basato sull'ideologia del nazismo e del fascismo europeo è un affronto a ciò che l'ANC dovrebbe rappresentare.
(Israel Heute, 21 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Antisemitismo negli USA, cancellati due concerti del cantante Matisyahu
di Luca Spizzichino
In poche ore, due concerti del cantante ebreo americano Matisyahu sono stati cancellati dopo che i manifestanti filo-palestinesi hanno preso di mira le location in cui si sarebbe dovuto esibire. Dopo i politici, anche il mondo dell’entertainment è stato preso di mira dall’odio cieco nei confronti di Israele.
Entrambe le location in cui si sarebbe dovuto tenere il concerto hanno citato la carenza di personale e i problemi di sicurezza come motivo dell’annullamento dello spettacolo. Matisyahu, attraverso un post su X, si è anche offerto di pagare personale aggiuntivo e la sicurezza per lo spettacolo di Rialto Theatre di Tucson, in Arizona, ma i proprietari hanno rifiutato. “Lo fanno perché sono antisemiti o hanno confuso la loro empatia per il popolo palestinese con l’odio per qualcuno come me, che crea empatia sia per gli israeliani che per i palestinesi”, ha scritto riguardo a coloro che avevano cercato di cancellare il suo spettacolo. “È davvero un giorno triste quando il dialogo con coloro con cui non sei d’accordo viene abbandonato per incitare all’odio e mettere a tacere l’espressione artistica”.
Matisyahu è stato preso di mira dai gruppi pro palestinesi dopo che l’artista ha pubblicato un video in cui si vede avvolto in una bandiera israeliana mentre esegue “One Day” per i soldati israeliani durante una recente visita in un kibbutz attaccato da Hamas il 7 ottobre, dove ha incontrato i parenti degli ostaggi israeliani e ha tenuto un concerto di beneficenza con Netta Barzilai, la cantante israeliana che ha vinto l’Eurovision nel 2018.
La sezione di Tucson di Coalition for Palestine ha ripreso i video di quel viaggio in Israele per la lanciare una campagna di boicottaggio nei confronti del cantante. “Chiediamo al Teatro Rialto di non ospitare un artista che chiaramente si schiera con lo Stato di Israele”, si legge nel messaggio del gruppo pro-pal. “Matisyahu non si allinea ai valori della comunità che includono compassione e pace per i palestinesi. Spero che il Rialto dimostri quegli stessi valori cancellando il suo spettacolo”. Anche la sezione locale di Jewish Voice for Peace ha accolto l’appello, suggerendo di protestare di persona di fronte al teatro.
“Abbattere i manifesti dei bambini rapiti non porta giustizia. Lanciare slogan genocidari contro gli ebrei non porta la pace. Impedire ai fan di ogni origine etnica e religiosa di cantare insieme a Santa Fe o a Tucson non porta la pace, fa il contrario”, ha scritto sui social Matisyahu, denunciando le tattiche adottate dagli attivisti filo-palestinesi in questi mesi. Sul post di sono arrivati numerosi messaggi di solidarietà da parte di fan e altre celebrità filo-israeliane, tra cui l’influencer Montana Tucker, il deputato democratico Ritchie Torres e la cantante Regina Spektor.
(Shalom, 21 febbraio 2024)
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Antisemitismo-Antisionismo
Riceviamo da Gerusalemme, con gratitudine e apprezzamento, questo prezioso contributo.
di Fulvio Canetti
Nel passato l’antisemitismo, sorto sulla ‘’diffamazione del sangue’’ ha padroneggiato tra le masse, oggi è l’antisionismo politico che ha preso a pieno titolo il suo posto, con la nascita dello Stato d’Israele. Si può affermare, senza paura di sbagliare, che sono ambedue facce della stessa medaglia, dove l’ebreo è sempre il capro espiatorio. Incredibile a dirsi, ma l’antisemitismo mascherato da antisionismo imperversa nelle Università dell’Occidente, trovando la sua linfa nell’odio antico verso il popolo ebraico, che si rigenera e si moltiplica come la moltiplicazione dei pani e dei pesci. L’antisemitismo vietato per vergogna e per legge, è diventato un cavallo perdente, per cui i nuovi ‘’amaleciti’’ si sono gettati sul carro dell’antisionismo, giustificandosi che criticare Israele non è antisemitismo. Ma guarda! Questi furbi non sanno che gli israeliani sono scesi in piazza per settimane contro il proprio Governo? È dal 1948 che gli Stati arabi attaccano il neo-nato Stato ebraico con l’intento di distruggerlo, coadiuvati da fiancheggiatori del mondo libero, che gli arabi definiscono ‘’utili idioti’’, finanziando l’agenzia UNRWA, per i rifugiati palestinesi, il cui fine esplicito è la distruzione di Israele. Questa agenzia partorita dall’ONU ha mai portato aiuto ai milioni di rifugiati tra India e Pakistan? Oppure ai rifugiati siriani, curdi, tibetani ucraini e tanti altri? Certamente no! Non è con loro che l’ONU garantirà la distruzione d’Israele, ma con i rifugiati palestinesi gonfiati all’ennesima potenza, il cui stato di profugo durerà per tutta l’esistenza d’Israele. ’’Cessate il fuoco’’ con la ‘’soluzione a due Stati’’ è un grosso regalo a Hamas e un pericolo mortale per Israele! La Nazione ebraica, sorta dalle ceneri della Shoà, è una spina nelle loro gole e un fumo acre nei loro occhi, invidiosi nel vedere un popolo, sopravvissuto alle prove della storia, vivere ancora. Stupiti si chiedono come sia possibile che questa ‘’rovina vivente’’ sia ancora presente nella storia del mondo, ignorando che il perno su cui ruota la tradizione ebraica sia il tempo, dove l’ebreo avanza e costruisce, onorando il proprio passato. Il mistero della sopravvivenza d’Israele nella storia, a differenza delle altre Nazioni, le cui civiltà si sono estinte, è legato a questa dimensione temporale, che è l’identità del popolo ebraico. Tradizione questa estranea ai Gentili, che avendo difficoltà nel capire idee astratte, come il tempo, ricorrono al culto delle immagini per riempire di vanità la loro angoscia esistenziale, proiettando sugli ebrei le proprie contraddizioni. Si crea in questo fare una frattura difficilmente sanabile tra mondi diversi, sul cui terreno è stato allevato il male dell’antisemitismo. Ai nostri giorni ha indossato con viltà la maschera dell’antisionismo, termine politico creato nel 1967 dalla propaganda sovietica nel quadro della ‘’guerra fredda’’. A sparare il primo colpo fu Nikolai Fedorenko nella sede delle Nazioni Unite, dove paragonò Israele alla Germania nazista, mentre la Russia sovietica sic! sosteneva le dittature dei regimi nazionalisti arabi. Lo slogan che echeggiò nelle Cancellerie di mezzo mondo, fu una enorme bugia velenosa: ‘’Due Stati per due popoli’’, un mantra, per l’Occidente, che gli stessi dirigenti palestinesi hanno sempre rifiutato, essendo il loro motto di battaglia la Palestina libera ‘’dal fiume al mare’’. Sono stati costoro non Israele ad ostacolare la nascita di uno Stato palestinese, che avrebbe messo un freno alla loro corruzione di facili guadagni sulle spalle degli stessi fratelli palestinesi, usati come carne da cannone. Dove finiscono i miliardi di dollari che l’Agenzia delle Nazioni Unite (UNRWA) riceve dall’Occidente per l’assistenza alla popolazione palestinese? Nelle tasche dei terroristi di Hamas e compari per acquistare armi e costruire tunnel della morte nel sottosuolo di Gaza. L’Unrwa è lo scudo di Hamas, la sua macchina di guerra contro Israele e nonostante queste verità, lo Stato del Sudafrica, suo compare in affari, vuole imputare ad Abele il delitto di Caino. Accusare Israele di attuare un genocidio a Gaza, è una vergognosa calunnia per mettere lo Stato sionista sul banco degli imputati nei tribunali di loro gradimento, come sta accadendo alla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aia, tutta orientata a favore di Hamas. I giudici di questa rispettabile Corte sono dei faccendieri, eletti da Stati ostili a Israele, per cui risulta evidente che entrano in gioco conflitti di interesse, che mettono allo scoperto il volto assassino delle Nazioni: non si cerca la Giustizia, bensì la Demonizzazione dello Stato ebraico, mediante condanne a senso unico già preconfezionate. L’UNRWA non è la soluzione al terrorismo essendo essa stessa parte in causa, come dimostrato dal massacro compiuto insieme a Hamas sui civili israeliani il 7 di Ottobre. Finanziata e osannata dalla Società delle Nazioni Unite fin dal 1949, l’Unrwa andrebbe sciolta per il bene dei palestinesi, che per causa sua vivono ancora nei campi profughi allestiti con fraterna dovizia dagli stessi Paesi arabi, dove saranno costretti a restare come eterni profughi, privi di cittadinanza. Cosa può e deve fare Israele? Certamente ha l’obbligo di combattere questo sudiciume morale e vincere la guerra, difendendo i suoi cittadini dagli attacchi del terrorismo. È una difesa, che Israele deve sospendere ogni qualvolta il terrorismo sta perdendo la sua vile aggressione, per le grida ipocrite che arrivano dalle stanze dell’ONU sui Diritti Umani. La Società delle Nazioni, una specie di Gestapo aggiornata con la presenza di uno Stato palestinese inventato e sostenuto dai fiancheggiatori del terrorismo, non batte ciglio: su trenta condanne emesse nel giro di un anno contro le Nazioni del mondo, ben venticinque hanno colpito Israele. È questa una Giustizia credibile? Forse che il lancio quotidiano di missili da parte di Hamas sul territorio israeliano, non è un bombardamento continuo che colpisce la popolazione civile? Ma su questo silenzio assordante da parte ONU, diventato il grande Inquisitore della Democrazia israeliana e il megafono degli sgozzatori coranici di Hamas, sempre pronti a danzare sullo spargimento di sangue ebraico. Una domanda è d’obbligo:’’ Perché Israele viene fermato quando sta vincendo la guerra contro i terroristi?’’ Mai l’aggressore arabo-palestinese viene stoppato dalle Commissioni ONU, nel momento in cui Israele potrebbe soccombere (D-o non voglia) dagli attacchi efferati e senza ragione, portati contro la sua esistenza. Di certo questa eventualità farebbe piacere a molti ’’amaleciti’’ dando avvio a una seconda Shoà, ma hanno fatto i conti senza l’Oste, che protegge il Suo popolo d’Israele’’. La libertà dalla schiavitù d’Egitto, è stato l’inizio dell’odio delle Nazioni verso gli ebrei, come sta scritto:’’Venne Amalek e attaccò Israele a Refidim’’. (Esodo 17,8) La nascita di una Nazione ebraica è fumo negli occhi per gli Amaleciti, gente refrattaria al pentimento, che si arrampica sugli specchi della menzogna per far abortire il progetto Divino nel mondo. È questa violenza titanica, presente nella storia come un continuo ritorno, che ha partorito il genocidio della Shoà. Oggi con la creazione dello Stato d’Israele, il male oscuro dell’antisemitismo è stato riciclato in antisionismo, ideologia abbracciata dalle élite politiche e religiose dell’Occidente. Le responsabilità di Hamas nei massacri disumani su donne e bambini israeliani, vengono, come per magia, dimenticate dall’informazione mediatica, per far posto, alle invenzioni di genocidio (sic!) sulla popolazione civile palestinese colpita dai bombardamenti israeliani. Ma quale legame può esserci tra un bombardamento e un genocidio? Nessuno! Ma Papa Francesco, rincarando la dose, ha messo sullo stesso piano il terrorismo di Hamas con la guerra giusta condotta da Israele, quando la stessa Chiesa ammette la guerra giusta come sta scritto nella Bibbia. Papa Franceso ha ricevuto da D-o una grossa opportunità storica, che sta sciupando: quella di espiare i peccati della Chiesa e di Papa Pio XII commessi durante la Shoà, per essere stati spettatori passivi se non sostenitori attivi. Ma quando questi ipocriti che vivono in Paradiso si pentiranno? Il loro interesse per la questione palestinese è solo interesse alla questione ebraica, nel tentativo satanico di togliere a Israele la terra sotto i piedi per cancellarne l’identità. Mi domando quando il mondo si sveglierà, rifiutando questo nuovo antisemitismo mascherato da antisionismo, che nasce dai brodi sudici e velenosi della storia, trovando nel Wokismo la sua espressione migliore. Woke significa guarda caso ‘’sveglio’’, cioè attento a quello che accade nella società: è una trappola per sprovveduti, che finiscono con ambedue i loro piedi nel tritacarne. Nei Campus universitari occidentali il wokismo ha preso il posto del marxismo, perché il nemico da sconfiggere non è più il capitalismo, bensì l’imperialismo bianco, sulla spinta di ideologie assurde legate all’immigrazione musulmana. ‘’Woke’’ vuole essere qualcosa di umanitario, idealista e antirazzista, ma in realtà è odio viscerale verso Israele, che è più forte di qualsiasi ragione. Woke è il ‘’nuovo’’ antisemitismo, dove l’ebreo deve morire non più con la ‘’soluzione finale’’, ma attraverso la ‘’decolonizzazione’’ della Giudea e Samaria, a cui farà seguito quella di Haifa e Tel Aviv. Ecco il motivo per cui Israele, dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, si è venuto a trovare dalla parte sbagliata: non era più un paese di rifugiati, bensì un Paese coloniale! È stato l’inizio del tradimento della sinistra politica e religiosa dell’Occidente, che attraverso l’inversione delle vittime (il mito della Nakba palestinese ndr) ha voluto placare la sua coscienza morale, perduta durante la Shoà. La giudeo-fobia purtroppo trova ancora convergenze trasversali tra le diverse classi sociali, diventata il nuovo oppio dei progressisti che hanno radicalizzato la causa palestinese, nel prendere la strada della Jihad islamica. Secondo questa ideologia la presenza ebraica (Sionismo) in terra musulmana (sic!) è intollerabile e vieta qualsiasi soluzione politica al conflitto. Da qui gli slogan palestinesi ‘’ dal fiume al mare ’’ cioè dal Giordano al Mediterraneo per cui la terra d’Israele deve essere ‘’judenrein’’, una profanazione della promessa Divina. È doveroso allora domandarsi:’’ Quale sarà il futuro d’Israele e quello dell’intera Umanità essendo entrambi legati a una Alleanza con il Creatore del mondo?’’ Difficile immaginare un futuro roseo, almeno per i tempi attuali, ma è bene essere ‘’positivi’’, seppure con l’amaro in bocca. Il pessimismo è un lusso che non possiamo permetterci, senza in alcun modo dimenticare il passato, necessario per costruire il futuro. Il mondo sta bruciando e bisogna difendere la nostra libertà conquistata a caro prezzo di sangue, alzandoci dalle nostre comode poltrone senza indugiare per testimoniare. E’ tempo di vincere questa battaglia escatologica contro l’asse del male, combattendone i demoni, per guarire la nostra anima ferita dalla sua satanica cattiveria e poter vivere i giorni del Messiah.
(Ricevuto dall'autore, 21 febbraio 2024)
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Sì, è proprio così. E’ una battaglia escatologica contro demoni condotti da una satanica cattiveria. Ormai dovrebbe essere chiaro che come per la Shoah, anche oggi per interpretare quello che sta accadendo a Gaza e nel mondo non si possono adottare usuali categorie umane di politica, sociologia, psicologia, tecnologia e altri strumenti di dominio sulle cose di cui l’uomo si inorgoglisce. E’ inevitabile far intervenire nel discorso Dio e il suo Avversario. Il popolo ebraico, la cui presenza nel mondo oggi è espressa dallo Stato d’Israele, continua ad essere il biblico “mio figlio” che Dio ha imposto al Faraone di lasciar andare. A questo etnico figlio Dio ha riservato nel futuro un posto particolare nel suo piano storico, e come Satana ha cercato di opporsi all’uscita del popolo dall’Egitto, così ora lo stesso Satana si oppone tenacemente al permanere di questo figlio nella terra che Dio gli ha assegnata. Bisogna dirlo chiaramente: chi oggi esplicitamente si oppone, con armi, manifestazioni o semplici “pareri personali” pubblicamente espressi, entra nel gioco del Nemico. E di questo risponderà davanti a Dio. M.C.
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Il mistero di Yahya Sinwar
di Luca Spizzichino
Dove è finito Yahya Sinwar? Dopo cinque mesi dall’inizio della guerra, della mente degli attacchi del 7 ottobre scorso non si hanno più notizie. Numerose sono le voci sulla sorte del leader di Hamas a Gaza, di cui l’unica prova che sia in vita e ancora in fuga sono solo alcune riprese di un filmato trovato in un tunnel di Khan Younis, risalenti a pochi giorni dall’inizio della guerra, dove si vede Sinwar fuggire insieme ai figli e una delle sue mogli.
L’ultima voce riguardo il capo di Hamas è arrivata dall’Arabia Saudita. Secondo il portale saudita Elaph la leadership di Hamas, tra cui lo stesso Sinwar e il fratello Muhammed, sarebbe fuggita in Egitto attraverso i tunnel sotterranei della Striscia di Gaza portando con sé alcuni ostaggi da usare come scudi umani.
La notizia è stata smentita sia dall’esercito israeliano sia da alcune fonti egiziane, che hanno parlato con i media libanesi. Secondo gli ufficiali dell’IDF, Sinwar avrebbe perso i contatti con gli altri leader di Hamas. E non è chiaro se sia nascosto in un bunker o se sia, forse, rimasto ucciso in uno dei tanti raid sulla Striscia. Due settimane fa la tv israeliana aveva indicato che Sinwar sarebbe di fatto irraggiungibile, “non avendo alcun contatto” né con i mediatori egiziani né con quelli qatarioti che negoziano al Cairo sul cessate il fuoco e sul rilascio degli israeliani rapiti.
L’ultimo segno di vita, verificato, di Yahya Sinwar risale al 16 gennaio, riporta Channel 14. Secondo il canale televisivo israeliano, la comunicazione tra Sinwar e il mondo esterno, avverrebbe attraverso un portavoce e un fax, evitando così tutti i mezzi digitali. Più di un mese fa questi fax hanno smesso di arrivare.
La caccia all’uomo si sta facendo di giorno in giorno sempre più intensa. Recentemente sono stati ritrovati non solo documenti scritti da Sinwar, ma anche circa 20 milioni di shekel (5,4 milioni di dollari) in contanti. Soldati e agenti dello Shin Bet hanno anche trovato effetti personali in uno dei nascondigli. Nei giorni scorsi inoltre, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha annunciato che la leadership di Hamas all’estero sta cercando “un sostituto” per il suo leader nella Striscia di Gaza dal momento che “i battaglioni del gruppo a Khan Yunis sono stati smantellati e si profila un’offensiva a Rafah”.
Nel frattempo alcuni ritrovamenti fatti dall’esercito israeliano provano il desiderio di Sinwar di aprire un secondo fronte al nord con l’aiuto di Hezbollah. Secondo i documenti trovati a Khan Younis, il leader di Hamas credeva che “l’Asse della Resistenza” sciita, vale a dire Hezbollah e Iran, si sarebbe impegnata attivamente con un’operazione per “occupare la Galilea”.
Sebbene Hezbollah abbia promosso 15 unità Fajr – battaglioni concentrati delle sue forze d’élite Radwan – lungo il confine e si sia preparato per un’invasione immediata, non conosceva il momento esatto dell’azione di Hamas. Questo ha fatto sì che le forze dell’IDF, principalmente riservisti, abbiano mantenuto la linea. Secondo una fonte israeliana, l’obiettivo di Hezbollah era quello di entrare immediatamente, ma l’Iran li ha fermati per un motivo strategico particolare: fare da deterrente per un eventuale attacco israeliano alle centrali nucleari iraniane.
(Shalom, 20 febbraio 2024)
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Fioritura di anemoni nel sud del Paese
La guerra contro Hamas fa battere il cuore degli israeliani. La fioritura degli anemoni solleva il cuore.
di Gundula Madeleine Tegtmeyer
Sono ormai cinque mesi che noi israeliani combattiamo contro l'organizzazione terroristica Hamas. La guerra e la preoccupazione per gli ostaggi continuano a dominare i nostri pensieri, molte delle nostre conversazioni e la nostra vita quotidiana. La sera ricevo un messaggio WhatsApp. Per distrarmi, per avere un po' di distensione, la mia amica Eva e suo marito Shai stanno organizzando per il giorno dopo una gita nel sud del Paese, dove gli anemoni in queste settimane sono in fiore.
È il periodo del darom adom, come chiamiamo in ebraico il periodo della fioritura degli anemoni, in tedesco: “Roter Süden”. Accetto volentieri l'invito a fare una spontanea escursione. Trascorrere del tempo nella natura, godendo dei fiori, ci farà bene dal punto di vista emotivo e rafforzerà la nostra resistenza.
Concordiamo subito che la nostra destinazione è la foresta di Shaharia. Si trova ai piedi del deserto del Negev, a nord di Kiriat Gat - Beit Guvrin (Strada 35) e offre molti tesori nascosti. I suoi sentieri forestali e ciclabili conducono ad aree ricreative, alcune delle quali sono state attrezzate con tavoli da picnic.
• Parte della foresta piantata con donazioni da Los Angeles
Una parte del bosco è stata piantata su iniziativa del Fondo Nazionale Ebraico da parte dei residenti del campo di transito istituito nel 1956. La comunità ebraica di Los Angeles aveva raccolto fondi per il progetto nei primi anni Cinquanta. In onore e ricordo dei loro sforzi, la parte settentrionale della foresta è stata chiamata "Foresta HaMalachim", in linea con il nome della città in spagnolo - "Città degli Angeli".
• Macchie rosse punteggiano il paesaggio Tappeti di anemoni di vari colori ricoprono il paesaggio anche in altre parti del Paese durante queste settimane, come nell'Arava, lungo la costa del nord fino ai Monti del Carmelo e alla Galilea. La fioritura degli anemoni segna il sospirato passaggio dall'inverno alla primavera.
Arrivo nella foresta di Shaharia. Siamo sopraffatti dalla vista di queste delicate bellezze dal grande significato simbolico e ci immergiamo in un mare di anemoni a corona, facendo ogni passo con attenzione per non calpestare nessun fiore.
L'anemone corona (Anemone coronaria) è una delle "Top 3 rosse" della flora israeliana, seguita dal ranuncolo rosso (Ranunculus asiaticus) e dal papavero rosso (Papaver umbonatum). In alcuni luoghi, i più rari tulipani selvatici rossi (Tulipa agenensis) e l'Adone rosso (Adonis microcarpa e palaestina) si uniscono al mare di fiori.
• Delicato fiore nazionale Nel 2013, l'anemone corona è stato eletto a fiore nazionale dello Stato di Israele in un sondaggio organizzato dalla Società per la protezione della natura in Israele (SPNI) e dal sito web di notizie "Ynet".
Appare delicato, quasi fragile, eppure riesce a resistere a condizioni climatiche talvolta difficili. L'anemone, noto anche come fiore del vento, è altamente simbolico in Israele: incarna la speranza, il rinnovamento e la bellezza della vita, simboleggiando la resilienza e la determinazione del Paese a prosperare anche nelle condizioni più difficili. Per gli ebrei, il rosso vibrante dell'anemone corona simboleggia anche il sangue e i sacrifici del popolo ebraico. E quando Gesù parla dei "gigli del campo" (Matteo 6:28 e Luca 12:27), probabilmente si riferisce all'anemone corona.
L'anemone ha ispirato numerosi artisti israeliani e viene utilizzato nelle campagne turistiche per mostrare la bellezza e la ricchezza culturale del Paese.
Era in parte minacciato dai raccoglitori di fiori. Gli ambientalisti israeliani sono intervenuti e negli ultimi decenni Israele ha dato risalto alle campagne educative per sensibilizzare la società a non raccogliere i fiori selvatici. Le aree con grandi popolazioni di anemoni sono state poste sotto tutela.
• Drammatico spettacolo al confine con Gaza In altre parti del Paese gli anemoni fioriscono nei colori bianco, viola e rosa. Ma solo nel sud fioriscono in uno scarlatto brillante, e in nessun luogo lo spettacolo è più drammatico che lungo il confine con la Striscia di Gaza. Da oltre 20 anni, nel sud di Israele si tiene ogni anno il festival "Darom Adom", noto anche come "Festival del Sud Scarlatto", in onore degli anemoni a corona dalla fioritura rossa.
Il nome del festival è anche un'allusione alle "sirene rosse" che ci avvertono dell'avvicinarsi dei razzi dalla Striscia di Gaza. Ma quest'anno è tutto diverso: siamo in guerra con Hamas dal 7 ottobre 2023 e la festa popolare è stata annullata.
Nonostante i combattimenti, l'anemone corona dimostra ancora una volta la sua grande resistenza. Alla vista della bellezza di migliaia di anemoni in fiore nel quinto mese di guerra, sembra che l'anemone abbia un messaggio per noi - nel vero senso della parola annunciato dai fiori: adesso più che mai!
(Israelenez, 20 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La realtà e i sogni: prontuario antifuffa
In una recente intervista ad Arutz Sheva, Dan Diker, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs, ha sgombrato il campo dal ciarpame ideologico intorno alla nascita di uno Stato palestinese, l’opzione riproposta come mantra da tutte le Cancellerie e dall’Amministrazione Biden, evidenziando alcune piccole questioni mai risolte. La prima è il mancato riconoscimento del diritto di esistere di Israele, ovvero il riconoscimento della sua legittimità statuale. Sia l’OLP che l’Autorità Palestinese si sono limitate a riconoscerne solo l’esistenza. Anche Adolf Hitler riconosceva l’esistenza degli ebrei, quanto al loro diritto all’esistenza, le sue idee, come è noto, erano in contrasto con il riconoscimento fattuale della loro esistenza. La seconda è la fine della prassi di remunerazione nei confronti dei terroristi palestinesi e delle loro famiglie. La terza è la fine del lawfare, ovvero della guerra diplomatica e legale atta a delegittimare Israele in tutte le possibili sedi istituzionali, come sta avvenendo in questi giorni con le istanze presentate alla Corte Penale Internazionale e alla Corte di Giustizia. Va aggiunto che questi due aspetti discendono dal primo punto: il riconoscimento al diritto all’esistenza di Israele. Diritto respinto senza sosta dal 1936-anno in cui la Commissione Peel propose una spartizione del territorio mandatario di Palestina che, in contrasto con quanto previsto dal Mandato del 1922, decurtava ulteriormente il territorio assegnato agli ebrei, per concedere agli arabi l’80%- ad oggi. Senza questo preambolo ogni ipotesi di pace, ogni ipotesi di risoluzione del conflitto è puro onirismo, e né l’Amministrazione Biden, né Joseph Borrell, solerte promotore dell’Autorità Palestinese presso la UE, né nessun altro, saranno in grado di mettere Israele nelle condizioni di potere accettare qualsivoglia accordo realistico con una controparte in rappresentanza del “popolo palestinese”. Che sia uno Stato, o una confederazione, o una serie di minuscoli emirati fondati sulla specificità clanica, come propone Mordechai Kedar, l’assenza della precondizione essenziale trasforma ogni discorso in un puro flatus vocis. Non bisogna essere pessimisti ma appena un po’ realisti per vedere che il radicale rifiuto di Hamas nei confronti di uno Stato ebraico, plasticamente esplicito nel suo mai abrogato Statuto del 1988, trova una corrispondenza precisa nel mancato riconoscimento del suo diritto all’esistenza da parte dell’Autorità Palestinese. Dunque, al Segretario di Stato Antony Blinken, quando, a proposito del futuro, parla di una Autorità Palestinese “rinnovata”, bisognerebbe dire che il rinnovamento, per renderla credibile, non può attuarsi con un maquillage, perché tutto resterebbe esattamente così come è, il gioco delle parti in cui il “non rappresentante” dei palestinesi, Hamas, recita quella del cattivo, mentre l’Autorità Palestinese quella del partner affidabile pronto ad amministrare Gaza.
(L'informale, 20 febbraio 2024)
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Trovato un video di Shiri e i figli Ariel e Kfir vivi che risale a qualche giorno dopo il rapimento
L’esercito israeliano ha fatto sapere di avere trovato un video, che dovrebbe risalire a qualche giorno dopo il 7 ottobre, in cui appaiono Shiri Bibas e i suoi due figli Ariel (4 anni) e Kfir (che all’epoca del rapimento aveva 10 mesi) mentre vengono trasportati nella zona est di Khan Younis. La famiglia Bibas era stata presa in ostaggio il 7 ottobre dai terroristi di Hamas nel kibbutz dove vivono, Nir Oz: le immagini della giovane madre con i due bimbi piccoli dai fiammeggianti capelli rossi avevano fatto il giro del mondo. Del padre Yarden invece, che in un video del 7 ottobre veniva portato via ferito dai terroristi, non si hanno notizie recenti: a fine novembre era stato trasmesso un video in cui gli veniva annunciata la morte della famiglia. Si tratta degli unici due bambini israeliani rapiti il 7 ottobre e non ancora liberati: il piccolo Kfir ha compiuto l’anno in cattività. “Questi video ci strappano il cuore. Vedere Shiri, Yarden, Ariel e Kfir, strappati dalla loro casa a Nir Oz in questo paesaggio infernale, sembra insopportabile e disumano – commentano i famigliari della famiglia Bibas in una nota diffusa dal Forum delle famiglie degli ostaggi -. Il rapimento di bambini è un crimine contro l’umanità e un crimine di guerra. Ariel e Kfir sono vittime di un male mostruoso. Tutta la nostra famiglia è diventata ostaggio insieme a tutti gli ostaggi. Chiediamo disperatamente a tutti i decisori in Israele e nel mondo coinvolti nei negoziati: riportateli a casa immediatamente. Fate capire a Hamas che catturare i bambini è una cosa inammissibile. Date la priorità al ritorno di questi bambini in ogni accordo. Vogliamo ringraziare la gente in Israele e nel mondo che ci sostiene e vi chiediamo di continuare la lotta per il loro ritorno a casa”. Della famiglia Bibas fino a oggi non si avevano notizie certe, dopo il rapimento. A fine novembre Hamas aveva annunciato che erano tutti morti nei bombardamenti israeliani, ma l’esercito israeliano aveva preso con molta cautela le dichiarazioni, ribadendo che la guerra psicologica è una delle armi usate dall’organizzazione terroristica: lo dimostra il fatto che alcuni ostaggi dichiarati morti da Hamas sono invece stati liberati nelle diverse fasi di liberazione a fine novembre.
(Bet Magazine Mosaico, 20 febbraio 2024)
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A Milano la comunità ebraica celebra senza festa il compleanno in prigionia di Kfir Bibas, il più giovane ostaggio a Gaza
di Sofia Tranchina
La colpa: essere ebreo. La pena: non poter vivere, libero, amato, a casa sua, in Israele, con la sua famiglia. E non poter festeggiare il suo primo compleanno. Così Kfir Bibas, volto simbolo della crudeltà senza remore dei progetti di sterminio del popolo ebraico, compie un anno nella prigionia a Gaza. Quando il 7 ottobre i militanti palestinesi – di Hamas, della Jihad Islamica, e altri non associati ad alcun gruppo terroristico – hanno fatto irruzione armati nei Kibbutzim di confine, e hanno rapito 240 persone deportandole a Gaza, non si sono fermati davanti a nessuno: che fossero o meno ebrei, israeliani, o adulti. Si sono ritrovati così a trattenere – nelle case, nei seminterrati e nei tunnel – arabi, thailandesi, anziani, disabili, uomini, donne e bambini. In quest’ultima categoria rientra il piccolo Kfir, neonato di appena 9 mesi al momento del rapimento, deportato insieme al fratello di 4 anni Ariel e alla madre Shiri (di cui l’urlo di terrore in un video girato dalle bodycam dei terroristi è diventato virale). Il padre Yarden è stato deportato da un altro gruppo, che ne ha pubblicato una foto mentre sanguinava dalla testa. Nessuno dei 4 componenti del nucleo familiare è stato rilasciato durante gli scambi 3 a 1 (3 prigionieri palestinesi per 1 ostaggio israeliano) della tregua di novembre. Secondo alcune contraddittorie informazioni rilasciate da Hamas, i Bibas sarebbero finiti in mano a un gruppo non affiliato e successivamente dispersi, oppure sarebbero deceduti durante un bombardamento israeliano. Dato il vizio già appurato di Hamas di dichiarare morti inesistenti a fini di terrorismo psicologico, l’informazione non viene per ora presa in considerazione, fino ad eventuali future verifiche. Ad oggi, Kfir ha passato 104 giorni a Gaza, dopo solo 261 giorni in Israele: la sua unica colpa è quella di essere nato ebreo. In un mondo intrigato dall’idea che essere ebrei possa effettivamente essere una colpa, un peccato originale indelebile, la comunità ebraica di Milano si è opposta alla normalizzazione della permanenza degli ostaggi a Gaza organizzando giovedì 18 gennaio, in pieno centro città, in via dei Mercanti, un compleanno senza festa per Kfir, per raccogliersi a commemorare, riflettere, cantare e pregare. L’evento ha visto la partecipazione del presidente della comunità di Milano Walker Meghnagi, del vicepresidente UCEI e consigliere della comunità Milo Hasbani, del co-presidente Raffaele Besso e di altre figure di spicco dell’ambiente ebraico meneghino. Infine, il rabbino capo di Milano Rav Alfonso Arbib, dopo la lettura di tre salmi, ha cantato insieme alla folla l’inno d’Israele, inno della speranza: l’Hatikva.
(Bet Magazine Mosaico, 20 febbraio 2024)
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Lo spettacolo antisemita al Bataclan
L’urlo “Free Palestine” in uno dei luoghi del terrorismo è “una profanazione”
Nel luogo dove il 13 novembre 2015 un commando di jihadisti ha assassinato 90 persone, il pubblico che lo scorso 10 febbraio assisteva al concerto del duo siro-tedesco Shkoon ha urlato “Free Palestine, Free Palestine”, mentre risuonava “Yamma mwel el hawa”, una canzone palestinese il cui testo recita: “Preferirei essere accoltellato che vivere sotto il giogo dei farabutti” (gli israeliani, ndr).
Al Bataclan, la sala concerti che nove anni fa è stata teatro di uno dei peggiori massacri della recente storia francese, è andato in scena uno spettacolo raccapricciante, “una profanazione” secondo molti utenti che su X hanno commentato il video che testimonia l’accaduto. “Queste persone non rispettano nulla, non hanno rispetto per le vittime che sono morte lì dentro”, ha reagito Patrick Jardin, padre di una delle vittime dell’attentato del Bataclan.
A suscitare ulteriori polemiche è il fatto che all’origine della diffusione del filmato ci sia la moglie di un giornalista del Monde, perseguìta dalla giustizia per aver pubblicato il disegno di un parapendio la sera del pogrom del 7 ottobre. “L’alto luogo del dolore francese provocato dalla barbarie islamista, occupato dai sostenitori di Hamas. Il tutto celebrato da Muzna, sposa palestinese di Benjamin Barthe, caporedattore del Monde responsabile del medio oriente, perseguìta per aver festeggiato il 7 ottobre. Tre simboli in uno”, ha commentato indignato l’avvocato francese Gilles-William Goldnadel. Come ha scritto la direttrice del magazine Causeur, Élisabeth Lévy, “Free Palestine”, letteralmente, non ha nulla di scioccante: è legittimo difendere l’esistenza di uno stato palestinese. Ma è il contesto in cui quello slogan è stato emesso a rappresentare il vero problema. Perché “nel contesto attuale”, sottolinea a ragione Lévy, “non significa liberate la Cisgiordania e Gaza (che non è più occupata) in conformità con la risoluzione dell’Onu, ma liberate la Palestina dal fiume al mare. Detto in altri termini: distruggete Israele”.
Il Foglio, 20 febbraio 2024)
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Ci si può fidare di Marwan Barghouti?
di Ugo Volli
• Le fantasie del “giorno dopo” la fine della guerra
Chi nella politica internazionale, sui media o nella diplomazia lavora per impedire una completa vittoria di Israele nella guerra di Gaza, o almeno per controbilanciarla con un successo palestinese, cerca di bloccarne l’offensiva militare, salvaguardando i capi e le forze di Hamas nascoste a Rafah. O anche si immagina che quel che conta sia “il giorno dopo” aver vinto Hamas, Israele dovrebbe accettare uno “stato palestinese”. Solo in questa maniera, dicono, ci sarebbero i frutti della pace, fra cui l’estensione degli “accordi di Abramo” all’Arabia Saudita. Ciò non è vero, come Israele spesso ha spiegato; e inoltre sarebbe uno sviluppo pericolosissimo, la premessa sicura di altri attacchi terroristici di massa e di altre guerre. Nonostante ciò si continua a parlare di uno “stato palestinese” cui si vorrebbe addirittura affidare la gestione e la ricostruzione di Gaza dopo la fine della guerra.
• Lo “stato Palestinese” e la realtà
C’è un ostacolo in più: esiste già un’entità che pretende di essere “stato di Palestina” e come tale parla per esempio all’Onu. Non è per fortuna di fatto uno stato vero, perché non controlla il “suo” territorio; ma ha relazioni intense con Onu, Usa, Unione Europea: è l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Peccato però che si tratti di una dittatura che ha tenuto le sue uniche elezioni presidenziali 19 anni fa (per un mandato di 4 anni) e quelle parlamentari 18 anni fa (ma l’assemblea non si è più riunita dal 2007). Inoltre l’ANP manca di libertà di stampa e di riunione, è notoriamente una delle organizzazioni più corrotte del mondo arabo (il che è tutto dire), favorisce il terrorismo in molti modi, innanzitutto pagando i terroristi morti in azione o arrestati con stipendi e pensioni. Infine è governata da un dittatore (Mahmud Abbas) che a marzo compie 89 anni, è piuttosto malato ed è evidentemente incapace di controllarne il territorio e gli uomini.
• Una Autorità “rivivificata”
La soluzione escogitata per superare questi ostacoli è la seguente: lo stato di Palestina sarà sì l’ANP, ma “riformata” o addirittura “rivivificata”. Così sostiene l’amministrazione Biden, per esempio. Ma come potrebbe avvenire questa resurrezione di un corpo politico evidentemente marcio e corrotto? A parte la difficoltà di rimuovere il vecchio dittatore e la sua corte, se si facessero oggi le elezioni nei territori dell’ANP, i sondaggi dicono che le vincerebbe facilmente Hamas – tanto per chiarire quanto il “popolo palestinese” sia innocente e desideroso di pace. E allora come fare? L’idea è quella che il “rinnovamento” potrebbe consistere nella sostituzione di Abbas con Marwan Barghouti, un terrorista detenuto nelle carceri israeliane per omicidi plurimi, che però in Occidente si è costruito la fama di “Mandela palestinese”, ottenendo numerosi riconoscimenti. Ora a parte che Mandela non è mai stato accusato di omicidi mentre Barghouti è in carcere proprio per questo, Mandela è diventato famoso e apprezzato per aver intrapreso un percorso di pace coi suoi nemici, mentre Barghouti non l’ha mai fatto, anzi.
• Chi è Barghouti
Nato nel 1959, Marwan Barghouti si è unito nel 1974 a Al Fatah, collaborando ai suoi attentati contro i civili in Israele. Nel 1976 fu condannato per questa partecipazione al terrorismo. Nel 1987 fu arrestato di nuovo ed espulso in Giordania. Alla fine degli anni ’90, Barghouti divenne il capo dei Tanzim, l’organizzazione paramilitare che sotto la maschera della sicurezza interna guidava la campagna terroristica di Fatah contro Israele Fu inoltre il fondatore delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, altra organizzazione terroristica affiliata a Fatah e ancora esistente, che ha partecipato al 7 ottobre. Tra il 2000 e il 2002, Barghouti guidò Fatah in Cisgiordania, e in particolare i Tanzim e le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa organizzando gran parte dell’attività terroristica in quel periodo.
• Un’immagine mitica che non corrisponde alla realtà
Nel 2002, Barghouti fu arrestato e condannato dalla corte distrettuale di Tel Aviv a cinque ergastoli consecutivi per il suo ruolo nella morte di altrettante vittime del terrorismo. Nel suo verdetto, la corte stabilì che Barghouti era stato moralmente responsabile di molti altri attacchi per il suo incoraggiamento al terrorismo e un attore chiave nell’acquisizione di finanziamenti per i terroristi. In carcere Barghouti ha cercato di accreditarsi come leader palestinese alla ricerca della pace, l’unico in grado di unificare le fazioni palestinesi e raggiungere realisticamente un accordo sullo status finale con Israele. Tuttavia, questo mito non corrisponde alla realtà. Barghouti non ha mai rinunciato alla lotta armata. Nel 2014, per esempio, ha rilasciato due dichiarazioni pubbliche, rivendicando il diritto dei palestinesi alla “resistenza in tutte le sue forme” e sostenendo contro la calma voluta da Abbas che bisognasse riprendere la “resistenza”. Ancora due mesi fa, in piena guerra, Barghouti, che non ha mai condannato il 7 ottobre, invitava i palestinesi in Cisgiordania a unirsi alla “resistenza” e chiedeva specificamente ai membri dei servizi di sicurezza palestinesi di rivolgere le armi contro Israele. Insomma, certamente Barghouti non è Mandela, ma soprattutto non è un personaggio a cui Israele possa dare fiducia per la propria sicurezza.
(Shalom, 20 febbraio 2024)
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Motivi per espellere gli ebrei. Il libro del fondatore di Hamas
Dopo Khamenei e Abu Mazen, “La fine degli ebrei” del fondatore di Hamas, Zahar.
di Giulio Meotti
ROMA - Sabato, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, il presidente israeliano Isaac Herzog ha tirato fuori un libro intitolato “La fine degli ebrei”. I soldati israeliani lo hanno trovato in una casa a Gaza. L’autore del libro è uno dei fondatori dell’organizzazione terroristica Hamas nata nel 1987, il chirurgo Mahmoud al Zahar. Il libro, un “progetto per l’annientamento del popolo ebraico”, è stato scoperto nel quartiere di al Furqan nella Striscia di Gaza ed è stato mostrato da Herzog al pubblico durante una conversazione con il commentatore David Ignatius.
Zahar, uno dei fondatori di Hamas assieme allo sceicco Ahmed Yassin ed ex ministro degli Esteri dell’Autorità palestinese, si dimostra degno allievo dell’ayatollah Khamenei.
La Guida suprema dell’Iran ha infatti pubblicato un libro intitolato “Palestina” nel quale spiega la distruzione del “regime sionista”. “Nabudi” (annientare), “imha” (dissolvere) e “zaval” (cancellare): le tre parole attorno a cui ruota il progetto iraniano su Israele, indicato come “adou” (nemico) e “tumore canceroso”. Spiega Khamenei che il suo piano non comporta una “guerra classica”, ma una lunga guerra a bassa intensità che punti a “logorare” la resistenza degli israeliani e della comunità internazionale. Il piano iraniano si basa sul presupposto (infondato) che tutti gli israeliani abbiano la doppia cittadinanza e che preferirebbero vivere negli Stati Uniti o in Europa se la vita in Israele diventasse difficile e dolorosa. Khamenei raccomanda pertanto di rendere la vita in Israele tanto difficile da costringere gli israeliani ad andarsene per sottrarsi alle minacce che incombono su di loro. L’ayatollah descrive la tattica di indurre la comunità internazionale a “non poterne più di Israele” sino al punto in cui l’occidente si renderà conto che sostenere il “progetto sionista” è troppo oneroso e abbandonerà lo stato ebraico.
Nel suo libro “Il pensiero politico del movimento di resistenza islamico Hamas”, il leader del gruppo terroristico in esilio, Khaled Meshaal, ha scritto che i palestinesi devono assumere un ruolo guida nella battaglia per la liberazione islamica.
Il fondatore di Hamas Zahar, un medico specialista in malattie della tiroide che ha fondato la Palestinian Medical Society e ha contribuito alla rinascita della Fratellanza musulmana nella Striscia di Gaza, scrive invece che mentre la “famiglia delle nazioni” ha definito i nazisti come criminali di guerra e contro l’umanità, i nazisti sono in realtà un faro importante per molti nel mondo. I capitoli del libro di Zahar si concentrano sull’odio verso il popolo ebraico e giustificano la persecuzione e l’assassinio degli ebrei nel corso della storia; tra questi vi sono capitoli intitolati “L’odio ardente del mondo nei confronti degli ebrei” e “Motivi per espellere gli ebrei”. Zahar esorta a chiedersi perché sia avvenuto l’Olocausto e a capire coloro che “bruciarono gli ebrei”. Lo fecero perché gli ebrei in quei paesi avevano preso il controllo dell’economia e della politica e sfruttavano le risorse di quei popoli a proprio vantaggio.
“Ora siamo a Monaco”, ha detto Herzog nel brandire il libro (alla Cbs, Herzog aveva già mostrato una copia del “Mein Kampf” di Hitler in arabo trovata in un covo di Hamas a Gaza). “E alla periferia di Monaco c’è il campo di concentramento di Dachau, dove furono massacrate decine di migliaia di ebrei”.
Intanto il libro di Abu Mazen, presidente dell’Anp palestinese, pubblicato in arabo nel 1984 come parte della sua tesi di dottorato presso un istituto accademico di Mosca, intitolato “L’altro lato: la relazione segreta tra il nazismo e il sionismo”, è presente nelle biblioteche accademiche di tutti i paesi di lingua araba. Nazismo e sionismo collimano, scrive Abbas, e spiega che David Ben Gurion e Adolf Hitler erano “buoni amici”. Abbas accusa il movimento sionista d’aver preso parte alla Shoah cooperando con il Terzo Reich e rifiuta quella che definisce “la fantasia sionista”, “la menzogna dei sei milioni di ebrei uccisi” dai nazisti, affermando che gli ebrei morti nella Shoah furono 890 mila e tutte vittime del complotto nazi-sionista.
Se la cultura serve a costruire i famosi “ponti” e ad animare il decantato “dialogo”, la cultura dei leader palestinesi sembra più un libretto d’istruzioni per annientare il popolo della Shoah.
Il Foglio, 20 febbraio 2024)
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Ministro della Difesa: i terroristi di Hamas hanno "perso il loro spirito combattivo"
Il capo del Comando settentrionale dell'IDF, il maggior generale Uri Gordin, ha incontrato le squadre di sicurezza civili nel nord di Israele in vista di una possibile ulteriore escalation.
di Akiva Van Koningsveld
Centinaia di terroristi di Hamas che hanno "perso il loro spirito combattivo" si sono consegnati ai soldati delle Forze di Difesa israeliane nella Striscia di Gaza negli ultimi giorni, ha dichiarato domenica il ministro della Difesa Yoav Galant, in mezzo ai preparativi in corso per un'escalation con gli Hezbollah sostenuti dall'Iran nel nord. "L'intensificazione dell'attività militare a Khan Yunis continua a dare i suoi frutti", ha dichiarato Galant durante una visita alla base IDF di Beersheba, alludendo alla roccaforte meridionale di Hamas nella Striscia di Gaza. "Duecento terroristi si sono arresi all'ospedale Nasser, decine all'ospedale Amal". "Questo dimostra che hanno perso il loro spirito combattivo. I terroristi, che erano armati di bazooka, pistole e fucili, non hanno combattuto. Hanno capito che devono arrendersi o morire", ha detto Galant. "Hamas ha forze solo nella parte centrale della Striscia di Gaza e nella Brigata di Rafah. L'unica cosa necessaria per farli crollare completamente come sistema militare è una decisione dell'IDF. Non c'è nessuno che possa aiutarli, né gli iraniani né la comunità internazionale", ha detto Galant agli alti ufficiali del Comando militare meridionale. "Disperderemo i sei battaglioni di Hamas rimasti - non dobbiamo fermarci finché ci sono ancora 134 ostaggi a Gaza", ha aggiunto il ministro della Difesa. È stata confermata la morte di almeno 32 degli ostaggi ancora detenuti da Hamas. I terroristi di Hamas hanno ucciso circa 1.200 persone, soprattutto civili, e ne hanno ferite migliaia negli attacchi del gruppo terroristico del 7 ottobre.
La scorsa settimana, l'IDF ha annunciato "prove credibili" che Hamas sta trattenendo almeno alcuni degli ostaggi rapiti all'ospedale Nasser e che i corpi dei prigionieri morti potrebbero trovarsi nella struttura di Khan Yunis. Giovedì, in un video messaggio, il portavoce dell'IDF, contrammiraglio Daniel Hagari, ha annunciato che le forze speciali hanno condotto una "operazione precisa e limitata" nell'ospedale e che sono stati arrestati diversi sospetti. L'esercito ha contattato il direttore dell'ospedale e ha chiesto l'immediata cessazione delle attività terroristiche nella struttura e l'immediata evacuazione dei militanti di Hamas dall'edificio, ha dichiarato l'IDF. A gennaio, Hamas aveva lanciato un razzo contro i soldati israeliani dall'ospedale. Durante la guerra in corso, Israele ha scoperto che le strutture mediche sono ampiamente utilizzate dai terroristi di Hamas e della Jihad islamica palestinese.
Mentre Israele combatte i terroristi di Hamas nel sud, Hezbollah si è unito ai combattimenti, sparando decine di razzi e missili dal Libano contro lo Stato ebraico ogni giorno dall'inizio della guerra, il 7 ottobre. La settimana scorsa, Hezbollah ha lanciato razzi contro Safed, uccidendo una soldatessa e ferendone altre otto. Il soldato ucciso era il sergente maggiore dell'IDF Omer Sarah Benjo, 20 anni, di Moshav Ge'a, vicino ad Ashkelon. Durante il fine settimana, il capo del Comando settentrionale dell'IDF, il Maggiore Generale Uri Gordin, ha incontrato le squadre di sicurezza civili del nord per prevenire una possibile ulteriore escalation da parte dei gruppi sostenuti dall'Iran in Libano e Siria. Le cosiddette squadre di standby sono composte da persone del posto, per lo più ex militari, che si addestrano insieme e tengono il forte come prima forza di risposta fino all'arrivo delle truppe regolari. Almeno due kibbutzim nel Negev occidentale sono stati salvati da queste squadre il 7 ottobre. "Se dovessimo essere costretti ad attaccare nel nord, lo faremo con una forza incredibile", ha promesso Gordin. "La difesa delle città da parte di gruppi di difesa locali, sia evacuati che non evacuati, fa parte del nostro concetto di difesa globale".
L'esercito israeliano ha aumentato i suoi attacchi contro Hezbollah di "un livello dieci" in risposta all'attacco mortale della scorsa settimana, ha detto giovedì Galant, avvertendo che i jet su Beirut sono stati equipaggiati con "bombe più pesanti per obiettivi più distanti". "Non vogliamo la guerra, siamo interessati a un accordo che permetta ai residenti del nord di tornare in sicurezza", ha dichiarato Galant. Più di quattro mesi dopo l'entrata in guerra di Hezbollah a sostegno di Hamas, il Comitato internazionale della Croce Rossa, che controlla il rispetto del diritto umanitario internazionale, ha pubblicato domenica la sua prima dichiarazione sulla "Preoccupazione per la popolazione civile nel nord di Israele". Senza nominare Hezbollah, il CICR ha invitato "tutte le parti coinvolte a dare priorità alla protezione dei civili e a rispettare il diritto umanitario internazionale" e ha ricordato che "decine di migliaia di persone sono state costrette a lasciare le loro case e non sono ancora in grado di tornare in sicurezza". "Per più di quattro mesi, i civili nel nord di Israele hanno sperimentato una crescente violenza e insicurezza. Siamo profondamente preoccupati per l'escalation di violenza nell'area e per l'ulteriore impatto sulla popolazione civile", prosegue la dichiarazione. Dall'inizio della guerra, sei civili e dieci soldati dell'IDF sono stati uccisi in attacchi provenienti dalla Terra dei Cedri. Circa 80.000 israeliani sono stati sfollati dalle loro case fino a 10 chilometri dal confine libanese.
(Israel Heute, 19 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La denuncia dei parenti degli ostaggi alla Corte Penale Internazionale
“Anche i civili palestinesi hanno collaborato al massacro del 7 ottobre”
di Luca Spizzichino
Una delegazione dei familiari degli ostaggi israeliani si è recata in Olanda per presentare una denuncia contro i leader di Hamas presso la Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aia. Di fronte al tribunale internazionale alcuni di loro hanno rilasciato delle dichiarazioni alla stampa.
“Mi è stata data l’opportunità di venire qui per far sì che il mondo ricordi le atrocità del 7 ottobre. Ci deve essere giustizia e non ci fermeremo finché non ci sarà un cambiamento” ha affermato Eyal Eshel, il padre di Roni Eshel, vedetta dell’IDF, che inizialmente era stata dichiarata scomparsa prima che il suo corpo fosse identificato. “Non sono stati solo i terroristi a infiltrarsi in Israele, ma anche gli abitanti di Gaza, rendendosi complici degli omicidi e delle atrocità. Queste sono le stesse persone che oggi chiedono aiuti umanitari al mondo” ha aggiunto.
“Non ci sono molte opportunità per venire all’Aia per presentare la nostra storia e cercare di convincere la Corte internazionale a imporre sanzioni ai leader di Hamas” ha sottolineato Gal Gilboa-Dalal sopravvissuto del Nova Festival, il cui fratello, Guy, ancora nelle mani di Hamas.
Tra i familiari degli ostaggi arrivati all’Aia ci sono anche Hadar Daniel e Romi Cohen, che stanno lottando per il ritorno dei loro fratelli gemelli Oz Daniel e Nimrod Cohen, ancora ostaggi a Gaza.
I due sono stati rapiti insieme mentre combattevano vicino al confine di Gaza e finora le loro famiglie si sono astenute dalle apparizioni sui media per paura che i loro figli potessero essere identificati come soldati. Di fronte alla Corte dell’Aia hanno deciso di rompere il silenzio.
“Sono venuto a L’Aia perché il 7 ottobre non è finito. Continua ancora – ha detto alla stampa Hadar -. Dobbiamo fermare le atrocità in corso e liberare tutti gli ostaggi, e anche pensare al futuro, affinché un simile disastro non si ripeta”.
(Shalom, 19 febbraio 2024)
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Israele, come sarà l'offensiva finale
di Edward Luttwak
Anche quando la guerra del Golfo si concluse con un successo inequivocabile, la sua celebrazione l'8 giugno 1991 con una semplice parata a Washington di 8.000 militari guidati dal comandante generale Norman Schwarzkopf fu molto criticata come «militarista». Nessuno dei comandanti che si sono succeduti nelle due lunghe guerre successive in Afghanistan e in Irak ha mai descritto il proprio obiettivo come la vittoria, eppure gli americani sono stati comunque mandati a combattere e a morire. Quando i britannici entrarono in guerra nel 1982 accettando rischi enormi per riconquistare le impossibili e remote Falkland «perché erano britanniche», in Europa tutti preferirono credere che in realtà stessero combattendo per giacimenti petroliferi offshore sconosciuti ma di immenso valore, e quando Margaret Thatcher festeggiò effettivamente la vittoria, i benpensanti britannici provarono un certo disagio indiretto. Ma proprio come la sconfitta demoralizza in modo duraturo, gli effetti della vittoria sono a lungo termine. Gli Eurofighter inglesi hanno recentemente attaccato gli Houthi, che ogni giorno infliggono danni alle economie europee; al contempo, nessun altro Eurofighter europeo è stato rischiato in combattimento. Quella vittoria del 1982 fa la differenza ancora oggi. Per Israele, il fattore chiave dell'avanzata vittoriosa è la distruzione delle infrastrutture di Hamas. Fin dal primo giorno chilometri e chilometri di tunnel sono stati sgomberati e demoliti; ma poiché in quel dedalo di gallerie sono nascoste le officine balistiche nemiche, un altro indicatore del successo militare è il drastico calo di razzi lanciati da Hamas ogni giorno. Da migliaia a centinaia, poi decine, oggi uno, due o addirittura nessuno. L'altra direttrice sulla quale si misurano i progressi bellici israeliani è l'uccisione o la cattura di combattenti e leader militari. La CIA, che si è guadagnata imperitura fama prevedendo che Kabul avrebbe resistito senza truppe americane per almeno due anni (sbagliando quindi di due anni), e poi prevedendo con sicurezza la rapida vittoria della Russia in Ucraina nel 2022 (sbagliando almeno di due anni), con altrettanta credibilità continua a dire ai suoi editorialisti preferiti che sono stati uccisi pochi, pochissimi combattenti di Hamas. Il fatto è che un numero incalcolabile di combattenti di Hamas rimane sotto il cemento dei tunnel esplosi o nelle rovine degli edifici distrutti; altri sono stati uccisi in combattimenti registrati, o trovati quando i corpi sono stati esaminati per accertare che non fossero ostaggi israeliani, mentre altri miliziani sono stati catturati o si sono arresi fin dal primo giorno del 7 ottobre. E sapendo che Israele non ha la pena di morte, raccontano candidamente le loro uccisioni in molti video. A dicembre la stima ufficiale dei morti era di 9.000 vittime, oggi deve essere molto più alta. Tuttavia, il computo dei caduti non è la maniera più corretta di «misurare» i progressi militari. Quando un combattente viene ucciso, in media altri due o tre vengono feriti in modo significativo: alcuni in maniera talmente grave da renderli inabili al combattimento «per tutta la durata del conflitto», altri in maniera più lieve, tanto da tornare presto a combattere, anche in virtù delle cure mediche ricevute. Grazie alle meraviglie dell'UNRWA e alla generosità del Qatar e di altri, Gaza dispone di splendidi ospedali e cliniche, e di un numero di medici pro capite superiore a quello della maggior parte dei Paesi ricchi. Ma il fatto che l'UNWRA e gli altri amministratori degli ospedali abbiano prontamente collaborato con Hamas - le truppe israeliane hanno trovato molte prove, tra cui nastri di sorveglianza inequivocabili - significa che ora quegli ospedali sono diventati insicuri per i combattenti di Hamas feriti. I quali di conseguenza hanno meno probabilità di tornare a combattere in questa guerra. Ciò che è sicuramente vero è che nessuno dei principali leader politici è stato catturato. Khaled Meshaal, fondatore emerito di Hamas, Khalil al-Hayya, che gestisce la propaganda globale, e il massimo leader Ismail Haniyeh vivono tutti in Qatar, dove i loro sacrifici per la causa sono mitigati da lussi illimitati, che Haniyeh - miliardario - condivide generosamente con almeno un figlio tenuto lontano da Gaza (nelle foto appare stravaccato sul letto di un hotel a 7 stelle). Haniyeh è stato meno generoso con le sue sorelle, Kholidia, Laila e Sabah, che sono tutte cittadine israeliane e vivono indisturbate con i loro mariti beduini. Molti beduini - compresi alcuni nipoti di Haniyeh - servono l'esercito israeliano. Inizialmente come guide di leggendaria perspicacia, ma ora più spesso come soldati di fanteria. Soprattutto, Israele non ha ancora catturato Yahya Sinwar, il comandante in capo di Hamas che ha imparato il buon ebraico nella sua prigione israeliana, dove è stato operato con successo per un pericoloso tumore al cervello mentre scontava una pena per molteplici omicidi. L'uomo che ha pianificato l'assalto deliberatamente orribile del 7 ottobre - senza ulteriori strategie né per l'8 ottobre né per i giorni successivi, senza dubbio perché convinto che gli israeliani non avrebbero mai invaso la Striscia, rischiando migliaia di vittime. Al contrario, gli israeliani hanno invaso Gaza e presto hanno raggiunto la lussuosa villa di Sinwar a Khan Yunis. Da qui, seguendo un tunnel di fuga, hanno trovato una telecamera di Hamas per il monitoraggio delle gallerie, che mostrava Sinwar e la sua famiglia che correvano lungo il tunnel. Molto probabilmente Sinwar si trova ora a Rafah, all'estremità opposta della città di Gaza, a ridosso del confine egiziano, al centro dell'offensiva finale di Israele in questa guerra. Le operazioni di combattimento continueranno ad un certo livello a Gaza, Khan Yunis e dintorni, ma a questo punto della guerra la maggior parte delle forze di Hamas rimaste, gli ufficiali e i funzionari sopravvissuti sono tutti nella zona di Rafah. Che per questo deve essere l'obiettivo dell'offensiva finale di Israele. Quando la battaglia per Rafah inizierà, assomiglierà solo vagamente ai precedenti attacchi israeliani. Ci saranno di nuovo i pesanti carri armati Merkava con le loro tettoie di metallo in grado di far pre-detonare i droni esplosivi; ci saranno i «taxi da battaglia» Namer, attualmente il veicolo blindato più pesante e meglio protetto al mondo, che trasporta i soldati con i loro «cappelli da cuoco» mimetici sopra l'elmetto e i loro fucili Tavor, poco più lunghi di una pistola ma con una potenza di fuoco da mitragliatrice; ci saranno i mini-droni ronzanti che trasmettono immagini ai comandanti che li guidano e ad altri più in alto fino al «pozzo», il quartier generale di tutte le forze israeliane. Allo stesso tempo, altre cose saranno molto diverse. Tanto per cominciare, Rafah non presenta la moltitudine di grattacieli, palazzi e ville di lusso di Gaza city e Khan Yunis che negli anni i cameraman di Al Jazeera e compagnia hanno accuratamente tenuto evitato di riprendere nei loro video, per sostenere la leggenda di Gaza ridotta a misero campo di concentramento. Rafa, più che una città è un paesotto, con case modeste come la pensione Snial Hoom, che ho visitato molto tempo fa in tempi molto più tranquilli, e che più recentemente pubblicizzava il suo giardino interno e i suoi balconi - che non ricordo affatto -, e la sua vicinanza all'aeroporto Ben Gurion. Solo 74 miglia di distanza! In un contesto urbano di edifici bassi, i combattimenti in strada sono molto più semplici, perché non ci sono scantinati a più livelli da cui possono uscire molti combattenti contemporaneamente, né grattacieli incombenti con un numero infinito di postazioni di tiro per i cecchini. Soprattutto, se un edificio deve essere penetrato e ripulito stanza per stanza perché si pensa che vi si nasconda un obiettivo importante, non è necessario un intero battaglione con centinaia di soldati per perlustrare il luogo in tempi ragionevolmente brevi. A fronte di questi vantaggi tattici, il «terreno» dell'imminente assalto presenta un problema enorme sotto diversi aspetti. Il più ovvio è che l'offensiva israeliana debba essere preceduta dal ritorno a Nord dei profughi - circa un milione di persone - che sono arrivati da Gaza city e Khan Yunis e che ora vivono in tende e capanne. Lanciare l'ultima offensiva di questa guerra senza prima aver rimandato indietro la maggior parte dei civili sfollati che si trovano ora a Rafah sarebbe la peggiore scelta possibile, perché aumenterebbe a dismisura le vittime, sia civili sia israeliane. In mezzo alla folla i combattenti di Hamas possono usare la loro tattica preferita: sparare contro i soldati israeliani mentre si nascondono direttamente dietro i civili. Sia gli uomini, molti dei quali sembrano proprio combattenti di Hamas, sia i proverbiali «donne e i bambini», che non vengono mai presi di mira dagli israeliani ma che spesso vengono uccisi. Tra parentesi, i prigionieri di Hamas - interrogati su questo punto - di solito non dicono di essere dispiaciuti per i civili sacrificati. Dopo tutto, non sono davvero morti: gli uomini sono diventati shahid, eroi islamici sacrificatisi e diretti verso il paradiso con le loro 72 vergini che i predicatori di Hamas amano descrivere con straordinari e lubrici dettagli, tra cui, per qualche motivo, i seni rovesciati. Nessuna ricompensa attende le loro mogli e figlie morte, ma d'altronde l'islam non ha mai preteso di essere una religione per le donne, a partire dalle moschee a loro interdette. Ora, poiché l'offensiva deve essere preceduta dal ritorno a nord degli sfollati, la geografia urbana di Rafah è la chiave. Lungo la costa, appena dietro la spiaggia, c'è la strada di Al Rasheed, ormai poco percorribile a causa di tutte le persone accampate lì, e nell'entroterra c'è la strada di Gush Katif, costruita da Israele, che è molto dritta ma piuttosto stretta, per cui l'evacuazione dipenderà in larga misura dall'unico ampio viale a più corsie che porta il nome di Salah al Deen (Saladino), che curva verso nord-est fino a Khan Yunis. Il suo nome vittorioso dovrebbe essere di buon auspicio per l'ultima battaglia di Israele in questa guerra, perché è solo su Salah al Deen che l'esercito israeliano può dispiegarsi in modo lineare, per formare corridoi multipli, attraverso i quali le persone possono muoversi verso nord a un ritmo ragionevole, ma sotto stretta osservazione da entrambe le parti. L'obiettivo israeliano è ovviamente quello di catturare i combattenti e i comandanti che gli sono sfuggiti scappando a sud, e Salah al Deen è l'unico asse che lo permetterebbe, mentre le altre due strade sono molto meno adatte. Dubito fortemente che il grosso delle forze rimanenti di Hamas cercherà di fuggire di nuovo, eludendo i filtri longitudinali dei soldati di guardia, i dispositivi di riconoscimento delle immagini e i rilevatori chimici. Quindi prevedo battaglie di resistenza a Rafah. Il presidente Biden e i migliori amici di Israele in Europa, che continuano a dire che il ritmo della guerra dovrebbe essere accelerato, ma con un uso molto minore della potenza di fuoco, non sembrano essere consapevoli di ciò che stanno effettivamente chiedendo. Quando i soldati a piedi devono combattere attraverso aree edificate senza artiglieria o supporto aereo, le perdite non solo aumentano, ma si moltiplicano: quasi un decimo di tutti i soldati israeliani morti a Gaza fino al 22 gennaio scorso sono morti in quello stesso giorno, nel crollo esplosivo di un singolo edificio. L'ultima ed enorme complicazione della posizione di Rafah è che Israele non può procedere senza uno stretto coordinamento con i governanti egiziani. Questi ultimi detestano Hamas in quanto propaggine palestinese della Fratellanza Musulmana, che hanno rovesciato per salvare l'Egitto dall'estremismo islamico, e non versano lacrime alla prospettiva di una sua ulteriore distruzione a Rafah. Al contempo, il regime del Cairo teme fortemente l'arrivo alla frontiera di un'ondata di palestinesi in fuga dall'offensiva israeliana, che lascerebbe loro solo due scelte: lasciarli entrare, facendo esplodere il malumore della popolazione egiziana, che dopo decenni di aiuti oggi prova un profondo risentimento per l'ingratitudine palestinese, o trattenerli con il fuoco in quello che si rivelerebbe un massacro prolungato. In Siria, l'uccisione di decine di migliaia di persone da parte di Assad padre nel 1982 e di centinaia di migliaia dal 2011 da parte di suo figlio ha di fatto rafforzato il regime di Damasco, ma la cultura egiziana è molto diversa e qualsiasi omicidio di massa di questo tipo è semplicemente inconcepibile e sicuramente non un'opzione sul tavolo. Questo spiega perché l'Egitto starebbe preparando un'area di detenzione temporanea ben recintata nel proprio territorio, appena al di là del confine, in cui i palestinesi potrebbero ricevere un riparo temporaneo e sostentamento, prima di dirigersi a nord attraverso i filtri longitudinali israeliani. Il gabinetto di guerra israeliano è altrettanto determinato a dare la caccia ai leader e ai combattenti di Hamas ora ammassati a Rafah, e a farlo senza mettere in pericolo la cooperazione strategica con l'Egitto, che è stata molto utile a entrambe le parti, non da ultimo nella lotta ai terroristi nel Sinai. Una fase che richiede un certo impegno e spiega l'incapacità di entrare rapidamente a Rafah. La vittoria è dichiaratamente l'obiettivo di Israele, proprio come lo era per la Gran Bretagna nelle Falkland, con la differenza che Londra non sarebbe stata esposta ai bombardamenti se la pericolosa riconquista fosse fallita.
(il Giornale, 19 febbraio 2024)
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La Corte Internazionale di Giustizia boccia il ricorso del Sudafrica per bloccare l’operazione israeliana a Rafah
di David Fiorentini
La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) ha respinto la richiesta aggiuntiva del Sudafrica di imporre misure restrittive urgenti alle forze di difesa israeliane impegnate a Rafah nella Striscia di Gaza.
In una nota, la Corte afferma che la “pericolosa situazione” a Rafah non necessiti di ulteriori indicazioni, bensì ritiene sufficienti le normative provvisorie ordinate lo scorso 26 gennaio, poiché “applicabili in tutta la Striscia di Gaza, compresa Rafah”.
Israele infatti “rimane vincolato a rispettare pienamente i suoi obblighi ai sensi della Convenzione sul Genocidio e dell’Ordine in questione, incluso garantire la sicurezza dei palestinesi nella Striscia di Gaza”.
Una rinnovata accusa rispedita al mittente, accompagnata dalle dichiarazioni dello Stato ebraico, che ha definito i toni sensazionalistici sudafricani una “distorsione scandalosa” di un’operazione pianificata che invece ha portato alla liberazione di due ostaggi.
Al contrario, secondo Israele, sarebbe Hamas a dimostrare un totale “disprezzo per la legge”, non aderendo alla richiesta della ICJ per il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi rimanenti.
Anche il Ministero degli Esteri israeliano ha condannato l’atteggiamento del paese africano, “sfruttato come braccio legale di Hamas, al lavoro per promuovere gli interessi di questa organizzazione terroristica”.
(Bet Magazine Mosaico, 19 febbraio 2024)
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Quel vincolo tra ebrei e cristiani
di Enzo Bianchi
Con grande fatica cerco qualche parola pubblica sul conflitto tra lo Stato d’Israele e i palestinesi abitanti la Striscia di Gaza. Con fatica perché ho un amore profondo e sento un legame infrangibile con il popolo d’Israele.
Il 7 ottobre c’è stato un massacro da parte di Hamas, una barbarie che è epifania di disumanizzazione: israeliani, tra cui bambini, massacrati in casa mentre festeggiavano “la gioia della Torah” e ostaggi portati via dalle loro famiglie.
A questo atto esecrabile lo Stato d’Israele doveva rispondere per neutralizzare l’aggressore, ma in realtà al massacro è seguita una guerra, un massacro moltiplicato che ha causato la morte di 30 mila palestinesi, civili inermi, donne e bambini.
A un’epifania di disumanità ne è seguita un’altra che non dà segni di cessare nonostante gli appelli che si levano da tutto il mondo. Ancora una volta verifichiamo la nostra irrilevanza e proprio questo è all’origine del silenzio di molti che certo non approvano l’azione di vendetta di Israele.
Gli interventi di Papa Francesco che chiede la pace e della Santa Sede non sono parsi sufficienti a Israele, che li ha considerati sbilanciati a favore dei palestinesi.
Eppure la Santa Sede rinnova la condanna di qualsiasi forma di autogiustificazione; non nega il diritto all’autodifesa dello Stato d’Israele, ma secondo la “dottrina cattolica” la giudica legittima solo se proporzionale all’offesa ricevuta.
Tuttavia, molti cristiani, seguendo il Vangelo di Gesù Cristo, e non la dottrina, condannano ogni guerra convinti che non esista mai una “guerra giusta”, perché la guerra è sempre disumana.
Papa Giovanni XXIII affermò che la guerra è «aliena dalla ragione» perché porta morte senza capacità di fermare e colpire solo l’aggressore, perché non c’è guerra che non sia fratricida, perché la vita di un uomo è più preziosa dei valori che si vogliono difendere.
Così alcune autorità ebraiche hanno avvertito la Chiesa cattolica che il dialogo in atto dal Concilio Vaticano II è minacciato, come se la Chiesa stesse tornando ai tempi della sua ostilità verso gli ebrei.
Ma qui c’è un equivoco. In realtà per i cattolici il dialogo teologico e la relazione originale non riguardano tutti gli ebrei, ma “l’Israele di Dio”, come lo chiama Paolo di Tarso, cioè gli ebrei credenti in alleanza con il loro Signore. Israele come Stato — e come uno dei tanti Stati del mondo — non è e non può essere il soggetto religioso che dialoga con i cristiani.
Allora nessuna confusione: lo Stato d’Israele e i suoi governi possono essere giudicati come tutti gli Stati del mondo mentre gli ebrei credenti sono per i cristiani fratelli gemelli, uniti da un vincolo che non può venir meno e che sarà unità alla fine dei tempi.
Condannare l’azione del governo israeliano non è antisemitismo. Del resto, una parte dell’opinione pubblica israeliana è contraria alla guerra, e con essa non pochi intellettuali e rabbini.
Si può amare l’Israele di Dio ed essere liberi nel giudicare lo Stato, il governo di Israele, senza cadere nell’antigiudaismo cristiano o nello spregevole antisemitismo omicida.
(la Repubblica, 19 febbraio 2024)
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Si direbbe che gli ebrei lanciati nel cosiddetto "dialogo ebraico-cristiano" non abbiano mai capito chi avevano di fronte: la Chiesa Cattolica Romana, istituzione sacro-politica che pretende di esprimere nella Santa Sede, capitale della Stato del Vaticano, il suo diritto divino ad occupare sulla terra il posto centrale nel mondo. Il contrasto è tra Stato d'Israele e Stato del Vaticano. Israele come Stato non è un soggetto religioso, la Santa Sede invece sì. La Santa Sede è la SANTA SEDE e Israele non è nessuno. Il discorso è squisitamente teologico, e andrebbe ripreso, ma fin d'ora si può dire che nella discussione è arrivato il momento di introdurre il concetto di "antisemitismo cattolico-romano". Di questo si tratta nell'articolo di Enzo Bianchi. M.C.
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Sono fallite di nuovo le trattative per una tregua
di Ugo Volli
• Il ciclo degli annunci di accordo
È successo di nuovo. È la quinta o sesta volta che nell’arena diplomatica intorno alla guerra di Gaza si ripete la stessa sequenza:
1. I giornali di tutto il mondo lanciano voci ispirate dai “mediatori” (che poi sono il Qatar, che è il grande patrono di Hamas; l’Egitto, interessato soprattutto a non lasciare che gli abitanti di Gaza si trasferiscano nel Sinai, portandosi dietro povertà e soprattutto terrorismo; e l’amministrazione americana, ormai tutta alle prese con la campagna elettorale e desiderosa soprattutto di compiacere segmenti elettorali incerti). Questa volta è stato il Washington Post che tre giorni fa ha annunciato una tregua di sei settimane con scambio degli israeliani sequestrati contro un gran numero di terroristi detenuti, pausa necessaria a un piano di pace che dovrebbe comprendere un cammino “irreversibile” verso l’istituzione dello Stato palestinese.
2. Israele ricorda quali sono gli obiettivi obbligatori della guerra che ha dovuto intraprendere contro il terrorismo: la distruzione di Hamas, la liberazione degli ostaggi, la messa in sicurezza dei territori di confine. Ad essi lo Stato di Israele non può rinunciare senza tradire la sua missione e di conseguenza deve rifiutare ogni decisione, come quella dei due stati, che costituirebbe un rafforzamento del terrorismo e un incitamento a ripetere il 7 ottobre; ma è disponibile. per ottenere la liberazione dei rapiti, a una tregua limitata nel tempo e alla scarcerazione di terroristi detenuti in numero che però non rafforzi troppo né materialmente né simbolicamente Hamas.
3. Hamas dichiara che non intende iniziare le trattative se prima Israele non termina l’offensiva e si ritira totalmente da Gaza, cioè si dichiara sconfitto; e spesso ci aggiunge qualche condizione ancora più assurda, come qualche settimana fa una “garanzia internazionale” della continuazione del proprio dominio di Gaza e di recente la proibizione per gli ebrei di accedere al Monte del Tempio.
4. C’è una pausa stupefatta fra i mediatori, i commentatori occidentali se la prendono in maniera sempre più insultante con Netanyahu, ignorando il fatto che anche i suoi avversari come Gantz rifiutino di arrendersi a Hamas. Gli Usa prendono qualche iniziativa dimostrativa contro i “coloni”, anche se in questo momento sono quasi tutti impegnati in guerra e non agiscono in Giudea e Samaria. E poi si ricomincia.
• Quel che la diplomazia americana non capisce
La ragione di questa coazione a ripetere è che la diplomazia americana (e con essa la rumorosa ma impotente tifoseria europea) non vuole prendere atto di alcuni elementi fondamentali. Il primo è che ai palestinesi (a tutte le loro organizzazioni politiche, non solo a Hamas) dello Stato palestinese non importa, se non come strumento contro Israele. Quel che vogliono è impadronirsi del territorio “dal fiume al mare”, cioè distruggere Israele e possibilmente sterminare gli ebrei. La seconda cosa è che Israele (non solo i politici di destra, anche la grande maggioranza dell’elettorato) conosce benissimo questa situazione e non è disposto a lasciarsi massacrare senza difendersi, né a concedere ai terroristi i privilegi e le immunità di uno stato che li aiuterebbe nelle loro aggressioni, né a fermare la guerra di Gaza prima di avere distrutto Hamas, il quale, anche grazie alle ambiguità americane ed europee è ancora convinto di poter ottenere un compromesso che ne assicuri la sopravvivenza – cioè la vittoria.
• I danni dell’atteggiamento dell’amministrazione Usa
La fuga sciagurata dall’Afghanistan degli americani decisa di Biden non può ripetersi in Israele, perché Washington è a 11.000 km da Kabul, e Tel Aviv a 70 da Gaza. L’amministrazione Biden è oggi concentrata sul voto del Michigan dove qualche migliaio di arabo-americani potrebbe incidere sulle elezioni presidenziali; ma non bada a quel che costa sul piano internazionale la mancanza di appoggio ai suoi alleati per mettersi d’accordo coi nemici. Hamas è legato, attraverso l’Iran, alla Russia e alla Cina. Putin ha convocato a Mosca fra una decina di giorni la prima riunione da decenni di tutte le fazioni palestinesi. Il fatto che gli Usa non sappiano o non vogliano debellare davvero gli Houti, danneggiando gravemente l’Egitto, che stiano cercando di impedire a Israele di vincere la guerra ricattandolo con la fornitura di munizioni, che non si siano mai decisi ad armare a sufficienza l’Ucraina per sconfiggere la Russia, non ne fa agli occhi di stati più o meno alleati, come l’Arabia Saudita o l’India, un soggetto politico “morale” o “responsabile”, ma un alleato inaffidabile nei momenti decisivi. La distruzione delle alleanze, che Trump predica a parole, Blinken la sta realizzando coi fatti. Proporre a Israele come compensazione alla fine prematura della guerra “garanzie internazionali di sicurezza” dopo che le forze Onu di separazione sono sparite dal Libano meridionale come prima del Kippur avevano fatto quelle al confine con l’Egitto, dopo l’Afghanistan, dopo aver abbandonato alla Cina Hong Kong, nel Medio Oriente che bada ai fatti e non alle parole può sembrare solo una copertura diplomatica per la resa, cioè presa in giro. A Israele non resta che andare avanti come sta facendo, cercando di far conoscere le proprie ragioni senza esasperare il conflitto con l’amministrazione Biden, accettando anche di limitare l’azione militare e di attendere prima di conquistare l’ultima roccaforte di Hamas a Gaza come è necessario fare per vincere la guerra.
(Shalom, 18 febbraio 2024)
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L’ombra dell’antisemitismo sulla Germania
Intervista a Juliane Wetzel
di Nathan Greppi
Dopo il 7 ottobre, in tutto l’Occidente si è creato un clima d’odio sempre più forte che prende di mira non solo Israele, ma tutti gli ebrei. Non fa eccezione la Germania, dove gli episodi di antisemitismo sono aumentati esponenzialmente negli ultimi mesi. Uno dei più recenti riguarda il trentenne Lahav Shapira: nipote di Amitzur Shapira, uno degli 11 atleti israeliani uccisi dai terroristi palestinesi alle Olimpiadi di Monaco del 1972, Lahav sarebbe stato brutalmente aggredito fuori da un locale di Berlino.
Per capire che aria si respira al di là delle Alpi, Mosaico ha intervistato la storica tedesca Juliane Wetzel, dal 1991 ricercatrice presso il Centro per la Ricerca sull’Antisemitismo dell’Università Tecnica di Berlino.
- Quanto era diffuso l’antisemitismo in Germania prima del 7 ottobre? E cosa è cambiato dopo? L’antisemitismo era già diffuso in Germania prima del 7 ottobre. Venivano registrati migliaia di episodi di antisemitismo, dagli insulti verbali agli attacchi violenti, questi ultimi a decine. Per “attacchi violenti” si intendono anche gli atti di vandalismo nei cimiteri, dove delle lapidi ebraiche sono state danneggiate.
Dopo il 7 ottobre, gli episodi sono aumentati considerevolmente, soprattutto sui social, dove l’antisemitismo si è manifestato come mai prima d’ora. Ad essere aumentati sono anche gli attacchi antisemiti nei campus universitari contro gli studenti ebrei, che prima non erano diffusi in Germania come lo sono ora.
In molte manifestazioni filopalestinesi, si equipara quello che Israele sta facendo a Gaza a quello che i nazisti fecero agli ebrei negli anni ’30 e ’40. Ciò porta ad una distorsione della memoria della Shoah, che le persone stanno compiendo senza capire quello che fanno. Al punto che in una manifestazione a Berlino, per di più davanti al Ministero degli Esteri tedesco, si è visto un cartello con scritto “Free Palestine from German guilt”. Come a dire che la Germania deve smettere di sentirsi in colpa per gli ebrei.
- Tra la destra e la sinistra, da dove proviene la maggior parte degli attacchi antisemiti? Prima del 7 ottobre, circa il 90% delle manifestazioni di antisemitismo aveva radici nell’estrema destra. Adesso, invece, sono aumentate anche nei circoli di estrema sinistra e negli ambienti islamisti, portando in diversi casi anche ad attacchi violenti. Nelle manifestazioni filopalestinesi, a volte capita di vedere estremisti sia di sinistra che di destra, uniti dall’odio contro Israele.
- Come vengono trattati, nel dibattito pubblico, la guerra in corso e il tema dell’antisemitismo?
Nei primi tempi, l’aumento dell’antisemitismo veniva dibattuto solo in alcuni ambienti di nicchia, ma in generale la popolazione non era consapevole del problema. Lo dimostra il fatto che dopo il 7 ottobre, venne organizzata una manifestazione a Berlino per esprimere solidarietà verso Israele, cui parteciparono circa 20.000 persone. Poche, su una città di quasi 4 milioni di abitanti. Adesso, invece, si dibatte poco sui media degli attacchi terroristici di Hamas, e si parla solo di quello che succede a Gaza, senza ricordare che ciò che sta succedendo nasce dalla risposta d’Israele a quello che ha fatto Hamas.
- Tra i partiti politici tedeschi, quali sono i più vicini agli ebrei e Israele? E quali invece sono i più ostili? In generale, tra il 15% e il 20% della popolazione tedesca coltiva pregiudizi antisemiti. Ma tracciare una linea netta tra i diversi partiti non è così semplice. Non tutti i conservatori sono filoisraeliani, e non tutta la sinistra è antisraeliana.
C’è l’AfD, un partito di destra populista, che ufficialmente si dichiara pro-Israele al 100%, ma se si guarda dietro le quinte l’antisemitismo è assai diffuso al suo interno. Dall’altra parte, nell’estrema sinistra e tra i Verdi ci sono molti filopalestinesi, ma non sempre: di recente ho avuto una discussione su Zoom con dei membri del partito dei Verdi, ed esprimevano posizioni diverse tra loro sull’argomento.
- In molte città europee, abbiamo assistito a manifestazioni dove i musulmani incitavano all’odio non solo contro Israele, ma anche verso gli ebrei. Com’è la situazione nelle comunità islamiche tedesche?
Indubbiamente molti musulmani coltivano posizioni antisemite e prendono parte a manifestazioni filopalestinesi. Tuttavia, non bisogna generalizzare: ci sono ONG che combattono le varie forme d’odio in Germania, dove tra i co-fondatori vi sono anche dei musulmani impegnati contro l’antisemitismo, tanto che cercano di fare educazione nelle loro comunità per contrastare i pregiudizi antisemiti.
- Tra l’ex-Germania Est e quella dell’ovest, vi sono delle differenze nei pregiudizi verso gli ebrei e Israele? Nei primi anni dopo la riunificazione c’erano delle differenze, ma ora non più. Negli ex-territori della DDR, c’è un serio problema di neonazismo. Anche nella vecchia DDR l’antisemitismo era diffuso, perché il regime comunista, come tutti i paesi che ricadevano sotto l’influenza dell’Unione Sovietica, aveva posizioni antisioniste, e dipingeva Israele come uno Stato imperialista.
Oggi, anche nella Germania Ovest stanno crescendo l’estrema destra e quelle teorie complottiste che vedono gli ebrei controllare tutto attraverso il denaro. Crescono in particolare attraverso i social, facendo leva sulla paura di diventare economicamente svantaggiati, che è molto forte soprattutto nelle campagne.
- Quali pratiche vengono adottate dalle autorità tedesche per cercare di contrastare l’antisemitismo? Le autorità fanno molto, finanziando anche molte ONG che combattono l’antisemitismo. Si tratta soprattutto di finanziamenti mirati verso singoli progetti, in genere della durata di 2-3 anni, da parte del Ministero per la Famiglia. Dopodiché, la ONG deve fare domanda se vuole ricevere altri fondi.
Dopo il 7 ottobre, diversi politici di ogni schieramento hanno parlato pubblicamente contro l’antisemitismo, affermando che per la Germania è una ragion di Stato garantire la sicurezza e l’esistenza d’Israele. E viaggiano spesso in Israele, per offrire il loro aiuto anche come mediatori di pace.
Credo che la più grande sfida per le autorità sia nell’interfacciarsi con i social; come arginare la diffusione di teorie complottiste? Come fornire ai giovani le giuste competenze digitali? Come distinguere le fake news dalla realtà? A mio parere, il mondo digitale non ha ancora un ruolo abbastanza centrale nell’agenda politica. E non è un problema solo in Germania, ma a livello europeo e mondiale.
(Bet Magazine Mosaico, 18 febbraio 2024)
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Il tasso di inflazione annuale in Israele scende al 2,6%
Inflazione in discesa in Israele, l’indice dei Prezzi al Consumo è rimasto invariato a gennaio, ma l’ultimo indice dei prezzi delle abitazioni mostra un aumento.
L’Indice dei Prezzi al Consumo (CPI) di Israele è rimasto invariato a gennaio. Nei dodici mesi fino alla fine di gennaio, il tasso di inflazione è sceso al 2,6% dal 3% nel 2023, secondo i dati pubblicati dal Central Bureau of Statistics. Il calo è in linea con le aspettative degli analisti che prevedevano un tasso di inflazione annuale compreso tra il 2,6% e il 2,7% a gennaio. Il settore abbigliamento e calzature e quello dell’intrattenimento e della cultura sono entrambi diminuiti dello 1,0% il mese scorso. I prezzi dei prodotti freschi sono diminuiti dello 0,5%, mentre il settore dei trasporti è sceso dello 0,4%. Il Central Bureau of Statistics ha anche pubblicato la variazione dei prezzi delle abitazioni (che non fanno parte del CPI generale) tra ottobre-novembre 2023 e novembre-dicembre 2023. In media, i prezzi sono aumentati dello 0,7%. Nella suddivisione per regione, i prezzi sono diminuiti del 1,3% a Gerusalemme e aumentati dell’1,2% a Haifa, dell’1,6% nel centro e dello 0,8% nel sud. A Tel Aviv, i prezzi sono rimasti stabili. I prezzi delle nuove abitazioni sono aumentati in media dell’0,9%. Nel confronto tra novembre-dicembre 2023 e novembre-dicembre 2022, l’indice dei prezzi delle abitazioni è diminuito dell’1,4%. I prezzi sono scesi del 4,4% a Tel Aviv, dell’1,3% a Gerusalemme, dello 0,8% nella regione centrale e dello 0,1% nel sud. I prezzi sono aumentati del 3,3% nella regione settentrionale e dello 0,3% a Haifa. L’indice dei prezzi delle nuove abitazioni è diminuito del 2,7%. Il capo economista di Phoenix Holdings, Matan Shitrit, spiega le conseguenze della caduta dell’inflazione in Israele sulla politica dei tassi di interesse della Banca d’Israele: “Le previsioni degli analisti tenevano conto di un trend continuo di declino del tasso di inflazione annuale, ma nonostante la diminuzione, le probabilità di un taglio dei tassi di interesse nella prossima decisione rimangono basse. Secondo noi, il processo di riduzione dei tassi di interesse sarà cauto e lento, e la Banca d’Israele seguirà le mosse della Federal Reserve degli Stati Uniti e della Banca Centrale Europea, dove le aspettative dell’inizio di un processo di taglio dei tassi diventano sempre più remote. La previsione del Dipartimento di Ricerca della Banca d’Israele per il tasso di interesse della banca alla fine del 2024, tra il 3,75% e il 4,00%, indica anche un processo molto graduale. “Per quanto riguarda l’impatto del rating di credito di Israele sui tassi di interesse, è chiaro che il declassamento del rating è stato già inserito nei prezzi dai mercati, che sono rimasti stabili, mentre lo shekel si è rafforzato, il che dà il via libera per ulteriori tagli dei tassi di interesse. Tuttavia, mentre le recenti letture del CPI sono state influenzate da una forte caduta della domanda, i dati attuali indicano un recupero piuttosto rapido dell’attività economica, il che significa che il fattore deflazionistico potrebbe dissiparsi. Inoltre, le previsioni di inflazione per i prossimi dodici mesi, che già indicavano una certa stabilità dell’inflazione, inizieranno ora a considerare l’aumento dell’IVA previsto a gennaio 2025. Stimiamo che l’aumento dell’IVA contribuirà con 0,5 punti percentuali all’IPC – 0,2 punti percentuali a gennaio 2025 e il resto nei mesi successivi.”
(Israele360, 18 febbraio 2024)
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L’ultimo appello di Dio
di Vim Malgo (1922-1992)
«Come fu ai giorni di Noè, così sarà alla venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni prima del diluvio si mangiava e si beveva, si prendeva moglie e s'andava a marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e la gente non si accorse di nulla, finché venne il diluvio che portò via tutti quanti, così avverrà alla venuta del Figlio dell'uomo» (Matteo 24:37-39).
Come fu il tempo di Noè? È importante per noi esserne a conoscenza visto che il Signore Gesù confronta quel tempo con il tempo immediatamente precedente il suo ritorno. Al tempo di Noè da un lato l'appello di Dio raggiunse un apice, dall'altro l'indurimento dell'uomo arrivò al culmine. Prima del diluvio Dio aveva parlato molto e spesso agli uomini.
Per mezzo del sacrificio di Abele egli aveva parlato della sua volontà di riconciliazione (Ebrei 11:4). Per mezzo del cammino giusto di Enoc egli aveva attestato la necessità di santificazione e del suo arrivo in veste di giudice (cfr. Ebrei 11:5; Giudici 14:15).
Poi Dio parlò un'altra volta per mezzo di Noè (Ebrei 11:7). La costruzione dell'arca fu l'ultimo appello di Dio in quell'epoca e questo è il punto di contatto fra il tempo odierno e quello di Noè. Anche nel nostro tempo Dio ha parlato al mondo per l'ultima volta. Dopo il diluvio egli parlò ancora:
«Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi» (Ebrei 1:1-2).
Dio parlò per l'ultima volta al mondo antidiluviano tramite l'arca di Noè, così egli ha parlato per l'ultima volta a noi tramite il Figlio, Gesù Cristo. L'arca è infatti una concreta rappresentazione profetica della chiesa di Gesù, che viene salvata, ma anche di Gesù stesso. Da che cosa possiamo riconoscerlo?
- Prima di tutto perché l'arca fu l'unica possibilità di salvezza dal giudizio.
- Poi perché aveva una sola porta, e Gesù dice: «Io sono la porta; se uno entra per me, sarà salvato, entrerà e uscirà, e troverà pastura» (Giovanni 10:9). Egli è l'unica salvezza, l'unica porta in un mondo pronto per il giudizio, e lo divenne sulla croce del Golgota.
- Terzo, per la sostanza fondamentale che rese l'arca in sé degna di essere salvata:« ... spalmala di pece di dentro e di fuori». L'arca in sé non poteva salvare, ma poteva farlo grazie alla sostanza che la rendeva impermeabile. Noè era protetto interiormente ed esteriormente dalle ondate di giudizio che si stavano avvicinando. Se Gesù fosse morto di una morte normale, la redenzione non sarebbe stata efficace; ma la sostanza della redenzione, il suo sangue santo e prezioso, che sparse sulla croce del Golgota, la rese efficace. «In lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue» (Efesini 1:7). Proprio come Noè era protetto dentro e fuori dalla pece con cui aveva spalmato l'arca, così il prezioso sangue di Gesù ci protegge esteriormente ma anche interiormente dalle potenze della distruzione degli ultimi tempi. Quanto abbiamo bisogno di questa protezione interiore, dataci dal suo sangue, ancora oggi!
Nel suo discorso profetico, in Matteo 24, il Signore Gesù nomina sei terribili peccati degli ultimi tempi che ci colpiscono nel cuore: Egli parla di rivolte al versetto 7, odio al versetto 9, paura e tradimento reciproco al versetto 10, seduzione al versetto 11 e raffreddamento dell'amore al versetto 12. Da chi fu pianificata la nostra redenzione fin dalla fondazione del mondo? Da Dio Padre stesso (Efesini 1:4). Da chi fu eseguita la salvezza quando il tempo fu compiuto? Da Dio Figlio (1 Pietro 2:24). Da chi fu sottoscritta e sigillata la redenzione? Da Dio Spirito Santo (Efesini 1:13). L'arca era costituita da tre piani. Quello in alto fa pensare alla maestà che regna in alto, a Dio Padre; quello al centro a Dio Spirito Santo che aleggia sopra di noi e agisce nei nostri cuori; quello in basso a Dio Figlio che scese nelle profondità dell'abbandono da parte di Dio. Molti si chiederanno: «A che cosa mi serve il sangue di Gesù che fu versato circa duemila anni fa? A che cosa mi serve oggi, nel XXI secolo? Non è ormai perduto per sempre, come può essere efficace ancora oggi?» Risposta: Lo Spirito Santo rende viva la redenzione avvenuta circa duemila anni fa. Egli trasfigura l'Agnello di Dio e rende efficace per noi oggi la potenza del sangue di Gesù. Questo spiega anche perché proprio il tempo di Noè fu un tempo finale.
È un fatto grave quando una persona si allontana da Dio Padre; è terribile se nega il Figlio; ma egli sarà inevitabilmente condannato se si oppone all'opera dello Spirito Santo perché è sempre lui che trasfigura e rende viva l'opera di Dio compiuta tramite il Signore Gesù. Il giudizio di Dio sugli uomini al tempo di Noè inizia con la costatazione del Signore:
«Lo Spirito mio non contenderà per sempre con l'uomo (altra traduzione: Gli uomini non vogliono lasciarsi più correggere dal mio Spirito)» (Genesi 6:3).
L'opera di Dio, che all'epoca voleva vivificare per mezzo del suo Spirito il cuore dell'uomo, fu rifiutata. Perciò lo Spirito Santo voltò le spalle al mondo di allora e si rivolse a Noè e ai suoi. Egli si occupò della costruzione dell'arca e così la separazione fra Noè e i suoi contemporanei divenne sempre più netta. Invece di una riunione, di un ecumenismo generalizzato, ci fu una divisione sempre più profonda. Questa è l'opera dello Spirito Santo oggi, in questi ultimi tempi. Egli volta le spalle al mondo e vuole unirsi alla sua sposa, la Chiesa. Sempre più si sente il richiamo di Apocalisse 22:17:
«Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». Ai tempi di Noè, l'opposizione nei confronti dello Spirito Santo si espresse soprattutto nella pratica dell'occultismo che voleva rimuovere il confine fra il cielo e la terra. «Avvenne che i figli di DIO videro che le figlie degli uomini erano belle, e presero per loro mogli tutte quelle che essi scelsero» (Genesi 6:2). Secondo la nostra comprensione delle Scritture, questi «figli di Dio» erano angeli caduti, spiriti delle tenebre che avevano rapporti con gli uomini. Dall'unione di esseri umani e di spiriti nacquero i tiranni o cosiddetti giganti (Genesi 6:4). Allora come oggi, lo spiritismo, l'invocazione degli spiriti, era molto di moda. Ai nostri giorni, seguire l'oroscopo e altri peccati abominevoli sono all'ordine del giorno (Deuteronomio 18:10-12). Perciò Gesù dice: «Ma come fu ai giorni di Noè, così sarà anche alla venuta del Figlio dell'uomo»
Questo è il dramma che sentiamo nel nostro tempo. Nonostante gli avvertimenti veramente chiari di Dio, gli uomini si muovono nella direzione opposta: gozzoviglie, fornicazione e magia stanno assumendo delle dimensioni notevoli. In mezzo agli avvertimenti che il Signore ci rivolge, egli chi incoraggia: «Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato» (Matteo 24:1), e al versetto 25: «Ecco, io ve l'ho predetto»
Quale fu il lato più tragico nell'esperienza dell'uomo di allora? Il fatto di andare in perdizione? No! Il fatto tragico era che la gente andò in perdizione nonostante la salvezza fosse a portata di mano e che molti si illusero: «Sono salvo, non può succedermi nulla», pur essendo, in realtà, perduti. Questo è quanto si deduce dalle parole del Signore Gesù in Matteo 24:39: «… e la gente non si accorse di nulla», ossia non riconobbe completamente la gravità della situazione, proprio come accade oggi. Le Scritture partono dal presupposto che anche i contemporanei di Noè fossero più o meno religiosi, conoscessero l'arca e il suo scopo e fossero più o meno coinvolti nel lavoro di costruzione. Gli schernitori di allora, e oggi vale lo stesso, non ne volevano sapere e furono perduti; ma c'erano sicuramente anche altre persone, come ne conosciamo molte anche oggi, che giravano attorno all'arca, i cosiddetti cristiani nominali. Cari amici, l'unica cosa che conta, oggi come allora, è entrare. Gesù dice:
«Stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano» (Matteo 7:14).
Che gente era quella che entrò nell'arca? Una minoranza, ma erano persone che si trovavano realmente nell'arca quando iniziò il diluvio e la porta si chiuse. Le persone salvate sono nascoste in Gesù Cristo non in linea di massima bensì realmente. Come Noè, esse sono separate ermeticamente dallo spirito di questo mondo perché hanno una sola finestra rivolta verso l'alto. «Farai all'arca una finestra, in alto, e le darai la dimensione d'un cubito.» Se siete in Gesù, avete la finestra aperta verso l'alto. Perché? Perché avete una forza modesta:
«Ecco, ti ho posto davanti una porta aperta, che nessuno può chiudere, perché, pur avendo poca forza, hai serbato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome» (Apocalisse 3:8).
Che tipo di gente era quella rimasta fuori? Erano soltanto gli schernitori? Assolutamente no! Erano delle persone che avevano sentito tutto da Noè, la cui vita si trovava sotto il motto «sia l'uno che l'altro», gente che con un piede si trovava nell'arca e con l'altro fuori. Non ci avevano fatto caso finché non venne il diluvio e allora fu troppo tardi. Erano soprattutto delle persone che avevano una propria convinzione religiosa. Sicuramente c'era chi poteva essere paragonato agli universalisti di oggi che dicono: «Dio è amore, sicuramente non permetterà che qualcuno vada perduto.» Ma quando iniziò il diluvio morirono tutti, insieme a quelli che con l'intelletto avevano riso di Noè e della sua arca e che, in base «ai risultati della ricerca scientifica», avevano proclamato: «Non è affatto vero che ci sarà un giudizio imminente.» Quando giunse il diluvio, morirono tutti.
Un'ultima domanda: Che cosa significa il tempo di Noè per i figli di Dio oggi? Tre termini emergono dalla storia di Noè e facciamo bene a tenerli a mente anche per questo tempo: grazia, santificazione e ubbidienza.
- Grazia: Mentre Dio annunciò l'inevitabile giudizio in Genesi 6:7, attraverso il quale non soltanto tutti gli uomini ma anche tutto il bestiame, i rettili e gli uccelli sarebbero stati sterminati, risuonò il «ma» divino: «Ma Noè trovò grazia davanti all'Eterno» (Genesi 6:8). Questo ci dimostra la sua posizione: era un uomo graziato, un uomo del «ma» che doveva affermarsi contro il parere generale della gente di allora. Era un amico di Dio.
- Santificazione: Leggiamo di lui che camminò con Dio (Genesi 6:9). Questo è sempre il risultato della grazia. Nessuno può dire di essere stato graziato da Dio se non cammina nella santificazione. Non siamo graziati perché camminiamo nella santificazione, bensì, al contrario, la realtà della grazia nella nostra vita produce un cammino nella santificazione. Se non è così, abbiamo ricevuto la grazia di Dio inutilmente (Timoteo 2:11-13 e 2 Corinzi 6:1).
- Ubbidienza costante: Noè continuò a essere ubbidiente a Dio con costanza per decenni. In Genesi 6:22 leggiamo: «Noè fece così; fece tutto quello che Dio gli aveva comandato», e lo stesso in Genesi 7:5: «Noè fece tutto quello che il SIGNORE gli aveva ordinato». Al versetto 9 sta scritto che gli animali vennero a lui a coppie ed entrarono nell'arca, un maschio e una femmina, come Dio aveva loro ordinato. Questa era un'ubbidienza costante, illogica, ridicola e discutibile per la gente di allora. Eppure Noè fece ciò che Dio gli aveva ordinato.
Soltanto sul fondamento di questo triplice atteggiamento interiore, grazia, santificazione e ubbidienza, si può giungere a un chiaro punto della situazione. Noè fece ciò che non fece nessun altro, considerò necessario ciò che nessun altro considerò tale, ossia non si occupò soltanto dell'arca e della sua costruzione, bensì vi entrò personalmente. Nonostante la sua pluriennale ubbidienza, egli fece un passo in più: quando l'arca che lui stesso aveva costruito fu finita, egli vi entrò. Anche in ciò egli ubbidì al Signore. Questo è fare il punto della situazione. Oggi più che mai è necessario che ogni «costruttore di arca» faccia il punto della situazione, e lo faccia sotto ordine divino. Non dimentichiamo: Noè aveva già fatto tutto ciò che l'Eterno gli aveva ordinato. aveva trovato grazia davanti a lui, era stato ubbidiente, aveva camminato con Dio, ma dopo tutto questo, giunse il nuovo ordine finale del Signore in Genesi 7:1:
«Il SIGNORE disse a Noè: «Entra nell'arca tu con tutta la tua famiglia, perché ho visto che sei giusto davanti a me, in questa generazione».
Per Noè ciò comportava delle scelte drastiche: doveva tagliare definitivamente i ponti con il passato; non sarebbe mai più potuto tornare nella sua vita di prima. È questo ciò che Gesù ci chiede in Luca 12:35-40.
Crediamo che l'invito del Signore in Genesi 7:1: «Entra nell'arca», sia equivalente alla chiamata di mezzanotte in Matteo 25:6: «Verso mezzanotte si levò un grido: «Ecco lo sposo, uscitegli incontro». Questo è fare il punto della situazione interiore, l'esame della nostra posizione davanti al Signore e in lui.
«Esaminatevi per vedere se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete che Gesù Cristo è in voi? A meno che non siate riprovati» (2 Corinzi 13:5).
Oggi come allora vale: «Uscitegli incontro!»
Fate caso al nostro tempo: ci troviamo nella fase conclusiva della fine e alcuni se ne rendono conto, altri no. I contemporanei di Noè furono incapaci di sentire il richiamo ad entrare nell'arca. Mancavano di grazia, santificazione e ubbidienza. Altrettanto incapaci di accompagnare lo sposo nella sala delle nozze erano le vergini stolte (cfr. Matteo 25:6). Non avevano l'olio dello Spirito Santo. Qual è la vostra situazione? Il Signore afferma:
«Ancora un brevissimo tempo, e colui che deve venire verrà e non tarderà» (Ebrei 10:3-7).
È necessario fare il punto della situazione - ora!
(Chiamata di Mezzanotte, lug/ago 2017)
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La tregua? Prima vogliamo gli ostaggi
di Amedeo Ardenza
«Se gli ostaggi non saranno liberati, allargheremo la guerra a Rafah. Ci stiamo preparando in collaborazione con i nostri partner, incluso l’Egitto». A dire il vero, nessuno dei partner di Israele, men che mai il Paese delle piramidi, è favorevole a un intervento militare delle Israeli Defense Forces (Idf) contro la città più meridionale della Striscia, appoggiata sulla frontiera con l’Egitto.
Eppure Benny Gantz, leader progressista, ministro del gabinetto di guerra ed ex capo di stato maggiore delle Idf, è stato chiaro: Hamas deve arrendersi o sarà ancora guerra. Un annuncio diffuso dopo che nell’ospedale Nasser di Khan Younis a Gaza le Idf hanno rinvenuto medicinali destinati ma mai consegnati ai 134 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Nello stesso nosocomio i militari hanno catturato 20 uomini del gruppo terroristico accusati di aver preso parte alla mattanza dello scorso 7 ottobre, quando Hamas ha trucidato 1.200 civili israeliani. Le parole di Gantz confermano che i 40 minuti del recente colloquio telefonico fra il premier d’Israele Bibi Netanyahu e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden non sono valsi a nulla. I due uomini non si piacciono sotto il profilo politico e umano – memorabile fu la luce verde data anni fa da Bibi a nuovi insediamenti in Cisgiordania mentre l’allora vicepresidente Biden atterrava a Tel Aviv – e adesso sono anche divisi dal nodo Rafah.
Biden ha tentato la carta dell’isolamento diplomatico ottenendo in poche ore pressioni su Israele da Italia, Germania, Canada, Australia e Nuova Zelanda per un cessate il fuoco.
A novembre gli americani scelgono il nuovo presidente e l’inquilino – ricandidato – della Casa Bianca teme che un nuovo capitolo del conflitto si ritorca contro la sua campagna elettorale, alienandogli la sinistra del partito democratico. I due leader sono anche divisi sul dopoguerra, con Netanyahu contrarissimo al piano Usa per la nascita di uno stato palestinese: «Israele respinge categoricamente diktat internazionali per un’intesa definitiva con i palestinesi: un accordo del genere sarà raggiunto solo attraverso negoziati diretti senza precondizioni», ha scandito Bibi. Più pragmatico, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, storico nemico dei radicali islamici, paventa che un’azione contro Rafah inneschi una crisi umanitaria con decine di migliaia di palestinesi in fuga verso l’Egitto. Il Cairo ha smentito preparativi per la guerra ma secondo le agenzie internazionali dall’analisi delle immagini satellitari si vede che sul lato egiziano del confine l’esercito sta spianando il terreno per allestire una tendopoli capace di accogliere fino a 100mila persone. La fermezza di Gerusalemme è presto spiegata: mentre le diplomazie di mezzo mondo, Santa Sede in testa, ne criticano i modi «vendicativi» e «sproporzionati», lo Stato ebraico vive nell’emergenza. Oltre agli attacchi da sud e alla guerra d’attrito a nord che Hezbollah ha mosso l’8 ottobre per non essere da meno di Hamas, il terrore colpisce anche dall’interno. Ieri due israeliani sono rimasti uccisi e quattro feriti allo svincolo urbano di Re’em nel sud del paese. Israele non ha una rete ferroviaria sviluppata ed è costellato da stazioni di autobus: contro quello di Re’em ieri ha aperto il fuoco il 37enne Fadi Jamjoum, residente a Gerusalemme est, subito freddato da un passante armato. Per Netanyahu «questo attacco ci ricorda che l’intero Paese è un fronte e che gli assassini, che non vengono solo da Gaza, vogliono ucciderci tutti».
Libero, 17 febbraio 2024)
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Quei calcoli sbagliati di Usa e Paesi arabi. Una follia regalare alla Palestina il suo Stato
Biden al lavoro per una trattativa che comprende il "premio" per la strage del 7 ottobre
di Fiamma Nirenstein
Ha scelto una strada molto centrale, venendo da Gerusalemme con la carta d'identità blu e il Kalashnikov fino quasi ad Ashkelon all'incrocio di Reem per ammazzare alla fermata dell'autobus due persone e ferirne altre quattro fra cui un ragazzo di 16 anni in fin di vita: di fronte alla proposta americana, di uno Stato Palestinese, questo è il biglietto da visita della «moderata» area oltre i confini di Gaza, quella di Abu Mazen, nell'Autorità palestinese, quella che era stata sgomberata dalla presenza militare israeliana salvo che nella zona C con gli accordi di Oslo. Si preparava così il terreno a «due stati per due popoli», ma Arafat mostrò che la scelta vera era distruggere Israele con la «seconda intifada» nel 2001 quando quasi duemila civili israeliani, donne e bambini, sono stati esplosi e fucilati per strada. Non si è mai tuttavia smesso di cercare, da parte di Israele, «due stati per due popoli» collezionando i «no» di Arafat a Shamir, a Rabin, a Barak, e poi a Olmert di Abu Mazen e a Netanyahu. Adesso, eliminando l'elementare clausola del bilateralismo di Oslo, Joe Biden, fiancheggiato dall'Unione Europea e dall'Onu, ripropone a Israele la solita formula, con la cauta aggiunta (americana) di uno stato palestinese riformato, demilitarizzato.
Dovrebbe essere questa la conclusione della guerra seguita al pogrom organizzato da Hamas a Gaza, ma ammirato e approvato da tutti i palestinesi, se è vero che Abu Mazen non l'ha mai condannato, e che l'87 per cento dei palestinesi è d'accordo con l'orrore e la strage. Biden fa i suoi calcoli, certo pieni di buona volontà; pensa anche che l'eventuale sponsorizzazione dell'accordo da parte dell'Arabia Saudita, di cui si parla come di una forma di garanzia antiraniana per Israele, dovrebbe aprire un'era di pace fra arabi e israeliani. Ma non ha fatto i conti coi palestinesi di oggi: se si chiede a loro, per esempio Jibril Rajub, uno dei massimi leader dell'Olp, dice a Hamas, che il 7 ottobre «ha reso l'unità fra di noi non solo realizzabile, ma necessaria, la palla è nel vostro campo, decidete voi». Jenin, Ramallah, Hebron, Bethlehem... pullulano di armi, Hamas batterebbe in un soffio Fatah alle elezioni se solo Abu Mazen le inducesse. Netanyahu per rispondere alla proposta di Biden con cui peraltro ieri notte ha parlato amichevolmente per 40 minuti, ha detto: «Tutti parlano di due stati per due popoli. Ma io domando che cosa significhi: devono avere un esercito. Possono siglare un accordo militare con l'Iran? Possono importare missili dal Nord Corea e altre armi mortali? Possono continuare a educare i bambini al terrorismo e lo sterminio?... I palestinesi devono avere il potere di autogovernarsi, ma non un potere che consenta loro di minacciare Israele» e quindi aggiunge il primo ministro «il controllo di sicurezza deve rimanere nelle mani di Israele, la storia ha dimostrato che il terrorismo ritorna».
E un eventuale Stato palestinese sarebbe per Israele, un abbraccio mortale con bande armate e ostili. La determinazione palestinese è scritta in tutta la sua storia: e l'inaspettata scelta di Biden di premiare i palestinesi per il 7 ottobre e il rigetto dell'esistenza di Israele, è un messaggio disastroso all'Iran, all'Iraq, alla Siria, al Libano, alla Russia loro sponsor, alla Cina... e a tutte le organizzazioni terroriste. È un premio per cui il criminale Sinwar che ha ordinato di decapitare i neonati, violentare, uccidere, diventa il Ben Gurion dei Palestinesi.
(il Giornale, 17 febbraio 2024)
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«... e l'inaspettata scelta di Biden di premiare i palestinesi per il 7 ottobre e il rigetto dell'esistenza di Israele...». Ma davvero inaspettata, la scelta di Biden? Pensava davvero, l'autrice dell'articolo, che Biden fosse pronto a sacrificare i palestinesi per evitare il loro rigetto di Israele? Troppe volte questa giornalista che sa descrivere bene i fatti è stata poi sorpresa da quello che veramente sono e provocano i fatti. Ma si sa, l'America è l'America. E poi la libertà. E poi l'Occidente, che siamo noi, compreso Israele, quello aperto democratico liberale, e non loro, tutti gli altri. Ma le cose stanno così? Chi è che vive di sogni? M.C.
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Gli “amichevoli” inciampi di Fassino
di Davide Cavaliere
«Con amici simili chi ha bisogno di nemici?», viene da chiedersi, con Charlotte Brontë, leggendo la recente «lettera» di Piero Fassino a Repubblica sul conflitto arabo-israeliano. È raro trovare, tra i presunti sostenitori dello Stato ebraico, un simile florilegio di luoghi comuni, tesi grossolane e banalità di vario genere. L’ex sindaco di Torino non perde tempo, inizia con impeto: «Netanyahu ha enormi responsabilità non solo per quel che accade oggi, ma per aver impedito la realizzazione degli Accordi di Oslo e Washington». Il leader israeliano, in realtà, non è stato l’affossatore dei disastrosi Accordi di Oslo che, ricordiamolo, sconvolsero la Knesset, poiché iniziarono con colloqui segreti, dato che simili trattative erano proibite, tra il governo laburista e i terroristi dell’OLP, bensì un suo alacre esecutore. Basti pensare che, nel 1998, il primo governo Netanyahu approvò il Wye River Memorandum, un documento integrativo ai suddetti Accordi, con cui si predisponeva il trasferimento di ampi territori della cosiddetta Cisgiordania all’amministrazione «palestinese» e la suddivisione di Hebron, culla dell’ebraismo, in due settori: l’H1, ossia l’80 per cento della città, posto sotto la tutela dell’Autorità Nazionale Palestinese, e il settore H2, una stretta via adiacente alla Tomba dei Patriarchi, sotto controllo israeliano. L’ex dissidente sovietico e ministro d’Israele, Natan Sharansky, nel suo libro intitolato In difesa della democrazia, un testo che Fassino non deve aver letto, scrive: «Netanyahu, il cosiddetto primo ministro “di destra”, indusse la stragrande maggioranza dei membri della Knesset ad accettare il trasferimento di Hebron sotto il controllo dell’ANP, una mossa che segnò una svolta epocale delle posizioni israeliane, soltanto un anno dopo che il Paese aveva conosciuto uno degli eventi più traumatici e tragici della storia: l’assassinio di Yitzhak Rabin». Dunque, Netanyahu non è responsabile di alcun «impedimento» al «processo di pace» millantato dalla leadership laburista, che altro non fece se non farsi beffare da Arafat, un capataz sanguinario che non ebbe mai a cuore né la pace con lo Stato ebraico né il miglioramento delle condizioni di vita dei palestinesi. Subito dopo la ratifica degli Accordi, nel 1994, l’allora capo dell’OLP pronunciò un discorso in una moschea di Johannesburg dove, richiamando la vicenda di Maometto e della tribù dei Quraysh, spiegò che stava utilizzando gli Accordi per rafforzarsi e preparare al meglio una nuova jihad, che puntualmente si scatenò su Israele. Fassino, non pago del precedente scivolone, rincara la dose affermando che Netanyahu avrebbe «autorizzato continui insediamenti in Cisgiordania». Su queste pagine abbiamo, a più riprese, spiegato come non esistano legittimi impedimenti all’edificazione di nuovi abitati in Giudea e Samaria. Quello degli «insediamenti illegali» è un mito che non regge a una disamina approfondita. Una leggenda nera i cui ragionamenti capziosi hanno come obiettivo la delegittimazione di Israele nel suo complesso. Una narrazione falsa, a cui l’ex sindaco si accoda manifestando una scarsa, se non nulla, conoscenza dei fatti. La Cisgiordania, infatti, secondo il diritto internazionale, precisamente sulla base del principio dell’«uti possidetis», appartiene a Israele, in quanto legittimo successore del Mandato per la Palestina del 1922. Ma, per 19 anni, tra il 1948 e il 1967, fu occupata illegalmente dalla Giordania senza che mai Israele rinunciasse alla sua piena sovranità. Inoltre, nel 1967, la Giordania aggredì militarmente Israele, che poi la sconfisse e riconquistò i suddetti territori. La disputa territoriale è andata avanti fino al 1994 con la firma del trattato di pace tra i due Paesi. È bene anche precisare che la maggior parte dei presunti «insediamenti illegali» sono stati costruiti tra il 1967 e il 1993, anche sotto governi laburisti. Inoltre, dal 1993 al 2004 circa, i nuovi insediamenti sono stati solo nove. Negli anni successivi, la situazione non è cambiata. Addirittura, Netanyahu, viene criticato per aver proclamato «Gerusalemme capitale indivisibile di Israele». Un errore grave, dato che la Legge Base su Gerusalemme capitale «unica e indivisibile» venne approvata dalla Knesset nel lontano 1980. Fassino, tra le altre cose, ci tiene a informarci che lui è da sempre impegnato «a sostegno della soluzione due popoli/due Stati». Bisognerebbe dirgli, innanzitutto, che non esiste un «popolo palestinese». I cosiddetti «palestinesi» sono arabi, e questi hanno già ottenuto un loro Stato in quell’area geografica, ovverosia la Giordania. In seguito, sarebbe necessario fargli notare che tutte le proposte di spartizione e pacificazione sono state rigettate dagli arabi di Palestina, il cui obiettivo dichiarato era, e tuttora rimane, lo sterminio di tutti gli ebrei, come dimostra la concordanza ideologica tra alleanza nazionalisti arabo-islamici e nazisti. In seguito, nella sua lettera, abbandonato il periglioso terreno storico-giuridico, si getta sulla situazione umanitaria a Gaza, dove le azioni di Netanyahu avrebbero «mietuto un numero enorme di vittime». Nientemeno. Il premier israeliano «miete vittime», è assetato di sangue, come vuole un certo stereotipo antisemita. Qui, Fassino mente sfacciatamente. Le operazioni militari dell’IDF, vista la densità abitativa di Gaza, hanno causato pochissime vittime civili, come riconosciuto anche da un eminente intellettuale di sinistra, Michael Walzer. Persino assumendo per vere la cifre sulle vittime fornite da Hamas, che riferiscono 28.000 morti complessivi, senza distinguere tra civili e terroristi, si rileva un tasso di vittime civili tra i più bassi di sempre. Ma al Nostro non interessa la realtà, conta solo la finzione, da far entrare nei crani refrattari ripetendola senza sosta. Leggiamo ancora: «Quel che contesto è l’equivalenza diffusa tra la politica di Netanyahu e Israele. Un’equivalenza che nega il carattere democratico dello Stato ebraico». Certo, Netanyahu non è Israele e viceversa, ma perché non dire che la maggioranza degli israeliani sostiene l’attuale primo ministro? Netanyahu è un leader pienamente democratico, che rispetta il pluralismo dell’informazione, l’opposizione parlamentare, la separazione dei poteri e la laicità dello Stato. Alla carica di primo ministro vi è sempre giunto attraverso libere elezioni. Dopo aver sottolineato gli elementi socialisti presenti nel movimento sionista, sottacendo la presenza di un’importante corrente di destra, l’autore della «lettera» accusa nuovamente il Likud di aver «impedito» la «soluzione due popoli/due Stati». Gli israeliani, diversamente da Fassino, non hanno dimenticato ciò che è avvenuto a partire dal fallimento del vertice di Camp David nel 2000. Arafat, dopo aver rifiutato il piano offertogli da Bill Clinton e Dennis Ross, che pure concedeva ai palestinesi quasi tutto ciò che essi pretendevano da anni, lanciò la Seconda Intifada, che costituì uno dei più grandi massacri di ebrei dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’elettorato israeliano ha ancora ben presente il furore apocalittico e mortifero dei membri dell’AP e di Hamas — quest’ultimi si distinguono dai primi solo per il colore della kefiah, come sottolineato dallo studioso Mordechai Kedar. Al culto della morte e alla celebrazione dell’odio antiebraico partecipò, allora come oggi, quasi tutta la società palestinese. Se il cosiddetto «processo di pace» è fallito, la responsabilità non è di Netanyahu o della destra israeliana, ma della controparte araba. Quali sarebbero, dunque, le «ragioni legittime» dei palestinesi evocate al termine della lettera? Quale accordo è possibile con chi, da settantasei anni, si nutre del più gretto odio antisemita? Fassino chiede una «Conferenza internazionale di pace», ma in quali occasioni simili consessi hanno riportato risultati concreti? Non pago degli errori presenti nella sua ricostruzione dei fatti, rincara la dose proponendo una soluzione fatua e scontata. Fassino è un improbabile amico dello Stato d’Israele. Coi suoi argomenti, all’apparenza ragionevoli e ponderati, rischia di legittimare teoremi e narrazioni dell’antisionismo militante. Oggi, di fronte al dilagare della giudeofobia, abbiamo bisogno di una difesa granitica, ben informata e pugnace delle ragioni sioniste, non dei distinguo «politicamente corretti», delle strizzatine d’occhio all’ala «sinistra» del partito d’appartenenza, dei «se» e dei «ma» di «veltroniana» memoria. La verità non è sempre «in medias res», per questo la difesa di Fassino risulta rachitica. Israele non ha bisogno di quelli che Piero Gobetti definiva «giudici conciliatori del moderatismo». La posta in gioco è troppo alta.
(L'informale, 17 febbraio 2024)
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Antisemitismo in Australia, filopalestinesi rendono pubblici una lista di ebrei
Gravissimo episodio di antisemitismo in Australia, dove un gruppo di attivisti filopalestinesi ha reso pubblica una lista con centinaia di identità di ebrei locali. Nomi, immagini, professioni e resoconti sui social media di ebrei che lavorano nel mondo accademico e nelle industrie creative dati in pasto dai propal, che hanno ricevuto le informazioni trapelate attraverso una chat privata di WhatsApp. Quanto accaduto ha spinto il governo australiano a dichiarare che metterà al bando il doxxing, la diffusione online dannosa di informazioni personali o identificative senza il permesso del soggetto. Diffusione che ha portato diverse famiglie ebraiche australiane a essere oggetto di molestie e minacce, nonché molte attività commerciali da loro gestite a essere vandalizzate. Il primo ministro Anthony Albanese ha così commentato una vicenda dai contorni antisemiti:
“L’idea che in Australia qualcuno debba essere preso di mira a causa della sua religione… è assolutamente inaccettabile”.
Il procuratore generale Mark Dreyfus ha detto ai giornalisti:
“Il crescente utilizzo di piattaforme online per danneggiare le persone attraverso pratiche come il doxxing, la divulgazione dannosa delle loro informazioni personali senza il loro permesso, è profondamente inquietante”.
E ancora:
“La recente presa di mira di membri della comunità ebraica australiana attraverso pratiche come il doxxing è stata scioccante ma, purtroppo, questo è lungi dall’essere un incidente isolato”.
Come in altri paesi del mondo, infatti, anche in Australia c’è stato un cospicuo aumento delle denunce di antisemitismo dopo la mattanza di Hamas del 7 ottobre e la reazione di Israele a Gaza. Facciamo un passo indietro. Non ci è sempre stato detto che i filopalestinesi attaccano Israele e i suoi governi e non gli ebrei come popolo? Se è così, perché i propal in Australia hanno diffuso senza permesso informazioni personali sugli ebrei locali? Per caso questo episodio è la conferma che in realtà il tanto conclamato antisionismo in realtà è un modo per mascherare l’antisemitismo? Noi conosciamo la risposta da anni… e voi?
(Progetto Dreyfus, 16 febbraio 2024)
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Gli ebrei messianici, i hardalim, spiegati da Yair Nehorai
In ambito evangelico come “ebrei messianici” si intendono gli ebrei che credono in Gesù Messia e dichiarano apertamente di appartenere al popolo ebraico e di volerne mantenere per quanto possibile i costumi. In questo articolo si vedrà che in Israele si parla di ebrei messianici anche in un altro senso. NsI
di Manuela Dviri
Inizio con una precisione. Ho sposato (ben 56 anni fa) un “datì” che vuol dire religioso, o credente o osservante. Il mio datì è di quelli che portano in testa la papalina fatta all’uncinetto, e per forza di cose (io non sono osservante) lui è aperto al mondo e democratico quanto basta per poter vivere con me in uno status quo che malgrado tutto regge da mezzo secolo. (solo su questo ci sarebbe da scriverne un romanzo). Poi ci sono gli “haredim” i timorati di Dio, che si dividono gruppi e che in gran parte vivono in zone loro, si vestono a modo loro, e non fanno il militare. E infine ci sono i “hardalim”, una via dai mezzo tra i datiim (plurale di datì) e gli haredim. Si distinguono perché portano papaline fatte all’uncinetto più grandi e le loro mogli hanno quasi tutte il capo coperto con grandi e cinematografici turbanti.
Una spiegazione un po’ semplicistica e molto superficiale, giusto per dare un’idea. Degli ebrei messianici invece ne sapevo molto poco, quasi niente, e così ho deciso di incontrare Yair Nehorai. Yair Nehorai è uno scrittore e avvocato israeliano, noto principalmente per il romanzo Taliban Son sull’estremismo religioso ebraico e per aver partecipato ad una serie di cause in cui erano implicati principalmente gruppi religiosi estremisti e messianici. Il romanzo Taliban Son è liberamente basato sul caso della “madre talebana”, nel quale Nehorai racconta di una leader di un gruppo particolarmente estremista. Sempre di estremismo ebraico tratta anche il suo secondo libro che si intitola invece LA TERZA RIVOLUZIONE: i principi messianici che si sforzano di trasformare Israele in uno stato ebraico basato sulla Torah- e come ne vengono istallati i valori. Guarda caso incontro l’avvocato Nehorai in un bar in piazza Habima ormai famosa per le dimostrazioni contro il governo Netanyahu.
- Chi sono gli ebrei messianici? Coloro che sono convinti che il popolo ebraico abbia la missione di salvare non solo Israele, ma il mondo intero, e che quindi il destino del mondo intero sia sulle nostre spalle. Credono anche che Dio abbia deciso che sia finalmente arrivato il momento della redenzione, della Geulah.
- Nella tradizione ebraica la redenzione è soprattutto una questione spirituale, non materiale. Per avvicinare la geulah è necessario lavorare sulla redenzione interiore del singolo ebreo avvicinandolo alla Torah e ai precetti. È questo ciò in cui credono? negli sforzi collaborativi tra Dio e gli uomini? Come tutti gli estremismi, vanno molto più in là. Credono che tutto ciò che è stato costruito nel nostro paese dai laici sia errato e adesso sia venuto il momento di portare in Israele le leggi della Torah, farle diventare la costituzione del Paese, la sua essenza, la sua raison d’etre. Non a caso sono riusciti a far cadere il precedente governo, quello di Bennet, sulla legge del hametz (cioè la proibizione di far entrare negli ospedali pane e cibi proibiti- il hametz- perché possono aver avuto a che fare col pane durante la settimana di pasqua).
- Chi sono i rappresentanti politici di questa visione messianica? Il ministro Smotrich del partito dell’ebraismo religioso certamente, e secondo me non è lui a decidere ma i rabbini messianici che lo usano per i loro scopi. Ben Gvir invece è un “normale” razzista di estrema destra ma anche lui può servire e essere usato, per esempio parlando al Wall Street Journal contro Biden, e inneggiando a Trump.
- Quali sono i pericoli per Israele da parte dei gruppi messianici? Uno dei pericoli più grandi proviene dai corsi di preparazione pre-militare (mechinot kdam zvaiot) sotto la guida di rabbini messianici. Una in particolate, i Bney David (i figli di David) è nota per la sua influenza di tipo messianico, e non per caso proprio da loro Netanyahu è andato ultimamente in visita, alla ricerca disperata di alleati che lo aiutino a rimanere al governo. Ormai anche il mondo liberale e laico israeliano si è reso conto del problema, ha capito, ne ha paura e cerca di bloccarne l’avanzamento. Anche l’esercito sa che nelle sue file ci sono soldati provenienti da quel mondo. E non a caso sono bravissimi soldati.
Per i messianici la visione del mondo è religiosa, non razionale, per loro la guerra stessa – che va assolutamente combattuta e vinta anche a costo della vita degli ostaggi – è parte della Geulah, perfino la Shoà ne sarebbe stata, e il rapimento degli ostaggi. Anche la strage del sette ottobre. Quest’ultima sarebbe addirittura la punizione per essersi ritirati da Gaza e aver smontato le colonie di Gush Katif. Per questo le vogliono ricostruire. Sono carismatici, sono entusiasti, sono trascinanti, e il loro sogno è di cambiare la realtà da dentro e di riuscire a convincere il più grande numero possibile di cittadini e quindi a conquistare il paese politicamente. Per gli ebrei messianici (che sono ormai una grande parte tra i religiosi del paese e certamente tra i coloni) i laici democratici hanno creato a suo tempo un paese come rifugio sicuro per gli ebrei del mondo e adesso è arrivato il momento di farlo diventare strumento della redenzione e della salvezza del popolo ebraico e del mondo intero.
- Come mai lei ne è diventato un esperto? Perché provengo da quello stesso mondo, da ragazzo lo ho visto crescere e svilupparsi. E mi ha fatto moltissima paura e oggi me ne fa ancora di più. Quindi ho iniziato a studiare questa realtà e a prepararmi. Per combatterla.
Parlo dell’intervista con mio marito. Lui, piccato, risponde che Yair esagera, che nessuno dei suoi amici è messianico, che nessuno dei suoi amici è così. Che ci sono credenti che sono semplicemente di destra, senza essere messianici. “E si sbaglia” commenta mia figlia, madre di quattro figli di cui tre già maggiorenni. “Semplicemente non conosce il cambiamento avvenuto nelle nuove generazioni. Il mondo religioso ha preso una strada molto diversa da quella delle precedenti generazioni a cui apparteneva il nonno e a cui appartiene lui. Loro avevano collaborato persino con il partito laburista nella costruzione del paese. Adesso è tutto cambiato. I “hardalim” hanno semplicemente scelto un’altra strada. Si sbaglia davvero.”
Lascio l’ultima parola al grande filosofo Gershon Scholem:
La redenzione del popolo ebraico, che desidero in quanto sionista, non è affatto identica alla redenzione religiosa che auspico per l’avvenire. […] L’ideale sionista è una cosa e l’ideale messianico un’altra e non hanno punti di contatto altro che nella retorica enfatica dei raduni di massa. (Gianfranco Bonola, Le delusioni del messianico in Scholem)
(JoiMag, 16 febbraio 2024)
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Confermata la morte di Yair Yaakov, rapito da Hamas nel kibbutz Nir Oz
di Michelle Zarfati
Il kibbutz Nir Oz giovedì ha annunciato la morte di Yair (Yaya) Yaakov, 59 anni, rapito il 7 ottobre da Hamas. Il suo corpo risulta tuttora detenuto dai terroristi nella Striscia di Gaza. “Yair ha sempre lavorato nel Kibbutz Alumim. Era un uomo umile e semplice che amava la famiglia, la sua terra e la musica” scrive in un annuncio il Kibbutz Nir Oz.
Al quartier generale delle famiglie degli ostaggi, Yair è stato definito come “un padre di famiglia con un cuore enorme che era sempre pronto ad aiutare tutti”. Yair era sempre energico. Fin dall’infanzia, amava godersi la vita, ascoltare musica, sedersi con una birra fredda al sole. Yair era una persona sempre circondata da molti amici. Un fratello maggiore, che ha sempre custodito e protetto tutte le persone attorno a lui, ma soprattutto un padre che si è sempre preso cura dei suoi figli, amandoli con tutto se stesso.
Yair lascia tre figli: Or, 17; Yigal, 13; Shir, 21; e la sua compagna Merav Tal. I suoi giovani figli e sua moglie sono stati rapiti dal kibbutz il 7 ottobre e sono stati rilasciati come parte dell’accordo sugli ostaggi.
Appresa la notizia, il figlio di Yair, Or ha pubblicato un post sui social media in cui ha salutato suo padre scrivendo: “Papà, non ho altre parole per descriverti, ma prenditi cura di me in cielo. Ti amo e non ti dimenticherò, sarai sempre nel mio cuore”. Or e Yigal sono stati rilasciati durante il 52° giorno di prigionia e sono tornati in Israele, mentre la madre Merav è stata rilasciata il giorno dopo. Yair e sua moglie erano nella loro camera bunker e hanno combattuto con tutte le loro forze per impedire ai terroristi di infiltrarsi nel kibbutz. Merav ha lasciato un messaggio vocale sulla chat Whatsapp della sua famiglia poco prima del rapimento. “Sono dentro casa, ci hanno sparato nella stanza. Yaya, ha tenuto la porta. Sono dentro casa, abbiamo urlato forte. Ora Yair è ferito, chiamate la polizia” diceva la donna ai suoi cari. Un ultimo tentativo per salvare la vita di Yair.
(Shalom, 16 febbraio 2024)
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"Davanti alla Commissione Europea c'è un'organizzazione di facciata di Hamas"
Rivelazioni del governo su come i terroristi operano da noi: "Usano le ong per raccogliere denaro e invitare politici, accademici, giornalisti e persone della società civile"
di Giulio Meotti
Per la prima volta ora il ministro della Giustizia del Belgio, Paul Van Tigchelt, lo mette nero su bianco: Hamas è attivo in Belgio (e altrove in Europa) attraverso società “umanitarie”. Non per seminare il terrore, ma per presentare Hamas sotto una luce favorevole e raccogliere fondi. I tentacoli islamisti si estendono anche nel cuore della vecchia Europa. Finora si trattava solo di sospetti, ora per la prima volta il governo lo ammette. Cosa fanno esattamente queste ong? Van Tigchelt rivela che “le attività di Hamas in Belgio si concentrano sul lobbying e sulla raccolta di fondi”. Un esempio citato è quello della ong “Eupac”. La sua sede si trova al numero 6 di Place Schuman a Bruxelles, proprio di fronte alla Commissione Europea. In realtà l’organizzazione serve come mezzo di lobbying, spiega Paul Van Tigchelt, che rivela il funzionamento della campagna di Hamas in Europa: “Un consiglio di diversi membri provenienti da diversi paesi europei che organizza conferenze e difende la causa palestinese con le istituzioni locali, ma soprattutto europee. A queste conferenze sono invitati politici, parlamentari e legislatori europei, nonché accademici, giornalisti e persone della società civile”. Risultato? Questa mattina il capo degli aiuti di emergenza dell’Onu, l’inglese Martin Griffiths, ha detto che non considera Hamas un'organizzazione terroristica. Spiega ad Atlantico l’esperto di Qatar Jean-Pierre Marongiu, saggista, imprenditore e fra i massimi esperti di Qatar, dove ha a lungo lavorato e vissuto: “Gli eurodeputati sono i primi bersagli di Qatar e Turchia, dal momento che la costituzione europea ha ormai la precedenza sugli stati sovrani, che vedono i loro poteri legislativi soggetti alle decisioni delle Commissioni. Più di 13.000 entità fanno pressioni sulla Commissione Europea e 3.500 di queste sono ong finanziate dai Fratelli Musulmani. Abbiamo consegnato le chiavi della stalla ai lupi. Approfittando dell'inerzia di politici ciechi, ingenui o corrotti, l'Europa sta oscillando verso un cambiamento di cultura e di civiltà senza prendere veramente sul serio la misura del pericolo”. Cinque mesi prima del 7 ottobre, in Svezia, si è tenuta una conferenza organizzata da Hamas. Alla “Conferenza europea dei palestinesi” c’era anche Stefania Ascari, deputata dei 5Stelle. Questo lobbyismo, come lo chiama il ministro belga, è stato molto proficuo: abbiamo parlamentari inglesi e senatori francesi andati a incontrare il leader di Hamas Khaled Meshaal; parlamentari dei Libdem inglesi a Gaza a stringere la mano a Ismail Haniyeh, invitato a parlare alle conferenze a Rotterdam, in Olanda; e il Parlamento svizzero che ospita il portavoce di Hamas. Il quotidiano britannico Times ha appena ottenuto un rapporto dei servizi tedeschi secondo cui Majed Alzeer è il leader europeo di Hamas. “Ha contatti fino ai vertici di Hamas e organizza le attività in diversi paesi europei”, indica un documento confidenziale. Lo vediamo posare accanto a Khaled Mashal, leader di Hamas. E più recentemente accanto all’attuale leader di Hamas in esilio a Doha, Ismail Haniya. E poi al Parlamento di Bruxelles. Intanto la Fratellanza Musulmana, di cui fa parte Hamas, si organizza nelle capitali europee. “Nelle profondità di Londra, l’ufficio dei Fratelli Musulmani è diventato uno dei rami più attivi del gruppo islamista”, racconta Foreign Policy. Londra era la “casa naturale” per la Confraternita islamica. Era già la sede del sito in lingua inglese della Confraternita, Ikhwanweb. Usano fondazioni di facciata, come Cordoba, che prende il nome dalla città spagnola a lungo conquistata dall’Islam. Il Sunday Telegraph ha rivelato che i principali hub per le operazioni della Confraternita in Europa sono Westgate House, un edificio a ovest di Londra, e Crown House, a nord. “Contengono almeno 25 organizzazioni legate alla Fratellanza”. “The Europe Trust”, organizzazione legata ai Fratelli Musulmani, ha acquistato una proprietà da 4 milioni di euro nel quartiere berlinese di Wedding, riporta Die Welt. “Wedding - un ex quartiere operaio di Berlino - è stato trasformato in una roccaforte dell'Islam politico e un punto caldo per gli estremisti religiosi. Ora è nota per essere una comunità piena di moschee, negozi, centri culturali islamici e associazioni”. “C'è una taqiya 'democratica' nei paesi occidentali, i Fratelli Musulmani propagano l'Islam radicale attraverso mezzi politici, associativi e non violenti”, denuncia il giudice antiterrorismo più famoso di Francia, Marc Trévidic. 550.000 euro per "Islamic Relief Germany", che si presenta come una sorta di "Mezzaluna Rossa" islamica, ma accusata di legami con Hamas. La Commissione Europea ha certificato questa organizzazione come “partner umanitario dal 2021 al 2027”. L’Islamic Relief è stata al centro di una inchiesta del giornale tedesco Die Welt. Prima delle vacanze natalizie, nella sede dell’associazione Eupac proprio davanti alla Commissione Europea, in Rond Point Schuman, c’è stato un meeting finalizzato a stilare una lista di alleati tra i candidati alle prossime elezioni europee. E tutto sotto gli occhi dormienti e drogati di un’opinione pubblica che non ha compreso la partita che si sta giocando. Per aver scritto un libro sulle reti dei Fratelli musulmani, Le Frérisme et ses réseaux, Florence Bergeaud-Blackler, antropologa del Cnrs, è finita sotto scorta. Bruxelles, scrive nel saggio Bergeaud-Blackler, è “una specie di santuario dell’islamismo in Europa. I Fratelli musulmani agiscono penetrando nel tessuto sociale, nelle ong e nelle associazioni, nei luoghi dell’istruzione e delle imprese. Bruxelles è stata individuata dai Fratelli Musulmani come il ventre molle dell’Europa”. E per penetrarlo non c’è niente di meglio dell’umanitarismo, come un coltello nel burro. Politici, sindacalisti, giornalisti e altri corifei della “società civile” ne vanno matti. Lo abbiamo visto dopo il 7 ottobre, per chi voleva vedere. Ma gli eurocrati non vedono neanche quello che c’è al di là di Piazza Schuman.
(Newsletter Giulio Meotti, 16 febbraio 2024)
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Hineni: una missione di solidarietà svolta in Israele
“’Hineni’ in ebraico significa ‘eccomi, sono qui’”. È un’affermazione, un impegno che promette: “Sono qui, dove e come mi avete trovato, attento, concentrato, con tutto me stesso, con tutto ciò che sono e che posso essere”. Questo è lo spirito e il nome della missione di solidarietà svolta in Israele dal 5 all’8 febbraio scorsi da ECJC, European Council of Jewish Communities, in collaborazione con JDC, American Jewish Joint Distribution Committee, Zehud School e la Divisione delle imprese sioniste della WZO. Una missione di solidarietà e amore per il popolo ebraico che ha visto riunirsi in Israele 33 rappresentanti di comunità ebraiche provenienti da nove paesi europei, che hanno condiviso un viaggio denso di incontri e visite con lo sguardo rivolto a quanto il Paese sta passando in questo difficile e drammatico periodo iniziato il 7 ottobre 2023.
“Le perdite di quel giorno e da allora sono state devastanti: 1.200 israeliani uccisi e 240 presi in ostaggio, di cui 136 sono ancora trattenuti a Gaza – scrive ECJC, European Council of Jewish Communities -. Lo Stato di Israele è ora in una guerra su vasta scala contro Hamas a Gaza, mentre difende i suoi confini a nord contro Hezbollah. Circa 200.000 persone sono state sfollate dalle loro case in Israele e alcune stanno ancora affrontando questa terribile e incerta situazione, mentre le famiglie ferite, traumatizzate e colpite cercano di gestire la loro vita quotidiana in quella che sembra una realtà impossibile. Contemporaneamente, in tutto il mondo, sono aumentate le reazioni antisemite […], così le comunità ebraiche si trovano di fronte a tempi complicati e difficili che possono essere affrontati solo attraverso l’unità e la costruzione di nuovi modi per collegare le nostre vite e agire insieme”. All’insegna della solidarietà, del dialogo e dell’impegno a favore del futuro di Am Israel, il viaggio di ECJC ha toccato diverse tappe fra cui Il Ministero degli Affari Esteri, il Kotel e l’ospedale Hadassah a Gerusalemme, il Kotel, il kibbutz Kfar Aza colpito dagli attacchi del 7 ottobre, la località di Reim per un incontro con dei sopravvissuti al terrorismo e ai rapimenti al Nova Festival, Kikar Hachatufim, la piazza di Tel Aviv con la tavola apparecchiata e le foto dei rapiti, il centro accoglienza di Shefayim per i sopravvissuti del kibbutz Kfar Aza e il moshav Mazor, per assaporare contatto diretto con la terra di Israele e i suoi frutti.
• La testimonianza di Angela Castigli sulla visita in Israele
Alla missione in Israele di ECJC ha partecipato anche una delegazione italiana, con Dalia Gubbay, Massimiliano Tedeschi, Daniele Schwarz, Raffaele Besso, Valeria Biazzi e Angela Castigli, sostenitrice della nostra Comunità. “Volendo fare qualcosa per il popolo ebraico in questo particolare momento storico, ho contattato la Comunità Ebraica di Milano e conosciuto alcuni suoi esponenti – spiega a Bet Magazine Angela Castigli -. Sono stata accolta con grande umanità e simpatia. Ho conosciuto Milo Hasbani, il preside della scuola ebraica Marco Camerini e Paola Hazan, a cui ho potuto spiegare le mie motivazioni. Milo Hasbani mi ha poi chiesto se fossi interessata a partecipare a questo viaggio, organizzato a livello europeo. Io non ero mai stata in Israele, ma ho intuito che sarebbe stata un’esperienza eccezionale”.
“Per prima cosa ho conosciuto persone di diverse comunità ebraiche europee e ho capito quanto possa essere complesso anche solo usare l’aggettivo ‘ebraico’, seppur siano tante sono le basi comuni, specialmente in questo difficile periodo di guerra; da un lato gli ebrei sono nel mondo, un punto di forza se dall’altro c’è un punto comune – prosegue Castigli -. L’organizzazione del viaggio è stata perfetta e nell’ottimo hotel dove alloggiavamo a Gerusalemme ho potuto inoltre incontrare famiglie israeliane, con tanti bambini. Mi è stato detto che erano famiglie di sfollati provenienti dal nord di Israele, vicino al confine con il Libano. Da quattro mesi occupavano un piano dell’albergo con tutte le loro cose ed è stato davvero toccante vederle. Per comunicare un po’ con loro ho imparato a dire ‘boker tov’, così una volta una bambina che avrà avuto quattro anni ha voluto darmi una caramellina. Ho scambiato qualche parola in inglese anche con le giovani madri e le donne di quelle famiglie, per conoscerle un po’ e capire meglio le cose. Mi sono sembrate donne fiere, non certo dimesse o ‘nascoste’. La prima impressione che ho ricevuto vedendo queste famiglie è stato il profondo senso di coesione della nazione israeliana – sottolinea -. In seguito, quando da Gerusalemme ci siamo spostati verso sud per raggiungere un centro attrezzato gestito da volontari che distribuivano cibo ai soldati, dai 30.000 ai 35.000 pasti al giorno, ho visto e sperimentato ulteriormente questo senso della coesione e dell’essere insieme in tutti i modi per farcela e per darsi una mano. Questo è stupendo e credo che sia la vera forza di questo popolo oltre che la vera ragione per cui ce la può fare e ce la farà”.
“La domenica, girando per Gerusalemme, mi sono ritrovata in una mini-bottega che vendeva falafel buonissimi e con il mio pur non ottimo inglese ho provato anche lì a comunicare con le persone; sono entrati dei giovani soldati e ho chiesto loro quanti anni avessero: solo diciannove anni! Ho visto anche dei giovani religiosi, così ho chiesto al venditore dei falafel se questi fossero esentati dal servizio militare e lui mi ha svelato un altro aspetto della società israeliana che trovo eccezionale: i religiosi non sono obbligati ad arruolarsi, ma dal 7 di ottobre in poi molti di loro hanno comunque deciso di farlo e sono andati a combattere”.
“Ho vissuto un’esperienza davvero ricca e significativa, sotto tanti punti di vista, e ringrazio la Comunità di Milano per questa opportunità. Io non sono religiosa, ma voglio comprendere i valori di riferimento e ho a mia volta dei valori di riferimento, primo fra tutti la libertà. Per esempio, anche i palestinesi hanno lo loro identità, ma non hanno la libertà, la possibilità di valutare e di scegliere. Gli israeliani invece hanno libertà di scelta, anche le donne religiose. Questa è la differenza”.
Fra i momenti più toccanti e di profonda riflessione, nel corso della missione Hineni, ci sono state le visite al kibbutz Kfar Aza devastato dall’attacco del 7 ottobre e al sito dove si era svolto il festival Nova. “È stato terribile – evidenzia -. Siamo anche stati dove si era svolto il rave, il festival di musica attaccato da Hamas. Lì c’è stato un incontro con dei giovani sopravvissuti all’attacco. È stato commovente e coinvolgente per tutti i presenti. Poi abbiamo visitato un centro vicino a Tel Aviv, dove c’erano degli sfollati e dei parenti di vittime degli attacchi e anche là abbiamo avuto un incontro con una persona che era stata partecipe di quella tragedia. Altra tappa molto significativa è stata la visita alla piazza di Tel Aviv dove è allestita una tavola apparecchiata con tutte le foto dei rapiti presidiata 24 ore su 24 dai parenti degli ostaggi, che vi si alternano e chiedendone la liberazione”.
Nell’insieme, la missione ha offerto momenti non solo emotivamente forti, ma significativi al fine della comprensione e dell’analisi della situazione e del da farsi. “Di fronte alla drammatica situazione disegnata dagli attacchi e dalla guerra, il senso di coesione e della capacità di resistenza del popolo ebraico mi ha colpito molto profondamente – ribadisce Angela Castigli -. Io stessa, nel centro che distribuiva i pasti hai soltati, era come se fossi diventata sorella della gente e ho provato l’emozione dell’essere insieme per una causa giusta. Questa coesione è cruciale per l’esistenza del popolo d’Israele. Oggi, rispetto a tanti altri popoli, a storie o situazioni diverse, questa specificità d’Israele, della sua storia, del suo essere, della sua cultura, credo che sia davvero la cosa più importante. La coesione del popolo viene anche dai valori che uniscono e che condivido: al popolo ebraico sono vicina per affinità di valori. Il senso del viaggio è stato nel cercare di capire il perché e le cause della situazione, anche per poter intraprendere una efficace campagna di informazione. Oggi, su molti media e sui social, Israele sta passando per carnefice. Dietro c’è una macchina distruttiva, finanziata, e tutto questo è assolutamente terribile. Allora, comprendere significa anche saper reagire con una campagna non solo difensiva, ma di critica nei confronti di questa macchina distruttiva. Durante il viaggio ho compreso che non solo Israele si deve difendere e deve combattere, ma deve altresì agire dal punto di vista culturale e dell’informazione – conclude – anche perché questo antisemitismo oggi così tornato alla carica va combattuto con argomentazioni”.
(Bet Magazine Mosaico, 16 febbraio 2024)
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"Quattro stereotipi contro Israele e un motivo per levare ad Hamas l’ultima roccaforte
di Daniele Capezzone
Credo di sapere quanto sia popolare, in giornate come queste, limitarsi a generiche quanto emozionate perorazioni «per la pace in Medio Oriente». Si scaldano i cuori e contemporaneamente si scaricano le coscienze, autoassegnandosi una certificazione di bontà, di umanità, di empatia. Figurarsi: chi mai può essere «per la guerra»? Solo dei mostri, si capisce.
Non solo: abbiamo a che fare – ultracomprensibilmente – con un’opinione pubblica angosciata dalla duplicazione dello scenario bellico (Ucraina e Gaza) e via via più consapevole di come, in giro per il mondo, altri teatri minaccino di farsi a loro volta roventi: si pensi solo alla situazione in almeno una mezza dozzina di stati africani. È logico che tutto questo spaventi le persone: ed è inevitabile che i politici guardino i sondaggi e adeguino il loro racconto ai sentimenti già sedimentati presso una parte assai consistente dell’elettorato. Ma, a maggior ragione in un quadro del genere, onestà intellettuale impone di non essere reticenti né omissivi, e di raccontare tutta intera una scomoda verità. Lo ha fatto l’altro ieri Mario Sechi, ricordando come una serie di guerre chiuse male abbiano prodotto una scia di successivi conflitti: quando una ferita resta aperta, può solo diventare purulenta, altro che guarigione. E lo hanno fatto ieri Marco Patricelli, rievocando l’illusione dell’appeasement (Monaco 1938 e non solo) e Fabrizio Cicchitto, tratteggiando il disegno comune antioccidentale che vede non di rado convergere Pechino-Teheran-Mosca.
• TUTTI CONTRO
Dentro questa cornice, è l’ora di esprimere qualche valutazione forse impopolare ma necessaria sulla prossima offensiva israeliana a Rafah. Un po’ tutti (Onu, Ue, Casa Bianca bideniana, e ora anche il Parlamento italiano, sia pure attraverso l’escamotage di una mozione della minoranza che è stata lasciata passare dalla maggioranza) si dichiarano contrari all’azione di Gerusalemme. Ma questo ragionamento presenta non pochi punti deboli. Primo - I contrari usano l’argomento - forte e di grande impatto emotivo della popolazione civile palestinese che verrebbe indubbiamente messa a rischio. Vero, anzi verissimo. E allora occorre, prendendo i giorni necessari (del resto, non risulta che l’attacco israeliano debba avvenire ad horas), organizzare corridoi e vie di fuga per i civili, ipotesi caldeggiata in primo luogo da Gerusalemme. Tra Rafah (profondo Sud della Striscia di Gaza) e Khan Younis c’è ad esempio una notevole quantità di spazio disponibile. Dunque, sarebbe compito delle Nazioni Unite e delle loro agenzie (in particolare, la famigerata agenzia per i rifugiati palestinesi) adoperarsi immediatamente in tal senso: lo facciano, garantendo il “come”, anziché limitarsi a dire no all’operazione annunciata dall’esercito israeliano. In altre parole, l’argomento dei profughi (che si deve affrontare e risolvere) non può diventare un modo per impedire a Israele di concludere efficacemente l’operazione militare. Secondo. Liberare Rafah non è un capriccio di Netanyahu: stiamo parlando dell’ultima roccaforte controllata da Hamas. E sarebbe assolutamente insensato lasciare questo bastione nelle mani dei terroristi. Da lì ricomincerebbero appena possibile a colpire: ed è esattamente ciò che va evitato. Da questo punto di vista, va ricordato che, dopo il 7 ottobre, tutti - da Washington a Bruxelles - si dicevano concordi sull’obiettivo di distruggere Hamas. Oggi invece chi vuole fermare l’esercito di Gerusalemme sta oggettivamente offrendo un salvacondotto ai terroristi, peraltro adottando il loro stesso schema sia militare che narrativo, e cioè l’uso della popolazione civile palestinese come scudo umano. Sta qui il paradosso nel paradosso: si aiuta Hamas e si finisce perfino per mutuarne il “racconto”.
• COSA SI VUOLE DAVVERO? Terzo - Si continua a ripetere che sarebbe “impossibile” eliminare Hamas. Ma questo non è vero: lo ha dimostrato il successo militare conseguito dagli israeliani a Gaza. Semmai, negli anni passati (si pensi alle timidezze che a lungo hanno frenato Barack Obama contro l’Isis) è proprio quel tipo di argomento che ha legato le mani all’Occidente. La storia ha invece dimostrato che dal 2016 in poi Isis è stata fatta fuori da Mosul e da Raqqa. Il punto - come sempre - è la volontà o meno di conseguire un obiettivo. Certo, se invece figure di vertice del sistema Onu continuano a negare il carattere terroristico di Hamas, è evidente che qualcuno intenda salvare i vertici di quell’organizzazione, anziché contribuire alla loro eliminazione o cattura. Ieri ad esempio era virale sui social l’incredibile performance televisiva di Martin Griffiths, sottosegretario generale Onu per le questioni umanitarie, che, parlando a Sky Uk, ha testualmente dichiarato: «Hamas non è un gruppo terroristico, è un movimento politico». Quarto - Con tassi maggiori o minori di buona fede, si continua a ripetere da più parti la soluzione dei «due stati». A parole, un’ottima prospettiva. Ma se uno dei due stati dovesse continuare a essere completamente controllato da un gruppo terroristico come Hamas, quale sarebbe la percorribilità dell’ipotesi e la possibilità di convivenza fianco a fianco delle due entità statuali? Nessuna, di tutta evidenza. Ecco perché sradicare Hamas è la precondizione per rendere possibili i due stati. Chi non lo comprende o è molto ingenuo o è molto complice. Tertium non datur.
Libero, 16 febbraio 2024)
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La pregiudiziale anti-israeliana della Chiesa di Francesco
di Niram Ferretti
Bisognerebbe chiedere a sua Eminenza Pietro Parolin, Segretario di Stato presso la Santa Sede, per il quale, in ossequio alla vulgata corrente “il diritto di Israele a difendersi non giustifica 30 mila morti”, quanti sono i morti giustificati dal diritto a difendersi di un paese aggredito come è accaduto a Israele il 7 ottobre scorso. Sarebbe finalmente il caso di uscire dalla demagogia più vieta e dire senza se e senza ma quello che si pensa, che Israele non ha il diritto di difendersi, come fa, senza alcuna vergogna, Francesca Albanese, relatore presso il Consiglio per i diritti umani all’ONU. Sarebbe un modo di fare chiarezza invece di nascondere il proprio pensiero dietro il velo dell’ipocrisia. A Parolin ha risposto duramente l’Ambasciata israeliana in Vaticano citando numeri.
«Secondo i dati disponibili, per ogni militante di Hamas ucciso hanno perso la vita tre civili. Tutte le vittime civili sono da piangere, ma nelle guerre e nelle operazioni passate delle forze Nato o delle forze occidentali in Siria, Iraq o Afghanistan, la proporzione era di 9 o 10 civili per ogni terrorista. Quindi, la percentuale dell’Idf nel tentativo di evitare la morte dei civili è circa 3 volte superiore, nonostante il campo di battaglia a Gaza sia molto più complicato». Questa è la realtà sul campo, questi sono i fatti, dunque no, non si tratta di un numero ingiustificato di morti, da cui vanno comunque detratti i diecimila jihadisti di Hamas, non si sa se “ingiustificati” anche essi per Parolin. La Chiesa di Roma ha già avuto modo di esprimere la sua posizione chiaramente spostata a favore del versante islamico, con un papa traccheggiante e incapace di mostrare ai “fratelli maggiori” ebrei una esplicita vicinanza dopo il maggiore eccidio di ebrei dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi. Se almeno avesse concesso loro una parte dello stesso caloroso afflato manifestato nei confronti di Ahmed al-Tayeb, Grande Imam di Al-Azhar, nella cui persona l’antisemitismo e l’antisionismo sono fusi in armonia perfetta, sarebbe stato già qualcosa al posto della freddezza rituale di frasi di pura circostanza. Dopo la kefiah indossata da Monsignor Pizzaballa a Betlemme per la Messa di Natale, dopo la salottiera disinvoltura con cui un altro porporato, Monsignor Ravasi, ha accusato Israele di applicare a Gaza la logica iperbolica e vendicativa del settanta volte sette, ora è il turno di Parolin. La linea ecclesiale romana è dunque, nelle alte sfere, inequivocabile, e non ci venga a dire Alberto Melloni, che pure dice diverse cose giuste in una intervista a Quotidiano Nazionale, che la “la Chiesa ha il dovere di non darsi pace per trovare la pace”, perché non può darsi pace vera e duratura a seguito di una guerra se chi l’ha iniziata non viene messo nella condizione di non perpetrare più ciò che ha fatto. La verità è che la guerra in corso ha agito da potente prova del nove anche per la Chiesa, riportando in superficie atteggiamenti e posizioni regressive che da lungo tempo non emergevano con questa frequenza, come ha fatto presente senza peli sulla lingua Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità di Roma . La pregiudiziale anti-israeliana della Chiesa post ratzingeriana, la Chiesa retta da Francesco, è esplicita e, inevitabilmente, si tira appresso come uno strascico consunto uno dei tropi inossidabili dell’antigiudaismo preconciliare, quello degli ebrei popolo violento e vendicativo. La finezza teologica di Benedetto XVI, il grande lavoro svolto con la sua opera in merito al rapporto problematico certo, ma indissolubilmente fecondo, tra ebraismo e cristianesimo, ha lasciato il posto a dichiarazioni allarmanti e puerili e ad atteggiamenti grossolanamente fuori luogo, di cui è facile prevedere il seguito.
(L'informale, 16 febbraio 2024)
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Parashà di Terumà: Da Sion uscirà la Torà e da Gerusalemme la parola dell’Eterno
di Donato Grosser
R. Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) nell’opera Divrè Aggadà (p. 183), in una derashà intitolata “Shte Mataròt ba-Mishkàn (Due obiettivi nel Mishkàn), cita il Midràsh (Tanchumà, Terumà, 8) dove i maestri citano il versetto “E mi costruiranno un Mikdàsh e risiederò in mezzo a loro” (Shemòt, 28:8) e affermano: “Affinché tutte le nazioni sappiano che l’affare del vitello (d’oro) è stato espiato; pertanto (il Mishkàn) è chiamato Mishkàn ha-‘edùt (tabernacolo della testimonianza), perché è una testimonianza a tutti i viventi che il Santo Benedetto risiede nel vostro Mikdàsh”.
La costruzione del Mishkàn aveva due obiettivi: uno esterno, per elevare l’onore di Israele agli occhi delle nazioni del mondo. Poiché videro il popolo d’Israele danzare attorno al vitello e prostrarsi a un dio fatto d’oro, essi pensarono che la Presenza divina si fosse allontanata da Israele. A tale fine vi fu il Mishkàn come testimonianza a tutto il mondo.
Il secondo obiettivo era interno. Era quello di avere un luogo dal quale la collettività d’Israele potesse trarre kedushà e spiritualità. Infatti l’Eterno disse a Moshè: “Là mi manifesterò a te. Parlerò con te al di sopra del coperchio […] tutto quello che ti comanderò per i figli d’Israele” (ibid., 25:22). Tutto il popolo d’Israele si radunava attorno al Mishkàn e da lì traeva spiritualità, Torà e mitzvòt.
Il Santo Benedetto non attese l’entrata nella terra di Canaan per dare la Torà al popolo d’Israele. E per quale motivo la Torà e le mitzvòt furono date nel deserto, in terra di nessuno? “Per insegnare che le parole della Torà sono liberamente accessibili a tutti coloro che le vogliono studiare” (Midràsh Tanchumà, Vayakhèl, 8). E questo per far sapere che la Torà appartiene a tutto il mondo […]. In modo simile il Santo Benedetto non attese che fosse costruito il Bet ha-Mikdàsh (a Gerusalemme), e pose le basi del Mikdàsh già nel deserto. Questo perché anche il Mikdàsh non appartiene a un luogo definito, ma è una luce per i popoli, come disse il navì (profeta) Yesha’yahu (Isaia, 2:3): “Molti popoli vi accorreranno, e diranno: Venite, saliamo al monte dell’Eterno, alla casa del Dio di Ya’akòv; Egli ci ammaestrerà intorno alle Sue vie, e noi cammineremo per i Suoi sentieri. Poiché da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola dell’Eterno”. Il Mishkàn nel deserto proclamava che la kedushà è liberamente accessibile a tutti.
Ed anche più tardi quando il Bet ha-Mikdàsh fu costruito a Gerusalemme da re Shelomò, non fu a caso che egli festeggiò l’inaugurazione del Mikdàsh proprio durante la festa di Sukkòt. In quei giorni infatti il popolo d’Israele portava come offerte settanta torelli come espiazione per le settanta nazioni del mondo (T.B., Sukkà, 55b). E così pregò il re Shelomò dopo il completamento della costruzione del Bet ha-Mikdàsh (I Melakhìm, 8: 39-42): “Ogni preghiera, ogni supplica che Ti sarà rivolta da un individuo o dall’intero Tuo popolo d’Israele […] Tu esaudiscila dal cielo, dal luogo della Tua dimora […]. Anche lo straniero, che non è del Tuo popolo d’Israele, quando verrà da un paese lontano a motivo del Tuo nome, perché si udrà parlare del Tuo gran nome, della Tua mano potente e del Tuo braccio disteso, quando verrà a pregarti in questa casa, Tu esaudiscilo dal cielo, dal luogo della Tua dimora, e concedi a questo straniero tutto quello che Ti domanderà, affinché tutti i popoli della terra conoscano il Tuo nome per temerTi, come fa il Tuo popolo d’Israele e sappiano che il Tuo nome è invocato su questa casa che io ho costruita!”.
(Shalom, 16 febbraio 2024)
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Parashà della settimana: Terumah (offerta)
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7 ottobre – Mieli: Abbiamo finanziato il terrore con gli occhi bendati
“Mi sento come un sasso rotolato fin qui dalla guerra”, racconta la giornalista ed ex parlamentare Fiamma Nirenstein presentando il suo ultimo libro 7 ottobre 2023. Israele brucia (ed. Giubilei Regnani) davanti alla platea del Maxxi di Roma. All’ingresso della struttura un piccolo gruppo di persone brandisce cartelli in cui si leggono frasi come “Free Palestine” e “Stop genocide”, slogan spesso ricorrenti nelle piazze italiane della contestazione contro Israele e talvolta anche in più elevati contesti. La sala è comunque gremita. “Il 7 ottobre abbiamo visto il ripresentarsi della Shoah. Non è una questione di numeri, ma di fatti: è stata una esibizione in cinemascope di quella che può essere la crudeltà umana, la volontà di sterminio degli ebrei, l’attacco all’Occidente”, sottolinea Nirenstein. “È stata inoltre una chiara rappresentazione di ciò che ci è stato promesso in quanto ebrei. Il 7 ottobre abbiamo scoperto che ‘never again’ era una favola”.
Accanto a Nirenstein siedono la presidente Ucei Noemi Di Segni e i giornalisti Giuliano Ferrara e Paolo Mieli, moderati dall’editore Francesco Giubilei. “In Italia, come purtroppo avevamo previsto, la fortissima comprensione verso Israele è durata 72 ore. Se l’ebreo è morto allora ‘viva l’ebreo’, il problema è quando l’ebreo si difende”, ha accusato Ferrara, che è stato tra i promotori della prima manifestazione di solidarietà allo Stato ebraico, svoltasi sotto l’Arco di Tito a Roma poche ore dopo il massacro. Secondo l’ex direttore del Foglio, dichiarando guerra ad Hamas, impostando il conflitto nel modo in cui si sta svolgendo, “il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto quello che avrebbero fatto anche Yitzhak Rabin, Golda Meir e qualunque altro primo ministro”.
Ferrara si è poi rammaricato perché il Parlamento italiano, invece di votare una mozione per il cessate il fuoco rivolta a Israele, non ha approvato un provvedimento “che chiede ad Hamas di arrendersi”. Mieli, nell’affermare che “fin quando non sarà restituito l’ultimo degli ostaggi, saremo ancora dentro il 7 ottobre”, ha puntato il dito contro le miopie di un Occidente incapace di leggere gli eventi e che ha foraggiato Hamas senza soluzione di continuità. “Ogni soldo dato a Gaza dal 2005 ad oggi”, ha evidenziato l’editorialista del Corriere della Sera, “è stato utilizzato per costruire delle gallerie armate, con la complicità delle Nazioni Unite: eppure nessuno ha visto niente”. Con l’inevitabile reazione militare per distruggere i vertici dell’organizzazione terroristica, ha poi aggiunto, Israele starebbe praticando il vero “mai più”. Un “mai più all’israeliana”, lontano dai riti istituzionali di alcune iniziative di Memoria “all’europea”.
Per la presidente Ucei chiedere a Israele il cessate il fuoco come ha fatto la politica italiana è “ingenuo e pericoloso”, anche perché non tiene conto del “dilemma morale che investe ogni israeliano e decisore politico” in ogni singola iniziativa adottata a Gaza. Un tema “che purtroppo non viene colto”, ha osservato con dispiacere. Così come non verrebbe colta “la pericolosità del fondamentalismo islamico anche qui da noi in Italia: forse solo le forze dell’ordine, che non ringrazieremo mai abbastanza, ne hanno cognizione”.
Altro tema affrontato da Di Segni “la delusione e il dolore” provati nell’ascolto di alcune risoluzioni da parte di organizzazioni internazionali “dalle quali ci si aspetterebbe oggettività e che sono invece appiattite su una tesi”.
(moked, 15 febbraio 2024)
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Giornalista palestinese: «Ecco come Hamas usa i civili come scudi umani»
La giornalista Jehad Saftawi, residente a Gaza, ha dichiarato martedì che l’organizzazione terroristica di Hamas utilizza i civili come scudi umani nella guerra contro Israele.
“I terroristi di Hamas hanno usato la mia famiglia e centinaia di nostri vicini come scudi umani. Hamas continua a tenere prigioniera la popolazione di Gaza”, ha scritto Saftawi su X. “Non si dovrebbe ricostruire la casa della mia famiglia mentre sotto di essa giace una scorta di armi”.
“Gli obiettivi, piuttosto che le cause, sono ciò che sta dietro alle guerre delle menti di Hamas. La ragione per rimuovere Hamas non è quella di alimentare l’escalation, ma di prevenirla, ed è per questo che non dovrebbe mai essere permesso loro di riprendere il controllo di Gaza”, ha continuato a dire. Saftawi ha poi ammesso che è la prima volta in più di 10 anni che “è stato in grado di parlarne pubblicamente”, affermando che si tratta di “un grido di riallineamento per la nostra società palestinese e di un appello alla comunità internazionale”.
In un articolo scritto per la rivista Time, il giornalista palestinese ha esordito dicendo che l’organizzazione terroristica “ha costruito dei tunnel sotto la casa della mia famiglia a Gaza. Ora giace in rovina”. Ha anche dichiarato che sono passati sette anni da quando è fuggito da Gaza, per poi rifugiarsi negli Stati Uniti.
Saftawi ha aggiunto che Gaza è stata “dominata dal caos terroristico” da quando Hamas ha preso il controllo della Striscia, affermando che l’organizzazione terroristica “ha continuato a normalizzare la violenza e la militarizzazione in ogni aspetto della vita pubblica e privata a Gaza”.
• COME HAMAS REQUISISCE LE CASE PER IL TERRORISMO
Il giornalista ha descritto come, mentre la casa della sua famiglia era in costruzione, uomini mascherati abbiano costruito una struttura sotterranea sotto l’abitazione, dicendogli che la struttura sarebbe rimasta sigillata a meno che non ci fosse stata un’invasione di terra israeliana. In quel caso la stanza sarebbe stata usata per immagazzinare armi.
“Negli anni successivi la mia famiglia o i vicini hanno sentito di tanto in tanto dei suoni o dei movimenti”, ha scritto Saftawi. “A volte si chiedevano se ci fossero davvero dei tunnel, se fossero attivi. La mia famiglia aveva troppa paura di parlarne con qualcuno, quindi era il nostro segreto. Ci sentivamo vergognosi, anche se sapevamo di essere profondamente contrari a qualsiasi cosa Hamas avesse fatto dall’altra parte di quella lastra di cemento”.
La famiglia di Saftawi è stata evacuata a sud poco dopo il 7 ottobre e da allora la sua casa e il suo quartiere sono stati trasformati in rovine.
“Forse non saprò mai se la casa è stata distrutta dagli attacchi israeliani o dai combattimenti tra Hamas e Israele. Ma il risultato è lo stesso. La nostra casa, e troppe altre della nostra comunità, sono state rase al suolo insieme a storia e ricordi inestimabili”, ha scritto il giornalista.
“Questa è l’eredità di Hamas. Hanno iniziato a distruggere la casa della mia famiglia nel 2013, quando hanno costruito dei tunnel sotto di essa. Hanno continuato a minacciare la nostra sicurezza per un decennio – abbiamo sempre saputo che avremmo potuto essere costretti a sgomberare in un momento. Abbiamo sempre temuto la violenza. I gazesi meritano un vero governo palestinese, che sostenga gli interessi dei suoi cittadini, non i terroristi che portano avanti i loro piani. Hamas non sta combattendo contro Israele. Sta distruggendo Gaza”, ha concluso Saftawi.
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Dal Jerusalem Post
(Rights Reporter, 15 febbraio 2024)
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Una nuova tratta, Israele ed Emirati bypassano il Mar Rosso e gli Houthi via terra
di David Fiorentini
La sostanziale riduzione del traffico marittimo attraverso il Mar Rosso, causata dai continui attacchi degli Houthi, ha spinto le aziende israeliane a sviluppare un’altra rotta che possa bypassare lo Yemen.
Le prime a esplorare questa possibilità sono state Mentfield Logistics e Trucknet, che in collaborazione con i porti di Dubai e Manama, sono riuscite a trasportare le merci via terra, attraversando l’Arabia Saudita e la Giordania fino in Israele.
Per evitare di destare sospetti ai controlli sauditi, che ancora non hanno normalizzato i rapporti con lo Stato ebraico, i prodotti sono etichettati come diretti alla loro tappa intermedia in Giordania, prima di essere caricati in altri camion verso il porto di Haifa.
Una soluzione che potrebbe ridurre notevolmente i costi di spedizione, impennati notevolmente dopo che gran parte delle navi cargo sono state costrette a circumnavigare l’Africa. Rispetto al passaggio da Capo di Buona Speranza, “la rotta via terra risparmia circa 20 giorni, sui 50-60 previsti” spiega Omer Izhari, CEO di Mentfield Logistics.
Collegando il Golfo Persico al Mar Mediterraneo, la nuova tratta potrebbe svoltare gli equilibri economici della regione, offrendo numerose opportunità al sicuro dell’influenza degli Houthi e dell’Iran.
Contemporaneamente, anche lo Stato di Israele si è attivato per sondare ulteriori passaggi, con il ministro dei Trasporti Miri Regev che durante la sua visita in India e Sri Lanka ha firmato un accordo sull’aviazione civile, ipotizzando un ponte aereo dal subcontinente alle porte dell’Europa.
(Shalom, 15 febbraio 2024)
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Scontro tra l’ambasciata israeliana in Santa sede e il Vaticano: “Deplorevole dichiarazione del cardinale Parolin sulla risposta di Israele a Gaza”
Nella nota l’ambasciatore scrive anche: “Cittadini di Gaza hanno partecipato attivamente all’invasione del 7 ottobre”. Sorpresa Oltretevere. Vatican News sottolinea la sintonia tra le parole del porporato e quelle di Edith Bruck
di Iacopo Scaramuzzi
Quando a sera esce dalla basilica di Santa Sabina sull’Aventino non ha voglia di commentare. A conclusione del mercoledì delle ceneri presieduto da papa Francesco il cardinale Pietro Parolin si infila in auto e taglia corto: «Non ho letto le dichiarazioni». Il tono è quaresimale. Appena un paio d’ore prima l’ambasciata di Israele presso la Santa Sede, guidata da Raphael Schutz, sferrava contro il Segretario di Stato vaticano una critica particolarmente irruenta delle sue parole del giorno prima («deplorevoli»). E dire che proprio lui, Parolin, in questi mesi ha cesellato una posizione di delicatissimo equilibrio tra la condanna dell’attacco «disumano» di Hamas il 7 ottobre e la protesta per i bombardamenti israeliani a Gaza.
• Una reazione sproporzionata All’origine dell’attacco dell’ambasciata israeliana ci sono le parole pronunciate dal cardinale all’uscita del bilaterale con l’Italia per l’anniversario dei Patti lateranensi, martedì sera. Il porporato veneto sottolinea la sintonia con Sergio Mattarella e il governo di Giorgia Meloni e i cronisti gli domandano delle dichiarazioni del giorno del ministro degli Esteri Tajani sulla reazione «sproporzionata» di Israele. Parolin espone la posizione assodata della Santa Sede: «Da una parte – dice – una condanna netta e senza riserve di quanto avvenuto il 7 ottobre, e qui lo ribadisco, una condanna netta e senza riserve di ogni tipo di antisemitismo, ma nello stesso tempo anche una richiesta perché il diritto alla difesa di Israele che è stato invocato per giustificare questa operazione sia proporzionato e certamente con 30 mila morti non lo è». Parolin cita Sant’Agostino per spiegare che «tutti siamo sdegnati per quanto sta succedendo, per questa carneficina, ma dobbiamo avere il coraggio di andare avanti e di non perdere la speranza».
• Le accuse di Israele È questa dichiarazione a essere bollata come «deplorevole» dall’ambasciata di Israele nel pomeriggio di ieri, mentre Parolin sale all’Aventino. In una nota durissima si legge che «giudicare la legittimità di una guerra senza tenere conto di tutte le circostanze e dati rilevanti porta inevitabilmente a conclusioni errate». La rappresentanza diplomatica puntualizza che i civili di Gaza hanno «partecipato attivamente all’invasione non provocata del 7 ottobre», sostiene che «la responsabilità della morte e della distruzione a Gaza» è «di Hamas e solo di Hamas», rivendica che le operazioni dell’esercito israeliano «si svolgono nel pieno rispetto del diritto internazionale» e sottolinea che rispetto agli interventi militari occidentali in Siria, Iraq e Afghanistan che hanno provocato la morte di «9 o 10 civili per ogni terrorista», a Gaza la proporzione è uno a tre.
• Quella sintonia con Edith Bruck Oltretevere si respira un’aria di sorpresa per un attacco di inusitata veemenza contro il primo ministro del Papa, che peraltro ha espresso una posizione che collima con quella dell’Italia e di numerose altre cancellerie. Praticamente negli stessi minuti in cui l’ambasciata israeliana dirama la sua nota, su Vatican News il direttore editoriale dei media vaticani, Andrea Tornielli, rilancia le parole di Parolin per spiegare che “per la Santa Sede la scelta di campo è sempre quella per le vittime. E dunque per gli israeliani massacrati in casa nei kibbutz mentre si accingevano a celebrare il giorno della Simchat Torah, per gli ostaggi strappati alle loro famiglie, come per i civili innocenti – un terzo dei quali bambini – uccisi dai bombardamenti a Gaza”. La posizione di Parolin, nota Tornielli, è simile a quella della scrittrice ebrea Edith Bruck. Ma ci vorrà tempo perché Israele e Santa Sede tornino a confrontarsi con serenità.
(la Repubblica, 14 febbraio 2024)
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Il rabbino Di Segni: “Basta diffamare. Slogan e luoghi comuni ignorano i fatti”
di Riccardo Di Segni
Caro Direttore, in momenti di crisi come questo si cita molto la frase, un po’ retorica ma molto consolatoria, che nei rovesci della sorte e nei problemi bisogna cogliere delle opportunità. Effettivamente un’opportunità ci sarebbe: resistere alla seduzione dei luoghi comuni, non seguire le idee, gli slogan e le ideologie appiattite alla moda. Sviluppare un senso critico. Cosa a cui dovrebbe educarci la scuola ma non so fino a che punto ci riesce. Una sfida che non molti raccolgono perché è certamente più comodo affogare nel trend generale. In questi giorni, tra le tante cose accadute, c’è stata una polemica intorno al Festival di Sanremo e la Rai. Qualcuno ha protestato perché è stato consentito a un cantante di parlare di “genocidio”, con un evidente riferimento a Gaza. Il problema non era che lui ne parlasse, ma che non vi fosse alcun contraddittorio e che le sue parole passassero come un messaggio di pace. Che invece di pace non è, è un linguaggio improprio, schierato, che sotto l’apparenza della misericordia e della condanna della guerra mescola le carte in tavola, sovverte la Storia. Contro chi ha protestato è stato evocato il diritto della libera parola, specialmente se si tratta di artisti, come se gli artisti avessero più diritti degli altri.
Certo che ci deve essere il diritto di parola. Ma l’ente pubblico pagato con le nostre tasse dovrebbero garantirlo a tutti. E quanto alla parola, chi la dice e chi l’ascolta, dovrebbe soppesarne la qualità. In una canzone non si possono fare ragionamenti filosofici, ma frasi come “ma qual è casa tua, ma qual è casa mia. Dal cielo è uguale, giuro” che hanno meritato la citazione del cardinale Ravasi su X, usando un po’ di quello spirito critico di cui si parlava prima, sembrerebbero proprio banali. Un giornalista, lodando la citazione cardinalizia, ha scritto che spesso esponenti della Chiesa sanno essere più liberali e moderni dei burocrati di Stato. È proprio qui il problema: siamo veramente sicuri che sia libertà la diffamazione senza diritto di replica e che certi concettini siano moderni?
Mi chiedo spesso, tanto più in questi ultimi mesi, da osservatore esterno e rispettoso, che però si trova coinvolto in questioni di relazioni interreligiose, quali siano le linee che guidano le posizioni prevalenti nella Chiesa Cattolica, in particolare nel conflitto di Gaza. C’è stato un continuo di dichiarazioni e di gesti dei massimi vertici e dall’altra parte una dinamica di appelli, proteste, polemiche, con conseguenti piccoli ritocchi e precisazioni. Ad esempio, a novembre c’è stata una lettera al Papa firmata da 400 esponenti religiosi ebraici, in cui gli si chiedeva una netta condanna del massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre, una condanna di coloro che negano il diritto di Israele ad esistere e difendersi, con una chiara distinzione tra il pogrom e l’autodifesa. La risposta si è fatta attendere, è arrivata il 2 febbraio, e accanto a una ferma condanna dell’antisemitismo ha omesso qualsiasi riferimento diretto a Hamas. Parlando del processo di pace ha scritto che “il maligno, utilizzando mezzi diversi, è riuscito a bloccarlo”. L’antisemitismo è un “peccato contro Dio”, ma come si esprime l’antisemitismo oggi? E chi è il “maligno”? Qui è un’espressione teologica che copre l’imbarazzo politico di chiamare le cose come stanno, quale che sia il vero pensiero.
Temo che nei ripetuti appelli della Chiesa alla pace, nella condanna della violenza di entrambe le parti che equipara tutti, nella condanna della reazione israeliana quale che fosse, già dall’indomani del 7 ottobre, vi sia l’espressione di un pensiero da una parte giustamente preoccupato, ma dall’altra un uso di luoghi comuni facilmente condivisibili che raccolgono ampi consensi, tuttavia lontani dalla realtà dei fatti. Davanti ai drammi e le sofferenze di tutti, lo spirito critico dovrebbe guidarci nel valutare cosa nascondono slogan e proclami, dove c’è una reale volontà di pace, e come poter essere insieme costruttori di pace.
(la Repubblica, 15 febbraio 2024)
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L’IDF pubblica un video di Sinwar in un tunnel sotto Khan Younis
di Michelle Zarfati
L’IDF ha pubblicato martedì sera un video che mostra il leader di Hamas Yahya Sinwar nella Striscia di Gaza mentre scappa attraverso un tunnel sotto Khan Younis con sua moglie e i suoi figli. Il video, ottenuto da una telecamera di sorveglianza, è datato 10 ottobre. Dall’inizio dell’operazione di terra a Gaza, l’IDF ha ottenuto diversi video del leader dell’organizzazione terroristica a Gaza, in cui viene ripreso all’interno dei tunnel costruiti da Hamas.
Mentre la delegazione israeliana affronta al Cairo le questioni riguardanti la negoziazione per il rilascio degli ostaggi e per un cessate il fuoco temporaneo a Gaza, l’establishment della sicurezza dell’IDF ritiene che il rilascio del video di Sinwar aumenterà la pressione su Hamas. Nelle ore precedenti alla diffusione della registrazione ha avuto luogo una lunga discussione circa il rilasciare o meno il video.
La questione avrebbe persino raggiunto la scrivania del primo ministro Benjamin Netanyahu – che avrebbe poi approvato il rilascio.
Nel video, Sinwar non sembra essere ferito, come riportavano invece alcune fonti.
Il portavoce dell’IDF Daniel Hagari ha rivelato che l’IDF avrebbe arrestato a Khan Younis i parenti degli alti funzionari di Hamas, compresi quelli dell’entourage di Sinwar. Hagari ha presentato la documentazione riguardante i tunnel sotto Khan Younis, che secondo l’IDF farebbero parte di una “rete di tunnel sotterranei ramificati di decine di chilometri”. Nel video Sinwar appare accompagnato da una donna e da alcuni bambini. “Siamo giunti al complesso dove Sinwar era nascosto. Mentre era al sicuro nei tunnel, sopra di lui si stava combattendo duramente. Lui era sotto al tunnel con soldi e cibo” ha detto Hagari.
Negli ultimi giorni, i rapporti israeliani hanno confermato che Sinwar sia stato estromesso dalla leadership di Hamas, fuori dalla Striscia di Gaza. Questo indica che non avrebbe partecipato alla scrittura della proposta che l’organizzazione terroristica ha presentato ai mediatori in merito all’accordo circa il rilascio degli ostaggi.
Sinwar, secondo alti funzionari israeliani starebbe correndo “da un tunnel all’altro tutto il tempo come un topo. È terrorizzato e si sposta in continuazione”. Questa non è la prima volta che l’operazione di terra dell’IDF nella Striscia di Gaza ha portato all’ottenimento di materiali di intelligence su alti funzionari di Hamas.
(Shalom, 14 febbraio 2024)
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Gaza, la sorella del capo di Hamas curata in un ospedale israeliano
Ha dato alla luce un bambino prematuro nell’ospedale di Beer Sheva
GERUSALEMME. La sorella di Ismail Hanyieh, il capo politico di Hamas, è stata curata da poco in un ospedale israeliano. Secondo quanto riferisce il Jerusalem Post, la donna sarebbe stata ricoverata nei giorni scorsi all'ospedale Soroka a Beer Sheva, nel sud di Israele, per una gravidanza a rischio. La donna ha dato alla luce un bambino prematuro, ricevendo cure salvavita. Un altro familiare di Ismail Hanyieh è stato ricoverato nel 2021 all'Ichilov, struttura ospedaliera di Tel Aviv.
Il leader di Hamas, che vive a Doha ed è considerato uno degli uomini più ricchi dell'area, ha tredici figli, due fratelli e otto sorelle, tre delle quali sono sposate a cittadini israeliani, beduini del Neghev, e vivono a Tel Sheva. Questi fanno parte di una delle più rispettate famiglie beduine, Abu Rakik.
Le tre sorelle di Hanyieh, non hanno cittadinanza Israeliana ma hanno il documento dei palestinesi residenti in Israele. La loro vita a Tel Sheva è sempre stata con profilo basso e riservato, evitando qualsiasi contatto con la stampa, rinunciando anche a festeggiare la nomina del fratello a primo ministro palestinese nel 2006 e poi leader di Hamas nel 2017.
Nel 2004, il capo di Hamas a Gaza, Yaya Sinwar, era recluso nelle carceri israeliane e, a seguito di problemi fisici, fu sottoposto a controlli medici che rivelarono la presenza di un tumore al cervello, che fu operato dai dottori del paese ebraico, salvandogli la vita. Sinwar è considerato la mente del massacro del sette ottobre.
(La Stampa, 14 febbraio 2024)
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C'è un errore su Gaza: il cessate il fuoco

di Mario Sechi
Il Parlamento italiano ha deciso che nella guerra tra Israele e Hamas è giunto il momento di un “cessate il fuoco”. La sintesi politica è questa: il Partito democratico ha presentato una mozione che è passata con il voto di Dem, Cinque Stelle e l’astensione del centrodestra. Il passaggio politico è stato siglato con un’intesa tra Giorgia Meloni e Elly Schlein, preceduto dalle dichiarazioni da “colomba” del ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Il premier e il segretario del Pd hanno messo il sigillo su una posizione (che dovrebbe basarsi su dei principi non negoziabili, immagino) che ha come centro di gravità la salvaguardia dei civili a Gaza e Rafah. L’iniziativa va inserita nello scenario di un pressing diplomatico, guidato dall’amministrazione Biden, sul governo israeliano e il suo primo ministro, Benjamin Netanyahu. È una linea “onusiana” che tende automaticamente a rimuovere la strage del 7 ottobre (e non a caso l’Onu fatica a ricordarla nei documenti ufficiali, perché è l’elemento scatenante della guerra), mette le belve di Hamas tra parentesi e si avventura in pericolose teorie sul “genocidio” dei palestinesi, una tesi vergognosa sul piano storico e del diritto. A questo punto, bisogna chiedersi se sia davvero questa la via per “vincere la pace”, perché la storia è una foresta di pugnali, di nobili intenzioni che poi si rivelano tragici errori. E temo che il governo, la maggioranza, non abbiano pensato alle inattese conseguenze di una scelta che apre la porta come minimo del “giustificazionismo” ai nemici di Israele.
Il rischio è quello di una nuova sindrome di Monaco. Cercare un “accomodamento” con il nemico, l’Idra dalle molte teste che sibila morte all’Occidente. Con un nemico letale, che in maniera esplicita programma e attua il genocidio del popolo ebraico (questo è successo il 7 ottobre), non ci sono possibilità di negoziato, Hamas deve essere eliminato. Questo è lo scopo della guerra.
Voltarsi indietro aiuta a capire. Non c’è peggior errore di una guerra non finita. O conclusa (male) con le premesse per innescarne un’altra ancora più grande. Non andrò indietro fino alle lezioni della rivalità tra Atene e Sparta, il Novecento e questi primi vent’anni del Duemila sono un memento. Un libro di ricordi prezioso e inquietante.
La storia è un pendolo di conflitti irrisolti: negli anni Novanta George Herbert Walker Bush non finì la guerra in Iraq contro Saddam (1990-1991), il conto con Baghdad rimase in sospeso e George Walker Bush (il figlio) dopo l’attacco alle Torri Gemelle (2001) invase l’Afghanistan (2001) tentando di porre le basi per un avamposto dell’Occidente in Medio Oriente con l’invasione dell’Iraq (2003). È una storia che arriva fino a oggi, con la tragica decisione di Joe Biden di ritirarsi dall’Afghanistan (2021, una ritirata che ha incoraggiato la Russia e la Cina), fino alla richiesta di questi giorni del governo iracheno di far partire le ultime truppe americane rimaste. E poi? Il vuoto, l’incognita dell’Iran che muove i fili delle milizie sciite in Iraq e muove i fili contro Israele. Ieri e oggi, un altro capitolo del romanzo su cui gli Stati Uniti non hanno messo il punto. A Washington furono colti di sorpresa dalla rivoluzione khomeinista (1978-1979), Jimmy Carter rovinò la presidenza con la crisi degli ostaggi (1979-1981), gli Stati Uniti provarono a piegare Teheran con le sanzioni, mentre Ronald Reagan era impegnato a far cadere il Muro di Berlino (1989) e domare l’Unione Sovietica fino alla sua dissoluzione (1991). Risultato, l’Iran oggi è l’officina di tutte le guerre: produce droni per la Russia nella guerra in Ucraina, muove Hezbollah, protegge Hamas, supporta i guerriglieri dello Yemen, alimenta la crisi del Mar Rosso. Il bersaglio siamo noi.
La storia è maestra inascoltata, le guerre vanno combattute fino in fondo. La Prima guerra mondiale fu il detonatore della Seconda, ne vide il bagliore in lontananza John Maynard Keynes che con profetica lucidità spiegò le conseguenze economiche della pace, perché la Germania avrebbe ricostruito e mosso di nuovo il suo esercito contro i vincitori dell’epoca. E fu lo sterminio, fu la Shoah, fu una guerra che non ha più testimoni in grado di risvegliare le coscienze. Stiamo scivolando al “se questo è un uomo” pensando che sia fiction e altro da noi. E non è “colpa degli ebrei”, frase che schiude la pianta carnivora dell’antisemitismo. È colpa nostra, perché non abbiamo chiuso bene le guerre, come avevano fatto Winston Churchill, Franklin Delano Roosevelt e Josif Stalin. Berlino non cadde con il negoziato, ma con la guerra degli Alleati. Il Giappone fu piegato dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. I conflitti sono orribili, in un mondo che si è illuso di poter cancellare il sacrificio e la morte, è tornato il Novecento di ferro e fuoco. E non sarà un voto in un Parlamento che cerca una pace in guanti bianchi a cancellare la realtà.
Libero, 14 febbraio 2024)
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La necessità di andare fino in fondo
di Niram Ferretti
Il coro è unanime e salmodia a voce univoca la parola “catastrofe”, una delle più gettonate dopo quella che non teme rivali, “genocidio”.
La catastrofe sarebbe quella che avrebbe luogo se Israele attaccasse Rafah, definitivo avamposto di Hamas ai confini con l’Egitto. Lì si trovano adunati gli ultimi battaglioni dell’organizzazione terrorista salafita, lì, con molte probabilità, c’è la parte più cospicua degli ostaggi ancora nelle loro mani, lì c’è l’alto addensamento umano degli sfollati. E sono loro, naturalmente, che preoccupano i genuini e frementi tutori dei diritti umani, i vari Borrell, Lazzarini, Parolin, altri, tutti preoccupati per la loro sorte.
Anche Hamas si preoccupa, come è noto ha sempre avuto una cura particolare per la propria popolazione e dunque sollecita il Sudafrica a ricorrere di nuovo alla Corte dell’Aia, perché intervenga contro il genocida. Va fermato, prima che continui nell’opera già attuata, il genocidio in corso a Gaza, dove, dopo quattro mesi, sarebbero morte trentamila persone di cui però diecimila andrebbero computati come jihadisti, quindi, sottraendoli, i morti sarebbero ventimila su due milioni e trecentomila abitanti della Striscia, neanche l’un percento. L’importante, tuttavia, è costruire una realtà parallela, è lo scopo primario della propaganda, dove, insieme a genocidi inesistenti convivono l’apartheid e la terra palestinese, mi raccomando, palestinese, che gli ebrei hanno rubato ai legittimi possessori.
In un recente articolo apparso su Tablet, , Edward Luttwak analizza l’efficacia inesorabile della macchina militare israeliana a Gaza:
“Indipendentemente da ciò che accadrà da ora in poi, i combattimenti a Gaza fino ad oggi sono stati un’eccezionale impresa militare. Una stima prudente – la più bassa che abbia visto – è che circa 10.000 combattenti di Hamas sono stati uccisi o resi disabili terminali, insieme a un numero identico di feriti che potrebbero o forse no combattere di nuovo in futuro. Il sensazionale rapporto di 1 a 50, o abbastanza prossimo, raggiunto dall’IDF nella lotta contro Hamas a Gaza è ancora più eccezionale per ragioni che né gli americani ufficiali né gli israeliani ufficiali si preoccupano di menzionare, anche se per ragioni diverse”.
Nessuno che sia dotato di senso della realtà e dunque sappia applicare il raziocinio in misura adeguata, è messo nelle condizioni di non capire che a fronte dei mezzi militari e umani dell’IDF, Hamas non può avere scampo. Il primo a saperlo è Hamas stesso. Da questa consapevolezza si origina il tentativo forsennato di bloccare politicamente l’offensiva israeliana, muovendo le piazze, muovendo l’ONU, muovendo la UE, muovendo paesi amici come il Sudafrica, muovendo alleati e simpatizzanti anche dentro il Dipartimento di Stato americano.
Il cessate il fuoco invocato a destra e manca è il salvacondotto di cui Hamas ha disperatamente bisogno per inceppare la guerra e fare sì che Israele, una volta interrotta, non possa più riprenderla. Le trattative sugli ostaggi rientrano in questa strategia, anche se finora le richieste di Hamas a Israele sono state così iperboliche da dovere essere respinte.
Il tempo scorre, è infatti, come in tutte le guerre, una questione di tempo.
A Mosul, nel 2017 l’assedio della città irachena dove si era asserragliato l’ISIS, durò nove mesi e costò secondo stime non ufficiali, tra i trenta e i quarantamila morti tra i civili, (nessuno profferì una sola volta la parola genocidio), ma a Mosul non c’erano ottocento chilometri di cunicoli e non c’era un addensamento umano come a Gaza.
Dopo quattro mesi, l’IDF, nelle condizioni date, ovvero tenendo conto del contesto operativo e delle limitazioni imposte, è avanzata spettacolarmente, con meno di trecento caduti a fronte di diecimila jihadisti uccisi. Ci vuole poco a comprendere chi sta vincendo e chi sta perdendo, anche se, la vittoria, è solo nel finale, ed è quella che molti, troppi non vogliono, tra cui anche gli Stati Uniti. Darebbe a Israele troppo lustro e autonomia, rafforzerebbe il governo in carica e dunque Netanyahu, quindi poco respiro avrebbe un futuro e fantomatico Stato palestinese imposto a spese della sicurezza di Israele e morirebbe in culla una coalizione jihadista a governo della Striscia. I progetti dell’Amministrazione Obama, pardon, Biden, sarebbero ridotti in trucioli.
A Benjamin Netanyahu tutto questo è assai chiaro, come gli è chiaro che a Rafah occorre entrare se davvero vuole vincere e “riparare” alla tragedia immane del 7 ottobre scorso.
(L'informale, 14 febbraio 2024)
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Salvare gli ostaggi
di Rav Somekh
Mentre prosegue nella Striscia di Gaza la controffensiva israeliana sempre più a sud verso il confine egiziano, si intensificano le pressioni internazionali affinché il governo di Benjamin Netanyahu si pieghi a una richiesta di cessate il fuoco definitivo. I palestinesi offrirebbero la liberazione degli ostaggi tuttora in mano di Hamas in cambio del ritiro totale delle forze militari dall’area e il rilascio di un numero spropositato di terroristi attualmente detenuti nelle carceri israeliane per crimini anche molto gravi. Ciò pone un dilemma: cedere per salvare gli ostaggi o preferire la sicurezza dello Stato? Molte considerazioni che seguono sono tratte dal saggio intitolato “Mishnat Chassidim: Minaccia collettiva e sopravvivenza individuale” che pubblicai nel 5778-2018 sul n. 12 della rivista “Segulat Israel”, al quale rimando senz’altro per le fonti e gli approfondimenti.
Del Pidyon Shevuyim Maimonide scrive che “ha la precedenza sulla beneficenza ai poveri e sull’obbligo di dar loro da vestire. Non c’è Mitzwah più grande che riscattare i prigionieri” (Mishneh Torah, Hilkhot Mattenot ‘Aniyim 8, 10-11). Con tutto ciò la Mishnah (Ghittin 4, 6) stabilisce che “i prigionieri non possono essere riscattati oltre il loro valore, per il bene del mondo (mi-ppenè tiqqun ha-’olam)”. Il Talmud spiega questa disposizione con l’esigenza di non incoraggiare i nemici a perpetrare il crimine per l’avvenire, sapendo di poter contare sulla disponibilità economica degli ebrei. È nota la storia di R. Meir di Rothenburg (fine XIII secolo), che proibì ai suoi discepoli di riscattarlo e finì i suoi giorni in prigionia. Va notato, peraltro, che queste fonti si riferiscono a rapimenti a scopo di estorsione, casi lontani dalla situazione attuale relativa agli ostaggi.
Il Talmud Yerushalmì, Terumot, 8, scrive: “Se un gruppo di viandanti (ebrei) si imbatte negli stranieri che dicono loro: ‘Consegnateci uno di voi e lo uccideremo, altrimenti vi uccidiamo tutti’, si lascino uccidere tutti ma non consegnino un’anima in Israel”. Il principio halakhico è che non si sacrifica un’anima al posto di un’altra (eyn dochin nefesh mi-penè nefesh) e pertanto non abbiamo il diritto di consegnare qualcun altro per salvare noi stessi. La ragione è ben espressa dal detto talmudico: “Forse che il tuo sangue è più rosso del suo?” (Pessachim 25b, Sanhedrin 74a). Lo scopo di questa resistenza è anche dimostrare che ogni singola vita ebraica ha per noi importanza e siamo pronti a combattere per essa. “Se però (gli stranieri) hanno indicato per nome uno degli ebrei come era accaduto con Sheva’ ben Bikhrì e abbiano detto: ‘Consegnateci il tale, altrimenti vi uccideremo tutti’, in questo caso è permesso consegnare la persona indicata per salvare le altre”. Dal momento che il soggetto designato è destinato a morire comunque, qui non si sacrifica più un’anima per un’altra. Lungi dall’essere una consegna forzata, lo si convince a farsi avanti per risparmiare la vita di tutti gli altri. Non solo. L’episodio cui il Talmud si riferisce è narrato in 2 Shemuel, 20: Sheva’ ben Bikhrì era passibile di morte per essersi ribellato contro il re David e si era barricato entro le mura di Avèl Bet Ma’akhah. Quando Yoav generale del re mise l’assedio alla città si fece avanti una “donna saggia” nell’intento di trattare con lui la liberazione. Yoav le spiegò di essere alla ricerca di Sheva’ in quanto “aveva levato la sua mano contro il re”. La donna fece uccidere Sheva’ dagli abitanti della città, ne consegnò la testa a Yoav e l’assedio fu tolto.
Neanche questa fonte è sufficiente per dirimere il nostro interrogativo. A differenza di Sheva’ ben Bikhrì i nostri ostaggi odierni non hanno commesso nessun crimine da espiare con la pena capitale. D’altronde non si tratta di consegnarli: essi si trovano già nelle mani di Hamas. Forse possiamo confrontarci con un altro famoso brano, tratto questa volta dal Talmud Bavlì: “Due individui sono in viaggio e uno dei due è provvisto di una borraccia d’acqua: se bevono entrambi muoiono, mentre se beve uno solo dei due ha la possibilità di raggiungere l’abitato più vicino. Ben Petorà interpretava che è meglio che entrambi bevano e muoiano piuttosto che uno debba assistere alla morte dell’altro. Finché giunse R. ‘Aqivà e insegnò: ‘La vita di tuo fratello è con te (ma non più di te)’ (Wayqrà 25, 36): la tua vita ha la precedenza su quella di tuo fratello” (Bavà Metzi’à 62a). Anche in questo caso la controversia riguarda la sopravvivenza individuale a fronte della morte collettiva, ma la Halakhah è stata stabilita secondo R. ‘Aqivà. Qual è la ragione della differenza? “L’apparente contraddizione può essere risolta facendo una distinzione fra consegna attiva (chiyuv o ma’asseh) e consegna passiva (shelilah o meni’ah). Se si segue la logica di R. ‘Aqivà e non si passa la borraccia dell’acqua al compagno, la morte di quest’ultimo è semplicemente la conseguenza passiva di un’azione mancata. All’opposto consegnare un’anima ebraica agli assassini è provocarne attivamente la morte. Ecco perché in quest’ultimo caso il principio per cui ‘la tua vita ha la precedenza’ non vale. È meglio morire piuttosto che consegnare alla morte il proprio fratello” (Rav M.A. Amiel, “Ethics and Legality in Jewish Law”, Amiel Library, Gerusalemme, 1992, p. 67 – ingl.).
A proposito del principio “Non si sacrifica una vita al posto di un’altra” si può citare il caso di Entebbe. Il 4 luglio 1976 l’esercito israeliano intervenne con la forza a salvare gli ostaggi di un volo dirottato da terroristi che avevano condizionato la loro liberazione al rilascio di detenuti pericolosi per la sicurezza internazionale. La vicenda pose almeno due ordini di problemi:
- è lecito aderire alla richiesta di scarcerare dei terroristi per non mettere a repentaglio le vite di ostaggi innocenti?
- è lecito mettere a repentaglio le vite dei soldati al posto di quelle degli ostaggi?
R. ‘Ovadyah Yossef, allora Rabbino Capo sefardita dello Stato d’Israele, rispose ad entrambe le domande in senso affermativo, invocando il medesimo principio: si ha l’obbligo di mettere a rischio eventuale la propria vita per salvare altri da morte certa. Ciò comporta il permesso di liberare terroristi che in futuro potrebbero attentare a vite umane a fronte dell’imminente esecuzione degli ostaggi. Quanto all’azione dell’esercito, si è esenti dall’intervenire in aiuto della vita altrui solo se il rischio della propria è significativo. In caso contrario esiste l’obbligo di farlo.
Si può obiettare anche a questo proposito che la situazione oggi è cambiata sotto almeno tre aspetti.
- Le fonti antiche si riferiscono per lo più a episodi localizzati, senza una ricaduta sull’intero popolo ebraico.
- Oggi c’è una guerra in corso. Le operazioni militari a Gaza non hanno solo lo scopo di liberare gli ostaggi e di punire i responsabili del loro sequestro, ma anche esercitare un’azione deterrente e soprattutto impedire che gli attacchi continuino e si ripetano in futuro.
- Il punto a mio avviso giuridicamente più rilevante è però il seguente: non abbiamo alcuna garanzia dello stato di salute degli ostaggi, possiamo ancora ritenerli be-chezqat chayyim (“nella presunzione halakhica di vitalità”)?
Pur augurandoci che siano ancora vivi, provati da oltre quattro mesi di quel tipo di prigionia potrebbero trovarsi ridotti allo status halakhico di terefah (“malato terminale”), o meglio di gosses bidè adam (“agonizzante per colpa dell’uomo”). Se in altre condizioni la Mishnah (Yomà 8, 7) stabilisce che per salvare chi è finito sotto le macerie si scava di Shabbat anche se la speranza di ritrovarlo in vita è estremamente tenue e se sopravvivrà pochi istanti soltanto, nel nostro caso si pone la domanda se la salvaguardia dell’intera popolazione non diventi una priorità rispetto al salvataggio di queste persone a ogni costo.
Sulla base di un episodio occorso a ‘Ullà (Nedarim 22a) una serie di Maestri stabilisce che è permesso a un gruppo di ebrei aggredito da un nemico sanguinario sacrificare uno di loro che sia una terefah piuttosto che venire uccisi (Meirì a Sanhedrin 72b; Minchat Chinnukh, prec. 296; cfr. anche Tif’eret Israel a Mishnah Yomà 8). Ma non tutti sono d’accordo. R. Yechezqel Landau (Praga, sec. XVII) scrive testualmente: “Non si è mai sentito che sia permesso sacrificare una terefah per salvare la vita di un individuo shalem” (“in salute”; Resp. Nodà bi-Yhudah, Mahadurà Tinyanà, Choshen Mishpat n. 59)!
Qui mi fermo: non spetta a me andare oltre una semplice presentazione dei dati principali del dilemma. Che H. ispiri nei governanti la giusta decisione! Mi limito solo a due raccomandazioni. La prima è legata alla Mitzwah del Qiddush ha-Shem (“santificazione del Nome”). Che la linea intrapresa, quale che sia, non sia fonte di ulteriori divisioni nella nostra compagine. Eviteremo il gioco dei nostri nemici i quali, spingendoci all’odio reciproco e alla lite, mettono a repentaglio di proposito l’unità della comunità ebraica. E soprattutto ricordiamoci che ciascun essere umano è stato creato a immagine divina e pertanto ogni singola personalità è dotata di valore infinito.. La somma di più infiniti non può essere maggiore di un solo infinito. Il popolo ebraico non è mai la semplice somma aritmetica dei suoi membri presi indipendentemente l’uno dall’altro, bensì è un organismo in cui ciascuno è indispensabile. Per l’avvenire auspichiamo solo buone notizie!
(moked, 12 febbraio 2024)
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“Non conosco una storia più vincente, anche se nel dolore, di quella di Israele e del popolo ebraico”
di Davide Romano
Contrariamente a tanti giornalisti che si danno alla politica, lui ha fatto il percorso inverso, passando da fare il politico (eletto in Parlamento una prima volta con i Radicali, e poi un’altra con il PDL di Berlusconi) alla direzione editoriale di un giornale come Libero. In questi cambiamenti lavorativi ha sempre mantenuto salda la sua appartenenza al mondo Occidentale, e in particolare agli USA e Israele. E proprio da qui vogliamo iniziare questa intervista a Daniele Capezzone.
- Ci racconta come nasce il suo rapporto con Israele e il mondo ebraico? Sorridendo, potrei dire che nel mio percorso, da quando avevo poco più di vent’anni fino a oggi, mi sono comportato come quegli uccelli che ripetono sempre lo stesso verso, magari modulandolo appena un poco. Scherzi a parte, sono orgogliosamente occidentale; ritengo che l’esperimento “democrazia politica più mercato”, pur pieno di difetti, sia la cosa migliore inventata dagli esseri umani per convivere; e sono convinto che questo modello andrebbe fatto conoscere e promosso (concetto diverso da “esportato”). Israele è l’incarnazione di questo miracolo realizzato peraltro nel contesto più difficile.
- Il giornale che dirige è così schierato dalla parte delle democrazie e contro le dittature, da potere apparire come un quotidiano di minoranze fastidiose. Un po’ come vengono percepite ultimamente le comunità ebraiche a causa del loro sostegno a Israele. Secondo lei l’opinione pubblica si è davvero bevuta tutta la disinformazione anti-israeliana, o crede che la “maggioranza silenziosa” degli italiani resti dalla parte di Israele nella sua lotta contro il terrorismo islamico? Si mescolano molte cose. Da un lato certamente molta cattiva informazione, e forse anche qualche detestabile pregiudizio che di tanto in tanto carsicamente riaffiora. Dall’altro c’è però qualcosa che va umanamente compreso, e cioè la paura delle persone normali verso la guerra. C’è l’illusione – di questo si tratta – che la dimensione antagonista e l’eventualità bellica possano essere cancellate dal nostro orizzonte. Ecco, invece si tratta di spiegare alle persone in buona fede che purtroppo le cose non stanno così, e che nei prossimi lustri il mondo promette di essere un posto difficile e insicuro, carico di insidie. Il motto da tenere presente è “estote parati”, siate pronti, in ogni senso.
- La politica italiana sta cambiando, proprio a partire da Israele. A destra abbiamo scoperto una premier Meloni sempre più filoisraeliana (e filo USA), mentre a sinistra il PD della Schlein sta tornando a una politica anti-israeliana (e anti occidentale, si vedano anche le posizioni sempre meno vicine al popolo ucraino). Come spiega questi cambiamenti? Anche il centrodestra, in alcune sue aree, ha di tanto in tanto delle scivolate: ma complessivamente il posizionamento del governo in politica estera è eccellente. Dall’altra parte, invece, la sinistra vive indubbiamente contraddizioni ben maggiori e decisamente più lancinanti. Si paga il prezzo di un lungo viaggio antioccidentale – io lo chiamo così – che ha portato spezzoni del mondo progressista, negli ultimi trent’anni, a simpatizzare con qualunque posizione o istanza, nel mondo, esprimesse pulsioni anti-Occidente: terzomondismo, generica contestazione anti-Usa e anti-Anglosfera, presentazione dell’Islam come “religione di pace” e negazione/rimozione degli aspetti meno rassicuranti di tante situazioni. Poi però la realtà si incarica di presentare il conto e i nodi arrivano al pettine…
- Prima di intervistarla ho voluto sentire amici correligionari, per sapere come la valutano quando va in Tv a difendere Israele. I pareri vanno da: “finalmente uno che sa difendere Israele e sbugiardare la propaganda palestinese in maniera efficace” al meno entusiasta “Non è della mia parte politica, ma quando parla di Israele è bravo”. Insomma, nel merito, tutti riconoscono la sua preparazione sul tema. Cosa risponde ai più critici? Credo molto semplicemente che gli amici sinceri si valutino nelle giornate difficili, nei giorni di pioggia, chiamiamoli così. Raramente o mai mi vedrete nei giorni in cui tutti – a parole – manifestano vicinanza: sono ormai sufficientemente vecchio per sapere che quelle sono le circostanze in cui le parole valgono poco e pesano ancora di meno. Gli amici di Israele li vedi nelle giornate in cui il fuoco mediatico ostile è scatenato…
- Il mondo della cultura italiano (e Occidentale in generale) sta rivelando un conformismo inquietante: dal mondo universitario a quello dei media (e per carità di Patria non citiamo alcuni sacerdoti cattolici), c’è un profluvio di parole malate contro ebrei e Israele a partire dal conflitto a Gaza: “genocidio del popolo palestinese”, “Israele Stato di apartheid”, il Gesù bambino che da ebreo diventa palestinese con tanto di Kefiah, paragoni tra Israele e il nazismo….com’è possibile che la realtà venga così tanto stravolta? Non c’è da perdere la calma né da disperarsi. C’è da rispondere punto su punto. In questo – per paradosso – anche le giornate più brutte che abbiamo alle spalle hanno un valore e un significato: quello di fungere da “eye-opener”, da circostanza rivelatrice, direi perfino disvelante, delle pulsioni con cui dobbiamo misurarci e delle ipocrisie di chi se ne fa interprete. Pensiamo alla sequenza temporale post 7 ottobre: per 24-36 ore c’era apparente unanimità, poi sono subito cominciati i distinguo, i “ma”, i “però”. Tocca a noi, in quei momenti, con calma e determinazione, smontare quelle furbizie.
- L’ONU sta mostrando il suo volto peggiore, in questi mesi di guerra. Il processo a Israele presso il Tribunale internazionale dell’Aja, lo scandalo dell’UNRWA, il numero spropositato di condanne ONU contro Israele. E dall’altra parte anche l’Unione Europea – che contrariamente all’Onu non ha una maggioranza di dittature – che continua a parteggiare per le dittature palestinesi. Come spiega questa deriva delle istituzioni internazionali? È così da molto tempo. Le Nazioni Unite sono da anni uno spazio in cui le dittature si trovano a proprio agio, collaborano tra loro in modo sempre più esplicito e scoperto. Il coinvolgimento dei famigerati dipendenti UNRWA nel 7 ottobre non è un tumore isolato e imprevedibile, ma solo una delle metastasi della malattia principale. Come si fa ad accettare l’idea che Israele, sia in Assemblea generale sia nel Consiglio per i diritti umani, abbia accumulato più condanne e risoluzioni ostili di tutti gli altri paesi messi insieme, inclusi gli stati canaglia?
- Le illustro infine alcune domande che girano all’interno del mondo ebraico per chiederle non necessariamente delle risposte, ma anche una riflessione generale: cosa possiamo fare? Siamo soli contro tutti? È il caso di mollare tutto e andare a vivere in Israele? L’immigrazione islamica nei prossimi anni ci metterà in pericolo come succede in Francia? Passata la guerra tornerà tutto come prima? Da sempre siamo vicini a minoranze come neri e LGBT, perché proprio loro ci continuano ad attaccare? Non c’è dubbio: viviamo tempi oscuri, per alcuni versi imperscrutabili, e non ha senso negare o attenuare le ragioni di inquietudine che tutti avvertiamo. L’Occidente è in preda a un odio di sé che fa letteralmente paura. Ciò detto, non si deve avere un atteggiamento negativo o da sconfitti della storia: vale esattamente il contrario, nel senso che non conosco una storia più vincente – anche se nel dolore – di quella di Israele e del popolo ebraico.
(Bet Magazine Mosaico, 14 febbraio 2024)
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L'incubo di una famiglia israeliana è terminato
Con il drammatico salvataggio di Louis Har e Fernando Marman, gli ultimi due dei cinque membri della famiglia di Idan Bejerano, catturati da Hamas il 7 ottobre, si sono riuniti ai loro cari.
di Amelie Botbol
GERUSALEMME - Il 12 febbraio, il desiderio di Idan Bejerano si è avverato: In un'audace operazione a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, le forze israeliane hanno salvato gli ultimi due membri della sua famiglia allargata, Fernando Simon Marman, 60 anni, e Louis Har, 70 anni, che erano stati presi in ostaggio da Hamas il 7 ottobre.
Quando Hamas ha invaso il Negev nord-occidentale il 7 ottobre, Fernando Marman, 61 anni, e il suocero di Bejerano, Louis Har, 70 anni, sono stati rapiti dal Kibbutz Nir Yitzhak insieme ad altri tre membri della famiglia: la compagna di Har, Clara Marman, sua sorella Gabriela Leimberg e Mia Leimberg, figlia di Gabriela. Tutte e tre le donne sono state rilasciate il 28 novembre, insieme al cane Bella di Mia Leimberg, nell'ambito di un accordo di cessate il fuoco di una settimana tra Israele e Hamas, mentre Marman e Har sono rimasti in prigionia per altri 76 giorni, per un totale di 129 giorni di prigionia di Hamas.
In un'intervista rilasciata a JNS durante una manifestazione di 24 ore nella "Piazza degli ostaggi" di Tel Aviv nel 100° giorno della presa di ostaggi, Bejenaro, il genero di Louis Har, ha detto: "Louis, Fernando, siamo preoccupati per te. Ci manchi. Vogliamo che torniate a casa il prima possibile. Per favore, tornate subito".
Dopo aver parlato alla folla e aver fatto un giro della piazza, ha detto: "È commovente vedere tanto sostegno". .... Ci sono così tante persone".
Marman e Har, che sono stati riuniti con le loro famiglie presso il centro medico Sheba Tel Hashomer di Ramat Gan, hanno detto di essere stati tenuti prigionieri nella casa di una famiglia a Rafah, ha riferito il portale di notizie Ynet.
Har è stato accolto a Sheba dai suoi quattro figli e dieci nipoti, una riunione che Bejerano ha descritto ai media israeliani come un momento di gioia e ottimismo.
Mentre Bejerano aveva espresso preoccupazione per l'alta pressione sanguigna di Har e per il fatto che deve dormire con una maschera di ossigeno, i due ostaggi sono in buone condizioni mediche, secondo le Forze di Difesa israeliane.
Tuttavia, Marman non è l'unico ostaggio con condizioni mediche preesistenti e, sebbene siano stati fatti tentativi di inviare farmaci ai prigionieri attraverso la Croce Rossa, non è chiaro se siano arrivati.
"Si sta discutendo di portare medicine a Gaza. È una buona cosa, ma è come curare una vena scoppiata con un cerotto. Non è sufficiente", ha detto Bejerano a JNS durante la manifestazione del mese scorso.
In una dichiarazione alla stampa dopo l'operazione di salvataggio, il "Forum degli ostaggi e delle famiglie disperse" ha affermato: "Ci congratuliamo con i soldati dell'IDF che hanno dimostrato forza e coraggio nel liberare i due ostaggi, e auguriamo a tutti loro un sicuro e rapido ritorno a casa".
La dichiarazione continua: "Il tempo sta per scadere per gli altri ostaggi detenuti da Hamas. Le loro vite sono in pericolo da un momento all'altro. Il governo israeliano deve esaurire tutte le possibilità per liberarli". La vita di 134 ostaggi è ancora in bilico".
L'operazione di salvataggio è avvenuta mentre Israele si preparava a inviare una delegazione al Cairo questa settimana per discutere un nuovo accordo sugli ostaggi con i rappresentanti di Stati Uniti, Egitto e Qatar.
Domenica, il ministro della Difesa israeliano Yoav Galant ha dichiarato che le informazioni raccolte dall'IDF a Gaza hanno reso possibile un accordo "realistico".
"Abbiamo penetrato le aree più vulnerabili di Hamas e stiamo usando la loro intelligence contro di loro", ha detto Galant. "Più approfondiamo questa operazione, più ci avviciniamo a un accordo realistico per la restituzione degli ostaggi".
Domenica è emersa anche la notizia che l'Egitto aveva avvertito Hamas di accettare un accordo sugli ostaggi con Gerusalemme entro due settimane per evitare un'operazione dell'IDF a Rafah, l'ultima roccaforte del gruppo terroristico nella Striscia di Gaza.
(Israel Heute, 13 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Che cosa insegna la liberazione dei due rapiti a Rafah
di Ugo Volli
• Chi sono i liberati
L’azione coraggiosa e ben organizzata che ha portato alla liberazione dei due rapiti il 7 ottobre riempie di orgoglio e dà soddisfazione in un momento molto difficile per Israele. Ma soprattutto insegna alcune cose che vanno contro la propaganda di Hamas e di coloro che vorrebbero fermare l’autodifesa di Israele. Vale la pena di mettere in chiaro questi insegnamenti anche per contrastare le insensatezze sul “genocidio di Gaza” che vengono propalate continuamente. Il primo insegnamento riguarda i liberati uno sessantunenne e uno settantenne. Non sono prigionieri di guerra perché hanno da tempo superato l’età limite del militare, non sono ostaggi come si usa dire ma rapiti, sequestrati, esseri umani rubati alla propria libertà.
• La complicità e lo sfruttamento dei civili
Il secondo insegnamento è che i due erano trattenuti in un appartamento normale, custoditi “da una famiglia”; dunque almeno parte delle persone rapite il 7 ottobre sono disperse in mezzo alla popolazione civile. Si sapeva già di rapiti tenuti nella soffitta di un insegnante dell’Unrwa e in uno sgabuzzino di un medico. Ora questo caso conferma che vi è un’osmosi fra i terroristi di Hamas e la gente “normale” di Gaza, sia perché vi sono fra i “civili” non pochi collaborazionisti ai crimini dei terroristi; sia perché gli abitanti di Gaza sono usati dai terroristi sempre e comunque come scudi umani. In un comunicato di Hamas si parla di cento morti provocati dalla liberazione dei sequestrati. Probabilmente la cifra vera è poco superiore alla metà; ma chi ha causato queste perdite sono gli atti illegali dei terroristi: innanzitutto il rapimento di anziani civili sottratti con terribile violenza alle loro case in territorio israeliano, deportati, rinchiusi, umiliati e maltrattati; ma anche il fatto di averli rinchiusi in mezzo a normali case d’abitazione, da cui si è sparato sulle truppe venute a liberare i sequestrati.
• La necessità di espugnare Rafah
Il terzo insegnamento è che ormai ci sono pochi posti non esplorati dall’esercito israeliano e qui si trovano i rapiti. Il principale è Rafah, al confine con l’Egitto. È in questa città che probabilmente sono concentrati oggi gli israeliani rapiti, ma anche i dirigenti di Hamas e certamente le loro truppe. Chi cerca di impedire alle forze israeliane di entrare in questi luoghi, che se ne renda conto o meno, lavora perché i sequestrati restino in mano ai terroristi, che le forze di questi ultimi non siano distrutte, che i loro dirigenti possano continuare a ordinare nuovi crimini; in una parola, come ha detto Netanyahu, cerca di assicurare la sconfitta di Israele, che invece è vicino alla vittoria. È sbagliato pensare che la trattativa coi terroristi sia la sola strada per risolvere il tormento dei rapiti. Al contrario, solo la pressione militare li può liberare, sia direttamente come è accaduto questa volta, sia ammorbidendo le loro pretese, come accadde a novembre.
• La superiorità dei reparti speciali
Il quarto punto è che le truppe israeliane, in particolare in questo caso i reparti speciali di Yamam e Shayetet 13 che hanno fatto irruzione nell’appartamento dove erano detenuti i due rapiti, sono straordinariamente abili ed eroici: non hanno subito perdite né feriti, i due vecchi liberati non hanno riportato danni, l’operazione molto complessa che ha compreso l’uso dell’aviazione per creare diversioni, dei carri per vincere il fuoco dalle case nemiche, di un elicottero per portare a casa i liberati, ha funzionato perfettamente. Questo è il tipo di superiorità di cui i reparti speciali danno prova quotidianamente in Giudea e Samaria e che era rimasto in sottofondo nell’operazione di Gaza, perché era mancato un ingrediente fondamentale che normalmente Israele sa trovare molto bene: l’informazione. Ora sembra che ricomincino a pervenire le notizie sulla collocazione dei reparti nemici e sulle infrastruttura rilevanti del terrorismo, dei rapiti. Lo prova anche la scoperta del centro elettronico di comando sotto la sede dell’Unrwa, a Gaza City. È su di loro e sulla capacità del governo di resistere alle pressioni che si basa la speranza di vittoria di Israele.
(Shalom, 13 febbraio 2024)
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Il reporter di Al Jazeera è uno dei capi di Hamas
di Carlo Nicolato
Al Jazeera è da sempre, fin da quando è nata a fine anni ‘90, il megafono di Hamas, l’esegeta delle gesta dei criminali che combattono contro Israele e il principale accusatore dello Stato ebraico. Finora tuttavia non si era mai trovato un collegamento così diretto tra l’emittente e il gruppo terroristico come quello scovato dall’esercito israeliano in un computer portatile requisito in una base di Hamas le scorse settimane, la prova inconfutabile che l’uno è parte integrante dell’altro.
Si è scoperto infatti che tale pc apparteneva a Mohamed Washah, giornalista che negli ultimi mesi è apparso con regolarità nelle trasmissioni sulla guerra israelo-palestinese di Al Jazeera e che nel contempo risulta essere un comandante di spicco delle unità anticarro dell’organizzazione terroristica. Come ha detto il tenente colonnello AvichayAdraee, portavoce in lingua araba dell’Idf, in un post sulla piattaforma di social media X, Washah «al mattino è un giornalista di Al Jazeera e la sera è un terrorista di Hamas!».
• DOTTOR JEKYLL
Una specie di dottor Jekyll e mister Hyde inchiodato dal ritrovamento nello stesso laptop di numerose immagini che lo immortalano mentre si addestra nell’uso di armi anticarro e nell’utilizzo dei droni. I documenti del pc provano tra l’altro che Washah ha iniziato a lavorare nel gruppo di ricerca e sviluppo per l’unità aerea di Hamas già nel 2022. «Chissà quanti altri dettagli scopriremo sui terroristi travestiti da giornalisti» ha aggiunto nel suo post il portavoce israeliano.
E c’è da credere che tali dettagli non tarderanno ad arrivare, gli arabi ne sono sicuri.
Le principali accuse contro Al Jazeera infatti arrivano dallo stesso mondo arabo che imputa l’emittente di essere non solo la spalla di Hamas, ma anche e soprattutto, attraverso il Qatar, lo zerbino degli ayatollah iraniani. Qualche settimana fa il direttore del Baghdad Post Sufian Al Samarrai si scagliava contro Al Jazeera definendolo «il canale di Al Qaradawi e di Khamenei, che pretende di essere islamico». E, citando l’episodio del razzo della jihad islamica finito sull’ospedale di Gaza che Al Jazeera ha subito addebitato a Israele, l’accusava di «aver seminato l’inganno nelle strade musulmane con l’obiettivo di gettare le persone nella trappola delle bande terroristiche e reclutare jihadisti criminali». Il 3 novembre scorso lo stesso Al Samarrai, commentando il discorso di Nasrallah trasmesso integralmente dall’emittente, ha scritto che «Al Jazeera è la piattaforma di tutti i terroristi che non hanno una piattaforma». Pubblicando una foto dell’ex direttore di Al Jazeera Yasser Abu Hilala con in mano un fucile mitragliatore, il giornalista saudita Matar Al Ahmadi di Al Arabiya ha invece sottolineato che l’emittente qatariota «non è altro che uno strumento per creare caos e anarchia», come dimostrano «le campagne mediatiche e ideologiche a favore di Hezbollah, Al Qaeda e la Primavera Araba». E quelle a favore degli Houthi, come invece sottolinea il giornalista e attivista politico yemenita Ahmed Al-Emad, un sostegno ai terroristi con base nel suo Paese «che supera di gran lunga quello iraniano agli stessi».
Ma se ci fossero ancora dei dubbi sul tipo di informazione che Al Jazeera sta dando della guerra in corso, basterebbe cercarsi sul web quel video del novembre scorso in cui un paziente di un ospedale di Gaza si lamenta dei combattenti di Hamas che si nascondono tra i malati nel centro medico. Colto alla sprovvista il corrispondente di Al Jazeera gli toglie di bocca il microfono allontanandosi. Che la professione giornalistica poi a Gaza e in Palestina in generale venga affrontata come una sorte di militanza per supportare la lotta terroristica lo dimostra anche e soprattutto la presenza all’attacco del 7 ottobre di diversi reporter locali, collaboratori di varie testate e agenzie anche occidentali. La ong HonestReporting ha documentato che due fotoreporter freelance palestinesi residenti a Gaza che lavoravano per Ap e Reuters si vantarono dei filmati che avevano acquisito mentre accompagnavano «sin dall’inizio» i terroristi di Hamas nell’atroce incursione. Ashraf Amra e il collega fotoreporter Mohammed Fayq Abu Mostafa si sono filmati in un video in cui ridono della scena, da loro girata sul posto, del linciaggio di un soldato israeliano il cui corpo viene buttato giù da un carro armato. Da notare che le foto di Abu Mostafa sono state recentemente selezionate da Reuters e New York Times per essere incluse nelle loro “foto dell’anno 2023”.
Libero, 13 febbraio 2024)
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“Hamas sia indagato per crimini contro l’umanità”
La richiesta dell’associazione Setteottobre alla Corte Penale dell’Aja
L’associazione Setteottobre ha presentato formale atto di richiesta all’Ufficio del Prosecutor della Corte Penale Internazionale (International Criminal Court, ICC) affinché vengano urgentemente promosse tutte le opportune e necessarie indagini sui fatti del 7 ottobre 2023, quando più di 1200 persone ebree e israeliane, la maggior parte civili, sono state uccise e molte altre ferite e rapite da membri di Hamas nel territorio israeliano, in particolare in diversi kibbutz e moshav e in tre piccole città attorno alla Striscia di Gaza. Le condotte perpetrate dai membri di Hamas contro donne, uomini e bambini israeliani presentano elementi di tale gravità da integrare il crimine di genocidio come prescritto dall’Art. 6 (a)(b)(c) ed (e) e i crimini contro l’umanità, come prescritti dall’Art. 7 (a)(b)(d)(e)(f)(h)(k) dello Statuto di Roma. Nel 2015 l’Autorità Palestinese ha chiesto di essere ammessa allo Statuto di Roma con una dichiarazione ad hoc ed è stata ammessa come “Stato di Palestina”. Di conseguenza, la Corte penale internazionale ha giurisdizione sui crimini commessi sul territorio di Israele il 7 ottobre 2023, essendo i membri di Hamas, autori dell’attacco, cittadini palestinesi. “Vogliamo che la Corte Penale Internazionale dell’Aja indaghi sugli orrendi crimini commessi da Hamas il 7 ottobre. Sono crimini contro l’umanità. Hamas ha annunciato, ha perpetrato e continua a minacciare di sterminare gli ebrei che vivono pacificamente in Israele. A quel massacro è seguita un’onda drammatica di antisemitismo e di odio verso l’Occidente. Vedere che il Sudafrica abbia trovato ascolto alla Corte di Giustizia Internazionale con l’accusa di genocidio a carico dello Stato ebraico è agghiacciante. È la vittima che diventa carnefice e il carnefice vittima. Speriamo che la nostra iniziativa trovi il supporto di tanti e che all’Aja si possa lavorare per ricercare la verità” – ha spiegato il presidente dell’associazione Stefano Parisi nel presentare il 12 febbraio l’iniziativa di Setteottobre insieme all’avvocato Laura Guercio penalista con abilitazione presso la Corte Penale Internazionale e docente universitario in Relazioni Internazionali, e al giornalista e scrittore Pierluigi Battista. La richiesta di Setteottobre alla Corte Penale Internazionale è stata presentata anche a seguito dell’appello “Non si può restare in silenzio” sul femminicidio di massa perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023, che ha raccolto più di 17.000 adesioni. L’associazione Setteottobre condivide e fa proprie le parole del Prosecutor dell’ICC Karim A. A. Khan pronunciate il 30 ottobre 2023 “Abbiamo guardato con orrore le immagini che emergono da Israele il 7 ottobre. Penso che nessuno di noi che sia genitore o abbia figli, nessuno di noi che abbia famiglie, nessuno di noi che sia vivo, nessuno di noi che abbia amore per Dio o amore per l’umanità nel nostro cuore potrebbe non aver sentito il gelo nel cuore nell’ascoltare i vari resoconti che sono giunti da così tanti civili innocenti in Israele le cui vite sono state distrutte in quel giorno fatale. E semplicemente non possiamo vivere in un mondo, non possiamo lasciare un mondo ai nostri figli dove incendi, esecuzioni, stupri e omicidi possano avvenire come se fossero normali, come se fossero da tollerare, come se potessero accadere senza conseguenze. Bambini, uomini, donne e anziani non possono essere strappati dalle loro case e presi come ostaggi, qualunque siano le ragioni. E quando si verificano questo tipo di atti, non possono restare non indagati e non possono rimanere impuniti. Perché questi tipi di crimini che tutti abbiamo osservato, che abbiamo visto il 7 ottobre, sono gravi violazioni, se dimostrate, del diritto internazionale umanitario”. (traduzione non ufficiale). Nel richiamare e condividere tali parole, l’associazione ha formalmente richiesto al Prosecutor della ICC che tali atti non restino non indagati e impuniti e che siano adottate tutte le misure necessarie affinché la giustizia internazionale possa accertare la responsabilità degli autori dei crimini del 7 ottobre 2023 contro donne, uomini e bambini israeliani. R.I.
(Bet Magazine Mosaico, 13 febbraio 2024)
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Alfiere della propagandaFrancesca Albanese, Relatore Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati presso il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, il medesimo Consiglio attualmente presieduto dall’Iran, la cui peculiarità è avere come fulcro l’Agenda 7, interamente dedicata alla condanna di Israele, si è vista negare l’ingresso nello Stato ebraico. Quella che il Simon Wiesenthal Center ha definito nel 2022, “un’enciclopedia ambulante anti-israliana”, è, in realtà più di questo. Si tratta, infatti, di una portavoce caricaturale di tutti, ma proprio tutti, i capisaldi della propaganda pro-palestinese, ovvero di quell’insieme di costrutti creati a Mosca negli anni’60, ripetuti senza sosta. Per la Albanese, Israele è dunque impresa coloniale illegittima, Stato oppressore di un popolo autoctono e, in quanto tale, inibito a difendersi contro i terroristi, che tali non sono essendo come tutti gli oppressi in lotta contro gli oppressori, resistenti. Hamas, ovviamente, rientra nella categoria. Ne consegue che contro di esso Israele non avrebbe il diritto di difendersi Ultimamente, la relatrice, chiamata impropriamente “avvocato”, non essendo iscritta all’albo, ha aggiunto un’altra perla alla sua collana già smagliante. L’eccidio del 7 ottobre non avrebbe nulla a che vedere con l’antisemitismo. Lo sospettavamo. Si tratta sempre di oppressione, e l’accusa di antisemitismo è il solito paravento atto a sviare l’attenzione da questa terribile realtà. Bisogna concludere che gli oppressi di Hamas avrebbero redatto nel 1988 uno Statuto mai abrogato e impregnato di tropi antisemiti, per puro ossequio folkloristico, così come sarebbero del tutto irrilevanti le affermazioni esaltate di chi il 7 ottobre tra i carnefici di Hamas, ha scannato giubilante con le proprie mani civili israeliani chiamandoli “ebrei”, come, ovviamente, è del tutto immaginaria la filiazione diretta tra antisemitismo nazista e antisemitismo islamico, di cui studiosi del calibro di Jeffrey Herf, Matthias Küntzel, Klaus Gensicke, ecc. hanno dato puntigliosamente conto, e con cui Hamas è in assoluta consonanza. C’è da chiedersi se l’Albanese crede fino in fondo a ciò che dice, se è effettivamente e inconsapevolmente un utile idiota del jihadismo, oppure, recita (male) per convenienza solo una parte. Alla fine conta poco. Conta che, in un momento in cui Israele combatte una guerra esistenziale, non sia concessa la possibilità di entrarvi a chi sostiene apertamente le ragioni di coloro che ne vorrebbero la cancellazione. (L'informale, 13 febbraio 2024)
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Gli ebrei “ribelli” di Catania portati in tribunale dall’Unione delle comunità
La richiesta nell’atto di citazione in giudizio è chiara: «Divieto di utilizzare la denominazione “Comunità ebraica di Catania” in qualsiasi forma e in qualsiasi sede». Può sembrare soltanto una questione di forma, dietro invece c’è molto di più.
Una battaglia legale di ebrei contro ebrei, che comincia domani [8 febbraio] al tribunale civile di Catania. Da una parte c’è l’Ucei, l’Unione delle comunità ebraiche italiane guidata da Noemi Di Segni, dall’altra l’associazione “Comunità ebraica di Catania”, nata nel capoluogo etneo sette anni fa e che secondo l’Ucei, appunto, non ha il diritto di definirsi tale. Una denominazione che considerano «illegittima». Perché? «L’associazione privata in questione si è costituita come “Comunità ebraica” al di fuori del perimetro delineato dall’Intesa con lo Stato italiano stipulata nel 1987 e recepita nella legge 101/89 — dicono dall’Ucei — Non ci si può improvvisare “Comunità ebraica” senza percorrere l’iter previsto dalla legge che culmina nel riconoscimento dato con decreto del Presidente della Repubblica. È un tema centrale che nulla ha a che fare con libertà religiosa o di fede, ma riguarda l’uso improprio del nome “Comunità ebraica” che appartiene alle “Comunità” individuate dalla legge e che non può essere utilizzato a piacere da chicchessia».
Da sette anni, però, un gruppo di ebrei a Catania va avanti per la sua strada. L’associazione “Comunità ebraica di Catania” che conta una cinquantina di persone, a ottobre del 2022 ha inaugurato ufficialmente la sinagoga nei locali del secondo piano del castello di Leucatia messi a disposizione dal Comune. L’occasione era davvero speciale: l’arrivo dei rotoli della Torah, il testo sacro per eccellenza degli ebrei, donati dalla comunità centrale di Washington.
«Per l’Ucei siamo fumo negli occhi — dice l’avvocato Benito Baruch Triolo, presidente dell’associazione “Comunità ebraica di Catania” — Sono arrivati a citare in giudizio altri ebrei in un tribunale civile. Evidentemente partono dal principio che noi non siamo ebrei, che noi non esistiamo».
L’Ucei conta 21 comunità in tutta Italia. La “Comunità ebraica di Napoli” ha giurisdizione su quasi tutto il Sud Italia dove sono nate, sempre secondo l’Intesa con lo Stato, le cosiddette “sezioni della Comunità”. Ce ne è una a Palermo che fa capo, dunque, alla “Comunità di Napoli” e di cui è stata per tanti anni animatrice Evelyne Aouate, scomparsa nel 2022,. L’arcivescovo Corrado Lorefice donò a questa sezione l’oratorio sconsacrato di Santa Maria del Sabato, in vicolo della Meschita, dove un tempo nasceva l’antico quartiere ebraico di Palermo, per realizzare la sinagoga proprio dove si trovava prima della cacciata degli ebrei nel 1492.
Il sogno di Aouate e dell’esiguo gruppo ebraico di Palermo procede a passi molto lenti. Anche se recentemente i vertici dell’Ucei, in visita nel capoluogo siciliano, hanno avuto delle interlocuzioni con il sindaco Roberto Lagalla per provare a sbloccare il progetto che ha bisogno di ingenti risorse per essere realizzato. Lo scorso ottobre, l’Ucei ha aperto anche una “sezione della Comunità” a Catania, città della discordia dove la sinagoga dell’associazione “Comunità ebraica catanese” è attiva da tempo. «L’ebraismo italiano non può essere rappresentato soltanto dall’Ucei — dice Triolo — esistono decine di organizzazioni che insieme fanno quattro volte le comunità ebraiche vere e proprie di cui parla l’Ucei. Non possono giudicare loro chi è ebreo e chi non lo è. La libertà di culto è sancita dalla Costituzione. Una sottomissione più che clericale che non esiste nell’ebraismo internazionale. La nostra comunità ha amici in tutto il mondo ebraico. L’Ucei francese ci vuole riconoscere, quella italiana no. Per essere ebrei, in ogni caso, non abbiamo bisogno di essere riconosciuti da nessuno».
La citazione in giudizio dell’Ucei contro la “Comunità ebraica di Catania” si basa essenzialmente sulla contestazione dell’uso della parola “comunità”. Da tempo l’Ucei ha diffidato l’associazione catanese in questa direzione, chiedendo anche ai rappresentanti delle istituzioni catanesi di revocare la concessione dei locali dove è stata inaugurata la sinagoga. «Esistono vari gruppi nel territorio italiano che si definiscono ebraici — dicono dall’Ucei — Non sempre composti da soli ebrei e che svolgono attività culturali di interesse ebraico, ma questo non li giustifica certo a definirsi “Comunità ebraiche”. L’Ucei stabilisce rapporti collaborativi con tutti coloro che hanno interesse per l’ebraismo in Italia, purché rispettosi della legge». Ora toccherà a un giudice decidere chi ha ragione.
(la Repubblica, 7 febbraio 2024)
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Per Israele un alleato inaspettato: il Malawi
di Anna Balestrieri
Negli ultimi mesi, al Kibbutz Zikim, situato nella parte settentrionale del deserto del Negev, nel sud di Israele, alcuni giovani malawiani sono stati impiegati in sostituzione dei lavoratori tailandesi, vittime dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e protagonisti di una fuga di massa nelle settimane successive allo scoppio della guerra. Il kibbutz era stato preda, insieme alla base Zikim ed all’avamposto Yiftach, dell’invasione guidata da Muhammad Sinwar, fratello del leader di Hamas Yahya Sinwar.
IL LEGAME TRA IL MALAWI E ISRAELE
I giovani africani hanno sviluppato un forte senso di attaccamento ad Israele e la questione degli ostaggi li ha colpiti profondamente. Per esprimere il sostegno del paese, un gruppo musicale di connazionali malawiani ha recentemente realizzato un nuovo arrangiamento della canzone “Home”, come preghiera, invito ed auspicio per un ritorno rapido degli ostaggi a casa..
L’introduzione al video recita “Il 7 ottobre 2023 Hamas ha condotto un attacco terroristico contro Israele e ha ucciso persone innocenti. Hanno rapito oltre 200 persone tra cui donne, bambini e anziani. ACA-4-HIM chiede al mondo di riportare gli ostaggi a CASA.
Israele e gli ebrei hanno il diritto di esistere e difendersi come qualsiasi altro paese”. Il video d’accompagnamento alla canzone, girato in Malawi, vede l’avvicendarsi dei vocalists di ACA-4-HIM, membri di un gruppo a cappella tutto al maschile, con immagini di malawiani recanti cartelli che invitano al rilascio immediato degli ostaggi che “hanno bisogno di medicine e di stare con le proprie famiglie” e ricordano che i malawiani “stanno con Israele”. Uno dei lavoratori del team nella piantagione di Zikim ha collaborato per migliorare la qualità del video, e insieme hanno provveduto alla traduzione in ebraico, lavorando con grande passione e impegno. I sottotitoli in inglese facilitano la comprensione a quanti non parlino ebraico.
(Bet Magazine Mosaico, 12 febbraio 2024)
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Liberati due ostaggi a Rafah
Fernando Simon Marman (60 anni) e Louis Har (70 anni) sono stati liberati a Rafah nel corso di un’operazione notturna dall’IDF, dallo Shin Bet e dalle forze di polizia. I due uomini, rapiti il 7 ottobre nel kibbutz Nir Ytzhak, sono stati trovati in buone condizioni, secondo quanto si apprende dai media israeliani e sono stati portati in ospedale dove hanno ritrovato ad aspettarli le loro famiglie.
Simon e Louis sono stati ritrovati al secondo piano di un edificio a Rafah. Le forze di sicurezza, riportano i media, hanno utilizzato un ordigno esplosivo per sfondare la porta dietro la quale erano prigionieri gli ostaggi. Gli agenti hanno anche affrontato in uno scontro a fuoco i terroristi di Hamas.
Il generale Yaron Finkelman, capo del comando meridionale dell’IDF, ha gestito e coordinato l’operazione da una base a Be’er Sheva, alla presenza del capo di stato maggiore Herzi Halevi e del capo dello Shin Bet Ronen Bar. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant si sono uniti a loro nel quartier generale militare. “Abbiamo 134 ostaggi ancora tenuti prigionieri e faremo tutto il possibile per riportarli a casa”, ha detto il portavoce dell’IDF.
“Questa è stata un’operazione impressionante”, ha detto Gallant, spiegando che lui e il primo ministro hanno seguito gli eventi dal centro di comando. “Continueremo a mantenere il nostro impegno per riportare indietro gli ostaggi, in ogni modo possibile”, ha detto.
Idan Bejerano, genero di Har, ha detto di aver incontrato suo suocero solo brevemente prima che fosse portato per gli esami medici. “Sembrano stare bene, sorridevano ed erano visibilmente sollevati”, ha detto Idan. “Siamo stati chiamati alle 3:30 del mattino e siamo saltati giù dai nostri letti con gioia. Ci è stato detto ‘li abbiamo nelle nostre mani’ e di andare in ospedale. Ci è voluta quasi un’ora per arrivare lì e io non ero sicuro che mia moglie stesse respirando durante quel periodo. Questo è un grande sollievo” ha aggiunto.
Il presidente argentino Javier Milei ha elogiato la liberazione degli uomini, entrambi con doppia cittadinanza israeliana e argentina. “L’Ufficio del Presidente ringrazia le Forze di Difesa israeliane, lo Shin Bet e la Polizia israeliana per aver portato a termine con successo il salvataggio degli argentini Fernando Simon Marman e Louis Har”, si legge in un post su X.
(Shalom, 12 febbraio 2024)
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Solo la violenza ha senso (con Hamas)!
Circa un'ora dopo la mezzanotte, è iniziata a Rafah, nella striscia meridionale al confine con l'Egitto, l'operazione israeliana per liberare gli ostaggi
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Fernando Marman (61) e Louis Har (70) sono stati liberati in un'operazione congiunta dell'esercito israeliano, del servizio segreto nazionale Shin Bet e di un'unità speciale della polizia israeliana. I due ostaggi erano stati rapiti il 7 ottobre da una famiglia palestinese del kibbutz Nir Itzchak, nella Striscia di Gaza. L'operazione si è conclusa dopo un'ora e gli ostaggi sono stati portati in elicottero all'ospedale Sheba in Israele. Sono in buone condizioni di salute. Erano circa le 03:00 di notte quando ho ricevuto la notizia che due ostaggi israeliani erano stati liberati a Rafah, poco dopo ne abbiamo dato notizia su Telegram. Queste operazioni di liberazione rafforzano il morale della popolazione e ciò è molto importante in questi momenti. Inoltre, rafforzano la posizione di Israele nei confronti di Hamas nei negoziati per un eventuale scambio di ostaggi. Hamas capisce solo la violenza, non le parole, non la filosofia. Hamas è sotto shock dopo la drammatica operazione di salvataggio degli ostaggi Fernando Marman (61) e Louis Har (70) a Rafah. Hamas non ha riportato il successo dell'operazione di salvataggio israeliana, ma solo delle perdite da parte palestinese. La dichiarazione ufficiale di Hamas ha affermato che:
"L'attacco dell'esercito di occupazione nazista alla città di Rafah la scorsa notte e i suoi orribili massacri di civili inermi e di bambini, donne e anziani indifesi, più di un centinaio dei quali hanno perso la vita, sono considerati una continuazione del genocidio e dello sfollamento forzato attuato contro il nostro popolo palestinese. Il governo degli Stati Uniti e il presidente Joe Biden hanno la piena responsabilità di questo massacro perché ieri hanno dato il via libera a Netanyahu e lo sostengono esplicitamente con denaro, armi e appoggio politico per continuare il genocidio e il massacro del nostro popolo". Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato all'ABC l'altro ieri: "Coloro che ci dicono di non agire a Rafah in realtà ci chiedono di perdere la guerra. Agiremo contro i battaglioni del terrore di Hamas a Rafah, la vittoria è alla nostra portata". Netanyahu ha sottolineato che Israele sta lavorando a un "piano dettagliato" per l'evacuazione dei residenti palestinesi della Striscia di Gaza - e ha promesso che Israele garantirà un corridoio di fuga sicuro. Il successo dell'operazione di liberazione a Rafah spiega molte cose che sono state spesso male interpretate dai media. La pressione militare di Israele nella Striscia di Gaza è l'unico modo per esercitare pressione sul regime di Hamas nella Striscia di Gaza. Senza di essa, i negoziati in Qatar, a Parigi o al Cairo su un possibile scambio di ostaggi con Hamas non hanno alcun senso. Hamas capisce solo una cosa: la violenza! Tutto il resto è inutile contro Hamas!
Inoltre, l'operazione di salvataggio ha dimostrato ancora una volta che il governo non ha deciso di abbandonare gli ostaggi israeliani. Nella scelta tra sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi israeliani, spesso è sembrato che il governo avesse rinunciato a ogni speranza di liberare gli ostaggi israeliani. I media hanno spesso criticato il fatto che il governo di destra non avrebbe fatto nulla per gli israeliani di sinistra prigionieri dei palestinesi nella Striscia di Gaza. L'unica cosa che è rimasta sono queste dichiarazioni scioccanti dei media. Il tempo non corre solo contro Hamas, ma anche contro di noi. Hamas è sotto pressione a causa delle operazioni militari israeliane e Israele è sottoposta a forti pressioni anche a causa dei governi stranieri. In entrambi i casi, il tempo gioca a sfavore degli ostaggi israeliani che sono nascosti da qualche parte nel sud della Striscia di Gaza e vengono usati come scudi umani per i terroristi. L'operazione a Rafah è stata preparata da tempo, ma finora le condizioni non erano mature per portarla a termine. Il controllo operativo delle Forze di Difesa israeliane nella Striscia di Gaza è massiccio, forte e di successo. Solo così Israele può avvicinarsi al suo obiettivo di liberare gli ostaggi e distruggere Hamas.
Ora diventa chiaro anche il motivo per cui Hamas nelle ultime settimane ha minacciato più volte Israele di interrompere i negoziati per uno scambio di ostaggi se Israele opererà a Rafah. I restanti leader e terroristi di Hamas si nascondono insieme agli ostaggi israeliani nella cosiddetta zona di sicurezza a ovest di Rafah, dove 1,4 milioni di palestinesi vivono nelle tende dei rifugiati. Israele non avrà altra scelta e continuerà a operare a Rafah nonostante le critiche internazionali. E Israele mostrerà più considerazione per i rifugiati palestinesi di quanta ne abbia la sua stessa leadership di Hamas. Anche i palestinesi lo stanno scrivendo sui social network. Nei social media arabi, i palestinesi sul posto sono senza parole per il successo dell'operazione di salvataggio dell'IDF. È stato riferito che molti palestinesi stanno lasciando Rafah di propria iniziativa e si stanno dirigendo verso le zone di sicurezza designate dall'IDF nel centro della Striscia di Gaza. Sono certi che l'esercito israeliano lancerà presto una grande operazione nella città di confine di Rafah. Israele non ha altra scelta se il governo vuole mantenere la promessa fatta alla popolazione.
Ieri il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha detto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che Israele "non dovrebbe condurre un'operazione militare nella città di confine con Gaza, densamente popolata, di Rafah, senza un piano credibile per proteggere i civili". Bibi e Joe hanno parlato al telefono per 45 minuti ieri. È stata la prima conversazione tra i due dopo che la settimana scorsa Biden aveva detto che la risposta di Israele a Gaza era stata eccessiva. I politici egiziani hanno messo in guardia Israele dall'operare a Rafah. Il Ministero degli Esteri egiziano:
"Sottolineiamo il nostro rifiuto delle dichiarazioni rilasciate dai politici israeliani riguardo all'azione militare israeliana a Rafah. Avvertiamo del pericolo che ciò possa aggravare la catastrofe nella Striscia di Gaza. Chiediamo un'intensificazione degli sforzi internazionali per impedire l'operazione israeliana a Rafah. Continuiamo i colloqui con tutte le parti per raggiungere un cessate il fuoco e un accordo sullo scambio di ostaggi. Chiediamo agli organismi internazionali di aumentare la pressione su Israele".
Ma cosa non c'è nella dichiarazione egiziana? L'accordo di pace non è messo a rischio. Non c'è alcuna minaccia militare da parte dell'Egitto. Cosa dice la dichiarazione egiziana? Soprattutto, rende un servizio a parole ai palestinesi, ai Paesi arabi e alla comunità internazionale. In altre parole, gli egiziani approvano l'operazione israeliana o non hanno nulla contro di essa - senza però menzionarla esplicitamente. Hamas può essere messo in ginocchio solo con la pressione e la forza, e chi non lo capisce non desidera la vittoria di Israele.
(Israel Heute, 12 febbraio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Piangere una tragedia e capirne le radici. Israele e quella prova di Amleto
Quello di Israele non è una vendetta cieca, ma un modo, l’unico, forse persino perdente nell’esito finale, di difendere democrazia, libertà, vita anche per conto dell’occidente e dell’Europa tremebonda e insicura
di Giuliano Ferrara
Essere o non essere. Israele non si può permettere la filosofia di Amleto. Il pogrom del 7 ottobre impone a quel paese e a quel popolo di eliminare il suo nemico definitivamente, per essere e per esistere. Non è più complicato di così. A qualunque prezzo? A qualunque prezzo. Le vittime civili della guerra, donne vecchi bambini ragazzi adulti, la morte la sete la fame lo sfollamento le mutilazioni le malattie; l’abbandono dei loro territori al sud e al nord da parte degli ebrei minacciati di annientamento; la degradazione dell’economia, della pace nello sviluppo, dell’immagine internazionale del rifugio ebraico (Golda Meir si domandava che cosa farne della pietà mondiale quando si è morti ammazzati, Fiamma Nirenstein dice che una volta l’unico ebreo tollerato era quello morto, ora fase seconda, non vanno bene né morti né vivi).
Con l’Ucraina nemmeno tanto sullo sfondo, con il bellicismo delle autocrazie contro le democrazia, con il dilagare del fanatismo sterminatore islamista, con l’Iran prenucleare alleato di Cina e Russia, con tutto questo davvero si può pensare che quello che accade dipenda da un governo di destra o dall’ambizione politica nera di Netanyahu?
Piangere una tragedia è sacro, siamo tutti parte del coro, non lo si può e non lo si deve evitare. Capirne le radici è realistico e pietoso insieme. Le tregue fanno parte delle guerre. La tregua che chiede Hamas è la sconfitta di Israele, la sua definitiva disumanizzazione, una cosa che gli ebrei divisi come non mai rigettano all’unanimità. Li si può processare per questo? Se al posto di Netanyahu ci fossero Ganz o Lapid, l’opposizione che è nel gabinetto di guerra e quella che ne è restata fuori, si comporterebbero precisamente nello stesso modo, e se non lo facessero sarebbero travolti. Se Hamas si scava un altro bunker, bisogna espugnarlo con altre vittime civili, con il sacrificio dei soldati come conseguenza. Lo sradicamento del terrore e la smilitarizzazione forzata non sono una possibilità per Israele, sono un obbligo. E le tragedie sono sempre connotate dall’inevitabilità del loro procedere tenebroso e moralmente impossibile da giudicare.
Evacuare, risparmiare il più alto numero possibile di vittime della guerra, tutto questo è nell’interesse dell’umanità e del suo avamposto israeliano, che non disumanizza nessuno, come suggerisce obliquamente il liberal Blinken, piuttosto restaura l’umanità dove si era perduta, nelle nuove Auschwitz. Se Hamas resta dov’è senza pagare il prezzo finale del pogrom e senza essere smantellata, il segnale è luce verde per la Cisgiordania, riunificata nelle coscienze militanti islamiste dal 7 ottobre, per gli Hezbollah nel nord, per gli Houti, per l’Iran e i suoi pasdaran di Siria e Iraq, per le ambizioni di Mosca e Pechino. Quello di Israele non è un lavoro sporco, una vendetta cieca, ma un modo, l’unico, forse persino perdente nell’esito finale ma unico e necessario nella sua tremenda origine, di difendere democrazia, libertà, vita anche per conto dell’occidente e dell’Europa tremebonda e insicura. Che questo compito o destino tocchi alle vittime della Shoah e ai loro discendenti e testimoni di un paese tecnologico e postmoderno, ma dotato di un’anima d’acciaio, è una tragedia nella tragedia. L’inevitabile nell’inevitabile.
Il Foglio, 12 febbraio 2024)
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L’IDF scopre un datacenter sotto la sede della UNRWA a Gaza
Sotto la sede di Gaza dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, comunemente nota come UNRWA, l’esercito israeliano ha fatto una rivelazione sorprendente: sotto il complesso delle Nazioni Unite, Hamas ha occultato uno dei suoi beni più significativi.
Un datacenter sotterraneo, completo di stanza adibita a gestire la parte elettrica, batterie industriali e alloggi per i terroristi di Hamas, incaricati di gestire i server informatici, è stato costruito strategicamente sotto una posizione che Israele non avrebbe mai considerato inizialmente come obiettivo di un attacco aereo.
La scoperta di questa “server farm” avviene in un contesto di crescenti accuse di collusione tra l’UNRWA e il gruppo terroristico di Hamas, complicando ulteriormente la situazione dell’organizzazione che offre assistenza umanitaria ai rifugiati palestinesi del 1948 e del 1967, nonché ai loro discendenti. Il mese scorso, Israele ha accusato 12 membri del personale dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi di aver partecipato al massacro del 7 ottobre perpetrato da terroristi guidati da Hamas, nel quale hanno perso la vita 1.200 persone e altre 253 furono prese in ostaggio.
Dopo che queste accuse sono diventate di dominio pubblico alla fine dello scorso mese, molti dei principali paesi donatori dell’UNRWA hanno annunciato congelamenti di finanziamenti, suscitando preoccupazioni che l’agenzia potrebbe cessare le sue operazioni a Gaza e altrove nel Medio Oriente entro poche settimane. La recente scoperta del centro dati di Hamas da parte delle IDF, mentre l’UNRWA è sotto un’attenzione sempre maggiore, sembra essere una semplice coincidenza.
La sede dell’UNRWA a Gaza si trova nel quartiere di Rimal, nella città di Gaza, una zona in cui le IDF avevano precedentemente operato, smantellando il battaglione di Hamas locale e ritirando le truppe. All’epoca dell’offensiva terrestre iniziale nella città di Gaza, l’esercito non aveva trovato né sapeva molto sul centro dati di Hamas. Ma nuove informazioni, emerse dagli interrogatori dello Shin Bet ai terroristi catturati, hanno fornito indicazioni su dove scavare.
Il comandante della Brigata corazzata 401, Colonnello Benny Aharon, ha dichiarato durante un tour mediatico del tunnel e del complesso dell’ONU giovedì: ” Tzahal era già stato qui, la prima volta per distruggere il nemico, ma quando siamo stati qui l’ultima volta, abbiamo raccolto molti documenti d’intelligence e prove, molti prigionieri, e grazie a questo siamo arrivati qui. Ora abbiamo effettuato un’operazione mirata per eliminare questo datacenter”. Anche se le accuse di collusioni tra l’UNRWA e Hamas sono cresciute, sembra che la scoperta del centro dati di Hamas sia stata un caso fortuito durante l’inasprirsi delle tensioni.
Il colonnello Nissim Hazan, un alto ufficiale della Brigata 401, ha spiegato che l’ IDF ora si possono effettuare incursioni con meno truppe, ma che richiedono molta più ricerca e pazienza. Sottolinea che ci sono ancora rischi per queste operazioni, citando la morte di due soldati durante l’operazione per raggiungere il centro dati di Hamas.
L’articolo prosegue descrivendo il percorso all’interno del tunnel, con particolari sulla struttura del centro dati e degli alloggi dei terrorist |