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Notizie su Israele 262 - 15 ottobre 2004

1. Le azioni militari di Israele non avvengono in un vuoto legale
2. Si deteriorano le relazioni tra Israele e Unione Europea
3. In Egitto la fonte del diritto è la sharia
4. Israele onora tre berlinesi con la medaglia Yad Vashem
5. Un ebreo italiano torna a visitare il paese d'origine
6. Ricostituito il Sinedrio in Israele
7. Considerazioni sul significato dell'alià
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 62:6-7. Sulle tue mura, Gerusalemme, io ho posto delle sentinelle; non taceranno mai, né giorno né notte. Voi che destate il ricordo del Signore, non abbiate riposo, non date riposo a lui, finché egli non abbia ristabilito Gerusalemme, finché non abbia fatto di lei la lode di tutta la terra.
1. LE AZIONI MILITARI DI ISRAELE NON AVVENGONO IN UN VUOTO LEGALE




Moralità, anche in tempo di guerra

da un articolo di Ze'ev Schiff

    Praticamente non passa settimana senza che gli americani facciano ricorso all’aviazione militare sulle città irachene, compresa la capitale Baghdad, nella loro lotta contro le forze della guerriglia, le quali dal canto loro non hanno nessuna pietà per i loro fratelli iracheni e le loro moschee. E’ evidente che gli attacchi americani dall’aria su centri densamente abitati provocano anche numerose vittime fra i civili innocenti.
    Non spetta a noi fare prediche, ma se si confrontano le azioni delle forze aeree israeliane nella guerra contro il terrorismo (comprese le operazioni attualmente in corso nella striscia di Gaza settentrionale) a quanto avviene in Iraq, si può affermare che le forze aeree israeliane sono “settantasette volte” più attente di quelle americane nei loro interventi su centri abitati.
    Gli americani parlano volentieri della necessità che le risposte alle stragi terroristiche siano “proporzionate”. Ma questo è esattamente ciò che fa Israele.
    Israele non può permettersi di fare ciò che fanno Stati Uniti, Russia, e anche Francia e Inghilterra. Per costoro, sembra che la proporzionalità venga misurata con un metro diverso. E’ difficile sapere come evolveranno le cose nel conflitto israelo-palestinese, ma chiunque accusi Israele di commettere intenzionalmente crimini di guerra nella sua lotta contro il terrorismo, evidentemente non sa di cosa parla.
    Un rapido esame delle guerre che sono state combattute nell'ultimo decennio, compresa la guerra che gli Stati Uniti condussero contro i serbi in cooperazione con gli stati europei, mostra che i predicatori di moralità non si sono avvalsi dell’aiuto di consulenti legali quando si è trattato di scegliere gli obiettivi da colpire in aree densamente abitate.
    Nel corso degli anni, invece, le Forze di Difesa israeliane hanno sviluppato proprio la tendenza, talvolta persino eccessiva, di coinvolgere sempre esperti di diritto nelle decisioni operative. Rispetto al passato, tale coinvolgimento oggi è senza precedenti.
    L’avvocatura generale è stata cooptata nelle discussioni dello Stato maggiore. Il giudice uscente dell’avvocatura generale Menachem Finkelstein era stato elevato al rango di generale. Ogni comando di divisione israeliano ha un consigliere legale. La persona responsabile per il diritto internazionale all’interno delle Forze di Difesa israeliane viene spesso sentita persino sui dettagli delle operazioni mirate contro singoli terroristi o loro mandanti.
    Tutto questo naturalmente non elimina le ingiustizie dell’occupazione o certe brutalità sul campo da parte di soldati e agenti della guardia di frontiera, ma certamente garantisce che le teste non si chiudano mai di fronte alle norme morali che devono sussistere anche in tempo di guerra.
    Anche se Israele ritiene che formalmente i territori non ricadano sotto la Quarta Convenzione di Ginevra (relativa a territori occupati a un altro stato sovrano) perché è ancora in discussione la loro sovranità (che almeno in parte potrebbe spettare a Israele), è evidente che accetta e cerca di applicare le disposizioni umanitarie della Convenzione.
    La tendenza attuale ebbe inizio durante la prima intifada (fine anni ’80), quando all’avvocatura generale c’era Amnon Strasnov, e continuò con maggiore intensità sotto Finkelstein, quando gli scontri violenti vennero legalmente definiti un “combattimento” (concetto assai prossimo a quello di “guerra aperta”).
    Nonostante le loro tribolazioni, i palestinesi sono ben consapevoli di questo andamento. Normalmente, dopo qualche grave attentato terroristico contro civili israeliani, quando appare chiaro che Israele dovrà reagire con operazioni militari, l’Alta Corte di Giustizia viene inondata da una serie di petizioni contro le Forze di Difesa israeliane. Così avvenne ad esempio con l’operazione Scudo Difensivo del 2002, e così è avvenuto con l’operazione Arcobaleno a Rafah (striscia di Gaza meridionale) di quest’anno. Quale altro esercito combattente in tutto l’occidente deve fare i conti con una sfida legale di questo tipo? […]
    In una sentenza del 2001, il presidente della Corte Suprema israeliana Aharon Barak scrisse che “Israele è impegnato in una grave lotta contro un terrorismo dilagante. Esso agisce sulla base del proprio diritto all’autodifesa. Tale combattimento non viene perseguito in un vuoto legale. Anche in tempo di guerra bisogna fare di tutto per proteggere la popolazione civile”.
    Quando è stato chiesto a Finkelstein, giudice uscente dell’avvocatura generale, se questa regola viene sempre e ovunque rispettata, egli ha onestamente risposto di no. Ma è anche chiaro che non esiste, qui, nessuna volontà di ignorare intenzionalmente le norme del diritto internazionale.

(Ha’aretz, 8.10.04 - israele.net)





2. SI DETERIORANO LE RELAZIONI TRA ISRAELE E UNIONE EUROPEA




Israele rischia seriamente di entrare in "rotta di collisione" con l'Unione Europea se non riuscira' a porre fine al conflitto che l'oppone ai palestinesi, e di essere pertanto sottoposta a sanzioni sul tipo di quelle che colpirono il Sudafrica all'epoca del regime dell'apartheid.
    E' quanto si prospetta in un rapporto riservato, destinato all'esecutivo ebraico e messo a punto da esperti del ministero degli Esteri, secondo quanto riferito in forma anonima da fonti politiche locali che hanno potuto prenderne visione.
    Sempre in base al rapporto, Israele potrebbe ritrovarsi sempre piu' isolata sul piano internazionale, in misura direttamente proporzionale alla crescita dell'influenza geopolitica esercitata dall'Ue nel resto del pianeta.
    Tutto cio', e' l'avvertimento lanciato dai consulenti governativi attraverso la relazione, "potrebbe porre Israele in rotta di collisione con l'Unione Europea. Un fatto che implica il rischio di far perdere a Israele la legittimazione internazionale, e che e' suscettibile di condurre a un suo isolamento alla maniera di quanto a suo tempo avvenne al Sudafrica".
Lo Stato ebraico ha rapporti complessi e spesso difficili con l'Unione, che negli ambienti piu' conservatori israeliani e' vista come troppo vicina alle ragioni dell'Autorita' Nazionale Palestinese, specie in alcuni suoi componenti. La situazione e' andata ulteriormente deteriorandosi per l'atteggiamento fortemente critico dei Venticinque nei confronti dell'offensiva militare in atto nei territori autonomi e della stessa iniziativa del cosiddetto 'Muro di Sicurezza': la gigantesca barriera super-fortificata in costruzione lungo centinaia di chilometri, che dovrebbe alla fine separare Israele dalle aree palestinesi della Cisgiordania e in futuro anche della Striscia di Gaza, di fatto pero' annettendone alcune porzioni in quanto non sarebbe rispettato pienamente il tracciato della 'Linea Verde', il confine internazionalmente riconosciuto. Il governo ebraico dal canto suo ha replicato alle accuse denunciando un crscente anti-semitismo in Europa.

(AGI, 14.10.2004)





3. IN EGITTO LA FONTE DEL DIRITTO E' LA SHARIA




Così Mubarak ha dilapidato la preziosa eredità di Sadat

di Carlo Panella

Sono “musulmani che sbagliano”, come certa sinistra con le Br, così la più alta carica religiosa d’Egitto, il gran muftì di Dar al Iftaa, nel condannare gli attentati di Taba, ha immediatamente relativizzato la sconfessione, attribuendone la responsabilità alle “colpe” degli americani e degli israeliani in Iraq e Palestina: “Nessuno può giustificare questi atti che costano la vita a persone innocenti. La stessa condanna va però indirizzata anche contro le operazioni militari dalle forze di occupazione negli Stati arabi e musulmani, perché anche queste forze uccidono innocenti”. Bin Laden è colpevole, ma non più di Bush e Sharon.
    Il problema è che questo “islam moderato” è l’espressione del regime egiziano: il muftì è nominato da Hosni Mubarak, è una forma di “islam di regime”. L’ideologia giustificazionista del muftì è dunque intrinseca alla “moderazione” che l’occidente, sbagliando, attribuisce al regime di Mubarak, che, invece, non è moderato e da 23 anni vegeta su una voluta ambiguità verso l’estremismo. Zapatero non se ne rende conto, ma la sua politica nei confronti del terrorismo è copiata da Mubarak.
    Miracolosamente incolume alle sventagliate di mitra che uccisero il 6 ottobre 1981 Anwar al Sadat e molti suoi generali, appena succeduto al raìs, Mubarak capì la lezione e cedette al ricatto terrorista degli apripista di al Qaida. Sadat era stato ucciso per una ragione: aveva riconosciuto piena legittimità a Israele; aveva fatto qualcosa di più di una pace: era andato il 20 novembre 1977 a parlare nel Parlamento israeliano, aveva portato Menachem Begin nel Parlamento del Cairo. Aveva legittimato la prospettiva di una vita in pace tra arabi ed ebrei. Aveva dato un colpo mortale all’ideologia totalitaria, su cui si reggeva il suo regime, in nome della quale nel ’52 aveva fatto un golpe assieme al generale Neguib (poi eliminato) e a Gamal Abdel Nasser.
    La missione del nasserismo (e del suo figlioccio, il baathismo di Saddam Hussein) non era quella di un islamismo laico – come si continua a equivocare in occidente – ma di un islamismo a guida militare che riscattasse la “naqba”, la catastrofe della sconfitta subita quando tutti i regimi arabi, sotto la leadership morale del gran muftì di Gerusalemme, reduce dalla Berlino hitleriana, avevano tentato di soffocare sul nascere nel 1948 lo Stato d’Israele. Immutata, anzi esaltata era la missione, la consegna, la strategia di un allargamento della umma musulmana, cambiava solo la leadership, passando in mano ai generali.
    Primo passo era imporre il dogma musulmano della “non disponibilità” della Palestina a qualsiasi trattativa, a qualsiasi cessione, tantomeno agli ebrei, perché “lascito divino in eterno al popolo di Allah”. Su questa strada Nasser aveva impegnato l’Egitto, volgendo l’iniziale vocazione nazista (negli anni 30, con Sadat aveva fondato le “camice verdi” filohitleriane) all’altro totalitarismo del secolo: il socialismo sovietizzante. Su questa strada Nasser aveva distrutto le basi per il nascente sviluppo industriale dell’Egitto e aveva imposto un’economia finalizzata solo alla guerra, in mano a un quadro di comando di generali. Su questa strada Nasser aveva portato l’Egitto alla sconfitta e all’umiliazione del ’67.
    Sadat, riconquistato l’onore militare, grazie al ricatto petrolifero che chiude la guerra del Kippur del ’73, non si limita a trattare la “terra in cambio della pace”, non si preoccupa solo di recuperare il Sinai, va oltre: mette in discussione la base ideologica del suo regime, del panarabismo, dell’islamismo, e dichiara che Israele ha diritto di vita. Una dichiarazione che continua a impegnarlo in una critica feroce nei confronti dei governi israeliani, ma che intende rispettare con scandalo del mondo musulmano, a partire da Arafat, che ne pronostica la rapida morte. Il “moderato” leader palestinese è accontentato dai terroristi musulmani con la strage del 6 ottobre 1981 che elimina Sadat; durante il processo dei superstiti del complotto, al Zawahiri – oggi vice bin Laden – è portavoce degli imputati che danno vita a un surreale dibattito teologico con la corte per spiegare le ragioni del tirannicidio.
    Mubarak comprende qual è il punto e nel momento stesso in cui impone la legge d’emergenza – ancora in vigore – e scatena la più dura repressione contro gli estremisti musulmani, ne soddisfa la richiesta di fondo: cessa di riconoscere legittimità a Israele. Non può farlo dal punto di vista formale: il riconoscimento diplomatico non è annullabile, ma lo fa da quello sostanziale. Blocca il processo di revisione ideologica su cui Sadat basava la svolta riformista iniziata con l’espulsione dei consiglieri sovietici nel ’72 e con l’ingresso nell’area di alleanze statunitensi.
    La strategia di Mubarak non è la moderazione, ma il congelamento: forte dei 2 miliardi di dollari che Sadat ha ottenuto dagli Usa ogni anno per rafforzare la spinta riformista, il nuovo raìs usa la somma per lo scopo opposto. Due terzi degli aiuti sono investiti negli stipendi dell’esercito e nel suo ammodernamento: la “società militare” trova la sua nicchia parassitaria e vi si arrocca, il regime continua. Nessuna riforma sul piano politico – il Pnd del raìs vince regolarmente due terzi e più dei seggi in elezioni multipartitiche secondo il modello fasullo della Repubblica democratica tedesca – nessuna sul piano economico. Gli aiuti americani sono più del 2 per cento del pil, e sono cash, subito spendibili dal presidente, un suo fantastico “tesoretto” personale per comprare consenso, come altri aiuti che arrivano dall’Ue e da altre istituzioni. Nasser, quantomeno, aveva iniziato una timida riforma agraria, aveva avviato il ciclopico sogno della diga di Assuan; Mubarak non fa nulla e ultimamente permette che una cifra pari a quella della diga sia dilapidata nella costruzione di una sorta di Rimini, lunga una ottantina di chilometri e larga uno a ovest di Alessandria. Una speculazione edilizia astronomica, che si ribalta in un disastro: le case d’appartamenti non sono vendute e il Fmi è costretto a intervenire sul mondo bancario egiziano che rischia di esplodere per i prestiti ai palazzinari.
    Ma sul punto focale, sul rifiuto di Israele, sull’antiebraismo razziale Mubarak non conserva l’eredità di Sadat, la dilapida, fa marcia indietro, obbediente alla consegna dei terroristi islamici. Dà il segno della resa al fondamentalismo religioso introducendo una modifica costituzionale: la sharia, la legge coranica, cessa di essere “una delle fonti del diritto”, come nella Costituzione nasseriana, e diventa “la fonte del Diritto”; ne conseguono cambiamenti legislativi peggiorativi. Per ordine del governo sui quotidiani non si può più scrivere Israele, come sotto Sadat, ma solo “entità sionista” (illegale, da eliminare), come in tutti gli Stati arabi che non riconoscono Israele. Sui libri di scuola una macchia bianca, indistinta, senza nome, copre, sempre con la sua minacciosa promessa di violenza, il territorio dello Stato ebraico. Arafat e l’Olp, così come le sue assassine “Brigate di al Aqsa”, vengono non solo non contenute, ma esaltate dalla stampa di regime: nell’autunno del 2002, l’orchestra sinfonica del Cairo trasmette in diretta tv un concerto del soprano Amal Maher, in onore di Wafa Idriss, militante di al Fatah, prima donna martire-assassina palestinese (ha maciullato un ebreo di 80 anni). Coperto sulla scena internazionale da un’ammissione nell’Internazionale Socialista (stranamente sempre rivendicata con orgoglio da Giuliano Amato), Mubarak – che scampa per un soffio a un attentato di al Qaida ad Addis Abeba nel 1995 – mantiene un regime illiberale di polizia, in cui tiene sotto pressione i Fratelli musulmani, ma in cui di fatto si fa dettare da loro l’agenda politica.
    Lo si vede bene nel 1996, quando boicotta – tentando d’imporre un’equiparazione tra terrorismo palestinese e esercito israeliano – un vertice mondiale contro il terrorismo (che continua a fare stragi in Egitto). Lo si vede nel ’98, nel ’99 e dopo l’11 settembre 2001, quando la delegazione egiziana è in prima fila per far saltare gli sforzi che l’Onu compie per definire, anche in termini legali, il terrorismo, in specie islamico. Lo si vede nell’autunno del 2001, quando il suo Egitto, nonostante la copertura Onu, rifiuta di mandare anche un gagliardetto simbolico contro il regime dei Talebani in Afghanistan. Lo si vede nell’inverno del 2004, quando organizza una conferenza farsa d’intellettuali arabi ad Alessandria d’Egitto per rifiutare – in nome di fumosi impegni futuri, mai realizzati – quelle riforme nel campo della parità delle donne, dell’istruzione e della libertà di stampa che Bush ha fatto approvare dal G8. A chi gli chiede riforme politiche e liberalizzazioni, Mubarak risponde che non può concederle perché con la democrazia vincerebbero i Fratelli musulmani; così mantiene in vigore da 23 anni lo stato d’emergenza, prepara la successione al figlio Gamal, dopo una probabile “camera di compensazione” gestita dal potente capo dei Servizi segreti del regime, il generale Omar Suleiman. Soprattutto si impegna a fare concorrenza agli estremisti islamici sul loro stesso terreno, tant’è che oggi i Fratelli musulmani dicono sulle stragi di Taba, con più chiarezza, quello che il gran muftì di Mubarak afferma con parole contorte: “L’attentato di Taba è il risultato diretto dei massacri terribili perpetrati dal nemico sionista contro il popolo palestinese disarmato e delle aggressioni barbare delle forze d’occupazione americana in Iraq”.

(Il Foglio, 12 ottobre 2004)





4. ISRAELE ONORA TRE BERLINESI CON LA MEDAGLIA YAD VASHEM




All'autrice Karin Friedrich è stata conferita ieri [12 ottobre] a Berlino la medaglia Yad Vashem. Adesso può portare il titolo onorifico di "Giusto

prosegue ->
fra le nazioni". La direzione del monumento commemorativo dell'Olocausto in Gerusalemme, Yad Vashem, onora con questa medaglia quei non ebrei che con impegno personale e a rischio della propria vita hanno salvato degli ebrei dallo sterminio dei nazisti.
    Durante la dittatura nazista, Karin Friedrich e sua madre, insieme ad altre nove persone, gestivano a Berlino una vera e propria rete di aiuto. Dopo la guerra questo gruppo è stato chiamato "Zio Emil", perché questo era il nome in codice che veniva usato come avvertimento. «Tutti erano decisi ad aiutare ebrei e perseguitati politici a sopravvivere, .... motivati soltanto dal desiderio di opporsi a quell'ingiustizia che gridava vendetta", scrive Friedrich nella sua biografia.
    Qualche anno fa sua madre Ruth Andreas Friedrich, ormai morta, ha ricevuto lo stesso riconoscimento.
    Oltre a Karin Friedrich, lo stesso titolo d'onore è stato conferito a due donne defunte, Elise Garzke-Israelowicz e Grete Rönnfeldt. I relativi attestati e medaglie sono stati consegnati dal delegato dello Stato d'Israele, Ilan Mor, ai figli delle defunte.
    Mor ha elogiato l'impegno delle donne premiate, che hanno saputo mantenere anche sotto la dittatura nazista il senso della giustizia e dell'umanità. A Elise Garzke-Israelowicz il premio è stato conferito perché ha nascosto e mantenuto per un anno nella sua abitazione l'ebreo berlinese Isaak Grünberg. Grete Rönfeldt, la terza premiata, ha nascosto nella sua abitazione Harry Ernsthaft, figlio di una famiglia ebraica di Schönefeld in cui lei era stata impiegata come bambinaia.
    Soltanto a Berlino 1.500 ebrei sono sopravvissuti perché delle coraggiose famiglie, nonostante la minaccia di gravi punizioni, li hanno tenuti nascosti dai nazisti.

(Die Welt, 13 ottobre 2004)





5. UN EBREO ITALIANO TORNA A VISITARE IL PAESE D'ORIGINE




Ritorno al paese dopo una vita nel kibbutz

di Bruno Colombi

In occasione delle manifestazioni indette dalla Comunità israelitica per celebrare le «Giornate europee della cultura ebraica» , ha fatto ritorno a Soragna Bruno Levi, fratello di Fausto, al quale è dedicato il locale museo ebraico. Proveniente dallo stato di Israele, dove si è trasferito 54 anni or sono, quello di Bruno Levi è stato un ritorno nel paese d'origine - dov'è nato nel 1921 - fatto all'insegna dei sentimenti e dei ricordi familiari. Con lui c'era Luisa Minerbi, la moglie che aveva sposato alcuni mesi prima della partenza per quella terra promessa che ha sempre rappresentato il sogno biblico del popolo ebraico. Insieme hanno rivisto i luoghi dell'infanzia legati alla famiglia Levi, la bella casa di campagna situata in località Pongennaro che costituiva la residenza estiva dopo quella della città: «Ricordo bene - ha detto Levi - il trambusto domestico di ogni anno, quando dovevamo trasferirci a Soragna con pentole, stoviglie, posate e biancheria: scatoloni pieno di roba che poi dovevamo riordinare e riportare in città» . Si sono recati nella sinagoga di via Cavour e non hanno mancato di fare una visita al cimitero ebraico dove, con una punta d'amarezza e di commozione, si sono soffermati sulle lapidi purtroppo corrose dal tempo, alla ricerca del nome di qualche familiare o di amici che avevano conosciuto.
    Il legame di Bruno Levi con Soragna è sempre rimasto assai radicato, tanto che molti episodi della sua vita si sono spesso intrecciati con le vicende locali: una vita talvolta anche movimentata, segnata dalle leggi razziali del 1938, le cui prime tappe sono iniziate nelle aule del liceo classico per proseguire nella scuola ebraica di Milano e nel collegio di orticoltura di Antibes, sulla Costa Azzurra. Poi lo scoppio del conflitto bellico, gli esami di maturità a Parma, il trasferimento in Svizzera e il conseguimento della laurea in chimica generale a Losanna, a cui purtroppo si aggiunse, nel 1943, la tragica fine del padre Renzo, prelevato dalla casa di Soragna e deportato poco dopo nel campo di sterminio nazista di Mathausen. Una breve parentesi costituita da un impiego nell'Istituto sperimentale delle conserve di Parma e nell'amministrazione dei beni della Comunità israelitica di Roma, e poi il matrimonio con Luisa Minerbi, una giovane ferrarese che aveva compiuto gli studi magistrali e che lasciava dietro di sè il ricordo di tante peripezie vissute in tempo di guerra, fatte di mesi trascorsi in un rifugio ricavato sotto il convento francescano della Verna, di fughe attraverso i campi minati, di un soggiorno nel campo profughi della Croce rossa e infine della salvezza raggiunta nella Roma appena liberata.
    In quegli anni postbellici, Bruno Levi si è avvicinato al sionismo moderato, cosí nel 1950 ha preso con sè moglie e bagagli e si è trasferito in Israele, nel kibbutz Rohama posto nella regione del Negev, a trenta chilometri da Gaza, ove tuttora risiede. Qui ha iniziato la sua nuova vita, insegnando dapprima matematica e chimica in scuole di accoglienza per bambini privi di mezzi, poi in un ginnasio- liceo regionale frequentato da un migliaio di studenti provenienti da undici kibbutz. Tale attività didattica è stata pure affiancata da quella di responsabile agricolo della comunità che si occupava dell'allevamento di tacchini e di capre bianche, utilizzando le prestazioni degli stessi alunni. La moglie, invece, ha diretto una grande sartoria, con il compito di gestire anche gli acquisti del vestiario per tutto il kibbutz.
    Ora che la famiglia si è ingrandita con l'arrivo di due figli - Rami, designer industriale e insegnante di storia dell'arte, e Ori, ufficiale in un'unità scelta dell'esercito israeliano e dirigente agricolo - e di sei nipoti, il pensionato Bruno Levi è diventato un «personaggio» nel suo kibbutz, sempre pronto per risolvere ogni piccolo problema tecnico e meccanico in riparazioni di ogni genere.
    Soddisfatto della scelta finora fatta? Levi non ha esitazione alcuna: «Io e mia moglie rifaremmo tutto quanto abbiamo fatto. Gli inizi sono stati un po' difficili, specialmente per quanto riguardava l'apprendimento della lingua ebraica, ma poi ci siamo perfettamente integrati nella nuova realtà. Certo che, specialmente in questi ultimi tempi, si vive nella paura e nel terrore per un conflitto con i palestinesi di cui non si vede la fine, nel quotidiano contatto con i pericoli che si corrono salendo su un autobus o frequentando mercati e luoghi pubblici».
    Alla fine il discorso è caduto sulla religione ebraica e i suoi precetti: «La fede non manca, cosí come l'osservanza delle feste comandate» , ha detto Bruno Levi, che però, con un sorriso, ha anche aggiunto: «Devo purtroppo ammettere che, da buon parmigiano, a una punta di formaggio e a quattro fette di prosciutto e di culatello non so proprio dire di no».

(La Gazzetta di Parma, 12 ottobre 2004)





6. RICOSTITUITO IL SINEDRIO IN ISRAELE




TIBERIADE - Un gruppo di Rabbini ha fondato mercoledì scorso a Tiberiade un nuovo Sinedrio. L'antico Alto Consiglio degli ebrei si è riunito per l'ultima volta nell'anno 425 nella città presso il lago di Genezaret.
    Secondo le loro dichiarazioni, i Rabbini vogliono riunirsi ogni due mesi e discutere su "temi scottanti". Come nell'antichità, il Sinedrio sarà formato da 71 membri. Inoltre le sedute dovranno svolgersi secondo gli antichi statuti.
    Secondo quello che riferisce "Yediot Aharonot", l'idea era nata già qualche anno fa. I Rabbini hanno rilevato un grande bisogno nel popolo d'Israele. "Siamo arrivati al punto che ci scagliamo l'uno contro l'altro", ha dichiarato Rav Yishai Ba´abad. "Siamo venuti per dare speranza al popolo d'Israele". Il Sinedrio dovrebbe contribuire alla redenzione d'Israele.
    Un tema all'ordine del giorno è l'attuale crisi nella coalizione di governo israeliana. I Rabbini tratteranno la questione se ci dovranno essere nuove elezioni. Si occuperanno inoltre del piano di ritiro dalla striscia di Gaza. "Se dopo l'indagine decideremo che il governo infrange la Torah, stabiliremo per decreto che il governo non deve essere sostenuto", ha detto Rav Ba´abad.
    Durante le sedute, che in futuro si terranno a Gerusalemme, ogni partecipante potrà esporre la sua opinione. Alla fine si voterà.
    Entrambi i Rabbini Capo israeliani, pur essendo stati invitati, non hanno partecipato alla riunione di fondazione a Tiberiade.
    Secondo fonti rabbiniche, in antico al Sinedrio spettava la decisione su guerra e pace. Inoltre costituiva le Corti di Giustizia, i Re e i Sommi Sacerdoti. A loro spettavano anche i giudizi sull'idolatria, sui falsi profeti o sui Sommi Sacerdoti che cadevano in peccato.
    Il Nuovo Testamento riferisce negli Evangeli che Gesù è stato condannato a morte dal Sinedrio. Nel Talmud babilonese e in quello di Gerusalemme il trattato "Sinedrio" è dedicato all'Alto Consiglio.

(Israelnetz Nachrichten, 14.10.2004)





7. CONSIDERAZIONI SUL SIGNIFICATO DELL'ALIÀ





Salire in Israele... e elevarsi

di Shlomoh Brodowicz

Negli ultimi tempi sono apparsi diversi racconti personali con esortazioni a lasciare l'esilio e a salire in Israele: racconti molto più commoventi di altri argomenti, che non possono lasciare nessuno indifferente perché i loro autori vi esprimono un vissuto autentico.
    Per parte mia, non potrei attribuirmi il merito di coloro che hanno passato questo Rubicone e in questo modo hanno dato alla loro esistenza ebraica - spesso al prezzo di un percorso che non ha nulla di una sinecura - un senso che nessun altro passo potrebbe conferire.
    Vorrei tuttavia, umilmente e alla luce degli insegnamenti che esaltano tanto il nostro Paese, consegnare alcune riflessioni - oserei dire alcune apprensioni - che invadono il mio cuore da quando gli è stata suggerita l'idea di compiere questo passo sublime.
    Dissipiamo subito un dubbio: la terra d'Israele non è quel pezzo di "focolare ebraico" che le nazioni ci hanno misericordiosamente accordato il 29 novembre 1947, vergognose com'erano - ma non per molto tempo - di averci vigliaccamente abbandonati. Questo paese non è nemmeno più quell'entità nazionale destinata - nel pensiero di Borokhov e degli altri teorici del sionismo socialista - a darci una dignità sociale in seno alle nazioni. La terra d'Israele è la clausola prima sulla quale è fondata l'allenza fatta nel passato da D-o con Abraamo quando il Creatore decise sovranamente che un popolo, che sarebbe stato suo, sarebbe uscito dal padre di tutti i credenti. Il corollario è che questo paese non è unicamente il luogo geografico destinato a rifugiare la nazione ebraica, di cui sarebbe la sola patria storica. E' molto di più. Il fatto che la promessa di accordare questo Paese a Israele sia stata fatta da colui che ha generato questo popolo testimonia di una connivenza fondamentale tra l'anima ebraica e la terra d'Israele, connivenza che trascende i concetti legati al nazionalismo politico.
    Lasceremo qui da parte le controversie sul fatto di sapere se esiste o no il dovere di abitare Eretz Israel ai nostri giorni. Lasceremo anche nel dimenticatoio della storia quelle dispute ormai senza oggetto legate alla domanda se la tradizione ebraica spinga o no a restaurare una sovranità ebraica su Israele prima della venuta del Messia. E poi, giù la maschera: antisemitismo o no, il benessere e la prosperità che godiamo in seno alle nazioni è un'illusione. L'esilio non è certo un incidente della storia: proviene da una sovrana volontà di D-o e la mistica ebraica ha ampiamente spiegato come la dispersione del popolo ebraico tra le nazioni proceda da quella vocazione ebraica ad associare tutta la creazione alla redenzione finale. Ma, come Giacobbe, noi dobbiamo percepire questa «discesa in Egitto» come una costrizione e non cercarvi conforto.
    Ci sono però alcuni fatti che i tragici colpi della storia che viviamo non ci permettono più di negare.
    La percezione politica del nostro diritto sulla nostra terra è erronea, ed è anche vero che coloro che l'hanno professata nei primi decenni dello Stato d'Israele - anche se bisogna rendere omaggio ai loro sacrifici - non hanno lasciato alcuna eredità, morale o politica.
    Ormai siamo altrettanto perdenti quanto eravamo vincenti fino al 1967, ed è anche vero che la cattiva coscienza delle nazioni è più volatile dei giuramenti di un ubriaco. Quindi la nostra ostinazione a sopportare la mollezza e la pigrizia di quelli che verranno senza lo stato d'animo di voler chiudere la parentesi di questa commovente epopea, proviene - che lo si riconosca o no - da una componente dell'anima ebraica che è al di là dell'orizzonte politico.
    Ecco ciò che forse permette di percepire l'Alià sotto una luce che non è spesso evocata. Numerosi sono i maestri, ivi compresi - e forse soprattutto - quelli della mistica ebraica che hanno esaltato il senso di compimento che conosce l'anima ebraica quando il corpo che la riveste si trova sulla terra d'Israele. Molti sono coloro che attestano che la Torah non si rivela mai così tanto a colui che la studia come quando se ne interessa in Israele. Due secoli prima del Congresso sionista di Basilea delle comunità hassidiche, e altre ancora, si erano stabilite in Terra Santa perché coscienti del fatto che calpestare quella terra costituisce già una mitsvah, e che esservi seppelliti procura l'espiazione dei peccati.
    E che dire di quella terribile parola del trattato talmudico di Ketubot che afferma che «colui che dimora in Eretz Israel è considerato come avente un D-o, mentre...».
    Allora, alla luce di queste sublimi parole, e di molte altre ancora, io mi chiedo: Che sarò io dopo che avrò a mia volta - come ne nutro l'intenzione - varcato questo Rubicone?
    Sarò un miglior ebreo per il solo fatto che le mie dieci dita dei piedi si trovano già sull'altra riva?
    Altrimenti detto, dovrò considerare come acquisito questo immenso privilegio ignorando i doveri che questo acquisto implica?
    E se dopo essermi stabilito nel mio paese mi ritrovassi lo stesso che ero a Parigi?
    E se improvvisamente colui che calpesta la Terra Santa rivelasse virtù e difetti che niente hanno a che fare con ciò che questo luogo dovrebbe ispirare all'anima, al cuore e allo spirito? Non sarebbe questo un affronto a tutti quelli che hanno pagato un pesante tributo per darmi ora il diritto di abitare in questo sublime paese, a cui la mia persona non rende alcun vero omaggio?
    E' vero, il Talmud afferma che «l'aria di Eretz Israel ispira il buon senso», ma il diritto talmudico afferma anche che per acquisire qualcosa, la coscienza vigilante per acquisirlo è indispensabile.
    Questi pensieri - che umilmente confesso di aver attinto dalla corrispondenza del Rabbi di Lubavitch - mi hanno invaso in ognuno dei giorni che ho trascorso in Eretz Israel. Questo Paese merita che ci sia lo stesso ebreo che c'era nel paese di Voltaire e di Joxè Bové?
    In una parola, nessuno può pensare di accedere alla santità serafica solo mettendo il piede sulla terra promessa ai nostri Patriarchi, e i pensieri che modestamente qui consegno sono unicamente quelli che mi girano nel cuore, perché non ho alcun gusto per la predicazione.
    Detto questo, il Talmud afferma che D-o fa in modo che i buoni pensieri si cristallizzino in azioni. Allora bisogna soltanto varcare il Rubicone, e se il nostro desiderio è là, D-o farà il resto.

(Guysen Israël News, 9 settembre 2004)




8. MUSICA E IMMAGINI





Cry for you




9. INDIRIZZI INTERNET




Crisis: Israel

Voice in the Wilderness




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