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Notizie dicembre 2014


Hamas: il voto all'Onu è frutto scelte sbagliate di Abu Mazen

Hamas critica aspramente il presidente Abu Mazen dopo il fallimento della sua iniziativa all'Onu. Quell' insuccesso, ha detto un portavoce di Hamas, era prevedibile "perché legato alle sue scelte errate, nella ricerca di un accordo con l'occupante". La mozione presentata all'Onu era peraltro carente "perché minacciava i diritti nazionali palestinesi" con concessioni,secondo Hamas, superflue. Critiche analoghe sono giunte dalla Jihad islamica.

(RaiNews24, 31 dicembre 2014)


L'arsenale di Hamas

di Eugenio Roscini Vitali*

Il 14 dicembre scorso, a ventisette anni dalla sua fondazione, Hamas ha voluto fornire un'ampia panoramica del suo potenziale militare. In parata, lungo le vie di Gaza City, di fronte al gruppo dirigente e ai leader Ismail Haniyeh e Mousa Mohammed Abu Marzook, hanno sfilato le Brigate Izz al-Din al-Qassam, braccio armato del movimento islamico che dal 2007 controlla la Striscia da Gaza.
Più di duemila miliziani, a volto coperto e in uniforme da combattimento, hanno attraversato la città mostrando al mondo la vasta gamma di razzi, missili e di sistemi d'arma di cui dispongono. Immagini pubblicate dal quotidiano Daily Mail che rivelano la presenza di razzi J-90 e R-160, prodotti nelle officine di Gaza, di un missile etichettato "Qassam ??", di un lanciamissili M-75 e di quello che sembra essere il razzo iraniano d'artiglieria Fajr-5 da 333 mm.
  Hamas aveva annunciato l'esistenza dei razzi J-90 ed R-160 lo scorso luglio, durante l'operazione "Margine di protezione" lanciata dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) per arginare il lancio di missili contro i suoi territori.
Anche se dotato di alette posteriori diverse, l'R-160 visto il 14 dicembre avrebbe lo stesso calibro 302 mm degli M-302 prodotti in Siria ed Iran, missili con gittata da 160 km che secondo il Mossad sarebbero stati contrabbandati dai gruppi armati che operano all'interno della Striscia di Gaza e che il 5 marzo 2014 erano stati rinvenuti dagli uomini dello Shayetet 13 (Forze speciali della Marina Militare israeliana) a bordo del Klos-C (foto a sinistra) , cargo battente bandiera panamense partito dal porto iraniano di Bander Abbas e diretto a Port Sudan, tappa obbligata il per traffico di armi destinato ad Hamas.
Più grande dell'R-160 è sembrato essere il missile etichettato "Qassam ??", lungo circa 6.50 m e con un diametro di 425 mm, misure che, nel caso non fosse solo un becero tentativo per impensierire Israele, lo avvicinano al razzo cinese WS-2 e che lasciano quindi pensare ad una gittata superiore ai 160 chilometri.
  Mostrato anche uno dei tre "Adabil I" costruiti nella Striscia di Gaza, velivoli a controllo remoto (UAV) realizzati con componenti off-the-shelf per missioni di ricognizione (Adabil A1A), missioni offensive (Adabil A1B) e missioni suicide (Adabil A1C). Tra gli armamenti che hanno sfilato il 14 dicembre compaio, inoltre, numerose armi anti-carro, tra cui la versione nord coreana del 9K111 Fagot AT-4 Spigot, l'ATGM Bulsae-2, e quello che sembrerebbe essere un lanciarazzi RPG-29 Vampire armato, con ogni probabilità, con munizioni Ghadir di produzione iraniana.
Secondo un report pubblicato dal Middle East Media Research Institute (MEMRI), intitolato "Les armes et les unités des Brigades Izz al-Din al-Qassam", il braccio armato di Hamas conterebbe su una forza effettiva totale di 30.000 uomini, distribuiti in sei reggimenti composti da cinque battaglioni ciascuno.
  Dal punto di vista organizzativo, la struttura paramilitare è suddivisa in sei componenti: Fanteria, Forze speciali, Genio, Unità corazzate, Artiglieria e Difesa Aerea.
In termini quantitativi la più numerosa è senza dubbio la Fanteria, componente impegnata come forza di protezione interna e, in caso di conflitto, nella difesa del territorio. La Fanteria conta l'85% della forza totale ed è armata con fucili d'assalto M-16 e Kalashnikov AK-74 e AK-103, fucili mitragliatori Krinkov, fucili di precisione Dragunov calibro 7-62 mm, mitragliatrici PKC e bombe a mano di fabbricazione locale.
Le Unità Speciali, che in fase offensiva rappresentano la principale risorsa della Brigate, operano invece dietro le linee nemiche, infiltrandosi all'interno del territorio israeliano.
  I suoi membri, conosciuti per azioni come l'attacco alla postazione israeliana di Kerem Shalom e per il rapimento del carrista delle IDF, Gilad Shalit, sono armati con fucili d'assalto M-4, M-16, FN-2000 e Kalashnikov AK-103, fucili automatici leggeri FN-FAL, mitragliette Krinkov, fucili di precisione Dragunov e Steyr calibro 12.7 mm, lanciarazzi RPG-7 e RPG-18, bombe a mano, granate, cariche esplosive, binocoli per la visione notturna e apparati per le comunicazioni.
Altra componente delle brigate Izz al-Din al-Qassam è il Genio, pilastro della struttura paramilitare palestinese e unico responsabile per le infrastrutture e per la produzione militare,della fabbricazione dei razzi e delle cariche esplosive Shuwaz da 40 kg, allo scavo delle gallerie e dei tunnel destinati al contrabbando e allo stoccaggio delle armi, alle operazioni in territorio israeliano e al rifornimento logistico.
  Le Unità anticarro hanno invece il compito di contenere l'avanzata dei tank e i blindati israeliani. Per farlo utilizzano: lanciatori RPG-7, arma controcarro da 40 mm e tiro utile di 500 m; lanciatori RPG-29, tubo di lancio da 105 mm e una munizione formata da una testata in tandem capace di perforare una corazza di 600 mm; missili 9M14 Malyutka AT-3 Sagger, range di 500-3.000 m e testata da 2,6 kg, missili 9M111 Fagot AT-4 Spigot, guida semi automatica SACOL e range di 70-2.000 m, e missili 9M113 Konkurs AT-5 Sprandel, arma anticarro teleguidata a lunga gittata (70-4.000 m) che i palestinesi definiscono una spina nel fianco per i tank israeliani Merkava.
Le unità combattenti più attive sono senza dubbio quelle inquadrate all'interno nell'Artiglieria, le prime ad utilizzare nel 2001 i razzi Qassam e le uniche a colpire in profondità lo Stato di Israele. L'arsenale è composto da un'ampia gamma di mortai, razzi d'artiglieria e missili balistici a corto e medio raggio, armamenti con un range che va da 70 m a 160 km e che possono coprire la quasi totalità del territorio israeliano.
  Oltre ai mortai da 60 mm e 81 mm (70-6.000 m), le brigate Izz al-Din al-Qassam utilizzano i razzi di produzione artigianale Qassam-1 60 mm (4.5 km), Qassam-2 150 mm (10 km) , Qassam-3 170 mm (12 km) e Qassam-4 126.5 mm (17 km), razzi M-75 (70 km) e J-80 (80-km) e missili Rantisi R-160 (160 km). Inoltre, l'arsenale comprende i razzi russi BM-21 Grad (20 km), i razzi cinesi WS-1E (45 km), quelli iraniani Fajr-5 (75 km) e i missili siriani Khaibar M-302 (170 km).
Ultima componente delle Brigate al-Qassam è la Difesa Aerea, costituita meno di sette anni fa e armata con mitragliatrici DShk calibro 12.7?108 mm, 600 colpi al minuto e range di 2.5 km, mitragliatrici a canna singolo PKC calibro 7.62?54 mm e mitragliatrici a canne multiple ZPU-2/4 e KPV calibro 14.5?114 mm, e sistemi missilistici superfici-aria a corto raggio trasportabili a spalla (MANPADS) 9K32 Strela-2 SA-7 Grail, guida passiva a infrarossi e range 3.7 chilometri.
  Infine, tra i missili antiaerei in dotazione ai miliziani palestinesi ci sono il 9K38 Igla SA-18 Grouse e il più moderno 9K338 Igla-S SA-24 Grinch, MANPADS dotati di guida ad infrarossi e sensori intelligenti utilizzati per una ricerca più accurata dell'obbiettivo ed una maggiore resistenza ai disturbatori di segnale (jammers) e alle contromisure basate su sistemi di inganno (flares).
A diretto contatto con i vertici politico-militari di Hamas lavorano l'Intelligence militare, l'agenzia per gli affari interni che monitora le attività militari dell'IDF e le possibili infiltrazioni di agenti dello Shin Bet, e l'Ufficio informazioni, che emana i comunicati relativi alla sicurezza e alle attività anti-israeliane.


* Colonnello dell'Aeronautica Militare in congedo, ha conseguito un master di specializzazione in analisi di sistema e procedure all'Istituto Superiore di Telecomunicazioni. In ambito internazionale ha prestato servizio presso il Comando Forze Terrestri Alleate del Sud Europa, la 5^ Forza Aerea Tattica Alleata e il Comando NATO di AFSOUTH. Tra il 1995 e il 2003 ha preso parte alle Operazioni NATO nei Balcani (IFOR/SFOR/KFOR). Gestisce il sito ITlogDefence.

(Analisi Difesa, 31 dicembre 2014)


Centinaia di funzionari di Hamas in sciopero bloccano la sede del governo a Gaza

Centinaia di funzionari di Hamas in sciopero generale hanno bloccato la sede del governo di unità nazionale a Gaza, in Palestina, dopo l'annuncio del licenziamento di cinquantamila persone, che in futuro lavoreranno solo in caso di "necessità".
La protesta è stata organizzata in occasione della prima visita del governo di unità nazionale nato nell'aprile 2014 dalla riconciliazione firmata tra Hamas e Fatah.
Hamas ha richiesto che ai suoi 50mila funzionari, assunti nel 2007 per rimpiazzare i lavoratori dell'Autorità palestinese, venga pagato lo stipendio che non ricevono da sette mesi. Solo a 24mila di loro è arrivato un indennizzo parziale di 1.200 dollari a fine ottobre.

(International Business Times, 31 dicembre 2014)


Ancona - Gli Ebrei e le Marche, il primo incontro per "Oltre il Grand Tour"

Dopo la serie di iniziative, tra novembre e dicembre, legate al tema di "Ancona e l'eredità ebraica", la Biblioteca Comunale "Benincasa" ha organizzato il ciclo di incontri "Oltre il Grand Tour" che, attraverso i libri presentati, esplorano il rapporto tra ebraismo e cultura in Italia.
   Il 7 gennaio 2015, sarà la volta della presentazione del numero della rivista "Marca/Marche" dedicato a "Gli ebrei e le Marche: ricerche, prospettive, didattica" a cura di Luca Andreoni e Marco Moroni. Interverranno Ugo Ascoli e Francesco Chiapparino dell'Università Politecnica delle Marche. La presentazione si terrà alle 17.30 presso lo Spazio Incontri della Biblioteca Benincasa.
   Il numero della rivista contiene diversi saggi che approfondiscono vari aspetti del rapporto tra ebrei e le Marche: dalla presenza delle comunità ebraiche nella regione ai cognomi degli ebrei marchigiani, dalla relazione tra immagini e antigiudaismo alla didattica sulla Shoah ed alla presentazione di una interessante figura dell'ebraismo anconetano.
   Luca Andreoni opera presso il Dipartimento di scienze economiche e sociali dell'Università Politecnica delle Marche. Si occupa di temi economici e sociali in età moderna e contemporanea, con particolare attenzione al ruolo delle minoranze. Su questi argomenti ha al suo attivo diverse pubblicazioni.
   Ugo Ascoli è attualmente Ordinario di Sociologia Economica presso la Facoltà di Economia "G.Fuà" della Università Politecnica delle Marche. Autore di numerose pubblicazioni, è stato Preside della Facoltà di Economia della Università Politecnica delle Marche dal 1994 al 1997. Dal 2002 al 2008 è stato Assessore della Regione Marche con deleghe alla Organizzazione, al Personale, all'Informatica , all'Istruzione, Formazione e Lavoro.
   Francesco Chiapparino è docente presso la Facoltà di Economia "G.Fuà" dell'Università Politecnica delle Marche, dove insegna storia economica e storia della banca e della finanza. Accanto agli interessi per la storia dell'industria alimentare e per l'archeologia industriale , si è dedicato alla storia economica dell'Italia centrale in età contemporanea, pubblicando vari saggi sull'evoluzione delle banche locali marchigiane.
   Marco Moroni, già docente di Storia economica presso la Facoltà di Economia "G.Fuà" dell'Università Politecnica delle Marche, dopo essersi a lungo occupato del mondo mezzadrile e dei processi di industrializzazione della «Terza Italia», si occupa dei processi di sviluppo caratteristici delle regioni dell'Italia centrale, oltre che dei rapporti economici intercorsi fra le due sponde dell'Adriatico.

(AnconaToday, 31 dicembre 2014)


Il Consiglio di Sicurezza boccia la risoluzione palestinese

di Andrea Neri

 
Un voto in meno del necessario. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha bocciato la risoluzione palestinese presentata dalla Giordania per un accordo di pace che prevedeva il ritiro d'Israele dai territori occupati entro la fine del 2017: 8 i voti a favore, 5 le astensioni, 2 i contrari, Australia e Stati Uniti che non hanno dovuto utilizzare il proprio diritto di veto.
"Questa risoluzione è la premessa per ulteriori divisioni, non per un compromesso. Può solo contribuire ad esacerbare lo scontro che si propone di risolvere. Per decenni gli Stati Uniti hanno lavorato per arrivare ad una soluzione definitiva del conflitto israelo-palestinese e restiamo impegnati per ottenere la pace che sia i palestinesi che gli israeliani meritano. Due Stati per due popoli con una Palestina sovrana e indipendente che vive affianco, in pace e sicurezza, con uno Stato ebraico e democratico di Israele" ha detto testualmente l'ambasciatrice americana all'Onu Samantha Power.
"Il risultato del voto di oggi dimostra che il Consiglio di Sicurezza nel suo complesso evidentemente non è ancora pronto" ha detto l'ambasciatore palestinese all'Onu Riyad Mansour. "Non vuole assumersi le sue responsabilità affinchè venga adottata una risoluzione completa, una risoluzione che ci permetta di arrivare alla pace, ad una soluzione giusta e definitiva basata sul diritto internazionale".
Per essere adottata la risoluzione avrebbe avuto bisogno di 9 voti. Nell'ultima settimana, dopo mesi di lavoro diplomatico palestinese contro cui si erano tuttavia schierati gli Stati Uniti, erano state apportate alcune modifiche, inclusa la richiesta di Gerusalemme Est come capitale dello Stato Palestinese.

(euronews, 31 dicembre 2014)


A favore della risoluzione palestinese hanno votato Cina, Francia, Russia, Argentina, Ciad, Cile, Giordania e Lussemburgo. Stati Uniti e Australia sono i due Paesi che hanno votato contro, mentre Gran Bretagna, Lituania, Nigeria, Corea e Ruanda si sono astenuti.


Voto Onu sulla Palestina: delusione ANP, soddisfazione di Hamas

Soddisfazione di Hamas e degli odiatori di professione per la decisione dell'Onu di respingere la risoluzione proposta dalla ANP. Incredibili alcuni commenti dei cosiddetti "difensori dei Diritti Umani" su Facebook. Una carrellata di odio espressa senza pudore.

Alla ovvia delusione della ANP per la decisione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu di respingere la risoluzione palestinese che chiedeva, tra le altre cose, il ritiro programmato dell'esercito israeliano entro il 2017, si contrappone la soddisfazione di Hamas che aveva sempre osteggiato la risoluzione in quanto, a detta loro, "Israele non deve proprio esistere".
Per lo stesso motivo di Hamas soddisfazione viene espressa anche in molte bacheche di odiatori di professione, quelli che si autodefiniscono "difensori dei Diritti Umani" e che predicano senza tanti giri di parole la distruzione di Israele, gente che chiama i terroristi "martiri" e che gioisce quando una bambina israeliana viene bruciata nella sua automobile....

(Right Reporters, 31 dicembre 2014)


Il rabbino Laras tra i saggi dell'Ambrosiana

Il primo ebreo Dottore Honoris Causa

di Anna Mangiarotti

MILANO - Giuseppe Laras Dottore della Veneranda Biblioteca Ambrosiana honoris causa. Con la cerimonia ufficiale, nel 2015, legittimata dalla presenza del cardinale Angelo Scola, per la prima volta un ebreo entrerà a far parte del collegio di studiosi che rappresenta la vera anima dell'istituzione creata nel Seicento dal cardinale Federico Borromeo.
Subito straordinario centro di cultura d'avanguardia, aperta al pubblico, la grande magnifica Ambrosiana di Milano ora conferma la città punto di riferimento qualificato, in Europa e non solo, per il dialogo interreligioso. Promosso dal cardinal Martini proprio insieme a Laras.
  Legati, i due testimoni di fede, da forti sentimenti di stima e soprattutto sincera amicizia, per un confronto ampio e civile su temi etici di valore universale come la famiglia, il lavoro, la pace. All'inizio degli anni '80, l'avvio di una svolta che il futuro saprà valutare in tutta la sua importanza. Intanto, la riflessione sui Dieci Comandamenti è arrivata in tv. Ma prima di diventare pop, è stata condivisa dai cittadini ambrosiani, cristiani e non, tutti figli di Abramo. Già Accademico fondatore della Classe di Studi sul Vicino Oriente della stessa Ambrosiana nel 2009, il torinese Laras, 79 anni, attualmente presidente del Tribunale Rabbinico dell'Italia Settentrionale, nel capoluogo lombardo è stato rabbino tra il 1980 e il 2005, oltre che docente all'Università degli Studi.
  Coerenti, le sue dichiarazioni a proposito dell'evento messianico, quale annuncio di riconciliazione non solo familiare e intergenerazionale, e di re-incontro e di ricomposizione nell'unità di fede nel Dio unico fra popoli, creature e credi diversi. Alle sue lezioni presso la Fondazione Maimonide, da lui voluta a Milano nel nome di un pensatore del XII secolo che mise a confronto l'identità ebraica con la cultura greco-latina e il pensiero islamico, ha partecipato anche monsignor Franco Buzzi, prefetto dell' Ambrosiana. Che nella nomina di Laras vede rafforzata una secolare tradizione d'impegno comune: «Tanto più significativo nel nostro tempo, travagliato da problemi che, per meglio essere affrontati, necessitano di sinergie consapevoli e appassionate».

(il Giorno, 31 dicembre 2014)


Israele - L'impegno contro Ebola. In prima fila per aiutare l'Africa

di Daniel Reichel

Il medico Leslie Lobel dell'Università di Ben Gurion, da 12 anni impegnato in Africa nel contrastare il virus Ebola

"Vogliamo ringraziare Israele per il suo generoso contributo per fermare Ebola e per aver capito come i bambini siano particolarmente vulnerabili nel corso delle emergenze". Così il presidente del Fondo americano per l'Unicef (United Nations Children's Fund) Caryl Stern ha voluto ringraziare le autorità israeliana per aver finanziato l'impegno dell'organizzazione nella lotta all'epidemia di Ebola che ha colpito alcuni paesi africani con una cifra pari a 8,75 milioni di dollari. Si tratta del più grande finanziamento fino ad ora stanziato da un singolo paese sul fronte della cura e prevenzione della diffusione della malattia che ad oggi ha causato 6,900 vittime e ha contagiato 19mila persone. Liberia, Sierra Leone e Guinea tra i paesi più colpiti, dove il Ministero degli Esteri di Israele ha inviato negli scorsi mesi tre cliniche mediche di emergenza con l'obiettivo di formare gli operatori sanitari locali con gli strumenti al momento disponibili per contrastare l'epidemia. Nelle zone colpite, sono stati inoltre inviati dal governo di Gerusalemme e da altri enti israeliani aiuti umanitari e strumentazione medica d'avanguardia. Le istituzioni israeliane si sono dunque distinte da tempo nella lotta contro Ebola. "Anche se ci sono stati dei progressi nel controllo della malattia - spiega Stern, nel suo ringraziamento a Gerusalemme - c'è ancora molto da fare per sradicare la malattia e per provvedere alle cure mediche dei bambini, le cui vite sono state sconvolte dall'epidemia". "La donazione israeliana - ha continuato Stern - non poteva arrivare in un momento migliore, proprio mentre l'attenzione del mondo sulla crisi umanitaria sta calando. Questo è un investimento non solo per combattere ora il virus ma anche per garantire sul lungo periodo la salute e il benessere dei bambini e delle famiglie nell'Africa Occidentale".
   Dopo tanto quanto infondato allarmismo nei paesi occidentali, su Ebola ora sembra caduto il silenzio ma la malattia rimane un problema grave per le popolazioni colpite. Non cadiamo nel disinteresse, denunciava sulle pagine del Times of Israel Sally Oren, ambasciatrice dell'organizzazione no profit IsraAid (Israel Forum for the International Humanitarian Aid - organizzazione internazionale impegnata con interventi umanitari nel mondo e che riunisce realtà israeliane ed ebraiche). Proprio IsraAid si è impegnata negli scorsi mesi ad avviare un progetto di informazione e sensibilizzazione sul caso Ebola. Sono stati inviati sul campo, in diversi villaggi africani colpiti dal virus, team di supporto medico e psicologico alle popolazioni locali. Tra le battaglie da perseguire, non solo il contrasto a posteriori della malattia - contratta negli ultimi mesi da oltre 8mila persone, di cui la metà deceduta - ma anche la prevenzione: dare alle persone le informazioni fondamentali per evitare, per quanto possibile, il contagio. Per intenderci, Ebola si trasmette attraverso il contatto diretto con i fluidi corporei infetti di una persona malata e quindi attraverso il contatto col sangue, la saliva, lo sperma, il vomito, le lacrime, l'urina, le feci e il latte materno. Conosce bene come agisce il virus, il virologo israeliano Leslie Lobel (nell'immagine), dell'Università di Ben Gurion, impegnato da 12 anni in Africa nel cercare un vaccino che fermi Ebola. "Questa crisi in realtà è semplicemente una conseguenza naturale - dichiarava Leslie, che con il suo team sta lavorando con i sopravvissuti al virus in Uganda per cercare di isolare un possibile vaccino - il risultato del fatto che il mondo, quando si tratta di combattere infezioni, cade in letargo. Il percorso e lo sviluppo di questo virus non è stato monitorato a sufficienza". Dai tre ai cinque anni la previsione di Leslie per vedere possibili risultati del suo lavoro. Intanto l'impegno per informare e tutelare la salute delle popolazioni dell'Africa Occidentale deve rimanere alto. E l'esempio arriva da Israele.

(moked, 30 dicembre 2014)


La pietra di scandalo

Il profeta come Mosè del libro del Deuteronomio e il Servo dell'Eterno di Isaia 53 sono due figure bibliche che corrispondono ad un unico oggetto: il Messia. Ma chi è il Messia? E' una persona, un sistema politico, una metafora linguistica? E' già venuto? Deve ancora venire? Sulle risposte a queste domande le strade si dividono. E' chiaro - ma non è inutile sottolinearlo con decisione - che dirsi cristiani significa confessare che il Messia è già venuto in Israele una prima volta nella persona di Gesù, come attestato negli scritti del Nuovo Testamento.
   Si sa bene che per molti questo è uno scandalo e una pietra d'inciampo. Certo, sarebbe auspicabile che a causa di questo argomento non volino pietre in direzione di chi ci crede, né si accendano roghi destinati a chi non ci crede, ma non è bene che per ragioni di buona educazione ecumenica ci si accordi nel non parlarne affatto. Il problema esiste, resta scottante, è centrale: non deve dunque essere evitato.
   In forma molto schematica si può dire che:
  • la soluzione dei problemi del mondo è collegata alla soluzione della questione ebraica;
  • il nocciolo della questione ebraica sta nel concetto di nazione ebraica;
  • la nazione ebraica ha il suo centro unificante nella persona del Messia.
   Non ha senso quindi sperare di risolvere alla radice i problemi del mondo trascurando la persona del Messia, e, viceversa, non si può riflettere in modo approfondito sulla persona del Messia senza essere indotti a prendere seriamente in considerazione i problemi del mondo.
   E' vero che esiste un cristianesimo spiritualizzante ed edonistico che sembra interessarsi di Gesù soltanto per la possibilità che offre di strappare anime dalle fiamme dell'inferno e mandarle a godere in paradiso, ma è un Gesù ritagliato artificiosamente dai testi biblici per far emergere soltanto alcuni aspetti prediletti della sua figura, a scapito di tanti altri che restano colpevolmente trascurati, soprattutto quelli che hanno a che fare con Israele. Tenendo conto che la parola "eresia" proviene da un termine greco che significa "scelta", si può dire che anche in questo caso si tratta di una vera e propria eresia.
   Si considerino allora i quattro Vangeli. Molti, anche tra gli atei, li trovano interessanti; i moralisti vi ricavano storielle istruttive, i credenti esempi edificanti, i teologi dottrine complicate. Ma leggendoli attentamente ci si accorge che i quattro Vangeli hanno un unico oggetto di interesse: la persona di Gesù. Sono stati scritti per rispondere a una precisa domanda: "Chi è Gesù?" E al lettore pongono a loro volta una precisa domanda: "E tu, chi dici che sia Gesù?" Dalla risposta a queste due domande dipendono tutte le dottrine e tutti gli insegnamenti pratici che se ne possono trarre. Non ha senso tirar fuori, qua e là, dai racconti evangelici, spunti di attualizzazione pratica senza prima prendere posizione sulla persona di Gesù. E non è possibile comprendere pienamente la persona di Gesù se non la si colloca nel suo contesto ebraico.
 

L'Otto per mille e noi

di Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas

L'Otto per Mille è un compendio triste del nostro paese. La settimana scorsa ne ho parlato relativamente ai fondi destinati all'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI). Ma è inevitabile allargare lo sguardo e ragionarne a livello generale. Ci aiuta in questo senso un documento pubblico, sostanzialmente sconosciuto, di una chiarezza inimmaginabile per il burocratese a cui siamo assuefatti. Si tratta della deliberazione 16/2014/g della Corte dei Conti, Sezione generale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, depositata il 19 novembre 2014. Nel testo troviamo un'indagine rigorosa sulla distribuzione dei fondi della quota Irpef che i contribuenti possono assegnare alle confessioni religiose o allo Stato in base alla legge 222/1985. La descrizione è talmente incredibile da assurgere talora a vera e propria letteratura. Sintetizzando, ecco le principali contraddizioni:
  1. I fondi vengono calcolati sull'imponibile generale e non sulle preferenze effettivamente espresse, che sono una minoranza. I cittadini pensano di non scegliere alcuna confessione religiosa (inoptato) ma finiscono per avvantaggiare le confessioni religiose, che si spartiscono tutta la torta e non solo quella dei firmatari.
  2. Lo Stato fa mostra di eroico tafazzismo impegnandosi a fondo per non prendere un euro. Non promuove campagne pubblicitarie; non spiega come spende i fondi assegnatigli; decurta le somme destinate alle finalità previste dalla legge per endemiche esigenze di cassa e tradisce così il patto con i cittadini; assegna ai comuni parte consistente delle risorse, trasferite poi alle istituzioni ecclesiastiche che in tale modo vengono beneficiate due volte.
  3. Una buona quota dei denari è destinata alle campagne pubblicitarie, che danno così vita a un vero e proprio mercato della solidarietà.
  4. La Chiesa cattolica, che ormai riceve più di un miliardo di euro all'anno, spende solo il 20% dei soldi per attività benefiche, circa un terzo per il sostentamento del clero previsto dalla legge, mentre la parte restante è devoluta a finalità poco chiare e comunque non normate.
  5. In tempi di crisi economica, i fondi provenienti dall'Otto per mille sono in costante aumento in virtù di meccanismi fiscali tecnici come il Fiscal Drag.
  6. La commissione paritetica tra Stato e CEI che dovrebbe rivedere il meccanismo ogni tre anni si riunisce poco, lavora poco ed evidentemente ha poco da dire di fronte a questo scandalo.
  7. Per accedere alla ripartizione occorre aver sottoscritto un'Intesa con lo Stato. Musulmani e ortodossi, le due principali minoranze nel nostro paese, non lo hanno fatto, e sono pertanto esclusi da questa cuccagna mancando una legge sulla libertà religiosa.
Ho il rammarico, per esigenze di brevità, di non poter citare passi significativi di questo monumento alla chiarezza espositiva. Mi rendo disponibile a inviarlo a chiunque non voglia cercarselo in rete. E mi domando come sia possibile che un tale j'accuse abbia visto la luce in Italia. I tempi stanno cambiando? Un'eccezione che conferma la regola? Un incidente dei magistrati contabili? Certo è che come ebrei italiani abbiamo di che riflettere. Siamo dipendenti economicamente da questi soldi ma anche complici di un sistema perverso. E occorre pensare a una strategia.
Forse la soluzione è questa: impegniamoci fortemente ad aumentare il numero di coloro che scelgono l'UCEI, innalzando la qualità delle nostre iniziative e dei nostri progetti. Al tempo stesso, spingiamo per una rapida e profonda revisione della legge che imponga un tetto massimo ai fondi destinati, vincoli lo Stato a incrementare le sue risorse e a spenderle meglio, renda tutto il sistema più equo e trasparente. Mica facile.

(moked, 30 dicembre 2014)


Per conto del movimento di chiese evangeliche in cui opero, dovetti interessarmi, già trent’anni fa, non solo dell’Otto per mille ma, ancor prima di questo, delle Intese con lo Stato che l’hanno reso possibile. A tanti anni di distanza dal rinnovo del Concordato con la Chiesa Cattolica, avvenuto nel 1984, e della prima Intesa con la Chiesa Valdese, posso dire di essere stato fra coloro che fin dall’inizio si sono opposti per motivi biblici di giustizia alla stipula di una qualsiasi forma di intesa con lo Stato. Quando poi si aprì anche per le chiese evangeliche questa (per alcuni succosissima) opportunità di raccogliere quattrini con l’Otto per mille, fui ancora più deciso nel rigettare questo frutto avvelenato dell’ideologia concordataria e caldeggiai di firmare per lo Stato, e soltanto per lo Stato. Scrissi allora diversi articoli in proposito: ne propongo uno del 1990, quando per la prima volta si firmò per l'Otto per mille. Rileggendolo, mi sono accorto che non ha perso affatto di attualità: “Lasciamo a Cesare quel che è di Cesare”. M.C.


Il giorno in cui ho trovato un esponente di Hamas che ha ragione

E' del tutto logico (e prevedibile) che Hamas impedisca a 37 orfani di Gaza di visitare Israele e Cisgiordania.

Non corre buon sangue tra me e Hamas. Per me Hamas è fonte di rabbia, stress, frustrazione e sì, anche paura. Niente di personale, per carità. E' solo che mi accade di essere uno di quei tanti ebrei che Hamas vorrebbe annientare, nella sua dichiarata intenzione di impossessarsi di tutta la Terra d'Israele "dal mar Mediterraneo al fiume Giordano". Ecco perché sono rimasta sorpresa nel vedere che, per una volta, ero d'accordo con le parole di un esponete di Hamas....

(israele.net, 31 dicembre 2014)


“L’ebraismo non è un ostacolo al lavoro in Arabia Saudita”

“La religione è diversa dalla nazionalità. Israele è il problema”.

DUBAI - Osservare la religione ebraica non e' un ostacolo per gli stranieri che vogliano ottenere permessi di lavoro in Arabia Saudita. Lo scandisce a chiare lettere il sito del ministero del lavoro, che inserisce il giudaismo tra le dieci religioni tollerate nel regno petrolifero.
"Il ministero si preoccupa di nazionalita', non di religioni," ha specificato una fonte del ministero stesso al quotidiano Al Watan, ripreso da Gulf News. Come dimostra, ha aggiunto, l'impegno al dialogo interreligioso King Abdullah Bin Abdul Aziz International Centre for Interreligious and Intercultural Dialogue con sede a Vienna.
"Il problema non e' con gli ebrei o con i cristiani," ha osservato il deputato del Consiglio della Shura, Sadaqa Bin Yahya Fadhel, citato ancora da Gulf news. "La questione sorge con il movimento sionista. Come regno, L'Arabia Saudita da' il benvenuto a tutte le religioni, ma non puo' accettare cittadini israeliani perche' Israele é legato al sionismo, un movimento coloniale che sfrutta la fede giudaica." "Il giudaismo - ha concluso Fadhel - non ha niente a che vedere con il sionismo".
Si tratta di una politica messa in pratica anche dagli altri paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo che comprende, oltre all'Arabia Saudita, il Kuwait, il Qatar, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti (Eau) e l'Oman.
Negli Eau non e' raro interagire con persone dai cognomi tipicamente ebraici, in qualsiasi settore sociale o produttivo.
In Bahrein si trova una delle comunita' ebraiche piu' piccole al mondo, circa sessanta persone, che tuttavia conta un rappresentate in parlamento.

(ANSAmed, 30 dicembre 2014)


Un’altra conferma che oggi il vero volto dell’antisemitismo è l’antisionismo.


Gaza - Scontro Anp-Hamas sulla ricostruzione

«Non si fa nulla», arrivano i ministri di Abu Mazen

All'indomani di esacerbate proteste popolari nella striscia per i ritardi nei lavori dopo il conflitto della scorsa estate con israele, otto ministri del governo palestinese di riconciliazione nazionale hanno lasciato Ramallah, e accompagnati da decine di alti funzionari sono giunti ieri nella Striscia. Sabato un dirigente di Hamas aveva polemizzato apertamente con il presidente dell'Anp Abu Mazen accusandolo di non «aver alzato un dito» per ovviare alla crisi nei servizi medici della Striscia e di aver ignorato lo stato generale di abbandono. I ministri, tutti tecnocrati, daranno priorità alla ricostruzione delle zone distrutte dalla guerra. Le stime indicano gli sfollati in oltre 100 mila. Per assisterli occorrerà facilitare l'ingresso di materiali di costruzione: cosa che implica l'attivazione a tempo pieno dei valichi con Israele e con l'Egitto.
Israele vuole essere certo che materiali edili non saranno requisiti da Hamas. L'Egitto da parte sua insiste affinché il valico di Rafah (fra il Sinai e Gaza) venga gestito unicamente dagli uomini di Abu Mazen: una richiesta che Hamas trova però inaccettabile.

(La Nazione, 30 dicembre 2014)


«Sionista per conto terzi»

L'espressione è stata coniata in Germania alla fine dell'Ottocento, quando gli ebrei sionisti in quel paese erano davvero pochi. Le organizzazioni sioniste locali erano conosciute come «club di dieci uomini», e tra i pochi ebrei che vi partecipavano erano ancora meno quelli che avevano davvero voglia di trasferirsi in Palestina. Qualcuno allora li prendeva in giro chiamandoli «sionisti per conto terzi». La definizione esatta potrebbe essere formulata così:
     «Dicesi sionista per conto terzi un ebreo che sollecita fondi a un secondo ebreo
     affinché un terzo ebreo possa stabilirsi in Palestina».

 

…identità

di Sergio Della Pergola

Secondo il Corriere della Sera, "in un match sportivo Italia-Israele, tiferemmo Italia", dicono alla Comunità ebraica romana in occasione dell'incontro fra il presidente Riccardo Pacifici col ministro degli Esteri Gentiloni. Interessante sapere se l'ordine delle squadre sarebbe lo stesso se l'incontro fosse a Gerusalemme con il ministro degli Esteri Liberman. Ma al di là di questa particolare esternazione, la domanda sul tifo in occasione di un ipotetico incontro fra le due squadre del cuore costituisce un test ben noto nello studio delle identità collettive. Nella sua lezione magistrale al Congresso americano di studi ebraici del 2013, il noto sociologo Mort Weinfeld pose la stessa questione, contrapponendo il suo Canada a Israele. Il fatto è che nell'epoca in cui viviamo tutti coltiviamo più di una identità, se pensiamo in particolare a quelle familiari, religiose, geografiche, politiche e professionali che coinvolgono ognuno di noi. Fra queste diverse identità può stabilirsi un rapporto di gerarchia, di competizione, di conflitto inconciliabile, o di armoniosa convivenza. Allo stesso tempo, mentre sappiamo o crediamo di sapere che cosa noi siamo, di solito sappiamo ancora meglio che cosa noi non siamo. Io sono io perché sono me stesso ma anche perché non sono l'altro. La mia identità si chiarisce anche perché non è quella altrui. Ma è possibile essere allo stesso tempo io e l'altro? O in altre parole, è obbligatorio possedere solamente una identità o è possibile possederne più di una in contemporanea? Nell'incontro Italia-Israele dobbiamo per forza puntare 1, oppure 2, o magari X? Oppure possiamo giocare diverse colonne in una schedina multipla?

(moked, 25 dicembre 2014)

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…identità

di Dario Calimani

Nel suo ultimo intervento (25 dicembre 2014), Sergio Della Pergola affronta appropriatamente il problema della complessità dell'identità ebraica partendo dal test a cui è di frequente sottoposto l'ebreo dai suoi interlocutori non ebrei ("per chi terresti se l'Italia si battesse contro Israele?"). Il problema dell'identità, tuttavia, non viene fatto sentire solo dall'esterno, ma affiora spesso anche dal nostro intimo, e lo si vede quando di fronte ad avvenimenti di portata nazionale si sente il bisogno di esporsi a tutti i costi in quanto ebrei, più che in quanto cittadini italiani, che non nascondono la propria ebraicità, ma non ne fanno uno stendardo per tutte le stagioni. L'argomento è piuttosto delicato, perché coi tempi che corrono si corre il rischio di sentirsi accusare di antisemitismo, o quanto meno di volontà di mimetizzarsi. Nulla di più lontano dalle intenzioni di chi scrive. Ma di fronte a un problema di corruzione politica o di ingiustizia sociale, ad esempio, non si vede perché l'ebreo debba intervenire in quanto ebreo e non in quanto semplice, anonimo cittadino che protesta le sue convinzioni e firma una petizione assieme a tutti gli altri cittadini. Ci si chiede quale sia il senso di innalzare la propria bandiera più alta di quella altrui. Sempre sperando, poi, che non si tratti de 'La Nostra Bandiera'.

(moked, 30 dicembre 2014)

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Esistono o non esistono?

di Marcello Cicchese

"Chi sono io?" Una domanda che sintentizza tutti i problemi di identità. Domanda pericolosa però, perché se me la pongo in modo troppo ossessivo potrei arrivare a concludere che... non esisto. Peggio ancora, potrebbe accadere che altri si mettano a riflettere sulla mia identità e, dopo aver molto riflettuto, arrivino a concludere che io non esisto, e quindi... Qualcosa del genere dev'essere accaduto a uno scrupoloso pensatore, che dopo aver molto riflettuto sulla complessa identità degli ebrei arrivò a concludere in un suo articolo che... "Gli ebrei non esistono". Al tempo in cui lessi l'articolo, la conclusione mi parve piuttosto singolare, e lo feci notare per iscritto all'autore, ma il breve scambio di opinioni che ne seguì non ci portò a conclusioni condivise. La cosa però aveva messo in moto i miei pensieri, e a partire anche dalla mia esperienza professionale decisi di esporli nella forma di due parabole, che già da qualche tempo compaiono nella rubrica "Riflessioni" di questo sito. Le riporto qui per maggiore comodità del lettore.
    PARABOLA n.1 - Corrado era un ragazzo studioso e intelligente. Frequentava la scuola media superiore e riusciva bene in tutte le materie, tranne che in matematica. Essendo abituato ad andare a fondo nelle cose, alla fine si rivolse direttamente al suo professore di matematica. "Professore - chiese rispettosamente - io faccio fatica a seguire la sua materia, con tutti quei numeri che pretendono di essere trattati secondo regole che a me risultano abbastanza misteriose. Questo però forse dipende dal fatto che io non ho ancora ben capito qual è la precisa definizione di numero. Me lo dica lei, professore, in modo semplice e chiaro: che cos'è un numero?" il professore restò qualche secondo in silenzio, sorrise, scosse la testa e iniziò un lungo discorso che a Corrado risultò ancora più oscuro delle dimostrazioni che faceva alla lavagna. Decise allora di rivolgere la stessa domanda ad altri professori di matematica. Come risultato ottenne un ventaglio straordinariamente ampio di risposte, che variavano dall'oscuro al seccato, dal perplesso al minaccioso: "Lascia perdere queste domande filosofiche e pensa a studiare, se non vuoi essere bocciato in matematica". Corrado allora trasse le sue conclusioni, e da giovane intelligente e preparato qual era le riassunse in un elaborato scritto che aveva come titolo: "I numeri non esistono".

    PARABOLA n.2 - Giovanni era un intellettuale acuto e preparato che seguiva ogni aspetto della vita politica e sociale. Nel suo normale lavoro di documentazione andava quasi ogni giorno ad imbattersi nella cosiddetta "questione ebraica". La cosa un po' l'incuriosiva, un po' l'infastidiva, ma da persona abituata ad andare alla radice delle cose, un giorno decise di porre la questione in modo semplice e diretto: "Chi è un ebreo?" Pose la domanda a un rabbino di rilievo, pensando di ottenere in questo modo una risposta chiara e decisiva. Ma la spiegazione ricevuta, tra riferimenti alla Torah, al Talmud, alla storia, alla politica, alla cronaca e al semplice buon senso, provocò in lui una tale esplosione di nuove domande che non fu nemmeno in grado di elencarle ordinatamente. Si rivolse allora a diversi amici, ebrei e non ebrei, e a ciascuno di loro pose la stessa domanda: "Chi è un ebreo?" Le risposte ricevute furono di una stupefacente diversità e incongruenza, con il risultato che il numero degli interrogativi nella sua mente aumentò in modo esponenziale. Alcuni, anche tra gli ebrei, confessarono apertamente di non saper rispondere alla domanda in modo chiaro. Alla fine Giovanni trasse le sue conclusioni, e da intellettuale esperto e documentato qual era le riassunse in un elaborato scritto che aveva come titolo: "Gli ebrei non esistono".
(Notizie su Israele, 30 dicembre 2014)


Ecco le previsioni dell'intelligence militare israeliana per il 2015

Un rapporto spiega che il medio oriente si sta disintegrando e per ora nessuno ha la forza di prendere decisioni.

di Daniele Rainerii

ROMA - Ogni fine anno l'intelligence militare di Israele scrive un rapporto che tenta di prevedere le minacce più grandi dell'anno seguente. Il rapporto è stato presentato ai leader politici e ai comandanti dell'esercito, in quella che è diventata ormai un'occasione quasi cerimoniale, e il sito del quotidiano Yedioth Ahronot ne ha pubblicato un riassunto.
Sul rapporto pesano questa volta due incertezze. La prima è che il governo di Israele cambierà dopo le elezioni di marzo, e quindi arriva alla vigilia di una transizione: potrebbe esserci un nuovo primo ministro al posto di Benjamin Netanyahu, ci saranno un nuovo governo, un nuovo capo di stato maggiore e forse un nuovo ministro della Difesa. Ma il resto del mondo "non aspetterà l'estate, che è più o meno quando il nuovo esecutivo si sarà insediato". La seconda incognita è che la situazione in medio oriente è troppo complessa, tanto che gli analisti dell'intelligence non se la sono sentita di fare previsioni "con alto grado di certezza" per l'intero anno e si fermano ai primi mesi.
   Uno dei temi principali è che il medio oriente e il nord Africa si stanno disintegrando in territori più piccoli e che non c'è più un landlord, un padrone con la forza di prendere e imporre decisioni. La Libia si sta di fatto dividendo in (almeno) tre parti e in un futuro prossimo potrebbe toccare anche a Siria, Iraq e Yemen. Gli Stati Uniti si sono comportati "da solisti" in medio oriente per anni ma adesso non fanno più una mossa se non sono dentro a una coalizione. In Siria hanno fatto una lega con gli arabi. In Iraq, hanno creato un'alleanza con altri paesi occidentali. Senza una coalizione alle spalle, sostiene il rapporto, Barack Obama non avrebbe cominciato la lotta contro lo Stato islamico e sarebbe rimasto a guardare, senza aiutare i curdi a Erbil e Kobane e i sunniti moderati ad Aleppo.
   I russi, che sono accorsi in aiuto della Siria in molte battaglie importanti contro i ribelli, hanno perso le speranze nell'esercito siriano. Esperti siriani e iraniani, che lavorano fianco a fianco sul campo, sono già arrivati alla conclusione che l'esercito non riuscirà a ottenere risultati e a rovesciare la situazione.
   Per questo Mosca tenta di lavorare a un compromesso tra i ribelli e il regime di Bashar el Assad che porterà a una divisione dei poteri nel paese - e gli americani stanno facendo lo stesso. Questo non impedisce ai russi di scaricare ogni settimana una nave piena di armi per l'esercito di Assad - dai proiettili per i kalashnikov ai razzi - nel porto di Tartus.
   La Siria non c'è più: esiste ancora la "piccola Siria" di Assad, che controlla il 20-30 per cento del paese. Il resto è ormai formato da cantoni indipendenti che si fanno la guerra l'un l'altro e a Israele interessa in particolare quello che succede sulle alture del Golan.
   Per ora gli israeliani stanno dando aiuto umanitario ai ribelli siriani moderati dall'altra parte del reticolato sul Golan, che consiste soprattutto in cure mediche per i feriti. L'obiettivo è creare e conservare una zona cuscinetto che separi il confine israeliano dal contatto diretto con gruppi come Jabhat al Nusra (che è al Qaida in Siria) e lo Stato islamico.
   Sul Golan però c'è anche Hezbollah, che gode dell'appoggio dell'esercito di Assad. Il gruppo armato libanese è nemico di al Qaida ma anche di Israele. Uno dei reparti in quella zona è agli ordini del figlio di Imad Mughniye, che è stato uno dei nemici più temuti da Israele perché organizzava attentati all'estero (fu ucciso in circostanze non conosciute a Damasco nel 2008). Un altro reparto è agli ordini di Samir Kuntar, un comandante di Hezbollah che fu liberato da Israele in cambio dei corpi di due soldati catturati sul confine libanese (è interessante che Tel Aviv faccia uscire questi dettagli, come a sottolineare che vede cosa succede dall'altra parte del confine).
   Il rapporto dell'intelligence militare dice anche che il problema delle armi chimiche in Siria non sarà risolto nemmeno nel 2015. Nota che l'organizzazione che se ne occupa, l'Opcw, deve ancora dichiarare chiuso il dossier e che ci sono ragioni per credere che il regime di Assad stia ancora nascondendo agenti chimici.
   Lo Shin Bet è contrario all'accordo americano con Teheran sul programma nucleare militare, anche se non è sicuro che l'America e l'Iran arriveranno effettivamente a firmarlo. Se lo firmano sarà un male per Israele, ma in caso contrario potrebbe anche succedere che le sanzioni e il basso prezzo del petrolio inneschino una spirale negativa e fuori controllo, che porterà alla deposizione del presidente Hassan Rohani e all'ascesa al potere delle Guardie rivoluzionarie.

(Il Foglio, 30 dicembre 2014)


Le (mancate) elezioni palestinesi

Mentre Israele è in piena campagna elettorale, Hamas e Fatah non riescono ad avviare un processo minimamente democratico per la scelta della dirigenza palestinese.

Sono passati sette mesi da quando Hamas e Fatah hanno formato un governo di unità nazionale palestinese composto da tecnocrati. Questa mossa che avrebbe dovuto essere di riconciliazione, sette anni dopo che Hamas ha estromesso Fatah dalla striscia di Gaza con golpe sanguinoso con la dirigenza palestinese rimasta divisa tra Gaza e Cisgiordania, avrebbe dovuto preparare il terreno, fra l'altro, per elezioni presidenziali e legislative nell'Autorità Palestinese. Tuttavia, mentre Israele è in piena stagione elettorale, Hamas e Fatah non sono riuscite a risolvere le loro divergenze e ad avviare un processo democratico per la scelta della leadership politica palestinese....

(israele.net, 30 dicembre 2014)


Napoli - L'enigma di piazza del Plebiscito: sulla cupola spuntano scritte in ebraico

La cupola della chiesa di San Francesco di Paola a Napoli
Le operazioni di pulitura in corso sulla cupola della chiesa ottocentesca di San Francesco di Paola, nella storica piazza del centro storico di Napoli, hanno portato alla luce antiche e misteriose iscrizioni. Tra sillabe e maiuscoli spunta il nome ebraico "Hanah".

Non solo polvere, fratture e segni dei secoli sulla cupola della chiesa di San Francesco di Paola, ma anche enigmatiche scritte da interpretare e ricostruire come un puzzle. Le operazioni di pulitura avviate pochi giorni fa in piazza del Plebiscito a Napoli - diventata ormai un laboratorio di cantieri a cielo aperto, tra l'impalcatura che avvolge Palazzo Reale e quella che abbraccia la basilica napoletana - hanno portato alla luce antiche scritte in ebraico non ancora decifrate.
Si tratta di frammenti, sillabe, trascurabili resti lasciati sulla superficie della cupola del ottocentesca dalla mano di autori sconosciuti il cui scopo era lasciare una traccia, un messaggio, e rinvenuti dopo diversi lustri dai rocciatori al lavoro sul cantiere. Un mistero ancora tutto da svelare e che dovrà attendere il completamento dei lavori prima che si possa procedere con l'interpretazione di segni e scritte. L'unico elemento estrapolato finora è il nome ebraico "Hanah", assemblato unendo le varie sillabe in maiuscolo sparse sulla superficie

(Napoli Fanpage, 29 dicembre 2014)


Un rappresentante dell'Autorità Palestinese ha definito Israele "un cancro da eliminare"

Il primo ministro israeliano chiede come intenda reagire l'Onu, e ricorda che l'Iran si adopera per intensificare il terrorismo in Cisgioirdania

L'Iran sta aumentando gli sforzi per "intensificare" le sue attività terroristiche in Cisgiordania. Lo ha denunciato domenica il primo ministro Benjamin Netanyahu aprendo la riunione settimanale del governo israeliano.
"Nientemeno che un personaggio come l'ambasciatore dell'Autorità Palestinese a Teheran - ha detto Netanyahu - si è dichiarato entusiasta delle direttive del capo iraniano Khamaeni di inviare armi in Cisgiordania".,,,

(israele.net, 29 dicembre 2014)


Israele, cade il tabù: esercito di professionisti?

Un documento interno della Difesa svela il piano di riforma: «Adeguiamoci agli standard occidentali». Allo studio l'addio alla leva e alle «forze armate del popolo» nate per la protezione di pionieri e kibbutz.

di Francesco Battistini

 
GERUSALEMME - Si sono trovati tre mesi fa in un grattacielo di Tel Aviv, vicino al ministero della Difesa. Un pomeriggio d'un settembre nero: le ferite di Gaza, le accuse di crimini di guerra, i giornali che in quei giorni rilanciavano l'inaudita obiezione di coscienza d'un gruppo d'intelligence militare, l'Unità 8200… Il tema della riunione era già un piano di battaglia: «Il passaggio dal servizio militare obbligatorio all'esercito di professionisti su base volontaria». n dibattito, fuoco incrociato fra generali, sociologi, psicologi. Con un colpo secco sparato a Tsahal, alla retorica dell'armata di popolo e del kibbutz in trincea, al cuore stesso dello Stato d'Israele: «La mia conclusione - ha detto a un certo punto Yuval Benziman, studioso dei comportamenti sociali, presentando una ricerca commissionata dagli stati maggiori - è che bisogna pianificare uno scenario simile a quello di altri eserciti occidentali. Anche se nel nostro caso i cambiamenti saranno diversi, è difficile che si possano evitare le soluzioni adottate nella maggioranza dei Paesi occidentali ... ». Quali soluzioni? «Ci sono segnali - è intervenuto il colonnello Roni Tamir, mentre la platea rumoreggiava - che indicano la possibilità d'un reale cambiamento del modello di difesa israeliano. E noi ci dobbiamo preparare».
   Levate la leva. Diceva Ariel Sharon che non ci sono più i soldati d'una volta e forse è anche per questo che, per la prima volta, i soldati ci stanno pensando: meno siamo, meglio stiamo. Basta con la naja obbligatoria per tutti, avanti coi militari di mestiere. Il rapporto Benziman non è classificato, ma qualcuno l'ha fatto arrivare al quotidiano Haaretz e ora la discussione diventa pubblica: non c'è fretta perché «la tendenza di cancellare il servizio obbligatorio in molti Paesi ha richiesto decenni», ma bisogna riflettere sul fatto che ormai «solo sei Stati europei lo prevedono» e che «per lo più riguarda nazioni dell' Asia o dell' Africa». Cade un tabù. Tsahal oggi può contare su quasi 200 mila effettivi. Ma in ognuna delle quindici grandi guerre che ha combattuto nei suoi 66 anni di vita, ha dimostrato di poterne mobilitare tre volte tanti. A parte i palestinesi, qualche cristiano e quasi tutti gli ebrei ultraortodossi, ai tre anni di servizio obbligatorio per gli uomini e ai due anni per le donne non si scampa: beduini, drusi, etiopi, russi, vegani, omosessuali, transgender ... Novanta euro al mese di paga, si resta nella riserva fino a 51 anni. Costruendoci carriere politiche o imboscandosi da refusniks all'estero, comunque sapendo che l'Id (identity) d'ogni israeliano passa per l'Idf (Israel Defense Forces): la più grande azienda del Paese che da sola vaIe 7 punti di Pil. «Mi chiedono spesso quanto ti cambi la vita essere una soldatessa per sempre - risponde Shani Boianjiu, giovane soldatessa che ha messo in un romanzo i suoi check-poìnt fra nonnismo e sesso facile, commilitoni suicidi e droga -. Io non lo so. Vengo dal confine col Libano, al liceo m'interrogavano sui missili Abm e i lanciarazzi Rpg, ho sempre vissuto come se fossi un militare. Mi sento così da quando sono nata».
   Cercate la pace ma siate pronti a difendervi, raccomandava Ben Gurion. La società israeliana però sta cambiando pelle, osserva il rapporto Benziman: chiede più welfare e più istruzione, snobba il ruolo sociale dell'Idf, sente poco lo spirito di servizio, tollera meno che la naja ritardi gli studi o la carriera. Senza contare che le nuove campagne, come s'è dimostrato in Libano o a Gaza, richiedono gente più preparata all'uso d'armi sofisticate, che sappia il daffare quando c'è di mezzo la popolazione civile, esperta anche nel peacekeeping o ad affrontare il terrorismo globale. «Prima d'arrivare a un esercito di professionisti - dice cauto il rapporto - si possono trovare anche altre soluzioni, dalla leva più breve a reclutamenti più selettivi ... ».
   Ma inutile girarci intorno: la guerra è una cosa troppo seria, per non lasciarla fare ai militari.
   
(Corriere della Sera, 29 dicembre 2014)


L'esercito israeliano chiude un occhio: autorizza lo smalto rosso per le soldatesse

Nell'intento di accrescere la femminilità delle soldatesse, l'esercito israeliano ha adesso deciso di autorizzarle ad usare anche lo smalto di colore rosso.
In passato, spiega il quotidiano Israel ha-Yom, le donne soldato potevano abbellire le unghie solo con colori neutri - fra cui il bianco, il beige e il rosa pallido - o con lacche trasparenti. La disciplina militare ammetteva anche che le soldatesse tracciassero una delicata linea bianca sull'estremità di ogni unghia.
Ma adesso il comandante del Dipartimento per le risorse umane, il gen. Haggai Topolansky, ha accolto le lamentele che gli giungevano da più parti e ha dato ordine di accrescere la scelta delle lacche accettabili, includendo così anche il rosso fiammante. Israel ha-Yom aggiunge che ieri questi sviluppi hanno destato fra le soldatesse una immediata eccitazione, che si è poi trasformata in delusione quando hanno appreso che il nuovo regolamento si applicherà solo alle militari di carriera e non alle soldatesse di leva.

(swissinfo.ch, 29 dicembre 2014)


Churchill filo-islamico? Solo per la ragion di Stato

Trovata una lettera della futura cognata di sir Winston chef a pensare alla conversione Ma l'appoggio dato ai musulmani era, come sempre, un'astuta mossa politica. Però nel '10 fu lui a dare il via libera alla moschea di Regent's Park a Londra.

di Daniele Abbiati

Mi penserai come un pascià. Mi piacerebbe esserlo». E in casa Churchill scatta subito l' allarme. Perché la frase sibillina, inquietante, è stata scritta nel 1907 in una lettera proprio da lui, il futuro sir Winston. Destinataria di questa come di altre missive che appaiono sorprendentemente filoislamiche, era Lady Gwendoline Bertie, la quale divenne poi cognata del primo ministro britannico. «Per favore, non diventare un convertito all'lslam - scriveva a Churchill in risposta Lady Gwendoline -. Ho notato nella tua disposizione la tendenza ad orientalizzarti con atteggiamenti da pascià».
   Dunque, davvero l'Occidente ha «rischiato» di avere, un secolo fa, un leader rnusulmanizzato? Davvero il Regno Unito avrebbe potuto disunirsi di fronte a un lìberale (allora Churchill apparteneva all'ala radicale di quel partito - era il periodo in cui ricopriva la carica di sottosegretario alle colonie) seguace di Maometto? La risposta non è né «sì», né «no», ma un «ni» convinto. Perché furono le ragioni della politica, non quelle del cuore o dello spirito, a dettare tali parole allo scaltrissimo e già allora navigatissimo Winston. Combattendo come ufficiale in Sudan e sulla frontiera nord-occidentale dell'India, si era avvicinato alla cultura musulmana, una passione coltivata anche in seguito, e condivisa con alcuni amici. Fra l'altro, sarà lui, nel' 40, in piena seconda guerra mondiale, a far approvare i piani per la costruzione della grande moschea in Regent's Park, a Londra.
   Ma, come detto, Churchill era un animale politico a 360 gradi, vedeva cioè nell'islam più che la potenza religiosa, quella politica, utile da arruolare in qualche modo per contrastare la diffusione del morbo nazista. La lettera di Lady Gwendoline, scoperta dallo storico dell'Università di Cambridge Warren Dockter e pubblicata dal Sunday Telegraph, è senza dubbio un tassello utile per costituire il mosaico della biografia di Churchill ma, evidentemente, stride con una sua frase ben nota: «L'islam è pericoloso in un uomo quanto la rabbia in un cane». Fra il «sì» e il «no», insomma, egli scelse, come sempre, la ragion di Stato.
   Certo, fra i più grandi amici di Winston c'era il poeta Wilfrid Scawen Blunt, sostenitore della causa dei muslim, e all'influenza di quest'ultimo sul futuro premier britannico il professor Dockter ha dedicato tre anni fa un approfondito articolo per il Journal of Historical Biography. Poi Churchill, da storico appassionato, era un grande ammiratore dell'Impero Ottomano, che considerava un modello di forza ed efficienza. E, un anno dopo aver dato il via libera alla moschea di Regent's Park, nel '41, dichiarò con soddisfazione alla Camera dei Comuni: «Molti dei nostri amici nei Paesi musulmani hanno espresso grande apprezzamento per questo regalo».
Inoltre Dockter, che ha collaborato con Boris Johnson nella stesura di The Churchill Factor, sottolinea: «Non molti sanno che Churchill e Thomas Edward Lawrence [il celebre Lawrence d'Arabia, ndr] erano amici e lavorarono di comune accordo per risolvere i conflitti negli insediamenti del Medio Oriente».
   Tuttavia, per rispondere alle domande che ci siamo posti (retoricamente) all'inizio: ebbene «no», of course Winston Churchill non ha mai pensato di convertirsi, né formalmente né informalmente all'islam, conclude Dockter con un sorriso rassicurante. Poiché la fascinazione per il mondo musulmano, spiega, era in sostanza un retaggio dell'epoca vittoriana, una specie di romantico flirt intellettuale per l'arte e i misteri d'Oriente. Una liaison occasionale che il leone della Regina replicò condendolo con qualche lungimirante ruggito di geopolitica.

(il Giornale, 29 dicembre 2014)


Probabilmente non sarà difficile sfatare l'idea che Churchill sia stato davvero un amico dei musulmani. Più difficile sarà invece sfatare l'idea che Churchill sia stato un sincero amico degli ebrei o, comunque, un politico che abbia fatto l'autentico bene degli ebrei. Churchill è il primo responsabile di quella biforcuta ambiguità che ha costretto gli ebrei ad accettare prima e a subire poi, perché provenienti da un "amico", quelle formulazioni giuridiche che hanno mutilato gli ebrei del loro diritto a tutta la Terra d'Israele e hanno creato un inesistente "diritto arabo" a quelle terre. Le cose sono cominciate con il famigerato "libro bianco" del 1922, in cui si trovano parole che ancora oggi, sorprendentemente, alcuni presentano come segno della dell'amicizia di Churchill per il popolo ebraico. Il male fatto da Churchill alla causa sionista è il più grave di tutti quelli fino ad ora prodotti proprio per l'ambiguità con cui lo statista britannico è riuscito a confondere le acque fin dall'inizio, creando quella "nuvola di abissale ignoranza" (Howard Grief) da cui i politici venuti dopo, ebrei o non ebrei, pro o contro Israele, non sono più riusciti a liberarsi. Consigliamo il libro "The Legal Foundation and Borders of Israel under International Law" e, come prime letture, gli articoli "Alle origini dell'imbroglio britannico", "Israele: erede sfruttato, raggirato e bastonato". M.C.


Hamas blocca all'ultimo la visita in Israele di 37 orfani di guerra

GERUSALEMME - Hamas ha proibito a una trentina di ragazzi palestine si di lasciare la Striscia di Gaza per partecipare a un soggiorno in Israele organizzato da un movimento di sinistra e dalle autorità arabe israeliane.
Il ministero dell'Interno del movimento islamico ha annunciato di aver rifiutato la proposta che i 37 ragazzini, di età compresa tra i 12 e i 15 anni, orfani della guerra di quest'estate tra Israele e Hamas, abbandonassero Gaza perché durante il soggiorno i ragazzini «dovevano visitare colonie e città occupate». Hamas è contrario alla politica di «normalizzazione» con lo Stato di Israele e respinge qualsiasi tentativo di coinvolgervi i bambini.
La visita doveva consentire agli adolescenti di «distrarsi e di conoscere coetanei israeliani», ha spiegato Yoel Marshak, portavoce del movimento Kibbutzim, dal nome dei villaggi collettivi, una delle principali organizzazioni di sinistra israeliane. 137 ragazzini sono stati visti tornare indietro, all'incrocio di Beit Hanoun, nel nord di Gaza, dopo che erano già saliti sul bus ed era stato impedito loro di attraversare il valico dalle forze di sicurezza.

(La Stampa, 29 dicembre 2014)


I Cristi crocifissi di Chagall a Milano

di Antonio Buozzi

 
Crocifissione bianca
Difficile aspettarsi da un pittore ebreo, fortemente radicato nella sua identità religiosa e nelle tradizioni popolari chassidiche diffuse nella Bielorussia di inizio Novecento, un'attenzione quasi ossessiva per la figura di Cristo. Eppure Marc Chagall lo dipinge tantissime volte, crocifisso, in particolare nel periodo tragico dal 1933, salita al potere del nazismo, alla fine della seconda guerra mondiale. E anche nella mostra monografica «Marc Chagall. Una retrospettiva 1908-1985», aperta a Palazzo Reale a Milano fino al 1o febbraio 2015, organizzata e prodotta da Palazzo Reale, 24 Ore Cultura-Gruppo 24Ore, Arthemisia Group e Gamm Giunti, su progetto della curatrice Claudia Zevi, la raffigurazione compare una decina di volte in alcuni dei quadri più significativi come la Crocifissione gialla, Resurrezione in riva al fiume, Apocalisse in lilla.
   Uno Chagall ammaliato dal cristianiesimo, dunque? Ne ho parlato con Marcello Massenzio, professore ordinario di Storia delle religioni all'Università di Roma Tor Vergata, grande esperto dell'artista bielorusso e studioso della la figura dell'ebreo errante (suo un importante saggio del 2007 La passione secondo l'ebreo errante). "Il Cristo è per Chagall un elemento in cui si identifica in quanto martire ebraico, e che fa entrare in modo prepotente in quella tradizione. Nella Crocifissione bianca, oggi all'Art institute di Chicago, il quadro forse più importante di questo genere, Cristo è la sintesi di tutte le persecuzioni subite dal suo popolo a partire dai pogrom del primo Novecento all''incendio della sinagoga di Monaco nel 1938 fino alla tragedia della shoa. Per Chagall Cristo non è il risorto, ma il giusto ebreo che muore perseguitato. E la sua ebraicità è rappresentata anche dal tallit, lo scialle di preghiera ebraico che ricopre la nudità di Gesù. Il pittore si percepisce come una sorta di doppio del Cristo, sofferente e solitario: 'Come il Cristo, io sono crocifisso, fissato con dei chiodi al cavalletto' scriveva alla moglie Bella".
   Uno dei quadri più importanti della mostra di Milano è la gouache Apocalisse in lilla, dipinta da Chagall nel 1945 verosimilmente a New York, la nuova patria dell'esule fuggiasco dal nazismo, ed esposta per la prima volta a Milano. Anche qui la stessa figura del Cristo crocifisso con ai suoi piedi una quasi caricatura di Adolf Hitler. "E' forse l'opera meno chagalliana, preparazione a un dipinto che non sarà mai eseguito e che Chagall ebbe sempre con se, acquistata poi dal Museo ebraico di Londra dopo la sua morte ed esposta a Londra e New York. E' un quadro di una drammaticità scabra. Era da poco emersa la verità sui campi di sterminio e Chagall ne era rimasto profondamente impressionato. "
   In questo quadro, la figura a sinistra che si contorce verso il cielo ricorda l'umanità destrutturata di Picasso in Guernica: c'è una relazione tra questi due artisti, chiedo a Massenzio. "Sicuramente. Chagall non solo conobbe personalmente Picasso a Parigi, ma fu profondamente partecipe della guerra civile spagnola e dei suoi orrori, quasi un'anticipazione di quelli dell'olocausto."
Altra figura onnipresente nella produzione di Chagall è l'ebreo errante, raffigurato chino con un sacco sulle spalle. Una tradizione di origine medievale che racconta di un ebreo, denominato poi Ahasuerus, che avrebbe oltraggiato Cristo nella sua salita al Calvario e che, per punizione, viene condannato a un eterno vagare in Europa, una sorta di atroce immortalità che lo rende per sempre sradicato da ogni terra e dagli affetti umani. Nell'interpretazione di Chagall è spesso posto in relazione con il Cristo crocifisso che domina la scena, e di cui è quasi una prefigurazione. "Cristo è ebreo tra gli ebrei" spiega Massenzio " l'uno e gli altri vittime della stessa terrificante violenza. Il fuggiasco con il sacco sulle spalle non rompe i legami con il suo popolo, ma in quel sacco mette in salvo le sue radici, la sua identità, il suo mondo. È il tema della salvezza che persiste, ma che non si realizza nella conversione, ma al contrario nel custodire la propria identità: l'immane tragedia che si abbatte su tutto un popolo non è conseguenza di una colpa, ma si inscrive in un misterioso disegno divino." Una prospettiva senza speranza, dal momento che Chagall nega la resurrezione e fa proprio il mito dell'esilio e della sofferenza nell'ebreo errante... "No, la speranza è nella Torah: per gli ebrei tutto è già scritto lì. Non a caso l'altra figura simbolica ricorrente in Chagall è quella dell'uomo che tiene stretta la Legge. Gli ebrei nei secoli fanno esperienza di un Dio che mette duramente alla prova il suo popolo ma che alla fine interviene sempre per liberarlo e concedergli nuovamente la salvezza. Un popolo, dunque, che cammina sempre sul filo di una catastrofe, di una possibile imminente distruzione, ma proprio per la capacità di conservare la propria identità religiosa, espressa dalla stessa Torah, riesce a superare le prove più terribili. E come se tutto fosse già accaduto nel linguaggio mitico della Bibbia per rivivere continuamente nel presente. Nella Crocifissione gialla il Cristo ebreo stretto alla Torah sembra troneggiare al di sopra degli orrori della guerra e delle persecuzioni. E' questa la grande speranza del popolo ebraico."
   Un elemento simbolico nella produzione di Chagall, accanto al Cristo e all'ebreo errante, e la figura della madre con il bambino, espressione di amore per la moglie Bella, ma in altri casi, come La Madonna del villaggio, un richiamo esplicito alla Madonna cristiana. "La madre con il bambino in braccio esprime in Chagall la forza stessa della vita che però può trasformarsi alle volte nel suo contrario. Chagall ricorderà sempre le vicende della sua nascita, che racconta nell'autobiografia Ma vie, quando per un incendio nella sua casa viene salvato miracolosamente dall'intervento di alcuni compaesani. Per questo dirà spesso: 'je suis un mort né', un nato morto. Una nascita tragica di un figlio su cui incombe la consapevolezza tutta ebraica della morte. Ma c'è sempre andare oltre nella storia, in compagnia di una morte incombente e interiorizzata."

(Lettera 43, 29 dicembre 2014)


Meshaal: la Turchia è fonte di potere per tutti i musulmani

ANKARA, 27 dic. - La Turchia è una "fonte di potere" per tutti i musulmani. Lo ha dichiarato il leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, che ha voluto ringraziare i vertici di Ankara per il sostegno alla causa palestinese.
"Una Turchia democratica, stabile e sviluppata è una fonte di potere per tutti i musulmani", ha affermato Meshaal durante un intervento al congresso del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) nella città di Konya. Meshaal ha ricordato che una "Turchia forte significa una Gerusalemme forte, una Palestina forte", dando voce alle speranze di "liberare la Palestina e Gerusalemme".
Il suo discorso è stato più volte interrotto dalle urla di approvazione della folla, che sventolava le bandiere della Turchia e della Palestina e gridava "Allah è il più grande!" e "Abbasso Israele".

(ContattoNews, 29 dicembre 2014)


Abu Mazen: "Il mondo è dalla nostra parte"

Lunedi' una mozione sulla Palestina al Consiglio di sicurezza dell'Onu,

"Malgrado le sfide, le pressioni e i complotti, siamo in una posizione politica forte: il mondo e' dalla nostra parte": lo ha affermato ieri Abu Mazen ai dirigenti di al-Fatah a Nablus (Cisgiordania). Il presidente dell'Anp ha anche elogiato i Paesi europei che si sono espressi per il riconoscimento della Palestina. Lunedi', secondo la stampa, il Consiglio di sicurezza dell'Onu dovrebbe votare una mozione sulla Palestina "a cui vengono apportati gli ultimi ritocchi".

(ANSA, 28 dicembre 2014)


"Il mondo è dalla nostra parte": è vero. Chi pensa ed agisce contro gli ebrei, soprattutto se è capace di dissimularlo come Abu Mazen, trova consensi e simpatie nel mondo.


Istruzioni ai palestinesi su come pugnalare ebrei

In alcune reti sociali palestinesi viene diffuso negli ultimi giorni una clip che in un minuto e mezzo fornisce alcuni consigli su come meglio pugnalare di sorpresa ebrei ed arrecare loro le ferite più gravi possibili. Lo riferisce il sito Nrg del quotidiano Maariv. Il filmato mostra un istruttore armato di un coltello mentre aggredisce la propria vittima da angolazioni diverse. Al termine compare un messaggio perentorio: "Cosa aspetti ? Va, e pugnala".

(L'Unione Sarda, 28 dicembre 2014)


Abbiamo trovato il video, ma preferiamo non farlo vedere. Solo due immagini per "rendere l'idea".


Migliaia di ebrei lasciano l'Ucraina a causa della guerra civile e la crisi

Oltre 5.000 cittadini ucraini di religione ebraica nel 2014 si sono trasferiti in Israele per sfuggire alla guerra civile. Questi sono i dati indicati dalla Compagnia internazionale di cristiani ed ebrei (IFCJ), che, insieme con il Governo israeliano sta attuando un programma di reinsediamento degli ebrei delle zone di conflitto, secondo il Washington Post.
L'ultimo volo charter nel 2014 ha registrato quasi 270 persone che partiranno da Kiev il 29 dicembre. In totale dall'Ucraina sono emigrati in Israele oltre 5.000 ebrei, di cui circa 1.300 sono fuggiti dalla zona di combattimento. Secondo le organizzazioni di beneficenza israeliane che forniscono assistenza ai cittadini ucraini per reinsediarsi nel 2014 dall'Ucraina sono andati in Israele il doppio che nel 2013. Le autorità di Kiev hanno iniziato nel mese di aprile un'operazione militare contro gli abitanti scontenti dell'Ucraina orientale. Secondo le Nazioni Unite oltre 4.700 civili sono morti nel conflitto e quasi 10.000 sono rimasti feriti.

(La Voce della Russia, 28 dicembre 2014)


Ayala, due palestinesi confessano

di Rachel Silvera

È giovedì sera quando la piccola Ayala Shapira di 11 anni e suo padre Avner percorrono la Strada 55 nei pressi dell'insediamento di Maale Shomron, lui è andato a prenderla dalle lezioni extra-curriculari di matematica. Sono le 18.30 quando la vettura diventa un inferno di fiamme causate dal lancio di una bomba molotov. Il padre riesce a cavarsela con qualche ferita, per Ayala invece la situazione è drammatica: ustioni su tutto il corpo compromettono la sua vita. Una lotta, quella per la propria esistenza, che Ayala sta continuando a combattere, con un piccolo ma stabile miglioramento. I medici dello Sheba Medical Center hanno infatti dichiarato che le prime operazioni sono state effettuate con successo e il dottor Eyal Winkler ha spiegato a Yedioth Ahronot: "In situazioni di questo tipo la permanenza in ospedale può durare dai due ai tre mesi e la ricostruzione facciale può richiedere anche di più. Ma noi siamo pieni di volontà ed ottimisti". Nel frattempo ieri sera è arrivata la confessione di due giovani palestinesi di 16 e 17 anni provenienti da Kfar Azzun. Da giovedì la polizia israeliana aveva iniziato la caccia all'uomo, venerdì era giunta la notizia dell'arresto dei sospettati insieme ad altre dieci persone, poi, il giorno successivo, la confessione dei due, raccolta dallo Shin Bet, di aver tirato la molotov contro la macchina. Dopo l'attentato, i giovanissimi terroristi sarebbero ritornati nel villaggio di provenienza. Il ministro della Difesa Moshe Ya'alon ha fatto visita al padre di Ayala, Avner Shapira e a sua moglie Ruth; nel corso della conversazione Shapira ha criticato le scelte politiche del paese: "Abbiamo un nemico che ci vuole annichilire. Quello nei confronti di mia figlia non è un atto criminale, è l'azione di chi vuole semplicemente cacciarci via". Un discorso che ha messo in difficoltà lo stesso Ya'alon che ha glissato.
   Ma questo fine settimana drammatico, riserva anche un barlume di speranza: ieri mentre attraversava il confine tra la West Bank e la Giordania con la sua famiglia, un bambino palestinese di soli sei mesi ha avuto un collasso ed è stato salvato dai medici dell'esercito israeliano. Il piccolo, che soffre di cuore, stava entrando in Giordania per ricevere cure ma vista la situazione d'emergenza, i poliziotti di frontiera hanno chiamato i paramedici. "Quando siamo arrivati il bambino non era cosciente e non aveva battito" raccontano i paramedici che sono stati poi sono stati supportati dalle forze mediche dell'Idf. Una volta salvato e dopo una breve consultazione tra IDF e Autorità palestinese, il piccolo paziente è stato trasportato con l'elicottero all'Hadassah Ein Karem Medical Center di Gerusalemme per ricevere tutte le cure necessarie. La famiglia ha ricevuto inoltre dei permessi speciali per poter stargli vicino e le sue condizioni sono al momento stabili.

(moked, 28 dicembre 2014)


Intel: arrivano 550 Milioni di dollari per la Fab 28 in Israele

 
Seguendo un piano di investimenti decennale, di cui già ci eravamo occupati qualche tempo fa, Intel annuncia nuovi investimenti per la Fab 28 di Kiryat Gat collocata in Israele. Si tratta di cifre decisamente importanti, circa 550 Milioni di Dollari che serviranno per aggiornare ulteriormente l'impianto per passare dall'attuale Processo Produttivo a 22 nm ai futuri 10 nanometri.
Con questo ulteriore "upgrade", Intel conclude il suo progetto in Israele partito nel 2006, giunto così alla straordinaria cifra di 6 Miliardi di Dollari.
Israele è per Intel un bacino decisamente importante e strategico, soprattutto se si considera l'aspetto fiscale rispetto ai paesi dell'Unione Europea (vedi l'Irlanda dove Intel è attiva con altri impianti).
Parlando invece di cose più concrete, i primi chip a 10nm dovrebbero giungere sul mercato nel 2016, seguiti a distanza di un paio di anni da quelli con tecnologia a 7 nm.

(HDBlog, 28 dicembre 2014)


Gaza - Al-Fatah sfida Hamas

Nei prossimo giorni, forse il 31 dicembre, al-Fatah celebrerà in pubblico a Gaza il 50.mo anniversario della propria fondazione. L'annuncio della leadership del movimento è giunto adesso, dopo che il mese scorso Hamas aveva vietato a Gaza manifestazioni in memoria del leader dell'Olp Yasser Arafat e dopo che 15 ordigni erano esplosi in prossimità delle abitazioni di altrettanti esponenti di al-Fatah. Ieri una nuova esplosione ha distrutto a Gaza un negozio di parrucchiere. Si presume ad opera di salafiti.

(L'Unione Sarda, 28 dicembre 2014)


Rispunta Al Qaeda. Appello ai lupi solitari 'colpite i voli di linea'

di Francesca Paci

Dopo mesi di protagonismo dello Stato Islamico torna in campo al Qaeda, la «casa madre» del jihad da cui gli scissionisti di al Baghdadi si sono allontanati nel nome del Califfato da realizzare hic et nunc (qui, in Siria, e ora). «I leoni di Allah che sono in tutto il mondo, e che qualcuno chiama lupi solitari, sono il peggior incubo dell'Occidente», tuona Aqap (al Qaeda nella Penisola Araba) dall'homepage dell'ultimo numero del magazine jihadista Inspire (una pubblicazione online in inglese). Il messaggio apologetico, scoperto dal sito di intelligence Site nello stesso giorno in cui Zakariya Ahmed Ismail Hersi, uno dei leader del gruppo islamista somalo al-Shabaab, si è arreso alla polizia (su di lui pendeva una taglia di 3 milioni di dollari), contiene un manuale aggiornato per la costruzione di una bomba «portatile» e un'esplicita chiamata alle armi: attaccare gli aerei delle compagnie europee e statunitensi nonché una lista di businessmen americani che le frequentano.

- Come l'11 settembre 2001
  Se l'obiettivo non è nuovo, e rimanda a quell'11 settembre 2001 riconosciuto come il maggior successo mediatico e militare del network di Bin Laden, nuovissima è invece la lista -nero su bianco - degli obiettivi.
   L'appello elenca le compagnie aeree American Airlines United, Continental Airlines, Delta, British Airways, Easyjet, Air France e aggiunge qualche «nome target», uomini illustri della «cupola economica» a stelle e strisce come l'ex presidente dalla Fed Ben Bernanke o il patron della Microsoft Bill Gates, bersagli mobili da colpire a meno che non ritirino tutti i loro soldi dalle banche Usa (ree di sostenere Israele e lavorare all'umiliazione dei musulmani).
   
- Rivendicazione identitaria
  La «rivendicazione identitaria» di al Qaeda ha una tempistica che non sfugge agli analisti. Al tentativo di arruolare «i lupi solitari» valorizzati dallo Stato Islamico, corrisponde infatti la sconfessione severa dei tagliagole di al Baghdadi fatta a settembre dal portavoce di al Qaeda Abu Dujana al Basha, un audio nel quale il fedelissimo di al Zawahiri rivendicava la paternità «assoluta» del modello Califfato e metteva in guardia dalle imitazioni. Cosa è cambiato nel frattempo?
Tanto per cominciare lo Stato Islamico, come lo stalinismo rispetto al trotzkismo, propone un'istituzionalizzazione della rivoluzione più «digeribile» dalle masse dell'idea di rivoluzione permanente. Secondo, lo Stato Islamico avanza e, come riferito dal testimone diretto giornalista tedesco Jurgen Todenhofer, rappresenta per l'Occidente una grave minaccia rispetto alla quale i fuochi d'artificio di Bin Laden sono noccioline. Nel mercato della guerra santa domina il liberismo sfrenato e la regola vuole che si rilanci in efferatezza: al Qaeda cita «i martiri» dello Stato Islamico, tipo il killer-kamikaze di Sidney, ma riparte dagli aerei, l'emblema dello scacco matto di Bin Laden in barba al mondo convinto all'epoca del declino del jihad.

(La Stampa, 28 dicembre 2014)


A proposito del popolo di Gesù e della «simpatia» dei cristiani

Lettera al Direttore di "Avvenire"

Gentile direttore,
ho letto un breve articolo di "Avvenire" (online e sul giornale del 23 dicembre scorso) a proposito delle dichiarazioni di Abu Mazen relative alla situazione dei cristiani in Medio Oriente. Mi conforta il fatto che il presidente dell'Anp condanni lo sradicamento delle comunità cristiane siriane e irachene perpetrato dai vari gruppi terroristici con crimini infami. Apprezzo assai meno che questo uomo politico colga l'occasione in funzione antisraeliana, almeno indirettamente suggerendo un parallelo che storicamente non calza affatto, sia perché il dramma dei profughi palestinesi nasce da una guerra cui il neonato Stato di Israele fu costretto, nel 1948, per sopravvivere all'invasione di cinque eserciti arabi; sia perché, grazie al Cielo, Israele non assomiglia per nulla allo "Stato Islamìco" e simili. Ma, soprattutto, mi disturba che il presidente dell'Anp continui a parlare di Gesù come di un «messaggero palestinese». Trovo grave il persistente tentativo di "deebraizzare" (mi scuso del neologismo) Nostro Signore Gesù Cristo: il Quale, se avesse voluto, avrebbe certamente potuto scegliersi una Madre araba, o greca, o cinese, ma è nato ebreo, Figlio di Madre ebrea, Figlio di Israele. Ricordo che cominciò Arafat, molti anni fa, facendo di san Pietro Apostolo un "palestinese": e, dal contesto, si capiva benissimo che non intendeva un ebreo nato in Terra Santa (che, se ben ricordo, i Romani chiamarono Palaestina solo dopo la rivolta di Bar Kokhbà al tempo di Adriano: monete celebrative della vittoria romana del 70 d.C. parlano di «Iudaea [o Iudea] capta»), bensì un antenato degli arabi palestinesi odierni ... Possiamo lasciare che l'identità del Signore e dei suoi primi seguaci sia alterata e sfruttata per accattivare le simpatie dei cristiani a una causa politica? Con i più cordiali saluti ed auguri di buon Natale,
Annalisa Ferramosca

(Avvenire, 28 dicembre 2014)


Abraham Yehoshua, intervista: "Israele, la pace è la tua salvezza"

Con questo titolo compare oggi su L'Huffington Post un articolo a firma di Umberto De Giovannangeli di cui non riportiamo nient'altro perché il resto non merita di essere preso in considerazione, come tutto quello che ormai da anni il personaggio Abraham Yehoshua va dicendo su Israele a chi gli chiede il suo parere soltanto perché lo sa già e glielo vuol far ripetere a conferma delle sue posizioni anti-israeliane. Sottlineiamo soltanto una frase contenuta nel titolo dell'articolo: "Israele, la pace è la tua salvezza". E' come dire a una persona colpita dal colera: "Amico, la salute è il tuo rimedio". M.C.

(Notizie su Israele, 28 dicembre 2014)


Accordo tra l'Associazione Italo Israeliana per il Mediterraneo e la Orthodox Union

Marco Mansueto, Rav Menachem Genack, Rav Scialom Bahbout
L'Associazione Italo Israeliana per il Mediterraneo ha ricevuto l'incarico da parte della "Orthodox Union - OU", di promuovere su tutto il territorio nazionale la certificazione kosher.
Al riguardo il Presidente AIIM, Marco Mansueto, e Rav Menachem Genack, amministratore rabbinico della OU, si sono incontrati nei giorni scorsi a Venezia, per discutere e approfondire i futuri progetti di collaborazione per lo sviluppo della crescita kosher in Italia.
"E' opportuno sottolineare…", aggiunge Mansueto, "che la certificazione kosher per le aziende agroalimentari del "Made in Italy" costituisce un importante occasione di esportazione e di sviluppo economico. Di fatto, non essendo più racchiusa in un ambito esclusivamente religioso, l'alimentazione kosher si sta affermando a ritmo esponenziale crescente in Europa e nel mondo, in quanto costituita da cibi sani e genuini".
Il presidente onorario di AIIM, Rav. Scialom Bahbout, già rabbino del Meridione e oggi rabbino capo di Venezia, ha dichiarato: "Vedo con favore tutte le iniziative atte a sviluppare il mondo ella kasheruth, purché gli standard utilizzati siano molto alti. La Orthodox Union è impegnata da oltre cento anni nella certificazione kasher ed è certamente un partner ideale per ogni progetto che si proponga la diffusione dei prodotti kasher, sia nel mondo ebraico che in quello più general, proprio per la sua estrema affidabilità".

(Julie News.it, 27 dicembre 2014)


La tregua che non c'è

Cittadini e soldati israeliani sott'attacco. Si va verso lo scontro totale.

Ieri mattina due poliziotti israeliani sono stati accoltellati nella città vecchia di Gerusalemme, mentre stavano finendo le preghiere dell'alba alla moschea di al Aqsa. Un palestinese si è avvicinato ai due poliziotti, ne ha colpito uno alla nuca e l'altro di striscio nella colluttazione: le ferite non si sono rivelate gravi, ma grave è la situazione a Gerusalemme e nei Territori palestinesi. In Cisgiordania, giovedì, un israeliano e la figlia di undici anni sono rimasti feriti da una bomba molotov lanciata contro l'auto su cui viaggiavano, nei pressi dell'insediamento ebraico di Maale Shomron, a nord di Nablus: la bambina ha riportato ustioni sul volto e su tutto il corpo ed è in gravi condizioni. Poche ore prima un bambino israeliano di quattro anni era stato colpito dai sassi lanciati da alcuni palestinesi contro le automobili, sempre in Cisgiordania. Sono state arrestate dodici persone, vicino all'insediamento, e secondo l'agenzia palestinese Maan quattro di loro sono ragazzi tra i 15 e i 17 anni. All'inizio della settimana, c'è stato uno scontro sul confine tra Israele e Gaza, quando uno sniper ha attaccato una pattuglia dell'esercito israeliano, colpendo un soldato: il governo di Netanyahu ha ordinato un raid aereo nel sud della Striscia, nel quale è morto un comandante di Hamas.
   La tregua tra Israele e i palestinesi, siglata dopo 50 giorni di guerra a Gaza nell'estate scorsa, traballa più che mai, mentre gli scontri a Gerusalemme est e nella città vecchia si fanno frequenti e feroci, tra le asce e i coltelli usati nell'attacco alla sinagoga a settembre e la cosiddetta "car Intifada", le auto contro le folle, alla fermata dell'autobus o al mercato. Mentre la sicurezza torna a essere un lusso in Israele, la diplomazia non si sblocca: il governo di Netanyahu considera Abu Mazen, il rais palestinese sul quale da anni fa perno il dialogo per la pace caldeggiato dagli Stati Uniti e che ora guida un governo d'unità assieme a Hamas, responsabile delle violenze a Gerusalemme e in Cisgiordania, e per tutta risposta Abu Mazen continua la sua operazione all'Onu per il riconoscimento unilaterale di uno stato palestinese (operazione che gode del consenso europeo come dimostrano i voti, pur non vincolanti, in molti Parlamenti del Vecchio continente e come dimostra la decisione di togliere Hamas dalla lista dei gruppi terroristi). La riconciliazione pare più lontana, mentre lo scontro totale è vicino.

(Il Foglio, 27 dicembre 2014)


Caccia al bambino israeliano. La nuova strategia di Hamas

Ayala, la piccola colpita da una molotov a Natale, è in fin di vita: ma stavolta nessuno si indigna. E intanto il Parlamento italiano è pronto a riconoscere lo Stato palestinese.

di Carlo Panella

Avner Shapira, padre di Ayala, all'ospedale
È in fin di vita Ayala, una bimba israeliana di 11 anni bruciata viva da un palestinese che ha lanciato una molotov contro la macchina del padre sulla strada che porta all'insediamento di Maale Shamon in Cisgiordania. Ayala ha riportato ustioni di terzo grado sul 50% del corpo, in particolare alla testa e al collo. Anche se sopravviverà, dovrà sottoporsi a cure lunghe e dolorose. Il padre ha detto che alcune settimane fa la loro automobile è stata attaccata con molotov nello stesso punto: «Mia moglie ha frenato bruscamente e così la bottiglia è esplosa sull'asfalto. Io invece non ho avuto gli stessi riflessi». Mentre la macchina prendeva fuoco, Ayala è riuscita a slacciare la cintura di sicurezza e ad aprire la portiera avvolta dalle fiamme. Ma non è stato sufficiente a metterla in salvo. È questo l'ennesimo attentato palestinese che prende volutamente e vigliaccamente di mira bambini israeliani. Attentati non dinamitardi, ma con mezzi di fortuna, non meno efferati negli effetti. Dopo il rapimento e la barbara uccisione di tre ragazzini ad Hebron il 12 giugno scorso (per vendicare l'uccisione da parte israeliana dei loro assassini, Hamas lanciò migliaia di missili contro Israele, che reagì bombardando Gaza), tre attentati con auto e bulldozer lanciati contro le fermate del bus a Gerusalemme hanno ucciso alcuni civili (anche una bimba di 2 anni). Domenica scorsa un bambino di 4 anni è stato ferito da lanci di sassi da parte di palestinesi in Cisgiordania. Il 12 di dicembre, sempre in Cisgiordania, un attentato ancora più odioso: un israeliano ha fatto salire sulla sua auto un palestinese che faceva autostop. Questi - un militante di Hamas - appena salito in auto ha lanciato una bottigliata di acido contro i passeggeri. Anche contro quattro bambine piccole. Poi ha tentato di scappare, ma è stato ferito da un israeliano che aveva assistito attonito alla scena.
   Il fatto grave è che questi attentati contro i civili e contro i bimbi israeliani, ad opera di «lupi solitari» e con armi improprie, quindi difficilissimi da prevenire, non sono spontanei, ma sono parte di una nuova strategia di Hamas. Il suo obbiettivo è suscitare per la loro efferatezza, e per il fatto che colpiscono piccoli innocenti, una forte reazione israeliana su cui innescare, come avvenne a giugno' una nuova ondata di missili da lanciare da Gaza contro le città israeliane. Inoltre, Hamas da novembre in poi, ha compiuto una serie di attentati sanguinari sia a Gaza che in Cisgiordania anche contro militanti e dirigenti palestinesi della rivale Al Fatah. Attentati che hanno provocato l'ennesima rottura tra le due organizzazioni palestinesi, mettendo fine nei fatti alla stessa esperienza - appena iniziata - di un governo unitario palestinese Al Fatah-Hamas. Abu Mazen, che ha sempre condannato - va detto - gli attentati contro i bambini e i civili israeliani, è stato così costretto a dichiarare: «Hamas ha la responsabilità dei recenti attacchi, di rallentare la ricostruzione di Gaza e di distruggere l'unità nazionale». In questo contesto ha dell'incredibile che il Parlamento Italiano debba discutere i prossimi giorni - come altri parlamenti europei una mozione della sinistra che riconosce subito e senza trattative lo Stato palestinese. Uno Stato che vedrebbe sicuramente nel suo governo in posizione egemonica anche questa Hamas, che esulta ogni volta che un suo militante trucida volutamente bambini israeliani.

(Libero, 27 dicembre 2014)


Vendere case ad ebrei è punibile con la morte

In un recente articolo, Reuters ha documentato l'esistenza di un cospicuo numero di arabi israeliani, che vivono nei quartieri a maggioranza ebraica di Gerusalemme. Ovviamente, non è proprio così che si è espressa l'agenzia di stampa a proposito della località di residenza: Reuters parla di «insediamenti ebraici nelle terre occupate di Gerusalemme Est». L'articolo si sofferma anche sul fatto che di recente alcuni arabi abbiano abbandonato questi luoghi per «l'escalation di violenze», come se i recenti attachi terroristici siano stati condotti a Gerusalemme contro arabi anziché contro gli ebrei....

(Il Borghesino, 27 dicembre 2014)


Ebrei ortodossi rifiutano posti accanto a donne, caos sul volo per Tel Aviv

La decisione ha creato un 'fronte laico' di protesta tra gli altri passeggeri.

NEW YORK - Impegnati a difendere a tutti i costi la propria purezza due ebrei ortodossi hanno provocato la settimana scorsa un ritardo nel decollo di un volo da New York a Tel Aviv. Secondo quanto riferisce radio Gerusalemme i due si sono rifiutati di sedersi nei posti stabiliti per loro dall'equipaggio, tra due donne. Quando le hostess hanno cercato di trovare per loro posti sostitutivi fra gli altri passeggeri si è però creato un 'fronte laico' di protesta per quella che sembrava una discriminazione illecita ai danni delle passeggere di sesso femminile. Nessuno ha dunque voluto, per ragioni ideologiche, cedere il proprio posto ai due timorati. Mentre i minuti trascorrevano, a sbloccare la situazione è sopraggiunto un pellegrino statunitense che - non sentendosi coinvolto nei confronti ideologici fra gli israeliani - ha ceduto il proprio sedile e quello di un passeggero che volava con lui.

(tio.ch, 27 dicembre 2014)


Religione e nazione

Nel pensare il nesso fra comunità religiosa e Stato l'ebraismo che ancora si attiene alla visione di sé anteriore alla modernità - l'ebraismo ortodosso nato all'epoca della perdita di un centro nazionale-religioso del popolo - esalta la separazione degli ebrei dalla storia e dalla politica: essi si mantengono fedeli alla Torah poiché questa permette loro di essere già in contatto con l'eterno, prima che avvenga la redenzione dell'umanità con il soccorso divino. Quando questo ebraismo diviene alleato di un movimento politico volto alla rinascita nazionale ebraica, allora si fa sostenitore di un messianesimo attivo e sottomette lo Stato alle sue proprie esigenze, essendo la dimensione dell'eterno infinitamente superiore a quella della politica.
   Al contrario, l'ebraismo che considera il popolo ebraico solo sotto l'aspetto di nazione, ritiene che lo Stato debba considerare la religione come una sfera riguardante i cittadini in quanto assumono posizioni loro proprie, particolari, inerenti alle loro diverse fedi e tradizioni: presupposto dello Stato non è la religione, che rientra nell'ambito del particolare, ma ciò che concerne una collettività umana, ovvero la volontà di formare una società organizzata sul piano giuridico, o gli eventi storici, o anche la scelta di un popolo di darsi proprie istituzioni pubbliche. La religione appartiene dunque o unicamente alla sfera privata oppure ad essa può essere dato spazio nella vita pubblica nella misura in cui i cittadini che partecipano a quest'ultima sono mossi da esigenze religiose o sono portatori di proposte ispirate da concezioni religiose. In tale ultimo caso, però, la religione rientra anch'essa in quella sfera della mediazione e del compromesso tra punti di vista diversi che è la politica in quanto sfera del finito.
 

Pasdaran al confine con Israele

BEIRUT - Il 25 dicembre 2014, un account Twitter, collegato con le Guardie della rivoluzione islamica l'Iran (Ircg), ha postato la notizia secondo cui i soldati dell'Ircg sono al confine tra Libano e Israele.
«Truppe dell'IRCE della Repubblica islamica sono al confine della Palestina occupata», recita il tweet riportato da Memri. Nel post erano incluse foto di soldati, con le loro facce oscurate. In precedenza, il 17 dicembre 2014, un blog affiliato all'esercito iraniano (newss.blog.ir) aveva pubblicato le stesse foto con i volti non oscurati assieme a diverse altre foto scattate nel sud del Libano; nella valle della Beqaa e nella regione di Baalbeq.
Altro tweet riportava: «Stiamo arrivando ... vicino alla Madre della corruzione, il maledetto Israele, presto passeremo sopra i loro corpi, ad Allah piacendo». Le foto avevano la data del 24 ottobre 2014, ed erano state caricate con la didascalia originale: «Uploaded @ Military.ir». Il quotidiano libanese Al-Akhbar, vicino a Hezbollah, riportava poi l'8 ottobre 2014, che le forze di Hezbollah erano di nuovo operative nella regione a sud del fiume Litani, in violazione della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

(agccommunication, 27 dicembre 2014)


Gli insediamenti israeliani legittimi

Rilanciamo, in forma tradotta, un contributo molto interessante pubblicato l'11 Dicembre sul blog FirstOneThrough. Si tratta di una accurata analisi delle leggi di diritto internazionale che spesso vengono usate per contestare Israele e permette al lettore di farsi un'idea di ciò che realmente è accaduto nei territori di Giudea e Samaria.
Gli insediamenti Israeliani legittimi.
In molti sostengono l'illegalità della presenza Israeliana oltre la Linea dell'Armistizio del 1949 ( Est della Green Line/Giudea e Samaria/ West Bank). La questione di legittimità (e non legalità) è stata ripetuta spesso dall'amministrazione Obama. Questi commenti sono molto più duri nei confronti di Israele di quelli dei precedenti governi che semplicemente vedevano i nuovi insediamenti come "non utili" ad un accordo di pace tra Israele e gli Stati Arabi. L'unico presidente americano a chiamarli effettivamente illegali è stato Jimmy Carter. Di sotto procediamo ad una rassegna delle leggi internazionali che si applicano agli insediamenti....

(Progetto Dreyfus, 26 dicembre 2014)


Secondo attacco antisemita a un ristorante kosher a Parigi

E' la seconda sparatoria contro un sito ebraico a Parigi, questa settimana.

di Lori Lowenthal Marcus

 
Il ristorante kosher Al Haeche a Parigi
Sammy Ghozlan, presidente dell'Ufficio francese per la Vigilanza Nazionale contro l'antisemitismo
Fori di proiettile sono stati scoperti mercoledì 24 dicembre nella finestra di un ristorante kosher a Parigi. I fori nel ristorante Al Haeche sembrano essere stati fatti da un fucile ad aria compressa, che è anche l'arma sospetta in un attacco simile a una sinagoga di Parigi appena due giorni prima, il 22 dicembre.
Il ristorante si trova a meno di un chilometro dal luogo del precedente attacco, la sinagoga David Ben Ichay, in Belleville. Il proiettile ha attraversato la finestra dell'ufficio della sinagoga. Il rabbino e il suo assistente erano nell'edificio al momento, ma nessuno è rimasto ferito. Si stanno cercando due persone sospette.
Al Haeche serve piatti israeliani, come falafel, shawarma e pita. Si trova nel 19o arrondissement di Parigi, in Rue Manin.
Sammy Ghozlan, il presidente dell'Ufficio francese per la Vigilanza Nationale contro l'antisemitismo, o BNVCA, ha dichiarato antisemita l'incidente perché è stato deliberatamente rivolto a un ristorante kosher, secondo JSSNews.

(The Jewish Press, 26 dicembre 2014 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Gerusalemme, feriti due agenti israeliani

Due poliziotti israeliani sono stati feriti in modo non grave da un palestinese armato di coltello a Gerusalemme Est. Lo riferisce un portavoce della polizia. L'aggressore è riuscito a fuggire. La polizia ha lanciato una vasta caccia all'uomo. Diversi gli attentati anti-israeliani nella città e le violenze culminate il 18 novembre scorso,nella parte israeliana, nell'attacco a una sinagoga con un bilancio di 5 morti.

(RaiNews24, 26 dicembre 2014)


Cisgiordania
: molotov su un'auto di coloni
israeliani. Grave una bimba di 11 anni

di Lucia Resta

Secondo l'esercito israeliano l'attacco è avvenuto nei pressi dell'insediamento ebraico Maale Shomron, a nord di Nablus.

Ayala Bat Ruth Shapira, la bambina gravemente ferita
È sempre più alta la tensione in Cisgiordania dopo che ieri sera un'auto su cui viaggiavano un colono israeliano e la figlioletta di 11 anni è stata colpita da una bottiglia incendiaria. I due sono stati estratti con difficoltà dall'auto e la bambina, Ayala Bat Ruth Shapira, presenta gravi ustioni al volto e su tutto il corpo, la sua situazione è drammatica.
Secondo quanto detto dall'esercito israeliano, la molotov è stata lanciata contro l'auto nei pressi dell'insediamento ebraico Maale Shomron, a nord di Nablus, in Samaria. Non è il primo attacco contro la stessa famiglia avvenuto questo mese. Infatti la tv israeliana Canale 10 riferisce che qualche settimana fa l'auto era stata colpita da un'altra bottiglia incendiaria, ma in quel caso non aveva preso fuoco.
L'esercito ora è alla ricerca dell'aggressore, ma quello di ieri è solo uno (e il più grave) dei numerosi attentati che si stanno verificando in questo periodo in Cisgiordania. Domenica c'è stato un lancio di sassi da parte dei palestinesi contro le auto di alcuni israeliani e un bambino di quattro anni è rimasto ferito, in precedenza un palestinese aveva lanciato acido contro una famiglia con quattro bambine.
I media israeliani hanno pubblicato e trasmesso le immagini dell'auto in fiamme e anche la foto della bambina ferita
Video

(Blogo news, 26 dicembre 2014)


Presi gli autori dell'attacco con bombe molotov

GERUSALEMME, 26 dic. - L'esercito israeliano ha catturato i palestinesi presunti autori dell'attacco con bombe molotov contro un'auto di coloni del giorno di Natale, in cui e' rimasta gravemente ustionata una bambina di 11 anni. Lo ha comunicato il ministro della Difesa israeliano, Moshe Yaalon, ai genitori della bimba, Ayala Shapira. L'attacco era avvenuto nei pressi dell'insediamento ebraico di Maale Shomron, a nord di Nablus, in Cisgiordania.
La tensione resta altissima anche a Gerusalemme, dopo che questa mattina un palestinese ha accoltellato due guardie di frontiera israeliane vicino alla Porta dei Leoni, nella Citta' Vecchia, ed e' riuscito a fuggire. Uno dei due agenti, di 19 anni, e' stato ferito al collo, l'altro, di 35 anni, a una mano.
La polizia ha allestito posti di blocco per tentare di trovare l'aggressore.
L'attacco di Natale con bottiglie molotov ha suscitato polemiche sulla sicurezza. Il padre della bambina ferita, che era alla guida dell'auto, ha lamentato che l'esercito israeliano si limita a operazioni di "gendarmeria" per far fronte a quella che ormai e' una vera "guerriglia" da parte dei palestinesi, con il lancio di pietre e bottiglie molotov. Poi ha denunciato che gia' alcune settimane fa la sua auto era stata fatta bersaglio del lancio di molotov ma sua moglie, che era alla guida, era riuscita a frenare in tempo e gli ordigni erano esplosi sull'asfalto.
La bambina, Ayala, ha riportato ustioni su quasi il 50 per cento del corpo, soprattutto alla testa e al collo. La sua prognosi resta riservata e, anche qualora sopravvivesse, l'attendono cure lunghe e dolorose.

(AGI, 26 dicembre 2014)


Israele sfida il mondo: approvate 243 nuove costruzioni a Gerusalemme

In barba a tutto il mondo e alle immense pressioni questa mattina il Comitato della Pianificazione di Gerusalemme ha approvato la costruzione di 243 nuove unità abitative a Ramot, quartiere di Gerusalemme.
E' una decisione che prevedibilmente scatenerà una marea di polemiche anche perché si va a unire alla pre-esistente decisione di costruire 270 unità abitative sempre a Gerusalemme e che sono in avanzato stato di costruzione nonostante le polemiche internazionali....

(Right Reporters, 26 dicembre 2014)


Himmler, l'indecenza del male

di Daniela Gross

 
"Malgrado tutto il lavoro che ho da fare, sto bene e dormo bene". A scrivere così è Heinrich Himmler, che mentre la guerra si avvia alle battute finali rassicura la moglie Marga. Una lettera banale: un marito che il lavoro costringe a lungo fuori casa e scrive ai suoi, raccontando di sé e del suo impiego come burocrate dello sterminio. La corrispondenza della famiglia Himmler - centinaia di lettere, documenti e foto rocambolescamente divenuti pubblici a gennaio - sono diventate un film inquietante: "The Decent One", diretto dalla filmaker israeliana Vanessa Lapa (nell'immagine), da poco nelle sale americane
   Presentato al Festival di Berlino, il documentario non aggiunge nuovi particolari alla storia già ben nota di quegli anni. Ci schiude però un altro prezioso spiraglio sui meccanismi mentali dei carnefici. La corrispondenza della famiglia Himmler, per un arco di tempo che va dal 1927 al 1945, è un close-up estremo sull'intimità di una famiglia per cui gli orrori del nazismo sono il pane quotidiano; andare ad Auschwitz è una trasferta come un'altra e il campo di Dachau la meta di una gita con la figlia dodicenne.
   L'intreccio degli scritti con i fatti di quegli anni, che Vanessa Lapa ripercorre grazie a pregevoli filmati d'epoca, ci mostra Henrich Himmler nelle vesti di marito e padre affettuoso. Ne emergono tanti aspetti insospettati. Il fastidio nei confronti del figlio adottivo (che per aver fumato una sigaretta verrà spedito nelle SS e diventerà il più giovane prigioniero di guerra sul fronte sovietico). L'inclinazione a scherzare e flirtare con la moglie Marga, che però non esita a riprendere quando lei si permette di discutere i suoi spostamenti di lavoro. La rimozione dell'impatto psicologico che hanno su di lui gli orrori di cui è artefice (preferisce ostentare un atteggiamento da duro). Una certa durezza nei confronti dell'amatissima figlia Gudrun (che dopo il suicidio del padre continuerà a lottare per la causa nazista in Stille Hilfe-Aiuto silenzioso, organizzando la fuga di gerarchi nazisti verso l'America latina e cercando di tutelare gli ex fedelissimi al regimi).
   Al tempo stesso "The decent one" ci svela come, fino all'ultimo, Himmler si consideri un onesto servitore della patria. L'uomo responsabile delle peggiori atrocità si considera "un uomo decente", un uomo morale e irreprensibile. E' lo stesso Himmler a usare più volte il termine "decente", ripreso da Vanessa Lapa nel titolo, nei discorsi che tiene a Pozen nel 1943. "Abbiano il dovere morale, l'obbligo, nei confronti del nostro popolo, di prendere quanti ci vogliono uccidere e di ucciderli. Ma non abbiamo il diritto di arricchirci di una sola pelliccia, un solo orologio marco, sigaretta o altro", dice a proposito della Soluzione finale. E ancora, "Possiamo avere un solo desiderio riguardo a ciò che viene detto di noi: 'Questi soldati tedeschi, questi generali tedeschi: erano decenti'".
   Quella di Vanessa Lapa è un'operazione molto diversa ma altrettanto illuminante rispetto a quella realizzata da Eyal Sivan, che in "Uno specialista" (1999) aveva montato due ore d'immagini del processo Eichmann mostrando, senza alcun commento se non la stessa operazione di montaggio, la sconvolgente banalità del male. E dire che in principio la regista si era concentrata sui misteriosi percorsi della corrispondenza degli Himmler, più che su questi ultimi.
   Un interesse più che giustificato, per una vicenda da romanzo che aveva visto i documenti riaffiorare nel 2006 a Tel Aviv, dopo un lunghissimo silenzio. Il proprietario Chaim Rosenthal, in passato pittore e addetto culturale per Israele, ormai anziano, li vuole vendere. Vuole liberarsi dalla schiacciante responsabilità morale di quel materiale che possiede da molti anni, a patto però che finisca in buone mani e soprattutto non venga strumentalizzato o peggio distrutto dai negazionisti.
   Finirà per acquistarlo a una cifra simbolica, il padre della Lapa, che poi li cede alla compagnia di produzione della figlia. I documenti, circa 700 lettere la cui attendibilità viene verificata dagli esperti, vengono pubblicati a gennaio in parallelo da Die Welt in Germania e da Yediot Aharonot in Israele. Forse non si saprà mai come quelle missive siano arrivate dalla casa bavarese di Himmler, dove sarebbero state trovate nel '45 da due soldati Usa, a un appartamento di Tel Aviv. O forse sarà materia di un altro film.

(moked, 26 dicembre 2014)


Vangelo e Israele, che cos’hanno in comune?

L’indirizzo web di “Notizie su Israele” (www.ilvangelo-israele.it) contiene volutamente due termini di cui forse non è chiaro a tutti il motivo dell'accostamento: “Vangelo” e “Israele”. Per molti ebrei i vangeli sono i libri di chiesa, adatti soprattutto a ecclesiastici e religiosi cristiani. Dall'altra parte, molti cristiani pensano che Israele sia un tema del passato, di cui parla l’Antico Testamento, e che con la venuta di Gesù il centro dell’attenzione si sia spostato definitivamente da Israele alla chiesa. Qualcuno allora forse rimarrà sorpreso nel venire a sapere che nei vangeli il termine “chiesa” compare soltanto 3 volte, mentre il termine “Israele” compare esattamente 30 volte. Soltanto questo fatto numerico dovrebbe far pensare che il collegamento tra Vangelo e Israele sia molto più stretto di quanto si creda comunemente.
Qui di seguito sono riportate alcune righe del racconto di un ebreo sefardita, nato in Israele da famiglia proveniente dalla Persia, che all’età di 25 anni non sapeva nemmeno che Gesù è ebreo e non aveva mai pensato che nei vangeli, testi considerati impuri nell’ambiente in cui era cresciuto, ci potesse essere qualcosa che riguardasse il suo popolo e il suo paese. Negli Stati Uniti, dove si era trasferito per cercare fortuna, fece la conoscenza di un cristiano con cui entrò in un serrato colloquio su questioni di fede. Dopo molte insistenze dell’amico, e vincendo forti resistenze da parte sua, alla fine si decise ad aprire un libriccino blu che gli era stato messo nelle mani. Era il libro proibito: il Nuovo Testamento. Ecco un breve e parziale resoconto della sua prima esperienza:
    «Quando arrivai a casa, tolsi dalla tasca il libriccino blu, accesi la luce e l'apersi. Già il primo versetto mi produsse una specie di scossa elettrica: Libro della genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo... (Matteo 1:1). Allora Yeshua era veramente un ebreo!
    Continuai a leggere. A quella sorprendente dichiarazione seguiva una lunga lista di eroi biblici che mi erano ben noti fin dai giorni di scuola: Abraamo, Isacco e Giacobbe, Giuda e i suoi fratelli, il re Davide e i re di Giuda che lo seguirono: erano tutti buoni ebrei kosher! Ma i “cristiani” che leggono questo libro, capiscono quello che leggono? Che cosa ci potrebbe essere di più ebreo di questo?
    Improvvisamente un tremendo sospetto mi salì in cuore: quanti “cristiani” leggono realmente la loro Bibbia? Se sono tanto pochi quanto i miei fratelli ebrei che leggono il Tanach, allora sia ebrei che cristiani vivono in una tradizione fatta dagli uomini che distorce e falsifica la verità fino a renderla irriconoscibile.
    Andai avanti a leggere, e dalle pagine del libro mi sentivo come trasportato nel mio amato Eretz Israel. Insieme a Giovanni Battista attraversai il deserto di Giudea e andai con lui sulle rive del Giordano. Accompagnai Yeshua e i suoi discepoli nei loro viaggi sulle rive del lago di Gennesaret e sui monti della Galilea. Insieme camminammo per gli stretti vicoli di Gerusalemme. Tutto corrispondeva: il tempio e la sinagoga, i farisei e i sadducei, i giusti e quelli che si facevano giusti da soli. Vidi i pastori sorvegliare i loro greggi nei campi intorno a Betlemme e osservai gli anziani studiosi della Torah piegarsi sui loro sacri rotoli nelle scuole rabbiniche. Vidi i dorati campi di grano già maturi per la mietitura, i fiori di prato e gli uccelli che venivano venduti due per un soldo e cinque per due soldi. Passai un po' di tempo con i pescatori che lavoravano duro sulle rive del lago e gustai l'inebriante fragranza del “vino buono”, dei frutteti e del puro olio d'oliva. Mi sentivo come se fossi corporalmente lì!
    Ma che cosa aveva a che fare tutto questo con il “cristianesimo”? Non sentivo né il suono di campane delle chiese, né vedevo in giro monaci con vesti nere o marroni che portavano sul petto il simbolo della croce e baciavano le loro icone. Non c'era nessuno che adorava croci d'oro e d'argento in maestose cattedrali al suono dell'organo .
    Era tutto così israeliano che mi venivano le lacrime agli occhi. Mai in vita mia avevo provato tanta nostalgia! L'America, con le sue scintillanti luci al neon, le sue ampie superstrade e i suoi imponenti grattacieli, era improvvisamente sparita. Mi trovavo di nuovo nel mio familiare paese agricolo di Israele, che riappariva semplice e schietto davanti ai miei occhi.»
 

Gli ebrei in piazza per i marò. Noi lì, a lezione di orgoglio

di Stefano Magni

 
#Bringbackourmarò è la campagna lanciata dalla comunità ebraica romana per riportare a casa i marò italiani, per tre anni imprigionati in India pur senza aver subito alcun processo. Riccardo Pacifici, presidente della comunità romana, promette un'iniziativa al giorno. Il caso dei marò sta assumendo le dimensioni di una vera umiliazione nazionale. Ben tre governi, Monti, Letta e Renzi non sono riusciti a tirarli fuori, nonostante la legge ci dia ragione. Prima di tutto perché i due militari italiani, Latorre e Girone, sono sospettati di un crimine su cui non esistono prove certe. E che, anche nel caso fosse stato commesso, è comunque avvenuto in acque internazionali, dunque non competerebbe neppure alla magistratura indiana.
    A muoversi è la comunità ebraica, non tanto la società civile italiana. Solo le giunte di centrodestra stanno esponendo il poster con i volti dei due marò, per chiederne la liberazione. Le giunte di sinistra non ci pensano neppure. Da parte dell'ex ministro degli Esteri Emma Bonino, erano giunte solo parole, incredibili per la loro mancanza di garantismo: "Potrebbero anche essere colpevoli". Quando tutti sanno che, in un sistema giuridico liberale, si è innocenti fino a prova contraria. La sinistra più chic schifa il populismo di chi rivuole indietro "i nostri ragazzi". Non è infrequente che l'immagine dei marò subisca lo sfottò di attori, comici, vignettisti. Allo sfottò della sinistra chic, segue la violenza belluina della sinistra dei centri sociali. Quella che, il 25 aprile scorso, a Milano, inneggiava alla morte dei marò. Scene che dimostrano come, in Italia, vi sia ancora una strisciante guerra civile fredda.
    Non deve stupire che a muoversi con decisione sia, appunto, la comunità ebraica. Nella cultura ebraica nessuno deve essere lasciato indietro. La storia di Israele è costellata di "soldati Ryan", il cui recupero, anche in circostanze impossibili, costa la vita di altri valorosi soldati. Il fratello maggiore di Netanyahu, Yonatan, ha perso la vita il 4 luglio 1976 per liberare gli ostaggi israeliani su un aereo dirottato a Entebbe, a migliaia di chilometri da casa sua. Quando il caporale Gilad Shalit venne fatto prigioniero da Hamas nel 2006, gli ebrei di Israele sono stati pronti ad accettare il rilascio di 1000 terroristi in cambio della sua liberazione, dopo cinque anni di trattative e tentativi di liberazione. Sono disposti a scambiare prigionieri, pur di riavere almeno il corpo dei loro soldati caduti, come nel caso di Eldad Regev e Ehud Goldwasser, assassinati da Hezbollah il 12 giugno 2006. Nessuno, in Israele pensa di prendere in giro "i nostri ragazzi", né tantomeno ne chiede l'assassinio. E almeno le istituzioni italiane hanno mostrato piena solidarietà, sia quando si trattava di trattare per la liberazione dei loro ragazzi, sia per piangerne la morte, come è capitato nel giugno scorso con il rapimento e l'omicidio di Eyal Yifrach, Ghilad Shaer e Naftali Frenkel.
    Ma perché è particolarmente importante constatare che la comunità ebraica italiana sia praticamente l'unica a mobilitarsi per i nostri ragazzi? Perché, ancora oggi, a quasi settant'anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il 51% degli italiani è ancora convinto che gli ebrei italiani siano più fedeli a Israele che non all'Italia. Lo rivela l'ultimo monitoraggio della Anti Defamation League: alla domanda "gli ebrei sono più fedeli a Israele che a questo paese", il 51% degli italiani, al 58% maschi, al 52% fra i 18 e i 34 anni di età (giovani adulti), ritiene che "sì, è probabilmente vero" che gli ebrei sono un corpo estraneo.
Gli ebrei difendono i nostri ragazzi, ma noi non siamo mai riusciti a difendere i loro, sul suolo italiano. Li abbiamo lasciati massacrare nella strage di Fiumicino del 1973, nella strage della sinagoga di Roma del 1982, nella seconda strage di Fiumicino del 1985, tutti episodi che l'opinione pubblica italiana ricorda a stento. Perché le considera vittime ebraiche, di un conflitto che non ci riguarda, quasi appartenessero a un altro paese, non al nostro.
    E questo in Italia, che è uno dei paesi meno antisemiti d'Europa, ormai. In Francia va peggio, perché si moltiplicano aggressioni fisiche e intimidazioni contro la comunità ebraica più numerosa d'Europa. In Svezia va ancora peggio. Nel paese nordeuropeo, l'unico ad aver riconosciuto l'indipendenza della Palestina, un deputato di destra, Björn Söder, ieri è arrivato a dire che gli ebrei, per essere dei veri svedesi, devono rinunciare alla loro identità religiosa. In Italia nessuno lo dice, ma il 51% degli italiani lo pensa.

(l'intraprendente, 20 dicembre 2014)


Rispondere alla violenza da Gaza

L'attacco palestinese di ieri sul confine con la Striscia di Gaza può portare a un deterioramento della situazione ma l'esercito israeliano è pronto a rispondere. A sostenerlo il capo di Stato Maggiore israeliano Benny Gantz, che in una conferenza, ha affermato che quanto accaduto sul confine con Gaza, dove cecchini palestinesi hanno aperto il fuoco contro una pattuglia israeliana, potrebbe portare un escalation di violenza. "Non intendiamo permettere che eventi di questo tipo si verifichino - ha dichiarato Gantz - risponderemo in modo appropriato e agiremo adeguatamente di fronte ad ogni incidente". L'aggressione di ieri, a cui è seguita la risposta di Tsahal nella Striscia di Gaza, ha coinvolto una pattuglia del battaglione di ricognizione beduino che si trovava nella zona di Kisufim per verificare lo stato della barriera di sicurezza. Un cecchino palestinese ha aperto il fuoco, colpendo al petto un soldato israeliano e ferendolo gravemente. E mentre sale la tensione con Gaza, l'attenzione israeliana è rivolta anche a nord. Secondo l'intelligence, infatti, la zona del Golan è a rischio a causa dello scontro tra i ribelli e le forze del presidente Assad in territorio siriano. Un'area caratterizzata da mesi per la sua instabilità, che fino ad oggi non aveva avuto però ripercussioni su Israele.

(moked, 25 dicembre 2014)


Sul fondamento della menzogna non si può costruire

La guerra di Gaza ha scosso il mondo. E’ impossibile ottenere la pace e la critica unilaterale contro Israele è irrilevante, lo ha dimostrato la dirigenza palestinese già molto tempo prima dell'ultima escalation.

di Norbert Lieth

 
Il Profeta - la preghiera e la pace di Allah sia su di lui - ha detto: non sarà stabilito il tempo fino a quando i musulmani combatteranno gli ebrei e li uccideranno; prima che gli ebrei si nascondano dietro le rocce e gli alberi, che grideranno: O musulmano! C'è un Ebreo che si nasconde dietro di me; vieni a ucciderlo!
Carta di Hamas
Nel febbraio di quest'anno, durante una conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera, il negoziatore palestinese Saeb Erekat ha spiegato perché il suo Governo non può riconoscere Israele come Stato ebraico: «perché i palestinesi vivono nella regione da molto più tempo che gli Ebrei. I suoi antenati sono stati lì già 5500 anni prima di Joshua Ben Nun: che ha guidato il popolo d'Israele nella Terra promessa.» Che i Palestinesi siano stati nella terra ebraica già prima degli Israeliti è assurdo. La parola «Palestinese» ricorda forse la parola «Filisteo» ma i due popoli non hanno nulla in comune.
   I Filistei di cui parla la Bibbia erano originari dell'Egeo (So 2:5; Am 9:7). La Caftor nominata in Amos 9:7 pare essere Creta. Confrontando Genesi 10:13-14 con Sofonia 2:5 e Amos 9:7, si vede che i Filistei emigrarono da Creta a Mizraim (Egitto) e da lì nella terra di Canaan. Più tardi, durante la conquista della terra da parte di Giosuè, gli Israeliti hanno in parte sconfitto i Filistei e li hanno soggiogati. Il re Davide ha battuto i Filistei in misura ancora maggiore. Oggi questo popolo non esiste più.
   Gli odierni Palestinesi non hanno alcuna relazione con i Filistei dei tempi passati, anche se la lotta dei Filistei di allora è paragonabile al conflitto attuale. I Palestinesi sono arabi, come lo sono anche i Giordani.
   Non è mai esistita una nazione Palestina, né una lingua palestinese, né una cultura autonoma palestinese, né un governo palestinese né dei luoghi sacri palestinesi. I luoghi sacri arabo-islamici, sorti in seguito in Israele, furono costruiti dopo che gran parte degli Ebrei dovette abbandonare il paese. D'altra parte, persino la spianata su cui oggi si trova la Cupola della Roccia contiene sufficienti indizi che dimostrano l'esistenza passata del tempio ebraico.
   Se fosse esistita la Palestina, non si spiegherebbe l'assenza di tutto ciò che abbiamo appena nominato! Su che cosa si basano però certe affermazioni? Su un popolo che nell'antichità è immigrato nella terra di Canaan? Un popolo che si è estinto già migliaia di anni fa e con il quale non esiste alcun vincolo di parentela?
   AI contrario di ciò, la terra d'Israele è piena di testimonianze dell'ebraismo. Gli Israeliti hanno posseduto questa terra da circa 1400 anni prima di Cristo. Dio l'aveva promessa ad Abraamo già nel 2000 a.C. e questi vi aveva vissuto. Nella regione esiste una cultura giudaica, luoghi sacri ebraici e una lingua ebraica. In realtà è generalmente noto che questa terra è sempre appartenuta agli Ebrei, anche se per certi periodi è stata occupata - e solo occupata - da altri popoli e nazioni.
   È triste che questi fatti non siano nominati dalla politica internazionale e dai media. Purtroppo anche negli ambienti cristiani se ne parla sempre meno. Nonostante ciò, resta tuttavia il fatto che è a Dio che spetta l'ultima parola: «Gerusalemme sarà calpestata dai popoli, finché i tempi delle nazioni siano compiuti» (Lc 21 :24). Aspettiamo con ansia che i tempi delle nazioni si compiano e che il Messia ritorni e stabilisca il suo regno, perché allora secondo Ezechiele 47:21-23 anche gli stranieri in quella terra (in questo caso i Palestinesi) troveranno la pace e la tranquillità. Dio è giusto!

(Chiamata di Mezzanotte, Nr.11/!2 2014)


La salvezza viene dai Giudei

Ad Abramo Dio aveva promesso di diventare una grande nazione, e questa nazione è Israele, un ben preciso popolo storico, diverso dagli altri non per le qualità peculiari dei suoi membri, ma per la scelta fatta da Dio in vista di un incarico che è chiamato a svolgere tra le nazioni. E' vero che il compito principale del popolo eletto era quello di "generare" ed accogliere, dal punto di vista umano, il "Salvatore del mondo" (Giovanni 4:42), ma il suo incarico non si esaurisce in questo puro fatto genetico. Se così fosse, effettivamente dopo la venuta di Gesù su questa terra e il suo ritorno al Padre in cielo, la presenza nel mondo del popolo d'Israele non avrebbe più alcun senso. Ma non è così. Dire che "La salvezza viene dai Giudei" (Giovanni 4:22) non significa soltanto - come qualcuno ha detto - che Gesù è nato ebreo. Il significato di quella dichiarazione è molto più profondo e ricco di implicazioni: in quelle parole è contenuto l'ammonimento che chiunque riceve individualmente il perdono dei peccati è tenuto a ricordarsi che la salvezza ottenuta per grazia non gli piove in testa direttamente dal cielo, ma gli arriva attraverso un percorso storico che ha nel popolo d'Israele un passaggio ineliminabile. La sua salvezza individuale è conseguenza di un patto che Dio ha fatto "con la casa d'Israele e con la casa di Giuda" (Geremia 31:31), cioè con una realtà sociale che ha un posto unico e insostituibile nell'opera di "riconciliazione del mondo" (Romani 11:5) con Dio.


 

Quel colpo di bianchetto sul nome di Hamas

Sebbene procedurale e temporanea, la cancellazione dalla lista europea dei gruppi terroristi ha regalato a Hamas una vittoria contro le forze moderate palestinesi.

Con tempismo impeccabile, la Corte dell'Unione Europea ha corretto un'illegittimità amministrativa circa l'inserimento di Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche proprio lo stesso giorno in cui il Parlamento Europeo approvava una risoluzione per il riconoscimento "in linea di principio" di uno stato palestinese.
I palestinesi hanno accolto entrambi gli eventi con premature espressioni di giubilo come dimostrazioni della crescente accettazione della loro posizione da parte della comunità internazionale, ignorando la dichiarazione in cui la stessa Corte europea dice che la cancellazione di Hamas è solo una questione procedurale che non avrà alcun effetto pratico. La Corte spiega infatti che la sua decisione "non implica alcuna valutazione nel merito della questione della classificazione di Hamas come gruppo terroristico". La decisione era necessaria, afferma la Corte, perché la designazione da parte dell'Unione Europea si basava solo su notizie di stampa e non sugli elementi richiesti dalle procedure comunitarie. La cancellazione è in realtà sospesa per tre mesi durante i quali le autorità nazionali potranno impugnare la sentenza presentando prove appropriate della natura terroristica di Hamas in modo che l'organizzazione fondamentalista palestinese possa riprendere il suo giusto posto nella lista nera. Durante questo periodo i beni di Hamas rimarranno congelati dall'Unione Europea. Un certo numero di paesi europei ha già cominciato a fornire le prove adeguate....

(israele.net, 25 dicembre 2014)


Ucraina - La diaspora degli ebrei del Donbass

di Luca Tolu

 
Il ministro dell'immigrazione israeliano Sofa Landver
Nel pomeriggio di lunedì 22 dicembre, nell'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv, sono sbarcati 226 cittadini ebrei ucraini in fuga dai territori dell'Ucraina orientale, occupata dalle milizie separatiste sostenute da Vladimir Putin.
I 226 migranti, 76 dei quali bambini, sono stati accolti da una cerimonia di benvenuto tenuta da alcune autorità religiose e governative israeliane, compreso il ministro dell'immigrazione Sofa Landver, il Vice Ministro Faina Kirshenbaum e Yechiel Eckstein per conto dell'International Fellowship of Christians and Jews (IFCJ) che si è occupata, insieme alla Fondazione ebraica "Keren Haisoed" e l'Agenzia ebraica, di organizzare e finanziare l'esodo.
Dopo la fuga dal Donbass, gli sfollati erano stati accolti per diversi mesi nella città di Zhytomir, in una regione a nord di Kiev sotto il controllo del Governo regolare ucraino.
Secondo quanto affermato dal Capo Rabbino di Donetsk [1], Pinchas Vishedski, prima dell'annessione della Crimea e della guerra separatista lanciata dai russi e finanziata da Mosca, la comunità ebraica nell'Ucraina dell'Est era composta da circa 80 mila unità, 15 mila dei quali residenti nella Città di Donetsk.
Nell'intera Ucraina si stima che la popolazione ebraica possa avvicinarsi alle 300.000 persone tra praticanti e non. Per Josef Zissels, Presidente dell'Associazione delle Comunità e Organizzazioni ebraiche d'Ucraina (Vaad), firmatario nel marzo scorso di una lettera aperta degli ebrei ucraini che chiedeva a Putin di fermare l'invasione del paese, questa cifra è senza dubbio credibile. Secondo Zissels "a causa della loro esperienza storica di pogrom e massacri durante e tra le guerre, gli ebrei ucraini hanno paura di esternare la loro identità etnica e religiosa, per timore che questo possa portare a successive violenze" [2].
In base ai dati forniti dal Presidente dell'Agenzia Ebraica Natan Sharansky sarebbero 5.200 gli ebrei provenienti dall'Ucraina sbarcati in Israele in tutto il 2014 [3].
Sulle cause della nuova Diaspora in corso, si evidenziano le condizioni di vita difficili in territori diventati un teatro di guerra, oltre ad alcuni episodi di antisemitismo che avrebbero peggiorato lo status della comunità [4].

(Notizie Geopolitiche, 24 dicembre 2014)


Gli ebrei sono scimmie e maiali

Si può comprendere la violenza palestinese che legittima l'uccisione di civili israeliani solo conoscendo la martellante propaganda antisemita del mondo islamico.

di Ugo Volli

Per capire che cosa sia l'ondata di attentati che chiamano "intifada silenziosa", perché sia scoppiata la guerra di Gaza l'estate scorsa, insomma che cosa sta davvero accadendo in Israele, è opportuno fare una semplice operazione intellettuale che nessuno fa in Occidente, né la piccola parte degli amici di Israele né la maggioranza di coloro che più o meno esplicitamente sostengono "i diritti dei palestinesi" e neppure i pochi osservatori neutrali. Bisogna cioè sforzarsi di vedere le cosa dal punto di vista degli arabi, cercare di capire che cosa passi per la testa di chi cerca di travolgere con l'automobile dei passanti qualunque alla fermata del tram a Gerusalemme o lancia razzi da Gaza su città pacifiche che non gli hanno fatto nulla o accoltella una ragazza sconosciuta alla fermata dell'autobus. Non importa che quel che pensano costoro non sia vero, che fatti e testimonianze storiche vadano in tutt'altra direzione. Quel che conta è che ci credono. Non occorre essere psicologi profondi o stregoni per capirlo.
  Basta guardare la propaganda araba, insistente, martellante, continua. Ed è facile riuscirci, grazie al meritorio lavoro del Middle East Media Research Institute (www.memri.org/), che studia e documenta
Secondo la "narrativa palestinese", in passato, anche prima di Maometto, c'erano dei profeti che conoscevano l'Islam, cioè la sottomissione a Dio. Abramo, Mosè, Davide, perfino Gesù, non erano ebrei ma musulmani.
quotidianamente quel che esce sui media arabi, accumulando un materiale imponente sulla propaganda islamista e nazionalista palestinese. Quel che emerge è ciò che gli americani chiamano "la narrativa palestinese": pura fiction in buona parte, ma influente e pericolosa. La premessa è che in passato, anche prima di Maometto, c'erano dei profeti che conoscevano l'Islam, cioè la sottomissione a Dio. Alcuni di costoro li conosciamo anche noi: Ibrahim, per esempio, che sarebbe Abramo, con i suoi discendenti, Mussa, cioè Mosè, Daud, cioè Davide, perfino Issa, cioè Gesù. Costoro non erano ebrei ma musulmani, non frequentavano luoghi di culto ebraici e tanto meno il Tempio di Gerusalemme, mai esistito, ma moschee. Appartenevano purtroppo per loro a un popolo maledetto, "figli di scimmie e di maiali", che li perseguitò e li tradì, come tradì anche Maometto, che però seppe dargli (almeno a quelli che aveva a tiro) la punizione che meritavano, cioè morte e schiavitù.
  Da allora nell'Islam gli ebrei sono esseri inferiori, la cui vita è tollerata solo se si umiliano e si sottopongono a una tassa speciale per pagarsi il diritto di non essere ammazzati. Gerusalemme è diventata santa quando gli arabi l'hanno finalmente conquistata agli infedeli e Maometto ci ha perfino parcheggiato il suo asino prima di ascendere al cielo. Da allora almeno, ma certo già da sempre, la Palestina è stata araba e musulmana. Ci sono state le invasioni crociate, ma sono state respinte, come sarà respinta l'invasione attuale degli ebrei. Gli ebrei non hanno nessun rapporto con la Palestina, non ci sono mai stati, non si sa dove siano vissuti, ma certo vengono dall'Europa e la loro presenza in Palestina non è altro che un'invasione coloniale.
  Ce n'era qualcuno, come altre minoranze trascurabili quando la Palestina era libera, islamica e ricca, cioè fino a un secolo fa. Poi ne sono arrivati sempre di più, con l'aiuto dell'Occidente, hanno rubato la terra, si sono inventati diritti che non hanno, hanno mancato di rispetto all'Islam e ai popoli arabi, e con l'aiuto degli americani e con sporchi trucchi di vario tipo sono riusciti anche a respingere le giuste guerre di liberazione del popolo arabo. I loro crimini sono infiniti: ammazzano i bambini, cercano di distruggere la moschea di Al Aqsa e di impadronirsi degli altri luoghi santi musulmani, corrompono la gioventù, hanno la pretesa contro natura di ignorare la loro inferiorità e perfino di dominare su chi è loro superiore come gli arabi. Dovrebbero tornarsene da dove sono venuti, ma non vogliono e del resto anche lì non li vogliono, come di mostra la meritoria azione di Hitler che purtroppo ne ha ammazzati molto pochi. Dunque non resta che annientarli, distruggerli. Il che è un compito nazionale, che incombe a ogni musulmano, perché la Palestina è patrimonio inalienabile dell'Islam, come ogni terra conquistata.
  Ma c'è di più, si tratta di un compito religioso, perché la salvezza finale dell'umanità verrà solo dopo un'ultima battaglia in cui bisognerà uccidere gli ebrei tutti, fino all'ultimo. E se qualcuno cercasse di
La salvezza finale dell'umanità verrà solo dopo un'ultima battaglia in cui bisognerà uccidere gli ebrei tutti, fino all'ultimo. E se qualcuno cercasse di fuggire e si rifugiasse dietro una pietra o un albero, gli elementi naturali stessi chiame- rebbero i buoni musulmani per eliminarli.
fuggire e si rifugiasse dietro una pietra o un albero, gli elementi naturali stessi chiamerebbero i buoni musulmani per eliminarli. Non potendo per il momento realizzare questa grande missione, si tratta di avvicinarsi gradualmente al risultato: uccidendo quanti più ebrei si può, rapendoli per scambiarli con i combattenti islamici ingiustamente detenuti da loro, danneggiandoli in tutti i modi, convincendo gli altri stati che non amano gli ebrei a forzarli a ritirarsi, creando contraddizioni fra loro. Perché naturalmente non c'è differenza fra l'occupazione di Hebron e quelle di Haifa, quella della Valle del Giordano e della pianura costiera, come non vi è differenza fra chi abita ad Ariel o a Tel Aviv, a Maalé Adumim e a Eilat. Tutte colonie sono, e tutti coloni quelli che ci vivono, anche quelli che stanno in Europa.
  Che loro credano di potersela cavare ritirandosi da una parte del territorio occupato può essere utile, com'è utile che si dividano e che si odino fra di loro. Ogni tanto un accordo di pace può essere utile, purché sia pagato caro in termini di terre sgomberate e di prigionieri liberati; ma i musulmani devono aver chiara la lezione di Maometto, già ribadita da Arafat: non vi può essere pace con gli infedeli, solo tregue che si possono rompere quando la situazione strategica sia cambiata e ai musulmani convenga di nuovo la guerra. Che loro si illudano pure; quel che conta soprattutto è sapere che la guerra c'è e non cesserà mai fino all'annientamento di Israele e dell'ultimo ebreo. Se questa è la mentalità con cui bisogna fare i conti - e ci sono infiniti documenti che la esibiscono - bisogna tenerne conto, cercare di non sostituirla con quelle immagini mentali consolatorie che l'Occidente ama praticare, sapere che la politica è per i palestinesi continuazione della guerra con altri mezzi. Riconoscere che la sola pace che si può ottenere in questo momento è una tregua,destinata a durare solo finché Israele sia in posizione di forza. Tutto il resto è whishful thinking, pensiero desiderante, auto illusione; una delle basi più pericolose per ogni politica, in particolare per un popolo da sempre minacciato come quello ebraico.

(Shalom, dicembre 2014)


Hamas: "Ma quale risoluzione all'ONU? Israele non deve esistere"

Hamas contro la risoluzione presentata all'Onu da Abu Mazen attraverso la Giordania che chiede il ritiro di Israele entro i confini del 1967. Secondo i terroristi palestinesi quella risoluzione prevede che ci sia uno Stato Israeliano e quindi va contro gli interessi e il volere del popolo palestinese.
Il portavoce di Hamas a Gaza, Sami Abu Zuhri, ha invitato l'Autorità palestinese a ritirare la risoluzione, dicendo che «non rappresenta il volere del popolo palestinese». Lo ha riferito l'agenzia di stampa cinese Xinhua....

(Right Reporters, 24 dicembre 2014)


E a Gaza arriva il primo impianto della Coca Cola

L'impianto di produzione della Coca Cola a Ramallah, in Cisgiordania: qui lavorano circa 350 persone
Bottiglie di Coca Cola appena prodotte nello stabilimento di Bnei Brak, in Israele
La guerra delle bollicine. Dopo oltre mezzo secolo il monopolio è finito. Certo, da quelle parti di soldi non ne girano molti. E ogni anno scoppia sempre qualche crisi che rischia di mandare in frantumi l'investimento. Però, ecco, quel unico marchio per molti non si poteva proprio sopportare. E allora ecco il diretto concorrente: stessa ricetta, gusto diverso e una sfida - a colpi bottiglie e lattine - che ora si trascina anche qui. Nel cuore della Striscia.
E allora. Dopo la Pepsi ecco la Coca Cola. Il marchio della bibita con le bollicine ha avviato ieri i lavori per la costruzione di un impianto anche a Gaza. La società produrrà nella zona industriale di Karmi, alla periferia della città, costerà circa 20 milioni di dollari e dovrebbe portare lavoro a mille dipendenti. Cifre ridimensionate da Imad Hindi, il direttore di produzione, che parla di 300 nuovi posti.
Il materiale con i primi impianti è partito dalla Giordania, ha viaggiato su nove camion per le vie d'Israele, poi è approdato al terminal «Yitzhak Rabin» dov'è stato controllato e quindi fatto arrivare nella Striscia attraverso il valico di Kerem Shalom. Ad attenderli tanti curiosi e soprattutto loro, Munib al-Masri e Zahi Khouri, gli imprenditori che hanno voluto la costruzione. Khouri, poi, è anche il presidente della Palestinian Nation Beverage Company e possiede tre centri di stoccaggio della Coca Cola in Cisgiordania.
Il marchio promette di far uscire le prime bottiglie alla fine del 2015 e assicura tante attività collaterali, a partire dall'impegno sociale. Anche perché il tasso di disoccupazione, a Gaza, viaggia al 40%. Intanto se la dovrà vedere con il diretto concorrente, la Pepsi, che nella Striscia produce dal 1962 la 7-Up e dal 1997 la Pepsi Cola.

(Falafel Cafè, 24 dicembre 2014)


Milano - Bufera nella comunità ebraica. La metà dei consiglieri lascia

Bufera nella comunità ebraica milanese che, entro marzo, dovrà tornare alle urne. Lunedì sera il consiglio è caduto dopo le dimissioni di metà dei consiglieri, che hanno seguito quelle presentate a ottobre dal presidente Walker Meghnagi e dell'assessore alle Finanze Raffaele Besso. I consiglieri della lista conservatrice «Wellcommunity» non avrebbero accettato l'astensione dell'altro gruppo, la lista «Ken», sul bilancio consuntivo 2013. Agli spettatori dell'ultima assemblea è apparso chiaro come la richiesta di tanti di cercare una riconciliazione per proseguire con il governissimo avviato da Meghnagi stridesse con malumori irrisolti, dopo il ribaltone di un anno fa che ha portato il «partito» del presidente, eletto il 12 giugno 2012, dalla maggioranza all'opposizione. Suo resta il merito di aver scoperto l'ammanco di bilancio (quasi 9 milioni di euro) prodotto da un segretario amministrativo infedele.

(Corriere della Sera, 24 dicembre 2014)


Migdal: scoperta una sinagoga dell'epoca di Gesù nella città di Maria Maddalena

 
L'altare della Sinagoga di Magdala
La domanda che tutti coloro impegnati in questo importante ritrovamento si stanno facendo è soprattutto questa: è possibile che Gesù abbia predicato e visitato questa sinagoga? Siamo a Migdal, nel nord di Israele, non molto lontano da Nazareth, sulle rive del lago di Galilea. Alcuni archeologi dopo ricerche e scavi si sono imbattuti nei resti di una sinagoga risalente a circa duemila anni fa, esattamente del primo secolo dopo Cristo. Ai tempi di Gesù questa città era conosciuta con il nome di Magdala, la città natale di Maria Maddalena, ben nota come una dei seguaci più fedeli del Messia. La scoperta è avvenuta durante gli scavi di un nuovo hotel sulla costa occidentale del mare di Galilea: il primo reperto ad affiorare è stata una grossa pietra con inciso sopra il candelabro a sette braccia simbolo dell'ebraismo. Secondo padre Eamon Kelly, vice presidente dell'istituto pontificio Notre Dame di Gerusalemme, in quella sinagoga Gesù ha sicuramente predicato: la città, spiega si trovava sul percorso che va da Nazareth a Cafarnao e sicuramente Gesù deve avere sostato qui e anche predicato come faceva durante la sua missione terrena ovunque ce ne fosse la possibilità, e le sinagoghe erano ambienti che lui aveva sempre frequentato. La città di Magdala viene anche citata nel vangelo di Matteo nel passo che dice: Prese una barca e giunse sulle rive di Magdala. Sempre secondo padre Kelly, Gesù passò circa l'80% della sua vita nel nord di Israele ed è qui che si pensa che Gesù abbia incontrato Maria Maddalena, detta anche Maria di Magdala. Da quando è stata scoperta insieme ad altre rovine dell'antica città, circa 5mila pellegrini si sono già recati in visita in questo sito che adesso appartiene alla Legione di Cristo, associazione che si sta occupando di costruire maggiori strutture per i pellegrini. La sinagoga in questione è la sesta di altrettante sinagoghe risalenti al primo secolo dopo Cristo che si è potuto ritrovare: fu distrutta dai romani intorno al 67 dopo Cristo.

(ilsussidiario.net, 23 dicembre 2014)


ONG e la macchina dell'odio antisemita. Contro Israele la "strategia di Durban"

Una macchina delle menzogne contro Israele studiata a tavolino e perfettamente collaudata quella messa in piedi dalle ONG del "blocco anti-israeliano" e che Gerald M. Steinberg chiama la "strategia di Durban".

Nei giorni scorsi siamo tornati a parlare con diversi cooperanti di alcune ONG che operano in West Bank e a Gaza dopo che nello scorso mese di luglio avevamo approfondito il discorso sulla differenza tra "ONG vere" e odiatori di professione che operano in Palestina. Lo abbiamo fatto perché l'assalto diplomatico e mediatico contro Israele non è mai stato così forte e ne volevamo capire i motivi dato che proprio la cosiddetta "società civile" è una parte fondamentale di questo assalto.
Già in occasione del colloquio di luglio avevamo evidenziato come chi veramente lavora per la pace non ama molto quelle ONG come la ISM (International Solidarity Movement) e altre simili che non hanno realmente alcun progetto di sviluppo della Palestina ma hanno solo progetti volti a incrementare l'odio tra israeliani e palestinesi, e questo nonostante ricevano cospicui aiuti anche e soprattutto dall'Unione Europea....

(Right Reporters, 24 dicembre 2014)


Bring Back Our Marò

"La Comunità Ebraica di Roma, che ha lanciato la campagna #bringbackourmarò, ha affisso davanti al Tempio Maggiore di Roma due gigantografie dei fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. La sorte dei due marò è oggi una questione umanitaria che ha bisogno del sostegno di tutti. Riteniamo necessario compiere ogni iniziativa possibile per riportarli a casa dalle loro famiglie. Latorre e Girone non possono e non devono essere lasciati soli. Ci stiamo mobilitando sui social network, sensibilizzando quante più persone e organismi possibili, anche in campo internazionale. Il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e i suoi ministri, in queste ore stanno lavorando per trovare una soluzione e riportarli tutti e due in Italia. Speriamo che questa lunga attesa finisca al più presto. Noi continueremo a pregare e a mobilitarci".
Lo dichiara in una nota il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici.

(Comunità Ebraica di Roma, 23 dicembre 2014)


Arabia Saudita e Israele, amici per forza
   
di Graziella Giangiulio

GERUSALEMME - L'ex Vice Ministro per la sicurezza per lo Stato di Israele, Ephraim Sneh, ha suggerito che Israele cooperi con la sicurezza di Riyadh per contrastare l'influenza iraniana in Yemen. Secondo questo funzionario l'Iran controlla il Bab al-Mandab by Houthi e questo potrebbe influire negativamente sulla geopolitica regionale.
   Sneh che ora dirige il Centro per gli Studi Strategici presso il Netanya College, situato a nord di Tel Aviv, ex falco del Partito Laburista Israeliano, ritirato dalla vita politica e ora svolge principalmente l'attività di accademico e oggi ha detto che l'Iran attraverso gli Houthi controlla lo Stretto di Bab el Mandeb ed è una minaccia strategica per Israele. Egli ha aggiunto che il motivo di preoccupazione di Israele è dovuto al fatto che gli Houthi si stanno espandendo da diverse settimane al confine yemenita, dopo aver sconfitto l'esercito e le milizie sunnite pro-base, e controllano il più grande porto yemenita della città di Hodeidah sulla costa, costa sud-ovest dell'Arabia Saudita dove parte il petrolio (Isa) testa , secondo il ricercatore israeliano. A suo avviso, il «controllo di Huthi su quelle aree suscita interesse strategico, l'Iran, per la prima volta nella sua storia, controlla l'ingresso meridionale al Mar Rosso, lo stretto di Bab el Mandeb, in particolare, che separa l'Asia dall'Africa», ha detto, dicendo che «la costa occidentale dello Yemen è anche vicino alla spiaggia ovest del Regno del'Arabia Saudita e agli impianti strategici». La testata http://thenewkhaleej.com/ riferisce che l'accademico ha spiegato come la minaccia sia doppia, da un lato la libertà di movimento degli Houthi nello stretto, dall'altra c'è un problema di sicurezza interna. Nelle province orientali dell'Arabia Saudita sulla costa del Golfo, gli iraniani stanno lavorando per rinforzare la minoranza sciita. Secondo «Sneh» gli Houthi possono aprire un altro fronte in questo modo ad ovest fronte dello stato. Per l'Arabia Saudita, ha aggiunto il ricercatore, il controllo Houthi dello Yemen occidentale (al-Qaeda e controlla lo stato centrale e orientale) rappresentano una minaccia diretta. Inoltre, Israele, non può restare indifferente al nuovo corridoio marittimo che collega l'Asia e l'Africa e si chiede: «Che cosa dovrebbe essere fatto da parte israeliana?», e si è risposto dicendo: «è aumentata la necessità di un coordinamento con Arabia Saudita, anche se vi è già in corso l'esistenza di canali segreti al riguardo».
   Purtroppo, le opportunità che ciò accada davvero su larga scala è quasi impossibile.
   Tuttavia, ha sottolineato che c'è una cosa che l'amministrazione americana può fare: «di fronte allo Yemen si trova l'Eritrea. Negli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti hanno perseguito una politica di contenimento per indebolire e isolare l'Eritrea, e questa politica dovrebbe essere studiata alla luce della nuova situazione regionale, sottolineando che questo paese non è una democrazia, ma non è così diverso dalla maggior parte dei paesi africani, e questo è il periodo più appropriato per l'uscita isolamento dell'Eritrea, e consentire loro di ricongiungersi alla comunità internazionale, ha detto. Ha concluso dicendo che è imperativo «che noi non dimentichiamo che l'Eritrea non ha appoggio dell'Islam radicale, e di convivenza religiosa è stabile e dove, e quando il Sudan sarà sanguinosa da sud, e il nuovo Yemen da est, è possibile l'Eritrea svolgere un ruolo positivo nel Mar Rosso».
   La testata conclude l'articolo asserendo: «Seguendola massima "il nemico del mio nemico è mio amico", il dispiegamento di sicurezza nazionale Research Center, dell'Università di Tel Aviv, ha al vaglio uno studio su quali basi instaurare una relazione segreta tra Israele e l'Arabia Saudita, nonostante l'assenza di normali relazioni diplomatiche. Una sorta di patto di non belligeranza per impedire all'Iran l'accesso alla bomba nucleare e per evitare che la Repubblica islamica diventi una superpotenza nella regione.

(agccommunication, 23 dicembre 2014)


Superba cucina kosher al Portico d'Ottavia nel cuore di Roma

 
Nel cuore del quartiere ebraico di Roma, la Taverna del Ghetto è un locale caratteristico che offre ottimi piatti della tradizione giudaico romana. Tra tutti spiccano chiaramente i carciofi alla giudia, ma anche il baccalà con pinoli, uva sultanina e pachino, ottimi pure i primi e i dolci. La cucina kosher segue delle regole molto precise: ci sono degli animali la cui macellazione è proibita e altri per cui invece si deve seguire un complesso rituale; c'è il divieto di consumare il sangue, alcune parti di grasso, il nervo sciatico, le parti tratte da animali vivi. Inoltre, l'animale macellato non deve avere difetti fisici e non si possono mescolare carne e latticini nello stesso pasto.
I l mondo gastronomico giudaico-romanesco è una mescolanza fra l'arte culinaria ebraica e quella romana. È difficile stabilire con esattezza il reale apporto di una e dell'altra, perché la presenza degli ebrei a Roma è datata molto prima della deportazione di Tito avvenuta nel 70, motivo per il quale alcuni aspetti culturali hanno le stesse tipicità. La cucina è l'esempio più lampante di questo intrigante intreccio, che ancora oggi affascina molti esperti del settore. A intrigare di più è la preparazione di alcuni piatti che è stata tramandata di generazione in generazione, arrivando a noi come vuole la tradizione.
   Per questo ancora oggi nella cucina ebraica moltissime ricette sono esattamente le stesse dei secoli passati. Ed ecco allora che piatti come gli aliciotti con l'indivia, lo stracotto e le animelle con i carciofi, hanno il medesimo sapore di quelli che mangiavano i nostri antenati. Il centro di questo fedele passaggio culinario è stato ed è tutt'oggi il ghetto ebraico di Roma, in cui le ricette ebraiche vengono trasmesse e preparate così come si faceva un tempo.

(Il Messaggero, 24 dicembre 2014)


Ebrei georgiani, storia di una diaspora

di Jacopo Miglioranzi

Col termine 'ebrei georgiani' si è soliti indicare quegli ebrei presenti nella nazione caucasica della Georgia. Essi rappresentano una delle più antiche comunità della regione, giunti, secondo alcuni, circa 2600 anni fa, il che ne fa una delle più remote comunità diasporiche. Alcune testimonianze a proposito sono riportate, di fatti, in alcune antiche cronache georgiane, come ad esempio 'La conversione di Kartli', unica fonte locale riguardante proprio la storia della comunità ebraica in Georgia. Tali ebrei georgiani costituirono a lungo una comunità ben distinta, e non solo dalla popolazione, autoctona, ma anche da altre comunità ebraiche come gli Ashkenaziti.
   Questi ebrei erano impegnati in agricoltura, allevamento, artigianato e commercio. Date le condizioni imposte dalla diaspora erano numerosi coloro che possedevano pecore e bovini, oppure vigneti e campi, ma questo non si tradusse quasi mai in un forte sviluppo. Tale tipo di economia, a dispetto del commercio, rimaneva così di tipo domestico, e rispetto al dinamismo commerciale risultava dunque alquanto statica, di
La Sinagoga di Tbilisi
modo che l'occupazione principale rimaneva la vendita al dettaglio. La maggior parte dei venditori erano ambulanti di dolci: l'attività durava tutta la settimana, ed ogni venditore si spostava nei villaggi della zona a cavallo o a piedi, con sacchi sulle spalle o sul proprio animale. Alcuni di loro, causa il lavoro, abbandonavano la propria abitazione, per mesi o addirittura un anno intero, e le festività religiose rappresentavano per loro un' occasione di ritorno alle proprie famiglie.
Secondo il viaggiatore inglese Tefler, il commercio nella regione Svaneti del nord era gestito quasi esclusivamente da ebrei di Lailashi. Gli abitanti del villaggio acquistavano sale, ceramica, metalli e utensili dai mercanti ebrei, pagandoli con animali domestici e pellame. Il guadagno risultava essere molto basso ed i rischi erano molto elevati, le strade pericolose e spesso gli ambulanti divenivano vittime dei briganti.
   I venditori ambulanti acquistavano le merci da rivendere da commercianti benestanti, che possedevano negozi o bancarelle al mercato. I mercanti ricchi (numerosi nella città di Akhaltsikhe, nella Svaneti-Javakheti), importavano beni provenienti dall'Impero Ottomano. Alla fine del XIX secolo, quando il commercio tra Europa e Russia era in forte sviluppo (grazie anche alla costruzione della linea ferroviaria ed il conseguente sviluppo delle città portuali lungo il Mar Nero), sempre più commercianti ebrei emigrarono all'estero, in particolare in grandi città come Kutaisi, Tbilisi (allora Tiflis), Batumi e Poti.
   Questo permise una sorta di 'trasformazione' della loro economia locale, fatto, tra l'altro, per nulla raro tra i popoli e le comunità diasporici: si passò infatti da un tipo di società basata sul 'movimento' ad una di tipo 'meno dinamico', ossia l'artigianato. Non che la figura dell'artigiano fosse allora assente tra la comunità, ma certamente, fino ad allora, aveva nettamente mantenuto un ruolo di secondo piano.
   Come testimoniato anche da alcuni disegni conservati al Museo della Samtskhe-Javakheti (all'interno della fortezza di Rabati, città di Akhaltsikhe), fino al secolo scorso gli artigiani ebrei si occupavano maggiormente di tessitura e tintura di tessuti, mentre ora li vediamo piuttosto impegnati in lavori quali cappellai, calzolai, vetrai, facchini, carrettieri, saponieri, ecc., o anche lustrascarpe o fotografi.
   Proprio la città di Akhaltsikhe, a pochi chilometri dal confine turco, risentì molto del cambiamento economico; la sua comunità ebraica aveva sempre vissuto del commercio con quello che fino a qualche anno prima era l'Impero Ottomano. Tale comunità cittadina subì così un forte calo demografico, dovuto per lo più all'emigrazione di alcune famiglie verso città e centri più grandi.
   Con l'avvento del regime comunista e a partire dagli anni '20, il commercio subì un ulteriore ridimensionamento, drastico ed inarrestabile, che vide un grande sviluppo del settore agricolo e industriale. A seguito di questa nuova politica di industrializzazione e secolarizzazione, la struttura familiare venne duramente colpita e smantellata, anche a seguito dell'istituzione nel 1927-1928 dell'OZET, Società dei lavoratori ebrei per la gestione del territorio), e l'istituzione di fattorie agricole collettive (kholkoz) con manovalanza ebraica (esperienza durata sino al 1938). Le piccole ma omogenee comunità ebraiche, che fino a quel momento erano riuscite a mantenere la propria lingua, vennero così, a partire dagli anni '30, sciolte, isolate, e ridistribuite tra le varie aziende agricole, vivendo così il distruggersi della propria tradizionale vita comunitaria.
   Ad oggi, come esito del dominio comunista, risultano essere poche le sinagoghe rimaste in Georgia. La sinagoga più antica attiva ancora oggi potrebbe essere forse quella di Akhaltsikhe, del 1741. L'antica sinagoga ora non è più in funzione, e ne resta solo la struttura in pietra, chiusa tra due fiumi di fango, come tutte le strade del quartiere di Rabati, il quartiere più antico della città. Durante l'Unione Sovietica
La Sinagoga di Akhaltsikhe
essa venne chiusa e riconvertita in palazzetto dello sport, mentre la nuova, costruita nel 1902, si trova pochi metri più in alto, in un edificio ben più modesto. L'unico segno che si rintraccia è una piccola stella di David, posta sulla tradizionale tettoia in alluminio.
Le prime comunità ebraiche di Akhaltsikhe si insediarono nella città circa cinque secoli fa. Ad oggi, gli ebrei presenti nella città sono circa una decina, forse anche a causa di una forte spinta al 'ritorno in Israele' (negli anni '70 si contavano circa 100.000 ebrei georgiani in nel paese, mentre negli ultimi decenni si è riscontrato un rapido decremento dovuto proprio all'emigrazione, diretta specialmente in Israele, Stati Uniti, Russia e Belgio, tanto che nel 2004 se ne appena 13.000 sul suolo georgiano). Questa esigua presenza ha avuto tuttavia una ricaduta anche nella sfera liturgica: "gli ebrei di Akhaltsikhe sono costretti a svolgere la preghiera e la funzione in una forma breve, in quanto non disponiamo del numero di persone necessario". A testimonianza di quanto la comunità ebraica fosse una volta presente in città resta però l'antico cimitero, posto sulla sommità di una delle colline che circondano il quartiere e risalente al XVII secolo circa. Su alcune lapidi è possibile leggere il nome Seigniors ossia 'signori' in ladina giudeo-spagnola. Sembrerebbe infatti, che gli ebrei di Akhaltsikhe si differenziassero, dagli altri presenti in Georgia, proprio per la loro provenienza pirenaica. Un altro piccolo cimitero ebraico si trova anche nel piccolo villaggio di Atskuri, sulle rive del Mtkvari, quasi di fronte ad un'altra piccola costruzione, un bagno turco.
   Ad Akhaltsikhe l'adattamento era all'ordine del giorno; ambiente multireligioso, convivenza di cattolici, armeni apostolici, cristiani ortodossi e musulmani. La particolarità della comunità ebraica di Akhaltsikhe stava così nell'avere una propria struttura dinamica ed aperta, come i propri vicini armeni: una 'identità polivalente', in grado di assorbire tutto ciò che viene dall'esterno e in costante relazione, al contrario del 'ghetto', comune nelle altre comunità diasporiche ebraiche.
   Nel corso dei secoli, a tradizioni e costumi appartenenti a questa comunità, se ne sono aggiunti, com'è ovvio, altri, prettamente georgiani, per lo più riguardanti feste stagionali e cerimonie religiose. L'influenza della cultura georgiana è evidente e si esprime in maniera differente nelle diverse aree, anche se nonostante ciò, l'evidente somiglianza tra i costumi di ebrei georgiani con altri di comunità ebraiche del Kurdistan, Persia e Turchia attesta proprio il fatto che, nonostante l'isolamento geopolitico georgiano, gli ebrei abbiano mantenuto legami con i loro fratelli vicini.
   La questione dei confini, divenuta ora cruciale nelle relazioni tra i vari paesi del Caucaso (si pensi all'annosa questione del conflitto tra Armenia ed Azerbaijan, o alla questione del Samtskhe-Javakheti), non così sentita fino ad un secolo fa. Anzi, si potrebbe quasi affermare che, proprio grazie alla possibilità di muoversi e adattarsi, le comunità diasporiche del territorio (ebraica ed armena, in particolare) potessero prosperare e crearsi il proprio spazio. Come già accennato, a dispetto della condizione di 'ghetto' usuale per molte delle comunità ebraiche in diaspora, quella georgiana, ed in particolare quella di Akhaltsikhe, ebbero la possibilità di potersi inserire meglio ed attivamente nel contesto sociale ed urbano, anche grazie ai vari collegamenti tra città e villaggi, cosa importante non solo dal punto di vista commerciale ma anche perché permetteva alla comunità (e alle comunità) di allargare confini e spazi senza venire relegati in uno spazio chiuso, delimitato, e non solo fisicamente.

(East Journal, 23 dicembre 2014)


Shlomit, la testimonial di Intimissimi è caporale nell'esercito israeliano

Nata e cresciuta a Tel Aviv, la modella si divide tra le due carriere: "Mi fa tenere i piedi a terra".

Shlomit Malka
L'hanno scelta per la bellezza non aggressiva, talmente discreta da essere elegante e da piacere anche all'esercito israeliano: la modella Shlomit Malka è la nuova testimonial di Intimissimi. Nata e cresciuta a Tel Aviv, la ragazza è caporale dell'esercito ma è anche la settima modella più pagata di Israele secondo Forbes: la prima è sempre Bar Refaeli, quella che, al contrario, con l'esercito del suo Paese non è mai stata in buonissimi rapporti. Così a partire da quando, a diciotto anni la ragazza si sottrasse al servizio militare per potersi concentrare sulla propria carriera.
Assolutamente fedele alla linea, Shlomit ormai da qualche anno sveste spesso l'uniforme per sfilare e posare (per Ralph Lauren, L'Oreal, Toshiba, Muller - lo yogurt), ma sempre con il beneplacito delle forze armate che pre-approvano i suoi lavori. "L'equilibrio tra carriera di modella ed esercito mi fa stare bene: mi fa tenere i piedi a terra".

(La Gazzetta dello Sport, 23 dicembre 2014)


«Io araba musulmana dentro 'Focolare ebraico'»

La scelta controcorrente di Annette Haskya vicina ai coloni.

di Aldo Baquis

Armata di un'invidiabile grinta e di una dose straboccante di non-conformismo, l'attivista sociale araba e musulmana Annette Haskya e' impegnata in queste settimane a raccogliere sostegni in vista delle elezioni primarie del partito nazionalista Focolare ebraico di Naftali Bennett. Se la fortuna le arridera', dopo le elezioni politiche del 17 marzo potrebbe essere eletta alla Knesset in una lista spesso associata al movimento dei coloni.
   In un'intervista telefonica all'ANSA Haskya spiega che la cosa non la turba minimamente. ''Io penso - dice - che i veri ebrei sono quelli che vivono negli insediamenti. Ci difendono col loro corpo, ci fanno da scudo con le loro famiglie''. Haskya vede infatti nel rafforzamento delle colonie un elemento chiave nella lotta al terrorismo palestinese: una lotta che e' benefica, spiega, alla stessa minoranza araba in Israele, circa il 20 per cento della popolazione. ''Meno attentati si verificano, meno saremo costretti a scusarci ogni mattina, a spiegare - sostiene - che noi siamo contro la violenza''.
   Nata e cresciuta nella citta' a popolazione mista di Akko (S.Giovanni d'Acri) dove lavorava come parrucchiera, in seguito al suo divorzio Haskya ha fatto una scelta rivoluzionaria trasferendosi in un Kibbutz vicino. Lavorava molte ore al giorno, spiega, e desiderava che i suoi tre figli fossero seguiti, che non restassero abbandonati in strada. Il Kibbutz si e' dunque rivelato la scelta giusta. I ragazzi sono poi cresciuti, hanno servito da volontari nell'esercito israeliano.
   Uno di loro, la scorsa estate, ha combattuto a Gaza, nel rione di Sajaya, con la Brigata Golani. Ed ha anche ottenuto un attestato di merito. In passato Haskya ha dovuto affrontare espressioni di ostilita' da parte della comunita' araba. Ci sono stati insulti, minacce. Lei ha proseguito dritta per la sua strada. Messi da parte i lavatesta, i caschi e i vaporizzatori ha dato vita ad una organizzazione ('La Vera Voce') che assiste quei giovani arabi che prestano servizio civile o militare e che pertanto sono ostracizzati nella loro societa'. ''Sono diventata la loro mamma'', afferma con orgoglio. Adesso e' sempre in giro.
   Tiene conferenze, raccoglie sostegni, mette filmati su YouTube.
   Il suo obiettivo privilegiato sono i partiti arabi israeliani che, accusa, hanno sposato la causa palestinese e cosi' ostacolano l'integrazione di chi come lei (''musulmana ed araba'') vorrebbe inserirsi a pieno nella societa' israeliana, in prevalenza ebraica. La parlamentare Hanin Zuabi, una 'pasionaria' filo-palestinese, e' secondo Haskya ''razzista e fascista. Dovrebbe trasferirsi a Gaza''. Con tante liste alla Knesset, come mai e' approdata proprio a Focolare ebraico? ''Ho bussato a tante porte, senza mai ricevere attenzione. Poi mi sono rivolta a Bennett. Mi ha voluto conoscere. Era modesto, gentile. Mi ha ascoltato fino in fondo. Ho capito che quello era il mio posto''. Se riuscira' ad approdare alla Knesset, Haskya si dedichera' ai problemi della educazione, alla integrazione dei giovani arabi con quelli ebrei. ''E' li' che comincia tutto.
   E' da li che sboccera' la convivenza fra i due popoli''.

(ANSAmed, 23 dicembre 2014)


Cosenza celebra la Chanukkah. Messaggio di pace per la festa della luce

Tanta gente alla celebrazione sulla centralissima isola pedonale. Presenti anche i rappresentati delle comunità cattolica, valdese e Bah'ai.

di Davide Scaglione

 
Una via di Cosenza
 
Negozio di Cosenza sul cui frontespizio compare la stella di Davide. Quest’estate il proprietario ha aggiunto la bandiera israeliana dopo che sono stati scoperti i corpi dei tre ragazzi israeliani assassinati. (The Times of Israel)
COSENZA - Un messaggio di speranza per un mondo di pace. Per la seconda volta a Cosenza la Comunità Ebraica di Napoli sezione Calabria ha celebrato la Festa delle Luci, meglio nota come Channukkah.
La cerimonia si è tenuta sull'isola pedonale, in largo Lisa Bilotti e ha registrato una grande partecipazione.
   In ebraico la parola chanukkah significa "inaugurazione" o "dedica", è la festività che commemora la consacrazione di un nuovo altare nel Tempio di Gerusalemme dopo la libertà conquistata dagli israeliti in seguito all'occupazione siriana-ellenica di Antioco IV Epifane. Quest' ultimo nel corso II secolo a.C., sconsacrò il Tempio di Gerusalemme e tentò di distogliere gli ebrei dalla Torah e soprattutto da alcuni suoi precetti, ma una rivolta armata guidata da Mattatia, capostipite dei Maccabei, permise di scacciare gli oppressori.
   Il Talmud (uno dei testi sacri dell'Ebraismo) narra che tutte le provviste di olio puro nel tempio erano però state distrutte dagli invasori, pertanto quando gli ebrei vollero accendere la Menorah (la lampada ad olio a sette bracci), trovarono soltanto una piccola ampolla d'olio d'oliva che sarebbe bastata solo per un giorno. Miracolosamente però l'olio durò otto giorni, giusto il tempo necessario per ottenere altro olio.
   In ricordo di questo prodigioso avvenimento fu istituita la festività di Chanukkah durante il quale si accendono i lumi ogni sera per otto giorni, dal 25 di kislev al 2 o 3 di tevet secondo il calendario ebraico, periodo di tempo che coincide con il mese di dicembre nel calendario gregoriano.
   Nel pieno del clima natalizio e con il consueto andirivieni della gente, la celebrazione della ricorrenza ebraica ha destato molta curiosità tra i cosentini. Numerose le persone che, dapprima timidamente poi con più audacia, hanno assistito alla breve cerimonia, con grande rispetto ed interesse.
   Presenti anche i rappresentati della comunità cattolica, valdese e Bah'ai che hanno evidenziato i percorsi comuni e i buoni rapporti con l'Ebraismo.
   «La città di Cosenza dimostra ancora una volta di essere una città aperta culturalmente. Un gesto simbolico per la Festa delle Luci che vuole essere un auspicio per rafforzare i legami umani con la comunità ebraica cosentina», ha detto il sindaco Mario Occhiuto.
   Il primo cittadino del capoluogo bruzio ha poi ricordato le luminarie delle Feste cosentine che, in via Arabia, rappresentano la Menorah, che nell'antichità veniva accesa all'interno del Tempio di Gerusalemme, secondo alcune testimonianze, potrebbe far parte del tesoro di Alarico accumulato dopo il Sacco di Roma.
   Nel corso della funzione c'è stata la solenne accensione della chanukkiyah (il candelabro a nove bracci).
   Ha officiato la cerimonia Roque Pugliese referente per la Calabria della Comunità Ebraica di Napoli: «Molte comunità ebraiche erano a conoscenza della celebrazione del Channukah di questa sera a Cosenza e i riflettori del mondo sono su di noi. Si tratta di un'antichissima festa che incarna i valori della libertà d'espressione e di culto di ogni popolo».

(il Quotidiano della Calabria, 23 dicembre 2014)


Jihad con ogni arma possibile come gli estremisti palestinesi

In Israele decine di casi analoghi. La «Car Intifada» palestinese ha fatto scuola.

do Maurizio Molinari

Con le auto lanciate contro i civili a Digione e Nantes la «Car Intifada» palestinese diventa un modello da imitare nelle strade francesi ed europee. I 13 passanti feriti domenica a Digione e i 10 di ieri nel mercato natalizio di Nantes hanno in comune il fatto di essere stati provocati da vetture ad alta velocità guidate da uomini che gridavano - secondo le testimonianze locali - «Allah hu-Akbar» (Dio è il più grande) in maniera analoga a quanto fatto sabato nel centro di Joué-les-Tours da parte di un immigrato del Burundi convertito all'Islam mentre si lanciava con un coltello contro un agente di polizia.

TRATTORI, COLTELLI, ASCE
Si tratta di una ripetizione del metodo di attacchi contro i civili israeliani che, dalla fine di agosto, hanno visto singoli palestinesi adoperare auto, trattori, coltelli e asce uccidendo otto persone, inclusa una bambina di tre mesi. La dinamica dell'emulazione evoca i «lupi solitari» islamici che si richiamano ai sanguinari mozzateste del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi perché la trasmissione del «metodo» di attacco avviene, anche nel caso della «Car Intifada», attraverso il web ed in particolare i social network. Immagini, volti e motivazioni dei militanti palestinesi autori delle azioni ad alta velocità contro i passanti di Gerusalemme, Gush Etzion e Tel Aviv si sono infatti diffuse rapidamente sul web, offrendo un esempio di attacchi «a bassa intensità» per quei «lupi solitari» europei non ancora intenzionati a seguire il Califfato sul sentieri di crimini più efferati. Se la «Car Intifada» europea è una indubbia novità, si innesca su qualcosa di più consolidato: il contagio di violenza che dal Medio Oriente raggiunge la Francia. Avvenne per la prima volta fra il 2001 e il 2002 quando, in coincidenza con la Seconda Intifada palestinese - quella dei kamikaze contro autobus e ristoranti - le Comunità ebraiche francesi vennero investite di un'ondata senza precedenti di micro-attacchi, contro istituzioni, proprietà e singoli, che innescò l'inizio di una significativa emigrazione ebraica transalpina verso Usa e Israele.

EBREI IN FUGA
Anche perché il 13 febbraio 2006 l'uccisione del 24enne Ilan Halimi - sequestrato e torturato per tre settimane - aggiunse choc alla paura collettiva. E in occasione del più recente conflitto estivo a Gaza il contagio si è ripetuto nelle vie di Parigi quando, a metà luglio, alcuni gruppi di estremisti franco-musulmani hanno sfidato il bando delle autorità con azioni di vera e propria guerriglia urbana. Le statistiche rese pubbliche da Parigi su questo tipo di attacchi mettono in luce un dato anagrafico: a commetterli non sono quasi mai immigrati di prima generazione, ovvero arrivati in Francia dal Nordafrica negli Anni Cinquanta e Sessanta, bensì i loro figli, dei convertiti all'Islam oppure degli immigrati arrivati molto di recente da Paesi arabi o africani. Si tratta dunque di un virus del XXI secolo.

(La Stampa, 23 dicembre 2014)


La sinuosa sottomissione di Tariq

Al romanzo-scandalo di Houellebecq Ramadan risponde con un libro di seduzione e conquista. Un messaggio sull'islam più ragionevole ma pericoloso. Un maestro nell'arte di séduire le bourgeois. E intanto a Nantes...

di Giulio Meotti

 
Tariq Ramadan
ROMA - Il problema di Tariq Ramadan è che il suo messaggio sull'islam in Europa appare come il più ragionevole. Lo conferma la sua intervista al settimanale le Point. L'occasione è l'uscita del nuovo romanzo di Michel Houellebecq Soumission (in Italia a gennaio), che racconta una Francia presto islamizzata sotto spoglie decadenti e scorbutiche. A parte liquidare una Parigi maomettana come "una pura fantasia destinata a spaventare" (mentre ieri sera un furgone è piombato sulla folla di un mercatino di Natale a Nantes, al grido di "Allahu akbar"), Ramadan afferma che "la proliferazione di donne velate, cibo halal nelle mense o pressioni a far sì che le donne e gli uomini siano separati nelle piscine sono esempi che mi lasciano scettico". Registra come un "buon auspicio la scomparsa del comunitarismo" .
Nel risponderea Houellebecq e all'altro libro del momento, Le Suicide français di Eric Zemmour, Ramadan ha appena mandato in libreria il suo nuovo libro, De l'islam et des musulmans (Presses du Chàtelet), in cui spiega come "l'islam deve diventare un valore aggiunto nelle società occidentali". Ramadan non vuole "musulmani invisibili" che "coltivino un senso di alterità nel cuore dell'occidente", ma "cittadini soggetti" che promuovano la sua "rivoluzione silenziosa" in cui l'islam diventa a pieno titolo parte dell'Europa. Basta falsi clivage, la mezzaluna è europea. Non c'è scontro di civiltà, ma "confronto".
   Caroline Fourest, che a Ramadan ha dedicato il libro-inchiesta Frère Tariq, lo considera "più pericoloso degli estremisti". Ramadan non è un rigoroso salafita, ma un amabile tradizionalista, un seduttore delle civiltà, uno xenofilo. "Ramadan sa che un messaggio oppressivo non passerebbe presso le giovani musulmane francesi, così preferisce giocare la carta della persuasione", scrive Fourest. Fourest sintetizza così il messaggio sinuoso di Ramadan: "Un islam militante e orgoglioso che ha consentito ai musulmani europei di trovare un equilibrio fra l'identità civica e quella religiosa".
   Ramadan offre una via di uscita all'alternativa soffocante fra l'assimilazione, ovvero la perdita di identità, e il comunitarismo, ovvero i molti ghetti identitari. Vuole una integrazione come presa di coscienza. Nel saggio "Notre identité face au contexte", Ramadan spiega: "Sono d'accordo con l'integrazione, ma spetta a noi determinare il contesto. Accetto la legge, a patto che non mi ponga in contraddizione con la mia religione". Come spiega Ramadan nel libro, non c'è alcuna contraddizione nel dirsi "musulmani francesi" (nel libro attacca Voltaire quando parlava di "maomettani"). Per Ramadan l'islam, e quindi l'islam in Francia, è una storia di grandissimo successo. Non vuole che i giovani francesi vadano a combattere per l'Is, ma che restino in Francia per costruire una società ispirata ai valori dell'islam. Lo chiama "comunitarismo non separatista". E di questo fa parte la sharia: "La mia definizione di sharia è il percorso per la fedeltà", spiega Ramadan. "E' l'applicazione della giustizia, il riconoscimento dell'uguaglianza dei cittadini e il diritto di ogni uomo e donna a essere rispettato nella propria dignità".
   Come dimostra l'intervista a le Point, il successo di Ramadan consiste nell'arte di séduire le bourgeois (per questo ha ottenuto incarichi di peso a Downing Street, all'Università di Oxford, al comune di Rotterdam, alla Commissione europea di Romano Prodi), ma senza rinunciare all'opportunità di acculturare i musulmani d'Europa, che chiama "dar al shahada", terra di missione religiosa.
Ramadan si muove fra l'islamizzazione dell'Europa e l'europeizzazione dell'islam. Convince quando gioca a fare il Martin Lutero del Corano e non il Mullah Ornar. Ma non convince quando chiede una moratoria delle lapidazioni e non la messa al bando. Non convince quando, come due giorni fa, ha definito "legittima" la resistenza di Hamas contro Israele. Non convince quando invita i musulmani francesi a non servire nell'esercito. Non convince quando ci rifila il Dio unico mistico e indissoluto. Non convince quando sprona i musulmani a non frequentare i locali notturni e a non ascoltare musica rapo Non convince quando parla di "uomo musulmano".
   Dominique Avron, storico dell'Università di Montpellier-III, ha scritto che "Tariq Ramadan esita tra l'immagine di un occidente in preda alla disillusione e un occidente decadente. E questa per lui è una buona notizia: la decadenza dell'occidente contiene il rinnovamento dell'islam". Non convince "Frère Tariq" quando enuncia le grazie della sharia a un pubblico di smunti e rssegnati occidentali secolarizzati. E' lì che entra in scena Michel Houellebecq. E bisogna stare a vedere con apprensione chi avrà la meglio fra i due.

(Il Foglio, 23 dicembre 2014)


Canzoni di Natale: 20 curiosità da Jingle Bells a White Christmas

Alcune curiosità sulle canzoni di Natale più belle e famose.

Mancano pochi giorni a Natale 2014 e, se state ascoltando a ripetizione, alcuni dei brani classici di questa festività, vi riportiamo qualche curiosità sempre interessante da scoprire. Potreste anche riferirla durante una cena o un pranzo di famiglia se dovessero mancare argomenti o per glissare a domande scomode tipo "Quando ti sposi?". Ecco qualche via di fuga.
  1. Tutti noi conosciamo "Jingle Bells", no? Ebbene, originariamente, la canzone è stata scritta da James Lord Pierpont per festeggiare il Ringraziamento.
  2. "Rudolph The Red-Nosed Reindeer"
    e "Rockin' Around The Christmas Tree"
    sono state scritte dall'autore ebreo Johnny Marks.
  3. La prima canzone in assoluto che parla e cita Babbo Natale (Santa Claus) è di Benjamin Hanby, "Up On The Housetop". E' stata scritta nel 1864 e ha preso ispirazione dalla poesia "A Visit from Saint Nicholas", scritta alcuni anni prima -1823- da Clement Moore.
  4. "White Christmas"
    è stato scritto dal cantautore ebreo Irving Berlin.
  5. Irving Berlin odiava la versione di Elvis Presley di "White Christmas", tanto da aver tentato disperatamente che le stazioni radio trasmettessero la cover del cantante.
  6. Nell'aprile 1975, l'esercito americano ha suonato "White Christmas" nella radio della Forze Armate Radio come segnale nascosto per avvertire i soldati in Vietnam di evacuare Saigon.
  7. Irving Berlin aveva scritto "White Chirstmas" per un musical di Broadway che non fu mai prodotto. E' stata poi ripresa da produttori di Hollywood che l'hanno utilizzata nel film "La taverna dell'allegria", interpretato Bing Crosby e Fred Astaire nel 1942.
  8. La versione interpretata da Bing Crosby di "White Christmas" è il singolo di tutti i tempi più venduto.
  9. Scritta per il film del 1944 "Incontriamoci a Saint Louis", il testo originale di "Have Yourself a Merry Little Christmas" è stato ritenuto troppo triste dal regista Vincente Minelli e da Judy Garland. Hanno chiesto al cantautore Vincente Minelli di riscrivere parti della canzone.
  10. Nel 1906, un'esibizione a violino di "O Holy Night" è stato il secondo pezzo di musica mai trasmesso in onda, nelle radio.
  11. "Let It Snow"
    è un altro brano dal sapore natalizio nonostante il fatto che non si parli mai nemmeno una volta, nel testo, di Natale. E' stato scritto dagli autori ebrei Jule Styne e Sammy Cahn.
  12. Walter Afanasieff, co-autore per Mariah Carey per il brano "All I Want For Christmas Is You", ha scritto anche "My Heart Will Go On" di Celine Dion.
  13. La versione incisa da Bing Crosby di "Silent Night" è il terzo singolo più venduto di tutti i tempi.
  14. "Jingle Bells" è stata la prima canzone eseguita nello spazio.
  15. Jay Livingston e Ray Evans hanno scritto "Silver Bells" ma originariamente era intitolata "Tinkle Bells." Hanno cambiato quando la moglie di Livingston ha sottolineato che "tinkle" era spesso usato come termine per urinare.
  16. "We Wish You A Merry Christmas" è uno dei pezzi più antichi e risale al sedicesimo secolo.
  17. "The Christmas Song" è stata scritta durante una torrida estate del 1944.
  18. Per 28 anni, Darlene Love ha cantato la sua hit "Christmas (Baby Please Come Home)" nello show di David Letterman.
  19. Brenda Lee ha registrato la versione originale di "Rockin 'Around The Christmas Tree" quando aveva solo 13 anni.
  20. "Winter Wonderland"
    è stata scritta da autori ebrei Felix Bernard e Richard B. Smith.
(Soundsblog, 23 dicembre 2014)


Fiat 500 Ron Arad Edition, l'auto firmata dal designer israeliano

È da oggi disponibile il modello d'autore e in serie limitata del progetto 500 Couture.

di Alberto Capra

Ron Arad
Il sessantatreenne designer israeliano Ron Arad è uno dei personaggi di maggior rilievo nel panorama della progettazione industriale internazionale. Le sue opere sono state esposte nei più prestigiosi musei di tutto il mondo, dal MOMA di New York, al Centre Pompidou di Parigi. Tra queste è possibile annoverare la celeberrima libreria a "serpente" Bookworm o l'altrettanto rinomata sedia Rover Chair. A lui si deve, inoltre, la progettazione di alcuni centri museali di notevole rilievo (come il Museo del Bauhaus di Tel Aviv), oltre alla supervisione del dipartimento di design del Royal College of Art di Londra, dal 1997 al 2009. Un personaggio a tutto tondo, dunque, che ha manifestato in più occasioni una notevole predilezione per il prodotto che più di ogni altro è in grado di rappresentare la casa torinese in tutto il mondo: la Fiat 500. A tal proposito, soltanto lo scorso marzo si è conclusa Reverse, la mostra che ha visto Arad come protagonista e che è stata ospitata dalla Pinacoteca Agnelli, la struttura disegnata da Renzo Piano e situata all'interno del Lingotto allo stesso livello dello storico tracciato su cui, un tempo, venivano testate le vetture della casa della Mole.
È in occasione di questo appuntamento che il designer israeliano ha portato a Torino la sua opera Dired Flowers: sei Fiat 500, schiacciate e completamente appiattite, disposte intorno ad un telaio di formatura in legno ricurvo, utilizzato per sagomare e adattare i pannelli metallici della 500 prima serie. Al suo fianco, la scultura Roddy Giacosa, realizzata posizionando centinaia di barre in acciaio su di un'armatura metallica avente la forma di una 500. Un'attenzione del tutto particolare, insomma, che Fiat ha voluto omaggiare, chiedendo ad Arad di fornire la sua personale interpretazione del concetto di personalizzazione e invitandolo a concepire la "sua" 500 Couture - questo il nome scelto per l'esclusivo programma di personalizzazione ideato da Fiat per il suo iconico modello. Grazie a esso sarà possibile sottoporre ogni vettura a un caratteristico processo di lavorazione artigianale, rigorosamente Made in Italy, rendendo unica l'auto di ogni utente.
Ron Arad ha dato forma al suo immaginario, ideando l'allestimento che oggi prende il suo nome e che si contraddistingue per l'esclusivo disegno degli esterni e per una ricchissima dotazione: tetto in cristallo, dettagli cromati, colorazioni ad hoc per gli interni, sedili rivestiti in pelle Poltrona Frau con cuciture a contrasto in color avorio, quadro strumenti TFT da 7", Blue&Me, volante in pelle con comandi radio, climatizzatore automatico, fendinebbia, cerchi in lega da 16". Sulle sue fiancate è possibile riconoscere la silhouette della storica 500 del 1957: una sagoma bianca, richiamata dagli specchietti del medesimo colore, risalta nel migliore dei modi sulla colorazione nero metallizzato scelta per questa serie limitata. Un vero e proprio pezzo da collezione, degno di uno speciale trattamento: Fiat consegnerà ogni vettura direttamente a casa di ogni acquirente, assieme ad una sua fedele riproduzione in scala 1:18, custodita in una teca in vetro.

(GQ.com, 23 dicembre 2014)


Cento palestinesi di Gaza si sono uniti all'Isis, altri mille sono pronti a farlo

Sono circa cento i giovani palestinesi provenienti dalla Striscia di Gaza che combattono nelle file dello Stato islamico (Isis) in Iraq e in Siria. E' quanto ha dichiarato al quotidiano palestinese "al-Ayyam" Abu Uns al Moqaddassi, esponente del "Salafismo jihadista" palestinese il quale ha aggiunto che nell'enclave governata da Hamas, "ci sono oltre mille giovani palestinesi pronti ad unirsi all'Isis, ma le condizioni impediscono loro di uscire" dalla Striscia.
In Iraq e Siria "sono effettivamente arrivati un centinaio ed ora combattono nelle file dell'Isis, alcuni di loro sono morti", ha detto al Moqaddassi, il quale ha spiegato che "nessuno nuovo elemento di Gaza puo' unirsi all'Isis senza un avallo dei gruppi salafiti nella Striscia".

(Imola Oggi, 22 dicembre 2014)


Tesserato in Israele, gioca in Palestina: Atef Abu Bilal squalificato per 99 anni

Ha evitato la squalifica a vita solo per un errore del computer: potrà tornare a giocare a 129 anni...

di Elmar Bergonzini

Per sentirci un po' più liberi e non essere rintracciabili in qualsiasi momento, tutti, chi più chi meno, diciamo qualche bugia e diamo false coordinate a qualche seccatore. Il problema emerge quando le balle vengono smascherate, specie se volevamo nascondere qualche furbata. Oltre a pagarne le conseguenze, in quei casi, si perde del tutto credibilità. È quanto successo al nazionale palestinese (11 presenze) Atef Abu Bilal. Il centrocampista classe 1984 non nascondeva un'amante o una seconda famiglia, ma una seconda vita (sportiva) sì.

SQUALIFICA RECORD — Tesserato con una società di quinta serie israeliana, lo Segev Shalom, Bilal è stato beccato mentre giocava a calcio anche con una squadra palestinese. E ai dirigenti della federazione israeliana, la sua furbata, non è piaciuta affatto. Immediata è partita l'indagine, e quando si è scoperto che il giocatore apparteneva effettivamente a due società di due nazioni diverse, è stato squalificato. Rischiava di essere radiato, ma, per sua fortuna, così non è stato. Oltre a pagare una multa di 200 euro, Bilal è stato interdetto dal gioco "solo" per 99 anni. Il software non permetteva infatti una squalifica maggiore. Il palestinese potrà quindi tornare a giocare a 129 anni. E chissà che, per recuperare il tempo perso, Bilal non provi a farsi tesserare da 4 club diversi.

(La Gazzetta dello Sport, 23 dicembre 2014)


In molti domenica a festeggiare Channukà attorno alla Sinagoga

 
CASALE MONFERRATO — Sono venuti in tanti, Casalesi e non, a festeggiare Channukà attorno alla Sinagoga di vicolo Salomone Olper, l'unica al mondo che sotto le sue mura ospita un intero museo dedicato a questa festa ebraica e al suo simbolo più evidente: i candelabri a otto braccia chiamate Channukiot. E così questa giornata, che per di più capita a ridosso di Natale, acquista per la Comunità monferrina una duplice valenza: da una parte, si invitano amici da ogni parte, anche delle altre religioni monoteiste, a festeggiare quelle luci che diventano un messaggio di speranza, dall'altra è un momento in cui altre lampade e altri artisti vanno ad aggiungersi a quelli già presenti ad un museo che ospita i più grandi nomi dell'arte contemporanea. Del resto come ha spiegato il vicepresidente della Comunità Elio Carmi "Le Chanukkiot sono sempre stati liberamente interpretati e persino durante la shoà nei campi di concentramento chi voleva celebrare channukà si ingegnava a costruirle in vari modi".
   Domenica quindi doppia festa: alle 16,00 si è cominciato proprio con la presentazione delle nuove lampade. Accanto a Elio Carmi, che ha ricordato i fondatori del Museo Aldo Mondino e Antonio Recalcati, c'erano molti degli artisti che hanno donato le loro opere in questa occasione Gianmario Albiati, Alessandro Riccardo, Roberto Maria Bogo, Rosanna Forino, Giorgio Laveri, Ornella Marino, Walter Morando, Stefano Valabrega e Alice Werblowsky. Più Marco Zanuso jr architetto e designer milanese di fama che oltre a donare il candelabro ha dedicato alla Comunità una mostra personale molto suggestiva capace di trasformare la sala Carmi in una delicata esposizione di trasparenze e riflessi. Per l'occasione non ha voluto mancare, nonostante fosse convalescente, anche Giorgio Ottolenghi, da 70 anni Presidente della Comunità Casalese.
   L'inaugurazione è stata anche l'occasione per un annuncio ufficiale dell'Assessore alla Cultura del Comune di Casale Monferrato Daria Carmi (ma lo avevamo anticipato...ndr). In occasione dell'Expo 2015 per la prima volta saranno esposte a Casale tutte le lampade della collezione dando alla città un valore aggiunto importante per i suoi visitatori.
   Alle ore 17,00 nel vicino Cortile delle Api la cerimonia vera e proprio con l'accensione del sesto lume di Channukka seguita da una grandissima folla. Erano presenti tutte le più importanti autorità religiose e civili di Casale e del Monferrato a cominciare dal Sindaco di Casale Titti Palazzetti, (ma presenti anche i primi cittadini di Moncalvo, Morano e Sartirana, paesi che hanno fatto parte della storia ebraica monferrina), il commissario di P. S. Athos Vecchi, il tenente Mario Barisonzi della Compagnia di Carabinieri di Casale, Claudia Debenedetti per l'UCEI (il parlamentino nazionale ebraico)e i rappresentanti religiosi a cominciare dal Vescovo di Casale Alceste Catella col rettore di Crea mons. Francesco Mancinelli e don Cassano, Giancarlo Pagella e Stefania Dolce della chiesa Avventista, Paolo Librà della chiesa Metodista di Bassignana, mons. Luigi Nason Canonico del Duomo di Milano e Idris Abd A Razzaq Bergia del Coreis di Torino i quali, mentre si passavano lo shammash, il lume con cui vengono accesi tutti gli altri, hanno ricordato i punti di contatto tra le diverse religioni e il significativo messaggio di speranza e dialogo che questa festa offre alla società di oggi, o, per dirla come Vittorio Robiati Bendaut che ha officiato la cerimonia religiosa: "Piuttosto che maledire le tenebre è più sensato accendere la luce".
Si percepiva la presenza anche gli "amici assenti" ed è con commozione che questo momento è stato dedicato a Riccardo Coppo, l'ex Sindaco di Casale recentemente scomparso che ogni anno potava il melograno al centro del cortile della api.
   All'atmosfera particolare ha contribuito il Coro Ghesher diretto da Erika Patrucco. Le voci bianche hanno intonato con 4 canzoni popolari ebraiche terminando con Hevenù Shalom, decisamente intonata allo spirito del momento. Poi tutti ad accendere le lampade sparse in ogni angolino del Cortile delle Api cosa gradita non solo agli ospiti, ma anche ai tanti bambini che partecipano ogni anno a questa festa.Titti Palazzetti, (ma presenti anche i primi cittadini di Moncalvo, Morano e Sartirana, paesi che hanno fatto parte della storia ebraica monferrina), il commissario di P. S. Athos Vecchi, il tenente Mario Barisonzi della Compagnia di Carabinieri di Casale, Claudia Debenedetti per l'UCEI (il parlamentino nazionale ebraico) e i rappresentanti religiosi a cominciare dal Vescovo di Casale mons. Alceste Catella col rettore di Crea mons. Francesco Mancinelli e don Cassano, poi Giancarlo Pagella e Stefania Dolce della chiesa Avventista, Paolo Librà della chiesa Metodista di Bassignana, mons. Luigi Nason canonico del Duomo di Milano e Idris Abd A Razzaq Bergia del Coreis di Torino i quali, mentre si passavano lo shammash, il lume con cui vengono accesi tutti gli altri, hanno ricordato i punti di contatto tra le diverse religioni e il significativo messaggio di speranza e dialogo che questa festa offre alla società di oggi, o, per dirla come Vittorio Robiati Bendaut che ha officiato la cerimonia religiosa: "Piuttosto che maledire le tenebre è più sensato accendere la luce".
   All'atmosfera particolare ha contribuito il Coro Ghesher diretto da Erika Patrucco. Le voci bianche hanno intonato con 4 canzoni popolari ebraiche terminando con Hevenù Shalom, decisamente intonata allo spirito del momento. Poi tutti ad accendere le lampade sparse in ogni angolino del Cortile delle Api cosa gradita non solo agli ospiti, ma anche ai tanti bambini che partecipano ogni anno a questa bella festa.

(Il Monferrato, 22 dicembre 2014)


Siria: "Abbattuto un drone israeliano"

Ma l'esercito dello Stato ebraico per ora non conferma.

ROMA - Le forze siriane hanno rivendicato l'abbattimento di un drone israeliano nella zona di Quneitra, al confine fra la Siria e il Golan occupato da Israele. Lo riportano i siti israeliani, citando media siriani e libanesi secondo i quali il drone sarebbe stato colpito mentre era in volo sul villaggio druso di Hadar: una roccaforte del presidente Bashar al-Assad. No comment dell'esercito israeliano: un portavoce si limita a dire che al momento "non risultino perdite" di velivoli senza pilota.

(ANSA, 22 dicembre 2014)


Firenze - Chanukkah, una luce collettiva

L'appuntamento era sotto il porticato della sinagoga. Ciascun iscritto chiamato a portare con sé una Chanukkiah da casa per celebrare, tutti assieme, una serata di luce. Un modo nuovo per festeggiare Chanukkah che ha raccolto molti consensi all'interno della Comunità ebraica fiorentina. Adulti e bambini - chi con un candelabro, chi anche solo con la voglia di cantare Maotzur - l'iniziativa si è rivelata un successo. Con il calore della luce emanato dall'accensione collettiva e con il profumo delle tante sufganiot che si è diffuso oltre il cancello di via Farini. Tra gli ospiti anche il consigliere UCEI Ariel Dello Strologo, attuale vicepresidente della Comunità ebraica di Genova.

(moked, 22 dicembre 2014)


Roma - Acceso in piazza Barberini il candelabro di Chanukkià

Musica, bombe fritte ma soprattutto luci e spiritualità. Ieri pomeriggio piazza Barberini si è illuminata per la Chanukkià, l'accensione del grande candelabro a nove braccia, simbolo di luce e serenità per la comunità ebraica.
Una festa a cui hanno partecipato il sindaco Ignazio Marino, il presidente della commissione Affari esteri del Senato Pier Ferdinando Casini, l'ambasciatore di Israele Naor Gilon e, a nome del governatore Nicola Zingaretti, la consigliere regionale Teresa Petrangolini. L'evento è arrivato al venti settesimo anno nella Capitale. «E celebra l'eroismo del popolo ebraico - ha detto l'ambasciatore Gilon -l'importanza della libertà di culto. Ma questa è anche la festa della speranza e dell'ottimismo». «E soprattutto - ha spiegato Casini - la luce testimonia l'indissolubilità del rapporto tra la comunità ebraica e le istituzioni».
L'atmosfera di festa, in un mix di musica e preghiera per grandi e piccini, è stata anche l'occasione per fare dire a Marino, riferendosi all'inchiesta su Mafia Capitale, che «Roma ha bisogno di luce per reagire allo schiaffo violento subito per quello che abbiamo letto sui giornali o ascoltato in queste ultime settimane». La Chanukkià rimarrà a piazza a Barberini fino a martedì sera. La cerimonia è stata organizzata dal centro Chabad della Capitale, rappresentato in piazza dal rabbino Shalom Hazan. Per la comunità ebraica romana ha preso parte all'iniziativa il portavoce Fabio Perugia.

(Il Messaggero, 22 dicembre 2014)


La comunità ebraica di Trani accende la grande Channukkià

Alle 17 la cerimonia dell'accensione del grande candelabro a 9 braccia della Sinagoga Scolanova

Alle 17:00 di lunedì 22 dicembre, primo giorno del mese ebraico di Tevet dell'anno ebraico 5775 e settima sera di Channukkà, la comunità ebraica di Trani accenderà in piazzetta Scolanova sette luci della grande Channukkià (il candelabro a 9 braccia) della Sinagoga Scolanova.
La festa di Chanukkà (letteralmente "inaugurazione") è chiamata altresì Chàg Haurim (festa dei lumi), è la celebrazione dell'identità ebraica e dura otto giorni.
Era l'anno 165 prima dell'era volgare allorquando gli Israeliti guidati da Giuda Maccabeo (figlio del sacerdote Mattatià) affrontarono e sconfissero gli occupanti siriani, entrando a pieno diritto a Gerusalemme.
 
Moneta di Antioco IV. Il rovescio mostra Apollo seduto su di un onfalo, pietra sacra che veniva venerata nel santuario di Delfi. L'iscrizione in greco dice: Antioco, immagine di Dio, Portatore di vittoria.
Giuda Maccabeo riconsacrò il Bet Hamikdash (il Santuario di Gerusalemme) abbattendo gli idoli fatti installare dal re Antioco IV Epifane di Siria (sotto il cui governo era caduto Israele) e ripristinando la sovranità della Toràh e dei Suoi precetti sul popolo ebraico.
Il Talmud racconta che nel Tempio appena riconsacrato fu trovata una piccola ampolla di olio puro degli ulivi di Galilea con il sigillo del Sommo Sacerdote, l'olio poteva bastare per un solo giorno ma avvenne un grande miracolo: l'olio bruciò per otto giorni, diffondendo una bellissima luce e dando così la possibilità ai sacerdoti di preparare l'olio nuovo.
Fu così che i Maestri proclamarono che il 25 del mese ebraico di Kislèv il popolo ebraico celebrasse l'avvenimento del miracolo dell'olio che non si consumò.
Si accende per primo il lume posto a destra di chi accende e nelle sere successive si parte da sinistra verso destra accendendo per primo il nuovo lume. Questi lumi sono sacri, non è permesso servirsene ma solo guardarli; le luci di Channukkà devono ardere per almeno 30 minuti e anche i bambini che non hanno raggiunto la maggiorità religiosa possono accendere i lumi.
Uno dei precetti relativi a Channukkà è quello di rendere pubblico il miracolo, perciò si usa accendere la Channukkià al tramonto (quando la gente è per le strade o alle finestre) e in un posto che sia ben visibile; quando si accendono i lumi si recita la berachà dell'accensione dei lumi e quella di sheHecheyànu.
Channukkà è tra le feste maggiormente sentite del popolo ebraico; la vittoria sui siriani non fu soltanto militare ma ideologica, in quanto essa rappresenta la vittoria del monoteismo ebraico (dal quale discendono i monoteismi moderni) sul politeismo ellenico ed estesamente sulla concezione idolatrica del trascendente.
La comunità ebraica tranese festeggia Channukkà sin dal 2004 ossia dall'anno della sua rinascita, in quella occasione un enorme candelabro a 9 braccia fu montato sul fortino del porto.
Lunedì 22 il medesimo candelabro sarà acceso in Piazzetta Scolanova, un quartetto d'ottoni di docenti e allievi del Conservatorio E. Duni di Matera accompagnerà i canti dell'accensione delle luci di Channukkà; il Maskil Marco Dell'Ariccia terrà alcune derashot (spiegazioni e commenti alla festa) e la tefillà (preghiera) serale.

(Tranilive.it, 22 dicembre 2014)


I Maestri ci hanno mentito su Chanukkà

di P.P. Punturello

Anzi, diciamolo meglio, i Maestri hanno omesso un dolorosa verità quando ci hanno trasmesso la memoria degli eventi storici di Channukkà e dobbiamo capire il perché di questa omissione, se vogliamo cogliere l'essenza della festa. Le tradizioni popolari Ebraiche ci raccontano gli eventi di Channukkà in maniera quasi infantile, come fossimo bambini, proteggendo la nostra innocenza e selezionando la memoria dei fatti. Un posto centrale nel racconto storico di Channukà in Shabbat 31b è occupato dal miracolo dell'olio quando i Maestri affermano senza mezzi termini che: "Quando i Greci entrarono nel Santuario resero impuri tutti gli oli che si trovavano in esso e quando la casa reale dei Chasmonaim ebbe il sopravvento e li sconfisse cercarono nel Tempio e non trovarono se non una ampolla d'olio che aveva ancora il sigillo del Sommo Sacerdote. Essa però conteneva olio sufficiente per accendere un solo giorno: avvenne un miracolo e accesero con esso per otto giorni. L'anno successivo stabilirono che questi giorni fossero giorni di festa con inni di lode e ringraziamento."
   La Ghemarà, come possiamo leggere, accenna appena allo scontro militare e non ne dà nessun particolare né descrive i motivi dello stesso. I Greci entrano nel Bet MIkdash, lo profanano, la famiglia
Perchè i Greci entrarono nel Tempio? Perché avvenne questa guerra? Perché la Ghemarà non ci racconta più particolari? Perché i Maestri aspettarono un anno prima di fissare quei giorni come festa?
ebraica sacerdotale dei Chashmonaim detti Maccabim si ribella, li sconfigge, inaugura nuovamente il Santuario ed in quel momento accadde il miracolo della ampolla d'olio che dura otto giorni. Perchè i Greci entrarono nel Tempio? Perché avvenne questa guerra? Perché la Ghemarà non ci racconta più particolari? Perché i Maestri aspettarono un anno prima di fissare quei giorni come festa? A causa di questa assenza di dati e per gli strani voli pindarici tra momenti storici che i Maestri ignorano, la narrativa ebraica ha sviluppato un racconto dove esiste una netta linea di demarcazione tra buoni e cattivi, tra gli ebrei buoni e fedeli ad Hashem ed i greci cattivi ed idolatri. A differenza della Ghemarà il testo della tefillà di Al Hanissim che si aggiunge nella amidà e nella birkat hamazon durante i giorni di Channukkà ci offre i particolari dello scontro militare: "Al tempo di Matatyà figlio di Yochanan Sommo Sacerdote Chasmonay e dei suoi figli, quando il malvagio regno ellenico si levò contro il tuo popolo di Israele per fargli dimenticare la tua Torà e fargli trasgredire le leggi da Te volute, Tu, nella tua grande misericordia, fosti dalla loro parte nel momento della sventura, difendesti la loro causa, facesti loro giustizia, fosti loro vendicatore, consegnasti i forti nelle mani dei deboli, coloro che erano numerosi nelle mani dei pochi, i malvagi nelle mani dei giusti, gli impuri nelle mani dei puri e gli empi nelle mani di chi si occupava della tua Torà. Rendesti grande e santo il tuo Nome nel mondo e al tuo popolo Israele concedesti grande salvezza e liberazione come oggi. Poi i tuoi figli entrarono nella tua residenza e sgombrarono il tuo Santuario, lo purificarono, accesero i lumi nei tuoi sacri atri e fissarono questi otto giorni di inaugurazione per la celebrazione e il ringraziamento. Tu facesti per loro miracoli e prodigi e noi renderemo omaggio al tuo grande Nome per sempre".
   Quello che la Ghemarà non racconta viene, invece, descritto con precisione dal testo di Al Hanissim ed i greci, che nella Ghemarà sono semplicemente nominati come coloro che resero impuri gli oli, nella teffilà di Al Hanissim sono definiti come il "malvagio regno ellenico" giunto nella storia ebraica per far "dimenticare la tua Torà e fargli trasgredire le leggi da Te volute". Il testo di Al Hanissim apre una
Restano aperti alcuni dei quesiti
sui quali la Ghemarà sorvola silenziosa: Perché i Maestri aspettarono un anno prima di fissare quei giorni come festa e chi erano questi greci idolatri che entrarono nel Bet HaMikdash profanandolo?
riflessione in termini politici: il regno malvagio di Grecia voleva cancellare l'esistenza spirituale di Israele ed ecco il motivo della ribellione ebraica, della miracolosa vittoria e del miracolo dell'olio che durò oltre il tempo consueto. Restano aperti alcuni dei quesiti sui quali la Ghemarà sorvola silenziosa: Perché i Maestri aspettarono un anno prima di fissare quei giorni come festa e chi erano questi greci idolatri che entrarono nel Bet HaMikdash profanandolo? Il silenzio e la censura dei nostri Maestri vanno cercati proprio in questo anno sospeso tra gli eventi e la proclamazione della festa di Channukkà.
   La realtà storica degli eventi prima dello scontro militare ci racconta di una società ebraica molto ellenizzata dove il Sommo Sacerdote da Yeoshua si era fatto chiamare Giasone ed il suo successore Menelao. Una società dove le classi più agiate e colte progettavano i giochi olimpici a Yerushalaim, dove i veri greci-siriani non avevano nessuna intenzione di prendere le armi contro gli ebrei e dove le armi furono invece usate tra ebrei e contro se stessi, in quella che altro non fu che una guerra civile con partecipazione greco-siriana. A questo punto gli "ievanim" ovvero i greci del testo della Ghemarà sono prima di tutti gli ebrei ellenizzati che videro schierarsi di fronte altri ebrei, non ellenizzati o comunque non disposti a cedere alla cultura greca ogni aspetto della propria vita, in altre parole non disposti ad una totale assimilazione. La guerra fratricida fu il più grande trauma ed il più grande dolore per il popolo ebraico dell'epoca e per i Maestri che aspettarono un anno, il massimo tempo del lutto, il tempo necessario per superare il dolore delle morti della guerra tra fratelli, prima di dichiarare i giorni di Channukà come giorni di festa. Una festa che ha al centro del proprio messaggio la luce. La luce come mezzo di comunicazione, di incontro, di rispetto, di illuminazione reciproca. Una luce che invita al superamento degli scontri ed a soluzioni che non siano le armi. I Maestri hanno censurato il dolore della guerra civile per non consegnare nelle nostre mani l'idea che in casi estremi la spada possa essere una soluzione e ci obbligano invece ad uno sguardo su piccole luci diverse tra loro. La sfida è comprenderle e custodirle tutte.

(Kolot, 22 dicembre 2014)


Oltremare - Zucchero e veleni
Della stessa serie:

“Primo: non paragonare”
“Secondo: resettare il calendario”
“Terzo: porzioni da dopoguerra”
“Quarto: l'ombra del semaforo”
“Quinto: l'upupa è tridimensionale”
“Sesto: da quattro a due stagioni”
“Settimo: nessuna Babele che tenga”
“Ottavo: Tzàbar si diventa”
“Nono: tutti in prima linea”
“Decimo: un castello sulla sabbia”
“Sei quel che mangi”
“Avventure templari”
“Il tempo a Tel Aviv”
“Il centro del mondo”
“Kaveret, significa alveare ma è una band”
“Shabbat & The City”
“Tempo di Festival”
“Rosh haShanah e i venti di guerra”
“Tashlich”
“Yom Kippur su due o più ruote”
“Benedetto autunno”
“Politiche del guardaroba”
“Suoni italiani”
“Autunno”
“Niente applausi per Bethlehem”
“La terra trema”
“Cartina in mano”
“Ode al navigatore”
“La bolla”
“Il verde”
“Il rosa”
“Il bianco”
“Il blu”
“Il rosso”
“L'arancione”
“Il nero”
“L'azzurro”
“Il giallo”
“Il grigio”
“Reality”
“Ivn Gviròl”
“Sheinkin”
“HaPalmach”
“Herbert Samuel”
“Derech Bethlechem”
“L'Herzelone”
“Tel Aviv prima di Tel Aviv”
“Tel Hai”
“Rehov Ben Yehuda”
“Da Pertini a Ben Gurion”
“Kikar Rabin”
“Sde Dov”
“Rehov HaArbaa”
“Hatikva”
“Mikveh Israel”
“London Ministor”
“Misto israeliano”
“Fuoco”
“I cancelli della speranza”
“Finali Mondiali”
“Paradiso in guerra”
“Fronte unico”
“64 ragazzi”
“In piazza e fuori”
“Dopoguerra”
“Scuola in guerra”
“Nuovo mese”
“Dafka adesso”
“Auguri dall'alto”
“Di corsa verso il 5775”
“Volo verso casa”
“La guerra del Kippur”
“Inverno, autunno”
“Ritorno a Berlino”
“Il posto della cucina”
“Fermi tutti”
“La merenda”
“Neve”
“Se bruciano i libri”



di Daniela Fubini, Tel Aviv

Le elezioni stanno alle festività come lo zucchero al veleno.
Di zucchero (e litri d'olio di accompagnamento) ci stiamo nutrendo da una settimana, e per fortuna è quasi finita, pena aggiunte ulteriori al giro vita. Le sufganiot di Channukkah in Israele prendono la forma di decine di panetterie e negozi di dolci che rivoluzionano vetrine e spazi espositivi per fare largo a bomboloni ripieni di ogni crema possibile. Ormai quelli che fanno solo le classiche versioni con marmellata di ciliege e zucchero a velo sono guardati con il sospetto che si riserva ai parvenu del gourmet e agli snob esistenziali. Finita Channukkah, i bomboloni scompaiono come non fossero mai esistiti, le vetrine vengono rifatte nottetempo, il profumo tipico della lievitazione, che attualmente avvolge strade e negozi, svanisce. La settimana dopo compaiono i triangoloni di frolla anche loro ripieni, mesi interi prima che Purim osi presentarsi con un nuovo carico zuccherino da coma diabetico.
Per compensare tutta questa dolcezza, ci sono le elezioni. Non si dica che i politici non sono più strategici come una volta: le elezioni sono state pensate apposta per instillare un bel po' di amaro nel nostro inverno ipercalorico. Perché le elezioni, ameno da questa parte del mare, ispirano vera cattiveria. Bibi che governa sardonico con il riporto-nuvoletta, Boogie Herzog che oppone la zazzera ondulata al titanio, modello film dei fratelli Cohen (solo che lì sarebbe un serial killer, e nella realtà è di un buonismo da latte alle ginocchia). Deri di Shas un avanzo di galera (letteralmente). Tzipi Livni ad un talk show di satira parla come uno scaricatore di porto mentre fa la mossa coi capelli per ricordarci che è una donna. Quanto a mossa, nessuno batte Yair Lapid, cui qualcuno ha insegnato che se tiene sempre la testa inclinata di trenta gradi verso l'interlocutore, sembra più intelligente. Bennett con gli occhietti che sberluccicano e il sorriso da Joker. Insomma, a voler distillare veleno in superficie ce n'è per tutti. Ma se si prova ad andare più a fondo, a valutare le proposte politiche delle parti, bisogna ammettere che c'è parecchio da imparare.
Primo buon proposito per il 2015: capirci qualcosa.


(moked, 22 dicembre 2014)


L'Egitto riapre per due giorni il valico di Rafah

Riaperto per due giorni, dopo quasi due mesi, il valico di Rafah che collega Gaza all'Egitto. L'apertura è stata concessa dal governo egiziano per permettere a malati gravi e studenti palestinesi di lasciare la Striscia.

di Davide Pagnanelli

CAIRO - Centinaia di persone hanno atteso oggi a Rafah la riapertura del valico tra la striscia di Gaza e l'Egitto, rimasto aperto dalle nove alle sedici di oggi per permettere a circa 200 tra malati bisognosi di cure specialistiche e studenti e professionisti che studiano o lavorano all'estero, di uscire dalla Striscia. L'apertura di oggi avrebbe dovuto essere un'apertura a senso unico, come già ce n'era stata una a fine novembre, per permettere agli abitanti della Striscia presenti in Egitto, stimati dall'Onu in alcune migliaia, il ritorno a casa; l'Egitto ha però acconsentito al passaggio nelle due direzioni. La situazione non è destinata a durare e le autorità egiziane hanno dichiarato che il valico verrà richiuso lunedì dopo le sedici per non specificate ragioni di sicurezza. Il valico di Rafah è l'unico collegamento con la Striscia di Gaza non controllato da Israele, la sua chiusura è stata decisa dall'esecutivo dopo che 31 militari egiziani hanno perso la vita in un grave attentato del 24 ottobre scorso. Il blocco del valico ha gravi conseguenze sull'economia locale, soprattutto considerata la situazione ancora precaria dopo le operazioni israeliane dell'agosto scorso.

(Radio Vaticana, 21 dicembre 2014)


Naar sigla accordo con Ufficio Turismo israeliano, Gerusalemme e EL AL

 
Pietro Arena, Avital Kotzer Adari, Aurora Mirata di El Al, Laura Moreni e Maurizio Casabianca
Martedì 16 dicembre è stato festeggiato l'accordo di collaborazione siglato da Naar TO e l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo, con il supporto della Municipalità di Gerusalemme e di EL AL Israel Airlines.
   "É stato un piacere condividere la realizzazione della cover Israele della nostra app 'World Wide' con gli amici dell'Ente del Turismo, della Municipalità di Gerusalemme ed El Al - dice Maurizio Casabianca, direttore Commerciale e Marketing del TO - Si arricchisce così la nostra programmazione e il contenuto di questo strumento nuovo, in linea con le attuali modalità di comunicazione e di acquisto, che sposa la volontà della destinazione di allargare il target consumer ed evidenziare caratteristiche e plus spesso poco raccontate. Siamo quindi fiduciosi e convinti nell'investire su Israele, soprattutto in questo momento, per iniziare a raccogliere le prime soddisfazioni a partire dalla prossima primavera".
   Il prodotto è stato impostato e sviluppato dal TO per proporre al mercato altro rispetto al solo ambito religioso. "Abbiamo deciso di impostare i City Break di Tel Aviv e Gerusalemme suddividendoli per tema, ovvero cultura, enogastronomia, famiglia e arte&design, così da far conoscere il Paese sotto altre ottiche, spesso sconosciute al viaggiatore - specifica Gaia Parmigiani, product manager - Per ogni segmento, abbiamo scelto hotel che si accordino con il tema proposto e abbiamo dato suggerimenti per attività, visite e ristoranti che il cliente sceglierà autonomamente in loco".
   "Siamo felici dell'inizio di questa collaborazione che siamo sicuri porterà splendidi risultati in termini di maggiore conoscenza e viaggiatori verso Israele - commenta Avital Kotzer Adari, direttore Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo - Per la prima volta l'Ufficio del Turismo di Israele e Naar hanno firmato un accordo di marketing per promuovere la nostra destinazione. Ma si tratta solo del primo di una serie di eventi ed attività che ci porteranno in giro per l'Italia per far conoscere il nostro Paese con il particolare stile di Naar e la sua innovativa applicazione dedicata ad Israele". La collaborazione tra il TO e l'ente si è concretizzata grazie anche al decisivo contributo della Municipalità di Gerusalemme ed EL AL Israel Airlines, compagnia aerea di bandiera di Israele.
   "Siamo contenti ed orgogliosi che uno dei principali player sul mercato italiano come Naar abbia deciso di programmare la destinazione; siamo sicuri che in collaborazione con i nostri partner Ente del turismo Israeliano ed EL AL, l'intera operazione darà buoni frutti - aggiunge Laura Moreni, Account Manager Jerusalem Development Authority - Municipalità di Gerusalemme - Molto interessante è la nuova app di Naar che racchiude al suo interno le varie anime della città. La programmazione di una destinazione come Gerusalemme fa leva sull'aspetto storico-culturale, ma l'operatore ha saputo individuare, e quindi offrire, anche spunti di esperienze come la gastronomia e l'enologia o la vocazione 'family' della città, facendo così emergere a 360o la sua grande ricchezza attrattiva".
   "Naar rende tutto questo accessibile in modo fresco, dinamico e permette un approfondimento della destinazione che si traduce in formazione, dell'adv e del cliente. L'app gratuita è una novità di grande impatto che si iscrive nel condiviso scopo dell'Ufficio del Turismo Israeliano, della Municipalità di Gerusalemme e di EL AL di immergersi nella destinazione in modo emozionale, di 'creare' la propria Israele in piena libertà con il sostegno e le garanzie forniti da un TO di grande serietà e professionalità -conclude Aurora Mirata, District Manager North Italy di EL AL - Tutto questo è raggiungibile in sole 3 ore di volo da Roma-Fiumicino, in 3 ore e 40 minuti da Milano-Malpensa e da Venezia-Marco Polo con i nostri voli diretti. Le frequenze dall'Italia passano da 21 voli diretti la settimana in autunno-inverno fino a 30 voli la settimana da aprile ad ottobre e permettono di ottimizzare i tempi per programmare un weekend in Israele".

(Travelnostop, 22 dicembre 2014)


Marina Jarre. "I miei conti aperti con l'infanzia e con il fantasma di un padre ebreo"

La scrittrice si racconta. L'adolescenza a Torre Pellice nella comunità valdese. Torino e i suoi intellettuali. Sullo sfondo la Lettonia e gli orrori del nazismo. "Lasciai Riga a 11 anni. I miei si separarono. Lei era calvinista. Lui viveva di espedienti e rimase lì. Nell'ultima lettera implorava aiuto."

di Antonio Gnoli

 
Marina Jarre
Ho conosciuto Marina Jarre agli inizi degli anni Novanta. Fu durante una cena un ristorante torinese. Al tavolo c'erano tra gli altri Giulio Bollati, il suo editore, Agnese Incisa, compagna di Giulio, e questa donna alta e magra con un volto che sapeva più di pietra che di nuvola. Ricordo le scarne parole e i suoi silenzi, per nulla imbarazzati. Aveva da poco pubblicato Ascanio e Margherita, un romanzo che rievocava una terribile storia di massacri della gente valdese. Mi colpì quella scrittura che assomigliava ai tatuaggi della pelle. Qualcosa di indelebile che aveva a che vedere con il corpo e la vita Come mi confermarono le successive prove narrative. Non ho più rivisto fino ad oggi la Jarre. Vado a trovarla nella sua casa torinese, non lontana dal Po e a ridosso delle colline. È sempre lei, con lo stesso volto di pietra leggera Mentre parla - con la voce che vibra di ricordi e lo sguardo perso in un punto indefinito della stanza - Marina sporge il busto oltre i braccioli della carrozzella. È lì seduta da quando è tornata dall'ospedale dove le hanno ricomposto la frattura di un femore. Sono le cadute della vecchiaia, dice. Camminavo spesso. Spero di tornare a farlo. Muove leggermente le mani che indossano due mezzi guantini di lana grigia da cui spuntano dita affusolate. Fa uno strano effetto questa donna di 89 anni, Ha la resistenza di un chiodo piantato nel muro. Lì, c'è appesa la sua vita: lunga e a volte drammatica. Ha concluso da poco una storia dei valdesi. Una trilogia (il cui ultimo volume Cattolici si, ma nuovi è pubblicato da Claudiana) nella quale affiorano le vicende di una comunità religiosa perseguitata. eDopo la revoca dell'editto di Nantes i valdesi furono scacciati e dispersi. Dalla Val Pragelato si propagarono nei paesi protestanti. Per coloro che resistettero la vita fu durissima. Alla fine del diciottesimo secolo il Piemonte era governato da Vittorio Amedeo II di Savoia Un sovrano senza cuore,ma abbastanza abile da comprendere che quella comunità, che ebbe come centro Torre Pellice, gli sarebbe stata utile per emanciparsi dalla Francia.

- Marina Jarre finì a Torre Pellice all'età di 11 anni. Cosa ricorda di allora?
  «Andammo a vivere lì con la mamma e mia sorella, a casa della nonna. Venivamo dalla Lettonia. Mia madre era di educazione calvinista. Lei era lettrice di italiano all'università di Riga, dove sono nata.»

- Perché lasciaste la Lettonia?
  «Per ragioni familiari. Il clima, a causa dei ripetuti litigi tra i miei, si era fatto invivibile. Durante l'ultimo scontro, il più furioso, la mamma tirò in faccia a papà l'anello con il brillante. Fu un gesto di rabbia per delle accuse infondate. L'anello non lo rivide mai più».

- Cosa faceva suo padre?
  «Viveva di espedienti. A volte era pieno di soldi e ci faceva regali pazzeschi. Più spesso era lui a chiederne. Il mio nome da ragazza è Gersoni. Si pronuncia con la g dura, È un antico nome ebraico. In origine indicava una tribù levitica Gershom deriva da Gersoni e poi ci sono i Gersony. Cacciati dalla Spagna si stabilirono nel Nord Africa, in alcune zone dell'Europa, tra cui Riga».

- Che ricordo ha di quella città?
  «Una città anseatica, tedesca, molto fiorente con un milione di abitanti. Un porto ricco che ghiacciava di inverno. Michail Ejzenstejn, il padre del regista, vi si stabilì. Fu un architetto famoso e rivaleggiò, nel più perfetto Jugendstil, con Vienna. Una nostra cugina sposò non so quale degli Ejzenstejn. La famiglia ne trasse qualche lustro. Lì, a Riga, tra le facciate omamentaIi dei palazzi, si svolse la mia infanzia.»

- Come fu?
  «Oggi mi sembra sia appartenuta a qualcun'altra. Ricordo gli inverni lunghi e bui. Le luci di Natale che squarciavano la notte. L'odore della neve. E il fiume non lontano dallo sguardo che si lanciava dalla finestra di casa Quando in primavera si rompeva il ghiaccio, il rumore del Daugava schioccava e rombava come il pugno di un gigante. Guardavo il mondo degli adulti senza comprenderlo. Chi erano? Cosa pensavano veramente? Quando scoppiarono i drammi familiari si insinuò il disagio. Improvvisamente mi preoccupai all'idea di dover diventare adulta.»

- Rivide mai suo padre dopo che andaste via?
  «Venne un paio di volte a Torre Pellice. Poi più nulla. Si era rifatto, come si dice, una vita con una donna tedesca da cui ebbe una bambina. Più nulla non è esatto. Ci furono le lettere. E quell'ultima: drammatica in cui implorava di essere aiutato. Diceva di star male. Diceva portatemi via da Riga. Diceva che i nazisti stavano dando la caccia, a lui, come ad altri trentamila come lui.»

- Che anno era?
  «Il 1941, Riga era diventata un infermo. Allora non potevo immaginare. Seppi tutto dopo. Quando il silenzio fu squarciato dai processi di Norimberga».

- Cosa accadde?
  «Prima dei campi di sterminio, ci fu quella prova generale nei paesi baltici: la distruzione di massa degli ebrei. Solo a Riga morirono in più di 27 mila. Comprende la proporzione? La terrificante vastità dei numeri? Il bosco di Rumbula, la foresta della morte fu l'epicentro dell'eccidio. Insieme alla foresta di Bikernieki. Si udivano gli spari, dalla città. Il 4 luglio era andata a fuoco la grande Sinagoga. L'ordinanza stilata dal comando della Wehrmacht obbligava a cucirsi una stella gialla. Gli informatori lettoni indicavano le case dei più ricchi. Cominciò il saccheggio sistematico e poi arrivò la morte. Altrettanto sistematica.»

- E suo padre?
  «Lo braccarono. L'amante tedesca se ne era andata. Restò solo con la piccola lrene, la figlia. Morirono nel dicembre del 1941. Non so in quale fossa finirono. Erano buche profonde e grandi. I cadaveri venivano posti a strati. Occorreva spazio. Efficienza. Rapidità. Si installarono anche della grandi cataste, alte più di tre metri, di legno di pino. Bruciavano ininterrottamente, prima di consumarsi, per tre giorni e tre notti con sopra i corpi. Di questo orrore possono raccontare solo i testimoni. I pochi che tornarono.

- Tutto questo lei lo seppe tardi?
  «Sì, come le ho detto».

- Intanto come proseguiva la sua vita a Torre Pellice?
  «Imparai l'italiano che non conoscevo. La mia lingua era il tedesco. Poi appresi il francese che ho insegnato per circa 30 anni, in una scuola media. Mi ero già laureata con una tesi di storia del cristianesimo. Potevo anche scegliere l'università. Ma adoravo i ragazzi, la loro torva innocenza».

- Fu qui che avvenne l'incontro con uno di loro: MassImo Salvadori, che sarebbe diventato un grande storico.
  «Massimo era un bambino infelice. Bravissimo e ribelle. Aveva, tra le tante sofferenze, il talento per emergere».

- Ha frequentato ll mondo culturale torinese?
  «Pochissimo. Ho vissuto molto appartata. Quasi per una forma di autodifesa. Vedevo spesso Giulio Bollati che amava i miei libri. È stato un uomo meraviglioso. Tanto avvolgente lui, quanto respingente l'altro Giulio, cioè Einaudi. Era un freddo. Riusciva a mettermi in imbarazzo e credo che sotto sotto ne godesse».

- Ha conosciuto anche Primo Levi?
  «Molto bene, non attraverso la casa editrice Einaudi, ma alla scuola ebraica. Lo ricordo cordiale, affettuoso, aristocratico. Prima del suicidio cadde in un'orribile depressione. Mi chiedo cosa accade nella mente di un uomo che ha sopportato l'insopportabile. Non c'è una risposta. Lui ai fantasmi del sopravvissuto dei campi aggiunse una vita familiare pesante».

- E Bobbio, simbolo dell'intellettualità torinese?
  «L'ho conosciuto poco. Lo ricordo negli anni del dopoguerra. Inappuntabile nel vestire come nell'eloquio perfetto. Porgeva le sue parole con garbo e soddisfazione di se stesso. Soprattutto le signore adoravano questo giovane che parlava benissimo. Un po' diverso dal vecchio Bobbio che con amarezza pontificava su tutto».

- È come se lei non abbia mai accettato lo spirito di Torino.
  «Era un luogo che non mi piaceva per nulla. Poi è diventata la città dei miei figli e ho cominciato ad apprezzarla Con mio marito, ingegnere al Politecnico, siamo vissuti modestamente. Lui lavorando io insegnando e scrivendo».

- Cosa ama dello scrivere?
  «Lo preferisco al parlare. Scrivendo restituisco i miei vari strati. I dolori, come le gioie. Le frastornate vicende accadute. È l'accumulo delle cose che mi interessa. La polvere che si toglie dalla vita. Scrivere è una forma di chiarezza. Di onestà con se stessi».

- Come giudica la sua vita?
  «Non la giudico. Non ho mai fatto bilanci. Penso raramente al passato, se non per quello che riguarda gli altri. Sono gli altri a farci sentire migliori o peggiori di quel che siamo».

- E questo paese le piace?
  «Ci sono cose bellissime. Affogate dal fango della storia recente. Incorreggibili gli italiani. Provinciali e antisolidali. Nello stesso tempo stranamente resistenti».

- Resistenti a cosa?
  «Alle loro sventure. Capaci di gioire anche nei momenti più difficili. Faziosi in modo spaventoso, smemorati e chiusi in se stessi. Eppure artisti nell'animo e nelle mani. Hanno le mani più abili del mondo. Ma ingovernabili Materialisti in modo geniale e letale. Questo paese non sa invecchiare e per questo non trova le forze per ringiovanire».

- Cos'è per lei la vecchiaia?
  «Non mi viene una definizione. Dipende molto da come si è fatti. C'è gente vecchia a quarant'anni. Ma non c'è gente giovane a novant'anni. Non mi illudo. So che dopo viene la morte. E lì non ci sono più punti di vista».

- Le fa paura?
  «Non la morte, il morire sì».

- Si comincia a morire quando si nasce?
  «Sono storie, modi di dire. Assista un malato terminale e capirà cosa vuoi dire morire.

- È mai più tornata in Lettonia?
  «Ci sono tornata quasi settant'anni dopo. Con mio figlio Pietro. Non è stato facile. Immagini cosa sia stata per me quella figura patema. C'era qualcosa di impalpabile. Un ectoplasma che avevo estromesso dai miei pensieri. Un fantasma che avevo contribuito a creare, cancellando ogni traccia: buttando le lettere e le foto. Non ricordavo più nulla di lui. Mentre avevo perfettamente chiare e inconfondibili le voci dei cugini, degli zii, dei nonni. La sua no. Avevo dimenticato la sua voce. Poi improvvisamente è venuta quell'ansia dell'ultima lettera. Fui presa dallo sgomento. Dal bisogno di sapere».

- Cosa esattamente?
  «Non solo come erano andate le cose. Ma come avrei dovuto viverle io. Mi tornava alla mente una frase nascosta in quella lunga lettera implorante. Affiorò come un lampo: "Ricordatevi che anche voi siete ebree", si riferiva a me e a mia sorella. Cominciai a non dormirci sopra e a pensare al senso che quell'uomo disperato aveva voluto imprimerle».

- Di quell'uomo dica qualcosa di più. Sembra solo avvolto nel suo dolore e nella sua dimenticanza.
  «Si chiamava Samuel Gersoni. Diceva di aver combattuto nell'Armata rossa, nel 1918 e 19. Tornato in Lettonia divenne rappresentante della Michelin. Prendeva il lavoro come una vacanza. C'era, non c'era. Fu il suo stile. Amava correre dietro alle gonne femminili. Quando ricevette in eredità dai vecchi nonni una fabbrica di cuoio si sbrigò a liquidare il tutto a un cugino. Il ricavato servì per pagare i debiti e vivere qualche anno nella spensieratezza. Ecco chi era Samuel Gersoni, un ebreo terribile e affascinante, un uomo cui la storia voltò per sempre le spalle. Nondimeno era mio padre. Una presenza che per quanto allontanata e rimossa si abbatté come un macigno».

- Cosa ha provato nel suo ritorno in Lettonia?
  «Ho scritto un libro su questo. Ritrovare se stessi nella propria infanzia non è facile. Ma erano dei conti aperti che andavano saldati. Cercare i luoghi della morte, ma anche quelli della vita; Come avrei reagito? Ciò che ti è stato raccontato non è lo stesso di ciò che hai vissuto. Era in questo scarto che mi dovevo infilare. L'ho fatto Con tremore e apprensione. Con le lacrime e la speranza che tutto si ricomponesse. Tutto si pacificasse. Sulla soglia dei miei novant'anni penso fosse un gesto dovuto. n resto spetterà a coloro che verranno dopo».

(la Repubblica, 21 dicembre 2014)


Pena severa per i militanti di Tag Mehir

Due anni e mezzo di carcere più un altro con la condizionale, ed il versamento di un indennizzo di 15 mila shekel (3.000 euro): questa la pena inflitta oggi dal tribunale di Lod (Tel Aviv) a due militanti del gruppo di estrema destra ebraico Tag Mehir reponsabili di aver bruciato un'auto nel villaggio cisgiordano palestinese Far'ata, un anno fa. A tradire i due ultrà - Yehuda Landsberg e Yehuda Savir - è stata una telecamera di sorveglianza che ha ripreso la loro automobile.

(L'Unione Sarda, 21 dicembre 2014)


Gaza - Hamas ha arrestato i responsabili del lancio del razzo

Hamas ha arrestato i responsabili del lancio di un razzo, avvenuto venerdì, da Gaza verso il Neghev. Lo ha affermato il ministro israeliano della difesa Moshe Yaalon secondo cui sono militanti "legati alla Jihad internazionale". Israele continua comunque a considerare Hamas responsabile del rispetto della tregua a Gaza, ha ribadito Yaalon. Stamane intanto militari israeliani hanno sparato per allontanare dal confine due "persone sospette". Non si ha notizia di vittime.

(L'Unione Sarda, 21 dicembre 2014)


Israele - Arrestati quattro membri del gruppo anti-arabo Lehavà

GERUSALEMME - La polizia di Israele ha arrestato quattro attivisti ebrei del gruppo estremista Lehava, che si oppone alla coesistenza arabo-ebraica nel Paese. L'arresto è parte di una campagna contro l'organizzazione, divenuta simbolo dell'odio anti-arabo. Oltre alle quattro persone arrestate, altri quattro attivisti sono stati fermati e poi rilasciati. La portavoce della polizia, Luba Samri, spiega che l'operazione ha riguardato in tutto cinque città israeliane.La scorsa settimana la polizia aveva arrestato dieci membri di Lehava, tra cui il suo leader Benzi Gopstein, per l'accusa di incitamento all'odio razziale e alla violenza. Il gruppo punta a rompere le coppie di religione mista e ha intrapreso una campagna per impedire ad arabi ed ebrei di lavorare insieme. La scorsa settimana tre membri dell'organizzazione sono stati incriminati con l'accusa di aver dato fuoco a una scuola bilingue arabo-ebraica a Gerusalemme nel mese di novembre.

(LaPresse, 21 dicembre 2014)


Da Gerusalemme a Tel Aviv, il viaggio lungo cinquemila anni

di Sara Carè

 
Gerusalemme
Tel Aviv

Entrambe al centro degli impegni promozionali dell'Ente nazionale israeliano per il turismo, Gerusalemme e Tel Aviv rappresentano il doppio volto dello Stato di Israele, il contrasto tra l'antico e il moderno.
Se da una parte c'è la Città Santa con la sua storia di oltre 5mila anni e un ruolo cruciale per le tre maggiori fedi monoteistiche, dall'altra, invece, spicca il principale centro economico e finanziario del Paese, dove la modernità sembra volersi fare spazio ovunque.
All'interno delle mura della Capitale del Re David, immersi in una dimensione senza tempo, si ripercorrono i passi dei pellegrini che per migliaia di anni sono stati protagonisti di questo viaggio. La Chiesa del Santo Sepolcro, la Via Dolorosa con le quattordici stazioni del Calvario e il Muro del Pianto rappresentano soltanto alcuni dei simboli più evocativi di Gerusalemme. Attraversando i quattro quartieri della Città Vecchia (cristiano, ebraico, musulmano e armeno), sui cui vicoli si affacciano innumerevoli botteghe dove ristorarsi o acquistare souvenir, il miscuglio di culture, lingue e fedi nel quale si viene improvvisamente catapultati crea disorientamento.
Ma Gerusalemme non è soltanto religione e storia. All'esterno delle antiche mura è possibile immergersi in un groviglio di stradine e bancarelle dove i colori, gli odori e i suoni sono talmente intensi che è difficile non rimanerne sopraffatti, come nel caso del mercato caratteristico di Mahane Yehuda.

- L'area metropolitana più grande del Paese
  Percorrendo, invece, le vie di Tel Aviv, l'area metropolitana più grande di Israele, ciò che colpisce sin dal primo sguardo è la contemporaneità e lo stile di vita incredibilmente occidentale, che si riflette anche nella varietà gastronomica. Nel centro cittadino, si passa dai grattacieli in vetro e acciaio che dominano il lungomare, alle case basse del quartiere yemenita; dagli edifici storici di Giaffa, la parte vecchia della città ricostruita, agli ex magazzini del porto trasformati in negozi e locali e, infine, alle costruzioni in stile Bauhaus che le hanno valso l'appellativo di 'Città Bianca' e il riconoscimento a Patrimonio Mondiale dell'Umanità.
Ma Tel Aviv è anche nota come 'la città che non dorme mai'. La ricchezza di eventi artistici e culturali, l'attivissima vita notturna favorita da un'ampia proposta di locali di intrattenimento aperti fino all'alba, fanno della capitale economica israeliana un polo d'attrazione per giovani.

- Un aumento a doppia cifra
  Cresce l'interesse del mercato italiano per la città di Gerusalemme. "Nel 2013 sono state registrate 175mila presenze - spiega Eli Nahmias, director of Incoming tourism & Internationals relations Jda -, mentre da gennaio a giugno 2014 è stato rilevato un aumento del 28 per cento".
Il nostro Paese rappresenta il sesto mercato, ma l'obiettivo per il futuro è incrementare ulteriormente i numeri attuali puntando sulla diversificazione dell'offerta turistica. "Attualmente la domanda principale riguarda il filone religioso - sottolinea infatti il direttore -, tuttavia Gerusalemme è in grado di proporre molto altro". Arte, storia, cultura e gastronomia sono al centro degli impegni promozionali del Ministero del Turismo, che mira a incentivare l'offerta di city break attraverso la creazione di pacchetti speciali denominati 'Gerusalemme Mozzafiato'; un'iniziativa sostenuta anche da operazioni di comarketing con gli operatori.

- Destinazione ideale per i city break
  A sole tre ore e mezza di volo dall'Italia anche la capitale economica di Israele punta a posizionarsi come destinazione city break. "Il clima favorevole tutto l'anno, i numerosi collegamenti aerei caratterizzati dalla flessibilità di prezzo e l'offerta alberghiera per tutte le fasce economiche fanno di Tel Aviv una meta turistica perfetta per questo tipo di offerta" sottolinea Yael Zahori, direttore del Tel Aviv Tourism Board.
Un progetto ulteriormente rafforzato da un ricco calendario di eventi: "Durante l'anno sono previste circa 60 rassegne culturali - precisa la manager - tra cui festival musicali, mostre d'arte, appuntamenti sportivi e manifestazioni legate al design e alla moda".

(TTG Italia, 21 dicembre 2014)


Ebrei cechi contro visita di Putin a Praga a gennaio

ROMA - La Federazione delle comunità ebraiche ceche s'oppone fermamente all'eventuale visita del presidente russo Vladimir Putin a Praga, prevista per gennaio, in occasione del 70mo anniversario della liberazione del campo di concentramento nazista di Auschwitz.
Putin è stato invitato personalmente da Milos Zeman, il presidente ceco, e finora non ha né confermato né smentito la sua presenza alle commemorazioni organizzate dal Congresso ebraico europeo, che avranno luogo il 26 e 27 gennaio a Praga e Terezin.
La Federazione delle comunità ebraiche ceche "considera inopportuna la visita del presidente Putin a Praga in occasione della Giornata della memoria dell'Olocausto e della prevenzione dei crimini contro l'umanità", si legge in un comunicato diffuso a Praga. "Il regime instaurato e incarnato da Vladimir Putin - si legge ancora - non rispetta gli accordi internazionali, fa prova d'aggressività all'estero e occupa con la forza il territorio di una stato vicino". Il riferimento è al ruolo russo nella crisi ucraina e all'annessione della Crimea.
Le commemorazioni comprenderanno anche il congresso "Lasciate che il mio popolo viva", che si terrà a Praga, e un atto d'omaggio alle vittime del campo di concentramento nazista di Terezin, al quale sono stati invitati rappresentanti di 47 paesi.
Numerosi leader hanno confermato la loero presenza alle commemorazioni. Tra loro il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e i presidenti o vicepresidenti dei Parlamenti di 23 paesi. Dovrebbe essere presente anche il presidente ucraino Petro Poroshenko. Non ci sarà invece il leader Usa Barack Obama, che si è scusato.

(askanews, 20 dicembre 2014)


Naor Gilon onora con la sua presenza un convegno di evangelici italiani

L'ultima giornata del Convegno di EDIPI a Catania, lunedì 8 dicembre, è stata dedicata ai rappresentanti dello Stato d'Israele. E' intervenuto per primo Carmel Luzzatto, responsabile per l'Italia del Keren Hayesod, il quale ha sottolineato gli ottimi e costanti rapporti con EDIPI, e ha ringraziato per il finanziamento del Rifugio Antimissile Mobile in agosto nella guerra contro Hamas. Mentre ancora parlava è entrato l'Ambasciatore d'Israele, Naor Gilon, accolto con un applauso e con l'inno dell'Hatikva. L'ambasciatore ha esposto con semplicità e, si può dire, con naturale familiarità la delicata situazione in cui si trova oggi Israele, e ha mostrato con molti segni di apprezzare l'espressione di vicinanza e simpatia che questa parte del mondo evangelico manifesta per la sua nazione. Sa benissimo, e l'ha detto chiaramente in altre occasioni, che per un ambasciatore le relazioni importanti sono quelle con le autorità di governo, ma ha anche mostrato di capire e apprezzare il valore di una vicinanza umana che indubbiamente ha il suo peso.
Alla fine del suo intervento si è reso disponibile a rispondere ad alcune domande dei partecipanti. Riportiamo quella del curatore di queste note.


(Notizie su Israele, 20 dicembre 2014)


Il Parlamento Europeo a favore del terrorismo

di Giorgio Alfieri

La Corte generale dell'Unione europea ha tolto Hamas dalle organizzazioni terroristiche "per motivi procedurali". Per fare capire bene cosa sta succedendo, in pratica, questa Europa si è arrogata il potere di rivedere la scelta del 2003 di inserire Hamas nella lista nera compiuta dopo la strage delle Twin Towers e gli attacchi terroristici della seconda intifada. Senza alcuno sprezzo del ridicolo, ha sostenuto che, ove entro i prossimi tre mesi vengano presentate le prove processuali, procederà al reinserimento nella lista.
   Mentre cioè in Pakistan maciullano bambini (130 su 148 persone massacrate solo l'altro giorno) e ancora ieri esplodono bombe a pochi chilometri da Peshawar, Sydney trema per l'attacco terroristico subiìto, i talebani, l'Isis, Boko Haram, Hezbollah, Hamas stessa impazzano con violenta ferocia, questa Europa idiota e mentecatta ha anche votato il riconoscimento dello stato palestinese. Questo Parlamento europeo di questa Europa da rifare dalle fondamenta - dopo avere steso un velo pietoso su ciò che sta accadendo -, ha votato "in linea di principio" il riconoscimento dello stato palestinese, tra gli applausi. Questa Ue non ha dato il riconoscimento immediato ma ha sostenuto di volere "andare per mano con l'avanzamento dei colloqui di pace". Con le bombe e il sangue andranno per mano.
   E' utile ricordare che Hamas è parte della Fratellanza mussulmana, ha "principi" non dissimili da quelli dell'Isis, nel 2007 per prendere il potere ha buttato giù dai tetti di Gaza i nemici di Fatah, una volta ucciso Bin Laden Hanyie ha condannato gli Stati Uniti, l'Egitto ha determinatamente denunciato il legame di Hamas con i gruppi affiliati ad Al Queda, usufruisce e utilizza finanziamenti dall'Iran e di Assad in Siria, e da parte del Quatar, la Carta del 1988 vuole il genocidio e il califfato mondiale, predica il massacro quando Al Astal del consiglio legislativo di Gaza dice che "Il Corano insegna a massacrare gli ebrei", fa attacchi kamikaze suicidi in bar, pizzerie, autobus, supermercati che sono costati 2000 morti tra cui molti bambini in circa 18.928 attacchi dal 2001 al 2014, lancia missili sui civili e fa stragi di massa, perseguita i cristiani, impone la shaaria, indottrina all'odio, alleva migliaia e migliaia giovani ragazzi nei campi paramilitari per le operazioni terroristiche suicide.
   Questa Europa sconosce il terrorismo che alimenta, nei fatti, legalizzando l'Intifada, espone se stessa e noi tutti, togliendo Hamas dalla lista nera, a rischi di cui non sa calcolare l'entità, e tantomeno gestire. C'è solo da sperare che i terroristi sappiano quanto è fessa questa Europa, e inoffensivi gli idioti europei. Ma, soprattutto, chiedersi subito, chi rappresenta più questo Parlamento europeo che vota a favore del terrorismo?

(L'Opinione, 20 dicembre 2014)


Basta una pillola e l'antisemitismo va giù

di Paola Battista

Con pillole al miele e un cerotto speciale sarà possibile guarire dall'antisemitismo. Si chiama "Antisemitox". Il primo trattamento medico proposto in Francia per lottare contro il virus dell'antisionismo. Un'ironica provocazione dell'Organizzazione della comunità ebraica europea (OJE) per fronteggiare quel rigurgito razzista che ciclicamente attraversa il Vecchio Continente. Da qui l'idea di rispondere alla paura e all'odio con l'educazione e la prevenzione. Geniale il bugiardino che suggerisce l'applicazione di 1 patch sulla pelle in caso di antisemitismo latente. E ingerire una compressa al miele in caso di crisi razzista acuta. Inoltre, il "farmaco" potrà essere regalato e recapitato comodamente al proprio o altrui domicilio al costo di € 5. Una donazione, in realtà, destinata a finanziare attività di lotta al razzismo. Controindicazioni? Ovviamente, nessuna. Solo tolleranza, rispetto e apertura verso il prossimo.

(West - Welfare Society Territory, 20 dicembre 2014)


La Sinagoga di Bologna domani festeggia i suoi sessant'anni

di Luca Bortolotti

Riaprì le porte nel settembre del 1954, undici anni dopo essere stata distrutta dal bombardamento della città: domani la Sinagoga di Bologna festeggia il sessantesimo anniversario della sua ricostruzione, con una cerimonia religiosa e un concerto. Luogo di culto, ma anche di semplice incontro, studio, discussione, per gli ebrei della città, la Sinagoga ricorderà la ricorrenza con una giornata aperta a tutti: dalle 15, interverranno il sindaco Virginio Merola, il presidente della Comunità cittadina Daniele De Paz, il rabbino di Bologna Alberto Sermoneta, e quelli di Ferrara, Padova e Modena. Alle 15,15 anche un concerto dei musicisti del Conservatorio di Bologna, per la prima volta al lavoro assieme alla comunità ebraica cittadina. A chiudere la giornata, la cerimonia con l'apertura dell' Arca Santa, la benedizione, la deposizione dei Sifrè Torah e l'accensione dei lumi del candelabro a nove braccia di Chanukka.
   Questo sessantesimo anniversario viene infatti ricordato in un periodo particolarmente significativo, quello della festività di Chanukka, che domani giunge al sesto dei suoi otto giorni. «È per noi un momento di festa - spiegaDePaz-,ed è significativo far coincidere le due celebrazioni perché la parola Chanukka contiene nella sua radice il significato di "inaugurazione" e "consacrazione". In queste occasioni, la Sinagoga non solo rappresenta la nostra comunità, ma anche una piazza aperta al dialogo con tutti i cittadini e le istituzioni».
   La Sinagoga, dopo i bombardamenti del 1943, è stata ricostruita in via Mario Finzi, lì dove era stata inaugurata nel 1929,e dove la comunità ebraica bolognese aveva i suoi luoghi di riferimento sin dal 1846, dopo l'uscita dai ghetti e l'emancipazione post-napoleonica. «È stata la testimonianza - aggiunge Sermoneta -della volontà di sopravvivenza e resistenza della nostra comunità anche dopo il tentativo di annientamento da parte dei nazifascisti»,

(la Repubblica - Bologna, 20 dicembre 2014)


Inaugurato a Teheran un monumento ai caduti ebrei

 
Con una mossa che non ci si aspetterebbe per un paese dove la retorica anti-israeliana è una costante, il governo iraniano ha inaugurato a Teheran un monumento dedicato agli ebrei caduti durante la guerra Iran-Iraq del 1980-88, costata la vita a circa un milione di persone in tutto.
   La cerimonia si è svolta all'inizio della settimana e, sul palco allestito per l'occasione, facevano bella mostra una bandiera iraniana e una menorah, la lampada a sette bracci simbolo della religione ebraica.
   "La presa di posizione esplicita della comunità ebraica (iraniana, ndr) nel sostenere la nascita della Repubblica islamica - ha detto nel corso della cerimonia Mohammad Hassan Aboutorabi-Fard, vice presidente del parlamento - e la sua obbedienza alla Guida Suprema della Rivoluzione sono prova dei legami che derivano dall'insegnamento delle sacre religioni".
   Aboutorabi-Fard non ha mancato tuttavia di criticare il "regime sionista", come viene definito Israele dagli iraniani, e il comportamento "violento e inumano" del suo primo ministro, Benjamin Netaniahu.
   Dopo Israele, l'Iran è il paese che ospita il maggior numero di ebrei nella regione del Medio Oriente. Si conta una popolazione di fede ebraica compresa tra 20.000 e 30.000 persone e molti altri ebrei iraniani vivono all'estero. Anche un ex presidente di Israele, Moshe Katsav, è nato in Iran. Gli ebrei iraniani stanno cominciando a beneficiare del cambiamento portato dall'elezione del presidente Hassan Rohani, che ha rimpiazzato la classe politica guidata Mahmoud Ahmadinejad, noto per aver negato più volte l'Olocausto.
   Lo scorso anno, Rohani ha scelto di farsi accompagnare alle Nazioni Unite, a New York, dall'unico deputato iraniano di fede ebraica, Ciamak Morsadegh. Sempre lo scorso anno, su un profilo Twitter che viene attribuito al presidente iraniano fu pubblicato un messaggio di auguri per il nuovo anno ebraico.

(Adnkronos, 20 dicembre 2014)


"Ebrei, rinunciate a difendere quello Stato che dice di essere il vostro, appoggiate il nostro progetto di distruzione di Israele e voi potrete vivere bene in mezzo a noi. Questo è il vostro Stato, non quella malefica entità che è la rovina del mondo e quindi anche la vostra". Potrebbe essere questo il messaggio implicito che viene inviato da Teheran agli ebrei iraniani e non solo.
Intorno al 720 a.C., dopo che il Re assiro Sennacherib aveva conquistato il regno del Nord e deportato in Assiria la maggior parte della popolazione ebraica, l'esercito assiro si apprestava a conquistare anche Gerusalemme, governata allora dal Re Ezechia. Sotto le mura di Gerusalemme, l'alto ufficiale assiro Rabshakeh si rivolse a gran voce direttamente agli abitanti della città e propose loro la resa. Ecco come ne parla la Bibbia:
    «Rabshakeh allora si alzò e gridò a gran voce in ebraico, dicendo: «Udite la parola del gran re, il re di Assiria! Così dice il re: "Non v'inganni Ezechia, perché egli non potrà liberarvi dalle mie mani; né v'induca Ezechia a confidare nell'Eterno, dicendo: Certamente l'Eterno ci libererà e questa città non sarà data nelle mani del re di Assiria". Non date ascolto ad Ezechia, poiché così dice il re di Assiria: "Fate pace con me e arrendetevi a me, e ciascuno di voi mangerà i frutti della sua vigna e del suo fico e berrà l'acqua della sua cisterna, finché io non venga per condurvi in un paese simile al vostro, paese di grano e di vino, paese di pane e di vigne, paese di ulivi, di olio e di miele; e voi vivrete e non morirete". Non date dunque ascolto ad Ezechia che cerca d'ingannarvi, dicendo: "L'Eterno ci libererà."» (2 Re 18:28-32)
Qualcosa del genere viene proposto oggi agli ebrei: rinunciate a difendere Gerusalemme e lo Stato di cui dice di essere capitale e pensate agli affari vostri personali. Arrendetevi e con noi starete bene. In quella occasione gli abitanti di Gerusalemme non abboccarono. Chi non conosce come va a finire la storia o non se lo ricorda, potrà andare a leggerselo sulla Bibbia: è interessantissimo. M.C.


Striscia di Gaza: primo attacco di Israele dopo il cessate il fuoco

Gaza rompe il cessato il fuoco inviando un razzo in Israele. Nessuna vittima. Israele, seguendo una linea di dissuasione più volte annunciata e praticata, risponde colpendo obiettivi terroristici palestinesi. Nessuna vittima. Ed ecco come riporta la notizia euronews. NsI

Dopo quattro mesi di tregua, gli aerei israeliani tornano ad attaccare la Striscia di Gaza. Non ci sarebbero vittime secondo un portavoce del ministero della sanità di Gaza. Le forze israeliane hanno colpito una serie di obiettivi a nordovest di Khan Yunis, nel sud della Striscia.
L'attacco è il primo dopo il cessate il fuoco di agosto seguito all'operazione ''Margine protettivo''. Dal lancio dell'offensiva di Israele l'8 luglio, centinaia gli attacchi aerei su tutta la Striscia di Gaza. Colpite migliaia di abitazioni, centinaia di strutture mediche, almeno sei scuole gestite dall'Onu e l'unica centrale elettrica di Gaza.
Per le Nazioni Unite il 71% dei morti a Gaza sono civili, la metà donne e bambini. 2139 le vittime palestinesi.

(euronews, 20 dicembre 2014)


Chi legge non può che trarre queste conclusioni: a luglio Israele ha “lanciato l’offensiva” senza che qui se ne dica il motivo, provocando migliaia di morti e distruzioni di tutti i tipi, adesso, dopo quattro mesi, ricomincia a bombardare. I palestinesi sono soltanto vittime della malvagità israeliana. Una parzialità viscida semplicemente disgustosa. Ma di questo tipo è la “neutralità” con cui in Europa si osserva e si giudica quello che avviene intorno a Israele. M.C.


Fratelli in armi

Ritratto di padre Nadaf il sacerdote di Nazareth che difende Israele e i cristiani dall'islamismo. Per questo è nel mirino del jihad.

di Giulio Meotti

 
Gabriel Nadaf e Benjamin Netanyahu
 
Shadi Khaloul
 
RICERCATI!
Questa settimana il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è comparso a un incontro di fedeli cristiani a Nazareth. "Il primo di dicembre, ho portato mio figlio Avner al centro di reclutamento dell'esercito a Gerusalemme", ha detto il premier. "Si è offerto volontario come soldato combattente nelle Forze di difesa israeliane. Il giorno dopo, padre Nadaf ha portato il figlio Jubran al centro di reclutamento di Tiberiade. Si è offerto volontario come soldato combattente nelle Forze di difesa israeliane. Noi, ebrei e cristiani, da oggi siamo fratelli in armi".
   Non si era mai sentito nulla del genere in settant'anni di vita dello stato ebraico. Specie a Nazareth, la città della Galilea capoluogo del distretto settentrionale dello stato di Israele, nonché culla della rivoluzione cristiana. Roma è venuta dopo, a esercitare il peso del suo prestigio. Nazareth è la città dove Maria viveva e dove Gabriele venne a darle l'annuncio, secondo quanto attesta il Vangelo di Luca (1,2). Ma è anche una città dove la comunità cristiana, stretta fra espansione islamista e sentimenti arabi nazionalistici, ha sempre nutrito profondo risentimento nei confronti di Israele e degli ebrei.
   I cristiani, molti originari di Nazareth e dintorni, sono stati a lungo gli apripista del nazionalismo arabo. George Habash, "il padrino del terrorismo mediorientale", era un cristiano greco-ortodosso che cantava nel coro della chiesa come chierichetto. La sua storia è identica a quella del suo migliore amico Wadi Haddad,
"In Siria c'erano due milioni di cristiani. Oggi sono 200 mila. La 'primavera araba' ci ha aperto gli occhi anche su Israele".
cristiano e spietato organizzatore di azioni terroristiche. Lo storico inglese William Dalryrnple riferisce che dal 1990, cinque su sette dei consiglieri di Hafez el Assad erano cristiani. Oggi, il volto simbolo, suadente, della causa palestinese in occidente è quello della cristiana Hanan Ashrawi. Cristiani copti hanno assunto posizioni di rilievo nel partito nazionalista e antisraeliano Wafd in Egitto. Il Baath, al potere in Iraq e in Siria, è stato fondato dal cristiano Michel Aflaq. L'intellettuale palestinese di maggior rilievo nel mondo è stato un cristiano, Edward Said (sua madre era nata a Nazareth, dove il nonno fondò la prima chiesa battista della città). L'invenzione della parola "nakba", per indicare la "catastrofe" della nascita di Israele, si deve al cristiano Constantin Zureiq. Il "risveglio arabo" è il titolo del libro del cristiano George Antonius. Nel frattempo, in Libano, i movimenti dei cristiani Michel Aoun e Suleiman Frangieh sono alleati di Hezbollah.
   A Nazareth oggi però c'è un sacerdote, un capo molto carismatico della chiesa greco-ortodossa, che deve andare in giro con la scorta messagli a disposizione dalle autorità israeliane. La "colpa" di padre Gabriel Nadaf è di denunciare la sorte dei cristiani nel mondo arabo-islamico e di essere un sacerdote filoisraeliano. Il Patriarcato di Gerusalemme ha minacciato di licenziarlo e di privarlo dei suoi mezzi di sostentamento. Il suo nome è nel mirino dei parlamentari arabo-israeliani estremisti e dell'Autorità palestinese. Il sacerdote è stato bandito da uno dei luoghi più sacri della cristianità, la basilica dell'Annunciazione di Nazareth, ed è stato ostracizzato nella sua stessa città. Il figlio è finito in ospedale per le botte subite da un gruppo di militanti arabi. Perché Nadaf ha compiuto una piccola rivoluzione: far indossare la divisa israeliana a centinaia di cristiani.
   In Israele il servizio militare è obbligatorio soltanto per gli ebrei. Per gli arabi è da sempre facoltativo, e tranne i drusi, i beduini e i circassi, la minoranza di lingua araba non veste l'uniforme. Padre Nadaf ha promosso l'arruolamento dei cristiani nell'esercito israeliano. "Farò una predizione, nel 2015 ci saranno quattrocento cristiani reclutati nell'esercito d'Israele", ha detto la settimana scorsa Nadaf di fronte al premier Netanyahu. Prima della sua chiamata alle armi, soltanto venti cristiani ogni anno indossavano la divisa olivastra di Tsahal.
   Ordinato sacerdote nel 1995, padre Nadaf ha lavorato per la comunità greco-ortodossa in tutto il paese, compreso un periodo come portavoce del patriarca di Gerusalemme. Il 23 dicembre 1995 rappresenta il punto di svolta per l'alleanza islamo-cristiana contro Israele. Quel giorno il Patriarca greco-ortodosso della Terra Santa, Diodoro I, consegnò formalmente la custodia delle chiese di Gerusalemme a Yasser Arafat. "lo sono l'erede di Sofronio e sto consegnando le chiavi (per i luoghi sacri cristiani a Gerusalemme) all'erede di Ornar Ibn al-Khattab", disse il patriarca di fronte a molti leader cristiani. La mossa aveva lo scopo di porre i luoghi santi cristiani sotto la custodia di Arafat, un musulmano, per rafforzare la pretesa araboislamica a Gerusalemme come capitale di uno stato palestinese. Qualsiasi riferimento a Ornar significa semplicemente che l'obiettivo finale di questo dialogo islamocristiano è quello di cancellare ogni presenza ebraica nella città vecchia di Gerusalemme, una alleanza della Moschea e del Sepolcro che escluderà gli ebrei dal Monte del Tempio.
   Padre Nadaf allora prese una direzione opposta. E iniziò a lavorare per l'unità dei cristiani e di Israele. La cosiddetta "primavera araba" nel 2010 ha evidenziato la minaccia posta ai cristiani del medio oriente dai vari movimenti islamisti e ha convinto Nadaf che i cristiani israeliani devono riconoscere Israele come un santuario delle minoranze che servono nelle sue forze armate - "come fanno i drusi, i circassi e i beduini,
"Immaginiamo se i nemici di Israele avessero la meglio: sarebbe la fine anche per i cristiani del medio oriente".
le minoranze di lingua araba che servono nell'Idf". "In Siria, c'erano due milioni di cristiani, oggi sono solo 200 mila", ha detto la scorsa settimana Nadaf a New York. "In Iraq, nel 2000, i cristiani erano quattro milioni, ora si sono ridotti a 300 mila", ha continuato Nadaf. "I massacri quotidiani subiti dai cristiani hanno aperto gli occhi di quanti professano la stessa fede in Israele". Nel contesto della politica israeliana, il messaggio del religioso greco-ortodosso è un cambiamento radicale rispetto all'atteggiamento nazionalista e separatista incoraggiato dai partiti politici come il comunista Hadash e il nazionalista Balad. Il deputato Basel Ghattas, un arabo cristiano, ha detto che "Nadaf deve essere spogliato delle sue vesti sacerdotali".
   Nadaf va avanti, gridando le sue verità scomode. "Gesù parlava aramaico e ha vissuto nella terra di Israele", ha detto a Bruxelles, rispondendo a chi cerca di fare di Gesù un arabo palestinese. Per Nadaf, l'obiettivo chiave è l'integrazione, che è il motivo per cui il prete dà tanta importanza al reclutamento cristiano nell'esercito. "I militari in Israele sono una base fondamentale della società", dice Nadaf. "E' come un biglietto d'ingresso per la società. I cristiani sono una minoranza che vive all'interno di una minoranza in medio oriente, e devono proteggere la loro identità e la loro società. Se Israele è minacciato dal terrorismo, non ci sarà posto per i cristiani in medio oriente".
   Politici israeliani, tra i quali il primo ministro Netanyahu, hanno calorosamente abbracciato Nadaf. "I membri della comunità cristiana sono cittadini leali che vogliono difendere lo stato", ha detto Netanyahu dopo l'incontro con il sacerdote. L'ultimo ad arruolarsi è stato proprio il figlio di Nadaf, Jubran, che si è unito volontariamente a un'unità d'élite dell'esercito. Si è fatto fotografare accompagnato dal padre all'ufficio di reclutamento di Tsahal a Tiberiade. Sulla sua pagina facebook, Nadaf ha dichiarato che suo figlio si è arruolato "per un senso di missione e di appartenenza e l'aspirazione a contribuire alla sicurezza del suo paese".
   Il leader greco-ortodosso vuole fare dei cristiani una comunità integrata come i drusi. Un mese fa, nel massacro dei rabbini alla sinagoga di Har Nof, a Gerusalemme, è stato ucciso proprio un poliziotto druso. Era accorso per fermare il terrorista che ha scannato quattro rabbini. Nell'esercito israeliano servono migliaia di drusi che vivono nei villaggi del Carmel e della Galilea. La loro alleanza con gli ebrei si radica addirittura nel sangue della guerra d'Indipendenza del 1948 e, prima, nell'Aliyah, nell'emigrazione ebraica degli anni Venti. I drusi hanno regalato a Israele trecento vite nelle guerre dal 1948 in avanti. Prima della campagna di Nadaf, solamente ebrei, beduini e drusi ricevevano le cartoline che annunciano il servizio di leva. E' stato proprio Nadaf a battersi con Moshe Yaalon, ministro della Difesa, per l'invio delle cartoline anche alle comunità arabe di religione cristiana.
   "Vogliamo porre fine alla menzogna che ci definisce arabi. Non lo siamo: siamo cristiani israeliani, non arabi israeliani", ha detto Nadaf con grande scandalo dei panarabisti. "Il nostro futuro è intrecciato con quello di Israele. Immaginiamo se i nemici di questo paese avessero la meglio: sarebbe la fine per tutti i cristiani dell'area. Dunque, non limitiamoci a chiacchierare, ma agiamo, combattiamo nell'esercito israeliano, come cittadini con eguali diritti e doveri". Si capisce perché sulla testa di Nadaf pesa oggi una taglia promossa dagli islamisti.
   L'altro cristiano preso di mira è Shadi Khaloul. Vive nelle verdi colline della Galilea, dove Gesù ha predicato duemila anni fa, e dove adesso un gruppo sta cercando di far rivivere l'aramaico. Khaloul è
La sua casa è sorvegliata da telecamere. Di fronte lasciano spesso stracci insanguinati. Il traditore e avvisato.
riuscito a cambiare la denominazione nel registro della popolazione da "araba" ad "aramaica". Il gruppo che ha cercato e ottenuto il cambiamento è piccolo, qualche centinaio di persone al massimo, ma illumina il trattamento che Israele riserva alla sua minoranza araba. Gli attivisti sono tutti i residenti del villaggio di Jish e appartengono alla chiesa maronita, che ha messo radici nel V secolo in Libano. Quando il 13 ottobre del 1990 l'esercito siriano, Hezbollah e altre fazioni islamiche invasero l'enclave cristiana in Libano, solo i cristiani liberi nella cosiddetta "zona di sicurezza" furono in grado di sopravvivere. Il famoso "recinto buono" a Metulla divenne un simbolo di cooperazione e alleanza fra ebrei e cristiani.
   La chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme, un'istituzione con una notevole influenza in Israele a causa delle sue vaste proprietà terriere, tra cui il terreno su cui sorge la residenza del primo ministro, ha preso posizione contro Nadaf. Il portavoce del patriarcato, Issa Missleh, ha rilasciato una dichiarazione secondo cui il sacerdote "rappresenta solo se stesso" e che, di conseguenza, per la sua "ingerenza" negli affari politici, il patriarca Teofilo III ha "deciso di licenziarlo dal suo incarico di capo della chiesa a Yafia". Anche la chiesa cattolica è contro Nadaf, e tramite la commissione Giustizia e pace in Terra Santa ha scritto in un comunicato: "Noi siamo cristiani, palestinesi e arabi. Israele non ha bisogno di cristiani che deformino la loro identità e che diventino soldati per la guerra".
   Nadaf sa che la sua vita è in pericolo. E' stato definito "un traditore" e "un apostata". Gli pneumatici della sua auto sono stati tagliati più volte e stracci insanguinati vengono spesso lasciati fuori da casa sua. La sua abitazione è sorvegliata da telecamere poste su ogni lato. Il sacerdote viene regolarmente minacciato al telefono e il figlio è stato aggredito da un giovane con una mazza di ferro. Le strade di Nazareth, la sua città natale, sono chiuse per lui. Nadafè stato lasciato a combattere da solo per la sua causa, anche se riceve un sostegno molto forte e silenzioso da membri della sua comunità e da altri sacerdoti.
   Di recente, Nadaf è volato anche a Ginevra, si è presentato al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, a chiedere di fermare la "caccia alle streghe" contro "l'unico paese libero nella regione", Israele. "E' l'unico posto dove i cristiani in medio oriente sono al sicuro". Lo rivelano i numeri. Oggi i cristiani aumentano di numero in un solo paese del medio oriente:
   Israele. Dall'ufficio centrale di statistica israeliano, leggiamo come nel 1949 ammontavano a 34 mila, oggi sono 163 mila e di 187 mila è la previsione per il 2020. Nadaf ha anche detto che 120 mila cristiani sono stati uccisi in medio oriente negli ultimi dieci anni: "Ciò significa che ogni cinque minuti, un cristiano viene ucciso a causa della fede. Coloro che vogliono distruggere lo stato ebraico stanno firmando anche la condanna a morte degli ultimi cristiani liberi in Terra Santa".
   Gli islamisti lo dicono più poeticamente: "Prima uccideremo il popolo del Sabato, poi il popolo della Domenica".

(Il Foglio, 20 dicembre 2014)


Ghetto di Venezia, 500 anni festeggiati con un restauro

"La maggior parte delle offerte arriverà dagli Stati Uniti, il governo federale americano prevede sgravi tributari fino al 100% nel caso di donazioni effettuate a favore del no profit. Inoltre, la grande finanza americana è ebrea e per raggiungere i dodici milioni di dollari in sei mesi servono contributi significativi", ha detto il direttore del progetto Toto Bergamo Rossi.

di Valentina Avoledo

 
Nel 2016 il Ghetto di Venezia compirà cinquecento anni, un compleanno che la comunità ebraica vuole festeggiare con il restauro di quello che fu il primo ghetto israelitico del mondo. Gli otto milioni di euro necessari per la rimessa a nuovo del museo e di tre sinagoghe arriveranno dagli Stati Uniti, grazie alla raccolta fondi partita da una commissione creata ad hoc dalla Venetian Heritage, un'organizzazione no profit con sede a New York e a Venezia. Per non scontentare nessuno, la campagna è stata presentata al consolato italiano della Grande Mela, il direttore del progetto Toto Bergamo Rossi ha raccontato: "La maggior parte delle offerte arriverà dagli Stati Uniti, il governo federale americano prevede sgravi tributari fino al 100% nel caso di donazioni effettuate a favore del no profit. Inoltre, la grande finanza americana è ebrea e per raggiungere i dodici milioni di dollari in sei mesi servono contributi significativi".
Oltre ai restauri e alla creazione di un itinerario artistico, il ghetto ha bisogno di interventi di impianti- stica, gli ultimi risalgono agli anni '50.
Alla presidenza di Venetian Heritage Council il re dell'immobiliare di lusso Joseph J. Sitt e la stilista Diane von Furstenberg, moglie di Barry Diller, ex direttore generale di Paramount e Fox e considerato uno dei dieci uomini più ricchi d'America. A poche settimane dal lancio della raccolta fondi imprenditori, mecenati, architetti e designer hanno messo insieme un milione di euro. "I lavori dureranno almeno due anni" precisa Bergamo Rossi "oltre ai restauri e alla creazione di un itinerario artistico, il ghetto ha bisogno di interventi di impiantistica, gli ultimi risalgono agli anni '50. Il Venetian Heritage Council fa parte del programma Unesco-Comitati Privati per la Salvaguardia di Venezia, e si occupa proprio di "incoraggiare" i rapporti tra Stati Uniti e la Serenissima per tutelarne il patrimonio artistico. Dapprima abbiamo ricevuto il nulla osta dell'Unesco, poi dal Ministero e i lavori partiranno sotto la guida della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Culturali".
Alla presidenza di Venetian Heritage Council il re dell'immo- biliare di lusso Joseph J. Sitt e la stilista Diane von Furstenberg, moglie di Barry Diller, ex direttore generale di Paramount e Fox e considerato uno dei dieci uomini più ricchi d'America.
La comunità ebraica approdò in laguna dalla terraferma per fuggire dalle guerre rinascimentali che coinvolsero la Serenissima, lo Stato Papale e il Regno di Francia per la spartizione del Nord Italia. I primi ebrei arrivarono a inizio '500 e nel 1516 il Senato veneziano decide di confinarli in quello che fu il primo esempio di segregazione della comunità israelitica. Il ghetto sorse in un'isola in una zona periferica, a Canareggio, nel sito che fu delle antiche fonderie. Bisognerà aspettare Napoleone per mettere fine alla discriminazione, quasi quattrocento anni in cui sorsero cinque sinagoghe e vari istituti di interesse per la comunità come scuole o case di riposo. "La zona era stata scelta perché lontana da San Marco e Rialto, rispettivamente centro politico e finanziario della laguna" spiega Paolo Navarro Dina consigliere della Comunità ebraica veneziana che continua: "Poi l'assetto della città è profondamente cambiato negli anni '30 del '900 con la costruzione del ponte della Libertà che collega Venezia alla terraferma. Grazie ai quattro chilometri di ponte è come se Venezia si fosse capovolta e il ghetto ha quindi assunto una posizione strategica".
"La zona era stata scelta perché lontana da San Marco e Rialto, rispettivamente centro politico e finanziario della laguna"
Il resto è storia nota, gli ebrei che vivono ancora nel ghetto sono poche decine di famiglie, l'immobilità della laguna e delle sue fondamenta ha lasciato intatto il microcosmo operoso della comunità che si ingegnava dietro i cancelli sorvegliati dai cristiani perché "i giudei" non potevano uscire la notte. Nonostante i limiti dello spazio "recintato", in ghetto sono sorti palazzi alti fino a nove piani, rarità per la laguna. Botteghe, studi e ristoranti kosher sono una testimonianza storica di questo popolo e di Venezia, una pagina che non deve essere dimenticata e che va restituita a quelli che verranno tra 500 anni.

(il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2014)


Il più grande evento sportivo di Israele: la Maratona di Tel Aviv 2015

ROMA - Con un percorso di 42.195 km, la maratona terminerà con una festa per i partecipanti vicino al Parco Ganey Yehoshua ed eventi che dureranno tutta la serata. Dal 22 al 25 febbraio in Piazza Rabin si svolgerà una grande fiera dove verranno distribuiti i kit ai partecipanti, si terranno delle conferenze e saranno allestiti stand gestiti da aziende operanti nel mondo dello sport note a livello internazionale. Il tradizionale pasta party avrà luogo la sera prima della maratona. Quest'ultima sarà una giornata di festa con musica lungo il percorso, in sintonia con il famoso stile di vita di Tel Aviv, la città che non si ferma mai. La maratona è tanto eterogenea quanto lo sono i partecipanti e coinvolgerà l'intera città: attraverserà, infatti, il centro di Tel Aviv toccando le maggiori strade e i siti principali. Il percorso comprenderà il memorabile Viale Rothschild e altri viali alberati della città che non si ferma mai dove si possono ammirare il vasto gruppo di edifici Bauhaus, i grattacieli Azrieli, il tratto di lungomare di 8 chilometri che si affaccia sul Mediterraneo, la colonia dei templari nel quartiere Sarona, il Parco HaYarkon e l'antica città di Jaffa con il porto storico. Si prevede che la maratona di Tel Aviv 2015 attirerà 150.000 persone, che parteciperanno alla pletora di eventi collaterali alla maratona completa. Tra gli altri eventi sportivi si annoverano una mezza maratona, corse da 10 km e 5 km e una gara di hand-cycle. Il record dello scorso anno appartiene al keniota Ezekiel Koech e si prevede che verrà infranto anche quest'anno. Premi in denaro del valore di 25.000 dollari saranno a disposizione di uomini e donne che completeranno l'intera maratona entro il tempo prestabilito. I corridori stranieri gareggeranno a fianco di quelli israeliani (tra cui 800 dei funzionari di polizia israeliani più in forma) per il primo posto.

(Prima Pagina News, 19 dicembre 2014)


A Natale i cristiani palestinesi potranno uscire da Gaza e dalla Cisgiordania

Visti e permessi speciali per fare visita ai familiari o partecipare alle cerimonie religiose: queste le ultime novità per i cristiani palestinesi.

Per i cittadini di Gaza quest'anno il Natale sarà diverso. L'esercito infatti ha permesso ai palestinesi cristiani dei visti speciali per effettuare spostamenti al di fuori della Striscia di Gaza. L'obiettivo è quello di costruire gradualmente la fiducia con la popolazione cristiana. A queste indicazioni si aggiunge il servizio di poliziotti e forze dell'esercito per facilitare l'entrata dei visitatori nei luoghi sacri di Betlemme.
Più precisamente da oggi fino al 19 gennaio 2015 i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania potranno recarsi all'estero per far visita ai parenti o partecipare alle cerimonia religiose. Settecento di loro hanno ricevuto un visto che consentirà l'uscita dalla Striscia ai cristiani sotto i 16 anni e al disopra di 35, mentre agli uomini di età compresa in questa fascia di età sarà consegnato il permesso di uscita solo dopo un esame della sicurezza.
Con un percorso inverso, 500 cristiani che vivono in Cisgiordania potranno entrare nella Striscia dopo un lungo controllo per visitare i propri parenti e duecento palestinesi di entrambe le località potranno recarsi all'estero partendo dall'aeroporto israeliano di Ben Gurion. Al fine di facilitare i movimenti delle persone durante le festività saranno estesi gli orari di apertura dei valichi di frontiera.

(In Terris, 19 dicembre 2014)


Con che verrò io davanti all'Eterno?

Con che verrò io davanti all'Eterno
e m'inchinerò davanti all'Iddio altissimo?
Verrò davanti a lui con olocausti,
con vitelli d'un anno?
Gradirà l'Eterno le migliaia dei montoni,
le miriadi dei rivi d'olio?
Darò il mio primogenito per la mia trasgressione?
il frutto delle mie viscere per il peccato dell'anima mia?
O uomo, Egli t'ha fatto conoscere ciò che è bene;
e che altro richiede da te l'Eterno,
se non che tu pratichi ciò che è giusto,
che tu ami la misericordia,
e cammini umilmente col tuo Dio?
                             (dal libro del profeta Michea, cap.6)
 

Hamas ricostruisce i tunnel del terrore e prepara la nuova guerra contro Israele

 
Il movimento islamico palestinese di Hamas ha cominciato a ricostruire i cosidetti ''tunnel del terrore'' con la Striscia di Gaza distrutti durante l'offensiva israeliana tra il luglio e l'agosto scorsi. Lo rende noto Ynet, il sito del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, citando fonti palestinesi interne a Gaza che parlano anche di una nuova strategia di guerra elaborata da Hamas contro lo Stato ebraico. A metà ottobre Israele ha concesso l'ingresso a Gaza di materiali edili per la ricostruzione degli edifici distrutti durante i raid con l'impegno che non sarebbero stati usati da Hamas per ricostruire i tunnel. Il movimento radicale palestinese, comunque, secondo le fonti di Ynet si rifornisce anche al mercato nero.
Oltre ai tunnel, le fonti riferiscono che Hamas ha anche ripreso la costruzione di missili e del proprio arsenale usando i cosiddetti materiali dal ''doppio uso'', come ad esempio il ferro che può essere utilizzato pere realizzare armi. Questi materiali vengono anche contrabbandati illegalmente attraverso il valico di Rafah con l'Egitto o via mare. Ed è proprio in mare che nelle scorse settimane Hamas ha testato una serie di razzi.
In quella che risulta essere una nuova strategia di guerra, Hamas sembra ispirarsi alle tecniche di combattimento usate dal movimento sciita libanese di Hezbollah lungo il confine settentrionale di Israele con il Libano. Hamas ha anche nominato due nuovi comandanti regionali al posto del comandante regionale di Rafah Raid al-Atar e di Mohammed Abu Shmala, incaricato della zona meridionale della Striscia.
La linea da adottare, comunque, è quella di un profilo basso, tanto che le forze di sicurezza di Hamas stanno cercando di evitare che gruppi sparino contro Israele. Chi ha lanciato i razzi, infatti, è stato arrestato.

(Adnkronos, 19 dicembre 2014)


Il museo ebraico ferrarese in "trasferta" al Meis

In mostra gli oggetti della collezione di via Mazzini ancora inagibile dopo il sisma

di Anja Rossi

Il dialogo è al centro della mostra "Torah fonte di vita. La collezione del museo Ebraico della Comunità di Ferrara", inaugurata ieri dal presidente del Meis Riccardo Calimani e dal rabbino Luciano Meir Caro con l'accensione delle candele che caratterizzano la settimana di Chanukkah. "Solamente tre candeline perché oggi cade il terzo giorno della festa ebraica", ha spiegato il rabbino al pubblico presente.
Attraverso questa mostra che durerà per tutto il 2015, il Meis vuole dunque tenere acceso il dialogo tra comunità ebraica e società civile, ospitando gli oggetti di collezione del museo Ebraico di via Mazzini, ancora inagibile a causa del sisma. All'inaugurazione erano presenti anche il vice sindaco Massimo Maisto, Carla Di Francesco della direzione regionale per i beni culturali, la curatrice della mostra Sharon Reichel, la neoeletta in Regione Marcella Zappaterra, il prefetto Michele Tortora e il questore Orazio D'Anna.
   A ribadire la necessità di dialogo è anche il presidente Calimani, che considera la mostra come una tappa importante contro il "lento, troppo lento cammino di questo importante museo che sottolinea l'esistenza nella penisola italiana di quel piccolo mondo ebraico presente da secoli, più precisamente due prima dei papi. Questa mostra è importante - continua Calimani - soprattutto per affermare l'esistenza in Italia di un pluralismo di idee, sempre utile".
   Molti degli oggetti presenti provengono da Cento in quanto quelli di Ferrara furono tutti saccheggiati nel periodo fascista. La collezione al Meis, che vede in tutto una settantina di elementi, è composta da oggetti che furono donati dai cittadini ferraresi ebrei alla loro Comunità. In mostra, tra i vari libri esposti, è presente anche uno firmato da Giacomo Marchi, pseudonimo dello scrittore Giorgio Bassani durante il periodo delle leggi razziali, e una Torah del XVII secolo, l'oggetto più antico presente ora al Meis.
   Tre sono le sale che compongono la mostra Torah fonte di vita: la prima sala è dedicata agli oggetti presenti in sinagoga, la seconda agli oggetti del rito utilizzati sia nell'ambito domestico che in quello collettivo e collegiale, ed infine un'ultima sala dedicata al dialogo tra le culture. Alle pareti sono infatti lasciati degli spazi in cui poter far domande inerenti alla mostra e alla cultura ebraica. C'è già chi chiede delucidazioni su circoncisione e sui famosi riccioli che portano gli uomini al lato del viso. A queste domande verrà risposto tramite le pagine sociali Facebook e Twitter del Meis, segno che il museo nazionale dell'ebraismo e della Shoah in Italia non vuole rimanere un'entità statica ma diventare centro di un fecondo dialogo.

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(estense.com, 19 dicembre 2014)


Fitto: a Strasburgo ho votato no alla risoluzione sul riconoscimento della Palestina

"Ho votato contro la risoluzione del parlamento europeo per il riconoscimento dello Stato palestinese, che considero un grave errore politico, per due ragioni. In primo luogo, perché ci si ostina a mettere sullo stesso piano una democrazia come lo Stato di Israele e realtà chiaramente non democratiche, che ancora manifestano -nella migliore delle ipotesi- comportamenti equivoci, ambigui, non chiari rispetto al riconoscimento del diritto di Israele e esistere e a vivere nella sicurezza dei suoi cittadini. In secondo luogo, considero ipocrite e ormai francamente inaccettabili formulazioni linguistiche quali "tutti gli atti di terrorismo e violenza...", "entrambe le parti", eccetera. Si finge di non vedere che c'è una distinzione netta, che non consente opache equiparazioni: da una parte ci sono atti terroristici, e dall'altra c'è l'esercizio del diritto all'autodifesa da parte di un Paese democratico, l'unico nell'area che scelga liberamente Governo e Parlamento. Sarebbe dovere di tutti i democratici, nell'Occidente, difendere Israele senza ipocrisie e sottintesi. Da quella difesa, e quindi dalla tutela dei valori della libertà e della democrazia, passa pure la speranza dell'affermazione dei diritti umani anche delle donne e degli uomini palestinesi". Lo dichiara l'europarlamentare di Forza Italia, Raffaele Fitto sul suo blog.

(il Velino, 17 dicembre 2014)


Bozza palestinese per il ritiro di Israele. No degli Usa all'Onu

Gli Stati Uniti non appoggeranno la bozza di risoluzione presentata dalla Giordania al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Il testo, sostenuto dai palestinesi, chiede «una giusta, durevole e globale soluzione pacifica» al conflitto israelo-palestinese con un ritiro israeliano ai confini del 1967 entro il 2017. La portavoce del Dipartimento di Stato Jen Psaki ha subito dichiarato che «non è qualcosa che sosterremo». Israele ha parlato invece di «dichiarazione di guerra», come senza mezzi termini ha definito l'iniziativa giordano-palestinese il ministro israeliano per l'intelligence e gli affari Strategici Yuval Steinitz.
Ieri mattina la Giordania ha sottoposto al Consiglio di sicurezza dell'Onu una bozza di risoluzione che chiede la fine dell'occupazione dei territori palestinesi presi da Israele nel 1967 e entro il 2017. L'ambasciatore palestinese all'Onu Riyad Mansour ha sottolineato che la bozza, sostenuta dai Paesi arabi, non chiude la porta a ulteriori negoziati, anche con gli Stati Uniti. Le dichiarazioni del Dipartimento di Stato fanno però presagire che Washington è orientata a porre il veto, anche le mossa la metterebbe in imbarazzo con gli alleati arabi.

(La Stampa, 19 dicembre 2014)


Ecco il violino della Shoah. La sua voce salvò Renzo

Il dono della sorella al ragazzo ventenne sul treno per Auschwitz

di Gilberto Bazoli

Il violino tornato da Auschwitz
CREMONA - Davanti sembra uno strumento come tanti. La sorpresa spunta girandolo: una Stella di Davide intarsiata nel legno. È la firma sul violino della Shoah, un violino che ha suonato ad Auschwitz e che ora, dopo un lunghissimo silenzio, si prepara a far sentire nuovamente la sua voce.
   Dietro questo «miracolo» c'è Carlo Alberto Carutti, 91 anni, imprenditore-mecenate, lucido e raffinato, cognato di Giovanni Tesori, milanese con il cuore a Cremona, una specie di Indiana Iones dell'arte che non conosce età. «Da tempo cercavo uno strumento che si fosse salvato dall'Olocausto - racconta -. Un mese fa qualcuno mi ha detto di averlo visto nella bottega di un antiquario, a Torino. Mi sono precipitato: era un violino spettacoloso, fabbricato nel 1800 da un liutaio francese. L'ho comprato subito». Incollati sul fondo la scritta (in tedesco) «Inno alla musica che rende liberi» e uno spartito con le note di un motivo. «Credevo fosse un canto liturgico ebraico, ma mi sbagliavo - continua Carutti -. Probabilmente si tratta di una ninna nanna».
   Sulla cassa sono incise anche alcune cifre: il numero di matricola di un deportato. È partendo da questi e altri pochi indizi che Carutti ha ricostruito, passo dopo passo, la storia del violino. «Apparteneva a Maria, una ragazza ebrea di 22 anni che con il fratello Renzo, più giovane di lei di un anno esatto, stava scappando in Svizzera». Ma non arrivarono mai all'altra parte della frontiera. «I tedeschi li catturarono portandoli a Milano e da lì a Verona, dove furono caricati su un treno. Destinazione Auschwitz. Maria si teneva stretto il suo violino. La immagino anche mentre lo consegna a Renzo pensando che un uomo avrebbe avuto più probabilità di salvare se stesso e lo strumento».
   La sorella aveva visto giusto: il dono rafforzò anche la voglia di vivere di Renzo. Maria morì nellager, il fratello fu liberato dall'Armata Rossa nel gennaio 1945 e tornò in Italia. Aveva con sé il violino, che custodì per altri dodici anni fino al 1957, quando morì. «Il violino, che era ridotto in pessime condizioni, è stato riparato in modo superbo - risponde Carutti - e conservato religiosamente fino ad oggi nel suo astuccio nero, senza essere mai stato più suonato». Ancora per poco, sembra. L'imprenditore lo ha regalato al Museo civico di Cremona, dove andrà ad arricchire le «Stanze della musica», una delle più importanti raccolte di strumenti a corda che ripercorre quattro secoli di liuteria ed è formata da una sessantina di «pezzi» donati dal fratello di Carlo Alberto Carutti, Gianni.
Fa parte da poco della collezione il mandolino, scoperto anch'esso da Carlo Alberto, dal cui interno è sbucato un altro «tesoro della memoria» che ha attraversato lo spazio e il tempo: due fotografie incollate sul fondo di soldati tedeschi prigionieri in Inghilterra durante la Prima Guerra mondiale.
   Tra un'immagine e l'altra, alcune parole scritte con l'Inchiostro nero: «Sono stato costruito nel lager di Dorchester». L'ingegner Carutti adesso ha un sogno: «Far suonare insieme, nel giorno della Memoria, i due strumenti ritrovati». Il titolo del concerto è già pronto: «La voce di un violino della Shoah sopravvive ai silenzi dell'Olocausto».

(Corriere della Sera - MIlano, 19 dicembre 2014)



I materiali per la ricostruzione di Gaza utilizzati per riparare i tunnel del terrore

I timori di Israele si sono realizzati e una fonte palestinese riportata da Radio Israel fa sapere che parte del materiale edile entrato a Gaza negli ultimi mesi, destinato in teoria alla ricostruzione delle case e delle scuole, è andato a finire nel sottosuolo. Gli uomini di Hamas - che hanno il controllo su quanto entri ed esca dalla Striscia - come previsto hanno utilizzato il cemento e gli altri materiali da costruzione per riparare i tunnel del terrore distrutti da Israele durante l'Operazione Margine di Difesa e in parte anche dall'Egitto....

(Progetto Dreyfus, 19 dicembre 2014)


Il caso israeliano, il tradimento europeo

di Cristofaro Sola

Un'Unione Europea che fa di queste cose e concepisce simili abomini è davvero la nuova patria che sognavamo? Alla luce di tutto ciò che sta accadendo, cosa abbiamo più da spartire noi con quest'Europa?
 
 
Ieri l'altro, in quello che alcuni commentatori hanno definito il "mercoledì nero" d'Israele, un inutile Parlamento europeo si è espresso per la creazione di uno Stato palestinese autonomo e indipendente accanto a quello israeliano.
Nelle intenzioni dei promotori della mozione, lo Stato d'Israele dovrebbe rientrare nei confini armistiziali in essere prima del 1967. Non entriamo nel dettaglio perché lo ha fatto già ieri Stefano Magni con un impeccabile resoconto sull'accaduto. Tuttavia, desideriamo aggiungere al dibattito un nostro modesto parere, che è il medesimo espresso da un insolitamente coraggioso ragionier Ugo Fantozzi a proposito del film "La corazzata Potèmkin": è una cagata pazzesca!
   Per fortuna del popolo d'Israele la decisione non produce alcun effetto concreto. Resta comunque un pessimo segnale. Pensare di risolvere d'imperio il problema dell'inconciliabilità delle posizioni palestinesi con quelle israeliane è una fantasia pericolosa. Il negoziato di pace che è stato condotto con spirito costruttivo dal governo di Gerusalemme si è scontrato con un ostacolo insormontabile: la mancanza di una piena legittimazione a trattare del presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese. Abu Mazen deve fare i conti in casa con il movimento antagonista di Hamas che di accordi con Israele non vuole sentire parlare. Ma Hamas non è l'unica forza a opporsi a qualsiasi soluzione diversa dall'annientamento del nemico. Anche all'interno dell'Autorità Palestinese vi sono correnti contrarie al negoziato.
   Finora Abu Mazen se l'è cavata giocando d'astuzia. Formalmente non si è rifiutato di trattare, ma ha messo sul tappetto proposte totalmente irricevibili per il governo di Gerusalemme. A partire da quella sul diritto al ritorno degli esuli del 1948 nei territori che oggi formano l'entità statuale d'Israele. I cittadini ebrei residenti in Israele sono poco più di 6 milioni. Se Netanyahu accettasse la richiesta di Abu Mazen, milioni di arabi palestinesi si riverserebbero all'interno dello stato ebraico determinandone di fatto l'annientamento demografico. Lo stesso dicasi per la pretesa palestinese di avere Gerusalemme come capitale. L'idea che gli israeliani possano lasciare il centro sacro della loro spiritualità nelle mani dei palestinesi è fantascienza. Abu Mazen ha usato questi e altri analoghi argomenti per fingere una trattativa che, in partenza, sapeva di non poter condurre a buon fine. Lo ha fatto per accreditarsi agli occhi dell'opinione pubblica mondiale come la vittima dell'altrui arroganza. Anche questa scelta mostra l'astuzia del personaggio. Non potendo chiudere un negoziato di pace in prima persona, Abu Mazen sta spingendo la comunità internazionale a fare per suo conto il lavoro sporco con Israele. La vicenda del voto del Parlamento europeo si colloca perfettamente in questa strategia.
   Il dramma è che questa Europa approfitta della situazione per rinverdire la sua vena antisemita, occultata negli anni dopo lo sconcio del regime nazista eppure mai scomparsa dal suo Dna. Sarebbe ingiusto buttare la croce soltanto sulle spalle di una sinistra che da sempre ha sposato la causa palestinese. A votare a favore c'erano anche i popolari e i liberali provenienti dal fior fiore delle democrazie continentali. Onore ai parlamentari di Forza Italia che sono usciti dall'aula in segno di protesta. Una protesta ancor più significativa nel giorno in cui il Tribunale europeo, organo della giurisdizione comunitaria, ha negato la natura terrorista al movimento di Hamas con una motivazione più ridicola che scandalosa. Per quei giudici il requisito terroristico non sarebbe provato da fatti accertati da autorità competenti, ma sarebbe frutto di "imputazioni fattuali basate su fonti di stampa e Internet". Ha ragione Magni. Quasi che ora si debba chiedere scusa a una banda di assassini per averli ingiustamente calunniati. E i razzi quotidiani sui centri abitati d'Israele chi li ha lanciati? E gli attentati tanto orgogliosamente rivendicati dai miliziani di Hamas? Se è vero che le sentenze si rispettano, nulla ci impedisce di dire che quella sentenza fa schifo. È uno sfrontato insulto alla verità. Per giudici di tal fatta non c'è niente da fare, restano nazisti nell'animo.
   Questa vicenda ci riporta a una domanda che sta a monte di tutti i nostri ragionamenti sull'Europa. Un'Unione che fa di queste cose e che concepisce simili abomini è davvero la nuova patria che sognavamo? Alla luce di tutto ciò che sta accadendo, cosa abbiamo più da spartire noi con quest'Europa?

(L'Opinione, 19 dicembre 2014)


Vi spiego perché Hamas non è diversa dall'Isis. Parla Vernetti

Conversazione di Formiche.net con Gianni Vernetti (Pd), già sottosegretario agli Affari esteri nel secondo governo Prodi, che commenta la decisione della Corte di Giustizia Ue.

di Michele Pierri

 
Gianni Vernetti
La questione palestinese tiene banco in Europa. Nel giro di pochi giorni, ci sono stati una decisione della Corte di Giustizia Ue, che ha chiesto di togliere Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche, e un voto del Parlamento di Strasburgo sul riconoscimento dello Stato della Palestina.
Scelte criticate da Gianni Vernetti (Pd), già sottosegretario agli Affari esteri nel secondo Governo Prodi, che in una conversazione con Formiche.net spiega perché il Vecchio Continente dovrebbe tornare sui suoi passi.

- Onorevole Vernetti, la Corte di Giustizia Ue ha chiesto di togliere Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Come giudica questa scelta?
Assolutamente incredibile. Hamas è un'organizzazione terroristica a tutti gli effetti, che ha usato e abusato di tutti gli aiuti offerti dalla comunità internazionale in questi anni. Di tutto il denaro giunto nella Striscia di Gaza, non ha speso nulla a per migliorare la vita della popolazione, ma solo per acquistare armi. Ciò è risultato assolutamente chiaro nel corso dell'ultimo conflitto con Israele, avvenuto a causa della barbara uccisione di tre minorenni, proprio da parte di uomini di Hamas. Questo suo comportamento è costato la vita a un numero altissimo di innocenti. Hamas non è diversa dall'Isis.

- Come commenta, invece, il voto storico del Parlamento Ue sul riconoscimento della Palestina sulla base dei confini del 1967?
Anche questo lo ritengo un abbaglio. Penso che il riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese, così come fatto recentemente anche da alcuni singoli Paesi europei come la Spagna, sia un errore e non aiuta il processo di pace.

- Quale sarebbe la strada migliore, a suo avviso?
L'unico modo per pacificare l'area è sconfiggere prima gli islamisti di Hamas. Solo dopo si potrà trattare con l'Autorità Nazionale Palestinese e Fatah una soluzione sensata.

- Ci sono stati passi in avanti dopo l'incontro romano tra Kerry e Netanyahu?
Se dal vertice in Italia siano emersi nuovi elementi è difficile da dire al momento. Piuttosto mi pare che ci siano passi in avanti importanti in parte del mondo arabo. Il mondo sunnita moderato ha capito che la sfida posta dei jihadisti è una minaccia esistenziale non solo per Israele e per l'Occidente, ma anche per loro stessi. Ecco perché oggi si assiste, fortunatamente, a una riduzione delle posizioni estremiste in Egitto, Arabia Saudita e anche Qatar, che è stato finora uno dei grandi finanziatori di Hamas.

(Formiche.net, 19 dicembre 2014)


“L'unico modo per pacificare l'area è sconfiggere prima gli islamisti di Hamas”. Non è strano che questa semplice idea non sia ancora venuta in mente ai potenti della terra?


Il consigliere di Abu Mazen: "Tutta la Palestina tornerà ai palestinesi con la lotta armata"

E' questo lo stato palestinese riconosciuto dal Parlamento Europeo?

Nel suo ultimo sermone, tenuto alla presenza del presidente palestinese Abu Mazen, Mahmoud Al-Habbash, supremo giudice della shari'ah nell'Autorità Palestinese e consigliere di Abu Mazen per gli affari religiosi e islamici, ha proclamato ancora una volta che "tutta la nostra terra occupata, tutta l'eredità dei nostri antenati tornerà a noi, anche se ci vorrà tempo". Autorità Palestinese e pubblicistica palestinese rivendicano diritti storici su tutta la Terra d'Israele: il riferimento al ritorno della "eredità degli antenati" significa promettere ai palestinesi la scomparsa di Israele....

(israele.net, 19 dicembre 2014)


Roma - Urtisti, futuro a rischio

Una recente manifestazione degli urtisti a Piazza di Spagna

Poche settimane e dovranno abbandonare le aree limitrofe ai principali monumenti storici della Capitale per riposizionarsi in via San Gregorio, nel tratto che da via Celio Vibenna va fino a Porta Capena. È la decisione assunta dal Tar del Lazio nei confronti degli urtisti, i venditori di ricordi, mestiere ormai storico di Roma le cui radici affondano nella dispensa papale ottocentesca che permise agli ebrei di esercitare la professione e il cui presente parla ancora oggi di molte famiglie della Comunità ebraica che vivono grazie a questo lavoro.
Un presente fortemente a rischio: i giudici hanno infatti respinto l'istanza presentata contro la determinazione dirigenziale "pro decoro" emanata dal sindaco Ignazio Marino in settembre in cui si prevedeva un diverso utilizzo degli spazi attualmente occupati dagli urtisti e un loro trasferimento in altra sede. Nonostante le rassicurazioni del primo cittadino, che ha parlato di "giudizio a favore di tutta la città di Roma e quindi anche degli urtisti e delle altre categorie di commercianti", cresce di ora in ora la preoccupazione tra i ricordari.
Appena poche settimane fa in tanti si erano ritrovati alla serata di inaugurazione della mostra organizzata dal Centro di Cultura della Comunità ebraica al Museo di Roma in Trastevere per portare all'attenzione di tutta la città la storia degli urtisti e il profondo legame degli stessi con le piazze, i monumenti, i luoghi della romanità. "La loro attitudine è un paradigma della simbiosi degli ebrei con Roma da oltre due millenni", aveva sottolineato la direttrice del Centro di Cultura Miriam Haiun.
Promotrice di una campagna a sostegno della categoria assieme al presidente del Pd romano Michele Giuntella, la presidente del Consiglio del Municipio XII Alessia Salmoni aveva respinto una nuova volta con forza ogni accostamento della categoria al concetto di degrado. "Gli urtisti sono un punto di riferimento per la città, contribuscono alla sua sicurezza e sono i primi dispensatori di informazioni utili ai turisti. E soprattutto - le sue parole - non possono essere in alcun modo confusi con chi pratica l'abusivismo e la concorrenza sleale". "Siamo preoccupati perché il nostro futuro è incerto. Si parla di degrado - ci raccontava Roberto Sonnino, dell'ultima generazione di urtisti - ma non siamo certo noi a contribuire a questo. Anzi, tutto il contrario. Siamo un tassello fondamentale di Roma e sarebbe bene che questo valore fosse maggiormente compreso da tutti".

(moked, 19 dicembre 2014)


Israele ha la "colpa" di esistere

Il boicottaggio dei prodotti 'Made in Israel' e l'interruzione delle collaborazioni scientifiche e universitarie sono una forma di punizione collettiva del popolo israeliano.

di David Meghnagi

"Bisognava pur cominciare", così ha risposto rendendosi ancor più ridicolo, uno dei rappresentanti dell'American Studies Association, a chi giustamente gli chiedeva come mai con tutti i mali che ci sono nel mondo, non abbiano trovato di meglio che prendere di mira i loro colleghi israeliani escludendoli dai loro incontri. Non è in discussione il diritto al dissenso e alla critica, che è il sale della democrazia e che in Israele, nonostante una situazione difficile e carica di pericoli, è praticato molto più che in molte democrazie consolidate e di vecchia data. Il fatto di doverlo sempre ripetere per evitare di essere fraintesi, è un indice di quanta strada hanno fatto i pregiudizi e i luoghi comuni contro Israele. Se non fosse per le implicazioni tragiche di questa nuova deriva preoccupante, che ha preso piede anche nei campus americani, verrebbe da ridere amaramente, trasformandolo, a insaputa e a dispetto dell'autore, in un Witz fulminante e rivelatore. Nessun docente universitario, degno di questo nome, si sognerebbe di boicottare i colleghi di un'università straniera considerandoli collettivamente colpevoli della politica del loro governo.
   Se lo facesse, si coprirebbe di ridicolo. Per riportarlo alla ragione, gli amici gli ricorderebbero che col suo comportamento otterrebbe il contrario, danneggiando un collega che, magari, silenziosamente e correndo dei rischi, ha operato per il bene. Gli si farebbe presente che in questo modo contribuirebbe ad accentuare l'isolamento dei docenti di quel paese, aggravandone la situazione. Con Israele, unico Stato democratico del Vicino Oriente, accerchiato da nemici, che ne vorrebbero la distruzione, si agisce in maniera opposta. Le presunte colpe dei suoi governi sono delle "colpe ontologiche", che hanno come "origine" la "natura" dello stato in cui si vive. In questa perversa logica i cittadini di Israele si possono emendare con un atto di contrizione pubblica, prendendo le distanze dal proprio paese, partecipando a un processo di delegittimazione della propria appartenenza, il cui esito finale è evidente: la fine "dell'esperimento" che ha reso possibile la rinascita di una vita nazionale ebraica indipendente. Chi partecipa al rifiuto non è necessariamente antisemita e questo rende necessaria una strategia culturale in grado di aprirsi varchi nella zona grigia del nuovo antisemitismo. Non parlo dei militanti e ideologi che fanno della demonizzazione di Israele la loro principale attività. Parlo della vasta zona grigia di chi aderisce ad un appello e che per non avere problemi chiude gli occhi se un collega israeliano è escluso e che pur dissentendo in linea teorica, trova il modo per giustificare e assecondare, contribuendo con ciò a rafforzare la politica dell'odio e dell'esclusione.
   Magari trova anche il modo, pur dissentendo dall'odio contro Israele, di farne la principale attività quotidiana. Alcuni sono in "buona fede", o pensano di esserlo. Altri meno o peggio, camuffano il loro odio antiebraico attraverso la riscoperta di un'innocenza perduta che rende possibile la declinazione dell'ostilità contro gli ebrei. Chi è in "buona fede", può credere addirittura di compiere una buona azione. L'unità cognitiva ed emotiva di quanto accade, gli sfugge e pensa di contribuire alla pace. Spesso si giustifica con se stesso e con gli altri, dicendo che ha amici ebrei. Nel giorno della memoria è attivamente partecipe. Immerso nella zona grigia delle appartenenze accademiche e istituzionali, "vede" il più delle volte solo quello che serve per andare avanti senza problemi. Come le vecchie signore, che aggiungevano un pezzo di legno per attizzare il fuoco in cui bruciavano le vittime dell'inquisizione, preferisce non confrontarsi col dubbio che le cose possano stare diversamente da come se le rappresenta.
   Preferisce raccontarsi una storia diversa che lo fa sentire, senza eccessivi costi, più "giusto" e "buono". Se ha delle origini ebraiche, cui non tiene molto, può essere tentato di sbandierarle contro chi lo accusa, diventando con ciò un'icona. Se è un intellettuale israeliano, in guerra con se stesso e con la sua gente, le porte potrebbero aprirsi per lui, anche se il prezzo nel foro interiore della coscienza lo dovrà comunque pagare. Se è invece un ebreo (o israeliano) che tiene alla dignità personale, l'isolamento è garantito. Come se ne esce? Non lasciandosi andare alla disperazione. Tantomeno al vittimismo. Bisogna pur sempre tenere bene in mente che la nostra generazione è molto più fortunata di quelle che l'hanno preceduta, che i nostri genitori dovettero in molti casi tacere o nascondersi, mentre noi abbiamo la possibilità di agire liberamente e di far sentire la nostra voce come mai era accaduto prima. Dobbiamo conservare la visione di un futuro diverso e migliore per noi e per gli altri, coltivare la speranza, sapendo che non è mai stato facile portare il peso di una scelta eticamente giusta e che la libertà non è stata data una volta per sempre, ma si riconquista in ogni generazione all'interno della propria coscienza, come all'esterno. Il boicottaggio, ha affermato un esponente dell'Associazione americana, è limitato a "collaborazioni formali" con le istituzioni o studiosi israeliani che "espressamente servono come rappresentanti o ambasciatori". Non temendo di apparire ridicolo, un giurista membro dell'associazione è arrivato ad affermare, che in teoria anche il premier israeliano, potrebbe partecipare ai lavori del convegno, purché la sua presenza sia a titolo personale e non rappresenti il proprio paese! Come se fosse possibile per un docente e studioso proporre una qualunque candidatura in base all'appartenenza a una specifica istituzione accademica.
   Come se il fatto di avere insegnato a Yale o Harvard non fossero un elemento del curriculum, i docenti dovrebbero partecipare a titolo personale. Come nella teologia preconciliare del disprezzo, potrebbero esserci a patto di negarsi confessando la colpa di un'appartenenza che deve essere negata e superata. Per quanto ridicola, l'affermazione è rivelatrice di un disagio. L'America non è l'Europa, dove l'antisionismo e l'antisemitismo hanno fatto molto. In USA la capacità di resistenza delle istituzioni ebraiche e la reazione dell'opinione pubblica, è incomparabilmente superiore. Non è una buona ragione per sottovalutare il pericolo.
   
(Shalom, dicembre 2014)
   

Il nocciolo della questione ebraica

Da sempre:
Il nocciolo della questione ebraica sta nel fatto che gli ebrei ci sono.

Oggi:
Il nocciolo della questione ebraica sta nel fatto che Israele c’è.

Israele c’è, perché Dio c’è.
 

Anche l'Italia gira le spalle a Israele

L'Europa ha deciso di imprimere un'accelerazione alla questione palestinese. Prima con la decisione della Corte di Giustizia Ue che ha chiesto di togliere Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche e poi con un voto storico del Parlamento Ue sul riconoscimento della Palestina. E l'Italia si prepara ad allinearsi a questa presa di posizione, tanto che Sel ribadisce la richiesta di mettere in discussione in aula alla Camera la mozione sul riconoscimento, da parte dell'Italia, dello Stato di Palestina. Da Israele arrivano commenti durissimi alle decisioni europee e il premier Netanyahu evoca la Shoah: «Oggi abbiamo visto esempi sconvolgenti dell'ipocrisia europea», dichiara infatti il premier israeliano, sottolineando, amaramente, che «a quanto pare troppe persone in Europa, nella stessa terra dove 6 milioni di ebrei sono stati massacrati, non hanno imparato alcunchè».
   II Parlamento Ue, con un voto a larga maggioranza, ha approvato la risoluzione sottoscritta da quasi tutti i gruppi che sostiene «in linea di principio» il riconoscimento dello Stato della Palestina sulla base dei confini del 1967, appoggia la soluzione di due Stati con Gerusalemme capitale e esorta la ripresa dei colloqui di pace. La risoluzione è stata approvata con 498 si, 88 no e 111 astensioni. E' la prima volta che il Parlamento Ue assume una determinazione del genere, anche se il voto difficilmente avrà conseguenze concrete: la mozione infatti non sollecita gli Stati membri a riconoscere lo Stato palestinese senza condizioni. Tra i contrari si segnala il leader degli euroscettici inglesi Nigel Farage. E pensare che il Movimento Cinque Stelle, alleato di Farage in Europa, invece, appoggia la risoluzione, rilanciando il dibattito anche in Italia, insieme a Sel, che, con il suo leader Nichi Vendola, è in prima linea nel chiedere un riconoscimento dello Stato palestinese. La delegazione di Forza Italia ha invece preferito uscire dall'aula al momento del voto. Il Nuovo Centrodestra sostiene che questa decisione rappresenta «una minaccia per il processo di pace», come afferma Eugenia Roccella.
   Ancora più deflagrante la decisione della Corte di Giustizia dell'Ue che ha annullato la decisione dell'Unione di iscrivere Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche. Una sentenza fondata su «motivi procedurali», che moltiplica l'ira del primo ministro israeliano: «Israele non accetta i chiarimenti dell'Ue che la decisione del tribunale su Hamas sia soltanto un tema tecnico. Ci aspettiamo che l'Ue prontamente ridefinisca Hamas come organizzazione terroristica», dichiara Netanyahu. Anche il portavoce dell'ambasciata di Israele in Italia, Amit Zarouk, esprime totale dissenso: « La Corte europea ha il ruolo di stabilire le questioni procedurali per l'inserimento di Hamas nella lista europea delle organizzazioni terroristiche», sottolinea, ed è chiaro «che la sentenza non riflette la posizione sostanziale dell'Unione Europea, che considera Hamas come organizzazione terroristica da oltre un decennio. Ci aspettiamo che la Ue mantenga Hamas nella lista dei gruppi terroristi perché è quello il suo posto», conclude Zarouk. C.MA.
   
(Libero, 18 dicembre 2014)


Ci è pervenuto un elenco degli italiani che non hanno votato a favore del riconoscimento della Palestina. Lo riportiamo così come l’abbiamo ricevuto.


Palestina über alles. E Renzi disse a Netanyahu: "Benjamin stai sereno"

Una premessa: questo sito [Rights Reporters] ha sempre supportato Matteo Renzi, ma dopo che ieri gli eurodeputati del PD hanno votato compatti a favore del riconoscimento della Palestina ci sovviene qualche dubbio. Non possiamo fare a meno di immaginarci Renzi che nell'incontro dell'altro ieri con il Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, abbia dato sfoggio della sua battuta preferita: "Netanyahu stai sereno". Sappiamo poi come è andata a finire....

(Rights Reporter, 18 dicembre 2014)

*

"Benjamin, stai sereno"

 
"Benjamin, stai sereno!" Bravo Renzi, bella battuta! Fa venire in mente la formula con cui al tempo delle leggi razziali il Ministero dell'Interno rispondeva a quegli ebrei che per disperazione si decidevano a scrivere al Duce per tentare di ottenere una "discriminazione", cioè una qualche forma di esenzione personale dall'applicazione di quelle leggi. Ne citiamo una per rendere il clima di quel tempo.
    "Eccellenza
    Sono Italo di nome e di fatto; Ho 79 anni, sette figli viventi di cui quattro maschi e tre femmine, tutti sinceri fascisti. Il primo figlio è decorato di Medaglia d'argento, Grande Guerra. Le figliuole sono insegnanti ora "fra color che son sospesi" mentre, col sudato pane, bastavano a se stesse e dando aiuto ai vecchi genitori nullatenenti. Vostra Eccellenza, Maestro di parecchi Uomini di Stato, non può aver dimenticato di essere stato Maestro di Scuola. Perciò io voglio sperare che non sarà fatto di ogni erba un fascio, col portare alla rovina parecchie famiglie Italiane, che hanno la sola colpa di essere credenti unicamente del Padre Eterno!
    Potrei citare a Vostra Eccellenza il caso di due professoresse Torinesi, che hanno ora la prospettiva di suicidarsi o di farsi curare in qualche Ospedale Psichiatrico. Vere tragedie!
    Ma ho fede che il "Duce" d'Italia non vorrà guastare le tante sue magnifiche pagine, per le quali si è guadagnato ammirazione e gratitudine ed il più bel posto nella Storia.
    Col massimo ossequio non imploro che umanità e giustizia."
Gli risponde un funzionario del Ministero con queste parole: "Il Duce, presa visione della vostra istanza del 23 Settembre scorso, m'incarica di dirvi che potete stare tranquillo". E' la formula di rito: il postulante viene invitato a "stare tranquillo". In questo caso però la formula non funziona, perché il postulante risponde così al funzionario incaricato:
    "Ma il fatto sta ed è, che io non posso stare né andarmene ... al di là, tranquillo, giacché gli eventi causati dalla politica o da colpe ... altrui, hanno rovinato la mia Famiglia, alla quale verun addebito poteva muoversi, mentre invece era da citare a modello sotto ogni rapporto.
    Mia moglie ed io, privi di beni di fortuna, abbiamo sopportato, per tanti anni, privazioni e sovrumani sacrifici per allevare sette figliuoli e collocarli tutti a posto, come Italiani e Fascisti fedelissimi e stimatissimi... Non voglio tediare V.E. esponendo ragioni che può comprendere chi abbia senno e cuore. Dirò soltanto che nel 1922 fui collocato a riposo - per limiti
    d'età - dall'Amm.e Ferrovie dello Stato con pensione di L. 682 mensili. Ora ho 80 anni, ed a carico la moglie in poca salute e privata perfino della domestica, nonché i cinque figli di cui sopra. Più o meno male si deve vivere e pagare la pigione e le imposte ....
    Voglia V. E. far presente la mia critica ed iniqua situazione a S.E. l'illustre Capo del Governo, perché vi pensi un minuto secondo e, seguendo i dettami del suo cuore Romagnolo e di padre, voglia concedermi un aiuto per farmi stare un pochino tranquillo."
L'esortazione a "stare tranquillo" fu la carognata con cui il governo italiano di quel tempo tradì gli ebrei che avevano posto la loro fiducia nella patria italiana. Netanyahu quindi è avvertito: se un duce
Oggi si dice "leader"
italiano dice a un capo ebreo: "Stai sereno", c'è più di una ragione per preoccuparsi seriamente. I fatti sembrano confermarlo. M.C.

(Notizie su Israele, 18 dicembre 2014)


Israele furiosa con l'Europa

Via Hamas dalla lista nera, sì allo stato di Abu Mazen. L'arnbasciatore Gilon protesta duramente. Netanyahu: dimenticata la shoah

di Giulio Meotti

ROMA - In una giornata nera per Israele è arrivato anche il via al riconoscimento dello stato palestinese invocato dal parlamento europeo. Netanyahu è stata sferzante: "Non avete imparato niente dalla shoah". Ma concetti duri erano già risuonati per la faccenda di Hamas. "Possibile che non ci sia limite alla vergogna? L'Unione europea sembra aver perso la testa", ha detto ieri lo speaker del Parlamento israeliano, Yuli Edelstein. Aver rimosso Hamas dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche "indica una distorsione morale, è una ricompensa per il terrorismo islamista che colpisce ovunque nel mondo". Gerusalemme è furiosa con la Corte di giustizia dell'Ue che ha rimosso i terroristi palestinesi dalla black list. Secondo i magistrati di Bruxelles, l'inserimento di Hamas, nel 2001, "non fu sulla base di giudizi giuridicamente rilevanti". Da Gaza, gli islamisti festeggiano e il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, parla di "vittoria della nazione palestinese".
   Il congelamento dei beni di Hamas resterà in vigore tre mesi in attesa del ricorso da parte degli stati membri. Ma il messaggio arrivato dall'Europa è chiaro, anche se l'Alto rappresentante per gli Affari esteri, Federica Mogherini, parla di "decisione legale, non politica". L'ambasciatore israeliano a Roma, Naor Gilon, commenta così con il Foglio la sentenza dei magistrati in Lussemburgo: "E' chiaro che la sentenza non riflette la posizione sostanziale dell'Unione, che considera Hamas come organizzazione terroristica da oltre un decennio. Ci aspettiamo che l'Unione mantenga Hamas nella lista dei gruppi terroristi perché è quello il suo posto".
   L'ala militare di Hamas, le Brigate Qassam, era stata inserita nella lista nera nel dicembre 2001, sull'onda degli attentati dell'll settembre. Due anni dopo, anche grazie alla pressione del governo italiano, venne aggiunta alla lista nera anche l'ala politica di Hamas, nonostante le pressioni contrarie della Francia con Dominique de Villepin. Soltanto se Hamas resta nella black list europea se ne possono confiscare i beni, se ne possono chiudere i canali di finanziamento, se ne possono spegnere i programmi tv dell'odio e si può impedire che i terroristi di Hamas si incontrino con i ministri e funzionari dell'Unione europea. "Gli europei devono aver pensato che il loro sangue è più sacro del sangue degli ebrei", ha detto il deputato del Likud, Danny Danon. "In Europa devono aver dimenticato che Hamas ha rapito e ucciso tre ragazzi e che ha lanciato migliaia di missili sui cittadini israeliani. Il messaggio è: uccidete gli israeliani, avrete uno stato".
   Perché la tempistica della sentenza europea è chiaramente legata alla presentazione da parte dell'Autorità Palestinese questa settimana della risoluzione all'Onu. Sarà sottoposta al Palazzo di Vetro la versione francese anziché quella giordana. Entrambe chiedono, seppur in modo diverso, al Consiglio di Sicurezza di votare l'abbandono della Cisgiordania da parte di Israele entro il 2016. Nella bozza francese non c'è menzione a Israele come "stato ebraico". Gli Stati Uniti potrebbero non porre il veto sul documento mediato da Parigi. Per Gerusalemme si tratta di "terrorismo diplomatico" che rende nulli i negoziati.

(Il Foglio, 18 dicembre 2014)


Il mondo di Strasburgo: Hamas non è terrorismo e la Palestina è uno Stato

Il Parlamento europeo toglie l'organizzazione dalla lista nera per motivi «procedurali» e vota sì alla nuova nazione (con applausi).

di Fiamma Nirenstein
   
Ma per la Corte europea non è terrorismo. Sono civili, sì, ma ebrei.
Bell'idea davvero, mentre piangiamo la tragedia di Peshawar in Pakistan e ci fa tremare l'attacco di Sydney; mentre i Talebani, Isis, Boko Haram, Hezbollah, Hamas stessa sono attivi in tutto il mondo; bell'idea quella della Corte generale dell'Unione europea che per «motivi procedurali» ha tolto Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche donando una giornata trionfale alla isterica nevrosi antisraeliana dell'Europa.
   «Questo è un esempio dell'ipocrisia dell'Europa che sembra non ricordarsi di che cosa ha fatto a sei milioni di ebrei» ha commentato duro Benjamin Netanyahu. L'Ue, è vero, prende senza sosta di mira Israele, anche quando farlo è irrazionale e autolesionista. Ieri il Parlamento europeo ha anche votato il riconoscimento dello Stato Palestinese. In questi anni si sono visti boicottaggio, «labeling», feroce condanna dell'esercito di Israele, entusiasmo per lo stato palestinese, non importa se democratico o autoritario e violento, il voto di tanti parlamenti per la Palestina: Irlanda, Inghilterra, Spagna... E ieri, l'epopea collettiva: il Parlamento europeo ha votato per il riconoscimento «in linea di principio» dello Stato Palestinese, con applausi. L'Ue ha però abbandonato il riconoscimento immediato, aggiungendo una frase su come «andrà per mano con l'avanzamento dei colloqui di pace».
   Intanto, in Svizzera, i 126 stati firmatari della Quarta Convenzione di Ginevra hanno biasimato Israele per violazione dei diritti umani a Gaza. Un classico. Ma più sconfortante è la decisione della Corte europea di rivedere la scelta del 2003 di inserire Hamas nella lista nera, compiuta dopo le Twin Towers e gli attacchi terroristi della Seconda Intifada.
   La Corte insiste che la sua è una scelta solo procedurale: Hamas ha impugnato la decisione sulla scorta di un'azione simile delle Tigri Tamil dello Sri Lanka, e la Corte, come per loro, ha stabilito che le accuse non sono sostenute da prove processuali, ma solo da notizie politiche e di stampa. La Corte spiega, in modo un po' ridicolo perché purtroppo tutti abbiamo visto il sangue versato da Hamas, che se nei prossimi tre mesi le prove verranno presentate, essa verrà reinserita nella lista.
   Ma per ora Hamas festeggia. I 28 giudici della Corte europea sono stati ligi, ma ciò può indurre procedure legalistiche pericolose. Ma per quanto scivolosa sia la definizione di terrorista, Hamas è parte della Fratellanza Musulmana, i suoi principi sono paragonabili a quelli dell'Isis. Per prendere il potere a Gaza nel 2007 ha precipitato dai tetti i suoi nemici di Fatah; quando Osama Bin Laden fu ucciso, Ismail Hanyieh ha condannato gli Usa; l'Egitto ha denunciato il legame fra Hamas e gruppi affiliati a Al Qaeda; gode del finanziamento dell'Iran e di Assad in Siria, del Qatar.La Carta del 1988 predica il califfato mondiale e il genocidio: lo sceicco Younis Al Astal, del consiglio legislativo di Gaza, spiega che «il Corano insegna a massacrare gli ebrei».
   E Hamas ci si impegna: il 39,9 per cento degli attacchi suicidi che hanno fatto circa 2000 morti nei bar, sugli autobus, nei supermarket sono di Hamas; gli attacchi riusciti e falliti dal 2001 al 2014, 18928. Fra gli attacchi più famosi quello di Natania che uccise 30 anziani, e quello della pizzeria Sbarro a Gerusalemme, con 15 morti, molti bambini.
   La pioggia di missili sui civili è un'altra specialità. Hamas ha tentato di colpire anche gli impianti chimici di Haifa e di compiere stragi di massa. La sua politica mira a colpire anche i cristiani, che perseguita sul suo territorio.
   Hamas impone la shaaria, indottrina i suoi bambini all'odio, quest'anno ha diplomato quindicimila ragazzi nei campi paramilitari, il doppio dell'anno scorso: «Questa generazione» ha detto Ismail Haniyeh «non conosce la paura, è la generazione dei missili, dei tunnel, delle operazioni suicide». Noi europei gli abbiamo procurato una strada che si svilupperà prossimamente in tutte le istituzioni: quella dell'Intifada legale.
   
(il Giornale, 18 dicembre 2014)


Come l'Ue ha pugnalato Israele

di Stefano Magni

Per caso l'Unione Europea ha deciso di dichiarare guerra a Israele? L'importante è essere chiari. Perché nonostante tutte le assicurazioni verbali allo Stato ebraico, le azioni dei parlamenti nazionali, il Tribunale dell'Ue e poi anche del Parlamento europeo, dimostrano un'ostilità senza pari.
   Andiamo con ordine, dall'ultima notizia alla prima. Ieri pomeriggio, con un voto di 498 sì, 88 no e 111 astensioni, il Parlamento europeo ha votato per il riconoscimento di uno Stato Palestinese indipendente, nei confini armistiziali che hanno retto dal 1949 fino al 1967. I dissensi sono stati pochissimi, si contano sulla punta delle dita. Il gruppo di Forza Italia è uscito dall'aula per protesta. "Pur riconoscendo il lavoro fatto dal Ppe per mitigare le posizioni della sinistra europea - spiega Elisabetta Gardini - come delegazione di Forza Italia permangono rispetto al testo di questa risoluzione ancora delle ambiguità e troppe tracce della versione originaria a cominciare dal titolo. Per questo motivo, proprio per marcare politicamente il nostro dissenso, al momento del voto tutta la nostra delegazione ha abbandonato l'aula". Ancor più contrario, per una questione di principio, è l'euroscettico inglese Nigel Farage: "Il riconoscimento degli Stati è di competenza delle nazioni, non del Parlamento europeo che non ha questo potere: questo voto va annullato". Ma tutti gli altri, o quasi, hanno votato a favore. Tutti, dal Ppe ai Socialisti e Democratici, passando per i Liberali europei si dicono a favore di una "Palestina indipendente". Inutile fare, in questa
L'Autorità Palestinese non si è mai mobilitata per impedire le azioni criminali di chi agisce nel nome della Palestina, nemmeno quando due terroristi hanno compiuto l'ultimo massacro nella sinagoga di Har Nof.
sede, qualunque excursus storico sull'origine del conflitto. Basti sapere, però, che il concetto stesso di una Palestina araba, contrapposta a quella ebraica, nacque nel 1964, dietro la spinta dei regimi arabi, dopo che questi avevano mancato l'obiettivo di disintegrare lo Stato ebraico con la guerra del 1947-49. Basti constatare che il confine che resse fino al 1967 divideva in due Gerusalemme (sulla linea in cui attualmente passa l'unica linea tranviaria della città) e che il Muro Occidentale, primo luogo sacro dell'ebraismo, trovandosi nel settore arabo, era precluso agli ebrei. Occorre anche ricordare che Israele si trova, proprio in questi mesi, sotto costante attacco terroristico e che l'Autorità Palestinese non si è mai mobilitata per impedire le azioni criminali di chi agisce nel nome della Palestina, nemmeno quando due terroristi hanno compiuto l'ultimo massacro nella sinagoga di Har Nof, un sobborgo di Gerusalemme. E non si deve dimenticare che, dalla primavera scorsa, la stessa Autorità è governata da un esecutivo di unità nazionale che include anche Hamas, un'organizzazione che prevede, sin dal suo statuto, l'annientamento di Israele. Ecco: basta ricordare solo questi quattro o cinque dati di realtà per comprendere con quanta leggerezza, con quanta superficialità, con quanto sprezzo del pericolo, la schiacciante maggioranza degli eurodeputati abbia espresso un voto che mette in pericolo la vita di 8 milioni di cittadini ebrei, arabi, drusi e beduini dello Stato di Israele.
   Già che si parlava di Hamas: l'altra notizia di ieri è la sua cancellazione dalla lista nera Ue delle organizzazioni terroristiche. Una cancellazione a metà, a dire il vero. Perché a pronunciarsi a favore della riabilitazione degli jihadisti palestinesi è stato il Tribunale dell'Ue, un gradino sotto la Corte di Giustizia dell'Ue. Ma la Commissione Europea non ha, almeno per ora, accettato il verdetto ed è ricorsa in appello. Dunque, prima di smettere di definire "terrorista" Hamas, si deve ancora attendere un po' di tempo e un altro grado di giudizio. Dopodiché, anche l'organizzazione che mira esplicitamente alla distruzione di Israele può essere considerata "partito politico", legittimo tanto quanto il Ppe o i Socialisti e Democratici europei. Interessanti le motivazioni della sentenza. Leggiamo infatti, che per i giudici europei "In today's judgment, the General Court finds that the contested measures are based not on acts examined and confirmed in decisions of competent authorities but on factual imputations derived from the press and the internet". Tradotto in senso letterale: "nella sentenza odierna, il Tribunale di Primo Grado ritiene che le misure contestate siano basate non su fatti esaminati e confermati da decisioni di autorità competenti, ma da imputazioni fattuali basate su fonti di stampa e Internet". Tradotto dal burocratese: Hamas non è terrorista, subisce calunnie su Internet e sui giornali. Come se non bastasse l'ondata di attentati suicidi,
... come se Hamas non avesse mai rivendicato il rapimento e l'omicidio di tre ragazzini ebrei, lo scorso giugno: rapiti e uccisi solo perché erano ebrei, studenti di una scuola religiosa, non certo perché erano politici, tantomeno soldati armati.
commessi dalle brigate Al Qassam (il braccio armato di Hamas), assieme alle Brigate Martiri Al Aqsa, al Fronte Popolare e alla Jihad Islamica, dal 2000 al 2005 contro Israele, un attacco continuo che causò la morte di circa 1000 civili israeliani. Come se, da Gaza, non fossero mai partiti centinaia di razzi ogni mese, una pioggia di ferro ed esplosivi volta a uccidere civili, nelle città del Sud di Israele. E come se Hamas non avesse neppure rivendicato, pubblicamente, il rapimento e l'omicidio di tre ragazzini ebrei, lo scorso giugno: rapiti e uccisi solo perché erano ebrei, studenti di una scuola religiosa, non certo perché erano politici in vista, tantomeno soldati armati. Ma tutto questo, per il Tribunale, non è terrorismo. Evidentemente. Dunque, anche su un piano puramente giuridico, l'Ue ha spianato la strada per il riconoscimento della Palestina. Anche se questo nuovo Stato dovesse essere governato da Hamas (che, in caso di elezioni, oggi otterrebbe, probabilmente, la maggioranza assoluta).
   La decisione di riconoscere la Palestina, Hamas inclusa, sembra già esser stata presa da numerosi parlamenti nazionali. L'ultimo, in ordine di tempo, è stato quello del Lussemburgo. Ma prima c'era stato un voto a favore della Palestina da parte del Parlamento irlandese, lo scorso 12 dicembre. L'hanno preceduto l'Assemblea Nazionale francese, lo scorso 2 dicembre. Che a sua volta è stata preceduta dal Parlamento spagnolo il 18 novembre (proprio lo stesso giorno del massacro nella sinagoga di Har Nof) e del Parlamento britannico, il 13 ottobre. A guidare le iniziative pro-palestinesi era stata la Svezia, con una dichiarazione del nuovo governo di centro-sinistra di Stefan Löfven, il 5 ottobre, seguita dal riconoscimento formale della Palestina il 30 ottobre. L'iniziativa svedese, per ora unica nel suo genere, ha dato il via all'effetto domino.
   La maggior parte dei giornali italiani, poi, ha già di fatto riconosciuto la Palestina e disconosciuto Israele. Quasi tutti, infatti, parlano di reazione furiosa, alle notizie dei voti europei, del "governo di Tel Aviv". Quando tutti sanno che la sede del governo e del parlamento israeliani sono a Gerusalemme, da decenni. Le maggiori penne italiane (ed europee) hanno già, per conto loro, tracciato il confine del 1967. E hanno eletto Gerusalemme a capitale della Palestina.

(L'Opinione, 18 dicembre 2014)


Quello che Benigni non ha detto

di Elena Loewenthal

 
Roberto Benigni in veste profetica
Per indicare la fretta del «quattro e quattr'otto» in ebraico si usa dire: «L'ha fatto su una gamba sola».
L'immagine evoca l'antica storia di un grande rabbino a cui qualcuno chiese d'imparare tutta la Torah nel tempo in cui riusciva a stare in bilico così.
   E Hillel rispose: «Ama il prossimo tuo come te stesso. La Torah sta tutta qui. Ora però vai a studiarla!».
Nel suo monologo biblico Benigni ha giustamente citato questo assunto, attribuendolo a Gesù. E' pur vero che esso sta anche nel Nuovo Testamento. Ma, al di là del plauso trasversale che l'esperienza mediatica dei Dieci Comandamenti ha suscitato, c'è qualcosa che stride. Nelle due ore dedicate al secondo emistichio delle Tavole, da «onora il padre e la madre» in poi, Benigni non ha mai nominato la parola «ebraico». In questa lingua è stata scritta la Bibbia. A questo universo culturale appartiene la stragrande maggioranza delle cose che Benigni ha raccontato. Ha, è vero, citato il Talmud a proposito della donna. Giusto, bello. Ma quanti telespettatori sanno che il Talmud è la Torah orale, il corpus della tradizione ebraica, quel «mare» su cui naviga la parola d'Israele? Lui non l'ha detto.
   Quando non era intento a efficaci riferimenti all'attualità, Benigni sguazzava nella tradizione ebraica. Ma soprattutto, partiva da un testo ebraico, perché tale è la Bibbia. Nelle sue divagazioni sull'onore dovuto ai genitori, sul «scegliere la vita» e non la morte - che è il primo, fondamentale precetto d'Israele, quello che ti impone di guardare prima di attraversare la strada - ha usato parole di una millenaria tradizione senza mai chiamarla per nome. Quando spiegava che Dio ci chiederà conto dei piaceri che ci siamo lasciati sfuggire, citava ancora il Talmud. Disquisendo sull'ambiguità del «commettere atti impuri» attestava millenni di rovello ebraico intorno a un verbo misterioso.
   La tradizione ebraica è un esercizio di autonomia (e responsabilità) intellettuale dove la parola biblica è sondata in un continuo moltiplicarsi di significati. Tutto si dipana dalla vertiginosa coincidenza per cui in ebraico «incise» detto della pietra dei Comandamenti significa anche «libertà». C'è un'unica libertà che i grandi maestri della tradizione, da Hillei a Martin Buber, non si prendono: quella di attribuirsi parole altrui. Citare il nome di chi ti precede lungo la storia è un dovere filologico ancor prima che morale e spirituale. Benigni ha perso la strabiliante occasione di incastonare la propria performance in una non meno strabiliante catena di parole guidate da un sano principio di democrazia e rispetto per le voci che non sono la tua.

(La Stampa, 18 dicembre 2014)


Quando i comici si atteggiano a profeti.
Sempre di più Benigni appare come un furbastro che cerca il tema popolare del momento per attirare su di sé l’attenzione presentandosi come qualcuno che usa le sue indubbie capacità teatrali per offrire profondi spunti di riflessione su temi che tutti conoscono e di cui prima o poi in qualche modo parlano. Valga per tutti l’esempio del film “La vita è bella”, che se qualcuno considera profondo è perché è caduto nella trappola benigniana. Da tempo Benigni non mi fa più ridere e non mi ha mai fatto riflettere. M.C.


Netanyahu: l'ipocrisia dell'Europa è sconvolgente

"Oggi abbiamo visto esempi sconvolgenti dell'ipocrisia europea". Lo ha detto Benyamin Netanyahu riguardo le decisioni assunte oggi da vari organismi Ue. "A quanto pare - ha aggiunto - troppe persone in Europa, nella stessa terra dove 6 milioni di ebrei sono stati massacrati, non hanno imparato alcunché".
A Ginevra - ha spiegato il premier incontrando la senatrice Usa Joni Ernst - si fa appello per indagini nei confronti di Israele per crimini di guerra mentre a Lussemburgo la Corte di giustizia europea ha rimosso Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche: lo stesso Hamas che pure ha compiuto infiniti crimini di guerra ed infiniti atti di terrorismo. ''L'amicizia che constatiamo fra noi e gli Stati Uniti - ha aggiunto - è in totale contrasto con quanto oggi purtroppo vediamo in Europa''.
''Noi invece in Israele - ha detto ancora con riferimento allo sterminio degli ebrei in Europa - abbiamo imparato. Continueremo a difendere il nostro popolo e il nostro stato contro le forze terroristiche, contro il despotismo e contro la ipocrisia''.
In merito alla decisione della Corte su Hamas, Netanyahu ha inoltre sottolineato che il movimento palestinese e' ''parte inseparabile'' della lista delle organizzazioni terroristiche e che la sua Carta ha ''come obiettivo la distruzione di Israele''. ''Continueremo a combattere Hamas con forza e determinazione in modo che non raggiunga mai il suo scopo''. Nell'ambito della decisione assunta dall'Ue, il rappresentante dell'Europa in Israele Lars Faaborg-Andersen è stato convocato al ministero degli esteri a Gerusalemme per dare spiegazioni sulla mossa europea.

(ANSAmed, 17 dicembre 2014)


Continua senza interruzione il ben avviato "processo di strangolamento" di Israele sotto il nome collaudato di "processo di pace". Se chi guida Israele lo accetta, naturalmente viene lodato, perché in questo modo il processo di strangolamento può continuare senza intoppi; se invece non lo accetta e si rivolta apertamente contro gli strangolatori, allora viene accusato di rigidità e incolpato dell'isolamento in cui porta il suo paese. Oggi questo capita a Netanyahu, che naturalmente viene messo sotto la lente e sospettato di bassi interessi elettorali. Come politico, naturalmente Netanyahu si sarà fatto i suoi conti, ma in una cosa certamente ha detto il vero: l'ipocrisia dell'Europa è sconvolgente. Gli strangolatori europei sono candidi: "Noi non siamo antisemiti - dicono - noi non siamo neppure antisionisti, noi siamo soltanto anti-Netanyahu". Così possono andare avanti indisturbati, ottenendo anche il consenso di una parte del mondo politico israeliano. Un concerto di cattiveria, ipocrisia e stupidità. M.C.


Antisemitismo evangelico

di Marcello Cicchese

«Antisemita io? Ma per carità! Ci mancherebbe.» Di questo tipo è spesso la reazione di chi si sente dire che forse il suo atteggiamento verso gli ebrei assomiglia molto a quello degli antisemiti. Chi reagisce così di solito ha in mente un antisemitismo dichiarato, esplicito, attivo, nel quale naturalmente non si riconosce.
   Ma accanto a un antisemitismo militante, facilmente riconoscibile, esiste un antisemitismo quiescente che può restare in stand by per molto tempo e, purtroppo, attivarsi nei momenti critici meno adatti. Del
L'antisemita per default non ce l'ha con gli ebrei e con Israele per il semplice fatto che di loro non si interessa: i suoi problemi sono altri. Fosse per lui, non ne parlerebbe proprio.
resto, per diventare o rimanere antisemiti non ci vuole molto: basta non fare niente. In questo modo, senza neanche accorgersene, si viene tranquillamente trasportati dal main stream, la principale corrente di questo mondo che segue gli impulsi del principe di questo mondo, che detesta e tenta continuamente di distruggere il popolo che Dio si è scelto. E' un antisemitismo per default, cioè in assenza di... In assenza di interesse e conoscenza si rimane, rispetto a Israele, indifferenti e ignoranti. L'antisemita per default "non ce l'ha" con gli ebrei e con Israele per il semplice fatto che di loro non si interessa: i suoi problemi sono altri. Fosse per lui, non ne parlerebbe proprio.
   Ma per sua sventura gli ebrei ci sono, Israele esiste e il mondo ne parla. Quindi, prima o poi anche lui è costretto a parlarne, e quando lo fa quasi sempre dice qualcosa di sbagliato. Naturalmente però non se ne accorge, a causa della sua ignoranza, e si sorprende se gli si fa notare che sta semplicemente ripetendo quello che tanti antisemiti dicono.
   La cosa è particolarmente grave quando l'antisemita per default è un cristiano evangelico, che in quanto tale dovrebbe avere la Bibbia come fondamento della sua fede e delle sue convinzioni. Perché è un fatto indiscutibile che nella Bibbia di Israele si parla dappertutto. Dicendo allora qualcosa di sbagliato su questo argomento si rischia di cadere nell'eresia; il che è grave, perché si può non essere d'accordo con molti, anche con gli ebrei, anche con Israele, ma non essere d'accordo con Dio è rischioso, perché si finisce per essere d'accordo con il suo nemico, che è Satana.
   In molti casi però l'eresia non si esprime con formulazioni di dottrine sbagliate, ma con l'assenza di dottrine giuste. E' un'eresia di omissione. Come ci sono i peccati di omissione, ci sono anche le eresie di omissione. Questo avviene quando un aspetto importante della rivelazione biblica, che compare più volte in tutte le parti della Scrittura, viene sistematicamente negletto e trascurato. E' il caso della dottrina su Israele.
   Qualche anno fa è comparso in Italia un "Dizionario di teologia evangelica" di più di 800 pagine. Ebbene, tra le oltre 700 voci elencate nel dizionario non si trova il termine "Israele". Non c'è. Non è strano? Non è significativa un'omissione come questa? E non è strano che certe parti della Bibbia vengano sistematicamente escluse dall'insegnamento nelle chiese? Ad un qualsiasi evangelico si potrebbe chiedere: quante volte nella tua chiesa hai sentito predicare sul libro di Ezechiele? E in particolare sugli ultimi nove capitoli che parlano del nuovo Tempio a Gerusalemme? E quante volte hai sentito un'istruzione ordinata sul concetto di "Regno di Dio" nei Vangeli? Riflettendoci su con calma, potremmo arrivare alla conclusione che la Bibbia per noi è come certi grossi programmi del computer: la usiamo sì e no al 30 per cento. Non potrebbe trovarsi in quel residuo 70 per cento l'eresia di omissione che riguarda la dottrina di Israele?
   La questione dunque è grave e non può essere trattata in poche battute, ma qui si vuole sottolineare che il tema Israele non è un'appendice della dottrina cristiana, ma sta al centro del messaggio evangelico, perché sta lì dove Gesù stesso sta. Il tentativo sempre ripetuto nella storia di staccare Gesù da Israele e
Lo scandaloso caso di Lutero dovrebbe far capire che l'auten- ticità di una fede personale in Gesù non è una garanzia contro la possibilità di cadere in un vero antisemitismo evangelico
Israele da Gesù è di natura diabolica, perché corrisponde all'interesse storico di Satana. E' triste doverlo riconoscere, ma in questa trappola diabolica sono caduti nel passato e cadono ancora oggi molti cristiani autentici, anche evangelici, anche nati di nuovo. Lo scandaloso caso di Lutero dovrebbe far capire che l'autenticità della fede personale in Gesù, se non è accompagnata da una dipendenza reale dallo Spirito Santo e dalla Parola di Dio nel preciso momento storico in cui si vive, non è una garanzia contro la possibilità di cadere in un autentico antisemitismo evangelico. Il quale - ed è una cosa grave - fa diventare anche i credenti in Gesù strumenti di Satana nel suo tentativo di disonorare prima e distruggere poi il popolo ebraico e, oggi, lo Stato d'Israele.
   Come l'acqua, che in natura si presenta in diversi stati ma ha sempre la stessa struttura molecolare, così l'antisemitismo si presenta nella storia in diverse forme ma ha sempre la stessa struttura spirituale: l'odio per gli ebrei. Si parla di "struttura spirituale" perché l'odio che si manifesta è espressione dell'intima ribellione a Dio dell'uomo peccatore. L'antisemitismo è un frutto della carne: una carnalità che ha l'aggravante pericoloso di non essere quasi mai riconosciuta come tale. Anzi, in molti casi si presenta come anelito ad una superiore virtù.
   Nel periodo storico in cui viviamo la carnalità dell'antisemitismo assume due forme tra loro collegate: una anti e una filo. C'è l'antisionismo e il filopalestinismo. Il primo è più esteso, il secondo più ristretto, ma entrambi sono presenti negli ambienti evangelici, e in questo caso meritano il nome di antisemitismo evangelico perché le sue motivazioni pretendono di essere tratte dalla Scrittura. E questo ne aumenta la gravità.
   Qualcuno sarà sconcertato da affermazioni così forti, altri saranno in netto disaccordo, altri ancora chiederanno di avere argomenti a sostegno di quanto si dice. Gli argomenti ci sono: chi è interessato può cercarli in questa rivista o in altri libri che possono essere indicati a chi lo desideri, ma qui è importante sottolineare ancora una volta che il tema Israele non può essere accantonato, perché è di enorme gravità spirituale. La preannunciata biblica apostasia degli ultimi tempi si sta avvicinando a grandi passi ed è penetrata anche in chiese evangeliche che un tempo si distinguevano per la loro fedeltà alla Scrittura. Una delle forme più gravi che questa apostasia sta assumendo è la conformazione al mondo nell'odio verso il popolo che Dio si è scelto per il suo piano di salvezza. Gli eventi incalzano e il tempo stringe: su Israele ciascuno ha il dovere di chiarirsi le idee e fare la sua propria scelta. Sulla sua responsabilità davanti a Dio.

(Chiamata di Mezzanotte, Nr.11/12 2014)


«Cara mamma». Ebrei al fronte

Lettere, preghiere, foto e ricordi dei romani durante la Grande guerra

di Giuseppe Grifeo

 
«Carissimo Gabriele, ricevo sempre tue notizie e te ne ringrazio anche a nome della tua cara mamma, mi dici che non ricevi mie lettere, sappi che io sempre rispondo alle tue... », questo l'inizio di una delle tante missive di Prospero Anticoli al figlio Gabriele impegnato al fronte nel corso della Grande Guerra del 1915-1918 che vide impegnati migliaia di ebrei. Il patriottismo, l'amore per l'Italia e per la Casa Savoia traspare in questo e in tanti altri documenti che da ieri sono esposti al Museo Ebraico di Roma, in largo Stefano Gay Taché e lo saranno fino al 16 marzo per la mostra «Prima di tutto italiani. Gli Ebrei Romani e la Grande Guerra». Prima considerati come corpo estraneo della società romana in particolare e di quella italiana, gli ebrei si espressero con grande slancio nel conflitto del 1915-1918. Diventarono ufficiali, soldati semplici, rabbini militari e, insieme a tutti gli altri, diedero il loro grande contributo di sangue. «Il nostro pensiero deve essere sempre rivolto al buon Dio, alla Cara nostra Italia, alla nostra famiglia... Sarò contento il giorno che saprò che avrete fatto il vostro dovere verso la nostra Cara Patria», continuava Prospero nella sua lettera. Ieri la presentazione della mostra che raggruppa foto, oggetti, documenti, frutto anche di prestiti da Paola Bonfiglioli, Orietta Citoni, Esther Di Porto, Rosa Piperno, provenienti dall'Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma. Il tutto accompagnato da un filmato che mostra fotografie dal fronte e, in sottofondo, la voce dell'attore Silvio Muccino mentre legge alcune delle lettere di questi uomini.
   A presenziare ieri l'avvio dell'esposizione, Roberta Pinotti, ministro della Difesa, Riccardo Pacifici, presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, Rabbino Capo, Gianni Ascarelli assessore alla Cultura della Comunità, Alessandra Di Castro, direttrice del Museo e Lia Toaff, curatrice della mostra.
Nel 1870 gli ebrei poterono uscire dal ghetto «ma già con lo Statuto Albertino del 1848, nei territori soggetti ai Savoia, ebbero la possibilità di entrare nelle forze armate e indossare la divisa: prima era vietato - sottolinea Di Segni - Fu la possibilità di entrare a pieno titolo nella comunità italiana, mossa poi decisiva proprio nel primo conflitto mondiale».
   Nel 1915 gli ebrei italiani erano circa 35.000 su 38 milioni di italiani: 5.000 andarono a combattere, nel 50 per cento dei casi come ufficiali.
   «L'idea della mostra venne fuori durante una fiaccolata con la comunità di Sant'Egidio quando mi si ricordò il forte contributo della Comunità alla Grande Guerra - racconta Pacifici - Attorno alla Sinagoga le lapidi che ricordano il sacrificio del nostro popolo, quella sulle Fosse Ardeatine per esempio o, nei giardini del Tempio, quella sulla partecipazione alla Resistenza. Vicino a una palma, la targa con i nomi dei caduti nel primo conflitto mondiale. Ridiscutendo dei processi storici, si è ricordato come le leggi razziste del 1938 fecero perdere tutti i diritti anche a quegli ebrei militari presenti nelle forze armate italiane, pure quelli che avevano combattuto nella Grande Guerra. Fu un doppio tradimento, come ebrei e come cittadini italiani, privati della possibilità di difendere la Patria a prescindere dalle scelte nazionali del momento».
   «Al vedere quelle lapidi ci sono stati momenti di grandi emozioni - sottolinea il ministro Pinotti - Per costruire il futuro non bisogna mai dimenticare il passato. Nella vicenda della Grande Guerra ci furono grandi storie umane. Ritroviamo orgoglio e senso della Patria, elementi che danno un senso al ruolo umano. Le successive leggi razziste hanno svenduto quel significato di esseri umani. Parlando di chi ha indossato la divisa, non posso non pensare a chi oggi la indossa e riflettere sulla grave decisione della corte suprema indiana che ha rigettato le istanze presentate dai nostri Latorre e Girone»
   «Il progetto della mostra è nato in maniera spontanea fra il Museo e la Comunità - dice Lia Toaff - La signora Anticoli ci consegnò 40 lettere di Gabriele spedite dal fronte. Da quegli scritti emerse la totale italianità, la forte fedeltà ai Savoia. Ebrei che poi subirono le terribili discriminazioni delle leggi razziali dal 1938: alcuni, per il loro contributo alla Patria, chiesero di essere esentati, «discriminati» dalle persecuzioni. Rarissime furono le concessioni». Tanti che avevano combattuto per l'Italia passarono poi in mano nazista e furono uccisi nei campi di sterminio tedeschi fra il 1943 e il 1945.

(Il Tempo, 17 dicembre 2014)


La Corte Europea: Hamas è fuori dala lista terroristica

L'organizzazione paramilitare palestinese è fuori dalla lista nera del terrore dell'Ue e il premier israeliano Benjamin Netanyahu ne chiede subito il reinserimento. Il portavoce dell'Alto Rappresentante per la politica estera Ue chiarisce: "Le misure restrittive restano in atto, l'Ue considera ancora Hamas un'organizzazione terroristica".

Una pronuncia della Corte Europea cancella Hamas - organizzazione paramilitare palestinese - dalla "lista delle organizzazioni terroristiche" mondiali, stilata dall'Ue. Subito arriva però la precisazione della portavoce di Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera Ue. "E' una sentenza legale, non una decisione politica", il Consiglio può decidere di fare appello, nel frattempo "le misure restrittive restano in atto" e "questo significa che la Ue continua a considerare Hamas un'organizzazione terroristica".
La decisione della Corte Ue ha subito suscitato l'ira del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. "Hamas è un'organizzazione terroristica e assassina il cui programma prevede la distruzione dello Stato di Israele", ha commentato Netanyahu, che si è detto "insoddisfatto dalle spiegazioni europee". La Corte ha comunque sottolineato che la decisione "non implica alcuna valutazione di fondo sulla qualifica di Hamas come movimento terroristico".

(RaiNews24, 17 dicembre 2014)


"E' una sentenza legale, non una decisione politica", dice la Mogherini. Questo le permetterà, come "Alto Rappresentante" dell'Unione Europea, di trattare con i terroristi di Hamas come se non fossero terroristi. Essendo formalmente fuori dalla lista dei "terroristi", saranno soltanto le loro azioni ad essere considerate, forse, in qualche caso, leggermente tendenti al terrorismo. Cosa che comunque non avverrà mai, perché a vedere il terrorismo in Hamas ormai c'è rimasto soltanto Israele. E si sa, gli israeliani.... La Mogherini non ha soltanto incontrato Arafat, ha imparato da lui ad usare il linguaggio biforcuto. M.C.


In manette il leader di «Levahà». Il gruppo aveva incendiato una scuola araba

GERUSALEMME - A due settimane da un incendio doloso in una scuola araboebraica di Gerusalemme, sono finiti in manette i leader del gruppo dell' estrema destra ebraica Lehavà (Fiamma).
Nella notte tra lunedì e martedì la polizia ha fatto irruzione in Israele e in Cisgiordania nelle abitazioni di dieci esponenti del gruppo arrestando, fra gli altri, il leader Ben-Zion Gopstein. Nei giorni scorsi tre aderenti a Lehavà erano stati incriminati per l'attacco notturno alla scuola. I tre - Yìtzhak Gabbai (22 anni), Shlomi Twito (20) e Nahman Twito (18) - hanno giustificato il gesto come una «punizione» verso l'istituto «colpevole di aver organizzato una cerimonia commemorativa di Yasser Arafat», Gopstein, allievo del rabbino xenofobo Meir Kahana assassinato negli anni Novanta in Usa da un estremista islamico, ama ripetere che gli arabi sono nemici giurati di Israele. A suo parere occorre impedire che lavorino in zone abitate da ebrei e scoraggiare le loro unioni matrimoniali con donne ebree.

(Avvenire, 17 dicembre 2014)


Pallavolo - Energy T.I Diatec Trentino gioca stasera contro il Maccabi-Tel Aviv

Nemec e Sole fermano a muro Kudriasovs del Maccabi nel match di andata.
Si giocano stasera e domani sera le gare di ritorno degli ottavi finale di 2015 CEV Cup, la seconda competizione continentale per club in ordine di importanza.

L'ENERGY T.I. Diatec Trentino si appresta a disputare la seconda gara europea in trasferta della sua stagione: stasera 17 dicembre, alla Hadar Yosef National Sports Center di Tel Aviv sfiderà a domicilio i padroni di casa del Maccabi, già superati al PalaTrento per 3-0 due settimane fa. Fischio d'inizio alle ore 18 italiane, con diretta su Radio Dolomiti.

QUI ENERGY T.I. DIATEC TRENTINO - Per proseguire la propria corsa europea, continuando così ad ambire ad un altro risultato internazionale di prestigio, la formazione gialloblù deve necessariamente vincere due set in terra israeliana.
L'impresa non sembra impossibile, vista la differenza di livello fra le due formazioni emersa nel match d'andata ma ovviamente Radostin Stoytchev predica prudenza anche pensando che tale appuntamento arriva pochi giorni prima del big match con Modena di domenica e subito dopo la lunga trasferta a Sansepolcro nel decimo turno di SuperLega.
"Dobbiamo completare l'opera già iniziata nel match d'andata evitando cali di concentrazione - spiega l'allenatore bulgaro -. Per noi sarà importante dimenticare il risultato maturato al PalaTrento e fare il nostro dovere sin dal primo pallone: solo così si può pensare di ottenere la qualificazione e fare passi avanti in una manifestazione come questa a cui teniamo molto. Sono convinto che la gara di domani sarà sicuramente più difficile, ai ragazzi chiedo la massima determinazione perché non tutto è così scontato come può sembrare".
L'allenatore della Trentino Volley potrà contare su tutti gli effettivi a propria disposizione, ad eccezione di Thei che è rientrato a Trento già domenica sera non potendo andare a referto (la CEV ammette in lista solo dodici giocatori e la scelta di Stoytchev è stata quella di proporre una rosa con quattro schiacciatori e tre centrali).
Se la partita dovesse incanalarsi sui binari graditi, con tutta probabilità troveranno poi spazio in campo molti giocatori giovani, come già successo nella gara d'andata.

PRIMA TRASFERTA GIALLOBLU' DI SEMPRE A ISRAELE - Quella che ha preso il via ieri e si concluderà giovedì nel tardo pomeriggio col rientro in Italia via Milano è la prima trasferta di sempre a Israele della Trentino Volley, che così grazie alla 2015 CEV Cup ha messo piede nella tredicesima nazione europea differente in dieci anni di attività internazionale.
In totale la Società di via Trener ha affrontato già quarantuno trasferte europee (di cui trentacinque solo in Champions League), cogliendo in ben trentadue circostanze la vittoria. La gara a Tel Aviv sarà la centoduesima internazionale della storia gialloblù (bilancio: 84 vittorie, 17 sconfitte).

GLI AVVERSARI - Il Maccabi di Tel Aviv ospita per la terza volta nella propria storia una compagine italiana sul proprio campo; in precedenza durante le precedenti partecipazioni alla Challenge Cup (disputata senza soluzione di continuità fra 2009 e 2014) aveva infatti sfidato Treviso (2009) e Macerata (2011) venendo estromessa proprio in tale occasione dalla competizione. Il risultato continentale di maggior rilievo è rappresentato dall'accesso ai quarti di finale nelle edizioni 2012 e 2013 di Challenge, eliminata prima da Liberec e poi dal Constanta. Per provare a centrare un traguardo simile dovrà però davvero dimostrare essere tutt'altra squadra rispetto a quella vista dodici giorni fa al PalaTrento.
Calcio e basket sono i settori sicuramente più noti del Club, una delle polisportive più importanti d'Israele, ma anche la compagine di pallavolo ha alle spalle una lunga tradizione; nel proprio palmares può vantare infatti ben undici titoli nazionali e quattro coppe di Israele.
Negli ultimi anni ha però vinto meno perché la Società ha deciso di puntare, di comune accordo con Zohar Bar Netzer (ex giocatore che ricopre il doppio ruolo essendo anche il commissario tecnico della Nazionale), su giovani talenti che in prospettiva potranno garantire grandi soddisfazioni.
Subito dopo la sconfitta patita in Italia il 4 dicembre, il Maccabi ha disputato due partite nella Premier League Israeliana concludendole sempre al tie break: sconfitta con il Menashe Hadera Hefer il 9 dicembre e vittoria con l'Hapoel Kfar Saba il 12 dicembre. In classifica i gialloblù sono al secondo posto con 21 punti frutto di sette vittorie in nove incontri.
La rosa del Maccabi Tel Aviv: 1. Vasily Poylov (c), 2. Fernando Corenstein (p), 4. Yaroslav Gessen (c), 5. Omri Shwartz-Shmoel (l), 6. Bernal Abel (s), 7. Nir Cohen (p), 8. Aleksandrs Kudriasovs (s), 10. Keinan Kopech (o), 11. Guy Ben Gal (o), 12. Josef Piovarci (o), 13. Ziv Shemesh (l), 14. Raviv Shachar (s), 18. Genadi Sokolov (c). Allenatore Zohar Bar Netzer.

ENERGY T.I. DIATEC TRENTINO QUALIFICATA AI QUARTI SE… Per superare il secondo turno del tabellone alla compagine gialloblù serve vincere due set nella gara di domani sera; grazie al successo nel match d'andata per 3-0, i gialloblù potranno infatti perdere anche al tie break per evitare l'ipotesi golden set con il Maccabi, che si giocherà quindi solo in caso di vittoria al massimo in quattro set dei serbi. Il regolamento è infatti identico a quello utilizzato nella fase dei Playoffs 12 di CEV Champions League. Chi supererà il turno affronterà la vincente della sfida fra SMCU Craiova e Kecskemet Rc (il ritorno si gioca stasera dopo la vittoria dei rumeni in trasferta per 3-0 nel match d'andata).

(la VOCE del Trentino, 17 dicembre 2014)


Israele proiettato verso il turismo leisure

Gerusalemme e Tel Aviv: due città che rappresentano i mille volti di Israele, destinazione sempre più interessante anche per il turismo leisure, passato dal 25% nel 2007 al 63% dello scorso anno. «Accanto ai pellegrinaggi, che restano comunque un punto di forza della destinazione - ha puntualizzato la direttrice dell'ufficio nazionale israeliano del turismo in Italia, Avital Kotzer Adari - stanno prendendo piede altre forme di turismo, interessate a scoprire gli aspetti legati ad arte, storia, tradizioni, architettura, design, enogastronomia e benessere, tutti ben rappresentati in un Paese che grazie alle ridotte dimensioni consente spostamenti molto rapidi. Gerusalemme e Tel Aviv, in particolare, rappresentano meta ideale di city breaks, grazie alla vicinanza all'Italia e agli ottimi collegamenti aerei». Ne è un esempio la speciale tariffa proposta da El Al segnalata da Aurora Mirata, district manager North Italy della compagnia, che garantisce, acquistando un biglietto entro il 22 dicembre, di volare a 175 euro tutto compreso su Tel Aviv da Milano o Roma durante il mese di gennaio.

(Travel Quotidiano, 17 dicembre 2014)


Da Tel Aviv a Berlino, in Germania sempre più startup israeliane

di Andrea D'Addio

Trasferirsi da Israele a Berlino. Per viverci e fare business. Sarebbe stato difficile immaginarlo nel 1948, anno di fondazione dello stato ebraico, è invece storia sempre più frequente oggi. Ad ottobre la pagina Facebook Olim Le-Berlin (immigrati a Berlino) con più di 20mila like invitava i suoi lettori a trasferirsi nella capitale tedesca con lo slogan "Immigriamo a Berlino, dove il cibo costa meno e l'antisemitismo non c'è" (riportava la traduzione di La Stampa). Il fascino che la capitale tedesca esercita in questi anni è un fenomeno internazionale, ma se è vero che altrove - in Occidente - la crisi generale obbliga i giovani a guardarsi intorno e a cercare possibili vie di fuga verso paesi con maggiori opportunità di lavoro, l'economia israeliana si prepara a registrare una crescita complessiva quest'anno del del 3.3% (stime di Moody's) ed una disoccupazione intorno al 6.4% (fonte: tradingeconomics). Non c'è più il timore dell'antisemitismo, non almeno più di quanto non ci sia verso tanti altri paesi occidentali. Una situazione che sta convincendo anche diversi giovani imprenditori che qui hanno voluto aprire sedi delle proprie startup israeliane. "Ci siamo resi conto che la Germania ha un enorme potenziale e che, differentemente dagli Stati Uniti, qui non abbiamo concorrenza. Non è tutto. Qui riesco ad incontrare facilmente gli amministratori delegati di aziende già affermate: succederebbe la stessa cosa negli States?" si chiede durante un'intervista alla Deutsche Welle Moshe Bar-Oz, fondatore della start-up israeliana ShopEat, creatrice di un'originale app per food blogger.
   Sulla stessa falsariga si sviluppa la scelta di trasferirsi a Berlino di Lior Wayn, fondatore di Emerald Medical Applications un sistema per tracciare e monitorare cellule tumorali ai loro stadi iniziali attraverso uno smartphone o una camera digitale (in futuro si vorrebbero utilizzare i Google Glass): "Qui è tutto più accogliente ed economico". Per Eli Ken-Dror, amministratore delegato e co-fondatore di Vicomi, una compagnia che sviluppa strumenti per l'identificazione dei sentimenti dell'utente online, "Differentemente dagli americani, i tedeschi sono affamati di nuove tecnologie. Avere una base a Berlino è logico. È il centro d'Europa e non è lontano né da Israele né dalle altre città importanti del continente".
   C'è addirittura un magazine berlinese completamente in ebraico, Spitz, con una speciale sezione dedicata alle startup. A portare qui la propria voglia di innovare non sono però solo imprenditori. Anche altri professionisti israeliani dell'ambito digitale hanno deciso di fare della Germania la propria destinazione di vita come dimostra il forum su facebook Germany-Israel Hi Tech Forum, dove è facile trovare offerte di lavori per sviluppatori, responsabili Seo e molte altre figure professionali. Si fa "gruppo" e per proporsi per l'incarico non importa sapere parlare ebraico, in molti casi si condividono solo informazioni su offerte di ditte tedesche con la speranza che qualche connazionale trovi nella Germania la risposta al proprio futuro. Idea innovativa, startup di un pensiero di cui ci auguriamo tutti il successo.
   
(Wired, 16 dicembre 2014)


La luce di Israele, che non si lascia spegnere

di Ugo Volli

Cari amici,
 
La hanukkiah
 
Giuda Maccabeo per i bambini
questo pomeriggio al tramonto inizia la festa ebraica di Hanukkah. Gli ebrei accendono una luce su un candeliere (in realtà due, ma una è solo di servizio) e recitano una preghiera di ringraziamento per i miracoli compiuti in loro favore "in quei giorni, in questo periodo". Si allude a duemila anni fa, come vedremo, ma il testo si può leggere facilmente come riferito anche a oggi: in quei giorni, in questo tempo. Domani le luci saranno due, dopodomani tre, fino a otto, quando dopo una settimana si conclude la festa. L'episodio cui ci si riferisce è una sconsacrazione del Tempio di Gerusalemme compiuto dai "greci" o piuttosto gli ellenizzanti che dominavano su Israele nel secondo secolo prima della nostra era; ci fu una rivolta popolare che cacciò gli invasori e intese restaurare il culto nel Tempio secondo le regole; ma perché questo avvenisse la prima cosa da fare era riaccendere il lume perenne che ne connotava la funzione. Sennonché per il lume poteva essere usato solo un olio particolarmente puro, che era stato tutto contaminato dagli idolatri; alla fine se ne trovò solo un'ampolla, buona per una giornata al massimo, mentre ce ne volevano otto per prepararne adeguatamente di nuovo; ma l'olio miracolosamente durò il tempo necessario.
   Fin qui il racconto miracoloso, che è facile interpretare metaforicamente come la sopravvivenza della piccola luce dell'ebraismo anche quando sembrano mancare le condizioni materiali per la sua sopravvivenza. Ma quel che interessa qui sottolineare è che questo racconto del miracolo è l'episodio marginale e allusivo che resta nella liturgia ebraica di un momento decisivo e esemplare, la guerra, in buona parte guerra civile che fu combattuta in quegli anni intorno alla prospettiva dell'assimilazione della provinciale e localistica cultura ebraica alla civiltà globalizzata del tempo, quella dell'ellenismo. Senza entrare nei dettagli sui singoli personaggi, ci fu da parte dei governanti d'allora, eredi dei generali di Alessandro Magno o loro collaboratori locali, una pressione violenta per estirpare gli usi e le tradizioni ebraiche, la forma di vita di Israele. Di qui la rivolta guidata dai Maccabei che riuscì a ristabilire uno stato ebraico autonomo fino all'invasione romana. La festa non si incentra su questo, forse perché il nuovo regno degli Asmonei divenne in breve altrettanto ellenizzante dei "greci" rovesciati; per questa ragione i libri dei Maccabei che rievocano la rivolta non sono entrati nel canone ebraico.
   Ma nella festa, in quella luce esile di un lume che via via si fa più forte e capace di vincere il buio, la riconquista dell'autonomia è ricordata. Ed è un fatto storico decisivo perché per la prima volta non era in gioco tanto la vita e la libertà fisica dei singoli ebrei, quanto la loro identità collettiva, la sopravvivenza culturale. Gli oppressori non volevano sterminare il popolo ebraico: solo raramente l'antisemitismo assume chiaramente la forma eliminazionista di Aschwitz, spesso quel che vuole è "cambiare la testa", convertire, assimilare gli ebrei, togliere loro quella "perfida ostinazione" che impedisce loro di vedere la bellezza dell'Ellenismo, o del Cristianesimo, o dell'Islam, o del Marxismo o della moderna religione universalista. Naturalmente per eliminare il particolarsimo ebraico un po' di coercizione ci vuole proprio per quel carattere ostinato di cui si lamentavano i padri della Chiesa e Lutero, Voltaire e Kant e Maometto, Marx e oggi i saggi burocrati di Bruxelles; e dunque le sante e benintenzionate campagne di conversione e di incivilimento sono sempre più o meno violente, la scelta è fra mangiare maiale e morire arrostiti come si racconta dei fratelli Maccabei; fra il battesimo e il rogo, come capitò tanto spesso in Europa dalle Crociate alla Spagna dell'Inquisizione, fra la dichiarazione di fede islamica e il coltello del macellaio, fra la fede marxista e la Siberia.
   Hanukkah festeggia la prima vittoria ebraica su questi ricatti: una vittoria che consiste nel sopravvivere non solo individualmente ma collettivamente, non solo fisicamente ma culturalmente. Di ricatti del genere ce n'è stati continuamente nei 22 secoli che sono passati da quella rivolta. E ancora oggi si discute se lo stato di Israele abbia il diritto di voler essere ebraico o se bisogni cercare di cancellare l'anomalia di quella stella di Davide in mezzo a decine di bandiere con la croce o con la mezzaluna. Il punto è questo: mantenere viva la scintilla, farla durare molto più di quanto non si crederebbe, non perdere l'identità, mantenersi saldi. Perché in ebraico la fede (o fiducia, o fedeltà) si dice emunà, che in primo luogo vuol dire saldezza, se volete ostinazione. E alle lodi di Dio (quelle berakhot che si usano tradurre impropriamente con benedizioni), si risponde "amen", che non vuol dire tanto "acconsento", quanto "sono saldo" o se volete "mi ostino". Ad essere me stesso, in primo luogo, a mantenere il mio rapporto con la mia storia, col mio popolo e col nostro incontro col Divino.
   Per questo auguro ai miei amici Hanukkah sameach, buona Inaugurazione (questo è il significato della parola Hanukkah: inaugurazione, consacrazione, nel senso di riapertura del tempio). Una inagurazione che conserva, perpetua e rinnova, che non cessa di splendere, come "in questi tempi" fa Israele.

(Inviato da Deborah Fait, 16 dicembre 2014)


Tel Aviv e Pechino in luna di miele

di Michelangelo Cocco

Israele e la Repubblica popolare non sono mai stati così vicini. Lo scambio innovazione tecnologica-mercati di sbocco gioca un ruolo fondamentale in un'amicizia alla quale il premier Netanyahu ha impresso una forte accelerazione. Il sostegno maoista all'OLP di Arafat sembra uno sbiadito ricordo del passato. Eppure nella politica estera di Pechino, oltre agli interessi economici, dovrebbe pesare anche il suo interesse per un Medio Oriente pacificato. Xi e compagni sapranno inventarsi per il conflitto israelo-palestinese soluzioni diverse da quelle, fallimentari, messe in campo finora dagli Usa?
    "L'idea che la Cina diventi 'parte del Medio Oriente', che possa giocare in futuro un ruolo importante nella politica estera e di sicurezza nazionale di Israele non è stata ancora assimilata… per Israele, e anche per gli Stati Uniti, non è chiaro che cosa farà la Cina, come i suoi interessi potranno accordarsi a quelli americani, e in che modo esattamente Israele troverà posto in questo quadro".
Le parole di Yoram Evron - ex direttore del "Programma Cina" dello Institute for national security studies di Tel Aviv -, pronunciate in chiusura di un dibattito organizzato mesi fa da Brookings, riassumono le incognite sollevate dall'attivismo di Pechino in un'area (dall'Iran all'Egitto, dalla Turchia all'Arabia saudita) sulla quale il conflitto israelo-palestinese trasmette da decenni i suoi scossoni....

(cinaforum, 16 dicembre 2014)


Il terrorismo visto da Israele

di Daniel Reichel

"Il terrorismo islamico internazionale non consce confini, per questo lo sforzo contro di lui deve essere globale". Nel mandare ieri le sue condoglianze al primo ministro australiano Tony Abbot, il premier israeliano Benjamin Netanyahu - a Roma per incontrare il presidente del Consiglio Matteo Renzi e soprattutto il segretario di Stato Usa John Kerry - aveva ricordato al mondo che il terrorismo, quello di Al Qaeda, quello dell'Isis come quello talebano, non si pone limiti. E dopo i tragici fatti di Sydney, in cui un uomo di origini iraniane ha tenuto in ostaggio diverse decine di persone rivendicando la sua vicinanza all'Isis (il bilancio sarà di due vittime tra gli ostaggi e l'uccisione dell'attentatore), oggi un'altra notizia sconvolge il mondo: un commando di talebani è entrato questa mattina in una scuola, ha aperto il fuoco contro i bambini. Per vendetta ha ucciso oltre 100 giovani studenti, per vendetta ha compiuto un'efferata strage. E il mondo guarda in queste ore le terribili immagini dell'attentato, dopo aver assistito ieri alla follia di Sydney. I due attentati sono diversi ma hanno la stessa matrice, il fondamentalismo che, come raccontano le cronache dai territori sotto la tirannia dell'Isis, dà la licenza a ciascuno di uccidere.
   Sul quotidiano Israel Hayom, il giornalista Boaz Bismuth sottolinea come sia oramai facile acquistare questa licenza assassina "basta avere una bandiera nera", in riferimento alla richiesta dell'attentatore in Australia, Man Haron Monis, di avere una bandiera del movimento delle milizie di Abu Bakr Al Baghdadi. "Il leader dello Stato islamico Al Baghdadi - scrive su Yedioth Ahronoth l'analista Ben Dror Yemini, spiegando come il terrorismo di matrice islamica sia collegato a livello internazionale - ha detto diverse volte in queste settimane che il suo piano è conquistare Roma. Perché Roma? Ce lo spiega Yunis al-Astal, membro del parlamento palestinese legato a Hamas, e lo fa persino prima delle dichiarazioni dell'Isis su Roma: deve essere conquistata perché 'è la capitale dei cattolici e dei crociati'". "Tutte le fermate portano a Roma - conclude Yemini - anche quella di Sydney". "Il vero pericolo - scrive un'altra autorevole firma di Yedioth Ahronoth, Ron Ben Yishai - che pone lo Stato Islamico è questo: non è la sua forza militare a doverci tenere svegli la notte, ma la brutale ispirazione islamica radicale che infonde nei musulmani, in particolare quelli giovani, nel mondo".
   "La maggior parte dei musulmani - tiene a precisare Ben Dror Yemini - non sono dei fan della jihad. Il problema, come al solito, è con una minoranza radicale, che sta cercando di imporre un incubo. Il problema è che questa minoranza agisce". Non solo questa ispirazione islamica deviata, prodotta dall'Isis così come da altri movimenti di integralismo islamico, non ultimo Hamas (che Netanyahu più volte ha paragonato alla violenza del Califfato), ha generato un fenomeno difficile da fermare, sottolinea su Haaretz Ashel Pfeffer, "questa jihad fai fa te - scrive l'analista in riferimento a Sydney ma nella definizione rientrano anche i nuovi attacchi terroristici in Israele, con singoli armati di coltello o a bordo di auto che si lanciano contro i civili israeliani - è molto più difficile da prevedere per le autorità e quindi da contrastare".
   Una jihad fai da te che ieri ha colpito duramente l'Australia, facendo vacillare il suo senso di sicurezza. "Il giorno in cui siamo cambiati per sempre", titolava un quotidiano australiano su cui però sono piovute molte critiche da parte dell'opinione pubblica. L'attentatore di Sydney era uno squilibrato, non si può generare il panico a causa di un folle, l'accusa rivolta al giornale. Quanto accaduto oggi in Pakistan però non era il gesto di un singolo.

(moked, 16 dicembre 2014)


Israele ha un nuovo capo dell'esercito. Per la guerra a Hezbollah

Quanto all' Iran, il nuovo capo di Tsahal dice: "Attaccheremo se saremo con la spada alla gola". Intanto Israele si prepara al nuovo conflitto con i terroristi libanesi che "potrebbero conquistare un pezzo di Israele" . Quei 100 mila missili che possono raggiungere ogni angolo dello stato ebraico

 
Il generale Gadi Eizenkot
ROMA - Il generale Gadi Eizenkot è famoso per avere detto di "vedere Nasrallah in ogni libanese". E al capo dei terroristi di Hezbollah, il nuovo capo di stato maggiore di Israele ha dedicato anche la propria tesi di dottorato. Il titolo è "Entrare nella mente del nemico". E se c'è qualcuno che conosce meglio di chiunque altro in Israele il nemico libanese quello è Eizenkot, nominato domenica nuovo ramatkal, chief of staff, dal premier Benjamin Netanyahu. Yedioth Ahronoth commenta: "Eizenkot è lo specialista del Libano e di Hezbollah".
   Come soldato, Eizenkot, che a dispetto del nome ashkenazita è figlio di ebrei marocchini, si è fatto le ossa nella brigata Golani schierata nelle Shebaa Farms, prima di diventare il comandante del fronte nord. Eizenkot il comando d'Israele l'ha ricevuto dalle mani di un altro veterano del nord, Benny Gantz, che nel 2000 chiuse la "porta di Fatima", il go od fence da cui per anni erano passate merci e medicinali tra Israele e Libano, l'eroe del Battaglione 890 che prese parte alle più difficili operazioni militari della campagna del Litani (fu allora che Gantz venne soprannominato anche "Benny Huta" , Benny il rilassato). Durante la guerra del 2006 contro Hezbollah, fu Eizenkot che scrisse la "dottrina Dahiya", dal nome del quartiere meridionale di Beirut bombardato a tappeto dall'aviazione israeliana per fermare i lanci di missili di Hezbollah (lì si nasconde anche Hassan Nasrallah). Una dottrina usata da Israele anche nell'ultima guerra con Hamas, la scorsa estate. "Quello che è successo a Dahiya succederà a 160 villaggi sciiti libanesi da cui si spara contro Israele", ha scandito Eizenkot. "Applicheremo una forza sproporzionata e causeremo grandi danni. Non ci sono villaggi civili, ma basi militari. Non è una teoria, ma un piano approvato dal governo".
   Una visione militare fatta propria questa settimana anche dal colonnello Gabriel Siboni, in un paper dell'Institute of National Security Studies di Tel Aviv, secondo cui prima ancora dei missili Israele deve colpire "gli interessi economici" del nemico. Eizenkot non ha fatto carriera con la politica, ma con un basso profilo da combattente. "Tutto quello che ha fatto l'ha fatto con le sue due mani", ha detto un generale della riserva suo amico. Con l'arrivo del "generale del fronte nord", Israele si prepara alla terza guerra con Hezbollah. Iron Dome, il sistema antimissile che ha lavorato bene durante i cinquanta giorni di conflitto con Hamas, è in corso di ricalibrazione per i missili di Hezbollah. Almeno centomila secondo analisti della Kirya, il Pentagono israeliano. Durante la guerra con Hamas, un singolo missile caduto a due chilometri dall'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv ha provocato la chiusura dello spazio aereo israeliano per trentatré ore. Come ha spiegato il maggiore Giora Romm, nella guerra con Hezbollah si pensa di convogliare i voli in arrivo nell'aeroporto meridionale di Eilat, oggi usato come scalo turistico. Israele sta testando un altro sistema antimissile dal nome biblico, "la fionda di Davide".

- Tunnel che sbucano in Galilea
  Ma la preoccupazione principale di Eizenkot sono i tunnel che si teme Hezbollah abbia scavato dal territorio libanese fin dentro la Galilea israeliana. Israele scoprì l'esistenza dei tunnel di Hezbollah nel 2006, domandandosi perché i raid dell'aviazione non infliggessero abbastanza perdite. Allo stesso modo, l'intelligence israeliana teme che Hezbollah pianifichi "l'invasione della Galilea" attraverso una rete di tunnel simile a quella usata da Hamas a Gaza. Un mega bunker nel 2006 venne scavato dagli Hezbollah presso Naqura, a soli quattrocento metri dal confine con Israele. In ogni postazione di Hezbollah c'erano docce, gabinetti, aria condizionata e uscite di emergenza.
Oggi Israele teme che Hezbollah voglia cercare di conquistare un pezzo di territorio israeliano, un cuscinetto al confine che protegga i terroristi dalle incursioni israeliane. Gli Hezbollah hanno in dotazione un nuovo razzo dalla gittata di sette chilometri, noto come "Burkan", con una testata potenziata. Con questa arma, in caso di guerra, gli Hezbollah cercherebbero di colpire a tappeto i villaggi e le basi militari israeliane disposte lungo il confine e costringerebbero all'evacuazione la popolazione civile. Ieri, parlando con l'emittente Arutz Sheva, lo storico militare Aryeh Yitzhaki ha detto che "la guerra con Hezbollah è imminente".

(Il Foglio, 16 dicembre 2014)


Rachel Netanel, un vulcano evangelistico

Rachel Netanel
Una delle più avvincenti relazioni presentate all’ultimo convegno di EDIPI a Catania è stata quella di Rachel Netanel, figlia di ebrei marocchini immigrati in Israele nel 1948. Rachel è arrivata alla fede in Gesù, che lei nomina sempre nella forma ebraica "Yeshua", circa quindici anni fa, in età già adulta, e da quel momento è diventata una propagatrice fervente del messaggio di salvezza evangelico. Le esperienze che ha fatto e tuttora sta facendo in Israele, trattando indifferentemente con ebrei e arabi, sono per noi davvero fuori del comune, e testimoniano della grandezza imprevedibile del nostro Signore. Riportiamo qui l’audio della conferenza. E’ abbastanza lungo a causa della traduzione, ma conviene ascoltarlo tutto, anche perché l’inglese di Rachel è abbastanza comprensibile.


(Notizie su Israele, 16 dicembre 2014)


Da Lutero a Heidegger le radici filosofiche dell'antisemitismo

di Alessandra Iadicicco

Capita ancora oggi che la filosofia faccia sensazione. Non è la prima volta che attorno a Martin Heidegger si crei lo scandalo. La news sensazionale di quest'anno è la pubblicazione dei suoi Quaderni neri. Che sono usciti la scorsa primavera in Germania in anticipo sui tempi che Heidegger stesso aveva stabilito, prevedendone la pubblicazione a conclusione della sua monumentale opera omnia. E che, con le loro dichiarazioni antisemite, non certo cadute inavvertitamente dalla penna nell'ambito di una scrittura privata, ma profondamente incardinate nel sistema del pensiero dell'essere, hanno gettato scompiglio nelle opinioni pubbliche.
In Italia i tre volumi del testo usciranno entro il 2015 da Bompiani. Ma già sono disponibili un paio di saggi utili a inquadrare il problema. Sono appena usciti dalle edizioni Ets gli atti di una giornata di studio tenutasi a Pisa in luglio, con gli interventi di studiosi internazionali, da Peter Trawny, curatore degli Schwarze Hefte in Germania, a Jestìs Adrìàn Escudero, a Dean Komel a Alfredo Rocha De La Torre: Metafisica e antisemitismo, a cura di Adriano Fabris. Ma un testo imprescindibile per capire a fondo un nodo filosofico tanto oscuro è quello che Donatella Di Cesare, ordinario di teoretica alla Sapienza di Roma, ha scritto per Bollati Boringhieri: Heidegger e gli Ebrei.
È un libro coraggioso. Di notevole spessore teorico, perché, al di là del clamore scatenato intorno all'affare-Heidegger, punta dritto al cuore della questione: là dove, nel pensiero di Heidegger, la questione dell'essere incrocia la questione ebraica. Mette in luce con chiarezza - sorprendente rispetto alla ben nota oscurità della prosa heideggeriana, in cui pure sapientemente si addentra per interpretare -le radici filosofiche dell'antisemitismo del pensatore tedesco, intrecciate a una fitta tradizione che risale, in Germania, almeno a Lutero. Soprattutto si guarda bene dal pronunciare condanne o assoluzioni - come Di Cesare, dalla sua posizione di vice presidente della Heidegger-Gesellschaft e membro della comunità ebraica di Roma, poteva essere portata a fare - e si propone solo di fornire tutti gli elementi per capire.

(La Stampa, 16 dicembre 2014)


Al valico di Kerem Shalom, 'porta' per Gaza

Così le merci da e per la Striscia passano il confine

di Patrizio Nissirio

KEREM SHALOM (Confine tra Gaza ed Israele) - Visto da lontano, quell'insieme di mura in cemento armato, nella località israeliana di Kerem Shalom, sembra un parente minore del più noto muro che separa la Cisgiordania da Israele.
   Avvicinandosi però mostra la sua vera struttura: una serie di recinti altissimi in cemento, sorvegliati da pattuglie armate fino ai denti, con cani e telecamere. Benvenuti al valico di Rafiah, porta per tutte le merci che entrano ed escono da Gaza. Da qui, sotto l'occhio vigile della sicurezza israeliana passa di tutto. O quasi: dai materiali per le costruzioni, ai pomodori, al gas per far funzionare i fornelli, e persino mobili costruiti dai palestinesi della Striscia.
   Ad accoglierci arriva Ami Shaked, età tra i 50 e i 60, piccolo e massiccio, con i capelli bianchi, una pistola alla cintura e una vistosa cicatrice sul collo. "Abbiamo aperto questa operazione nel 2008, quando il ministero della Difesa ha deciso di gestire la minaccia dei materiali che potevano essere usati per costruire razzi o armi. Possiamo gestire fino a 800 camion al giorno, ma al momento non ne passano più di 400, in ambo le direzioni", spiega Ami, ricordando che "qui si è lavorato anche mentre ci sparavano contro".
   Il meccanismo è complesso ma ormai rodato: i camion che arrivano da Israele vengono fatti entrare in una della nove "scatole" di cemento armato, ognuna dedicata ad un tipo di merce. Il personale - 150 persone in tutto lavorano al valico - setaccia minuziosamente ogni carico. Quando viene dato il via libera (anche mentre incontra i giornalisti Ami parla in continuazione anche sulla sua radio, per dare istruzioni), il recinto viene abbandonato dagli israeliani, e dalla porta che dà verso Gaza arrivano i camion dei palestinesi che caricano le merci "autorizzate". Poi la porta si richiude. Così per ogni singolo camion, per ogni singolo pallet, con cani, scanner ed anche a mano. Prima dell'ultima offensiva a Gaza, molte merci passavano comunque dai tunnel, ma sia Israele, sia l'Egitto del presidente Abdal Fattah Al-Sisi, ne hanno distrutti a centinaia negli ultimi mesi.
   Gaza esporta anche qualcosa, spiega, per esempio mobili: "Ma chi si compra i mobili fatti a Gaza?", chiediamo. Ami risponde con una punta di sarcasmo: "Non è business, è politica". Poi spiega che non ci sono contatti di alcun tipo con Hamas, che governa a Gaza, ma solo con le operazioni umanitaria dell'Onu e qualcuno con funzionari dell'Anp. Ami spiega per sommi capi come sia arrivato a fare questo lavoro duro e non privo di rischi: "Lavoravo nella sicurezza, e a 45 anni sono andato in pensione.
   Qualche anno dopo mi hanno richiamato".
   In questa tormentata landa di confine (Kerem Shalom vuol dire, ironicamente, 'il vigneto della pace'), non c'è solo la barriera tra Israele e Gaza, ma anche quella con l'Egitto. Poco distante, la strada per il valico di Rafah è chiusa da blocchi di cemento, con le erbacce che crescono sull'asfalto: il Cairo lo ha bloccato "sine die" dopo la creazione di una zona cuscinetto sul confine con Gaza. E a ricordare la fragilità di questi confini, nella campagna si erge anche il monumento ai caduti della 'Divisione d'acciaio' israeliana, la 84.ma, durante la Guerra dei Sei Giorni. Sorgeva a Yamit, nel Sinai, ma fu trasferito qui dopo il ritiro israeliano dalla penisola. Dalla sua sommità Israele, Egitto e Gaza appaiono placide.

(ANSAmed, 16 dicembre 2014)


Festa di Chanukkah alla Comunità Ebraica di Casale Monferrato

Inizia domenica 21 alle 16 in Sala Carmi - Alle 17 l'accensione del sesto lume.

 
Casale Monferrato - Sinagoga
CASALE MONFERRATO — Ancora prima degli auguri di Natale i Casalesi amano farsi quelli di Chanukkah alla Comunità Ebraica della loro città. Quest'anno poi, per le caratteristiche del calendario Ebraico, la festa delle luci cade veramente a ridosso di Natale e così tutta la città è invitata in vicolo Salomone Olper domenica 21 dicembre (sesto giorno di Chanukkah) per un momento di gioia indipendente dalle proprie confessioni religiose. Dagli anni '80 infatti l'abitudine di celebrare tutti insieme le lampade di questa festa ebraica si è diffuso nel mondo e la piccola comunità ebraica monferrina ne ha fatto un momento ecumenico in cui le Chanukkioth, i candelabri a 8 braccia (più una lo shammash che serve ad accendere tutte le altre), simbolo di questa festa, sono accesi da amici appartenenti alle principali fedi monoteiste del Mondo. Abbiamo così visto con lo shammash in mano cattolici, valdesi, avventisti e naturalmente anche rappresentanti del mondo islamico. Del resto la festa ricorda un miracolo avvenuto nel IV secolo dell'era antica in cui dopo la devastazione delle truppe macedoni il tempio di Gerusalemme è stato riconsacrato grazie ad un olio che si è moltiplicato durando 8 giorni invece che uno. Se non ci fosse stato quell'intervento divino, il Mondo di oggi avrebbe potuto essere molto diverso.
  E poi c'è naturalmente l'aspetto peculiare della Chanukkà casalese: quello artistico grazie al Museo dei lumi: la straordinaria raccolta, di Channukkiot collocata nei locali sotto la Sinagoga che comprende ormai 166 lampade realizzate dai più grandi nomi dell'arte contemporanea e che ogni anno di questo periodo accoglie le nuove acquisizioni e presenta i loro autori.
  Domenica 21 la festa comincia alle 16,00 in Sala Carmi con un'inaugurazione dedicata proprio agli artisti che hanno creato un'opera appositamente per il Museo. Quest'anno l'onore di una mostra personale spetta a Marco Zanuso jr architetto e designer milanese di fama che al museo ha donato un candelabro in un materiale straordinario: vetro borosilicato soffiato e interamente sagomato a mano. All'interno della mostra troveremo anche le altre opere destinate al museo e conosceremo i loro autori: Gianmario Albiati, Alessandro Riccardo, Roberto Maria Bogo, Rosanna Forino, Giorgio Laveri, Ornella Marino, Walter Morando, Stefano Valabrega e Alice Werblowsky
  Alle ore 17,00 nel vicino Cortile delle Api la cerimonia vera e proprio con l'accensione del sesto lume di Channukka da parte di tutti gli ospiti. La cerimonia sarà accompagnata dalle suggestive note del Coro Ghesher diretto da Erika Patrucco.
  Poi tutti ad accendere le lampade sparse in ogni angolino del Cortile delle Api cosa gradita non solo agli ospiti, ma anche ai tanti bambini che partecipano ogni anno a questa festa.
  L'ingresso è libero Per informazioni 0142 71807 www.casalebraica.org

(Il Monferrato, 15 dicembre 2014)


Scuola, una rete europea per l'educazione alla Shoah

ROMA - 'Stabilire una rete europea per l'insegnamento sull'educazione alla shoah' é il titolo e l'obiettivo del simposio europeo promosso dal ministero dell'Istruzione, l'istituto Yad Vashem di Gerusalemme e l'Unione delle comunità ebraiche italiane. Un'intera giornata presso il centro ebraico 'Il Pitigliani' di Roma aperta dal ministro Stefania Giannini che, prima di prendere la parola, ha visitato la mostra dei lavori degli studenti che hanno partecipato al concorso 'I giovani ricordano la Shoah'.

Nel corso della mattina interverranno - tra gli altri - il sottosegretario agli affari esteri Mario Giro, il ministro degli affari religiosi della Repubblica ellenica Andreas Loverdos e Renzo Gattegna presidente Ucei. Nel pomeriggio, i partecipanti al simposio avranno la possibilità di approfondire le tematiche trattate nel corso della mattinata e confrontarsi, sulle metodologie didattiche utilizzate partendo dalle buone pratiche dei propri Paesi. L'incontro organizzato nell'ambito del semestre italiano di presidenza europeo ha infatti l'obiettivo di creare una rete di docenti ed esperti che possano operare in una dimensione europea. Circa 130 i docenti partecipanti provenienti da tutti i Paesi Europei e scelti tra i tanti che hanno seguito i corsi di formazione presso l'istituto Yad Vashem a Gerusalemme.

STEFANIA GIANNINI: la memoria per combattere l'oblio. "La memoria è l'altra parte di un pendolo che comprende anche l'oblio e progressivamente venendo meno i testimoni diretti di questo momento terribile della storia europea e mondiale è sempre più probabile che l'oblio vinca sulla memoria. La nostra è una volontà educativa che credo sia un dovere nei confronti del passato e un diritto nei confronti del futuro." Così ha commentato il ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, a margine dell'evento 'Educazione alla Shoah' tenutosi presso il Centro Ebraico Italiano il Pitigliani di Roma. "L'Italia ha un forte impegno"- ha sottolineato il ministro Stefania Giannini - che è partito alcuni anni fa, addirittura dal 2000 quando il giorno della memoria è stato istituito e si concretizza nei viaggi che i nostri ragazzi fanno sia ad Yad Vashem, sia ad Aushwitz nel giorno della memoria, ma sopratutto il nostro, come ha detto il direttore di Yad Vashem è un impegno contro l'ignoranza."

RENZO GATTEGNA: conoscere la shoah è parte del percorso di formazione umana e culturale. "Io credo che in Europa l'Italia si distingua per l'efficacia delle iniziative che ha preso, che sono in particolare logicamente orientate verso gli studenti." Così ha commentato Renzo Gattegna, Presidente UCEI, a margine dell'incontro tenutosi presso il Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani di Roma. "Conoscere la Shoah - ha continuato Gattegna - fa parte di un percorso di formazione, si abbina la cultura storica con la cultura morale delle persone. Crediamo che quando un ragazzo conosce e studia questi argomenti o anche completa questi studi con una visita a Yad Vashem a Gerusalemme o addirittura ad Auschwitz per vedere con i propri occhi i luoghi, quando ritorna qualcosa è cambiato nella sua mente." Concludendo "Noi stiamo svolgendo questo lavoro e abbiamo il piacere di verificare che lavorando metodicamente bene, poi si riesce a raggiungere dei risultati positivi."

(Mondo Scuola, 15 dicembre 2014)


Vi spiego cosa divide Usa e Israele. Parla il prof. Ugo Volli

Conversazione di Formiche.net con Ugo Volli, semiologo e filosofo del linguaggio, professore ordinario all'Università di Torino e autore della prefazione del libro "Ebrei contro Israele" di Giulio Meotti (Belforte, 2014). Su Twitter scrive: "Difendo Israele, lotto contro l'antisemitismo".

di Michele Pierri

Oggi, nella Capitale, il premier israeliano Benjamin Netanyahu incontra il capo della diplomazia americana, John Kerry, e il presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Quali gli argomenti dei colloqui? Quali i punti in comune e i nodi da sciogliere per stabilizzare un Medio Oriente ancora più indebolito dall'Isis, dall'ennesimo rinvio del negoziato con l'Iran e dalla caduta del prezzo del petrolio?
Tutti aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con il semiologo e filosofo del linguaggio Ugo Volli, professore ordinario all'Università di Torino e autore della prefazione del libro "Ebrei contro Israele" di Giulio Meotti (Belforte, 2014). Su Twitter scrive: "Difendo Israele, lotto contro l'antisemitismo".

- Professore, di cosa hanno discusso Kerry e Netanyahu? E perché lo fanno a Roma?
  L'incontro si svolge a Roma perché l'Italia è al centro di una rete diplomatica, legata, soprattutto, alla sua posizione di presidente di turno dell'Ue. Qui Kerry ha già incontrato ieri il suo omologo russo, Sergej Lavrov. Al centro dei colloqui ci sono sia la situazione mediorientale e le tensioni con la Palestina, sia il dossier iraniano; argomenti a loro modo collegati.

- Perché questo incontro è importante?
  L'amministrazione Usa si trova in difficoltà, perché la sua politica in Medio Oriente non produce i risultati sperati: con l'Iran l'accordo è stato rimandato, l'Isis avanza, Assad è ancora al potere in Siria. Per questo Washington cerca di portare a casa qualche risultato propagandistico, come ad esempio l'apertura di nuovi negoziati, anche se finora rivelatisi infruttuosi. Seppur riluttante, Israele dovrà ascoltare. Gli Usa hanno infatti tra le mani una forte leva. L'Olp presenterà mercoledì 17 dicembre al Consiglio di sicurezza dell'Onu un progetto di risoluzione che reclama la fine entro due anni della presenza israeliana attraverso un percorso scadenzato di due anni in cui Israele dovrebbe tornare ai confini internazionali del '49; o pre '67, come ha detto Neatanyahu. Ciò è finora saltato grazie al veto americano. Ma se questo non ci fosse…

- In Europa si moltiplicano i sostegni al riconoscimento dello Stato palestinese. L'ultimo è avvenuto ad opera del Parlamento spagnolo. Cosa ne pensa?
  Lo trovo profondamente pericoloso, perché incoraggia il terrorismo e l'instabilità. In Israele non passa giorno che piccoli attentati, rapimenti e minacce tocchino la popolazione e la terrorizzino. E mentre a Tel Aviv viene richiesta sempre la massima responsabilità, la violenza di Hamas, e non solo, viene premiata con questi riconoscimenti. Il voto della risoluzione del Parlamento spagnolo è avvenuto lo stesso giorno dell'attentato alla sinagoga. Inaccettabile.

- Qual è la posizione dell'Italia? E come definirebbe i rapporti di Roma con Israele?
  I rapporti con Roma si potrebbero definire buoni. L'Italia non è tra i Paesi che hanno spinto a favore di mozioni per il riconoscimento dello Stato palesinese. E sia Gentiloni sia Renzi sono percepiti come politici non anti-israeliani. Questo agevola senza dubbio le relazioni bilaterali.

- A dividere Usa e Israele, in questo momento, c'è soprattutto il dossier iraniano. Tel Aviv considera Teheran una minaccia alla sua stessa esistenza, mentre Washington punta a un accordo. Come giudica lo stato delle cose?
  Quello che sta succedendo non è chiaro. Da un lato Israele è in un periodo elettorale, nel quale si accentuano le divisioni tra la destra piu rigida e la sinistra più aperturista. In alcune cancellerie c'è la convinzione che qualcosa possa cambiare, ma il passato dimostra che la politica di sicurezza di Israele è sostanzialmente bipartisan. L'Iran è un grande Paese, nonché uno degli attori chiave della politica mediorientale. Da 20 anni, però, questo Paese - un po' per convinzione religiosa, un po' per attirare simpatie nella regione - minaccia Israele di distruzione. Per questo Tel Aviv non può che ritenere inaccettabile qualsiasi compromesso con l'Iran che non preveda l'impossibilità di sviluppare armi atomiche. Una soluzione che auspicano anche altri alleati Usa come l'Arabia Saudita e che la politica di Obama ha finora disatteso.

(Formiche.net, 15 dicembre 2014)


Si accendono le luci di Hannukkà

di Ambra Marchese

MILANO - La sera del 25 di kislev (novembre-dicembre) e il 2-3 di tevet (dicembre-gennaio) ha luogo, come ogni anno, la festa di Hanukkà, detta anche Festa della dedicazione o delle luci. Quest'anno, seguendo il calendario ebraico, si celebra per otto giorni dal tramonto di martedì 16 dicembre.

 
LA STORIA - Intorno al 164 a.C. il re di Siria e Mesopotamia Antioco IV, detto Epifane stava esercitando il proprio domino sopra Israele, assediando Gerusalemme e puntando all'ellenizzazione culturale di tutta la Giudea. A tal fine impedì il giudaismo e le sue pratiche nel tentativo di allontanare gli ebrei dalla propria fede e dal proprio Dio. Il culmine della sua tirannia sfociò nella profanazione del Tempio di Gerusalemme, che venne saccheggiato, riempito di idoli e profanato con sacrifici di animali impuri secondo la kasherut ebraica. Antioco decretò il divieto a ogni ebreo di servire Hashem (Dio), studiare la Torah, osservare lo shabbat e le altre mitzvot (norme rituali), e l'obbligo di adorare i suoi idoli, mangiare cibi impuri e conformarsi ai greci, pena la morte.
Per impedire un successivo ritorno del popolo alle pratiche di fede decise di contaminare gli oli sacri necessari per l'accensione della Menorah, il famoso candelabro a sette bracci posto nel Luogo santo. La preparazione di quest'olio richiede diversi giorni, secondo le minuziose istruzioni date a Mosè. I greci avrebbero potuto direttamente distruggere le ampolle. Perché allora contaminarle? I maestri rabbini sono convinti che lo scopo dei greci non fosse quello di impedire la riaccensione dei lumi della menorah, bensì quello di fare utilizzare un olio impuro per il servizio al Tempio dell'Eterno. «Alcuni ebrei - raccontano le fonti - ebbero paura di disobbedire, non volevano morire, altri cercarono addirittura di ingraziarsi il re per ottenere regali e favori. Ma c'erano tanti ebrei per i quali le ricchezze e il potere non avevano importanza se il loro prezzo era abbandonare la Torà e il loro modo di vivere che tramandavano dal tempo di Moshè».
Nonostante nella regione fossero rimasti pochi ebrei in seguito a fughe e condanne a morte, nel villaggio di Modiin viveva un piccolo gruppo tra cui vi era il Sommo Sacerdote Mattityahu (Mattatia) con i suoi cinque figli. Un giorno, i soldati di re Antioco IV posero un idolo nella piazza del villaggio, imponendo al popolo di prostrarsi e offrire sacrifici votivi. Preso dal proprio zelo per Dio, Mattityahu attaccò i soldati, mettendoli in fuga, e diede inizio a una rivolta che in seguito prese il nome di rivolta dei Maccabei, dal nome di una delle famiglie sacerdotali degli Asmodei. I Maccabei, cui apparteneva Mattityahu, organizzarono la rivolta finalizzata alla liberazione dalla dominazione dell'anti-messia (o anti-unto) Antioco IV, chiamato dagi ebrei "epimane" (il pazzo). «Mattatia e i suoi cinque figli - narrano le cronache - guidarono gli ebrei alla riconquista che terminerà con la loro vittoria nel 165 a.C. sotto il comando di Giuda Maccabeo, uno dei cinque figli di Mattatia». Anche se in minoranza, essi vinsero il grande esercito del re perché Dio era con loro.

IL MIRACOLO - In quell'occasione venne ritrovato miracolosamente dell'olio sacro in un'ampolla ancora sigillata che, però, sarebbe bastato per un solo giorno. Per produrre quest'olio, secondo le Scritture, erano necessari circa otto giorni. Ciononostante venne deciso di accendere ugualmente le lampade che avevano smesso di illuminarsi per Dio da troppo tempo. Qui si palesò il miracolo divino: l'olio che sarebbe bastato solo per un giorno durò per altri sette giorni, ovvero il tempo necessario per la preparazione di altro olio sacro. Questo, insieme alla liberazione del popolo dal nemico, fu il miracolo di Hanukkah, che viene perciò chiamata Festa delle luci o delle lampade. Così il Tempio che era stato dissacrato fu riconsacrato a Dio, dedicato nuovamente (Festa della Dedicazione), il Luogo santissimo (Bet hamikdash) fu ripulito e santificato e il Tempio inaugurato nuovamente per il servizio del Dio d'Israele.

LA CELEBRAZIONE - La sera del 25 kislev, al crepuscolo o poco dopo il tramonto, il popolo ebraico sparso nel mondo accende la prima lampada della hanukkia, il candelabro a otto bracci (più la lampada servitrice, con la funzione di accendere le altre, detta shamash). L'accensione si ripete per i successivi sette giorni, alla presenza di tutta la famiglia, accompagnata da benedizioni, preghiere e canti.
Da questa commemorazione gli ebrei traggono degli importanti insegnamenti: bisogna accrescere sempre la propria conoscenza della Torah, la quale è la vera luce; Dio provvederà sempre che la propria luce non si spenga finché ci sarà ancora dell'olio puro; il mantenere viva la luce della Torah è una responsabilità personale che richiede determinazione, accompagnata dall'aiuto di Dio per il superamento delle difficoltà.

I FESTEGGIAMENTI - Durante questa festività vengono consumati latticini, connessi all'episodio di Oloferne, generale assiro che assediò Israele per un periodo di 34 giorni, e venne stordito da Giuditta con del latte ispirando la rivolta dei Maccabei. I dolci tipici di Hanukkà sono le sufganiot, delle specie di krapfen fritte nell'olio, a commemorare il miracolo dell'olio. L'olio e le fritture in genere, infatti, sono degli elementi dominanti durante questa festa. Molti ebrei usano dare dei soldi ai propri figli per abituarli a esercitare la beneficenza. Inoltre i bambini giocano con una particolare trottola, chiamata sevivon o dreidel, che porta incisa una lettere ebraica su ognuno dei suoi quattro lati. Queste trottole venivano usate durante la dominazione greca, in un periodo in cui tutto ciò che sapeva di ebraico doveva essere abolito: in questo modo, tramite un semplice giocattolo, i genitori potevano insegnare la propria lingua madre ai figli. Le lettere presenti in ognuna dei quattro lati delle trottole erano nun, ghimel, hei, pe/shin, dalla frase Nes gadol hayah po/sham ("un grande miracolo è avvenuto qui/lì").

IN PIAZZA - Come di consueto oltre che nelle case degli ebrei osservanti, l'accensione della prima candela dell'hannukkia verrà celebrata, la sera di martedì 16, nelle piazze delle principali città italiane, tra cui Milano (piazza San Carlo, ore 17.30) e Roma (piazza Barberini, ore 18; piazza Bologna, ore 20).

(Evangelici.net, 15 dicembre 2014)


Gli ebrei romani e la Grande Guerra

Da domani la mostra «Prima di tutto italiani»

di Edoardo Sassi

ROMA - Quell'aura struggente tipica di un passato non poi così lontano, dunque ancora in grado di «rivivere» anche attraverso carte familiari, vecchie foto, testimonianze appena sbiadite epperò capaci di riannodare i fili di esistenze, di drammi umani e collettivi, mettendo insieme pezzi di piccola e grande Storia: «Caro fratello Ricevei a suo tempo tue cartoline, e mi scuserai tanto si fino ad ora non t'abbia risposto, causa che dove mi trovo fino ad oggi non si trovava carta per scrivere ... »; « ... voglio augurarmi che come Bersagliere saprai fare il tuo dovere da vero seguace di Lamarmora. Sempre Avanti!!! Non mi va di perdermi in chiacchiere il grido è uno solo: Viva l'Italia!»; «Carissimo Gabriele Ricevo sempre tue notizie e te ne ringrazio anche a nome della tua cara mamma» ...
   Belli, poco conosciuti e intensi i materiali esposti nella mostra «Prima di tutto Italiani. Gli Ebrei Romani e la Grande Guerra», che si inaugura domani alle 15 nel Museo Ebraico di Roma (fino al 6 marzo). Una mostra curata da Lia Toaff e che attraverso foto, lettere dal fronte, libri di preghiera, cartoline, onorificenze intende appunto raccontare l'importante contributo ebraico alla Prima Guerra; un contributo italiano, composto da storie di uomini che di lì a non troppo saranno declassati dalle leggi razziali del loro Paese (1938), perseguitati e in tanti casi sterminati nei campi nazisti.
   Uomini che furono sulla linea del fronte, tante storie diverse, tra cui quelle di rabbinati militari e di migliaia di ebrei che difesero la loro patria; storie in particolare di ebrei romani, in buona parte militari di truppa. Gli ufficiali tra loro rappresentavano una minoranza. Legati giocoforza al commercio per via di secoli di obblighi pontifici e di segregazioni nel Ghetto, gli ebrei di Roma avevano infatti, non di rado, caratteristiche sociologiche diverse dalla popolazione ebraica del resto d'Italia, legata invece a una tradizione di pensiero e con un'istruzione di gran lunga superiore a quella della media nazionale in generale.
   Su 38 milioni di italiani e una comunità ebraica che contava allora 35 mila persone, circa 5 mila furono gli ebrei al fronte e 420 i caduti. Tra le tante possibili storie nella storia, spicca in mostra il «racconto» della famiglia Anticoli, di papà Prospero, classe 1865, pasticcere in Largo Argentina, di sua moglie Flaminia Di Nepi e dei loro 13 figli. Quattro - Gabriele, Adolfo, Giorgio, Renato - combatterono durante la Grande Guerra. Adolfo durante l'occupazione nazista finirà ad Auschwitz. Saranno soprattutto le donne di famiglia a conservare gelosamente le tante lettere, foto, album e oggetti degli anni del conflitto ora parte di questa esposizione che domani sarà inaugurata, tra gli altri, dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, dal Presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici, dal Rabbino Capo Riccardo Di Segni e dalla direttrice del Museo Alessandra Di Castro.

(Corriere della Sera- Roma, 15 dicembre 2014)


Vertice Netanyahu-Kerry. Per il negoziato, contro i diktat

"Non accetteremo diktat dall'Onu". Questa mattina, prima di partire per Roma per incontrare il segretario di Stato Usa John Kerry e il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi, il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva chiarito in modo inequivocabile la sua posizione, rispondendo indirettamente all'iniziativa palestinese. Da Ramallah, infatti, era arrivata in serata la notizia che l'Autorità nazionale palestinese presenterà mercoledì prossimo all'Onu una risoluzione in cui chiede il ritiro di Israele dalla Cisgiordania e da Gerusalemme Est (si vuole il ritorno ai confini del 1967) entro novembre 2016 e il riconoscimento dello Stato di Palestina. "Non accetteremo tentativi di imporci gesti unilaterali su una base temporale limitata", l'avvertimento di Netanyahu ai palestinesi e alla Comunità internazionale, "in una realtà in cui il terrorismo islamico riesce a raggiungere qualsiasi angolo del pianeta, respingeremo qualsiasi tentativo di piazzare quel terrorismo dentro casa nostra". In queste ore Netnayahu è impegnato in un faccia a faccia con Kerry (nell'immagine l'incontro di lunedì), a cui ribadirà la richiesta israeliana alla Casa Bianca di apporre il veto sulla risoluzione palestinese (presentata al Consiglio di Sicurezza grazie alla Giordania, membro temporaneo del direttivo) perché per arrivare alla pace esiste una sola via, il negoziato. Sembra che Kerry voglia fare da pacere ed evitare lo scontro diplomatico alle Nazioni Unite, così, dopo aver sentito Netanyahu, volerà domani a Londra per vedere Saeb Erekat, capo negoziatore palestinese. La richiesta del primo ministro di Gerusalemme è chiara: veto sulla risoluzione perché non è cercando di mettere con le spalle al muro Israele che si raggiunge la pace e non si può riconoscere lo Stato di Palestina senza avere delle garanzie in cambio. Ma la Casa Bianca temporeggia e fa sapere che non ha ancora deciso nel merito.
   Intanto diversi parlamenti europei - Gran Bretagna, Francia, Spagna - hanno approvato mozioni per convincere i propri governi a riconoscere unilateralmente lo Stato di Palestina. Fino ad ora l'unico paese europeo a spingersi fino a un riconoscimento formale dello Stato palestinese è stata la Svezia ma l'Irlanda potrebbe seguirne l'esempio. Giovedì scorso la camera bassa di Dublino ha approvato una mozione non vincolante che chiede all'esecutivo il riconoscimento e dal governo fanno sapere che l'opzione è sul tavolo. Se può essere utile a risolvere la situazione, lo faremo, il concetto espresso dal ministro degli Esteri Charlie Flagan. Con buona pace di Israele che ha ribadito la sua posizione: ogni azione unilaterale è inutile, dannosa e di ostacolo alla pace. Solo il negoziato tra le parti può garantire un risultato efficace. Rimanendo in Irlanda, passo indietro della
   Holocaust Education Trust Ireland (HETI), organizzazione no profit impegnata nell'insegnamento della Shoah, che aveva chiesto di non menzionare "Israele o lo Stato ebraico in nessun momento della cerimonia", in riferimento alle celebrazioni di gennaio in memoria della Shoah. "L'idea di evitare di citare lo Stato di Israele in una cerimonia che commemora le vittime della Shoah è oltraggiosa - la presa di posizione del memoriale dello Yad Vashem di Gerusalemme - e siamo contenti di sapere che HETI ha comunicato che l'ambasciatore di Israele parlerà all'evento". Il primo a ricevere l'ordine di censura su Israele era stato Yanky Fachler, da dodici anni tra gli oratori della celebrazione ufficiale del Giorno della Memoria in Irlanda. Protestando e chiedendo spiegazioni per una decisione "sbagliata e molto pericolosa", Fachler si è visto recapitare una seconda lettera del presidente dell'HETI in cui il presidente Peter Cassells lo informava di essere stato rimosso dal suo ruolo di oratore. Dopo dodici anni. A intervenire anche l'ex ministro della Giustizia Alan Shatter, firmando una lettera di fuoco con destinatario Cassels e in cui definiva sia la censura sia la rimozione di Fachler come provvedimenti "assolutamente inaccettabili". "I membri del consiglio dell'HETI sono stati influenzati nell'affrontare la questione dall'ostilità contro Israele di alcune parti dell'opinione pubblica irlandese e del movimento Bds (Boycott, Divestment and Sanctions)".
"Come patria nazionale del popolo ebraico, dove centinaia di migliaia di sopravvissuti alla Shoah sono emigrati, contribuendo in modo straordinario alla costruzione della loro nuova nazione, e come paese in cui vivono una moltitudine di bambini e nipoti dei sopravvissuti, Israele costituisce parte integrante della storia dopo la Shoah. Cercare di politicizzare le commemorazioni della Shoah - il monito dello Yad Vashem - costituisce un grave danno sia alle vittime sia all'educazione della Shoah stessa".

(moked, 15 dicembre 2014)


'Israele verso l'Expo' in vetrina all'aeroporto di Fiumicino

di Andrea Lovelock

 
L'ambasciatore d'Israele Naor Gilon, Fausto Palombelli e Marta Leonori durante la ceromnia di apertura dello spazio 'Israele Verso l'Expo'.
Fino al prossimo 24 dicembre, Israele sarà presente nello spazio permanente "Verso l'Expo" allestito al Terminal 3 dell'aeroporto di Fiumicino, realizzato da AdR in collaborazione con il Comune di Roma. Israele sarà tra i Paesi maggiormente coinvolti nell'Esposizione di Milano, grazie a una lunga tradizione nell'attività agroalimentare e soprattutto nella ricerca di innovazioni utili a lavorare al meglio una terra non fertilissima come quella mediorientale.
A inaugurare lo stand era presente l'ambasciatore israeliano in Italia, Naor Gilon, che ha sottolineato come in soli 66 anni dalla sua fondazione, Israele abbia «sviluppato tecniche e modalità sempre all'avanguardia per trasformare una terra così arida e con poche risorse naturali in un terreno fertile. Grazie alle sperimentazioni abbiamo ottime produzioni di uva, orzo, grano, fichi, ulivi. Saremo presenti all'Expo 2015 con il nostro know-how agricolo e organizzeremo degustazioni, eventi e conferenze in linea con il tema dell'Expo».
All'apertura dello spazio "Israele verso l'Expo" - ricco di piante, frutti e macchinari per la lavorazione della terra - erano presenti anche Fausto Palombelli, direttore Sviluppo Aviation di AdR - che ha evidenziato come l'aeroporto della Capitale sia in fase di forte crescita nel traffico passeggeri con oltre 2,5 milioni di utenti in più rispetto al 2013 - e l'assessore al Turismo del Comune di Roma, Marta Leonori, che ha sottolineato come per Roma e per il sistema-Paese l'evento Expo sia un'occasione imperdibile per rilanciare nel mondo le eccellenze Made in Italy legate soprattutto all'agroalimentare e al turismo.
Presente anche il direttore di El Al per l'Italia, Yechiel Eyni, che ha ricordato l'impegno operativo della compagnia aerea israeliana che opera su Fiumicino da 64 anni e attualmente assicura due voli giornalieri da Roma e da Milano per Tel Aviv e dal prossimo anno attiverà tre frequenze settimanali da Venezia, a riprova del crescente interesse degli israeliani per il nostro Paese.

(Agenzia di Viaggi, 15 dicembre 2014)


Sventato un attentato suicida a Tel Aviv

Un attacco suicida che doveva essere realizzato Tel Aviv è stato sventato nelle ultime settimane con gli arresti in Cisgiordania di cinque palestinesi, fra cui una donna offertasi volontaria per l'operazione. Lo afferma lo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano. La donna - Yasmin Shaabn, 31 anni, di Jenin - doveva raggiungere Tel Aviv e lì voleva farsi passare per un'ebrea incinta. L'identità politica dei palestinesi coinvolti nell'indagine non è stata precisata.

(L'Unione Sarda, 15 dicembre 2014)


Corte internazionale Onu: Palestina «osservatore», sconcertante decisione

Lettera a "il Giornale"

Ancora una volta l'Onu si macchia di una grave colpa: dopo aver ammesso la Palestina, adesso annuncia di aver qualificato la Palestina come Paese osservatore presso la Corte Internazionale. Decisione sconcertante, visto che si tratta di un Paese che condivide la propria gestione con Hamas, organizzazione dichiaratamenteterrorista. Difatto l'Onu riconosce il diritto al terrorismo e in futuro la Palestina potrà far parte del tribunale internazionale dell' Aja.

(il Giornale, 15 dicembre 2014)


Ormai dovrebbe essere chiaro: per quanto riguarda la politica mondiale l’Onu fa parte del problema, non della soluzione. M.C.


L'Italia predica bene ma razzola male. Finanziati gli atenei anti-Occidente

Tramite la Cooperazione Italiana allo Sviluppo, l'Italia ha erogato un milione di euro per finanziare progetti con Università che alimentano il culto del terrorismo.

di Francesca Pizzolante

C'è chi predica bene e razzola male anzi, malissimo. Se da un lato si sbandiera a parole la lotta al terrorismo, dall'altro invece, a suon di milioni di euro, si erogano finanziamenti a Università che premiano i terroristi. È il caso dell'Italia che tramite la Cooperazione Italiana allo Sviluppo ha erogato un milione di euro per finanziare progetti con Università che alimentano il culto del terrorismo. L'Italia dunque sovvenziona il culto del terrorismo? La nostra domanda è più che lecita dopo aver verificato chi ha beneficiato del milione di euro messo a disposizione dalla Cooperazione Italiana allo Sviluppo. Non tutti sanno che il 31 dicembre 2014 in diversi atenei palestinesi sarà finalmente completato il progetto E-Plus. Che cos'è? È un programma di «Rafforzamento del sistema universitario palestinese attraverso un programma integrato di alta formazione e aggiornamento per sette Università palestinesi» per il quale il Bel Paese ha destinato un milione di euro alle Università palestinesi: Al-Quds University, An Najah National University, Arab American University of Jenin, Bethlehem University, Birzeit University, Hebron University, Palestine Polytechnic University of Hebron, Al Azhar University e Islamic University Gaza. L'iniziativa è realizzata dall'Università di Pavia in collaborazione gli atenei di Pavia, Bologna, Siena, Bergamo, Roma, Milano e Trento. E fin qui apparentemente nulla di male, se non fosse che gran parte dei poli universitari menzionati ha a che fare direttamente o indirettamente con il terrorismo. l'Università Al-Quds ultimamente è piombata nell'occhio del ciclone per aver conferito delle onorificenze a Mutaz Hijazi prima e Abed Al-
La famiglia di Abed Al-Rahman Al-Shaludi
Rahman Al-Shaludi, la seconda della quale post mortem. Ebbene nessuno dei due insigniti di tale riconoscimento si è distinto nel campo umanitario o scientifico, tutt'altro. Mutaz Hijazi è colui che lo scorso 29 ottobre a Gerusalemme ha tentato di assassinare Rabbi Yehuda Glick.
La famiglia di Abed Al-Rahman Al-Shaludi (in foto) invece ottiene un premio alla memoria perché il figlio ha compiuto, il 29 ottobre, «l'eroico atto» di investire volontariamente dei civili ad una fermata di tram, procurando la morte di una neonata di 3 mesi e di una ragazza di 22 anni. Dopo l'impatto l'autista ha cercato di darsi alla fuga a piedi, ma agenti nelle vicinanze gli hanno sparato e abbattuto. È poi morto per le ferite riportate. La lista degli scandali non finisce qui. Sempre la stessa Università ha organizzato una ricostruzione in cartapesta degli attentati di quei giorni ai danni di pedoni israeliani. Non si sa quale sia la finalità didattica di tale iniziativa. L'indignazione è tale da far intervenire il PMW - Palestinian Media wacth- l'equivalente palestinese dell'italiana Agenzia per le Garanzie nelle Comunicazioni, che ha pubblicamente chiesto come possano le Nazioni Europee, l'Unione Europea e l'Italia continuare a sovvenzionare, tramite progetti educativi, dei centri dove si alimenta e pontifica il terrorismo. A dir il vero l'Università di Al Quds non è la sola ad aver organizzato simili kermesse. L'università di An-Najah aveva ospitato nel 2001 la mostra che esaltava il terrorismo suicida, con una particolare installazione sull'attentato alla Pizzeria Sbarro il 9 agosto 2001. L'università è anche conosciuta per l'attivismo della cellula studentesca Palestine Islamic Block, che oltre a diffondere l'ideologia stragista ha reclutato numerosi terroristi suicidi per Hamas. L'attivismo islamista si ripercuote anche nelle attività dell'università che può contare sui finanziamenti di Al-Ihsan Charitable Society, la stessa organizzazione con cui ha collaborato l'ONG italiana GVC e che figura nella lista delle organizzazioni terroristiche oggetto delle sanzioni USA regolate dall'Executive Order 13224 del 23 settembre 2001. La lotta al terrorismo impone non solo di non avere alcun legame con organizzazioni terroristiche, ma anche di non aver contatti con quelle istituzioni che sovvenzionano i gruppi terroristici.
L'Italia, da sempre impegnata nella lotta al terrorismo, ha non solo firmato e ratificato i trattati internazionali in materia sulla lotta al terrorismo, ma ha anche legiferato in materia di terrorismo internazionale. Allora perché la Farnesina continua ad erogare fondi a queste Università?

(Il Tempo, 15 dicembre 2014)


Bassem Eid alla Nobel Malala: "Non dare soldi a Hamas e all'Unrwa"

Oggi anche israele.net riporta con grande evidenza la lettera aperta che un attivista palestinese per i diritti umani ha scritto al Premio Nobel per la Pace 2014 per scongiurarla a non dare soldi a Hamas e all’Unrwa. E’ scandaloso che una notizia di tale importanza non sia neanche nominata dai grossi media nazionali. NsI

Bassem Eid, attivista palestinese per i diritti umani, chiede a Malala Yousafzai, Premio Nobel per la Pace 2014, di mantenere la sua promessa di condividere il premio in denaro con i bambini della striscia di Gaza, ma di evitare che i fondi finiscano nelle mani di Hamas. In una "lettera aperta a Malala" che Eid ha pubblicato su The Media Line, il noto attivista dice alla giovane pakistana che "Hamas agisce secondo i principi dell'islam estremista, e non secondo i principi delle Nazioni Unite". Questo il testo della lettera.
Cara Malala,
ti abbiamo vista questa settimana ricevere il Premio Nobel per la Pace a riconoscimento della tua attività per la pace in Pakistan. Ci congratuliamo con te per il tuo coraggio e per non aver paura di combattere l'islam estremista nel tuo paese. Scrivo queste parole da fiero musulmano. So quanto sia difficile, con così tanti ostacoli sulla tua strada, e per questo motivo dobbiamo sostenerti. Siamo molto fieri di te. Apprezzo la tua decisione di aiutare con il tuo premio in denaro i bambini profughi palestinesi a Gaza, perché hanno veramente bisogno del tuo aiuto. Tuttavia devo raccomandarti, se vuoi fare una tale donazione, di venire per favore a farla qui di persona e non attraverso l'Unrwa, l'agenzia Onu per gli aiuti ai profughi palestinesi. Se mandi i fondi attraverso l'Unrwa, i bambini profughi palestinesi non ne avranno mai alcun beneficio perché a Gaza i fondi dell'Unrwa finiscono nelle mani dell'islam estremista....

(israele.net, 15 dicembre 2014)


Così diamo la caccia a chi ruba i vostri soldi

Viaggio nel centro anti-frode israeliano di Rsa. Dove hacker ed esperti di sicurezza combattono i pirati che minacciano conti bancari e carte di credito.

di Marco Morello
   
 
da TEL AVIV - Entrare è un balletto che si prolunga per un quarto d'ora abbondante. Controllo blando in portineria, lunga anticamera al secondo piano accanto all'ascensore, severissima doppia barriera all'ingresso: per superare la porta principale servono un tesserino magnetico e una password numerica. Finalmente le nostre credenziali sono approvate: siamo dentro. Gli ambienti sono tagliati in due da un corridoio lungo e largo su cui si alternano stanze dai vetri spessi e oscurati, scudi artificiali contro gli sguardi indiscreti o solo curiosi. Giusto una, la più vasta, è senza barriere visive. È un rettangolo di computer disposti uno accanto all'altro, una litania di schermi che vengono spenti in fretta, con un sorriso educato, al nostro passaggio. Questo è il cuore dell'Anti-Fraud Command Center, il centro di controllo da cui senza sosta, per 24 ore al giorno, per 365 giorni l'anno, si respingono attacchi informatici sferrati da pirati di tutto il mondo.
  La banalità dell'esterno non suggerisce nulla della complessa laboriosità dell'interno. È l'ennesimo palazzo a vetri alla periferia di Tel Aviv, fermento rumoroso e polveroso di cantieri sul mare, groviglio di start-up e giganti hi-tech già solidi, incastrati tra un concessionario d'auto giapponese e un parrucchiere che fa orario continuato promettendo tagli a prezzi speciali. Eppure qui, in questo lembo d'Asia che affaccia sull'Europa, solo nel 2013 si sono evitati danni economici per 6 miliardi di dollari. Un tesoretto per i clienti di Rsa, il gigante della sicurezza informatica che il centro lo ha aperto nel 2005 e oggi tra i suoi clienti conta le più grandi banche della Terra, le società delle carte di credito e i nuovi paperoni che ingrassano i bilanci traghettando transatlantici di denaro on line. I nomi dei protetti, tutti arcinoti, sono esibiti in bella mostra su una parete in fondo poco prima dell'angolo bar: una bacheca dei trofei fatta di targhe colorate e nessuna coppa.
  
 
Quando c'è una falla, quando qualcosa va storto e un «borseggiatore digitale», così li chiama Daniel Cohen, nostro Caronte e responsabile della baracca, tenta il colpaccio, il cervellone e i complessi algoritmi messi in piedi da Rsa se ne accorgono e fanno suonare l'allarme. Non è rosso, non c'è una sirena che si aggroviglia su se stessa mentre spacca i timpani, ma una blanda notifica che appare su ciascuno dei computer. Che si tratti di un sito clonato per rubare i dati a chi lo visitato, di un tentativo massiccio di phishing o di un assalto all'indirizzo web di un istituto finanziario, è sempre necessario un intervento di occhi e dita umane. Di un addetto che giudichi la fondatezza, la serietà dell'incursione, e provveda di conseguenza. Segnalando la cosa a chi di dovere, Google e Microsoft in primis, rendendo le pagine inaccessibili ai browser dei naviganti.
  La tempestività è essenziale, ogni minuto può significare denaro volatilizzato o identità compromesse. Da questa e dall'altra parte del globo, come conferma uno degli schermi giganti che mostra gli attacchi in corso in ogni istante, da Nuova Delhi a Tokyo, Da Los Angeles a San Paolo. E le bandierine su Roma, su Milano, su Torino, nella mezzora scarsa in cui siamo potuti rimanere in quella stanza, sono comparsi più di una volta, a ribadire che nell'ovunque globalizzato del web non ci sono dogane e confini e nessuno è al sicuro. Allora assume ancora più senso la scritta che troneggia poco distante dai monitor e recita: «Siate gli eroi di internet». Tali devono percepirsi i membri di questa ciurma di ventenni o poco più, hacker, ingegneri e poi tanti universitari con lo sguardo diffidente, un guizzo sveglio negli occhi e la passione per l'informatica, qui per pagarsi gli studi o per assecondare la vocazione di un lavoro socialmente utile. Perché sì, è innegabile, sono le banche i primi beneficiari della loro opera, ma di monnezza in rete ne rastrellano tanta. E le collaborazioni con Fbi, Scotland Yard e altre grandi polizie internazionali ha portato all'arresto di cracker, hacker con cattive intenzioni, alcuni sorpresi in mutande e ciabatte dentro casa, increduli di essere stati beccati mentre trafficavano davanti ai loro pc.
  Buona parte della truppa è locale, ma ha forze che arrivano da Stati Uniti, Russia, altre risacche in cui gli illeciti di bit sono molto gettonati. Ma perché la task force sia stata piazzata proprio a Tel Aviv, ce lo spiega e bene Yaniv Harel, general manager delle cyber solutions del centro di eccellenza israeliano di Emc, il colosso dell'IT che nel 2006 ha acquisito Rsa per una paio di miliardi di dollari e parecchi spiccioli. «La sicurezza fa parte della cultura di questa terra, della nostra forma mentis, del nostro Dna. Viviamo in mezzo al terrore, dobbiamo essere velocissimi a prendere decisioni vitali, cruciali per la nostra sopravvivenza. Per noi gli attacchi non sono solo teorici, lontani, ma un rischio quotidiano» dice con razionale distacco Harel, un background quasi ventennale nell'unità tecnologica dell'Idf, le forze di difesa israeliane.
  Il suo curriculum è corposo e altrettanto noto. Meno, ed è inutile insistere e affannarsi a chiedere, quello dei membri dell'intelligence team, l'avanguardia operativa della struttura. Agisce da una stanza castigata in un'appendice, in una sacca di spazio dal passaggio scarso come la luce che filtra dall'esterno. Non si limita ad aspettare gli attacchi per sventarli. Si lancia senza paracadute, con il mouse e la tastiera, a caccia di pirati. Li stana nei loro raduni polverosi imboscati nel sottobosco della rete: forum, chat, lande digitali del web sommerso accessibili tramite il software Tor, il passe-partout verso l'internet snobbato (e meno male) da Google. Dove tutto è in vendita: corpi, bambini, armi, droga. Lo smercio di carte di credito e conti bancari, il traffico di soldi e identità, al confronto, pare quasi un peccato veniale. Ma i peccatori abbondano e Gabriel, uno dei responsabili, li stuzzica e ingolosisce con promesse di ricchezze che non vedranno mai. Ne cattura la fiducia per farli venire allo scoperto. Non c'entra più la perizia informatica: è una guerra semantica, un gioco di parole con il suo linguaggio e le sue regole. Provarci è lecito, riuscirci un'impresa. La posta è alta, il filo più sottile di un cursore. Se il borseggiatore digitale fiuta la trappola, sparisce per sempre.

(Panorama, 15 dicembre 2014)


Netanyahu: respingeremo la richiesta di ritiro entro i confini del 1967

"Israele respinge i tentativi di assalti diplomatici, attraverso decisioni dell'Onu, per costringerci ad un ritiro entro i confini del 1967 in due anni". Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu, che domani incontrerà a Roma sia il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi, sia il segretario di stato Usa John Kerry. Il ritiro, ha aggiunto, porterebbe "estremisti islamici nei sobborghi di Tel Aviv e nel cuore di Gerusalemme".

"Non permetteremo - ha continuato Netanyahu nella riunione di governo svoltasi a Gerusalemme - che questo avvenga. Lo respingeremo con forza. Non ci sono dubbi, questo sarà respinto".
Il premier ha sottolineato che a Renzi e Kerry dirà che "Israele si erge come un'isola solitaria contro le onde di estremismo islamico che lambiscono l'intero Medio Oriente".
"Fino ad adesso abbiamo respinto questi attacchi mentre ora - ha aggiunto riferendosi indirettamente alle Risoluzioni che potrebbero essere presentate a breve in Consiglio di sicurezza dai palestinesi su un ritiro entro i confini del 1967 - ci troviamo di fronte di nuovo la possibilità di assalti diplomatici".

(Giornale del popolo, 14 dicembre 2014)


Hamas: libereremo i detenuti in Israele

Grande sfilata del braccio armato di Hamas, 'grazie a Iran'.

GAZA - L'impegno solenne di Hamas di ''liberare migliaia di prigionieri reclusi in Israele, nonché la moschea al-Aqsa di Gerusalemme'' è stato annunciato da un esponente di Hamas al termine di una grande sfilata organizzata nelle vie di Gaza dalla sua ala militare, Brigate Ezzedin al-Qassam, alla presenza di 20 mila persone. Nei comizi gli oratori hanno avuto parole particolari di ringraziamento all'Iran per il suo contributo ''alla resistenza armata''.

(ANSA, 14 dicembre 2014)


Discorso pronunciato da George Deek, vice ambasciatore di Israele a Oslo, il 27 settembre 2014

George Deek è un arabo israeliano, cristiano ortodosso

 
Quando passeggio per le vie della mia città natale, Jaffa, mi ricordo dell'anno 1948.
   I viali della città vecchia, le case del quartiere Ajami, le reti da pesca al porto - tutto sembra raccontare storie diverse sull'anno che ha cambiato per sempre la mia città.
   Una di queste storie riguarda una delle più antiche famiglie di questa antica città - la famiglia Deek - la mia. Prima del 1948 mio nonno George, di cui mi è stato dato il nome, lavorava come elettricista alla compagnia elettrica Rotenberg. Non si interessava molto alla politica. E dato che Jaffa era una città mista, aveva naturalmente degli amici ebrei.
   Infatti i suoi amici alla compagnia elettrica gli insegnarono persino lo yiddish, facendo di lui uno dei primi arabi a parlare questa lingua.
   Nel 1947 si fidanzò con Vera - mia nonna - e avevano programmato di fondare una famiglia nella stessa città, Jaffa, in cui la famiglia Deek era vissuta per circa 400 anni. Ma pochi mesi dopo i loro programmi cambiarono, letteralmente, da un giorno all'altro.
   Quando l'ONU approvò la fondazione di Israele, e pochi mesi più tardi fu proclamato lo stato di Israele, i leader arabi avvertirono gli arabi che gli ebrei stavano programmando di ucciderli se fossero rimasti nelle loro case, e usarono come esempio il massacro di Deir Yassin. Dissero a tutti: «Lasciate le vostre case e scappate via». Dissero che servivano solo pochi giorni, nei quali con cinque eserciti promettevano di distruggere la neonata Israele. La mia famiglia, inorridita da ciò che poteva accadere, decise di fuggire, con molti altri. Fecero venire un prete di corsa alla casa della famiglia Deek, che in fretta e furia sposò i miei nonni, George e Vera, nella casa. Mia nonna non ebbe neppure modo di vestirsi in modo appropriato. Dopo l'improvviso matrimonio, tutta la famiglia fuggì a nord, verso il Libano.
   Ma quando la guerra giunse al termine, gli arabi non erano riusciti a distruggere Israele. La mia famiglia era dall'altra parte del confine, e sembrò che il destino della famiglia Deek fosse di essere dispersa per il mondo. Oggi ho parenti in Giordania, Siria, Libano, Dubai, Gran Bretagna, Canada, Stati Uniti, Australia e altro ancora. La storia della mia famiglia è solo una - e probabilmente non la peggiore - delle tante storie tragiche dell'anno 1948. E, in tutta franchezza, non c'è bisogno di essere antiisraeliani per riconoscere il disastro umanitario dei palestinesi nel 1948, denominato la nakba. Il fatto che io debba comunicare con skype con dei parenti in Canada che non parlano arabo, o che abbia un cugino in un Paese arabo che non ne ha ancora la cittadinanza nonostante sia di terza generazione - è una testimonianza vivente delle tragiche conseguenze della guerra.
   Secondo l'ONU, 711.000 palestinesi sono diventati profughi, questo lo sappiamo già - alcuni fuggiti, altri espulsi con la forza. Contemporaneamente, a causa della nascita di Israele, 800.000 ebrei furono costretti a lasciare il mondo arabo, lasciandolo per lo più privo di ebrei. E, come già avevamo saputo, non furono rare le atrocità da entrambe le parti.
   Ma questo conflitto non sembra essere stato l'unico ad avere provocato espulsioni e trasferimenti durante il XIX e il XX secolo.
   Fra il 1821 e il 1922 5 milioni di musulmani furono espulsi dall'Europa, per lo più verso la Turchia. Negli anni '90 la Yugoslavia esplose, facendo circa 100.000 morti e circa 3 milioni di profughi. Dal 1919 al 1949, durante l'operazione Visla fra la Polonia e l'Ucraina, 150.000 persone morirono e un milione e mezzo divennero profughi. Dopo la seconda guerra mondiale e la convenzione di Potsdam, si spostarono fra i 12 e i 17 milioni di tedeschi. Quando l'India e il Pakistan si separarono, furono trasferiti circa 15 milioni di persone.
   Questa tendenza esiste anche in Medio Oriente: per esempio 1,1 milioni di curdi spostati dagli ottomani, 2,2 milioni di cristiani espulsi dall'Iraq, e parlando di oggi, yazidi, bahai, curdi, cristiani e anche musulmani
Perché le tragedie dei serbi, dei musulmani europei, dei rifugiati polacchi o dei cristiani iracheni non vengono commemorate? Com'è che la cacciata degli ebrei dal mondo arabo è stata comple- tamente dimenticata mentre la tragedia dei palestinesi, la nakba, è ancora viva nella politica attuale?
vengono assassinati ed espulsi in seguito all'ascesa dell'islam radicale a un tasso di un migliaio al mese. La possibilità che qualcuno di questi gruppi possa fare ritorno alle proprie case è praticamente nulla.
E allora perché le tragedie dei serbi, dei musulmani europei, dei rifugiati polacchi o dei cristiani iracheni non vengono commemorate? Com'è che la cacciata degli ebrei dal mondo arabo è stata completamente dimenticata mentre la tragedia dei palestinesi, la nakba, è ancora viva nella politica attuale? A me sembra che ciò avvenga perché la nakba è stata trasformata da disastro umanitario in una offensiva politica.
   La commemorazione della nakba non riguarda più il ricordo di ciò che è accaduto, bensì il risentimento per la pura e semplice esistenza di Israele. E la prova più evidente è la data scelta per commemorarla: la nakba non è il 9 aprile, giorno del massacro di Deir Yassin, o il 13 luglio, giorno dell'espulsione da Lod. Il giorno della nakba è stato stabilito il 15 maggio, il giorno successivo alla proclamazione dell'indipendenza di Israele. Con questo la dirigenza palestinese dichiara che il disastro non è l'espulsione, i villaggi abbandonati o l'esilio - la nakba, ai loro occhi, è la creazione di Israele. La rinascita dello stato ebraico li rattrista più della catastrofe umanitaria abbattutasi sui palestinesi. In altre parole, non compiangono il fatto che i miei cugini sono giordani, compiangono il fatto che io sono israeliano.
   In tal modo i palestinesi sono divenuti schiavi del loro passato, legati con le catene del risentimento, prigionieri in un mondo di frustrazione e di odio.
   Ma, amici, la pura e semplice verità è che per non ridursi a vivere di dolore e amarezza, dobbiamo guardare avanti. Per essere ancora più chiari: per riparare il passato bisogna prima assicurare il futuro.
   Questo l'ho imparato dal mio maestro di musica, Avraham Nov. Quando avevo sette anni sono entrato nella banda della comunità arabo-cristiana di Jaffa. È lì che ho incontrato Avraham, il mio maestro di musica, che mi ha insegnato a suonare il flauto e poi il clarinetto. Ero bravo. Avraham è un sopravvissuto all'olocausto, e tutta la sua famiglia è stata assassinata dai nazisti. È stato l'unico che è riuscito a sopravvivere, perché un certo ufficiale nazista lo ha trovato dotato nel suonare l'armonica, e così durante la guerra lo ha preso in casa per intrattenere i suoi ospiti.
   Finita la guerra, e rimasto solo, avrebbe potuto sedersi a piangere e lamentarsi per il più grande crimine dell'uomo contro l'uomo nella storia e per il fatto di essere rimasto solo. Ma non lo ha fatto: ha guardato avanti, non indietro. Ha scelto la vita, non la morte; la speranza, piuttosto che la disperazione. Avraham è venuto in Israele, si è sposato, ha costruito una famiglia, e ha cominciato a insegnare la stessa cosa che gli aveva salvato la vita - la musica. E quando ha visto salire la tensione fra arabi ed ebrei, questo sopravvissuto all'olocausto ha deciso di insegnare la speranza attraverso la musica a centinaia di bambini arabi come me.
   I sopravvissuti all'olocausto come Avraham sono fra le persone più straordinarie che possiate trovare. Sono sempre stato curioso di capire come potessero continuare a vivere sapendo ciò che sapevano, avendo visto ciò che avevano visto. Ma per tutti i 15 anni in cui sono stato studente di Avraham, non ha mai parlato del suo passato, tranne una volta - quando io ho chiesto di sapere. Mi sono reso conto che Avraham non era il solo, e che molti sopravvissuti all'olocausto non parlavano di quegli anni, neppure alle loro famiglie, a volte per decenni, o addirittura per sempre.
   Solo quando avevano assicurato il futuro si concedevano di voltarsi indietro a guardare il passato. Solo dopo aver costruito un tempo di speranza permettevano a se stessi di ricordare i giorni della disperazione. Hanno costruito il futuro nella loro vecchia-nuova patria, lo stato di Israele. E sotto il peso della loro più grande tragedia, gli ebrei sono riusciti a costruire uno stato leader nel mondo in medicina, agricoltura, tecnologia. Perché? Perché hanno guardato avanti.
   Amici, questa è una lezione che ogni nazione desiderosa di superare una tragedia dovrebbe imparare, compresi i palestinesi. Se i palestinesi vogliono riscattare il passato, devono innanzitutto concentrarsi ad assicurare un futuro, a costruire un mondo come dovrebbe essere, come i nostri figli meritano che sia.
   E il primo passo in questa direzione, non c'è ombra di dubbio, è di porre fine al vergognoso trattamento dei rifugiati palestinesi. Nel mondo arabo i rifugiati palestinesi, compresi i loro figli, nipoti e anche pronipoti hanno ancora sistemazioni provvisorie, sono pesantemente discriminati e sono quasi sempre negati loro la cittadinanza e i più elementari diritti umani. Perché i miei parenti in Canada sono cittadini canadesi, mentre i miei parenti in Siria, Libano o nei Paesi del Golfo - che sono nati lì e non conoscono nessun'altra patria - sono ancora considerati rifugiati? Il trattamento dei palestinesi nei Paesi arabi è indubbiamente la più grande oppressione subita in qualunque parte del mondo. E i complici in questo crimine sono la comunità internazionale e le Nazioni Unite. Invece di svolgere il proprio compito e aiutare i rifugiati a rifarsi una vita, la comunità internazionale sta nutrendo la narrativa del vittimismo. Mentre per tutti i rifugiati del mondo c'è un'unica agenzia ONU, l'UNHCR, un'altra agenzia è stata istituita per occuparsi unicamente di quelli palestinesi, l'UNRWA.
   Non è una coincidenza: mentre lo scopo dell'UNHCR è di aiutare i rifugiati a trovare una nuova sistemazione, costruirsi un futuro e porre fine alla loro condizione di rifugiati, lo scopo dell'UNRWA è
Lo scopo dell'UNRWA è questo: perpetuare la condizione di rifugiati palestinesi e impedire loro di iniziare una nuova vita. La comuni- tà internazionale collabora con il mondo arabo nel trattare i rifugiati palestinesi come pedine politiche, negando loro i diritti basilari.
l'opposto: perpetuare la loro condizione di rifugiati e impedire loro di iniziare una nuova vita. La comunità internazionale non può seriamente immaginare che il problema dei rifugiati si risolva, mentre collabora con il mondo arabo nel trattare i rifugiati come pedine politiche, negando loro i diritti basilari .
Dove ai rifugiati palestinesi sono stati garantiti pari diritti, là essi hanno prosperato e contribuito alla loro società: in Sud America, negli Stati Uniti e anche in Israele. Infatti Israele è stato uno dei pochi Paesi che hanno automaticamente dato piena cittadinanza e uguaglianza a tutti i palestinesi in esso residenti dopo il '48. E ne vediamo i risultati: nonostante tutte le sfide, i cittadini arabi di Israele costruiscono un futuro. Gli arabi israeliani sono gli arabi più istruiti del mondo, con i migliori standard di vita e opportunità nella regione. Degli arabi prestano servizio come giudici alla Corte Suprema. Alcuni dei migliori medici in Israele sono arabi, e lavorano in quasi tutti gli ospedali del Paese. 13 arabi sono membri del parlamento e godono del diritto di criticare il governo - un diritto che essi sfruttano al massimo - protetti dalla libertà di parola. Degli arabi vincono in popolari reality show. E potete trovare persino diplomatici arabi - uno di loro si trova di fronte a voi in questo momento.
   Oggi, quando cammino per le vie di Jaffa, vedo i vecchi edifici e il vecchio porto, ma vedo anche bambini che vanno a scuola e all'università, vedo fiorenti aziende, e vedo una cultura viva. In breve, anche se, come minoranza, abbiamo ancora molta strada da fare, noi abbiamo un futuro in Israele.
   Questo mi porta al prossimo punto: è arrivato il momento di finirla con la cultura dell'odio e dell'incitamento, perché l'antisemitismo, io credo, è una minaccia per i musulmani e i cristiani tanto quanto per gli ebrei.
   Sono arrivato in Norvegia poco più di due anni fa, e per la prima volta ho avuto a che fare con gli ebrei come comunità di minoranza. Io sono abituato… ero abituato a vederli come maggioranza. E devo dire che ciò mi appare molto familiare. Io sono cresciuto in un ambiente simile, nella comunità arabo-cristiana di Jaffa. Facevo parte dei cristiani ortodossi, che fanno parte della comunità cristiana, che fa parte della minoranza araba, nello stato ebraico di Israele, nel Medio Oriente musulmano.
   È come quelle bambole russe, ne apri una grande e dentro ce n'è una più piccola. Io sono il pezzo più piccolo. Un ebreo in Norvegia o un arabo in Israele, essere una minoranza significa che fai sempre parte di una piccola comunità in cui ognuno si preoccupa per ogni altro e lo aiuta. È una bella cosa sapere che hai sempre una comunità che si prenderà cura di te per qualunque cosa. Per tutta la mia vita, far parte di una comunità di minoranza è sempre stata una benedizione. Ma, amici, la vita di una minoranza è anche una vita di lotta costante per un trattamento equo.
   A volte venite discriminati, e potete anche essere vittime di crimini motivati dall'odio. Anche in una democrazia come Israele, essere una minoranza araba non è sempre facile. Poco più di un anno fa una banda di bulli sono entrati nel cimitero arabo cristiano di Jaffa e hanno dissacrato le tombe con scritte "morte agli arabi", e una delle tombe di quel cimitero era di mio padre.
   Essere minoranza, amici miei, è una sfida ovunque, perché essere minoranza significa essere diversi. La storia del popolo ebraico ha aggiunto molte parole al vocabolario umano: parole come espulsione, conversione forzata, inquisizione, ghetto, pogrom, per non parlare della parola olocausto. Il rabbino Lord Jonathan Sacks ha spiegato accuratamente che gli ebrei hanno sofferto in tutti i tempi perché erano diversi; perché erano la più consistente minoranza non cristiana in Europa, e oggi sono la più consistente minoranza non musulmana in Medio Oriente. Ma, concretamente, non siamo tutti diversi? Diversi in ciò che ci rende umani! Ogni persona, ogni cultura, ogni religione è unica, e perciò insostituibile. E in un'Europa, o in un Medio Oriente, in cui non c'è spazio per gli ebrei, non c'è spazio per l'umanità.
   Non dimentichiamo, amici: l'antisemitismo può cominciare con gli ebrei, ma non finisce mai con gli ebrei.
   Gli ebrei non sono stati gli unici ad essere convertiti a forza sotto l'inquisizione; sotto Hitler anche zingari e omosessuali, tra gli altri, soffrirono insieme agli ebrei; e ora sta succedendo di nuovo in Medio Oriente.
   Il mondo arabo sembra avere dimenticato che i suoi giorni migliori negli ultimi 1400 anni si sono avuti quando ha mostrato tolleranza e apertura verso chi era diverso. Il genio matematico Ibn Musa el-Khawazmi era uzbeko, il grande filosofo Rumi era persiano, il glorioso conduttore Salah a-din era curdo, il
Invece di tornare alla tolleranza del passato, si sta insegnando alla gioventù araba a odiare gli ebrei usando la retorica antisemita dell'Europa medievale mescolata con il radicalismo islamico. E ancora una volta, ciò che era cominciato come ostilità contro gli ebrei è diventato ostilità contro chiunque sia diverso.
fondatore del nazionalismo arabo era Michel Aflaq, un cristiano, e colui che ha portato la riscoperta islamica di Platone e Aristotele al resto del mondo è stato Maimonide, un ebreo.
Ma invece di tornare alla proficua tolleranza, si sta insegnando alla gioventù araba a odiare gli ebrei usando la retorica antisemita dell'Europa medievale mescolata con il radicalismo islamico. E ancora una volta, ciò che era cominciato come ostilità contro gli ebrei è diventato ostilità contro chiunque sia diverso. Proprio la settimana scorsa più di 60.000 curdi sono fuggiti dalla Siria verso la Turchia, temendo di essere massacrati. Lo stesso giorno 15 palestinesi di Gaza sono annegati mentre tentavano di sfuggire agli artigli di Hamas; bahai e yazidi sono a rischio. E, soprattutto, la pulizia etnica dei cristiani nel Medio Oriente è il maggior crimine contro l'umanità del XXI secolo. In appena due decenni i cristiani come me si sono ridotti dal 20% della popolazione del Medio Oriente al misero 4% di oggi. E quando vediamo che le principali vittime della violenza islamica sono i musulmani, diventa chiaro a tutti che alla fine l'odio distrugge l'odiatore.
   E dunque, amici, se vogliamo riuscire a difendere il nostro diritto di essere diversi, se vogliamo avere un futuro in quella regione, io credo che dovremmo essere uniti, ebrei, musulmani e cristiani. Combatteremo per il diritto dei cristiani di vivere ovunque la loro fede senza paura, con la stessa passione con cui combatteremo per il diritto degli ebrei di vivere senza paura. Combatteremo contro l'islamofobia, ma è necessario che i nostro compagni musulmani si uniscano alla lotta contro la cristianofobia e la giudeofobia. Perché ciò che è in gioco è l'umanità che condividiamo.
   Lo so che può sembrare ingenuo, ma sono convinto che è possibile, e l'unica cosa che si frappone fra noi e un mondo più tollerante è la paura. Quando il mondo cambia, la gente comincia a preoccuparsi di ciò che riserva il futuro. Questa paura induce la gente ad arroccarsi in una passiva posizione di vittime, rifiutando la realtà e cercando qualcuno da additare come responsabile di tutto questo. Ed è vero oggi tanto quanto lo era nel 1948.
   Il mondo arabo può superare questa mentalità, ma deve avere il coraggio di pensare e agire in modo diverso. Questo cambiamento richiede che gli arabi si rendano conto che non sono vittime impotenti, richiede che si aprano all'autocritica e si prendano le loro responsabilità. Finora, non c'è un solo libro di storia arabo che abbia messo in discussione l'errore storico del rifiuto della nascita dello stato ebraico. Non c'è stato un solo storico arabo di rilievo che abbia avuto il coraggio di dire che se gli arabi avessero accettato l'idea di uno stato ebraico, oggi ci sarebbero due stati, e non ci sarebbe stata alcuna guerra, e non ci sarebbe stato il problema dei profughi.
   Vedo israeliani come Benny Morris, che è con noi oggi, che hanno il coraggio di sfidare le narrative dei loro dirigenti in Israele, assumendo rischi personali nella ricerca di una verità che non è sempre comoda per il loro popolo. Ma non riesco a trovare qualcosa di analogo tra gli arabi. Non vedo mettere in discussione la sensatezza della distruttiva leadership del mufti di Gerusalemme Haji Amin al-Husseini, o l'inutile guerra lanciata dagli arabi nel 1948, o ciascuna delle guerre contro Israele negli anni seguenti fino a oggi. E non vedo critiche nella corrente palestinese attuale a proposito del terrorismo, dello scatenamento della seconda intifada, o del rifiuto di almeno due offerte israeliane negli ultimi 15 anni per porre fine al conflitto. Riflettere su se stessi non è debolezza: è un segno di forza. Fa avanzare la nostra capacità di superare la paura e affrontare la realtà. È necessario che guardiamo con onestà le nostre decisioni, e che ce ne prendiamo la responsabilità.
   Solo gli arabi possono cambiare la propria realtà. Smettendo di appoggiarsi a teorie cospirative e di incolpare poteri esterni - l'America, gli ebrei, l'Occidente o chiunque altro - per ogni problema; imparando dagli errori passati e prendendo decisioni ragionevoli nel futuro.
   Proprio due giorni fa il presidente statunitense Obama, sul podio dell'ONU di fronte all'Assemblea Generale, ha detto: "Il compito di rifiutare settarismo ed estremismo è un compito generazionale - un compito per il popolo stesso del Medio Oriente. Nessun potere esterno può portare a una trasformazione dei cuori e delle menti".
   Recentemente ho letto un articolo molto interessante di Lord Sacks sulla rivalità tra fratelli nella bibbia. Ci sono quattro storie di fratelli rivali nella Genesi: Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Giacobbe ed Esaù, e Giuseppe e i suoi fratelli. Ogni storia si è conclusa in modo diverso: nel caso di Caino e Abele, Abele è morto; nel caso di Isacco e Ismaele, si trovano insieme sulla tomba del padre; nel caso di Giacobbe ed Esaù, si incontrano, si abbracciano, e ognuno va per la propria strada. Ma il caso di Giuseppe finisce in modo diverso. Per chi conosce poco questa storia: Giuseppe era l'undicesimo dei dodici figli di Giacobbe e il primogenito di Rachele in terra di Canaan. Ad un certo punto, a causa della gelosia che nutrivano per lui, i suoi fratelli decisero di venderlo come schiavo. Ma dopo un po' Giuseppe arrivò ad essere il secondo uomo più potente d'Egitto, accanto al faraone. Quando la carestia colpì Canaan, il padre e i fratelli di Giuseppe andarono in Egitto. E lì, invece di punirli per ciò che gli avevano fatto, Giuseppe decide di perdonare i suoi fratelli. Questo è stato il primo evento di perdono e riconciliazione registrato in letteratura. Giuseppe provvede i fratelli di tutto il loro fabbisogno ed essi prosperano, crescono in numero e diventano una grande nazione. Alla fine della storia Giuseppe dice ai suoi fratelli: "Voi volevate farmi del male, ma Dio lo ha trasformato in bene, per compiere ciò che si sta attuando ora, la salvezza di molte vite". Con questo intende dire che dai nostri atti nel presente noi possiamo costruire il futuro e riscattare il passato.
   Ebrei e palestinesi, possiamo non essere fratelli nella fede, ma siamo indubbiamente fratelli nel fato [molto migliore il gioco di parole in inglese, tra faith e fate, dalla pronuncia quasi identica, ndt]. E sono convinto che proprio come nella storia di Giuseppe, compiendo le scelte giuste, scegliendo di focalizzarci nel futuro, noi possiamo riscattare il nostro passato. I nemici di ieri possono diventare gli amici di domani. È accaduto fra Israele e Germania, Israele ed Egitto, Israele e Giordania.
   È tempo di cominciare ad aprire un raggio di speranza nelle relazioni tra israeliani e palestinesi, così che possiamo porre fine al ripetersi di vecchie lamentele e concentrarci nel nostro futuro e sulle straordinarie possibilità che esso contiene per tutti noi, se solo sapremo osare.
   Non ho ancora raccontato il resto della storia della mia famiglia nel 1948. Dopo un lungo viaggio verso il Libano, per lo più a piedi, i miei nonni George e Vera raggiunsero il Libano. Vi rimasero per molti mesi, durante i quali mia nonna diede alla luce il suo primo figlio, mio zio Sami. Quando la guerra fu finita, si resero conto che erano stati ingannati. Gli arabi non avevano vinto la guerra, come avevano promesso. E, contemporaneamente, gli ebrei non avevano ucciso tutti gli arabi, come era stato loro detto. Mio nonno si guardò intorno, e non vide altro che una perpetua vita da rifugiato. Guardò la sua giovane sposa Vera, non ancora diciottenne, e il figlio appena nato, e comprese che in un luogo congelato nel passato non c'era alcuna possibilità di guardare avanti, nessun futuro per la sua famiglia
   Mentre i suoi fratelli e sorelle vedevano il proprio futuro in Libano e in altri Paesi arabi e occidentali, lui la pensava diversamente. Voleva tornare indietro a Jaffa, alla sua patria. Avendo in passato lavorato con
Mio nonno George fece ciò che pochi altri avrebbero osato: tornò da coloro che la sua comunità vedeva come nemici. Fu sostenuto da uno dei suoi vecchi amici ebrei della compagnia elettrica e gli chiese aiuto per tornare indietro.
degli ebrei ed essendo loro amico, non aveva subito il lavaggio del cervello dell'odio. Mio nonno George fece ciò che pochi altri avrebbero osato: tornò da coloro che la sua comunità vedeva come nemici. Fu sostenuto da uno dei suoi vecchi amici della compagnia elettrica e gli chiese aiuto per tornare indietro.
E questo amico, di cui ho sentito dai racconti di mio padre e il cui nome ignoro, non solo seppe e volle aiutare mio nonno a tornare ma, con uno straordinario gesto di generosità, lo aiutò anche a riottenere il suo vecchio lavoro in quella che è diventata la compagnia elettrica israeliana, facendo di lui uno dei pochissimi arabi che vi lavoravano.
   Oggi, fra i miei fratelli e cugini, abbiamo contabili, insegnanti, assicuratori, ingegneri hi-tech, diplomatici, direttori di fabbrica, professori universitari, dottori, avvocati, consulenti, dirigenti delle maggiori compagnie israeliane, architetti e persino elettricisti.
   La ragione per cui la mia famiglia ha avuto successo nella vita, la ragione per cui io sono qui come diplomatico israeliano e non come rifugiato palestinese in Libano, risiede nel fatto che mio nonno ebbe il coraggio di prendere una decisione che agli altri sembrava impensabile. Invece di lasciarsi andare alla disperazione, seppe trovare speranza là dove nessuno osava cercarla: scelse di vivere fra coloro che erano considerati i suoi nemici, e di farne degli amici. Per questo io e la mia famiglia dobbiamo a lui e a mia nonna eterna gratitudine.
   La storia della famiglia Deek dovrebbe rappresentare una fonte di ispirazione per il popolo palestinese.
   Noi non possiamo cambiare il passato, ma possiamo costruire un futuro per la prossima generazione, se vogliamo un giorno riparare il passato. Possiamo aiutare i rifugiati palestinesi ad avere una vita normale. Possiamo essere sinceri sul nostro passato e imparare dai nostri errori. E possiamo unirci - musulmani, ebrei, cristiani - per difendere il nostro diritto alla differenza e, con ciò, salvaguardare la nostra umanità.
   Infatti non possiamo cambiare il passato, ma se faremo tutto questo, cambieremo il futuro.

(ilblog di barbara, dicembre 2014 - trad. Barbara Mella)


Klara, 101 anni: "Sopravvissuta ad Auschwitz perché era finito il gas"

"Oggi è il tuo giorno fortunato" dissero le SS a questa donna che adesso riceve tutte le onoreficenze per i suoi trascorsi incredibili

È una storia che ha davvero dell'incredibile quella che Klara Marcus, alla vigilia del suo 101esimo compleanno, ha raccontato al tedesco Bild, una vicenda che, nella barbarie delle azioni naziste che segnarono il periodo della seconda Guerra Mondiale, si erge come un fatto straordinario per le sue fortunate dinamiche, considerando come sia riuscita a sopravvivere a ben tre campi di concentramento, prima Dachau e Ravensbruck, poi Auschwitz, per improbabili coincidenze.
"Oggi è il tuo giorno fortunato" le dissero le SS quando la fecero uscire viva assieme ad altre donne da una camera a gas di Auschwitz: "Quando ci hanno fatto entrare e hanno aperto il gas, si sono accorti che era finito. Una delle guardie ha scherzato dicendo che era il nostro giorno fortunato perché ne avevano già uccisi talmente tanti che non era rimasto gas per noi. Quel giorno Dio mi stava guardando" ha raccontato la donna originaria della Romania che, costretta ad entrare nella camera a gas che pesava appena 32 chilogrammi, ha trovato poi la la forza di scappare dal campo e di tornare in patria dove, pur senza una famiglia, si è ricostruita una vita assieme a quello che sarebbe poi diventato suo marito.
"Quel giorno ho capito che non avevo veramente nulla da perdere" dice oggi ad un rappresentante del governo romeno, Anton Rohian, che l'ha visitata a casa sua per congratularsi con lei per il suo 101esimo compleanno : "Ho portato una bottiglia di champagne, un mazzo di fiori e un attestato di onorificenza per ringraziare la signora Marcus per esser tornata a Marumares dopo tutto quello che ha attraversato nella sua vita".

(DonnaToday, 14 dicembre 2014)


Fine dei giochi: ISIS finanziato da Qatar e Turchia, lo prova un rapporto americano

Tutti sospettavano che il Qatar finanziasse diversi gruppi terroristici e in particolare l'ISIS ma fino ad oggi non c'erano le prove. Le ha trovate la Foundation for Defense of Democracies e le ha messe nero su bianco. E Obama ha venduto al Qatar armi per 11 miliardi di dollari.

Si intitola "Qatar and Terror Finance: Negligence" il rapporto in tre parti presentato questa settimana al Congresso americano dalla Foundation for Defense of Democracies, una organizzazione americana che ha un settore specializzato nella ricerca di finanziamenti illeciti ai gruppi terroristici.
Il rapporto fornisce prove inconfutabili che il Qatar e la Turchia stanno finanziando diversi gruppi terroristici islamici. Gli esperti del Center on Sanctions and Illicit Finance della Fondazione hanno collegato diversi finanzieri del Qatar allo Stato Islamico ma anche ad altri gruppi terroristici tra i quali spiccano i nomi di Al-Nusra, di Al Qaeda nella Penisola Arabica, degli al-Shabaab somali, di vari gruppi di talebani, del gruppo pakistano di Al Qaeda e di Lashkar-e-Taiba. In totale ci sono almeno 20 gruppi terroristici, tra i quali anche Hamas, inclusi nelle lista nera degli Stati Uniti che vengono finanziati dal Qatar....

(Right Reporters, 14 dicembre 2014)


L'uccello-bomba e altre cospirazioni

La polizia afghana ha abbattuto un'otarda pensando che fosse carica di esplosivi. Era un equivoco, ma l'ossessione per gli animali-spia è antica quasi quanto la guerra.

di Lisa Signorile

 
L'otarda uccisa dalla polizia nel nord dell'Afghanistan
La notizia è di qualche giorno fa, riportata da NBC News e ripresa dai media di tutto il mondo (italiani compresi): la polizia afghana avrebbe trovato un uccello "non originario della zona e più grande di un'aquila" dotato di ordigno esplosivo.
   L'uccello era stato sorpreso dai poliziotti mentre camminava su una strada principale nella provincia settentrionale di Faryab, dove l'attività dei Taliban è ancora intensa. Insospettiti dalla presenza di un'antenna i poliziotti hanno deciso di giustiziare sul posto il potenziale nemico, rinvenendo pezzi di oggetti metallici.
   Solo che a una più vicina ispezione la "bomba" è risultata essere costituita da un tracciatore GPS dotato di batterie solari, da un'antenna per una migliore ricezione del segnale, da una piccola telecamera e da una targhetta metallica che riportava i dettagli di un'agenzia ecologica dell'Uzbekistan (ECCH), responsabile di un progetto di reintroduzione dell'ubara asiatica, o otarda di McQueen (Chlamydotis macqueenii).
   L'eccesso di zelo della polizia afghana, a dire la verità, non è del tutto ingiustificato perché altri animali sono stati usati per portare bombe. Nel 2013 una bomba legata a un asino ha ucciso, sempre in Afganistan, un poliziotto (e l'asino stesso) e ferito tre civili, mentre nel 2009 un simile attentato, sempre per mezzo di un asino, fallì solo per un pelo: alcuni soldati inglesi spararono all'animale carico di esplosivi prima che raggiungesse il trasporto truppe corazzato contro cui era stato indirizzato dai guerriglieri.
   La differenza è che mentre un asino pesa circa un quintale e mezzo e può portare 50 chili o più di esplosivo, un maschio di otarda maschio ne pesa solo un paio e difficilmente può trasportare più di un terzo del proprio peso. Inoltre si tratta di un uccello selvatico: difficile prevedere in che direzione si dirigerà. Se la polizia afghana può essere marginalmente giustificata per i suoi timori, lo sono di meno i media occidentali che per qualche giorno hanno continuato a dare per certa l'ipotesi dell'uccello-attentatore suicida, senza prima verificare o almeno controllare i video: qualunque ornitologo avrebbe capito subito che i componenti della presunta bomba non erano tali.
   Diffondere notizie del genere senza verificarle rende sospetto qualunque animale da cui sporga un'antenna di un GPS satellitare. Non ci si aspetta che dei soldati siano in grado di distinguere un raro animale da poco reintrodotto, anche se l'ubara era già assurta agli onori delle cronache perché Osama bin Laden amava cacciarla (su invito di alcuni politici pakistani). Ci si aspetta però che i media verifichino le notizie e non diffondano il panico tra i soldati al fronte. Per gli scienziati tracciare gli animali e avere in tempo reale notizie sulle loro rotte migratorie e sul loro destino dopo il rilascio è parte vitale della ricerca, e in molti casi aiuta non solo a saperne di più su di loro ma anche a proteggerli meglio.

- Uccelli israeliani
  Ciononostante, i casi di abbattimenti di uccelli rari "colpevoli" di portare un GPS con antenna sono molti, anche se spesso non fanno notizia. Fanno notizia quando la targhetta di identificazione proviene da posti conflittuali come le università israeliane, in un gioco politico che male si sposa con la scienza.
   Nel 2012, in Darfur, le autorità sudanesi sorpresero e arrestarono un individuo proveniente da Israele, nome in codice PP0277, lo arrestarono e gli sequestrarono l'equipaggiamento che consentiva agli israeliani di seguire i suoi spostamenti sul campo. Il problema è che PP0277 non era uno 007 del Mossad ma un tipo di avvoltoio detto grifone, uno di cento rilasciati e monitorati dall'università Ebraica di Gerusalemme e dal Servizio Natura Israeliano, dotato anche lui di GPS a batterie solari, ma non di telecamera.
   Il grifone era incluso in un programma scientifico per studiare le quote e le traiettorie di volo di questi uccelli spazzini nell'Africa del Nord. I giornali riportarono la notizia dell'avvoltoio-spia e ne seguì un incidente diplomatico tra Israele e il Sudan. Non è noto il destino del giovane grifone. Un altro grifone israeliano fu arrestato l'anno precedente in Arabia Saudita con l'accusa di spionaggio e "complotto sionista". Anche a voler essere complottisti, ci si dovrebbe chiedere cosa se ne farebbe il Mossad, avendo a disposizione tecnologia sofisticata in grado di monitorare il territorio via satellite, delle decine di foto di capre morte e interiora di cammello che si può immaginare vengano scattate da una telecamera installata su un grifone.
   Il timore di essere spiati da uccelli-007 israeliani non si ferma ai grifoni: un avvoltoio egiziano e un pellicano bianco, entrambi dotati di sistemi di tracciamento applicati in Israele a scopo scientifico, furono fermati in Sudan nei tardi anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Un gruccione e un gheppio, semplicemente dotati di anello di riconoscimento applicato in Isreale, furono invece "arrestati" in Turchia rispettivamente nel 2012 e 2013 col sospetto di contenere microchip-spia. Il gruccione in realtà era morto quando fu trovato ma l'anellino con la scritta "Israele" fu sufficiente a chiamare in causa un'unità antiterrorismo, secondo quanto riportato dalla BBC, e a suscitare ondate di teorie complottiste.

- La lunga storia dei volatili da guerra
  L'ossessione degli uccelli da guerra ha radici antiche, come dimostra la fotogalleria che vi abbiamo proposto a marzo. I colombi viaggiatori sono stati a lungo impiegati per scambiare messaggi e ordini al fronte e, durante la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si imbarcarono in un programma chiamato "Project Pidgeon" finalizzato a usare colombi kamikaze per guidare e correggere la rotta dei missili. Il progetto non andò mai in porto perché nel frattempo i tedeschi svilupparono bombe plananti teleguidate dagli aerei. In continuità con la tradizione bellica, e nell'impossibilità di usare veri uccelli, troppo imprevedibili e poco o niente controllabili, gli USA hanno ora in programma di usare dei droni-spia a forma di uccelli tipici del luogo, come ad esempio colombi, in modo che la silhouette del drone venga confusa con quella di un vero uccello. Facile che un vero uccello, magari raro, venga confuso con un drone e abbattutto.
   Gli uccelli e la scienza si aggiungono in questo modo alla lunga lista di vittime causate dalle guerre volute da pochi, ma di cui molti pagano le conseguenze.

(National Gepgraphic, 14 dicembre 2014)


Educazione e Shoah - Simposio Europeo, metodologie a confronto

di Ada Treves

Il Simposio Europeo "Stabilire una rete europea per l'insegnamento sull'educazione alla Shoah", organizzato nell'ambito del semestre italiano di Presidenza europea sarà ospitato lunedì 15 dicembre dal Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani di Roma. Realizzato dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, in collaborazione con lo Yad Vashem di Gerusalemme e con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, sarà l'occasione per fare il punto sull'educazione sulla Shoah in Italia e nei paesi dell'Unione Europea e, al tempo stesso, un momento di confronto fra metodologie e prassi consolidate.
   Dopo un benvenuto di Ugo Limentani, presidente del Pitigliani, sarà il Ministro dell'Istruzione Stefania Giannini ad aprire i lavori, seguita dagli interventi di Andreas Loverdos, Ministro dell'Istruzione e degli Affari Religiosi della Repubblica Ellenica, Mario Giro, Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale ed Eyal Kaminka, Direttore della Scuola internazionale per gli studi sull'Olocausto, Vince Szalay-Bobrovniczky, ambasciatore d'Ungheria in Austria e Capo delegazione dell'International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). E il presidente dell'UCEI Renzo Gattegna avrà il compito di chiudere la prima sessione.
   Le lezioni di due studiosi dello Yad Vashem - David Silberklang e Shulamit Imber, direttore pedagogico della International School for Holocaust Studies - di Michele Sarfatti, direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea e di Paul Salmons, del Center for Holocaust Education dello University College di Londra, prepareranno i workshop del pomeriggio, durante i quali i partecipanti - fra cui i rappresentanti dei Ministeri dell'Istruzione della maggior parte dei Paesi membri dell'Unione Europea - approfondiranno le tematiche trattate e presenteranno le buone pratiche dei rispettivi Paesi di appartenenza.
   La partecipazione al Simposio di due docenti scelti in ogni paese tra quelli che hanno condiviso presso lo Yad Vashem i percorsi di formazione previsti dal progetto European Desk permetterà di avviare immediatamente un ragionamento condiviso per la creazione di una rete di docenti e di esperti che operino in una dimensione europea, che condivida esperienze, informazioni e idee, che l'esperienza dei rappresentanti dei Ministeri potrà immediatamente supportare, perché diventi rapidamente efficace e operativa. A cornice del Simposio è allestita una mostra di alcuni lavori degli studenti italiani, preparati per il concorso "I giovani ricordano la Shoah", promossa ogni anno dal Miur in collaborazione con l'UCEI, quest'anno alla sua XII edizione: un primo esempio di una buona pratica, che porta innumerevoli giovani a raggiungere ottimi risultati in termini di studio, creatività e approfondimento critico.

(moked, 14 dicembre 2014)


In Israele primo attentato con l'acido

Barbarie in aumento. Integralista ferisce sette persone scelte a caso.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Ecco una nuova idea per l'Isis e gli altri terroristi: attaccare con l'acido. La Strada delle Gallerie che costeggia Betlemme e connette Gerusalemme ai villaggi circostanti nei Territori e dentro la Linea Verde, ieri è stata testimone del primo attacco chimico. È accaduto verso l'una del pomeriggio. Un'altra ispirazione rabbiosa dopo che in 11 attacchi dal 27 ottobre, quando furono travolte alla fermata del tram una neonata e una ragazza, sono state trucidati 24 passanti. Ieri un terrorista palestinese ha gettato acido su sette israeliani, fra cui una madre con le sue tre figlie e una delle nipotine. Altri due passanti sono stati feriti. Il militante della Jihad Islamica, Amal Shahama del villaggio di Nahalin, vicino a Betlemme, ha proseguito la caccia con un cacciavite finché l'ha fermato un colpo di pistola alle gambe. La Strada delle Gallerie è una via di grande traffico, sia per i palestinesi che vanno a Husan come a Hebron, sia per gli ebrei che abitano nel Gush Etzion ma anche fuori dei Territori. Il terrorista è riuscito a gettare l'acido dentro un'auto.
   L'odio palestinese compie attentati ogni giorno spesso col plauso dell'Autorità Palestinese, ma questo non deterre i Parlamenti europei dal chiedere l'istituzione dello Stato Palestinese e ad ogni attacco terroristico si biasima non la campagna d'odio, ma la vittima, Israele, che secondo la lettura politically correct «esaspera» i palestinesi. Un po' come noi esasperiamo l'Isis, che ci tagliano la testa perché Obama li bombarda. Stavolta le colpe di Israele sono legate alla morte del ministro palestinese Abu Ein durante una manifestazione. Tutto il mondo sostiene che un politico palestinese è stato vilmente assassinato. Il ministro si era rifugiato in America dopo aver compiuto un attacco terroristico che uccise due sedicenni nel '79, era stato poi estradato e condannato all'ergastolo, e nell'85 fu liberato nel famoso «scambio Jibril». Patologi israeliani e palestinesi differiscono sulle cause della morte: per i palestinesi il trauma dello scontro fisico con la polizia è stato decisiva, ma gli israeliani hanno verificato una gravissima situazione cardiaca e delle coronarie, bloccate da tempo per 1'80 per cento. Il corrispondente di Sky News ha testimoniato che un infermiere israeliano ha cercato di salvarlo ma è stato bloccato.
   Ci sono ragioni per non gettarsi in una campagna d'odio come quella che definisce l'episodio «un crudele assassinio» minacciando il blocco della collaborazione di sicurezza. Ma anzi, l'attacco terroristico di ieri ha un suo corrispettivo internazionale nelle fucilate sparate da quattro motociclisti contro l'ambasciata d'Israele a Atene. Le accuse contro lo Stato ebraico, dalle tv arabe al Parlamento irlandese all'Onu, ottengono l'effetto desiderato.

(il Giornale, 13 dicembre 2014)


Il piccolo esodo degli ebrei italiani

Israele. Nel 2014 sono partiti in 300. Mai così tanti dagli anni '70. Un tempo erano ragazzi, ora soprattutto famiglie. Più romane che milanesi. Alla ricerca di un impiego e della possibilità di vivere pienamente la propria cultura.

di Giorgio Ghiglione

Trecento persone. È il numero degli ebrei italiani che nel 2014 ha scelto di fare l'aliyah, l'emigrazione verso Israele. Una piccola cifra se paragonata all'esodo che riguarda la Francia, ma nel nostro Paese la comunità è molto più ridotta, attestandosi intorno ai 35 mila membri, secondo le stime della comunità ebraica di Milano.
 
Sergio Della Pergola
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   «Non è una migrazione colossale, però è un dato interessante se uno guarda la serie storica» spiega il professor Sergio Della Pergola, docente di Studi sulla popolazione ebraica all'Università di Gerusalemme. «L'immigrazione più massiccia è avvenuta subito dopo la Guerra dei Sei giorni, quando si arrivò al massimo storico, poco più di 350 persone», continua Della Pergola. «Quest'anno siamo alla cifra più alta a partire dagli anni '70».
   Quello degli olim, questo il nome degli ebrei che vanno a vivere in Israele, è un fenomeno in crescita da almeno 10 anni. Come ci racconta ancora Della Pergola: «A partire dal 2003-04 si è verificato un continuo incremento nel numero degli immigrati verso Israele. Se guardiamo i dati degli anni precedenti, sia nel 2013 che nel 2012 il numero è di circa 130-140 persone. Nel 2014 abbiamo un raddoppio rispetto ai dati dei due anni precedenti, che a loro volta erano più alti rispetto a quelli di tutto l'ultimo decennio».
   Ma chi sono i nuovi israeliani di origine italiana? «Ce ne sono due tipi» racconta al telefono da Tel Aviv Fiammetta Maregani. «Quelli come me che non vengono solo per ragioni legate al sionismo, ma anche per motivi culturali ed economici, e quelli invece più legati agli ideali religiosi e sionisti, Ricercatrice in aantropologia all'Università di Tel Aviv, Martegani si è trasferita in Israele nel 2012. «Fino a dieci anni fa - spiega quelli che facevano l'aliyah per ragioni politiche e religiose erano più numerosi. Oggi, vista anche la crisi in Italia, molti si trasferiscono per motivi economici».
   A differenza di altri casi in Europa, come quello della comunità ebraica francese, i motivi che spingono a salire su un aereo per trasferirsi sull'altra sponda del Mediterraneo non sono legati alla paura dell'antisemitismo. «L'Italia non è la Francia. Dal mio punto di vista l'antisemitismo in Italia è quasi inesistente, e non è un motivo per scappare» dice Stefano Jesurum, giornalista, consigliere della Comunità ebraica di Milano e autore del libro Israele nonostante tutto (Longanesi). Per Jesurum i motivi del boom di aliyah sono da ricercarsi nella crisi economica e nella possibilità di contare su una rete di conoscenze nel Paese di arrivo: «Chi ha la possibilità di avere degli agganci in Israele prova a emigrare. Soprattutto i giovani. Un paio di figli di miei amici sono andati lì non tanto con l'idea di trasferirsi, ma perché qui non trovavano lavoro».
   Sarebbe impreciso però ridurre l'emigrazione verso Israele a una scelta dettata esclusivamente dalla mancanza di lavoro. Per chi parte, crisi e motivazioni religiose non si escludono a vicenda, anzi. «Israele offre l'opportunità di vivere il proprio ebraismo in maniera più completa Parecchie famiglie che hanno coltivato il sogno venirci ad abitare oggi si trovano in una condizione che spinge a fare il salto» ragiona da Gerusalemme Jonathan Pacifici. In Israele dal 1997, Pacifici è il fondatore e direttore generale del fondo di Venture Capital JP & Partners e gestore del sito Torah.it. Dal suo punto di vista è sbagliato ridurre tutto alla semplice questione economica: «lo starei attento a descriverla come un'immigrazione di opportunità: perché è comunque determinata da un forte attaccamento identitario, a volte i due elementi si sovrappongono. Fare una vita pienamente ebraica in Italia non sempre è facile, soprattutto per chi ha difficoltà economiche. Il cibo kosher è più caro rispetto a quello di un normale supermercato e l'iscrizione a una scuola ebraica incide pesantemente sulle finanze delle famiglie».
   L'impossibilità di coniugare valori ebraici con la vita in Italia è alla base della scelta di Micol Picciotto ed Edoardo Marascalchi, giovane coppia residente a Netanya (30 km da Tel Aviv). «Ci siamo trasferiti quando abbiamo scoperto che aspettavamo il primo figlio» racconta Edoardo, «ci siamo chiesti cosa aveva da offrire Milano a dei bambini ebrei e abbiamo deciso fare l'aliyah. A Milano vivere rispettando la kasherut è costosissimo, in Israele è più economico. Gli stipendi sono paragonabili a quelli italiani e per un osservante c'è tutto, posso scegliere fra tre scuole religiose e dieci non religiose».
   Fino allo scoppio della crisi a fare l'aliyah erano soprattutto i giovani, che generalmente sceglievano di rimanere dopo un anno di studio, tanto che la maggior parte degli olim erano studenti sotto i 21 anni.
È cambiata la geografia delle partenze: mentre prima si trasferivano soprattutto milanesi, oggi l'aliyah riguarda Roma in primis: il 77% degli emigranti proviene dalla comunità capitolina e solo il 14% da quella milanese.
Oggi la situazione è cambiata completamente e a trasferirsi sono soprattutto le famiglie. Secondo i dati dell'Irgun Olè Italia (l'associazione degli olim italiani) il 64% dei nuovi arrivati è sposato.
È cambiata la geografia delle partenze: mentre prima si trasferivano soprattutto milanesi, oggi l'aliyah riguarda Roma in primis: il 77% degli emigranti proviene dalla comunità capitolina e solo un modesto 14% da quella milanese. Le ragioni sono da cercare nella composizione socio-economica della comunità ebraica romana, come ci spiega il professor Della Pergola. «A Roma c'è un ceto di piccoli commercianti che è fortemente danneggiato dall'attuale congiuntura, e quindi più interessato a emigrare. Si tratta principalmente di un'immigrazione a basso reddito dovuta al fatto che l'economia israeliana ha retto molto meglio di quella italiana».
   L'aumento del flusso di immigrati fa sì che molte famiglie scelgano di vivere in città fino ad oggi poco abitate da italiani. Fino al 2010 chi arrivava dal nostro Paese sceglieva come luogo di residenza grandi città come Gerusalemme e Tel Aviv. Quest'ultima è da sempre il fulcro della vita economica e culturale della nazione, ma è anche una delle città dai costi più proibitivi al mondo. Così, complice il caro affitti, molti dei nuovi immigrati hanno iniziato a creare comunità italiane nei piccoli centri che gravitano attorno a Tel Aviv, come Rahanana, Ashod o Netanya.
   Il lavoro per gli olim non manca, ci spiega Edoardo MarascaIchi: «Gli italiani sono ricercatissimi perché sono pochi. Il problema è che il grosso della richiesta riguarda il gioco d'azzardo online e il trading online Forex. Nel Forex si tratta più che altro di chiamare i clienti per aiutarli a entrare nel giro delle scommesse finanziarie, essenzialmente tele-marketing. Nel gioco d'azzardo c'è meno contatto col cliente, ma il settore è sempre lo stesso. Il solo fatto di parlare italiano dà la possibilità di lavorare in questo campo, non occorre neanche conoscere l'ebraico, basta un po' di inglese. Però se inizi a fare quel tipo di lavoro difficilmente smetti».
   Il problema per i nuovi israeliani non sembra tanto quello di trovare impiego, ma il tipo di lavoro che si trova, soprattutto per chi non ha specializzazioni particolari o non parla l'ebraico: «Se non conosci la lingua l'integrazione è difficile, e se non la si impara subito è molto arduo riuscirci dopo. Chi arriva in cerca di lavoro spesso non riesce a bilanciare il lavoro con lo studio. Vanno subito a lavorare in aziende di trading online e finiscono per perdersi i sei mesi di Ulpan (il corso intensivo di lingua ebraica messo a disposizione dei nuovi arrivati), col risultato che finiscono a parlare italiano fra italiani».
   Eppure, nonostante le difficoltà di inserimento e il conflitto coi palestinesi, il numero di ebrei che lasciano l'Italia per Israele pare destinato ad aumentare ancora. Come spiega amaramente Fiammetta Martegani «almeno qui c'è lavoro. In Italia non c'è neanche quello».
   Il ritorno in Israele è una costante della tradizione ebraica, codificata dalla Repubblica poco dopo la sua nascita. Non solo ogni ebreo ha il diritto di trasferircisi, ma diverse agenzie governative fanno il possibile per spianare la strada ai più determinati. Negli ultimi anni gli ebrei dell'Europa occidentale sembrano i più convinti a partire. Secondo le statistiche della Jewish Agency for Israel, 4.930 ebrei nel 2013 avrebbero lasciato il Vecchio continente per andare nella loro Terra santa. 1135% in più rispetto al 2012.
   Il gruppo più consistente proviene dalla Francia, Paese che ospita la comunità ebraica più numerosa d'Europa. Nel 2013 3.120 ebrei d'oltralpe si sono trasferiti all'ombra del Muro del Pianto, il 63% in più rispetto al 2012. Per la prima volta dal 2005, il numero degli ebrei immigrati in Israele provenienti dalla Francia ha superato quello degli statunitensi.
   Questi record hanno vita breve. Solo nei primi otto mesi del 2014, 4.566 ebrei sono atterrati in Israele con un aereo proveniente da Parigi. Doppiando quasi la Russia, da dove nello stesso periodo sono emigrate 2.632 persone verso Tel Aviv e dintorni, la Francia si appresta a diventare la fonte primaria dell'immigrazione in Israele. "Per la fine dell'anno dovremmo arrivare a 6 mila partenze. A giustificare tutto ciò è il crescente clima di antisemitismo» spiega in un'intervista rilasciata al quotidiano israeliano Haaretz Ariel Kandel, emissario parigino della Jewish Agency for Israel.
   In crescita anche l'immigrazione proveniente dall'Ucraina, aumentata del 61% nei primi otto mesi del 2014. Fino ad agosto sono atterrati in Israele 3.252 ebrei residenti nel Paese attraversato dalla guerra ccivile La maggioranza proviene dalla Crimea, dove tra gennaio e maggio 2014 si è registrato un aumento dell'emigrazione verso Israele pari al 300% rispetto allo stesso periodo nell'anno precedente. Per affrontare al meglio questa incredibile crescita, la JewishAgency ha riservato un'apposita hot line agli ucraini pronti all'aliyah.
   
(pagina we, 13 dicembre 2014)


La fedeltà di Dio nella storia

«La tua bontà sussiste in eterno; nei cieli è fondata la tua fedeltà» (Salmo 89:24). Dio è buono, lo sappiamo, perché Dio è amore. Ma che significa dire che Dio è fedele. Che cosa aggiunge la fedeltà di Dio al suo amore? Come credenti sappiamo riconoscere la fedeltà di Dio nella nostra esperienza di vita personale, ma che cos'è la fedeltà di Dio nella storia? Per poterne parlare non si può che rivolgere lo sguardo su Israele e considerare i fatti del suo passato e del suo presente.
"La fedeltà di Dio nella storia antica e recente di Israele": è questo il tema trattato da Marcello Cicchese nell'ultimo Convegno di Edipi tenutosi a Catania nei giorni scorsi. Mettiamo a disposizione dei lettori la registrazione, scusandoci per la qualità non molto buona dell'audio.


(Notizie su Israele, 13 dicembre 2014)


Nicholas Winton salvò 669 bambini ebrei. Ecco il momento in cui li incontra

Con il suo coraggio salvò 669 bambini durante la Seconda Guerra Mondiale. Quei bambini, ormai uomini e donne adulti, hanno voluto fargli una sorpresa per ringraziarlo. Un video mostra quel toccante momento e costituisce un grandissimo esempio di vita per tutti noi.

Anni oscuri quelli, durante i quali sono state migliaia le persone uccise e tra loro, purtroppo, anche tantissimi bambini. Poche, invece, le persone che si sono adoperate per evitare questi stermini. Uno di loro è proprio il protagonista di questo video, Nicholas Winton.
L'uomo, infatti, non soltanto si prodigò per il salvataggio di questi bambini ma non aveva detto niente a nessuno fino a quando nel 1988 la moglie ritrovò un quaderno risalente al lontano 1939 in cui l'uomo aveva segnato i nomi e le foto dei bambini che aveva tratto in salvo.
Per ricompensare la sua generosità e soprattutto per mostrargli il risultato del suo coraggio quei bambini, ormai uomini e donne più che adulti, hanno voluto fargli una sorpresa. Mentre Nicholas Winton se ne sta seduto, infatti, si rende conto che è circondato proprio da quei bambini che un tempo salvò e che grazie a lui hanno avuto la possibilità di crescere, vivere, formarsi una famiglia e cercare di dimenticare quei terribili momenti.
Un video riprende questo struggente momento. A rendere tutto ancora più emozionante, se ciò fosse possibile, la commozione di quest'uomo colto di sorpresa da un incontro del genere ma soprattutto la meraviglia del risultato del suo coraggio. Quei bambini, adesso adulti, sono riusciti a sopravvivere all'inferno dell'Olocausto soltanto grazie a lui.
Un video, quindi, che costituisce un vero reperto storico ed un grande esempio di vita.

(Fidelity News, 13 dicembre 2014)


Abbas dalla parte dell'Egitto: ha diritto di difendersi e di eliminare i tunnel usati da Hamas

Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas) ha detto di essere favorevole al giro di vite dato dall'Egitto ai tunnel usati da Hamas tra la Striscia di Gaza e la Penisola del Sinai e di sostenere le azioni prese dal Cairo per proteggere il proprio Paese dai militanti. ''Siamo favorevoli a tutte le misure precauzionali prese dalle autorità egiziane per chiudere i tunnel e fermare il traffico di armi e il passaggio delle persone tra Gaza e il Sinai'', ha detto Abbas in un'intervista al giornale egiziano Al-Ahram Al-Arabi che sarà interamente pubblicata domani. ''Continueremo a sostenere qualsiasi misurata mirata a proteggere l'Egitto dai pericoli'', ha detto Abbas in stralci pubblicati dall'agenzia di stampa Mena.
Dalla deposizione del presidente islamico Mohammed Morsi il 3 luglio del 2013 da parte dell'esercito egiziano, la nuova leadership del Cairo accusa i Fratelli Musulmani di cospirare con Hamas. L'esercito egiziano ha quindi provveduto a distruggere i tunnel da Gaza sostenendo che venivano usati dal movimento di resistenza palestinese per il contrabbando di armi, cibo e denaro. Dalla deposizione di Morsi sono stati distrutti più di 1600 tunnel. L'Egitto ha quindi creato una zona cuscinetto con la Striscia di Gaza demolendo centinaia di case.
L'Egitto sospetta anche che militanti di Hamas abbiamo aiutato i jihadisti a condurre attentati contro le forze della sicurezza egiziana nella Penisola del Sinai. Solo lo scorso ottobre 31 soldati furono uccisi in un attentato kamikaze proprio nel Sinai.
''E' dimostrato che membri di Hamas abbiano un ruolo negli attacchi terroristici contro l'Egitto, che ha il diritto di punirli'', ha detto Abbas citato dalla Mena.

(Adnkronos, 12 dicembre 2014)


Ma Hamas non fa parte di quella "Palestina” di cui Abbas è presidente, il cui governo Hamas appoggia e il cui "Stato" tutto il mondo si appresta a riconoscere? Lo stordimento profetico provocato da Gerusalemme sta allargandosi. M.C.


Attivista palestinese per i Diritti Umani implora Malala: niente soldi a UNRWA e Hamas

La lettera aperta di Bassem Eid, noto attivista palestinese per i Diritti Umani, a Malala Yousafzai, apre uno squarcio sulle connessioni tra UNRWA e Hamas. Un testo sorprendente che dovrebbe seriamente far riflettere.

Una lettera aperta scritta da uno dei più noti attivisti palestinesi per i Diritti Umani al neo premio Nobel per la Pace apre una squarcio nel sistema omertoso (anche da parte dei donatori internazionali) che copre gli abusi commessi da Hamas e dalla UNRWA (l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) nei confronti dei bambini palestinesi e degli abitanti di Gaza. Un invito esplicito a non donare denaro né ad Hamas né tantomeno alla UNRWA in quanto alimenterebbe il fondamentalismo islamico, cioè quello contro cui proprio Malala Yousafzai combatte.
A scrivere la lettera aperta a Malala è stato Bassem Eid, uno dei più noti attivisti per i Diritti Umani palestinese, quando ha saputo che avrebbe voluto devolvere una certa somma a favore dei bambini di Gaza. Ecco il testo (davvero sconvolgente) della lettera aperta pubblicata da The Media Line e da altre testate. Vale la pena rifletterci....

(Right Reporters, 12 dicembre 2014)


L'uomo che sopravvisse alla Shoah, al cancro e all'uragano Sandy

 
Morris Sorid aveva 101 anni e una storia incredibile alle spalle. Era sopravvissuto alla Shoah, a un tumore al retto del colon e, da ultimo, anche all'uragano Sandy, che aveva colpito gli Stati Uniti nel 2012. Viveva in una casa di cura nel Queens, a New York. Aveva due figli, nipoti e cinque bisnipoti. Nell'ottobre di due anni fa, mentre il vento e le piogge impetuose assediavano senza sosta la città, Morris aveva dovuto lasciare la sua camera e trasferirsi nella biblioteca della struttura, perché ritenuta più sicura. Cercò di mettersi subito in contatto con i due figli, Harvey e Victor, per sapere se stavano bene. Il suo infermiere, Archie Catacutan lo rassicurò, garantendogli che erano entrambi in salvo. Tuttavia, anziché rasserenarsi, il signor Sorid aveva cominciato a preoccuparsi per l'uomo che condivideva con lui la stanza. Gli aveva dato la coperta e si era offerto di lasciargli il letto. Essendo accanto al muro, sarebbe stato più riparato.
Ricordava quasi con spavalderia quei drammatici momenti. Al giornalista del NY Daily News che lo ha intervistato nel 2012, un anno prima della sua morte, dichiarava: «A dirti la verità, l'uragano non mi ha entusiasmato più di tanto». Non facciamo fatica ad immaginarcelo mentre lo diceva, con una lieve alzata di spalla e un sorriso agli angoli della bocca. Dopo tutto, Morris Sorid era stato quasi «distrutto sei o sette volte» nella sua vita. Non sarebbe certo bastato un uragano, per metterlo fuori gioco.
Nato in Polonia, a Pruzany (oggi Bielorussia), prima di diventare Morris Sorid si chiamava Moshe Yudewitzin e si guadagnava da vivere come educatore. Quando Hitler salì al potere in Germania, lui viveva ancora nel suo paese natale, insieme alla moglie, Regina, e alla figlia, Tsveeyah. Nel 1939, come sappiamo, i nazisti invasero la Polonia, rastrellarono i 10 mila cittadini ebrei e li confinarono nei ghetti. Tre anni più tardi, sarebbe cominciata la deportazione nei campi di concentramento.
Morris Sorid e la moglie furono avvertiti che la situazione sarebbe ben presto precipitata. Messi sull'avviso anche dalle sparizioni di conoscenti a cui non avevano saputo dare una giustificazione, decisero di lasciare la figlia, che allora aveva cinque anni, insieme ai nonni, mentre loro due si sarebbero nascosti in un bunker sotto la casa. Dopo 18 giorni lasciarono il loro rifugio e vennero accolti da un contadino cattolico, che rischiò la vita pur di salvarli. Poco dopo, si inoltrarono nella foresta di Bilaloviez. Vagarono per circa una settimana, finché si imbatterono in una brigata dell'esercito russo, tra le cui fila vennero accolti. Regina era una levatrice e si diede da fare per curare i soldati malati e feriti; il marito, invece, partecipò ad alcune azioni militari di resistenza. Nel luglio 1944 uscirono dalla foresta e dopo due mesi Regina partorì un bambino: lo chiamarono Victor, per celebrare la loro liberazione. Ce l'avevano fatta, erano vivi.
Poco tempo dopo la fine della guerra, vennero a sapere che la figlia che avevano affidato alle cure dei nonni era morta insieme al resto della famiglia, ad Auschwitz. Sorid ricorda che lui e la moglie avevano il cuore spezzato, ma erano decisi a costruire una nuova esistenza. Così, nel 1948, emigrarono in America, stanziandosi a Brooklyn, New York. Quello sarebbe stato il luogo in cui avrebbero potuto ricominciare a vivere, insieme a Victor e all'altro figlio, Harvey. Una volta giunti a destinazione, Yudewitzin cambiò il proprio cognome in Sorid (variazione della parola ebrea Sarad, sopravvissuto). Cominciò a lavorare come camionista, poi come commerciante. Infine, si impiegò come autista di taxi.
  Sorid ha vissuto per molto, molto tempo, rendendo onore al cognome che ha voluto assumere per iniziare la sua nuova vita in America. A 95 anni ha scritto persino un libro di memorie, Un miracolo in più. Purtroppo nel gennaio 2013, poco dopo il suo 102esimo compleanno, ha deciso che era giunta l'ora di accomiatarsi dalla sua famiglia, prendere la valigia e imbarcarsi per un altro viaggio.

(Bergamo Post, 12 dicembre 2014)


Israele a tutto volume

È il progetto, firmato Herzog & De Meuron per la "National Library" a Gerusalemme. Copertura in pietra, luce dall'alto e grandi vetrate per le sale di lettura

di Giuliana Zoppis

Sorgeva ad Alessandria d'Egitto la più importante biblioteca dell'antichità, oggi invece la più grande del mondo è a Washington ed è la Library of Congresso. In fatto di biblioteche contemporanee, però a far parlare di sé è il progetto messo in campo a Gerusalemme, con inizio dei lavori fra un anno e fine nel 2019.
Gli archi divi planetari Jacques Herzog e Pierre De Meuron, sempre a caccia di invenzioni formali e materiali insoliti negli edifici che disegnano (dalla Tate Modero di Londra allo Stadio di Pechino, e in Italia è loro il progetto della nuova sede Feltrinelli a Milano), hanno ideato per la National Library of lsrael (in collaborazione con lo studio locale Amir Mann&Ami Shinar Architects and Planners) una superficie di 34mila metri quadrati su sei livelli, con copertura curva di pietra forata e in alto un "occhio di Dio" che osserva la sapienza umana, infondendo luce. La forma scultorea della pietra, coerente con il contesto, poggia a terra su un corpo vetrato. La parte in pietra custodirà lo spazio della biblioteca vera e propria, mentre le vetrate in basso
esporranno alla luce e allo sguardo dei passanti le sale da lettura e le funzioni pubbliche», dicono i progettisti.
La Biblioteca sorgerà non lontano dalla Knesset, il Parlamento, e vicino ai musei d'Israele e della Scienza. Ospiterà strutture culturali e spazi per studio e ricerca, con migliaia di postazioni di lettura e una hall per le "esperienze digitali". I quattro piani sotto terra accoglieranno un deposito a clima controllato (per la conservazione di testi rari e antichi) e un parcheggio. Il prestito dei volumi sarà automatizzato.

(la Repubblica, 13 dicembre 2014)


In Galilea fiorisce il turismo dei kibbutz

Divenuti resort di lusso si affiancano a pellegrinaggi cristiani.

di Elisa Pinna

 
L'epopea dei kibbutz, con i loro giovani pionieri dallo sguardo fiero e dal ciuffo ribelle, è ormai lontana. Il sogno di realizzare in Israele un collettivismo socialista è svanito da un pezzo. Tuttavia molti kibbutz, lungo le rive del lago di Tiberiade, si sono riconvertiti a splendidi resort turistici che accolgono ogni anno centinaia di migliaia di visitatori, aggiungendo così un tassello diverso ai tanti motivi di richiamo, soprattutto religiosi, della Galilea. Il primo kibbutz (in italiano 'raggruppamento') a trasformarsi in albergo fu Ginosar - a pochi chilometri da Magdala - nel 1964, prima che il giovane Stato di Israele combattesse ancora tante battaglie per la sua sopravvivenza. Gli abitanti di Ginosar diedero l'addio alla vita collettiva, ai dormitori in comune per i bambini, all'ateismo, ed aprirono un resort che introdusse immediatamente, per ragioni di business verso un pubblico religioso, il cibo kosher, come racconta ad ANSAmed l'attuale direttore del complesso, il sessantaduenne Roni Manor. Oggi è un magnifico albergo che ospita 135 mila turisti all'anno, tra cui 6 mila italiani, e dove lavorano arabi, drusi, beduini israeliani. Ginosar, tra l'altro, si dotò di una piccola sinagoga e ne sta progettando una più grande.
   Attorno al lago, che si apre come una gemma tra le colline di basalto ad occidente e le alture del Golan ad oriente, sono disseminati kibbutz turistici tra chiese e monasteri che segnano i luoghi della predicazione di Gesù. Il kibbutz di Kinneret, dove nacquero molti padri fondatori dello Stato di Israele, ha addirittura aperto un nuovo sito del battesimo di Gesù sul fiume Giordano, dato che quello storico, in territorio palestinese, è ormai inaccessibile per divieto militare.
   La struttura si presenta come un centro ricreativo di lusso con docce, spogliatoi, vesti bianche per le centinaia di pellegrini, sopratutto evangelici e protestanti, che ogni giorno si tuffano in un'ansa del Giordano. Non mancano un ristorante e un enorme negozio di souvenir che vende di tutto, dalle croci in legno ai vini del Golan, fino ai prodotti del Mar Morto. Per chi vuole invece assaporare un pò di socialismo d'epoca, ecco il kibbutz Sha'ar Hagolan, dove si crede ancora nei principi egualitari e laici e dove i membri percepiscono budget mensili e non salari diversificati, come avviene altrove. Qui, i rabbini non possono mettere piede anche se, dopo interminabili discussioni, la guest house ha accettato di servire il cibo kosher. Tra palme, alberi di banano, eucalipti, misteriose e gigantesche piante provenienti dal Sudafrica, i visitatori pagano l'ospitalità e contribuiscono così al bene collettivo, senza spaccarsi la schiena a lavorare nei campi o a pulire i bagni, come si usava con gli ospiti di un tempo. Il turismo dei kibbutz si affianca e si mescola ai grandi flussi di pellegrini cristiani che, da tutto il mondo, rivivono la memoria della vita di Gesù, in un panorama per lo più ancora intatto.
   "Per i pellegrini cristiani è uno dei momenti più toccanti del viaggio in Terra Santa", dice ad ANSAmed mons. Liberio Andreatta, vicepresidente e amministratore delegato dell'Opera Romana Pellegrinaggi. "Qui riconoscono i paesaggi descritti dal Vangelo. I campi di grano, le viti".
   Tra Cafarnao, il villaggio di Pietro, Tabga, dove avvenne il miracolo dei pani e dei pesci, o il monte delle Beatitudini, è tutto un susseguirsi di piccole baie, le cui spiagge hanno la forma di teatri naturali. Tra i luoghi meno battuti, sulla parte orientale del lago, gli archeologi israeliani hanno anche restaurato una suggestiva basilica cristiana del sesto secolo, costruita là dove - secondo i Vangeli - Gesù fece il suo primo miracolo tra i non ebrei, cioè nell'antico villaggio di Gharesa. Qui, Cristo liberò un indemoniato da una legione di diavoli, trasferendoli in duemila porci che, impazziti, si gettarono e annegarono nel lago.
   
(ANSAmed, 12 dicembre 2014)
   

Israele - Emergono nuovi rotoli di Qumran

Lavorando su materiali degli scavi archeologici degli anni '50. sono stati ritrovati alcuni filatteri (gli astucci, usati dai religiosi ebrei, che contengono piccoli rotoli manoscritti con un testo biblico) ancora intatti. Grazie alle nuove tecnologie è stato dunque possibile individuare il contenuto al loro interno. Con grande delicatezza si procederà all'apertura nel tentativo di leggere i frammenti scritti, probabilmente conterranno versetti della Bibbia, ma la loro antichità (duemila anni) li rende particolarmente preziosi e utili.

(Metro, 12 dicembre 2014)


Attivista palestinese scrive a Malala: non donare soldi a Hamas e Unrwa ma ai bambini di Gaza
Articolo da diffondere


 
L'attivista pakistana Malala Yousafzai, che due giorni fa a Oslo ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace, stia attenta a non dare soldi a Hamas. E' quanto scrive l'attivista palestinese per i diritti umani e analista politico Bassem Eid, che in una ''lettera aperta a Malala'' le chiede di mantenete la sua promessa di donare i soldi ricevuti in premio ai bambini della Striscia di Gaza, l'enclave palestinese, che quest'estate è stata teatro di 51 giorni di guerra tra Israele e il movimento radicale palestinese, è governata da Hamas. Che, sottolinea l'attivista, ''agisce in base ai principi delll'Islam radicale e non ai principi delle Nazioni Unite''.
   Congratulandosi con Malala ''per il tuo coraggio e per non aver avuto paura dell'Islam radicale nel suo Paese'', Eid dice di aver ''apprezzato la decisione di devolvere i soldi del Premio ai bambini dei rifugiati palestinesi a Gaza, perché loro hanno davvero bisogno del tuo aiuto''. Tuttavia, scrive, ''ti devo avvisare che se vuoi fare questa donazione, per favore falla di persona e non attraverso l'Unrwa'', l'Agenzia delle Nazioni Unire che si occupa dei rifugiati palestinesi. Secondo l'attivista i fondi inviati all'Unrwa finiscono ''nelle mani dell'Islam radicale'' e ''i bambini rifugiati palestinesi non ne beneficeranno''.
   Eid invita poi Malala ''personalmente a casa mia a Gerusalemme'', spiegando che è pronto a ''organizzare per te un viaggio a Gaza per incontrare gli studenti in modo che tu possa dare personalmente il tuo dono ai bambini che hanno bisogno del tuo aiuto''. L'attivista denuncia poi legami tra l'Unrwa e Hamas, così come il cambiamento ideologico e radicale registrato nei programmi scolastici da quando il movimento islamico palestinese è al potere. L'attivista parla anche di ''indottrinamento'' e di ''lavaggio del cervello'' che induce i bambini di Gaza a crescere con l'obiettivo di diventare ''martiri''.
   Eid sostiene quindi che ai bambini di Gaza non sono insegnati ''i valori dell'Onu, ma i valori del jihad, della liberazione della Palestina e del diritto al ritorno tramite la forza e le armi''.

(Adnkronos, 12 dicembre 2014)


... i fondi inviati all'Unrwa finiscono ''nelle mani dell'Islam radicale'' e ''i bambini rifugiati palestinesi non ne beneficeranno''. Quelli che si commuovono sulle sofferenze dei bambini palestinesi hanno qualcosa da dire al riguardo? M.C.


Quando il vino è "kasher": alla scoperta delle migliori etichette israeliane

Lunedì 15 a Roma, città che a tavola è molto legata alle tradizioni giudaiche, un evento tutto dedicato ai vini che rispettano il sistema di norme alimentari ebraiche. In degustazione i prodotti delle migliori aziende di Israele, come Domaine du Castel e Barkan, ma anche qualche etichetta italiana.

di Andrea Cuomo

Quello dei vini kasher è un mondo affascinante ma da noi quasi sconosciuto. Per questo è particolarmente prezioso l'evento che si terrà lunedì 15 dicembre a Roma presso la Città dell'Altra Economia (largo Dino Frisullo): il Roma Kosher Wine Festival proporrà in degustazione alcune tra le più rinomate etichette del panorama enologico israeliano (Domaine Du Castel, Dalton, Galil Mountain, Barkan, Flam, Segal, Tabor, Jerusalem Hills Winery) oltre ad alcune selezionate produzioni kasher di aziende italiane (Gian Paolo Manzone, Le Macie-Terra di Seta, Gotto d'Oro, Castello di Poppiano, Araldica, Vecchia Cantina di Montepulciano, Feudi di San Gregorio).
I vini saranno accompagnati dalla degustazione di formaggi kasher prodotti nella provincia di Roma e in altre regioni italiane.
La manifestazione, che è sotto l'egida della Azienda Romana Mercati, rappresenta un'altra tappa dell'avvicinamento delle aziende vinicole e dell'agro-alimentare italiane alla «Kasherut», il sistema di norme alimentari ebraiche da seguire per certificare i prodotti come idonei al consumo conformemente ai dettami religiosi. Un mondo che solo erroneamente si potrebbe considerare lontano e riservato a una minoranza della popolazione. La cucina giudaico-romanesca, infatti, è tra le più feconde e saporite dell'intera Italia.
Tre le sezioni del programma: il primo appuntamento, dalle 11 alle 13, è una lezione agli studenti della Scuola Alberghiera di Roma su vino e cucina kasher. Un viaggio nei significati e nelle procedure di lavorazione con interventi di tecnici qualificati ed autorità religiose. Nel pomeriggio (dalle 16,30 alle 17,30) spazio a stampa e addetti ai lavori, con la presentazione delle aziende e dei vini in degustazione. La sera (dalle 18 alle 21,30) si chiude alla grande con la degustazione, organizzata a tavoli d'assaggio tematici ed aperta ai soli invitati.
Le aziende presenti sono tra le più celebri di Israele, con vini di qualità che si sono meritati i più importanti riconoscimenti internazionale, come Domaine Du Castel, Barkan e Galil Mountain. Alcune di esse sono anche presenti nelle carte dei vini di alcuni grandi ristoranti italiani. A esse si affiancano realtà minori che si affacciano per la prima volta sul mercato italiano. Con circa 48 milioni di bottiglie prodotte nel 2012 che si sono ridotti del 10-15 per cento nel corso dello scorso anno a causa di una minore resa dei vitigni ma a tutto vantaggio della qualità del vino prodotto, e con un fatturato di circa 20 milioni di dollari (dati 2007) Israele va pian piano conquistando una osizione di tutto rilievo nella scena enologica internazionale.
Tra i vini kasher italiani ci sarà un Bianco Igt Lazio certificato kosher di Gotto d'Oro, azienda cooperativa dei Castelli Romani. In assaggio ci saranno anche prodotti della filiera agro-alimentare romana certificati, quali le olive Ficacci e i tartufi La Rustichella.

(il Giornale, 12 dicembre 2014)


Spari contro l'ambasciata di Israele ad Atene

ATENE - Colpi di arma da fuoco sono stati sparati nella notte fra giovedì e venerdì contro l'ambasciata israeliana ad Atene: lo ha reso noto la polizia locale, specificando che non ci sono vittime. Probabilmente si è trattato di colpi di Kalashnikov sparati da una moto sulla quale c'erano due persone. Altre due persone, che si trovavano a bordo di un'altra moto, sono sospettati di aver partecipato all'attacco.
Sul posto, secondo le prime informazioni, la polizia ha trovato almeno 15 bossoli esplosi da due fucili mitragliatori AK-47 Kalashnikov. Secondo le prime informazioni - ancora piuttosto confuse - a sparare contro la sede dell'ambasciata sarebbero state quattro persone che viaggiavano su due motociclette, mentre qualcun altro parla di un'automobile con a bordo due persone che hanno aperto il fuoco contro la sede diplomatica. Stando ai media locali, gli uomini dell'antiterrorismo pensano che i responsabili dell'attacco potrebbero essere membri dell'organizzazione terroristica 'Gruppo Combattenti Popolari'.

(ANSAmed, 12 dicembre 2014)


Francia sotto choc per l'antisemitismo. Arancia meccanica a Créteil

di Giulio Meotti

 
Il quartiere del lago, a Créteil, dove è stata fatta l’aggressione a Jonathan e Maria
ROMA - Libération ci fa la copertina: "Autopsia di un crimine antisemita". Siamo nel distretto parigino di Créteil, dove un abitante su quattro è di religione ebraica. Protagonisti del peggiore attacco antisemita che si ricordi sono Jonathan e Maria. Lei ha lunghi capelli biondi e occhi verdi, ha compiuto diciannove anni, ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza in Normandia, e si è appena riunita al suo ragazzo, Jonathan. E' stata una sorta di "Arancia meccanica". La mattina del 1o dicembre, Jonathan e Maria si svegliano tardi, non lavorano. Poco dopo mezzogiorno, suona il campanello. Tre uomini sfondano la porta, incappucciati, armati di pistola e fucile a canne mozze. "Sappiamo che tuo padre è ebreo, che ha qualcosa sulla testa (la kippah, ndr) e che avete i soldi", dicono i rapitori. E ancora: "Tanto siete ebrei, i soldi li avete in casa, non li mettete in banca". Legano mani e piedi a Jonathan con il nastro adesivo. E' solo, disteso a terra. I tre, tutti di origine maghrebina, vanno da Maria, le dicono di aprire le gambe, le infilano un dito nel sesso e la violentano. Poi se ne vanno, con un piccolo bottino.
   Jonathan e Maria potevano fare la fine di Ilan Halimi, rapito perché ebreo e poi bruciato vivo, nel dipartimento di Hautsde-Seine di Parigi otto anni fa. Fu una piccola Vichy della compiacenza e dell'indifferenza, con la polizia che negava il carattere antisemita dell'uccisione e i vicini che per venti giorni sentirono le urla di Ilan e non dissero niente. Dopo l'aggressione di Créteil, Roger Cukierman, veterano presidente delle comunità ebraiche francesi, ha detto: "Gli ebrei lasceranno la Francia, che cadrà nelle mani della Sharia o del Front national". Per il primo ministro, Manuel Valls, "l'orrore di Créteil è la dimostrazione immonda che la lotta contro l'antisemitismo è un combattimento quotidiano". Ma gli ebrei francesi, nonostante le promesse del presidente Hollande e dell'esecutivo, non si fidano. "Non credo che la Francia possa combattere questo male", ha detto l'artista ebreo francese Ron Agam, "Gli ebrei sono in pericolo e la Repubblica non adempie al suo dovere di proteggere la terza più grande comunità ebraica del mondo".
   Intanto, a fine anno saranno settemila gli ebrei che avranno lasciato la Francia alla volta di Israele. Mai così tanti da quando la Rivoluzione francese diede loro diritti e cittadinanza. "Per la prima volta, la Francia è diventata un paese di emigrazione ebraica", ha detto Joél Merguì, a capo del concistoro ebraico francese. Le destinazioni preferite sono Tel Aviv, il Québec e Los Angeles. Dati governativi parlano di un 91 per cento in più di attacchi antisemiti rispetto a un anno fa. Il Crif (Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia), sottolinea "l'apparizione di nuove forme di violenza: attacchi in banda organizzata di luoghi comunitari, aggressioni pianificate e mirate di sinagoghe, atti di vandalismo di negozi ebrei e infine attentati terroristi".
   "La Francia non è antisemita, ma una parte dei giovani che abitano le banlieue lo è, selvaggiamente" ha scritto Arno Klarsfeld, l'avvocato figlio di Serge, cacciatore di nazisti e custode di memorie. E in questo clima di panico e timore arriva il voto del Parlamento francese di riconoscimento dello "stato di Palestina". Un ebreo francese, in segno di protesta per questo voto in un momento di minaccia al popolo ebraico, ha bruciato la sua carta di identità e ha postato su Facebook un video in cui dice: "Am Israel Hai, Eretz Israel L'Am Israel". Il popolo di Israele vive, la terra di Israele al popolo di Israele.
   Intanto, a Créteil, fra gli ebrei gira un passaparola: "Non uscite con la kippah".

(Il Foglio, 12 dicembre 2014)


A Gerusalemme conferenza internazionale sulla commedia il 21/12 e il 22/12

di Floriana Cutini

ROMA - Alcuni dei più importanti scrittori del mondo legati al mondo televisivo come dirigenti BBC o il direttore della BBC stesso Mr. Danny Cohen si riuniranno per un evento dedicato alla commedia in Israele a Gerusalemme per discutere il significato educativo e pedagogico proprio del genere commedia ovvero come la commedia possa contribuire a migliorare la società. Sede dell'incontro la celeberrima Cinemateque di Gerusalemme, già sede del festival del cinema della città. La conferenza, organizzata dalla Benny Moran Productions di Tel Aviv, ospiterà una selezione di scrittori oltremodo importanti per creare la bozza per una commedia israeliana in lingua inglese. Si svolgerà anche una tavola rotonda con a confronto quattro diverse versioni della serie brittanica The Office. Danny Cohen ha voluto programmare una conferenza di apertura della manifestazione, mentre lo scrittore Bad Teacher, Lee Eisenberg e Michael Schmitt, e il direttore creativo della Germany's Red Arrow Entertainment Group,, potranno prendere parte a una tavola rotonda. Il responsabile dell'evento creativo, il commediografo e regista Omri Marcus, auspica che JJJ Comedy For A Change sarà in grado di promuovere importanti cambiamenti sociali. L'ordine del giorno dell'evento comprenderà una intervista con Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme da parte di Red Orbach, la marionetta a grandezza naturale dalle hit del gruppo musicale di Israele a Channel 2 e verranno realizzate anche interviste con il direttore della BBC Danny Cohen. Ci saranno case histories che esamineranno esempi di vita reale delle commedie che hanno portato al cambiamento sociale. Mika Almog, scrittore e sceneggiatore, presenterà il video che vede protagonista il presidente israeliano Shimon Peres "job hunting" clip. Inoltre ci sarà un viaggio di "Around the World in 80 Commedie" per scoprire cosa fa ridere ai giorni nostri. Ci sarà anche un tentativo di trovare una soluzione divertente su come "risolvere" i problemi del Medio Oriente con due comici israeliani e due comici che redigeranno il trattato che risolverà i problemi del Medio Oriente. Ci sarà anche una sessione in cui gli autori delle versioni americane, tedesche e israeliane di The Office parleranno della commedia che trascende i confini geografici e culturali. Tra i protagonisti della conferenza oltre a Danny Cohen, direttore della BBC, possiamo annoverare Kristeen von Hagen, commediografo, Canada, Michael Schmidt, CCO, Red Arrow, Germania, Lee Eisenberg, produttore film e scrittore televisivo, USA, Omar Marzouk, commediografo, Danimarca, Ghazi Albuliwi, scrittore, regista e attore, USA, Nathan Vecht, drammaturgo e sceneggiatore, Olanda, Craig Freimond, scrittore e regista, South Africa.

(Agenparl, 11 dicembre 2014)


Israele: alleato discreto della Russia

di Yakov M. Rabkin*

"Dall'inizio delle sanzioni occidentali alla Russia, vedo molto cibo israeliano nei negozi. Avocado, ravanelli, carote, patate da Israele", mi ha assicurato un amico di Mosca con cui ho parlato al telefono. Volevo un testimone oculare di ciò che aveva annunciato il ministro dell'Agricoltura israeliano Yair Shamir. Ha promesso di prendersi senza indugio la quota di mercato russo delle aziende europee. Anche Israele è sotto sanzioni dell'Unione europea, che vuole limitare la colonizzazione israeliana dei territori conquistati nel giugno 1967. E' quindi logico che Israele non sia certo motivato a seguire gli europei nelle relazioni con la Russia. Se il "rapporto speciale" d'Israele con gli Stati Uniti è ben noto, le sue relazioni con la Russia non sono meno speciali. Il piano sionista alla base dello Stato d'Israele fu attuato all'inizio del secolo scorso in gran parte da cittadini russi. Formarono la prima élite e la presenza russa nei circoli dominanti dello Stato sionista rimane importante. Il presidente della Knesset è nato in Ucraina e cresciuto nella Russia sovietica, il presidente della commissione parlamentare per le relazioni estere è di origine sovietica, il ministro degli Esteri proviene dall'ex-Unione Sovietica. Israele ha la maggiore diaspora russofona con oltre un milione di persone. Decine di voli ogni giorno collegano Israele con le principali città della Russia. Due anni fa fu abolito l'obbligo di visto contribuendo notevolmente al turismo. Il presidente russo ha inaugurato a Netanya, sul Mediterraneo, il monumento ai più di venti milioni di morti sovietici nella seconda guerra mondiale. Inoltre, Putin ha ritrovato il suo maestro di scuola emigrato in Israele dalla natia Leningrado e gli ha offerto un appartamento dignitoso per età e salute. Non sorprende che Vladimir Putin abbia osservato: "Israele è una piccola Russia". Ma al di là di lingua, storia e sentimenti vi sono interessi comuni che legano i due Paesi. Mentre Israele ha notevolmente beneficiato del crollo dell'Unione Sovietica, una volta alleato dei Paesi arabi ostili ad Israele, da diversi anni si trova a disagio con la dipendenza dagli Stati Uniti e dai suoi ammonimenti occasionali. Per ridurre tale dipendenza e diversificare il sostegno ad Israele nel mondo, formidabile potenza militare e nucleare, ha forgiato relazioni strategiche con tre potenze nucleari indipendenti: Cina, India e Russia. Tali legami non sono limitati all'esportazione di verdura. Israele e Russia hanno prodotto i droni in dotazione all'esercito indiano, la Cina ha utilizzato l'esperienza israeliana per riformare l'Esercito di Liberazione del Popolo e attrezzature di sicurezza israeliane furono impiegate durante i Giochi Olimpici di Sochi. Gazprom, gigante petrolifero, ha firmato diversi contratti con Israele e i palestinesi sotto controllo israeliano. Considerando gli interessi regionali d'Israele, la Russia ha annullato la vendita del sistema di difesa aerea S-300 all'Iran. I vantaggi sembrano reciproci ed equilibrati.
   La posizione d'Israele nella crisi in Ucraina è più conservatrice. Il rappresentante d'Israele presso l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite s'era assentato dal voto per condannare la Russia per l'annessione della Crimea. Pochi mesi dopo, Israele ha votato con la Russia, e contro gli Stati Uniti, sulla risoluzione delle Nazioni Unite che condanna la rinascita del nazismo. Inoltre, gli attivisti israeliani di estrema destra sostengono entusiasticamente la politica della Russia, anche alla radio e alla televisione russe, opponendosi alle sanzioni occidentali. Alcuni addirittura hanno proposto alle autorità del Donbas d'inviare unità di volontari israeliani. A questo proposito, la destra israeliana è allineata alla destra internazionale, come il Fronte Nazionale in Francia e i partiti della coalizione di governo in Ungheria. La Russia, a sua volta, sembra accettare la colonizzazione de facto israeliana dei territori occupati nel 1967. In tal modo, funzionari russi e israeliani hanno firmato ad Ariel, città costruita sui territori palestinesi e limitata agli israeliani non arabi, un importante accordo per la collaborazione sull'innovazione (Skolkovo). La Russia ha un'alleanza discreta ma importante con Israele. Questa alleanza si riflette nell'opinione pubblica. I sondaggi mostrano che i cittadini russi sostengono Israele e che il sostegno s'è rafforzato negli ultimi anni. Naturalmente i due Paesi sono consapevoli dei limiti di tale alleanza e mantengono le opzioni aperte, la Russia sulla questione del nucleare iraniano, Israele nel complesso rapporto con i nazionalisti ucraini. Ma è innegabile che le relazioni tra Russia e Israele riguardino due aree di grande importanza per gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali: Medio Oriente ed Europa orientale.
   Il problema è che l'élite di Washington dipende principalmente dalla televisione mainstream e da tre giornali: The New York Times, Washington Post e Wall Street Journal. I nostri punti di vista fin dallo scorso febbraio, quando iniziò la crisi, non sono mai apparsi sulle loro pagine. Siamo esclusi. Jack Matlock non c'era, il professore Mearsheimer non c'era, i miei pezzi sono stati rifiutati. Non ho mai visto ciò negli USA finora, è molto strano per me perché i giornali amavano la polemica, ma qui sono tutti convinti che esista un solo punto di vista.
   

* Yakov Rabkin è professore di Storia all'Università di Montreal; il suo ultimo libro è Capire lo Stato d'Israele (Écosociété, 2014).

(Aurora, 9 dicembre 2014)


I palestinesi servono un'altra bufala: la morte di Ziad Abu Ein

I fatti sono ormai noti a tutti: stampa e telegiornali ci hanno ricamato abbondantemente sopra, capitalizzando al massimo un assist imperdibile. Un "ministro senza portafoglio" - carica che in una sedicente Autorità, screditata dalla riluttanza da sei anni a sottoporsi al giudizio degli elettori, non si rifiuta certo ad alcuno - dell'ANP è rimasto ucciso nell'ambito di scontri con l'esercito israeliano; incaricato dagli Accordi di Oslo sottoscritti dall'OLP della sicurezza nelle aree B e C del West Bank. Questo, tanto per chiarire come la presenza dell'IDF in quelle zone sia non solo legittima, ma anche auspicata dalle parti contendenti....

(Il Borghesino, 11 dicembre 2014)


Quelle città europee "Zionistfrei". Banditi i prodotti made in Israel

di Giulio Meotti

 
"Negozio ebraico! Chi compra qui viene fotografato" - 1933   
ROMA - Il Wall Street Journal scrive che si è passati "dallo Judenfrei allo Zionistfrei". Le merci israeliane stanno scomparendo da numerose città europee. Sono città importanti, come Leicester, la decima più grande del Regno Unito. Il Consiglio comunale dominato dal Labour ha appena trasformato Leicester nella prima città dell'Unione europea a mettere al bando tutti i prodotti "made in Israel". E' proibita la distribuzione di qualsiasi prodotto realizzato nello stato ebraico. Una città della regione delle Midlands, Dudley, ha messo in calendario un'analoga risoluzione, mentre il facinoroso George Galloway ha promesso che anche la sua città, Bradford, sarebbe diventata "Israel free". N e è passato di tempo da quando nel 1991 una controllata della Thames Water Plc., la società che fornisce servizi idrici e fognari per la maggior parte di Londra, rifiutò di avere rapporti commerciali con Israele, "per non perdere i numerosi clienti arabi". Il Consiglio regionale del Dunbartonshire occidentale, una regione della Scozia, è passata alla cultura e ha tolto i libri di autori israeliani dalle biblioteche pubbliche. In Francia, la città di Lilla ha rescisso ogni legame con la città santa israeliana di Safed, con cui era gemellata. A Dublino, un popolarissimo ristorante, l'Exchequer, non tiene più prodotti israeliani. Nella città irlandese di Kinvara le botteghe, i ristoranti e persino le farmacie non vendono più prodotti israeliani, nemmeno gli antibiotici della Teva, leader israeliana dei farmaceutici. La catena di supermercati SuperValu ha rimosso le carote israeliane.
   E se caffè di Londra espongono la scritta "No Israeli products here", la catena Macy's ha smesso di vendere i prodotti israeliani della Sodastream, la catena Morrisons ha bandito i datteri israeliani e Waitrose ha dismesso gli ordini di erbe israeliane. La città spagnola di Villanueva de Duero, una delle tante coinvolte nel movimento Zionistfrei, non distribuisce più l'acqua israeliana Eden Springs nei suoi edifici pubblici, mentre la Vitens, azienda olandese leader dell'erogazione dell'acqua, ha rotto con l'omologa israeliana Mekorot. E se in Norvegia i due maggiori importatori di verdure, Bama e Coop, hanno chiesto ai fornitori in Israele di non spedire più frutta e verdura dagli insediamenti, la Unilever, che realizza prodotti casalinghi come lo shampoo Sunsilk e la vaselina, ha venduto la propria quota nelle fabbriche degli insediamenti.
   E il boicottaggio di Israele si comincia a sentire nei fatturati. L'esportazione dei prodotti agricoli dalla Valle del Giordano, uno dei polmoni agricoli dell'industria israeliana, è scesa del quattordici per cento. "Oggi non vendiamo più nulla in Europa", ha detto David Elhayan, a capo del Jordan Valley Regional Council. In Germania la catena di supermercati Kaiser non vende più da due anni i prodotti israeliani dalla Cisgiordania. La Edom, un'importante produttrice di frutta israeliana, ha detto al giornale economico Marker: "Gli importatori europei ci dicono che non possono vendere prodotti israeliani. Un acquirente europeo mi ha detto che è stato bloccato in diverse catene in Danimarca e Svezia, e poi in Belgio. Non vi è alcun boicottaggio ufficiale, ma tutti hanno paura di vendere frutta israeliana". Shimon Samuels, direttore delle Relazioni internazionali del Centro Simon Wiesenthal, ha definito così il boicottaggio dei prodotti israeliani: "Un atto di antisemitismo come la campagna degli anni di Hitler 'Non comprate dagli ebrei'''. In tedesco era "Kauft nicht bei Juden". Oggi suona più semplice: BDS, Boycott divest and sanctions.

(Il Foglio, 11 dicembre 2014)


Palestina - Chi l'ha riconosciuta e chi no in Europa

La posizione dell'Europa nei confronti del conflitto arabo-israeliano sta cambiando. Un numero crescente di paesi sta riconoscendo lo Stato palestinese, o per lo meno sta riflettendo seriamente alla questione. La Svezia è diventata quest'anno il primo paese dell'Unione europea a riconoscere pienamente il nuovo paese.

Altri otto stati membri della UE riconoscono la Palestina, ma hanno compiuto la scelta prima di aderire all'Unione. Lo fecero nel 1988, sulla scia della dichiarazione d'indipendenza del Consiglio nazionale palestinese: la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l'Ungheria, la Polonia, la Bulgaria, la Romania, Malta e Cipro. La settimana scorsa, l'Assemblea nazionale in Francia ha esortato il governo a fare altrettanto; la mozione è stata approvata con 339 voti a favore e 151 voti contrari (i due deputati del Fronte Nazionale si sono astenuti). Nel testo si legge che "la soluzione dei due stati, difesa con costanza dalla Francia e dall'Unione europea, presuppone il riconoscimento dello stato palestinese, accanto a quello di Israele". La Francia non è sola. Lo stesso hanno fatto nelle ultime settimane i deputati inglesi, spagnoli e irlandesi. Il parlamento danese dovrebbe votare a breve. Secondo il quotidiano belga Le Soir, l'idea del riconoscimento dello stato palestinese è nel programma del governo Michel. Oggi voterà sulla questione il parlamento vallone. Ogni volta, i motivi sono simili. C'è il desiderio di considerare sullo stesso piano israeliani e palestinesi e quindi di rilanciare il processo di pace. La Libre Belgique ha messo a confronto le posizioni di chi è contrario e di chi è favorevole in Vallonia. I primi temono che la scelta possa creare nuove tensioni. I secondo sono convinti che solo con il riconoscimento si possa fermare "il processo di colonizzazione" da parte israeliana. Le mozioni parlamentari non hanno valore vincolante, ma sono certamente il riflesso di una crescente sensibilità nei confronti della situazione dei palestinesi nel conflitto arabo-israeliano. Da tenere presente è che lo stato palestinese è già dal 2012 membro osservatore alle Nazioni Unite. In novembre, il Parlamento europeo ha tenuto un acceso dibattito sulla questione. Parlando dinanzi all'assemblea di Strasburgo, il nuovo Alto Rappresentante per la Politica estera e la Sicurezza, Federica Mogherini, ha spiegato che la discussione sul riconoscimento dello stato palestinese è "cruciale". Un voto è previsto sempre a Strasburgo il 17 dicembre. Israele ha definito "triste" la decisione svedese e avvertito che un riconoscimento dello stato palestinese da parte francese sarebbe "un grave errore". Proprio in questi giorni il governo Netanyahu ha proposto di considerare nella legge israeliana Israele come "lo stato-nazione del popolo ebraico". Nel contempo, la legge ebraica diventerebbe fonte d'ispirazione della legislazione nazionale e la lingua araba non sarebbe più una delle lingue ufficiali del paese.

(Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2014)


"Rilanciare il processo di pace", la frase magica con cui l'ipocrisia internazionale difende e manda avanti il graduale "processo di strangolamento" dello Stato d'Israele. Questi progressivi riconoscimenti dell'immaginario stato di Palestina purtroppo non sono "errori", come pensa ancora qualche ottimista israeliano, ma scelte deliberate verso un obiettivo atteso e desiderato: la sparizione di Israele. E' vocazione ecumenica al suicidio. Per qualche nazione effettivamente sarà così, ma non per Israele. M.C.


Avviene oggi in Israele

Avi Mizrachi e la moglie Chaja sono stati tra i relatori principali al 13o Raduno Nazionale di EDIPI, tenutosi a Catania nei giorni 5-8 dicembre 2014. Mettiamo a disposizione dei lettori la registrazione del primo intervento di Avi, dal titolo "Dal Mar Nero a Tel Aviv - La fedeltà di Dio nella storia della mia famiglia." Non è storia politica, ma non è neppure semplice storia privata: è storia che indica l'esistenza di una realtà riguardante tutti, molto più fondamentale e vera di quella trattata dai media. Realtà che quindi dovrebbe interessare tutti, ebrei e non, israeliani e non.


(Notizie su Israele, 11 dicembre 2014)


Gerusalemme ricorda Vittorio Dan Segre

Una vita tra "Risorgimento" e "Sionismo". Queste le due parole chiave scelte dagli organizzatori della serata in ricordo di Vittorio Dan Segre (1922-2014) giovedì 11 dicembre alle 18 presso l'Istituto Van Leer di Gerusalemme. Un'iniziativa volta ad omaggiare il grande intellettuale torinese scomparso lo scorso settembre che vede l'impegno congiunto di Ambasciata d'Italia in Israele e Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv e la partecipazione di tanti amici, compagni di avventure tra giornalismo, scrittura e diplomazia e ospiti autorevoli. Sottolineava il demografo Sergio Della Pergola, a poche ore dalla scomparsa, nel suo aleftav settimanale: "Dietro il pubblicista scorrevole e non privo di una sua particolare narrativa stava sempre l'analista profondo e irreprensibile sui fatti e il loro significato. Nell'attuale costellazione della politica e della stampa in Israele, in Italia e negli altri paesi, la voce di Dan Avni Segre ci manca molto e sarà molto difficile eguagliarla". Proprio Della Pergola sarà tra i protagonisti della serata insieme a Yones Abu Rabia, Joseph Agassi, Michael Bavli, David Cassuto, Simonetta Della Seta, Manfred Gerstenfeld, Maurizio Molinari ed Emmanuel Sivan. Ad accogliere gli ospiti, con un indirizzo di saluto, l'ambasciatore Francesco Maria Talò, il rav Adin Steinsaltz e il giornalista Arrigo Levi. L'evento si svolgerà alla presenza del quinto presidente dello Stato di Israele Yitzhak Navon e della famiglia Segre. Gli interventi saranno sia in italiano che in ebraico con traduzione simultanea.

(moked, 11 dicembre 2014)


'Giudecche di Calabria', il nuovo volume di Vincenzo Villella

Sarà presentato domenica dall'associazione Teura

 
Via Giudecca - Reggio Calabria
"Giudecche di Calabria" è il nuovo volume di Vincenzo Villella che sarà presentato domenica 14 dicembre, alle ore 17,00, a cura dell'associazione "Teura", presieduta da Antonio Montuoro. Alla presenza dell'autore relazionerà Barbara Aiello, prima Rabbina d'Italia. Durante la presentazione sarà esposta la Torah del '700 e il Menorah.
"Dai confini della Calabria a Nord fino all'estremo Sud - sottolinea Barbara Aiello - Vincenzo Villella ha trovato evidenze che testimoniano la presenza degli ebrei che in passato gli storici hanno ignorato. Grazie alla sua costanza e alla sua dedizione, adesso conosciamo che esistono zone ebraiche chiamate indifferentemente Giudecca, Judeca, Giudeca ed anche Judariu e gli abitanti chiamati non solo Ebrei, ma anche Judii, Giudei, Judari e Judeu".
La Calabria, quindi, ha una storia ebraica importante, ma ancora poco espolorata, di cui restano rilevanti segni nella cultura e nella tradizione.
L'autore è nato nel 1947 a Conflenti. Dopo la laurea all'Università di Napoli nel 1970, si è dedicato all'insegnamento ed allo studio della storia locale con ricerche che abbracciano l'età moderna e contemporanea del territorio lametino.
Tra le sue più importanti pubblicazioni ricordiamo "Lotta per la terra e il lavoro in Calabria", "Chiesa, società e comunismo in Calabria nel secondo dopoguerra" e "I briganti del Reventino".
Collaboratore di riviste letterarie e storiche, Villella ha anche diretto il Corriere Calabrese ed è socio della Deputazione di Storia patria della Calabria.
"Questo libro - sostiene il presidente della Teura, Antonio Montuoro - vuole essere uno stimolo alla riscoperta di cosa oggi rimane della plurisecolare convivenza ebraica in Calabria. Un testo, quindi, che merita la massima attenzione da parte di tutti gli studiosi, ma non solo".

(Catanzaro Informa, 11 dicembre 2014)


L'Unione Europea aiuta a pagare salari e pensioni dell'Autorità palestinese

BRUXELLES - L'Unione europea continua ad aiutare l'Autorità palestinese, in costante crisi finanziaria. Bruxelles ha dato un contributo di circa 23,5 milioni di euro per pagare i salari e le pensioni di circa 68.500 dipendenti pubblici e pensionati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questi aiuti economici arrivano dall'Unione europea (18,3 milioni di euro) e dai governi di Svezia (4,3 milioni di euro) e Olanda (900mila euro).
"Siamo pienamente coscienti delle difficoltà finanziarie che l'Autorità palestinese sta affrontando, in particolare in un periodo in cui sta lavorando per assumere la piena responsabilità di Gaza" ha spiegato il rappresentante Ue, John Gatt-Rutter, auspicando che "altri donatori forniranno generosamente assistenza per consentire all'Autorità palestinese di continuare a funzionare in maniera efficace ed efficiente". L'Autorità palestinese "ha fatto progressi concreti importanti negli ultimi anni nella costruzione delle istituzioni del futuro Stato palestinese" ha aggiunto il rappresentante dell'Unione europea. "L'Ue continuerà a sostenere questi sforzi, non solo per garantire servizi essenziali destinati alla popolazione palestinese, ma anche come parte del suo contributo alla costruzione dello Stato palestinese" ha concluso Gatt-Rutter.

(ANSAmed, 10 dicembre 2014)


"I nemici di quelli che odio sono miei amici; amo chi odia e colpisce quelli che odio anch'io". Parole come queste potrebbero degnamente accompagnare le donazioni generose che i governanti europei fanno ai palestinesi senza chiedere nulla. "Voi non siete per il popolo palestinese, voi siete contro Israele", ha detto l'ambasciatore israeliano all'Onu: una verità che continuamente si conferma. M.C.


Torino - 1934-2014 Ebrei e antifascisti tra storia e memoria

di Ada Treves

Uno scambio affettuoso di analisi e di memorie personali, racconti incrociati di storici che sono stati però anche testimoni, seppure indiretti, di un pezzo di storia. A Torino la serata "1934 Quegli arresti di ebrei torinesi antifascisti. Il ricordo dei protagonisti nelle parole dei loro figli e nipoti" organizzata dalla Comunità ebraica in collaborazione con l'Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea (Istoreto) e con il Museo diffuso della Resistenza è stata coordinata e introdotta da Giulio Disegni, vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Chiara Colombini, dell'Istoreto, ha dato un inquadramento storico alle vicende di quegli anni terribili, raccontando delle indagini e dei primi arresti, avvenuti in maniera quasi casuale a Ponte Tresa nel marzo del 1934, e dei successivi avvenimenti che coinvolsero quel numeroso gruppo di ebrei antifascisti attivi a Torino.
   La serata però ha subito preso una piega tutt'altro che accademica, in un emozionante intreccio di ricordi aperto dall'intervento di Anna Foa, storica a sua volta, che ha ricordato l'impatto che hanno avuto su suo padre, Vittorio, l'arresto e il periodo trascorso in prigione. "Per lui quel periodo è stato più importante anche degli anni della Resistenza, di cui si trovano poche tracce negli scritti e in tutti i suoi interventi". Interventi in cui torna invece continuamente l'idea di prigione come scuola di comportamento etico, e di studio. "A casa mia si ripeteva in continuazione che 'non è possibile farsi una cultura se non in prigione'. Io ero piccola, allora, e mi ricordo distintamente che non vedevo l'ora di essere a mia volta arrestata per poter finalmente iniziare davvero a studiare".
   Amicizie, parentele, rapporti personali nati durante il periodo di studi e poi consolidati in quegli anni, come pure scontri e discussioni anche aspre, tutto concorse a cementare le relazioni fra quel gruppo di torinesi ebrei e antifascisti che comprendeva anche Giuliana Segre. All'epoca era una giovanissima donna dal carattere forte, un personaggio determinato, anticonformista, che con il vivido racconto della nipote, Bice Fubini, è tornata ad abitare i locali della comunità. Comunità che la ricorda anche in gesti recenti, come quando, nel 2003 insieme a quell'altro indimenticabile personaggio che era Giorgina Arian Levi, espose fuori dalla casa di riposo la bandiera della pace, fra i mugugni degli altri ospiti. "La sua passione politica si percepiva soprattutto quando cantava, magari insieme a Lisa Levi, le sue amate canzoni antifasciste, con una evidente grandissima adesione a un ideale che per lei è rimasto forte e presente per tutta la vita".
   Un altro grande storico, Carlo Ginzburg, figlio di Leone e Natalia e nipote di Mario, Giuseppe e Gino Levi, dopo alcuni ricordi più personali, ha sottolineato come della figura di Dino Segre, noto come Pitigrilli, il collaboratore dell'Ovra corresponsabile di molti di quegli arresti, si parli troppo poco, al punto da arrivare in alcuni casi a non spiegare neppure che si è effettivamente trattato di una spia. "L'ondata di arresti che stiamo qui ricordando, poi, faceva indubitabilmente parte di una campagna antisemita, di cui Mussolini era a conoscenza. Si è sicuramente trattato di una sorta di ballon d'essai che voleva andare a valutare le reazioni che avrebbe suscitato nella popolazione italiana."
   Ha poi continuato con un ragionamento che ha sollevato più di un mormorio tra i tantissimi presenti: "Mi permetto anche di suggerire che la ricerca su quei fatti andrebbe spinta verso un'analisi della comunità ebraica torinese dell'epoca. Non possiamo dare per scontato che si sia trattato di un tragitto lineare. La realtà è molto più complessa di così, non esistono traiettorie semplici e la vicenda di 'La nostra bandiera' ne è la prova". La rivista, fondata proprio nel 1934, intendeva "fascistizzare" tutta la comunità ebraica italiana ed estirparne gli indifferenti, i sionisti e gli antifascisti, in nome dell'italianità. Addirittura, come ha ricordato in un intervento in fine di serata Sergio Tezza, in una elezione comunitaria in quegli anni la lista collegata a "La nostra bandiera" ottenne la quasi totalità dei voti. Contestata da un altro storico - Giovanni Levi figlio di Carlo e nipote di Riccardo - l'affermazione di Alberto Cavaglion secondo cui allora "Nel rapporto tra antifascismo ed ebraismo in quella fase era il primo a prevalere: prima di tutto si era antifascisti, il problema dell'appartenenza passava in secondo piano" ha portato a un ragionamento su identità e appartenenza, e su cosa significasse, sotto una dittatura, essere ebrei, e di opposizione. Ricordando che "Democrazia non significa vittoria della maggioranza, ma rispetto delle minoranze". E l'identità ebraica era considerata importante, al punto che - come ha ricordato Giovanni Levi - la prima domanda fatta a suo padre quando è stato arrestato è stata "Sei sionista?".
   E proprio sul tema identitario è stato indirettamente Jossi Levi, Figlio di Leo, rabbino di Firenze, a rispondere: non ha potuto partecipare personalmente ma ha inviato un lungo messaggio in cui ha ricordato come suo padre rivendicasse orgogliosamente la sua scelta di essere un sionista, religioso, antifascista e di sinistra. "Già allora l'essere sia sionista che di sinistra era una scelta particolare, non semplice, ma l'essere antifascisti era anche un modo per rivendicare il diritto all'autodeterminazione del popolo ebraico". E sempre sul tema dell'identità Sion Segre, i cui testi sono stati letti dal figlio Manuel Segre Amar, scrisse:
  • Peccato che sei ebreo, mi aveva detto Carlo Levi la prima volta che ci eravamo incontrati. Capirai: io, Leone, Vittorio, Mario, siamo tutti ebrei o mezzi ebrei. O con una moglie ebrea, come Carrara e Guglielmo Ferrero.
  • Non poteva, Vittorio, scovarmi un 'goy' questa volta?
  • Beh, sai. Se ti disturba, non so proprio cosa farci. Mica vorrai che diventi fascista solo perché sono ebreo. O che mi faccia cattolico per poter essere antifascista.
  • Già. Ma se ci pescano, cosa diranno?"
Erano italiani, ebrei, antifascisti. In un ordine di priorità diverso per ognuno di loro, protagonisti di vicende accomunate da una lucidità e una passione politica tali che anche a distanza di ottant'anni, nel racconto di figli e nipoti, hanno saputo colpire ed emozionare. E subito da molte parti è stata richiesta una seconda serata con gli stessi protagonisti che intanto, emozionati a loro volta, continuavano a confrontarsi, dialogare, e ricordare.

(moked, 10 dicembre 2014)


La Fidapa Catanzaro incontra l'unica donna rabbina in Italia

Barbara Aiello, italo americana, sette anni fa ha fondato una sinagoga a Serrastretta
Un gruppo di socie Fidapa (Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari) della Sezione di Catanzaro, unitamente alla Presidente Maria Candida Elia, domenica, 7 dicembre, ha incontrato Barbara Aiello, un'italo-americana che è la prima ed unica rabbina in Italia e che sette anni fa ha fondato una sinagoga proprio a Serrastretta.
L'incontro è stato assai interessante: la rabbina ha raccontato sprazzi di storia della sua famiglia e delle altre famiglie ebraiche di Serrastretta, che in numero di cinque , alla scacciata degli ebrei nel XVI secolo, fuggirono da Scigliano e, per proteggersi dall'Inquisizione, si ripararono a Serrastretta, dove riuscirono a sopravvivere fino al secolo scorso, trasmettendo alla popolazione usanze che, viste come superstizioni, in realtà erano costumi ebraici.
La rabbina ha poi spiegato il significato religioso di tutti i simboli presenti in Sinagoga e in ultimo ha mostrato alle visitatrici l'Aron Kodesh in cui è conservata la Torah, un libro sacro che risale al XVI secolo.
Barbara Aiello ha specificato che appartiene alla corrente riformata dell'ebraismo e che il suo rabbinato non è riconosciuto dagli ebrei ortodossi, che non accettano, appunto, il rabbinato femminile.
Certo ci vuole il coraggio di una donna, animata dalla fede della sua religione e dotata di capacità intellettive non comuni, per far rinascere un centro di studi e di ricerca sull'ebraismo in un piccolo paese calabrese, che richiama visitatori da tutta Italia e dal mondo.
E la Fidapa, che è interessata a tutto ciò che è genio femminile, plaude a questa donna giovane nel cuore e nella mente, che, alla ricerca delle sue radici, dalla Florida ritorna periodicamente in Italia per adempiere ai suoi di doveri di "rabbina".

(Catanzaro Informa, 10 dicembre 2014)



"Torah fonte di vita", la collezione del Museo Ebraico della Comunità di Ferrara

La Fondazione MEIS (Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah) presenta
TORAH FONTE DI VITA La collezione del Museo Ebraico della Comunità di Ferrara
Ferrara, 19 dicembre 2014 - 31 dicembre 2015

Conferenza stampa di presentazione
Martedi 16 dicembre, ore 12
Sala Degli Arazzi, Palazzo Municipale - Piazza del Municipio 2, Ferrara

Inaugurazione Giovedì 18 dicembre 2014, ore 18
Palazzina Meis - Via Piangipane, 81

Il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, in collaborazione con la Comunità Ebraica di Ferrara, il Comune di Ferrara e la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell'Emilia Romagna, presenta al pubblico l'allestimento di una parte della collezione del Museo Ebraico di Ferrara. Un allestimento ad hoc, sul tema della Torah - la Bibbia ebraica, il testo più sacro dell'ebraismo - che sarà ospitato negli spazi del Meis, per restituire ai cittadini e ai turisti una parte importante del patrimonio artistico e culturale di Ferrara dopo gli eventi sismici del 2012, che hanno fortemente danneggiato l'edificio del Museo Ebraico di via Mazzini 95, rendendone necessaria la chiusura al pubblico.
Il Meis diventa promotore di un dialogo tra comunità ebraica e società civile in un percorso che, nell'esposizione di oggetti cerimoniali di ritualità pubblica e di ritualità privata, vuole esplicitare le vicinanze di due mondi, valorizzandone la compenetrazione culturale e gli intrecci storici che da sempre sono stati prerogativa della città estense.
Se il popolo ebraico è presentato come "il popolo del libro" è perché la Torah riveste un ruolo centrale nella vita di ogni ebreo, ben esemplificando nella costante dialettica tra testo scritto e orale la natura stessa dell'ebraismo, che trae continuamente vitalità dal pensiero e dall'elaborazione di nuove idee. La volontà è di suscitare anche nel visitatore domande e spunti di riflessione, che troveranno collocazione visiva negli spazi della mostra curata da Sharon Reichel, con l'allestimento di Monica Bettocchi.
Il restauro e la conservazione degli oggetti esposti provenienti dalla collezione del Museo Ebraico saranno a cura della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell'Emilia Romagna.

Orari di apertura
Periodo estivo (dal 1 aprile al 30 settembre): dal martedì al venerdì: 10-13 e 15-17; domenica 10-18;
Periodo invernale (dal 1 ottobre al 31 marzo): dal martedì al giovedì: 10-13 e 15-17; venerdì: 10-15; domenica 10-18.
giorni di chiusura: lunedì, sabato e festività ebraiche
Si specificano altresì i giorni di chiusura del Museo durante le festività ebraiche:
- Digiuno di Ester e Purim: mercoledì 4 e giovedì 5 marzo 2015
- Pesach: domenica 5 aprile e venerdì 10 aprile 2015
- Shavuot: domenica 24 maggio 2015
- Digiuno del 9 di Av: domenica 26 luglio 2015
- Rosh Hashana: domenica 13 settembre, martedì 15 settembre, mercoledì 16 settembre 2015
- Yom Kippur: martedì 22 settembre e mercoledì 23 settembre 2015
- Sukkot: da domenica 27 settembre a martedì 6 ottobre 2015

Biglietto ingresso: 4 euro intero; 3 euro ridotto con presentazione della MyFE Card
Ingresso gratuito: fino ai 18 anni e insegnanti accompagnatori
L'ingresso alla mostra durante l'inaugurazione del 18 dicembre, dalle ore 18 alle ore 21, sarà gratuito.

Ufficio Stampa:
MEIS - Fondazione Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah
Giulia Toschi 3494734404

(CronacaComune, 10 dicembre 2014)


A Betlemme tornano i turisti per Natale dopo il conflitto a Gaza

Dopo il brusco calo di presenze in seguito alla guerra a Gaza della scorsa estate, Betlemme guarda con ottimismo al rinnovato afflusso di turisti cristiani in arrivo per le festività natalizie. "Il calo delle prenotazioni durante il conflitto a Gaza - spiega il ministro palestinese del Turismo e delle Antichità, Rula Maaya - è stato del 60% e i mancati introiti sono quantificabili in circa 30 milioni di dollari. Prima della guerra a Gaza gli alberghi della città avevano un overbooking del 200%".
Complessivamente la flessione per il 2014 è di circa 200mila presenze in meno rispetto all'anno precedente. Senza dimenticare che un altro elemento sfavorevole al turismo non solo a Betlemme ma anche a Gerusalemme è stata l'impennata delle violenze - a novembre - dovute ad una serie di attacchi da parte di palestinesi contro israeliani e che all'estero sono stati percepiti come il possibile inizio di una Terza Intifada.
Ora però, secondo il ministro palestinese, i dati parlano di presenze "stabili per le festività natalizie (dal 20 dicembre al 6 gennaio) e quantificabili in circa 100mila unità nonostante - precisa Maaya- le difficoltà legate alle restrizioni imposte da Israele sul settore turistico palestinese, come la limitazione ai tour operator e l'impossibilità di cercare clienti nella vicina Gerusalemme".
"La difficoltà principale per gli esercenti e i ristoratori - spiega - sono dovute al fatto che la maggior parte dei turisti si recano a Betlemme solo per alcune ore, per poi tornare nella vicina Gerusalemme. Questo succede perché il 90% dei tour operator sono israeliani e hanno tutto l'interesse a far rimanere i turisti nella Città Santa invece che a Betlemme".
Quest'anno a guidare la classifica delle presenze straniere ci sono Russia, Polonia e Italia, con un aumento rilevante dei turisti statunitensi.

(Travelnostopo, 10 dicembre 2014)


Le madri di Gerusalemme. E la vita che inizia ogni mattina anche qui

 
Gerusalemme, novembre. Nel cielo limpido del tramonto si staglia il profilo millenario della porta di Jaffa e delle Mura. La Città vecchia stasera è silenziosa: pochi turisti, e i commercianti seduti immobili davanti alle loro botteghe vuote. C'è una quiete strana, a pochi giorni dall'attentato nella sinagoga di Har Nof. La strage compiuta a colpi d'ascia nell'ora della preghiera del mattino ha segnato Gerusalemme, pure da tanto martoriata. Le camionette della polizia e dell'esercito percorrono ogni due minuti il perimetro interno delle Mura, lampeggiando con le loro luci intermittenti azzurrine.
A Gerusalemme Est invece c'è il traffico dell'ora di punta, e la gente che si affretta verso casa, come in ogni città. Ogni volta che passa un'ambulanza con la sirena accesa i passanti si bloccano, e la seguono con lo sguardo, inquieti, finché non è scomparsa. Pensi: potrebbe accadere di nuovo, e osservi le facce di chi ti viene incontro, e eviti la ressa dei grandi magazzini.
Ma poi vedi le madri di Gerusalemme che nell'imbrunire spingono svelte e sicure i passeggini, la borsa della spesa al braccio e il bambino sul seggiolino che scalcia e ride, e capisci: la vita è comunque molto più forte della morte. La vita ordina ogni mattina, imperativa come un generale alle sue truppe, che si viva.

(Tempi, 10 dicembre 2014)


Impasse politica in atto in Israele

di Nicola Seu

A distanza di poco più di due anni, il popolo israeliano si ritroverà a dover votare per il proprio parlamento e per un nuovo governo. Quello attuale ha avuto una vita breve e piuttosto improduttiva, imbrigliato da una coalizione eterogenea, e sotto potenziale ricatto di forze di provenienza, e obiettivi, inconciliabili. Israele ha sempre contenuto nel proprio elettorato una moltitudine di anime, che con il passare del tempo si è moltiplicata creando nuove forme e necessità espresse infine in una miriade di partiti politici, che hanno scardinato la preponderanza dei blocchi storici che avevano governato con relativa tranquillità numerica il paese nelle sue prime decadi.
   Il parlamento israeliano prevede una sola camera (Knesset) di 120 deputati (membri della Knesset) i quali vengono eletti con un sistema proporzionale con sbarramento del 2%. Questo significa che il leader del partito che riesce a raccogliere 61 o più deputati nella propria coalizione solitamente post elettorale, governa il paese. Basta una rapida occhiata alle composizioni delle Knesset precedenti per capire quanto il sistema attuale Israeliano sia inadeguato per le sfide che il paese si troverà a dover affrontare. Fino alle elezioni del 1996, il partito di governo aveva sempre superato i 40 seggi, a volte anche i 50, rendendolo meno dipendente dagli alleati della coalizione, e con vero e concreto potere decisionale.
   Con il passare degli anni questo fatidico 61 è stato sempre più difficile da raggiungere, date le tante voci che coesistono nel parlamento e che trovano difficili punti di incontro. Nelle elezioni del 2013 il Likud e il partito di Lieberman presentandosi insieme raggiunsero 31 seggi, e nel 2009 la vincente Tzipi Livni ottenne 28 seggi coi quali non riuscì a formare una coalizione di governo, dovendo conseguentemente cedere il passo al rivale Netanyahu (il quale raggiunse la scarna cifra di 27 seggi). Le spaccature fra religiosi e laici, i quali a loro volta si dividono in diverse correnti e movimenti, il partito dei coloni, come oramai viene chiamato e il cui bacino di elettori fa gola a tutti ma che poi può esercitare potere di ricatto sul governo (come è successo all'attuale presidente Netanyahu), sono solo alcuni degli aspetti che rendono impossibile una Knesset bipolare o quantomeno con due forze politiche di maggioranza ampia a cui poter affidare la formazione di un governo operoso. A sinistra i voti si disperdono nella frantumazione di quello che furono i laburisti, di Kadima e fra i vari movimenti pacifisti. Il voto arabo, sia quello cristiano che musulmano, storicamente diviso fra vari partiti, sembra sempre voler preoccuparsi del proprio orticello e poco si interessa delle sorti di un paese percepito distante e visto non di rado con sospetto, o peggio.
   Il tentativo della Knesset di creare il "leader dell'opposizione", per dare un ruolo e uno status maggiormente unitario a chi si trova fuori dal governo, non ha avuto il successo sperato, e ogni forza politica nel parlamento fa opposizione a modo proprio, a volte disconoscendo apertamente il "leader" nominato nel parlamento.
   È indubbio che questo sia il prezzo da pagare per la democrazia, e uno stato veramente democratico deve dar voce a tutte le proprie componenti, ma ai fini della governabilità il problema che da qualche anno a questa parte si ripropone non trova soluzioni immediate. Inizierà adesso una campagna elettorale che si preannuncia piuttosto calda, dove l'attuale capo di governo dovrà convincere gli elettori del proprio buon operato e, non del tutto a torto, di essere l'unica figura in grado di poter gestire il paese. I partiti di opposizione (alcuni di essi si trovano già nelle file del governo) proveranno a ingrassare le file dei propri eletti grattando sul discendente indice di gradimento di Netanyahu, mentre altre forze politiche mireranno a mantenere il proprio potere nelle zone e sulle rispettive componenti etniche e religiose del paese.
   Il tempo che manca alle nuove elezioni non permette di poter azzardare previsioni sui risultati, ma chiunque riuscirà a formare una coalizione di governo non potrà farlo se non stringendo le mani di chi avrà combattuto strenuamente durante la campagna elettorale, e in buona sostanza tradendo le aspettative e le promesse fatte al proprio elettorato. Niente di cui sorprendersi, anche questo fa parte del gioco democratico, quanto però dovrebbe far riflettere è la opportunità per un paese come Israele, chiamato a grandi decisioni, di consumare le proprie energie in una guerra elettorale che da qualche tempo disgrega il tessuto sociale dello stato, e lacera quella identità e unità che più di una volta lo salvò dalla sicura distruzione. Bisogna chiedersi se esiste la possibilità di una inversione di tendenza, se Israele può e vuole compiere la svolta decisionista per le sfide, urgenti, che deve affrontare. A queste domande, però, potrà solo rispondere il tempo.

(L'Opinione, 10 dicembre 2014)


Shalom lascia. Piperno nuovo rabbino capo di Napoli

di Giuseppe Crimaldi

La Comunità ebraica di Napoli ha una nuova guida spirituale: è Umberto Piperno il nuovo rabbino capo di via Cappella Vecchia, la storica sinagoga a due passi da piazza dei Martiri. Piperno succede a Bahbut Shalom, che seppure solo per pochi anni a Napoli ha lasciato un'impronta indelebile in Campania come nel resto delle regioni meridionali nelle quali si è infaticabilmente alternato durante il proprio mandato di guida spirituale.
Piperno arriva a Napoli consapevole della grande eredità che lo stesso Shalom - trasferitosi a Venezia - gli lascia. Nato a Roma 53 anni fa, forte di un ruolo nella leadership rabbinica sull'asse Italia-Stati Uniti, si insedierà a partire dal primo gennaio del prossimo anno. «Ringrazio il Consiglio della Comunità per la fiducia accordatami ed esprimo l'auspicio che possa attenderci un futuro di gioia», ha affermato rav Piperno incontrando lunedì il presidente della Comunità ebraica Pierluigi Campagnano, accompagnato dal vicepresidente Sandro Temin, dall' assessore dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni e da numerosi iscritti presenti in sinagoga per un primo momento di confronto e per una lezione di Torah. Piperno si presenta a Napoli con un curriculum di tutto rispetto: già rabbino capo di Trieste, si è trasferito nel 2007 a NewYork ed è stato, fino al 2012, al vertice della Sephardic Congregation di Riverdale. Poi di nuovo in Italia. Tornato a Roma, ha lavorato presso l'ufficio Rabbinico oltre a svolgere le funzioni di rabbino presso la sinagoga Bet Sha- 10m.
La storica sinagoga di Napoli - che si trova all'interno del palazzo Sessa - venne inaugurata nel 1864 grazie al barone Rothschild. All' entrata sono poste due lapidi di marmo: una ricorda Dario Ascarelli, il presidente della comunità
che fu anche il fondatore della Società Sportiva Calcio Napoli; mentre l'altra commemora la deportazione degli ebrei napoletani durante la seconda guerra mondiale. La sala delle conferenze venne riaperta dopo lavori di restauro terminati nel 1992. Nell'ottobre del 2006 alcuni sconosciuti disegnarono quattro svastiche sui muri del palazzo della sinagoga, accompagnate da deliranti frasi che inneggiavano ad Adolf Hitler. Una vergogna che provocò forte sdegno da parte della comunità ebraica, della cittadinanza e delle istituzioni che condannarono il gesto.

(Il Mattino, 10 dicembre 2014)


Il contributo degli ebrei alla Prima Guerra Mondiale

di Ugo Giano

ROMA - Il Ministro della Difesa Roberta Pinotti, il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici e il Rabbino Capo Riccardo Di Segni, l'Assessore alla Cultura della Comunità Ebraica di Roma Gianni Ascarelli, la Direttrice del Museo Ebraico di Roma Alessandra Di Castro e la curatrice dell'esposizione Lia Toaff, presentano la mostra sul contributo ebraico alla Prima Guerra Mondiale nell'anno delle celebrazioni del Centenario. Fotografie, lettere dal fronte, libri di preghiera appositamente stampati per andare in guerra, cartoline, medaglie e onorificenze racconteranno la storia di famiglie e singole persone di religione ebraica che hanno indossato la divisa per difendere la Patria. Storie di uomini sulla linea di confine, di rabbinati militari e di ebrei italiani che tornati dal fronte saranno poi declassati dalle leggi razziali e deportati nei campi di sterminio nazisti.

(Agenparl, 10 dicembre 2014)


L'illusorio riconoscimento che allontana l'accordo di pace

Incoraggiandoli ad evitare il negoziato con Israele, gli europei rafforzano nei palestinesi l'illusione di poter ottenere uno stato senza accettare compromessi né concessioni

Hillevi Larsson, una delle parlamentari svedesi che hanno promosso il riconoscimento dello "stato palestinese". Frale sue mani, la mappa dello "stato di Palestina" da cui risulta che Israele è cancellato dalla carta geografica (clicca per ingrandire)
Il riconoscimento, recentemente in voga in Europa, di uno "stato palestinese" prima che i palestinesi accettino di negoziare seriamente un accordo di pace con Israele è controproducente, illusorio e un po' arrogante. E' controproducente perché premia l'estremismo e l'intransigenza della parte palestinese mentre alimenta il senso di isolamento e dunque la rigidità da parte israeliana. Ma è anche illusorio: gli europei, che sono terrorizzati da ISIS e affini, che non sanno che pesci pigliare in Siria e Libia e che non hanno il fegato di fronteggiare l'Iran, sperano come sempre di comprarsi l'immunità dando un contentino agli arabi (simbolico, per carità) e calci negli stinchi agli israeliani (simbolici, naturalmente): dove oltretutto la continua sottolineatura del carattere "puramente simbolico" di tali riconoscimenti suona come un trucco opportunistico un po' vile: lo faccio e non lo faccio, qui lo dico e qui lo nego. Come al solito, non funzionerà. Infine, l'arroganza: come saranno visti dagli israeliani questi europei sempre col ditino alzato, pronti ad ammaestrarli su cosa devono o non devono fare per la pace (eventualmente affiancati dalla consueta compagnia di giro di pacifisti israeliani che per qualche oscuro motivo non vengono ascoltati in patria)? E da che pulpito, poi? Quello della brillante gestione delle crisi in Iugoslavia, in Libia, in Ucraina? Questa curiosa diplomazia della ricompensa anticipata ricorda un po' il premio Nobel per la pace assegnato a Barack Obama quando era alla Casa Bianca da pochi mesi: in una parola, una stupidaggine....

(israele.net, 10 dicembre 2014)


Predicatore nella moschea al-Aqsa: «Gli ebrei sono le creature più malvagie mai esistite»

L'arringa di Omar Abu Sara davanti a poche dozzine di fedeli. E un sondaggio a Gaza e in Cisgiordania rileva: 80 palestinesi su 100 favorevoli al terrorismo. Intanto oggi un ministro palestinese è morto in seguito a scontri con l'esercito israeliano.

 
«Gli ebrei sono le creature più malvagie che abbiano mai camminato sulla Terra. Ebrei, io vi dico forte e chiaro: il tempo di combattervi, di uccidervi, di massacrarvi è arrivato». Con queste parole il predicatore musulmano Omar Abu Sara ha arringato poche dozzine di persone il 28 novembre nella moschea al-Aqsa, situata sul Monte del Tempio a Gerusalemme.

NESSUNA PIETÀ - Il discorso del predicatore, ripreso e pubblicato su internet, è stato tradotto in inglese da Memri. «Non lasciare nei nostri cuori neanche una briciola di pietà verso di voi, o ebrei, perché quando il giorno del vostro massacro arriverà, noi vi uccideremo senza pietà», ha continuato Omar Abu Sara.

IL SONDAGGIO - Dopo il massacro di quattro fedeli ebrei nella sinagoga del sobborgo di Har Nof, a Gerusalemme, seguito a una serie di attentati e alla recente guerra nella Striscia di Gaza, la settimana scorsa il Centro palestinese che realizza ricerche e sondaggi ha condotto un'indagine intervistando 1.270 abitanti di Gaza e Cisgiordania. L'80 per cento degli intervistati, riporta l'Associated Press, si è detto favorevole all'uccisione degli israeliani attraverso attentati. L'86 per cento ha anche affermato di ritenere che la moschea al-Aqsa sia in grave pericolo dopo che per mesi Israele ha imposto restrizioni sull'età dei fedeli musulmani che potevano recarsi nel luogo sacro all'islam. Secondo l'autore del sondaggio, Khalil Shikaki, «la violenza sta ormai diventando un elemento dominante dell'ambiente e una delle sue forze trainanti».

MINISTRO PALESTINESE UCCISO - La violenza intanto non si ferma. Oggi il ministro palestinese Ziad Abu Ein è morto nell'ospedale di Ramallah, dove è stato trasportato in seguito agli incidenti con l'esercito israeliano durante una manifestazione vicino alla città. Il leader palestinese Abu Mazen ha indetto tre giorni di lutto, il ministro degli Esteri palestinese ha dichiarato che «Israele pagherà per l'uccisione». Gli incidenti che hanno portato alla morte di Abu Ein sono avvenuti in un'area confiscata ad alcune famiglie palestinesi per consentire l'ampliamento di un insediamento. Durante una protesta pacifica dei palestinesi, soldati israeliani avrebbero sparato gas lacrimogeni e Abu Ein sarebbe stato colpito da un candelotto. Trasportato in ospedale, è morto. Secondo alcuni medici, sarebbe non solo rimasto intossicato dai gas ma anche colpito dai soldati alla testa con un casco e al petto. Il portavoce militare dell'esercito israeliano, Peter Lerner, ha dichiarato di «star indagando sulle circostanze della sua morte».

(Tempi, 10 dicembre 2014)


Tre personaggi famosi

Gli scrittori israeliani Amos Oz, David Grossman e A.B. Yehoshua hanno sottoscritto la petizione che chiede agli Stati europei di riconoscere la Palestina. Nella lettera si legge: "Noi cittadini d'Israele, che desideriamo che il nostro sia un Paese sicuro e fiorente, siamo preoccupati per la continua situazione di stallo politico e per il proseguimento delle attività di occupazione e insediamento che portano a ulteriori scontri con i palestinesi e minano le possibilità di un compromesso". Per questo, continua la lettera "è chiaro che le prospettive per la sicurezza e l'esistenza di Israele dipendono dall'esistenza di uno Stato palestinese a fianco di Israele".

(Notizie su Israele, 10 dicembre 2014)


Ma Israele più dell'lsis teme Hezbollah

Perché il blitz a Damasco è un salto di qualità?

di Maurizio Molinari

Il blitz israeliano in Siria ha assestato un duro colpo agli Hezbollah e la risposta arriva da Teheran e Mosca. Sono i media libanesi e siriani a descrivere nei particolari quanto avvenuto: gli aerei di Gerusalemme hanno colpito contenitori di missili terra-aria, terra-terra e terra-mare, di produzione russa o iraniana, in almeno due depositi ed hanno anche bersagliato un convoglio di Hezbollah che si stava dirigendo verso il Libano, causando la morte di due miliziani filo-iraniani incluso un alto ufficiale. È stato un raid condotto di giorno, da almeno 8 jet e nei depositi siriani colpiti, all'aeroporto di Damasco e Dimas, vi erano anche droni iraniani destinati sempre a Hezbollah. Sebbene dal gennaio 2013 Israele aveva già colpito in cinque occasioni dentro la Siria armamenti destinati a Hezbollah, questa volta si è trattato di un raid più esteso: per durata e obiettivi. Ecco perché il ministro degli Affari Strategici, Yuval Steinitz, parla del «risultato di mesi di raccolta di intelligence» e il premier Benjamin Netanyahu ribadisce che «restiamo con il dito sul bottone per colpire i nostri nemici» pur in assenza di un'ammissione di responsabilità formale. Ad avvalorare l'impressione che si sia trattato di un salto di qualità nei raid israeliani in Siria, ci sono le reazioni di Teheran e Mosca. Nella capitale iraniana il ministro degli Esteri Javad Zarif accoglie il collega siriano Walid Muallem, nella cornice di una conferenza contro il terrorismo, parlando dello Stato ebraico come di un protagonista attivo nel conflitto in atto. «Israele aiuta i ribelli islamici a compensare le perdite subite» afferma Muallem e Zarif aggiunge: «La Siria deve far venir meno questi appoggi ai terroristi». La presenza al tavolo del ministro di Baghdad accresce la dimensione regionale. Ad avvalorare la minaccia siriana di considerare Israele alleato dei gruppi anti-Assad arrivano le parole di Alexander Prokhanov, consigliere di Putin, secondo il quale «agenti del Mossad addestrano Isis in Iraq e Siria» perché «Isis è uno strumento dell'America in Medio Oriente». L'irritazione di Mosca diventa formale con Alexander Lukashevich, portavoce del ministero degli Esteri, che chiede a Israele una «formale spiegazione». Nulla da sorprendersi se sul confine israelo-libanese-siriano le truppe sono in allerta.

(La Stampa, 9 dicembre 2014)


Sul Golan con gli israeliani contro Assad, Isis e al Qaeda

Dietro il raid di domenica su Damasco ci sono tutti i timori di Gerusalemme: «Il Medioriente è andato distrutto dalle primavere arabe. I jihadisti spadroneggiano. E il raìs e ancora forte»

di Fausto Carioti

 
Il ministro dell'Intelligence israeliano, Yuval Steinitz
Fa freddo, qualche chilometro più in là le cime sono coperte di neve. Dalla sommità delle alture del Golan, al confine con la Siria, i soldati d'Israele controllano con i binocoli la valle che in teoria dovrebbe costituire la «buffer zone», la fascia di sicurezza smilitarizzata disegnata dalle Nazioni Unite, sapendo che presto da qui, anche per loro, arriveranno brutte notizie.
   Di smilitarizzato laggiù non c'è ovviamente nulla: ogni notte nella città fantasma di Quneitra le milizie islamiste combattono contro gli uomini di Assad. Bombe e pallottole le cui prime vittime sono come sempre i civili. Chi ha i contatti giusti riesce a farsi portare al posto di controllo israeliano, dove i soldati trasportano i feriti allo Ziv Medical Center di Zafed, trenta chilometri dalla parte opposta.
   Le Nazioni Unite sono presenti in questa zona dal 1974 con gli osservatori dell'Undof. Un totale di 1.178 uomini, ma appostati sulle trincee qui sopra, a pochi metri dagli israeliani, se ne vedono solo due: un casco blu svedese e uno olandese. Educati, sorridenti, paiono messi lì apposta per farsi fotografare.
Che quella dell'Onu sia una presenza essenzialmente coreografica gli israeliani lo hanno capito da tempo. Il bar-rifugio che vende cibo, bevande e souvenir a chi arriva quassù lo hanno ribattezzato «Coffe Annan»: un gioco tra le parole ebraiche che significano «caffè tra le nuvole» e il nome dell' ex segretario generale delle Nazioni Unite, il ghanese Kofi Annan, i cui estimatori israeliani, se esistono, non superano le dita di una mano.
   Gli analisti del ministero della Difesa a Tel Aviv ti dicono senza giri di parole che «Syria is dead», al pari di Iraq e Libano. È la fine dell' ordine fondato sugli Stati-nazione, innescata da quella primavera araba che aveva tanto entusiasmato gli osservatori europei e che ha finito per aprire la strada ai macellai dell'Isis, che qui preferiscono chiamare con la sigla araba Daesh, e ai mujaheddin di Iabhat al-Nusra, affiliati di Al Qaeda.
   Vista con i binocoli dei militari dalle alture del Golan la Siria di Bashar al-Assad sembra però dura a morire. A spiegare la situazione provvede un capitano israeliano. Sarà sulla trentina, il che fa di lui un veterano in un esercito composto di giovanissimi e dove è facile incontrare ragazzi di venticinque anni che questa estate hanno operato in territorio nemico, nella striscia di Gaza, per chiudere i tunnel scavati da Hamas per portare il terrore dentro Israele. L'ufficiale non vuole rendere noto il proprio cognome. Vietato fotografarlo.
   Spiega che l'esercito di Assad non è quello di un tempo, ma è ancora forte e organizzato. Di sicuro, in questo momento lo è più dei ribelli che gli si oppongono. Se non ha soppresso le milizie nemiche è per una questione di priorità: per Damasco adesso i fronti più importanti sono altri, il turno del Golan verrà dopo.
   L'esito non è comunque scontato. In attesa di usare i fucili gli israeliani fanno un gran lavoro d'intelligence. Infiltrare i guerriglieri è difficile, ammette il capitano, ma non impossibile. Dalle informazioni raccolte risulta che ad operare contro l'esercito siriano ci siano adesso un migliaio di uomini, ma il numero èrelativo. «In breve tempo ne possono portare qui molti di più», spiega.
   A fronteggiare Assad sono stati dapprima i locali: sunniti, drusi, persino i discendenti dei circassi. Col tempo si sono aggiunti combattenti provenienti dall'Iraq e da altri fronti. Hanno agende diverse: alcuni sparano per deporre Assad e instaurare la democrazia, o almeno qualcosa che le assomigli. Altri si battono per l'indipendenza. Molti lo fanno per il grande Califfato, e sono questi che Israele teme di più. L'Islam è l'unico vero collante di tutti quelli che si oppongono ad Assad. «Hanno detto che vogliono arrivare a Roma, ed è chiaro che Gerusalemme rappresenta una tappa del percorso», dice l'ufficiale dell'intelligence. È convinto che sia solo questione di tempo prima che Iabhat al-Nusra rivolga le proprie attenzioni verso Israele, se non altro per il prestigio che otterrebbe nel mondo islamico sfidando i sionisti. In questo, lui e gli analisti del governo la pensano allo stesso modo.
   Il che non impedisce a Israele, quando serve, di giocare un ruolo attivo contro Assad. Come ha fatto domenica bombardando, vicino a Damasco, depositi di droni e missili anti-aerei che sarebbero stati destinati agli Hezbollah in Libano. Pur senza confermare la paternità del raid aereo, il ministro dell'Intelligence, Yuval Steinitz, ieri ha spiegato che la priorità è impedire che armi tanto sofisticate cadano nelle mani di terroristi.
   Un recente rapporto Onu parla anche di contatti sempre più frequenti tra truppe israeliane e «ribelli siriani» e sostiene che alcuni di questi sono stati curati negli ospedali israeliani. Allo Ziv Medical Center non ne fa mistero nessuno.Anzi, ne vanno orgogliosi. «Curiamo tutti, senza chiedere da che parte stanno», spiega con un italiano perfetto il vicedirettore Calin Shapira. Molti dei pazienti che arrivano dalla Siria sono bambini, ma ci sono anche uomini tra i diciassette e i quarant' anni che con ogni probabilità pochi giorni prima imbracciavano un fucile. Gli chiedi se essere stati salvati da un ospedale israeliano gli ha fatto cambiare opinione sugli ebrei e si guardano imbarazzati. Finché uno di loro, il più anziano, barba lunga e fisico da battaglia, se la cava con la risposta più diplomatica che può: «In parte, sotto certi aspetti, sì ... ».

(Libero, 9 dicembre 2014)


Quell'arsenale da cui Israele deve difendersi

di Fiamma Nirenstein

L'attacco aereo israeliano (mai confermato) di domenica è avvenuto nella piena luce del giorno. I sei velivoli da guerra dell' esercito hanno lasciato che il loro rombo e le dieci esplosioni causate dal bombardamento dei siti stipati di armi letali dirette agli Hezbollah, si sentissero bene. I due siti sono lontani fra di loro, uno vicino all' aeroporto di Damasco, e l'altro presso Dimas, verso il confine libanese. L'aeroporto è in genere la meta delle armi iraniane o russe destinate agli Hezbollah. Potrebbe aver innescato l'azione l'arrivo di missili particolarmente potenti e pericolosi, come accadde quando Israele attaccò il trasporto di febbraio e prima quello del maggio 2013. Fu in quel maggio che i missili Fateh 110 arrivarono in aereo dall'Iran e la notte successiva un sito di stoccaggio presso il confine libanese fu distrutto. Nei casi citati, non ci sono state reazioni siriane, e anche adesso sembra difficile che Assad, con tutti i problemi che ha, si metta in aperto scontro con Israele. Gli Hezbollah, invece, che pare abbiano avuto due uomini uccisi nell' attacco, potrebbero come hanno fatto a febbraio rispondere con azioni di confine. In genere si è trattato di bombe al lato della strada che in un caso hanno ferito tre soldati israeliani: la risposta, costruita per recuperare la pubblica opinione libanese che li critica per il sostegno a Assad, ha sventolato il drappo della «resistenza» a Israele. Anche adesso, non è peregrino pensare a azioni di rappresaglia. La «resistenza» come loro chiamano l'odio per Israele pilotato dall'Iran, è la loro ragione di vita. L'attacco aereo di Israele è stato programmato con cura sulla base di informazioni allarmanti, le dietrologie che lo attribuiscono a un gesto di propaganda di Nethanyau prima delle elezioni non tengono conto dei meccanismi quasi matematici che determinano le scelte dell'esercito. Gli Hezbollah sono ormai, grazie al giro Iran-Russia-Siria, la quinta potenza del mondo per potenza di fuoco, si stima che la sua forza balistica ammonti a circa 100mila missili di varie dimensioni, e tutti puntati su Israele. Se si può arguire che ogni volta che un carico pericoloso si avvia nelle mani degli Hezbollah, Israele interviene, viene da pensare che adesso che il futuro delle trattative con l'Iran è incerto e che Israele potrebbe essere costretto un giorno a intervenire contro i reattori nucleari, sia diventato indispensabile contenere la più agguerrita delle armi iraniane: Hassan Nasrallah. La reazione del mondo arabo e anche della Russia sono state paradossali: intanto, Assad fa ripetere dalle sue tv e sparge fra la gente la ridicola supposizione che Israele sostenga Isis. Il ministro degli esteri siriano Walid Moallem e il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarifinsieme spiegano che fa causa comune con i terroristi e si rivolgono all'Onu perché sanzioni il comportamento aggressivo e «terrorista» di Gerusalemme. E si è fatta viva anche Mosca, che ha chiesto «chiarificazioni» per gli attacchi israeliani. Se Israele volesse dare queste chiarificazioni, non potrebbe fare a meno di domandare a sua volta per quali ragioni la Russia, se non la disponibilità a pagare il prezzo della distruzione di Israele per un pò di egemonia sulle mobili sabbie del Medio Oriente, continua a rifornire Assad e Nasrallah di armi.

(il Giornale, 9 dicembre 2014)


In campo le ultraortodosse «Vogliamo candidarci anche noi»

di Lorenzo Cremonesi

Esty Reider-Indorsky, 42 anni, conduce la campagna che chlede ai partiti ultraortodossi di aprirsi alle donne
GERUSALEMME «Se non possiamo essere elette non voteremo» tuona su Facebook il nuovo movimento che vorrebbe una donna tra i deputati ultraortodossi. E' l'ultima espressione di un fenomeno che da tempo investe la politica israeliana e adesso viene rllanciato con forza dalla prospettiva delle elezioni anticipate al 17 marzo. I media locali notano che al momento ben sei partiti sono guidati da donne, tra cui due importanti come i laburisti di Shelly Yachimovich e il centrista «Hatnuah» di Tzipi Livni. E tutti basano i loro programmi sull'aggressiva difesa dei diritti delle donne. Tra i punti più importanti, alzare il numero dei deputati rosa dall'attuale 2396 sui 120 complessivi alla Knesset (il parlamento). Un numero che comunque è più alto della media dei parlamenti europei, attestata attualmente al 17,696.
   Ma la novità avanzata dalle attiviste religiose è che si rivolge al cuore stesso dell'ortodossia più conservatrìce. «Le donne ultraortodosse sono oltre 400.000, un numero notevole. Rappresentano circa il 596 di tutta la popolazione israeliana. Hanno il compito di generare e crescere le nuove generazioni, spesso lavorano, mantengono gli studi del marito. Sono tasselli fondamentali della famiglia e dell'universo ultraortodosso. Possibile che non abbiano almeno una loro rappresentante alla Knesset?», ci dice la 42enne Esty Reìder-Indorsky, che da due anni conduce la campagna. Lei sa bene di muoversi in un campo minato. Divorziata, un solo figlio e risposata da poco, non ha problemi
a postare le sue foto su internet: tutti comportamenti che fanno a pugni con i codici imposti dal rabbinato ortodosso.
   «Abbiamo ricevuto tanti messaggi di sostegno. Ma forse le donne a cui ci rivolgiamo non hanno mai letto il nostro sito. Le ultraortodosse in genere non usano internet, non hanno accesso ai media tradizionali. Siamo state accusate di offendere il nostro credo, di non appartenere al mondo che vorremmo cambiare, di essere il diavolo in persona», ammette. Anche per questo motivo insiste nel moderare i toni. «Non intendiamo affatto cambiare la tradizione ortodossa. Vogliamo rafforzarla con l'adesione attiva delle donne. La nostra prima richiesta è che lo Stato vieti la partecipazione alle elezioni per partiti come Shas ed Ebraismo Unito della Torà sino a quando non avranno cambiato gli articoli dello statuto in cui rifiutano espressamente le deputate donne», continua, citando le due formazioni politiche che con 22 seggi complessivi raccolgono i voti delle due confessioni ultraortodosse tradizionali: la sefardita, di rito orientale, e quella askenazita delle comunità ebraiche del centro-est europeo. Una vera rivoluzione, in verità quasi impossibile da realizzare. Ma lei avanza un compromesso per indorare la pillola: «Sarebbe sufficiente una sola candidata donna. E a sceglierla saranno esclusivamente i rabbini».

(Corriere della Sera, 9 dicembre 2014)


Abu Mazen: "In Israele devono potersi stabilire sei milioni di palestinesi"

Netanyahu: "La dirigenza palestinese rende un pessimo servizio al proprio popolo alimentando fantasie impossibili".

In un'intervista dello scorso 30 settembre al quotidiano egiziano Akhbar Al-Yawm, il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha detto che ci sono "6 milioni di profughi palestinesi che attendono di tornare" dentro Israele e che lui è uno di loro.
Nell'intervista, tradotta e diffusa in inglese lo scorso fine settimana da MEMRI (Middle East Media Research Institute), Abu Mazen si riferisce naturalmente ad una stima molto "generosa" del totale di figli, nipoti e altri discendenti dei profughi originari, e spiega che i palestinesi non riconosceranno mai Israele come stato nazionale del popolo ebraico perché ciò precluderebbe il "diritto al ritorno" di questi discendenti di profughi. "Non possiamo riconoscere uno stato ebraico - ha spiegato Abu Mazen - perché non possiamo chiudere le porte a coloro che desiderano tornare", cioè stabilirsi dentro Israele (anziché nel futuro stato palestinese)....

(israele.net, 9 dicembre 2014)


La foto-simbolo del conflitto isrealo-palestinese è un fake

I bambini che si abbracciano sono entrambi ebrei israeliani

di Laura Eduati

 
È una delle immagini-simbolo del conflitto israelo-palestinese, utilizzata specialmente da coloro che auspicano una pace duratura in Medio Oriente: un bambino con la kippah che abbraccia un bambino con la kefiah come se fossero migliori amici. E invece quella foto è un falso. O, per utilizzare il termine più in voga, un fake.
A rivelarlo, vent'anni dopo quello scatto, è il quotidiano israeliano Haaretz che intervista i due bimbi protagonisti - entrambi ebrei israeliani. La foto risale al 1993, qualche mese dopo gli accordi di Oslo, ed è stata scattata dalla fotoreporter americana Ricki Rosen, esperta del conflitto tra israeliani e palestinesi. Rosen racconta che chiese ai due bambini di posare, a uno dei due mise la kefiah per farlo sembrare palestinese. "Ma volevo fare una immagine allegorica, non documentale", si giustifica. La foto era stata commissionata dal direttore del "Maclean", una importante rivista di approfondimento canadese.
Rosen, che viveva ad Abu Tor, chiese alla sua vicina Haim Shapir, allora giornalista del Jerusalem Post, se potesse utilizzare suo figlio nella foto. "Se mai ci fosse stato un posto dove trovare un bambino palestinese che avesse accettato di posare per me, quello sarebbe stato il quartiere di Abu Tor", racconta la Rosen. "Ma non ho cercato perché pensavo sarebbe stato difficile. Le relazioni erano collassate dopo la prima Intifada, e i palestinesi temevano di farsi vedere insieme agli israeliani oerché i collaborazionisti venivano uccisi".
E così Zvi Shapiro, miglior amico di Zemer Aloni (i due bambini che poi posarono per Ricki Rosen, ndr), che viveva a poca distanza, avrebbe indossato la kefiah. Aloni disse che le sue origini orientali - suo padre era un ebreo iraniano - lo rendeva perfetto per il ruolo.

(L'Huffington Post, 8 dicembre 2014)


Magia della fiaba ebraica - Grande successo a Sorengo

Fiabe, musiche e cibi ebraici per un pubblico molto interessato. Una serata organizzata dall'Associazione Svizzera Israele sezione Ticino, presieduta dal dottor Adrian Weiss.

L'ASI, Associazione Svizzera Israele, in collaborazione con la Società svizzera delle Fiabe ha organizzato mercoledì 3 dicembre a Sorengo (Lugano) una serata dedicata alla storia della cultura ebraica attraverso le fiabe. Notevolissimo il concorso di pubblico; la sala era gremita e coloro che non si erano premurati di prenotare il posto (non facciamo nomi)… si ritrovavano ansiosamente in piedi. Alla fine il presidente dr. Weiss è riuscito, a fatica, a far accomodare tutti.
Ha diretto la serata la professoressa Sara Ferrari, che ha anche recitato per intero in ebraico la lunga fiaba "Salomone e l'ape". Hanno letto le fiabe le narratrici del gruppo Intrecciafole e il narratore Giuseppe Sarah. Le suggestive proiezioni di immagini sono state curate da Cristina Kadmon.
Di grande interesse e fascino le musiche ebraiche del trio Stellerranti, voce, violino e fisarmonica. Senza alcuna esagerazione, una magnifica serata!

(Ticino live, 8 dicembre 2014)


Disastro ambientale in Israele: milioni di litri di greggio nella riserva di Evrona

In seguito all'incidente si è creato un fiume di greggio della lunghezza di 7 chilometri. Conseguenze anche in Giordania.

Ci vorranno anni perché il disastro avvenuto in Israele la scorsa settimana possa essere normalizzato: milioni di litri di greggio sono fuoriusciti da un oleodotto nel deserto dell'Aravà causando uno dei maggiori disastri ambientali mai avvenuti in territorio israeliano. A causa dell'incidente alle tubature dell'oleodotto si è creato un fiume di greggio lungo 7 chilometri nella riserva naturale di Evrona, in una regione nota per ospitare una folta popolazione di cervi.
Da giorni pompieri, polizia, squadre di emergenza e protezione civile sono impegnati per contenere il disastro causato da un incidente avvenuto durante i lavori per la costruzione del nuovo aeroporto di Timna, nel sud del Paese.
La fuoriuscita di greggio, avvenuto nei pressi del kibbutz Keturà, è stata stoppata chiudendo l'oleodotto a monte della dispersione, ma l'intervcento è stato effettuato solamente due ore dopo l'incidente quando diversi milioni di litri di greggio erano ormai dispersi nel terreno.
L'oleodotto nel quale è avvenuto l'incidente collega le città di Ashkelon ed Eilat e fu aperto negli anni Sessanta per consentire al petrolio iraniano di arrivare sul Mediterraneo, per essere venduto sui mercati europei.
Il Ministero della Protezione dell'ambiente israeliano ha avviato un'inchiesta che dovrà chiarire, oltre alle cause del disastro, quelle del ritardo nelle operazioni di tamponamento e il clamoroso errore nella prevenzione dell'incidente.
Il disastro ambientale ha avuto conseguenze anche in Giordania, dove 80 persone sono state ricoverate per problemi respiratori conseguenti all'inalazione dei fumi nocivi.

(Ecoblog, 8 dicembre 2014)


E' nata a Ventimiglia l'associazione Italia-Israele

 
"Questa associazione nasce per far conoscere il popolo di Israele dal punto di vista culturale - spiega Lidia Naso -. Siamo apolitici e apartitici. Per questo motivo non vogliamo entrare nel merito del discorso riguardante la guerra israelo-palestinese". Obiettivo, dunque: far conoscere Israele, il suo territorio, la sua lingua e le sue tradizioni.
"Oltre che dalla politica - ancora Lidia - siamo distanti anche dalla religione. In quanto laici, possono entrare a far parte dell'associazione sia ebrei che cattolici. Il nostro impegno si svilupperà con l'organizzazione di conferenze e tavole rotonde, portando la testimonianza di persone che, ad esempio, hanno vissuto in prima persona, o anche indirettamente, la Shoah".
Concludono gli organizzatori: "Il popolo ebraico ha una cultura e un know how di immenso valore ed è giusto promuoverlo, questo perché quello israeliano è un popolo non solo militare, ma che è riuscito a creare un paradiso dal deserto, dove qualsiasi persona, cresce conoscendo almeno tre o quattro lingue straniere".

(Riviera24, 8 dicembre 2014)


Raid su Damasco. Israele colpisce l'arsenale di Assad

Bombe sui depositi di armi vicino all'aeroporto Rapporto Onu: legami fra i ribelli e Gerusalemme.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Blitz contro i depositi di armi di Bashar Assad e contatti con i ribelli sul Golan: il profilo di Israele si alza nella crisi siriana, aggiungendo un nuovo tassello alla guerra in atto.

UNA PIOGGIA DI MISSILI
I blitz aerei sono avvenuti ieri in prossimità dell'aeroporto di Damasco e della città di Dimas, vicino al confine libanese. Testimonianze locali, immagini sul web e fonti dell'Osservatorio sui diritti umani in Siria descrivono un'azione massiccia: almeno lO esplosioni solo a Dimas. È stato un diluvio di missili dal cielo che, secondo fonti straniere citate dai media israeliani, ha avuto per obiettivo depositi di armi in mano alle truppe di Assad dove si trovavano componenti del sistema anti-missile S-300 di produzione russa. Più volte il Cremlino ha affermato di aver sospeso la consegna di questo dispositivo d'arma - in grado di proteggere i cieli siriani da ogni intrusione - ma l'intelligence di Gerusalemme deve aver avuto informazioni diverse e così sono partiti i raid, con l'intento di impedire il trasferimento degli S-300 agli Hezbollah libanesi,

LA REAZIONE DI HEZBOLLAH
La reazione di Damasco e Hezbollah, attraverso le rispettive tv, è furente: «Violazione lampante della sovranità siriana al fine di aiutare i terroristi che si battono contro il governo». Significa imputare ad Israele un'intromissione diretta nella guerra in atto e colpisce in merito la coincidenza con il rapporto degli osservatori Onu sul Golan, consegnato ieri al Consiglio di Sicurezza. Contiene una ricostruzione minuziosa di quanto avvenuto lungo il confine del Golan dal dicembre 2013, soffermandosi sui sempre più frequenti «contatti» fra truppe israeliane e «ribelli siriani» senza specificare però di quali gruppi si tratti. Per il rapporto c'è stata una fase iniziale nella quale Israele «ha accolto feriti siriani», in numero sempre più consistente, trasportandoli negli ospedali di Nahariya e Zefat per curarli.
Poi è iniziata una «seconda fase» che ha visto soldati israeliani «consegnare due casse» ai ribelli così come due siriani «varcare la rete di frontiera» lo scorso 27 ottobre a «incontrarsi con i soldati». In quest'ultimo caso i siriani non erano feriti e dunque c'è l'interrogativo sul motivo dell'incontro, tanto più che si svolse in coincidenza con la creazione - a trecento metri di distanza dalla frontiera - di una mini-tendopoli dei ribelli per ospitare disertori siriani. In quell'occasione l'ambasciatore di Damasco al Palazzo di Vetro fece sapere agli osservatori Onu di considerare la «tendopoli un obiettivo legittimo».

LA SVOLTA SUL GOLAN
I portavoce militari israeliani non commentano sui raid in Siria - come già fatto in occasione di precedenti blitz - e ribadiscono che il soccorso ai siriani si limita a «curare i civili feriti» ma l'impressione è che qualcosa di nuovo stia maturando sul confine del Golan dove di fronte alle linee israeliane sono schierati tanto i jihadisti di Al-Nusra che, in un'area più ridotta, i soldati di Assad mentre nella città di Daraa, pochi km più lontano, vi sono le postazioni dei ribelli filo-occidentali.

(La Stampa, 8 dicembre 2014)


Fra i feriti siriani sul Golan: "Torneremo a combattere"

L'esercito israeliano li recupera al confine e li assiste a Zefat

Un ferito in barella con un soldato
Due Caschi blu dell'Onu osservano, disarmati e con al fianco un cannocchiale arrugginito, dall'alto del Golan - versante israeliano sulla linea del cessate il fuoco del 1974 - il fronte siriano. Alla nostra sinistra il Monte Karmon, imbiancato, sovrasta la zona di guerra. Damasco dista appena sessanta chilometri. Sono dei segnali inchiodati a un palo a formare una rosa dei venti a indicare che Baghdad sta a 800 chilometri, Amman, in direzione Sud-Est si raggiunge in 135 chilometri, Gerusalemme in 240.
  Fra soldati dell'Onu e qualche turista che si protegge dall'aria fredda nel Coffee Anan («anan» vuole dire nuvola in ebraico), un ufficiale dell'intelligence israeliana punta il dito verso il fondo valle. «Oggi è calmo, ma è lì che si combatte». È la guerra in Siria: i fedelissimi di Assad, e i ribelli, laici, sempre di meno quelli del Free Syrian Army, e islamisti, quelli di Al Nusra, branca locale di Al Qaeda. Gli israeliani non hanno dubbi, ormai la lingua che corre verso Sud a ridosso del confine è in mano a Jabat al Nusra, e anche il Golan non è esente dall'infiltrazione qaedista. «Non sappiamo quanti siano», forse un migliaio stimano invece alcune fonti. Che parlano di «milizie che hanno armi sempre più sofisticate e che intendono averne altre».
  Più che pattugliare con blindati il confine, questa in Siria non è una guerra tradizionale, conta più l'intelligence. A Quneitra, la città più importante ai piedi del valico, è un campo di battaglia, l'aviazione di Assad martella ogni giorno le postazioni nemiche per riconquistare terreno. E qui come a Daraa la città più a Sud, che fu epicentro della rivolta anti-Damasco 4 anni fa, e a Qataniah, la conta dei feriti resta impossibile. Eppure qualcuno di questi feriti è riuscito a superare il confine, a scavalcare il Golan, e a trovare ospitalità negli ospedali di Israele, «il nemico storico». Di questa cooperazione «transfrontaliera» parla l'Onu nel rapporto uscito ieri.
  Ma sono mesi che al Ziv Medical Center di Zefat, a 30 chilometri dal confine siriano, a una dozzina da quello libanese (e i vetri in frantumi, omaggio dei razzi di Hezbollah delle guerre passate lo testimoniano), «arrivano i siriani». Il vicedirettore Calin Shapira, italiano impeccabile imparato studiando medicina a Bologna, dice: «Siamo arrivati già a 427 feriti siriani dal febbraio del 2013, circa 30 bambini, e non si vede la fine ancora». Miliziani, ribelli, gente che ha fatto la guerra al regime. I medici del Ziv Medical Center non fanno domande. Operano, cercano di evitare amputazioni, curano.
  E poi rispediscono oltre confine. Procedura top secret. Al momento sono ricoverati 12 siriani. Li incontriamo in una stanza, i letti in fila, le coperte a coprire gli arti inferiori tumefatti. «Vogliamo tornare in Siria», dicono. Là c'è la famiglia, la casa o quel che ne resta, e una sfida. «Torneremo a lottare contro Assad». Israele per i siriani è il nemico sionista da abbattere, sono cresciuti con questa idea. Ritrovarsi curato da medici ebrei è uno choc. I quattro, il più giovane avrà 20 anni, il più vecchio non arriva a 35, ridono e annuiscono quando Fares Issa, un cristiano maronita che fa da «ufficiale di collegamento» fra i siriani e i medici, racconta un aneddoto. A un ferito chiesero: cosa farai ora che torni in Siria? Lui rispose: combatterò Assad. E poi quando la guerra sarà finita? Combatterò Israele.
  Il grido di aiuto a Israele arriva direttamente dai siriani. Una telefonata, una segnalazione che c'è un ferito. L'ospedale allerta l'esercito, il ferito viene trasportato al confine; lì i soldati dello Stato ebraico lo prendono in consegna. Nessuna domanda, l'ambulanza parte veloce. Quattro, cinque ore per arrivare a destinazione in condizioni spesso disperate. «Sono resistenti agli antibiotici», dice il dottor Shapira. «Ma sono qaedisti?», chiediamo. «Loro sono malati, noi medici. Queste domande non le facciamo».

(La Stampa, 8 dicembre 2014)


Golan, il confine infiammabile tra Siria e Israele

 
La vallata attraversata dalla strada che porta ad uno dei punti di osservazione del Golan, sulle alture conquistate ed annesse da Israele dopo la guerra dei Sei giorni del 1967, ha un'aria tranquilla, quasi sonnolenta. Campi agricoli ben curati, tra vigneti ed alberi da frutta, non indicano in alcun modo che qui ci si trova su un confine tra i più delicati ed infiammabili al mondo, con la guerra in Siria a poche centinaia di metri e i gruppi estremisti islamici che si fanno strada nella regione in teoria smilitarizzata ed affidata alle truppe Onu dell'Undof. Sulle alture, a poca distanza da un bar chiamato con ironica assonanza Coffee Anan ('anan' vuol dire nuvola in ebraico), un casco blu svedese ed uno olandese mostrano quanto sia ormai simbolica la loro presenza: disarmati, con accanto un cannocchiale semiarrugginito. «Oggi la giornata è tranquilla», spiegano, «ma ci sono giorni in cui si sentono i colpi e si vede il fumo». A qualche chilometro si vedono le case di Quneitra, città che si troverebbe nella zona smilitarizzata, ma che è stata a lungo teatro di scontri tra le forze di Damasco e i ribelli che si oppongono al regime di Bashar Al-Assad ed oggi è nelle mani di questi ultimi. Ma per Israele - che secondo l'Onu ha regolari rapporti con questi ribelli - la preoccupazione principale ha un altro nome: Jabhat al-Nusra, o 'Fronte per il soccorso al popolo della Sirià, una milizia islamica nata ufficialmente nel 2012, affiliata ad Al Qaida, che nella prima fase della guerra in Siria si è distinta negli scontri contro le truppe di Damasco, e che secondo l'intelligence israeliana è ben armato e intento ad aumentare il proprio arsenale. «Sappiamo che queste milizie, che hanno acquisito grande esperienza militare in Siria, hanno armi sofisticate e che intendono procurarsene altre», spiega un anonimo ufficiale dell'intelligence militare israeliana. «Sono gruppi difficili da infiltrare, anche se non è impossibile. Loro ci preoccupano in questa fase più dell'Isis, il quale naturalmente è nemico di Israele, ma in questo momento ha altro a cui pensare». Ma il confine non appare in allerta militare, facciamo notare. «Pattugliare il confine con autoblindo e soldati ha senso in una guerra tradizionale, contro un esercito. In questo contesto ha molta più rilevanza l'intelligence, le truppe si possono mobilitare in tempi brevissimi, se servisse». Israele, insomma, non smette neanche per un istante di osservare l'evoluzione della guerra in Siria. E a poca distanza dalle alture, la guerra in Siria arriva direttamente in Israele con i suoi feriti: allo Ziv Medical Center di Safed, centro di eccellenza medica dove si salvano gli arti dalle amputazioni, si curano decine di feriti gravi del conflitto. Selezionati in Siria, arrivano attraverso procedure che non vengono svelate all'ospedale accompagnati dalle truppe israeliane che li prelevano al confine. «Senza chiedere a queste persone chi siano, se dalla parte di Assad o ribelli», sottolineano i medici.

(Online News, 7 dicembre 2014)


Iran: Netanyahu rivendica il ruolo di Israele nel mancato accordo a Ginevra

WASHINGTON - L'intesa sul controverso programma nucleare iraniano, che si era vicini a raggiungere due settimane fa a Ginevra, non piaceva a Israele: "Era un cattivo accordo e "l'aver espresso le nostre preoccupazioni ha giocato un ruolo nell'ostacolarlo". Cosi' Benjamin Netanyahu ha pubblicamente rivendicato le pressioni di Tel Aviv, spiegando che l'intesa "avrebbe portato l'Iran ad un passo dal diventare una potenza nucleare". Ora Israele ha fino al 30 giugno 2015, nuova scadenza delle trattative tra i "5+1" e Teheran, per riuscire a far smantellare completamente il programma nucleare iraniano e non a semplicemente ridurne le capacita'.

(AGI, 7 dicembre 2014)


Le tante ombre di un passato che non passa

di Simonetta Fiori

Simon Levis Sullam
Ambiguità e omissioni della storia. Il "bravo italiano" diventa "carnefice", Non più estraneo ai crimini, non più ignaro delle tragedie, ma complice consapevole del genocidio degli ebrei. I carnefici italiani è il titolo scelto da Simon Levis Sullam per il suo saggio sulla rete di responsabilità, tra il 1943 eil1945, nell'orrore dell'Olocausto. Delatori, spie, collaborazionisti nelle vesti più diverse, fino a includere gli interpreti e le dattilografe che stilarono le liste delle vittime, gli autisti dei pullman e i macchinisti dei treni piombati che condussero i deportati a morire. Tutti carnefici? «Naturalmente fu diverso il grado di responsabilità e consapevolezza», dice Sullam, «ma tutti sapevano di partecipare a un progetto persecu torio. E la macchina dello sterminio funzionò proprio grazie alla complessa moltiplicazione delle funzioni, la maggior parte lontanissime dall' atto di uccisione». Solo la metà degli arresti, secondo lo storico, avvenne per mano italiana. «Se ogni giorno scopriamo un nuovo Giusto, nessuno parla più dei carnefici», denuncia Sullam. In uscita da Feltrinelli a metà gennaio.

Di ambiguità e omissioni si nutre anche il romanzo-memoriale di Dasa Drndic, scrittrice croata recentemente celebrata dal New York Times. Arriverà anche in Italia il suo Trieste, un originale racconto sui crimini nazisti costruito su testimonianze, fotografie, lettere, mappe, atti processuali e anche su brani di poesia come la Terra Desolata di Eliot. Ormai ottuagenaria, Haya Tedeschi aspetta nella sua casa di Gorizia il figlio che le era stato portato via nel 1944. L'ultima volta che l'ha visto era un neonato, ora è un sessantenne devastato dalla storia. Antonio era stato rapito con la complicità del padre, un ufficiale tedesco felice di partecipare alla follia del Lebensborn, il progetto di eugenetica messo in piedi da Himmler. La madre Haya non si dà pace finché non porta a termine la sua missione: ricostruire le vicissitudini di Antonio e di un'intera comunità che rischia di essere dimenticata. E poi la lunga attesa di un figlio che non vuole vederla, perché Haya è il passato, un passato che fa male. Né fiction né solo documento, Trieste è stato accolto dai critici americani come un libro necessario. Tra i forthcoming di Bompiani per il Giorno della memoria.

Ancora ombre che non passano. Einaudi pubblica in primavera il saggio di Philip Ball, Servire il Reich, sulle ambigue e difficili scelte morali di tre fisici di eccezione:
Max Planck (il pioniere della teoria dei quanti), l'olandese Peter Debeye e Werner Heisenberg, padre del principio di indeterminazione. Alla fine della guerra molti scienziati dichiararono la loro estraneità al Führer, talvolta rivendicando i meriti di un' attiva opposizione. In realtà i rapporti furono più sfaccettati, tra cedimenti e compromessi pur di continuare a lavorare. Dalla ricca documentazione raccolta da Ball affiora il dilemma etico di tre grandi nomi della fisica. Non ci sono colpevoli. Solo uomini che cercano una via di fuga dal tiranno.

(la Repubblica, 7 dicembre 2014)


Francia - l ministro degli Interni chiede di affrontare il problema dell'antisemitismo

Bernard Cazeneuve, ministro degli Interni della Francia, ha invitato l'opinione pubblica a lottare contro l'antisemitismo e il razzismo nel Paese.
Lo ha dichiarato oggi in una manifestazione in un sobborgo di Parigi, dove la scorsa settimana un gruppo di antisemiti aveva aggredito una giovane coppia chiedendo soldi e gridando "giovani ebrei." Durante l'aggressione la ragazza è stata violentata: in seguito la polizia ha arrestato 3 aggressori.
Il presidente francese Francois Hollande ha definito l'episodio un crimine che viola i valori nazionali del Paese. Secondo le autorità locali, in Francia il numero di episodi simili e minacce antisemite è raddoppiato negli ultimi 10 mesi.

(La Voce della Russia, 7 dicembre 2014)


Venezia - Sei lumi per la Memoria

 
Solenne commemorazione in sinagoga levantina, con il limmud di rav Scialom Bahbout, "l'Ani Ma'amin" e i sei lumi posti sul memoriale dell'olocausto in campo di Ghetto Nuovo in ricordo di altrettanti milioni di ebrei deportati e sterminati nei campi di concentramento.
Furono più di 200 le persone deportate da venezia a partire dal 5 dicembre 1943, quando il questore Cordova comandò di eseguire l'immediato arresto degli ebrei: gli uomini vennero tradotti al carcere di Santa Maria Maggiore, le donne alla Giudecca, e i bambini al centro minorenni. Nulla riuscì a fermare la scelleratezza dei rastrellamenti che non risparmiarono neppure i vecchi e i malati ricoverati negli ospedali cittadini, deportati nella Risiera di San Sabba. Non servirono a nulla neppure i sacrifici di uomini d'onore come il presidente della Comunità Giuseppe Jona che a settembre di quell'anno si era suicidato pur di non consegnare la lista degli iscritti . Presenti a questo momento di cordoglio, tra gli altri, alcuni consiglieri in rappresentanza del consiglio della Comunità e il gruppo scout di Treviso, venuto in questa occasione a portare la loro solidarietà.

(moked, 7 dicembre 2014)


Petizione pro Palestina di tre scrittori israeliani ai parlamenti europei

Oz, Grossman, Yehoshua firmano il documento perché si riconosca lo Stato: "Avanti con i negoziati e stop agli insediamenti".

Gli scrittori Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua hanno firmato una petizione per chiedere ai Parlamenti europei di riconoscere la Palestina come Stato. Secondo l'organizzazione Gush Shalom, citata da Haaretz, i tre autori hanno firmato la richiesta insieme ad altri 800 israeliani tra cui il premio Nobel Daniel Kahneman.
"E' un atto di incoraggiamento soprattutto per il negoziato - spiega Yehoshua - e anche perché Abu Mazen continui nelle trattative". Sulle prossime elezioni, lo scrittore ha poi aggiunto che "Netanyahu deve lasciare. E' ora che si formi un blocco di centrosinistra per impedire uno stato binazionale e dire basta agli insediamenti".


(TGCOM24, 7 dicembre 2014)


La Memoria come paradosso

di Claudio Vercelli

A quattordici anni dalla sua costituzione, il Giorno della Memoria come sta funzionando? Richiede forse un esercizio di manutenzione? In caso affermativo, di quale tipo? Quali sono state le ricadute sulla collettività? Più in generale, ha avuto senso l'istituirlo, rischiando forse di cristallizzare in una data, raccolta inevitabilmente in un solo giorno, il racconto e la metabolizzazione di un evento così complesso, le persecuzioni e lo sterminio razziale, che invece si presenta storicamente come un "processo" di lunga durata, prodotto di un percorso di radicalizzazione cumulativa che dai pregiudizi iniziali, quasi di senso comune, si concluse nell'assassinio di massa? Non di meno, se non si fosse fatto nulla, se ne sarebbe ricavato un diverso beneficio, magari maggiore? Oppure sarebbe subentrato il vuoto, l'omissione, il silenzio, che da sempre si accompagnano alla compromissione nei grandi delitti dell'umanità?
   Queste ed altre domande accompagnano la lettura del volume, firmato da Furio Colombo, Athos De Luca e Vittorio Pavoncello sul «Paradosso del Giorno della memoria», che presenteremo a Torino martedì 9 dicembre, alle ore 18, nella cornice del Circolo dei lettori, in via Bogino 9. Il testo è senz'altro già noto ad una parte dei lettori di questa newsletter. Ancor meglio conosciuti sono i quesiti che al tema di fondo si legano. Non si tratta di esprimersi in un plebiscito, a favore o contro, di quella che è diventata una fondamentale ricorrenza nel calendario civile repubblicano, bensì di cercare di capire come la memoria, ma anche aspetti significativi della storia europea, abbiano conosciuto in questi ultimi due decenni un percorso di riconoscimento istituzionale e, soprattutto, cosa da ciò sia derivato.
   Più in generale, dopo un buon numero di esperienze al riguardo, perlopiù in ambito educativo, è possibile formulare alcune valutazioni di merito. Cercheremo quindi di farlo consapevoli dei diversi angoli prospettici che si accompagnano allo sforzo di giudizio. Se esiste un paradosso nel giorno della memoria, è non meno vero che la memoria è essa stessa un esercizio paradossale. Poiché usa il passato per parlare "del", come "al", presente. In una società, quella in cui viviamo, nella quale molto, se non tutto, pare invece bruciarsi sul piano dell'immediatezza, dell'istantaneità, di un presente senza vera profondità prospettica. Non rivolto a ciò che è stato ma neanche indirizzato verso quello che potrà essere. Ed allora, parlare del "paradosso del giorno della memoria" implica anche lo sforzarsi di capire quale sia il senso del tempo che stiamo vivendo, l'insoddisfazione che a volte ci accompagna, le apprensioni - non importa quale veste assumano di volta in volta - che sono parte costitutiva di quella strana cosa che chiamiamo «identità». Poiché se la ricorrenza si rivolge prevalentemente, se non quasi esclusivamente, ai non ebrei, tuttavia chiama in causa, tra le altre cose, il modo in cui gli ebrei sono stati visti nella contemporaneità. Quindi, la considerazione, ma anche l'autoconsiderazione, nutrita riguardo al modo di essere nella società. Non teniamoci troppo larghi, ammonirebbe qualcuno, ma neanche troppo stretti, replicherebbero altri. Di paradossi andiamo parlando. Per l'appunto.

(moked, 7 dicembre 2014)


Il viaggio di Roberto Bachi verso Auschwitz

Al Teatro Alighieri di Ravenna il 7 dicembre, e repliche per le scuole.

di Simona Guandalini

Foto di classe all'elementare Mordani nel 1937. Roberto Bachi è il primo in alto a sinistra
Domenica 7 dicembre, alle ore 15.30 per una recita straordinaria fuori abbonamento, va in scena al Teatro Alighieri di Ravenna, Il viaggio di Roberto, un treno verso Auschwitz: un dramma lirico che racconta la tragica storia di un ragazzino appena quindicenne, che a Ravenna frequentò la quarta elementare per finire deportato ad Auschwizt dove morì nel 1944 insieme agli oltre quarantamila italiani ebrei vittime della Shoah.
Lo spettacolo è una nuova produzione del Teatro Alighieri, realizzata in coproduzione con il Teatro Luciano Pavarotti di Modena e la Fondazione Teatri di Piacenza; la realizzazione de Il viaggio di Roberto Per le scuole saranno allestite altre rappresentazioni il 9 e il 10 dicembre e il 19 gennaio, in prossimità del giorno della memoria.
   Roberto Bachi nacque a Torino nel 1929, e si trasferì adolescente, con la famiglia a Ravenna, per motivi lavorativi legati al padre, il generale Alberto Bachi. Il bambino frequentò la Scuola Mordani per il solo quarto anno delle elementari, nel 1937-'38. L'estate del '38 il padre fu costretto a dimettersi dall'esercito per via dell'entrata in vigore delle leggi razziali; nel vano tentativo di mettersi in salvo, la famiglia di Roberto si trasferì prima a Parma poi a Torrechiara. Il 16 ottobre 1943 Roberto e il padre, in quanto ebrei, furono reclusi al carcere San Vittore di Milano, dove vi rimasero per due mesi, trascorsi fra stenti e torture. Il 6 dicembre dello stesso anno partì dal binario 21 della stazione di Milano un treno per il lager di Auschwitz: Roberto e Alberto Bachi furono caricati come bestie sul vagone merci, il figlio separato dal padre, in viaggio verso la loro ultima meta. Da allora la vita di Roberto cadde nel silenzio, nessuno seppe più nulla fino al termine della guerra, quando la madre Ines, dopo varie e incessanti ricerche, venne a conoscenza della crudele sorte toccata al figlio: marchiato col numero di matricola 167973, Roberto Bachi morì l'anno successivo la deportazione, probabilmente di tubercolosi.
 
I tre vecchi compagni di Roberto Bachi: (da sinistra) Danilo Naglia, Silvano Rosetti, Sergio Squarzina
   L'intera vicenda di Roberto venne ricostruita nel 2002, a partire da una lettera custodita per tanti anni all'interno di una scatola di latta: un foglio protocollo con dolci e amichevoli parole, scritte in un accurato corsivo da Roberto per Silvano Rosetti, uno dei suoi amici delle elementari che in quel mentre era ricoverato in ospedale. È bastato un semplice foglio riemerso dal passato, per riportare alla memoria di Silvano il ricordo dello scomparso compagno di classe. Pezzo per pezzo la vita di Roberto ha preso forma grazie a un'accurata ricostruzione, supervisionata in primis dal compianto Giorgio Gaudenzi, l'allora direttore della Scuola Mordani, assieme alla collaborazione di tre ex compagni di classe di Roberto: Danilo Naglia, Sergio Squarzina e per l'appunto Silvano Rosetti. La vicenda, in seguito, è diventata anche oggetto di studio e ricerca per molte scuole ravennati. E oggi si è trasformata in un'azione scenica e musicale, commissionata a Guido Barbieri, il curatore del libretto, e al compositore Paolo Marzocchi, per la regia di Alessio Pizzech.
«Il viaggio di Roberto è un'opera, da intendersi nel senso tradizionale del termine come insieme delle multiformi espressioni del teatro musicale contemporaneo - sottolinea Paolo Marzocchi - e precisamente un "melologo", genere in cui manca il canto, ma la parola detta si lega alla musica in un dialogo costante e strettissimo». Tra i personaggi della storia, proprio al protagonista Roberto Bachi manca la parola: il suo interprete rimarrà in scena in veste di mimo, circondato da un silenzio colmo di infinite parole. Intorno a lui la vicenda si dispiega su più piani narrativi e musicali: il primo è quello dei sopravvissuti, rappresentato da Ines e Vittorio, quest'ultimo personaggio immaginario, compagno dell'ultimo viaggio di Roberto; il secondo è il livello di Roberto, stipato nel vagone merci; al terzo livello si trova la visione, quella dimensione distaccata dalla realtà, al quale lo spettatore è introdotto dai suoni armonici naturali delle corde vuote degli archi, «suoni che si dispiegano sottili, come ragnatele o fili di cristallo» precisa il compositore Marzocchi.
   Il viaggio di Roberto è una vera e propria "opera della memoria", un viaggio nel doloroso ricordo collettivo della Shoah, percorso attraverso la storia di uno dei suoi tanti sventurati protagonisti. La
Da sinistra: il direttore artistico della stagione d'opera dell'Alighieri Angelo Nicastro, il compositore Paolo Marzocchi, l'autore dei testi Guido Barbieri e il regista Alessio Pizzech
complessità dell'opera è riscontrabile non solo dal punto di vista tematico, ma anche da quello sonoro: la pièce è permeata da un molteplice materiale musicale, che va dalla morte pucciana di Madame Butterfly al celebre verdiano "Va pensiero", per non dimenticare la melodia più nascosta del corale bachiano Es ist genug. Ma c'è dell'altro, a detta di Barbieri: «il pezzo musicale più importante è stato ricavato da una sequenza di sei note, ottenuta direttamente dal numero di matricola di Roberto, 167973, secondo un procedimento volto a trasformare lettere in numeri e numeri in suoni». «È sorprendente trovare in cifre così dolorose e casuali» conclude il compositore «la grazia di una melodia, che al suo interno racchiude le note iniziali del corale bachiano e dell'aria di Puccini».
   Memoria, ricordi, gesti e sguardi, in particolare quello del piccolo Roberto. «I suoi sono occhi pieni di stupore e sorpresa - puntualizza il regista Pizzech - gli occhi di colui che ha la volontà di rinnovarsi nella vita diventando un piccolo eroe, perché ha avuto il coraggio di vivere completamente e consapevolmente la propria esistenza, esattamente come dovremmo fare anche noi adulti».
Nella produzione de Il viaggio di Roberto è stata coinvolta la Scuola Mordani, con la diretta partecipazione degli alunni ed ex alunni del Coro di voci bianche "Libere Note", diretto da Elisabetta Agostini e Catia Gori; ad essi si aggiungono il Quartetto Fauves, il contrabbassista Marco Forti di Tetraktis Percussioni, il Quartetto Vocale Myricae e il sassofonista David Brutti.    Oltre alla partecipazione dei tre ex compagni di classe di Bachi, in scena si vedranno Marco Pierfederici e Giulio Gambi, alterni nel ruolo del protagonista, Franco Costantini nei panni del narratore Vittorio, e Cinzia Damassa in quelli di Ines; ai cantanti e al muto Roberto si uniranno gli attori del Piccolo Teatro Città di Ravenna.
   L'opera sarà replicata anche nei teatri di Modena e Piacenza che hanno partecipato alla produzione artistica.

(Ravenna & Dintorni, 7 dicembre 2014)


Svolte e traumi per gli ebrei

Il saggio di Marina Caffiero studia con precisione la vicenda storica degli ebrei italiani in epoca moderna. Tra ghetti, tradimenti e assimilazioni.

di Sergio Luzzatto

 
Piano di tavolo di fattura italiana, XVIII secolo/inizio XIX, The Jewish Museum, New Iork
In quasi tutti i dipartimenti di storia delle maggiori università americane vengono proposti uno o più insegnamenti di Jewish History», cioè di «Storia ebraica». Ai quali si aggiungono gli insegnamenti di «American History», «French History», «Chinese History», eccetera. Il che non corrisponde affatto a qualcosa di analogo, nella misura in cui questi ultimi si riferiscono per definizione a uno spazio geografico, mentre quelli di «Jewish History- richiamano un popolo, o un'etnia, o un'identità. Anche nelle università israeliane, gli insegnamenti di «Storia ebraica» - e non di «Storia di Israele»: il che sarebbe ben diverso - vengono normalmente distinti da quelli di storia dell'America o dell'Europa, dell'Africa o dell'Asia.
   Ma esiste una storia ebraica? E ha senso definirla in quanto tale, allo stesso modo in cui negli Stati Uniti, o in generale nell'ambiente accademico anglosassone, si definisce e si insegna una «Islamic History»? Ancora: perché, nell'accademia americana o britannica, una «Christian History» viene insegnata quasi soltanto presso le scuole superiori di teologia? Anglosassoni a parte, quanti fra noi, nell'Occidente più o meno laico, si sentirebbero adeguatamente rappresentati da una didattica universitaria che distinguesse preventivamente l'insegnamento della «Storia cristiana» da quello di tutte le altre? E quale studioso assennato pretenderebbe oggi di ricostruire la storia della Palestina moderna distinguendo in questa la «storia ebraica» dalla «storia islamica»?
   L'attualità - una tragica attualità - si incarica fin troppo di dimostrarlo: a chi guardi senza paraocchi alla vicenda della città di Gerusalemme o dei territori della Cisgiordania, riesce del tutto evidente come le due storie, l'ebraica e la musulmana (oltreché una terza, la storia cristiana in Palestina), partecipino di una stessa storia. Così per il XXI secolo, e così per i secoli precedenti. Si tratti del Medioevo o dell'età moderna, dell'Otto o del Novecento, più che la «storia ebraica», ha senso studiare la storia degli ebrei (esattamente come, più che la «storia islamica», ha senso studiare la storia dei musulmani, e più che la «storia cristiana», la storia dei cristiani).
   Storia degli ebrei, quindi. Non nella loro separatezza, ma nella loro interazione con gli uomini e le donne di altre fedi religiose - o di nessuna fede - che abbiano vissuto in un medesimo spaziotempo, che abbiano insistito su uno stesso territorio in uno stesso periodo storico. Per esempio, Storia degli ebrei nell'Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione: secondo il titolo che Marina Caffiero ha pensato bene di dare al suo ultimo libro, appena uscito da Carocci. Appunto per sottolineare il carattere falsificante di una «storia ebraica» che postuli la separatezza tra le comunità israelitiche degli antichi Stati italiani e il contesto cristiano maggioritario: «La storia degli ebrei e dei cristiani è una storia di scambi e intrecci istituzionali, sociali e culturali, impossibili da separare, in cui le minoranze non costituiscono delle isole».
   Nella ricostruzione di Caffiero, la vicenda storica degli ebrei nell'Italia moderna comprese tre fasi. La prima e la seconda furono inaugurate da un «trauma»; la terza da una «svolta» benefica, ma a suo modo dolorosa. Il primo trauma intervenne tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, quando alla cacciata degli ebrei autoctoni dalla Sicilia e dall'intero Mezzogiorno - italico riflesso della Riconquista spagnola - si accompagnò l'arrivo, nel Centro- Nord, di massicci contingenti di ebrei originari proprio della Spagna e soprattutto del Portogallo. Il secondo trauma intervenne nel Seicento, quando, tenendo dietro all'esempio fornito dai papi della Controriforma, le classi dirigenti di tutti gli antichi Stati costrinsero gli ebrei d'Italia entro i confini dei ghetti. La svolta benefica ma dolorosa intervenne dal tardo Settecento al primo Ottocento, quando le riforme illuministiche, giacobine e napoleoniche di schiusero agli ebrei la strada dell'emancipazione, ma a rischio concreto di un'assimilazione, di una perdita dell'identità.
   Gli ebrei spagnoli e portoghesi che raggiunsero l'Italia centro-settentrionale all'inizio del Cinquecento erano i cosiddetti marrani. In teoria, ebrei convertiti (più o meno forzosamente) alla religione cristiana. In pratica, ebrei rimasti fedeli (più o meno nascostamente) alla religione degli avi. Falsi cristiani dunque. E in quanto tali oggetto di diffidenza diffusa, quando non - come nella Ancona pontificia del 1556, in un terribile auto da fé - di aperta persecuzione. Vittime, i marrani? Certo. Ma non soltanto vittime. A scoprire, attraverso il racconto di Caffiero, le ingegnose maniere in cui i sefarditi di origine lusitana stesero le loro reti amicali, commerciali, matrimoniali da un angolo all'altro dell'Europa cinquecentesca, da Anversa a Genova e da Livorno a Ferrara verso l'Impero ottomano e addirittura verso le Indie, si tocca con mano come la storia degli ebrei in età moderna sia irriducibile (fortunatamente!) al paradigma "vittimario" con cui è stata il più delle volte declinata.
   Nella loro identità plurima, i marrani portoghesi erano figure destabilizzanti. Erano invise ai cristiani, ma riuscivano sgradite anche a non pochi ebrei di origine italiana, che faticavano a riconoscere in loro il profilo chiaro e distinto del correligionario ortodosso. Secondo i termini di una denuncia raccolta dall'Inquisizione veneziana nel 1580: «Questi portoghesi de questa sorte non sono né christiani né hebrei né turchi né mori, ma vivono al modo loro. Et quando vanno in sinagoga, portano un officiolo alla cristiana in lingua portoghese et sono odiati da li altri hebrei, che non portano altro che 'l turpante da hebrei». Nelle parole di un altro veneziano del Cinquecento, il marrano era «un traditor et l'homo non se ne pole fidar et io non l'ho né per cristiano né per hebreo, ma per homo senza religione».
   Così, come per altre figure dell'ebraismo moderno e contemporaneo, era la loro identità cosmopolitica di confine, che esponeva i marrani - entro il campo stesso dell'ebraismo - alla facile accusa di «tradimento» (proprio quella, sia detto per inciso, che Amos Oz ha scelto di porre al centro del suo ultimo romanzo, Giuda). Mentre era la loro formidabile intraprendenza culturale e mercantile, variamente dispiegata fra i torchi di una Venezia capitale europea dell'editoria, o nelle nebbie della Ferrara estense, o lungo i moli della Livorno medicea, che esponeva i marrani al desiderio di rivalsa dei cristiani.
   Il ghetto rappresentò la soluzione prettamente italiana - controriformistica e papalina - al problema politico, religioso ed economico della "diversità" ebraica. E se il «secolo dei ghetti», come Marina Caffiero lo qualifica, fu il Seicento, fu nel corso del Settecento che i ghetti salirono da 29 a 41, raccogliendo oltre il 75% degli ebrei d'Italia. Ma perfino il mondo dei ghetti, quale emerge da questo libro, non era un mondo di separatezza. Luogo di segregazione' il ghetto restava pur sempre un luogo di inclusione, nella misura in cui faceva parte integrante del tessuto urbano (e del vissuto quotidiano) dell'una o dell'altra città italiana, Torino o Mantova, Modena o Firenze, Pesaro o Roma. In fondo, la soluzione del ghetto risparmiò agli ebrei della Penisola il destino storico dell'espulsione, o comunque dell'esclusione. E garantì loro, paradossalmente, una coesione identitaria che sarebbe divenuta difficile dopo la sospirata revoca delle «interdizioni israelitiche».


Marina Caffiero, Storia degli ebrei nell'ltalia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione, Carocci, Roma, pagg. 254. € 19,00

(Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2014)


A Gaza l'ombra sinistra dell'Isis

Ad alimentare le tensioni nella regione due volantini da una sezione locale dello Stato islamico.

TEL AVIV - L'ombra dello Stato islamico si allunga adesso anche sulla Striscia di Gaza, anche se le autorità di Hamas affermano che non c'è alcun motivo concreto di allarme e che la situazione è sotto controllo. Ad alimentare comunque le tensioni sono giunti questa settimana due volantini, firmati da una auto-proclamata sezione locale dell'Isis, concepiti per intimidire le donne e gli intellettuali.
   Alle prime viene intimato di non azzardarsi più a comparire in pubblico con il volto scoperto. Dovranno coprirsi col velo islamico (hijab) e anch'esso dovrà essere modesto: ossia senza colori sgargianti e non profumato. Agli intellettuali (scrittori, poeti, giornalisti) viene intimato di non esprimersi sull'Islam se non in tono deferente. A diciotto di loro (menzionati per nome e cognome, tutti accompagnati da termini spregiativi come 'apostata, ubriacone, folle, prostituta') vengono dati pochi giorni per redimersi. Altrimenti ne andrà della loro incolumità. Quest'ultimo volantino - distribuito su internet - ha indignato in modo particolare le autorità di Ramallah. Il premier Rami Hamdallah ha condannato quanti vorrebbero attentare alla libertà di espressione degli intellettuali palestinesi. Ma a Gaza l'Anp di Abu Mazen non ha per il momento modo di intervenire.
Hamas, da parte sua, assicura che quei volantini sono il frutto di "ragazzate", di persone senza seguito che vorrebbero emulare in qualche modo i miliziani del Califfato. Anche due esponenti della corrente radicale salafita a Gaza, intervistati dal quotidiano al-Quds, hanno escluso che nella Striscia ci sia alcun gruppo legato all'Isis. I volantini, a loro parere, sembrano fasulli, anche perché usano una terminologia ormai superata. Eppure, affermano fonti locali, il malessere a Gaza non si è dissipato. Anzi si rafforza per la diffusione di voci allarmanti. Ad esempio, due giorni fa, quelle relative alla morte di un ex maggiore della sicurezza preventiva di Abu Mazen, ucciso di fronte alla porta della propria abitazione nel nord della Striscia. Secondo la polizia, è stato colpito alla testa e al collo con un grande sasso dai ladri della sua automobile, una Skoda. Ma la voce popolare dice invece che è stato sgozzato: nello stile caratteristico dello Stato Islamico.
   Ad accrescere il turbamento vi è stata anche, il mese scorso, una catena di esplosioni nei pressi delle abitazioni di una quindicina di esponenti di al-Fatah. I responsabili non sono stati rintracciati. A ciò si aggiungono i rinnovati contrasti politici fra al-Fatah e Hamas, secondo cui l'accordo per il governo di riconciliazione inter-palestinese è scaduto e deve essere ridiscusso; ed il diffuso senso di pessimismo per la chiusura ad oltranza, ordinata dall'Egitto, del valico di Rafah, unico punto di collegamento fra Gaza e il mondo esterno. La popolazione di Gaza si trova dunque in uno stato di incertezza endemica: sia per il vuoto di potere politico; sia per le inquietanti minacce sul web; che per gli episodi di violenza rimasti impuniti e per gli echi di addestramenti militari notturni da parte di gruppi avvolti nel mistero. La situazione, garantisce il ministero dell'Interno della Striscia, è sotto controllo. Ma queste parole sembrano non bastare a dissipare un diffuso senso di malessere.
   
(Corriere del Ticino, 6 dicembre 2014)


Perché uno stato palestinese diventerà fonte di instabilità in Medio Oriente

I palestinesi sanno bene che se e quando avranno un loro stato, non potranno più contare sui loro fratelli arabi. Gli stati arabi hanno la fama di aver sempre voltato le spalle ai palestinesi: non solo dal punto di vista finanziario, ma anche per bisogni basilari come i trattamenti sanitari.
Che cosa succederà dopo la creazione di uno stato palestinese? i palestinesi sanno da ora che non potranno contare sulle nazioni arabe per costruire il loro stato. Oggi è molto più facile per un palestinese ottenere assistenza sanitaria in Israele, o in Turchia o in Germania, che in qualunque stato arabo. La tragica vicenda di Razan al-Halkawi, la ragazzina di 11 anni proveniente dalla Striscia di Gaza, è uno dei tanti pro-memoria del disinteresse degli arabi verso i palestinesi....

(Il Borghesino, 6 dicembre 2014)


Israele, sogno e bisogno. Boom di ebrei italiani emigrati in Terra Santa

di Fiamma Nirenstein.

 
E' una pulsione, una necessità, scavalca ogni stereotipo italiano, la mamma, il cibo e il campanile che ci piacciono tanto: i giovani ebrei della comunità italiana più che mai nel passato, prendono un volo ELAL perTelAviv, salgono al primo piano dell'aeroporto, ufficio accoglienza, con le carte che provano la loro origine di provenienza e fanno l'aliah. Richiedono cioè sul posto la cittadinanza israeliana che secondo la legge del ritorno per cui ogni ebreo deve avere ormai una patria sicura, hanno diritto a ricevere.
Il 2014 registrerà il numero più alto di ebrei immigrati in Israele dall'Italia negli ultimi 40 anni: fino allo scorso ottobre si sono avuti 300 nuovi immigrati, un numero notevole se si pensa che rappresenta circa l'uno per cento della minuscola comunità che vive in Italia.
   E' la comunità più antica del mondo dopo quella di Israele, ha abitato le rive del Tevere da prima ancora di quel 70 dC quando, per somma disgrazia, i romani distrussero il grande Tempio situato dove oggi sorgono le Moschee a Gerusalemme. L'arco di Tito a Roma fotografa nel marmo gli schiavi deportati con la menorah, il candeliere ebraico, sulle spalle mentre sfilano in onore dell'imperatore. Nei millenni gli ebrei sono rimasti orgogliosi e romani, anche se poi furono rinchiusi nel ghetto fino al 1860 e il Papa una volta l'anno ne faceva rotolare qualcuno nella pece e le piume, e lo prendeva ritualmente a calci. C'è chi dice che siano gli unici veri antichi romani rimasti. Ed ecco che se ne vanno, soprattutto dalla capitale.
   Un' altra ondata migratoria, dice il famoso demografo professor Sergio della Pergola, dopo quella degli anni immediatamente successivi alla Guerra dei Sei Giorni, quando l'entusiasmo per la vittoria e il rinnovato spirito pionieristico spinsero il sionismo alle stelle: così nel 1970 si ebbero 339 immigrati e 309 nel '71. Della Pergola cita anche un altro dato significativo: l'80 per cento dei giovani ebrei italiani ha compilato il test di ammissione (che esiste anche in italiano) per le università israeliane. L'attuale tasso di natalità degli ebrei italiani produce circa 200 diciottenni l'anno, e quest'anno sono stati circa 180 quelli che hanno riempito i formulari. Un' intera generazione. Micol Campagnano, 26 anni, è un esempio molto completo delle ragioni per cui un ragazzo lascia l'Italia e viene a stare in Israele. Lo sfondo della crisi economica è sempre presente: «L'Italia ha un sapore stantio, chiuso, è un Paese privo di prospettiva e quindi anche di emozione e di slancio» ma soprattutto Israele accende l'emozione che è in ogni giovane, la speranza di dare un senso compiuto alla propria vita e così è per Micol: «Da anni volevo tornare a casa».
   Israele viene percepita da molti ebrei della diaspora come la frontiera da proteggere, la casa della tradizione ebraica in cui risorge il proprio popolo. Micol come anche Federica Manasse di 23 anni o Daniel, 26 anni, denunciano con grande dispiacere e fastidio il fatto che in Italia si respira un'aria pesantemente critica nei confronti di Israele, che i gruppi filopalestinesi riempiono le università di menzogne e di accuse.
Federica ha sofferto molto, specie sullo sfondo di un inaspettato, persino sanguinoso antisemitismo europeo, le accuse spesso feroci e insensate (paese di apartheid, israeliani come nazisti...) le manifestazioni di odio durante l'operazione Piombo Fuso a Gaza. Micol all'Università della Sapienza ha fatto ingegneria ambientale, ora è al Technion per un master, poi si vedrà. Tutti i ragazzi in Israele si procurano lavori avventizi, fanno il cameriere, rispondono in italiano nei call center come Tharyn Sermoneta, di 22 anni, sempre di Roma, che è venuta in Israele col suo ragazzo. Alcuni molto audaci e idealisti vengono da soli, come Leonardo Asseni, e si arruolano nell'esercito: Leonardo che è un radioso idealista ha fatto tutta l'ultima campagna a Gaza nella più famosa e difficile delle compagnie, quella dei Golani.
   Le ragioni sono variegate, ma in tutte si scorge uno sfondo libertario avventuroso. David di Tivoli intervistato da Ha'aretz ama la libertà del comportamento dell'abbigliamento del tutto informale. Lui come tanti altri, si è ritrovato sulla cresta di un'ondata familiare, cugini e parenti che precedono o seguono.
I più giovani sperano che i genitori li seguano, Federica Manasse pensa che prima o poi i suoi prenderanno la grande decisione. E' fortunata perché già lavora nel suo campo con lo stilista Yaniv Perry.
Daniel, che di mestiere si occupa di comunicazione certamente ha qualche problema in più, deve trovare la via di comunicare in una lingua diversa dalla sua. Ma ha compiuto questa scelta come guidato da un istinto di vitalità, anche perché il continuo abbandono da parte degli amici, le loro partenze, gli davano l'immagine di una comunità impoverita, senza prospettiva. Qui i ragazzi che arrivano si ritrovano spesso a vivere insieme, all'università o in organizzazioni che aiutano i nuovi immigrati, oppure affittano un appartamento insieme. Per un giovane, che cosa può esserci di meglio di un'uscita dal nido in compagnia di chi condivide i tuoi problemi e i tuoi ideali? Israele attrae per la grande apertura internazionale, per l'affascinante mescolanza di lingue, razze culture. A volte, si affaccia paura, dice Micol: le guerre, gli attentati si impossessano dell'esperienza quotidiana. «Ma tutto è ben diverso rispetto alla fantasia che un italiano può coltivare di Israele. Ogni giorno è una conquista, è troppo vitale e movimentato per soffermarsi sulla paura, sulla cautela. Spesso, anzi, la presenza continua del problema della guerra spinge i giovani a cercare insieme quanta più normalità, musica, compagnia».
   Non è facile, dicono gli immigrati, integrarsi, anche se se il sistema ti aiuta con gli ulpan, le scuole di ebraico molto intensivo, e l'entusiasmo della gente. Sono ruvidi spesso gli israeliani, ma hanno anche un senso inusitato della comunità, che ti abbraccia come non accade in Italia: «Ah, hai fatto l'aliah, bravo! Molto bravo! Grazie!». E in Italia, quando capita mai che qualcuno ti dica grazie e bravo per una scelta di vita?

(il Giornale, 6 dicembre 2014)



Mauro dell'Ambrogio in missione scientifica in Israele e nei Territori palestinesi

BERNA - Mauro Dell'Ambrogio, segretario di Stato per la formazione, la ricerca e l'innovazione, è da oggi e fino a mercoledì in Israele e nei Territori palestinesi per una missione economica e scientifica. È accompagnato da una delegazione di cui fa parte tra l'altro l'ambasciatrice della Segreteria di Stato dell'economia (SECO) Livia Leu.
La Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l'innovazione (SEFRI) intende occuparsi in particolar modo delle strategie e modalità di finanziamento delle cosiddette start-up, ossia l'avvio di nuove attività imprenditoriali, indica una nota odierna della stessa SEFRI.
Durante il viaggio nei Territori sono in programma colloqui con i responsabili del governo locale per discutere eventuali collaborazioni a livello di ricerca, università e partner privati.
In Israele verranno approfondite le relazioni economiche e scientifiche bilaterali. Sono previsti colloqui con i rappresentanti del Ministero della scienza, della tecnologia e degli affari spaziali e del Ministero dell'economia e del commercio.

(tio.ch, 6 dicembre 2014)


Palestinesi ricoperti d'oro, iracheni e siriani abbandonati a se stessi

Mentre per l'ennesima volta il cosiddetto "mondo civile" ricopre d'oro le organizzazioni terroristiche palestinesi, milioni di rifugiati iracheni e siriani sono letteralmente abbandonati a se stessi.
Medici Senza Frontiere denuncia che oltre 50.000 famiglie irachene nella zona di Kirkuk non sono minimamente assistite dalle organizzazioni umanitarie anche se la zona non è a rischio per gli operatori umanitari. Sono semplicemente dimenticati, abbandonati a se stessi e possono far conto solo sull'aiuto fornito loro dal Governo autonomo del Kurdistan. Pochi giorni fa un rapporto delle Nazioni Unite evidenziava come su tre milioni di rifugiati del conflitto in Siria, nemmeno uno sia assistito dai ricchissimi Paesi del Golfo mentre anche l'Unione Europea invia aiuti con il contagocce....

(Right Reporters, 6 dicembre 2014)


Il saluto di Riccardo Pacifici al 13o Raduno Nazionale di EDIPI

Roma, 6 Dicembre 2014

Caro Presidente,
 
Riccardo Pacifici
Non essere presente con voi nel tredicesimo raduno nazionale degli Evangelici d'Italia per Israele è per me un grande dispiacere. Sappiate però che nonostante all'apertura dei lavori sarò in viaggio verso l'America con il cuore sono in mezzo a voi.
Con gli Evangelici per Israele c'è da sempre una straordinaria condivisione di percorsi che durante l'anno, ogni anno, si materializza attraverso incontri e iniziative comuni. Se il dialogo, la conoscenza delle culture, il rispetto nei confronti del prossimo, possono rendere il nostro mondo un posto migliore dove poter vivere, allora posso essere orgoglioso del rapporto tra la Comunità Ebraica di Roma e tutti voi.
Ho letto con interesse il programma che inizierete a svolgere in queste ore. Un affettuoso saluto va al pastore Avi Mitzrachi che nella storia che racconterà mi riporta alla mente le tante storie di salvataggi durante la Seconda Guerra Mondiale. Come potremo sentire dalle sue parole, ebrei e cristiani, uniti dalla passione per i valori del popolo d'Israele, si salvano scambiandosi a volte i ruoli di salvatori e salvati.
Oggi viviamo un'epoca in cui le Comunità Ebraiche in Europa corrono nuovi pericoli. Il fanatismo di un tempo risorge in Stati come l'Ungheria, l'Ucraina, in alcuni dei Paesi Scandinavi, ma anche la vicina Francia monta nei suoi angoli più bui sentimenti razzisti che devono preoccuparci come, seppur in forma più lieve rispetto ad altri Paesi, anche la stessa Italia cova un estremismo che ci inquieta. Il grande lavoro di dialogo e unione tra le nostre forze deve spingerci alla cooperazione, come nel caso nel nostro Avi. Per questo vi auguro i migliori auguri per il Raduno Nazionale.
Un caro Shalom,
Riccardo Pacifici
Presidente
Comunità Ebraica di Roma
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(EDIPI, 6 dicembre 2014)


Con il mitra e il Talmud per non morire sulle strade d'Israele

Fra gli ebrei più odiati del mondo. Viaggio con i coloni a Hebron e Nablus, dove sbagliare una via può costarti la vita. Pionieri incompresi che reggono la sicurezza del paese. A guardia di colline dove le notti sono più lunghe, oscure e feroci. Hanno un messaggio per Obama: ''Israele non farà come la Cecoslovacchia, che per sottostare a Chamberlain alla fine venne divorata da Hitler".

di Giulio Meotti

La "trampeada", nel Gush Etzion, è piena anche di notte di ragazzi israeliani che fanno l'autostop. Come se non fosse mai successo niente. Come se alle 22.30 del 12 giugno scorso, i loro amici Eyal, Naftali e Gilad non fossero mai saliti a bordo dell'auto-trappola di Hamas e non fossero mai stati uccisi dopo il sequestro e gettati in un campo, come cani. La prima cosa che ti colpisce, entrando nelle colonie israeliane di notte, è il livello di oscurità. Sale vertiginosamente a mano a mano che ti allontani da Gerusalemme. E' bene non bucare né scendere sotto una certa velocità.
   Per capire la "terra incognita" di Israele, gli insediamenti e i suoi abitanti, li abbiamo visitati non come giornalisti, ma come civili israeliani. Con i coloni che ci vivono. Tutto il mondo parla di loro. E da Obama all'Onu, tutti vogliono cacciarli dalle loro case.
   Senza il Gush Etzion, su Gerusalemme gli attentati si moltiplicherebbero e i missili pioverebbero come da Gaza su Sderot. "Se esiste una Gerusalemme ebraica, lo dobbiamo ai difensori di Gush Etzion", diceva il fondatore dello stato David BenGurion. Furono gli abitanti del Gush a fermare l'avanzata della Legione Araba su Gerusalemme nel maggio del 1948. Furono tutti giustiziati dagli arabi dopo essersi arresi.
   Visitiamo Carmei Tzur, l'ultimo avamposto del Gush, un insediamento dal paesaggio pastorale, brullo, premoderno, su una collina di pietre e sterpi in mezzo al deserto della Giudea. Ci vive gente colta e religiosa dagli abiti colorati, stile hippie, e amano la terra, i tramonti, i pascoli. L'insediamento nacque in una notte del 1985. Duecento israeliani arrivarono con gli scialli di preghiera, il generatore per la luce elettrica, i mattoni per costruire gli scalini che salgono sulle case mobili, messe ad angolo retto. Chiamarono la comunità col nome della famiglia Tzur, madre e figlio uccisi in un agguato.
   Puntiamo su Hebron, la città dove gli ebrei sono tornati a vivere e a morire dopo la guerra dei Sei giorni, l'unica città araba con una presenza ebraica, dove c'è l'unica moschea al mondo in cui pregano gli ebrei. "Prima di andarci lasciami i soldi, perché non torni indietro", mi aveva detto scherzando, ma non troppo, un'amica israeliana. Nessun abitante della costa va a Hebron. In pochi se la ricordano, per averci fatto il servizio militare. Sotto la grotta di Macpela a Hebron, dov'è seppellito "Nostro Padre Abramo", giace un segreto della psiche umana e della storia ebraica. Qualcosa che riguarda la struttura stessa dell'amore e dell'odio. Secondo la tradizione, Abramo avrebbe acquistato dall'ittita Efron la grotta perché servisse da sepoltura a sé e ai suoi discendenti; lì furono sepolti, dopo lui e Sara, Isacco, Giacobbe e le loro mogli Rebecca e Lea.
   Per arrivarci si attraversa l'insediamento di Kiryat Arba, con le sue case di mattoni bianchi, una fortezza ebraica assediata dall'odio che le cresce attorno. Cancelli presidiati, ingressi inaccessibili. Qui gli ebrei non parlano volentieri con i giornalisti. In effetti i giornalisti qui non mettono proprio piede, e se lo fanno è con pulmini dai vetri antiproiettili. Grandi isolati di pietra a quattro e cinque piani, con qualche fascia arancione fra un piano e l'altro, in mezzo ad aiuole e giardinetti curati con buona volontà. E' come un ghetto europeo di lusso, isolato dalla circostante popolazione araba, e la sensazione è accresciuta dalla rete metallica che cinge l'insediamento e dal grande cancello di ferro che dà accesso al villaggio, cancello che si chiude la sera e accanto al quale vigila, in una grande garitta, un corpo di guardia composto da soldati e coloni in armi. Il rabbino capo, Dov Lior, non è in città. Alla tenera età di ottant'anni, si sta trasferendo a Gerusalemme est, in mezzo agli arabi, perché è lì che può ispirare altri insediamenti. Andrà a vivere a Beit Orot, una comunità ebraica sul Monte degli Ulivi, dove vive anche il dirigente palestinese Faisal Husseini. Beit Orot in ebraico significa "Casa delle luci".
   A Kiryat Arba troviamo invece il vecchio e coltissimo Elyakim Haetzni, editorialista di Yedioth Ahronoth, intellettuale, deputato, avvocato, venuto al mondo con il cognome di Bombach a Kiel, in Germania, ma di
"Israele rischia di essere la Cecoslovacchia nel 1938", spiega Haetzni al Foglio. "Ma non penso che faremo la fine dei Sudeti con Hitler. Come il primo ministro cecoslovacco Edvard Benes che, per sottostare alle pressioni di Chamberlain, fu divorato da Hitler".
casa a Hebron dal 1968. Ha orecchi a sventola e grandi occhiali con la montatura in acciaio. Parla un inglese dallo spiccato accento tedesco, memore della sua fuga dalla Germania dopo la Notte dei Cristalli. "Israele rischia di essere la Cecoslovacchia nel 1938", spiega Haetzni al Foglio. "Ma non penso che faremo la fine dei Sudeti con Hitler. Come il primo ministro cecoslovacco Edvard Benes che, per sottostare alle pressioni di Chamberlain, fu divorato da Hitler". Alto e dinoccolato, Haetzni si rifà sempre al passato per spiegare cosa ha spinto un ragazzino nato e cresciuto in Germania a vivere in mezzo agli arabi. "E' stata l'ombra del pogrom del 1929 che pesa su tutta Hebron", ci racconta. "Fu un pogrom tipicamente europeo. C'è una poesia di Bialik sul pogrom di Kishinev. A Hebron avvenne come durante l'Olocausto, con gli ebrei senza difesa macellati" .
   Il 23 agosto 1929 il massacro a Hebron cominciò con due talmudisti sgozzati. Non erano sionisti, erano soltanto in cerca di Dio. Il giorno dopo fu la volta di una cinquantina di ebrei rifugiatisi nella banca anglo-palestinese. Erano tutti in una stanza. Gli arabi non ci misero molto a scovarli. Tagliarono piedi, tagliarono dita e teste, bruciarono teste sopra un fornello e strapparono occhi. Un rabbino raccomandava i suoi ebrei a Dio e venne scannato. Sei studenti furono fatti sedere a turno sulle ginocchia della signora Sokolov e, lei viva, furono sgozzati. I capi arabi giustificarono così il pogrom: "Non si ammazza chi si vuole ma chi si trova. Passeranno tutti a fil di spada, giovani e vecchi".
   Gli ebrei di Hebron mi mostrano una lista con i nomi delle famiglie che parteciparono al massacro, e quelle che si rifiutarono. Gli eredi vivono ancora lì. A Hebron non si dimentica niente. "Il trauma di quell'eccidio fu così grande che il nome di Hebron ha terrorizzato la popolazione israeliana per decenni", ci spiega Haetzni. "Conosco soldati che per andare al sud a Beersheba evitano Kiryat Arba, perché hanno paura. Hanno subìto il lavaggio del cervello, tutti i media israeliani sono nelle mani della sinistra che li incita contro di noi. Nella mia opinione lo stato ebraico invece è questo: cacciare la paura, distruggere il timore negli ebrei. Per questo venni a vivere qua. Anche per vincere la sindrome della 'galut', la sindrome della Diaspora. Quando l'esercito israeliano liberò la città, mi dissi: 'Se non torniamo a Hebron, sarà una sconfitta per tutto Israele'. Non ci sarebbe stato il nuovo ebreo che difende se stesso. Inoltre, conoscevo la storia. C'è stata una comunità ebraica a Hebron per millenni. Fino a quando nel 1929 gli inglesi ci portarono via per proteggercì. Hebron è la capitale della Giudea, prima di Gerusalemme. E la Giudea fu obliterata dall'imperatore romano Adriano. Voleva porre fine alla Giudea, il nome stesso lo faceva infuriare. Così inventarono il nome 'Palestina'. In altre parole, tornando a vivere qui ridiamo vita alla Giudea ebraica. La mia generazione doveva chiudere il cerchio, sanare questa rottura storica, e se non fa questo lo stato di Israele, cos'altro è? Davide era il re della Giudea, non di Tel Aviv".
   Un giorno i soldati israeliani verranno a prenderla per portarla via, signor Haetzni? "Non credo. Il tasso demografico ebraico nei Territori è altissimo. Facciamo più figli degli arabi. Oggi gli ebrei sono un terzo della popolazione nella West Bank, è impossibile evacuare 600 mila persone. Siamo qui per sempre. E poi in ogni caso sarebbe la guerra civile. E la fine dello stato ebraico".
   E' spettrale la strada che di notte porta nella zona ebraica di Hebron. Si attraversa il "sentiero dei fedeli", dove nel 2002 i cecchini palestinesi fecero fuori, in un tiro al piccione, dodici pellegrini ebrei e ufficiali dell'esercito. Incontriamo Moshe e Tehila. Vivono con i loro nove figli a Tel Rumeida, la collina più alta di Hebron, affacciata su due quartieri palestinesi, Abu Sneineh e Hart al Sheikh, che dominano la città e da cui spesso si spara. Di fronte alla casa di Tehila, al fianco di un parco archeologico finanziato dal governo, c'è una famiglia di arabi. Ci sono spesso scontri. Chiediamo loro se non hanno paura. "No, sono loro ad aver paura di noi", dice Moshe. La loro casa è un container per terremotati. Tripli letti a castello ancora da rifare, stoviglie accatastate in una cucina a dir poco spartana, un calorifero per quando nevica, una parete di libri religiosi, commentari della Torah e del Talmud. Ma dicono che non manca niente.
   Alla Cava dei Patriarchi arriviamo di notte. Da una garitta i soldati ci fermano e ci chiedono i documenti.
I fedeli maomettani ed ebrei pregano accanto ai cenotafi con i nomi dei patriarchi e cercano di sopraffarsi a vicenda con le loro voci. Santità, follia, idealismo, di questo vive Hebron.
Dentro alla moschea-sinagoga di Abramo, in un angolo, a mezzanotte, ci sono ancora studenti che discutono del Talmud. I fedeli maomettani ed ebrei pregano accanto ai cenotafi con i nomi dei patriarchi e cercano di sopraffarsi a vicenda con le loro voci. Santità, follia, idealismo, di questo vive Hebron. E' qui che nel febbraio del 1994 il dottor Baruch Goldstein, dalle cui mani erano passati tutti i morti ebrei, sparò col mitra sui musulmani in preghiera nella grotta uccidendone trenta.
   Attraversiamo il "vicolo della morte", dove sono stati uccisi decine di israeliani fra civili e militari. Donne velate, neanche un cinematografo, uomini in galabia, qualche asino, vecchi che fumano il narghilè e giocano a tric-trac. E' stato eretto un monumento agli ebrei uccisi dopo Oslo, Vi si legge: "Terra, non essere quieta, non essere silenziosa e non essere più muta. Terra, non coprire il sangue dei tuoi figli scorso come acqua sulla tua terra".
   I coloni, asserragliati nei loro quartieri, spingono, con il mitra a tracolla e la pistola alla cintura, le carrozzine dei bambini. La Hebron ebraica è un coacervo di bambini coi riccioli laterali e di donne incinte, giovani, alternative, con il fazzoletto in testa, pudiche e determinate. Nel 1997, l'allora premier israeliano Netanyahu, falco della destra, divise la città: il settore Hl, 1'80 per cento della città, passava all'Autorità palestinese; il settore H2 restava agli israeliani. Oggi gli ebrei possono vivere soltanto nel tre per cento della città.
   Ma per arrivare a quel tre per cento, con la macchina dobbiamo attraversare la zona palestinese, e si spera che non succeda niente. Guai a sbagliare strada. Qui la memoria dell'ingegnere Yahya Ayyash, il terrorista che ha ucciso cento ebrei con le bombe umane sugli autobus, è osannata. Visitiamo la casa dove viveva il rabbino Shlomo Ra'anan, nipote del primo rabbino capo d'Israele, Yitzhak Kook. Shlomo venne ucciso di sera, nel suo letto, e i rabbini promisero che un centro di studi della Torah sarebbe sorto sul luogo dell'attentato. Oggi si chiama "la luce di Shlomo". Al funerale di Ra'anan c'erano migliaia di persone, tra cui Netanyahu. Nel visitare la casa del rabbino, dove oggi i coloni ricevono anche noi, Netanyahu disse che "le pareti sono così sottili che potresti bucarle con un dito". Davanti alle case ci sono gli scavi archeologici che stanno facendo riemergere la Hebron vecchia di quattromila anni. Gli scavi furono iniziati non dai coloni, che oggi li gestiscono, ma nel 1960 da Philip Hammond di Princeton. Incontriamo la figlia del rabbino, Tzipi Schlissel. Come tutte le donne ortodosse, Tzipi non dà la mano agli uomini. Ha undici figli. Undici. "Siamo tornati a vivere qui a Tel Rumeida perché è qui che vivono da secoli gli ebrei di Hebron, non giù nel ghetto", ci spiega Tzipi. "lo non posso entrare nel quartiere arabo, mentre gli arabi possono venire qui da noi se passano un checkpoint. Ecco l'ironia dell"occupazione'. E l'esercito ha dovuto mettere un muro di cemento a protezione delle nostre case. L'esercito ci protegge, ma ci tratta come prigionieri nella nostra città. Prima degli accordi del 1997, noi ebrei potevamo andare ovunque nella città ed era molto più sicuro. Noi ebrei di Hebron vogliamo vivere in una città, non in un ghetto. Non chiediamo permessi per vivere nella nostra città. Un secolo fa, c'era la stessa percentuale di arabi ed ebrei a Hebron. Poi c'è stato un pogrom e tutti gli ebrei sono stati cacciati o uccisi. Oggi vogliamo tornare a come era un secolo fa".
   L'esercito israeliano ha "sterilizzato" una zona intera di Hebron, per consentire agli ebrei che vivono lì di non morire sotto i colpi di asce, molotov e fucilate. Ogni giorno se ne trovano ai checkpoint in città. Percorrendola di notte, a Hebron capita di vedere ragazzi israeliani che corrono nel buio per fare jogging. All'uscita da Kiryat Arba, a una fermata dell'autobus, incontriamo un gruppo di ragazzini israeliani che fanno l'autostop. Diamo un passaggio a due ragazze religiose di Kiryat Arba. Salgono in auto con naturalezza, come se non ci fosse nulla di pericoloso in quello che fanno. Non parlano. Sfogliano un libriccino di preghiere. Devono arrivare a Gerusalemme.
   Se le colonie che arrivano a Hebron sono in una conca che scende verso il deserto caldo e umido di Giudea, quelle del nord della Samaria sono alte e maestose, dominano vallate, strade, snodi strategici, freddi e piovosi. Da Tel Aviv, dirigendosi verso la Samaria, si ha subito l'impressione che quelle alture siano fondamentali per la sicurezza di Israele. Pochi chilometri dentro la Cisgiordania e già vedi tutto lo skyline della capitale economica di Israele.
   Immensa e un po' pacchiana è la casa di Moshe Zar, uno dei capostipiti delle colonie, che ha perso un occhio combattendo al fianco di Ariel Sharon. La sua villa in stile ebraico-nordafricano domina una collina sulla strada per Kedumim. Statue di leoni accolgono il visitatore. Zar non ricopre incarichi ufficiali, ma è una sorta di guru qui.
   E' a Kedumim che nacque tutto, con una roulotte appoggiata sul fianco di una collina, nel 1976. Entrando nell'insediamento, una targa ricorda "la prima casa". Da allora, l'insediamento è arrivato a
La particolarità di Kedumim è che non ha barriere antiterrorismo. "Perché siamo contrari", ci spiega Shoshana, portavoce della colonia. "Se stiamo dietro a un muro sembriamo codardi e deboli e ci attaccano".
contare quattromila abitanti. Ci accolgono a casa Meir e Shoshana Shilo, nati e cresciuti in un kibbutz sulla costa, fra i primi coloni di Samaria. La loro finestra dà su un villaggio palestinese. La particolarità di Kedumim è che non ha barriere antiterrorismo. "Perché siamo contrari", ci spiega Shoshana, portavoce della colonia. "Se stiamo dietro a un muro sembriamo codardi e deboli e ci attaccano". Chiedo loro perché l'esercito e i coloni scelsero quella collina. "E' uno snodo decisivo che collega Nablus e l'area di Tel Aviv. Da quando siamo qui, abbiamo fermato molti terroristi diretti a Netanya e Petah Tikva. Stando qui, proteggiamo Tel Aviv. Se non ci fossimo noi, ci sarebbero gli arabi. Siamo la cintura di sicurezza di Israele".
   Durante la guerra del Libano del 2006, in tanti da Haifa e dal nord trovarono riparo a Kedumim e in altre colonie, mentre nelle loro città piovevano i missili di Hezbollah. "Ogni morto, ogni guerra, ogni disastro apre gli occhi a Israele", ci dice Shoshana. "Dicemmo a Yitzhak Rabin di non dare fucili ai palestinesi, che li avrebbero usati per spararci. Dicemmo a Ariel Sharon di non portare via gli ebrei da Gaza, che Hamas avrebbe lanciato missili su Tel Aviv. I palestinesi sono pazienti, aspettano e lavorano per prendersi tutto. Noi abbiamo fretta".
   Shoshana ci mostra una fotografia che tiene in cucina. "L'ho messa qui perché i miei figli la possano sempre vedere. Si vedono i miei genitori, appena arrivati dall'Europa, mentre combattevano nel Palmach a Gaza. Ai nostri figli ricordo che senza i fucili noi ebrei siamo finiti".
   Lasciamo Kedumim alla volta di Havat Gilad. E' il più famoso degli avamposti dove vivono i "Noar-Gvaot", i giovani delle colline. Giovani uomini barbuti hanno la camicia bianca e il libro di preghiere in mano, intenti ad approntarsi un giaciglio qualunque in quelle roulotte poste su una terra contesa da oltre quarant'anni. In questi avamposti vivono molti ufficiali dell'esercito e dei servizi segreti con moglie e figli. A Havat Gilad non ci sono le villette a schiera con i tetti rossi, ma caravan da terremotati. Siamo a pochi chilometri da Nablus e ci vivono quarantatré famiglie.
   Ci accoglie in casa Itai Zar. Quarant'anni, una miriade di figli, Itai ci racconta la sua storia. Durante la Seconda Intifada, i terroristi palestinesi uccisero il fratello, Gilad, una leggenda qui perché a capo della sicurezza dei coloni. Itai fece una conferenza stampa e disse: "Non voglio morire impallinato come un capretto, voglio morire combattendo". "Questo era un posto molto insicuro prima che arrivassimo noi", ci dice Itai. "Le nostre colline sono al centro della via fra la Giordania e la costa israeliana. Da qui, vedi, scorgi le Azrieli Towers di Tel Aviv. Ogni terrorista passava di qui. Prima che arrivassimo noi, i terroristi sparavano alle auto da quella collina. Ci sono stati massacri qui sotto". Lì vicino terroristi di Hamas attaccarono con armi automatiche e bombe a mano l'autobus della linea 189 che proveniva da Tel Aviv. La famiglia Tzarfati venne decimata. In queste colline le pietre volano, assieme alle bombe molotov e ai colpi di fucile. Sono ebrei che non vogliono convincere e non saranno convinti.
   Ma Itai Zar spiega che le colonie non hanno soltanto uno scopo di sicurezza. "C'è il sionismo. Questa è la terra d'Israele, dal Giordano al Mediterraneo, abbiamo il diritto di vivere qui. Quando mio fratello venne ucciso, tutti, ministri e persone famose vennero a casa nostra. Ufficiali dell'esercito presero una mappa e ci diedero il permesso di costruire. Mio padre disse a Sharon: 'lo non voglio vendette, voglio costruire'. Dopo la shiva, i sette giorni di lutto, iniziammo a venire qui. Sharon ci diede il permesso". C'è un famoso video dopo la morte di Gilad Zar in cui Sharon fa visita alla sua famiglia e la madre del colono ucciso si rivolge così all'allora primo ministro, urlando: "Dimmi Arik, dov'eri in questi otto mesi? Fai il tuo lavoro. Non seppelliremo altri morti. Non ti abbiamo eletto in tempi di pace. Ma perché sai fare la guerra". "Adesso vogliamo fare di Havat Gilad una grande comunità", ci dice Itai salutandoci, mentre indica le montagne. Oltre c'è la Giordania, poi l'Iraq, infine l'Iran.
   Come Itai Zar, anche Yosef Dayan di Psagot dice che gli insediamenti hanno sì una funzione di difesa, ma soprattutto ideologica. Psagot è una colonia affacciata su Ramallah, dove gli abitanti hanno calcolato che 120 mila proiettili sono stati sparati contro di loro in questi anni. Gli arabi di Ramallah sognano "di camminare un giorno sulla collina dove un tempo c'era Psagot''. Da Psagot vedi la Muqata dove era asserragliato Yasser Arafat. Chi vive lì lo fa sapendo di essere la zona cuscinetto di protezione settentrionale di Gerusalemme. Anche l'esercito la considera importante, tanto che durante l'Intifada due missili dell'Idf lanciati da Psagot hanno quasi ucciso Marwan Barghouti, il capo terrorista di Fatah. Dayan, uno dei leader dei coloni più oltranzisti, è arrivato in Israele dal Messico trent'anni fa e per vivere traduce dallo spagnolo all'ebraico opere letterarie, dai romanzi di Gabriel Garcia Màrquez e di Mario Vargas Llosa, ai trattati religiosi. Nel caso l'esercito si ritirasse da queste montagne che farebbe? "Rimarrei comunque", ci dice. "Ma nessun politico israeliano offrirebbe questa 'soluzione' suicida. Inoltre nessun arabo
Le compagnie commerciali stanno riducendo i servizi per Giudea e Samaria. Questo ha spinto molte famiglie a riconsiderare di vivere qua". Dayan pensa che Israele abbia diritto a tutta la terra o a niente, non a queste enclave di colonie.
accetterebbe la presenza di un singolo ebreo nello stato che non è mai esistito: lo 'stato palestinese'. Il governo ha un'altra strategia: renderei la vita impossibile. Le compagnie commerciali stanno riducendo i servizi per Giudea e Samaria. Questo ha spinto molte famiglie a riconsiderare di vivere qua". Dayan pensa che Israele abbia diritto a tutta la terra o a niente, non a queste enclave di colonie. "Se puoi costruire sei insediamenti, perché non seicento? La verità è che gli ebrei hanno diritto a tutta la terra di Israele. La mia casa è stata colpita dai cecchini. Eppure comprerei ancora e ancora la mia casa, che devo finire di pagare col mutuo. lo non rinuncerò mai all'accesso alla mia terra eterna".
   Dopo Havat Gilad, in direzione di Nablus, la strada è una roulette russa. Pochi i soldati israeliani in giro. L'intento è di raggiungere la colonia di Elon Moreh. Secondo la Bibbia, è il luogo in cui il Signore fece un patto con Abramo migliaia di anni fa. L'isolamento di Elon Moreh ha reso per forza di cose la comunità autosufficiente. Elon Moreh è famosa come scuola della safrut, la calligrafia ebraica. Per oltre mezzo secolo, fra il 1869 e il 1922, spedizioni archeologiche francesi e britanniche hanno esplorato invano la vetta alla ricerca dell'altare eretto tremila anni fa, subito dopo l'ingresso nella Terra Promessa delle dodici tribù ebraiche. Tutto è cambiato per questa comunità nel 1981, quando l'archeologo Adam Zartal ha scoperto l'altare di Giosuè sul monte Eival. Ma prima di Elon Moreh, facciamo tappa a due altre colonie di confine. Prima c'è Yitzhar. E' altissima e incuneata fra villaggi arabi. La nebbia si mangia tutto. Giovani armati fino ai denti sono di guardia all'ingresso dell'insediamento. Da quassù si vede tutta la costa israeliana. Eppure non potremmo essere più distanti dalle amenità della vita sulla costa, l'high-tech, i ristoranti, gli alberghi. A Yitzhar vivono veterani americani, ex dissidenti sovietici, contadini yemeniti, lubavitch e peruviani convertiti all'ebraismo. E' stato l'esercito, non i coloni, nel 1983 a scegliere di costruirci un insediamento agricolo Nahal. Se gli arabi attaccano i coloni, i coloni di Yitzhar rispondono. La colonia è l'unica della Cisgiordania circondata da sei villaggi palestinesi: Burin, Orif, Asira al Qibliya, Inabus, Madma e Hawara. Il cimitero di Yitzhar così è pieno di ebrei uccisi in attentati. Ci accoglie Ezri Tubi, il capo della sicurezza di Yitzhar. "E' una colonia speciale. Non usiamo operai palestinesi per costruire, soltanto ebrei, non vogliamo dipendere da nessuno. Questa sinagoga è stata costruita da chi vive qui. Noi tutti qui serviamo nell'esercito, ma questo non ci ha impedito di criticare Tsahal quando non fa il suo lavoro. Yitzhar è strategica da un punto di vista ideologico. Siamo la bandiera dell'insediamento in Samaria". Fuori c'è il rabbino capo David Dudkevich. La famiglia di sua moglie è quella di Enzo Sereni, l'italiano pioniere in Israele, fucilato a Dachau dai nazisti.
   Lasciamo Yitzhar alla volta di Itamar, dove tre anni fa, di notte, due terroristi del villaggio vicino di Hawarta sgozzarono nel sonno i Fogel, padre, madre e tre figli, compreso uno di pochi mesi. Visitiamo la nuova grande sinagoga intitolata "agli eroi di Itamar". Itamar è una specie di kibbutz privato, dedito all'agricoltura. Sorge vicino alla più grande base dell'esercito israeliano nei Territori. Barak Melet ci accoglie nel suo ranch. Ha un frantoio. "La mia è soltanto agricoltura organica, niente pesticidi, e anche a Tel Aviv la mangiano". Anche se non ammetterebbero mai di mettere in tavola cibo delle colonie. La madre di Barak si è suicidata dopo che un altro figlio è morto nell'esercito.
   Dopo tre gole strette che si affacciano su Nablus, che lambiamo a pochi metri, si arriva a Elon Moreh. Saliamo sul monte Kabir: a destra c'è Nablus, a sinistra la colonia. Visitiamo il punto dove durante la Seconda Intifada veniva Ariel Sharon per osservare le azioni dell'esercito israeliano dentro la casbah di Nablus. Poco lontano c'è la grotta dove hanno trovato Rami Haba, il primo bambino dei coloni ucciso qui. Uno dei tanti. Prima lo hanno tramortito con un colpo di martello sullo zigomo. Poi, con una pietra gli hanno maciullato la faccia e il torace. Il padre per riconoscerlo ha dovuto rovistare in quel corpo spappolato, fino a trovare una macchinetta che il piccolo portava ai denti. Solo allora ha potuto dire che era lui, che quello era suo figlio.
   Sulla strada di ritorno, la tensione sale quando si attraversa il villaggio palestinese di Hawara. Sono cinque chilometri di paura e totale diffidenza. Che sale quando si blocca il traffico e chi la percorre diventa un facile bersaglio. Su questa strada ci sono stati molti attentati. Si inizia a respirare quando si arriva allo snodo di Tapuach e il numero di soldati israeliani torna a crescere. Poi c'è Ariel, ventimila abitanti e una famosa università, e da lì Tel Aviv. Ma prima si fa tappa a Peduel, dove un memoriale ricorda il rabbino Elimeleeh Shapira, ucciso a bordo della sua auto. Peduel è un piccolo insediamento abitato da ingegneri, medici, accademici. E' famoso per la sua "terrazza". Da qui si vede tutta Tel Aviv, e su, fino a Hadera. Si capisce la ragione per cui Israele non potrà mai ritirarsi da questi posti.
   Si riparte, perché cala la notte e le notti in Samaria sono più lunghe e buie che altrove. Quassù si vince o si scompare.
(3. Fine)

(Il Foglio, 6 dicembre 2014)


Etnia presenta Gerusalemme agli agenti di viaggio nel Ghetto di Venezia

Etnia, assieme a I Travel Jerusalem e El Al, sceglie di organizzare un evento in un posto di sicuro appeal, oltre che estremamente coerente con la destinazione proposta: il Ghetto di Venezia. Qui, il prossimo 14 dicembre, Gerusalemme verrà presentata agli agenti di viaggio facendo loro toccare con mano le tradizioni tipiche della cultura ebraica. Sarà possibile incontrare il Rabbino capo e effettuare una visita guidata del Ghetto e delle sinagoghe; al termine sarà servito un pranzo a base della tipica cucina Kosher. Tutto questo è parte di un progetto di formazione rivolto agli agenti di viaggio, cui nel 2015 saranno dedicate moltissime attività, sempre in funzione del concetto che a Etnia Travel Concept è molto caro: "Fuori dai luoghi comuni".

(Travel Quotidiano, 5 dicembre 2014)


Importante scoperta archeologica nel nord di Israele

 
Ciondolo a forma di colomba trovato negli scavi archeologici presso il Parco Nazionale Sussita
 
Scultura in marmo della gamba destra di un uomo, trovata negli scavi di Hippos-Sussita
ROMA, 5 dic - Gli archeologi dell'Istituto di Archeologia dell'Università di Haifa insieme ad un team internazionale di archeologi e ambientalisti provenienti da Canada e Polonia hanno recentemente portato alla luce affascinanti reperti durante i recenti scavi del sito di Hippos-Sussita nel nord di Israele. E' stato infatti scoperto uno scheletro di una donna con un ciondolo a forma di colomba insieme a una grande gamba in marmo.
   Le ultime quindici stagioni di scavo di Hippos-Sussita, gestito dagli archeologi dell'Istituto Zinman di Archeologia dell'Università di Haifa, non hanno smesso di fornire un flusso costante di affascinanti scoperte. La città di Hippos-Sussita, che è stata fondata nel II secolo a.C, ha subito due forti terremoti ben documentati. Il primo è stato nell'anno 363 d.C e ha causato danni pesanti. La città fu comunque successivamente ricostruita. Il grande terremoto del 749 d.C. distrusse completamente la città che è stata successivamente completamente abbandonata.
   La prova degli estesi danni provocati dal terremoto del 363 è stata trovata durante le precedenti campagne di scavo. Nessuna prova però era stata così efficacie e inquietante come quanto recentemente portato alla luce. A nord della basilica, il più grande edificio della città che serviva come centro commerciale, economico e giudiziario della città, il direttore dello scavo Dr. Haim Shkolnik e il suo team hanno dissotterrato i resti di numerosi scheletri che erano stati schiacciati dal peso del tetto crollato. Tra le ossa di una delle donne c'era un ciondolo a forma di colomba in oro.
   Quest'anno è stata trovata per la prima volta la prova che il grande terremoto del 363 CE aveva distrutto le Terme romane che sono state scoperte dal team gestito da Arleta Kowalewska giunta dalla Polonia per lavorare su questo scavo. Secondo il dottor Eisenberg le prove trovate fino a questo momento dimostrano che il terremoto è stato così potente da distruggere completamente la città, tanto da essere necessari una ventina d'anni per essere ricostruita.
   Tra le macerie delle terme è stata trovata una scultura in marmo di una gamba muscolosa di un uomo appoggiato a un tronco d'albero. Gli scavi sono stati realizzati nel bastione, il posto principale a difesa della città romana costruita sul bordo meridionale della rupe, in cui il lavoro si è concentrato sulla posizione fortificata di una macchina a proiettili che lanciava pietre, una balista. La catapulta era circa otto metri di lunghezza. Finora gli archeologi hanno trovato un certo numero di proiettili che si adattano alla catapulta, così come palline più piccole che sono stati utilizzate da piccole macchine balista. Queste macchine sono state posizionate sopra le volte del bastione e sono state usate per lanciare palle in basalto leggermente più piccole di palloni da calcio ad una distanza di oltre 350 metri.
   Una sezione della parte occidentale della principale strada colonnata della città, che ha attraversato tutta la sua lunghezza di 600 metri da est a ovest - il decumanus maximus- è stata scavata quest'anno con l'aiuto di una squadra canadese. Gli archeologi hanno scoperto un altro pezzo originale del muro che sosteneva le colonne della strada, confermando la teoria che si trattava di magnifica strada colonnata simile a quelle delle città romane orientali che sono state costruite al culmine della Pax Romana durante i primi secoli d.C. Mentre si lavorava sullo scavo il team ha anche investito molto lavoro sulla conservazione del sito in quanto il direttore degli scavi, dottor Eisenberg, ha ritenuto si trattasse di una delle principali mete turistiche della parte settentrionale del paese. Ventidue studenti del Dipartimento di Western Galilee College of Conservation insieme a cinque restauratori esperti sotto la direzione della dottoressa Julia Burdajewicz dell'Accademia di Belle Arti di Varsavia hanno condotto il lavoro di conservazione.

(Prima Pagina News, 5 dicembre 2014)


Trieste - Progetti di futuro

Far conoscere le possibilità di viaggio, studio e lavoro che ci sono oggi in Israele. Questo l'obiettivo dell'evento organizzato per la giornata di domenica a Trieste da Masa Italia e Agenzia Ebraica e rivolto in prima istanza ai giovani iscritti alle Comunità ebraiche del Nordest.
La giornata, in programma presso il centro sociale Beit Gavriel dalle 9 alle 16, si aprirà con un'attività introduttiva (discussione guidata) presa dal progetto Beth Ha'am - dialogo sionista - per far confrontare i ragazzi sulla propria identità ebraica e sul legame con Israele.
Dopo pranzo verranno invece presentati i programmi Taglit Birthright e Masa Israel (programmi di studio, volontariato e tirocinio in Israele per ragazzi tra i 18-30 anni) e verranno date indicazioni sulla procedura per fare l'aliyah.

(moked, 5 dicembre 2014)


Brasile - Elicottero della polizia scopre una svastica sul fondo di una piscina

Il simbolo nazista è stato avvistato all'interno di una residenza privata a Vale do Itajai. Le forze dell'ordine hanno ritenuto di non procedere con una denuncia
17:08 - La polizia civile brasiliana ha fotografato dall'alto il disegno di una svastica sul fondo di una piscina all'interno di una residenza privata a Vale do Itajai, nello Stato meridionale di Santa Catarina. L'avvistamento si è verificato durante una ricognizione in elicottero a seguito di una notizia di sequestro. Le forze dell'ordine hanno poi rivelato che il simbolo nazista si trovava lì da ben tredici anni.
Nonostante l'avvistamento, però, la polizia ha ritenuto che non ci fossero gli estremi di una denuncia contro il proprietario per apologia del nazismo, perché il simbolo adottato da Hitler nel 1920 non si trova esposto in un luogo pubblico.

(TGCOM24, 5 dicembre 2014)


«In Libia ha vinto il jihad. Una Hamas vicina a noi»

Non c'è solo l'Isis. Nel dopo-Gheddafi comandano gli islamisti. Come Ansar al-Sharia, che fornisce servizi e lavoro alla gente.

di Francesco Borgonovo

Il Califfato fondato a Derna con le insegne dell'Is? Forse non è il male peggiore che alligna nei pressi dell'Italia. Un altro straordinario risultato delle «primavere arabe», che avrebbero dovuto trasformare i Paesi del Nord Africa nella culla della democrazia e invece li hanno consegnati nelle mani dei terroristi. Se Tunisia e Algeria sono tra gli Stati che hanno fornito più combattenti stranieri all'Is, la Libia è oggi un territorio in cui regna il caos, facile preda degli estremisti. Un quadro della situazione lo fornisce Arturo Varvelli, analisti dell'Ispi. «Storicamente la Cirenaica, e la città di Derna in particolare, sono sempre stati i luoghi da cui il regime di Gheddafi ha avuto i maggiori problemi», spiega. «Erano il territorio più lontano, più sfuggente rispetto al sistema di gestione clanico del Colonnello. Il quale ha sempre governato alternando bastone e carota, però diciamo che nel caso della Cirenaica ha utilizzato più il bastone. E questo ha fatto sì che nell' area si creasse una sorta di scuola jihadista».
   Un tipo di jihadismo particolare, in cui «la teologia non rivestiva il ruolo più importante. Potremmo parlare di una specie di jihadismo funzionale. L'unico modo per affrancarsi dal regime di Gheddafi era farsi jihadisti e andare a combattere sul fronte afghano e su quello iracheno. Quando vai all'estero, succede che torni maggiormente radicalizzato, capace magari di creare nuove cellule terroristiche. È esattamente quello che è successo con l'Is. Centinaia di libici della Cirenaica si sono trovati a combattere con lo Stato islamico in Siria». È il caso del battaglione al-Battar, «che ha combattuto prima in Siria e poi a Mosul. Quindi, dopo aver accumulato una forte expertise militare, il battaglione è rientrato in patria. Si tratta dei cosiddetti jihadisti di ritorno. Sono tornati perché in Libia c'era una nuova battaglia da combattere».
   Ad accelerare il processo che ha portato gli islamisti - dell'Is e di altre sigle - a rafforzarsi, è stato anche l'ingresso sul campo di battaglia dell' ex generale Khalifa Haftar, che mi è messo a capo delle milizie anti islamiche. E ha contribuito ad alzare il livello dello scontra. Oltre allo Stato islamico che agisce a Derna, in Libia è attiva una formazione anche più pericolosa (almeno a livello locale). Si tratta di Ansar al-Sharia, a sua volta formata da molti reduci di Afghanistan e Iraq. «L'11 settembre 2012 Ansar al-Sharia ha ucciso l'ambasciatore americano Chris Stevens. Non è una cosa da poco. Ansar al-Sharia sta fronteggiando le forze di Haftar a Bengasi. Non vanno sui giornali perché non sono l'Is e non vanno di moda, ma sono la minaccia principale in Libia». Il motivo? Ansar al-Sharia fa presa sulla popolazione. Si sostituisce allo Stato laddove non c'è. «Costruisce ospedali, fa collette di denaro che poi dà ai bisognosi, istituisce check point in strada contro la delinquenza comune. Poi gestisce i rifiuti, che è un' attività importantissima in un Paese in cui lo Stato manca. Si occupa di ospedali (anche ospedali per donne) e scuole. Fornisce un' assistenza sociale che in Libia manca completamente. In stile Hamas».
   Il pericolo è proprio questo: «Che si crei una forza militare e politica, una sorta di nuova Hamas, con cui dovremo fare i conti». Una nuova Hamas a pochi passi dall'Italia. Dotata, per di più, del sostegno popolare che il Califfato non è ancora riuscito a procurarsi. «A me sembra che nell'Is ci sia meno capacità assistenziale e più violenza», dice Varvelli. «Da parte loro vediamo le decapitazioni, l'istituzioni di tribunali islamici. Non penso che in Libia e anche in Cirenaica ci sia posto per queste ideologie estreme, non c'è un retroterra culturale in cui possano attecchire». Però gli uomini del Califfato hanno i loro fan. «Quello dello Stato islamico è un marchio forte soprattutto verso i giovani», dice Varvelli. «I vecchi miliziani libici erano più vicini ad al-Qaeda». All'organizzazione di Bin Laden apparteneva per esempio Abu Anas al-Libi, stragista accusato di aver partecipato agli attentati del 1998 contro le ambasciate Usa di Tanzania e Kenya (oltre 200 morti), arrestato il5 ottobre 2013.
   Ecco la Libia. Un Paese in pezzi dopo l'intervento militare europeo. «Come si poteva pensare la Libia potesse sopravvivere a se stessa e a Gheddafi, visto che con il raìs cadevano tutte le istituzioni?», conclude Varvelli. «Ci sono state tre tornate elettorali, ma nessun processo di costruzione dello Stato. Non abbiamo aiutato i libici a edificare una nazione. E questo è il risultato».
   
(Libero, 5 dicembre 2014)


Dopo l'attentato, ebrei e arabi ribadiscono la volontà di convivenza a Mishor Adumim

Il proprietario del supermercato: "C'è chi vorrebbe farci chiudere, ma non l'avranno vinta"

Alle 16 e 15 di mercoledì pomeriggio un palestinese di 16 anni e mezzo proveniente dal villaggio cisgiordano di al-Azariya è entrato in un supermercato della zona industriale di Mishor Adumim, vicino a Ma'ale Adumim, poco a est di Gerusalemme. Spingeva un carrello della spesa e dal momento che il luogo è normalmente frequentato da ebrei e arabi, la sua presenza non ha destato alcun sospetto. Una volta raggiunto l'interno del negozio, il giovane ha estratto un coltello e ha aggredito due clienti, ferendoli alle spalle....

(israele.net, 5 dicembre 2014)


Marie Benoît, il cappuccino che ha salvato la vita di 4.000 ebrei

La Curia Generalizia dei Cappuccini dichiarata "Casa di vita"

Il monastero romano della Curia Generalizia dei Frati Francescani Minori Cappuccini è da qualche giorno "Casa di vita", in riconoscimento all'aiuto offerto dai religiosi a ebrei durante le persecuzioni della Seconda Guerra Mondiale.
   Il riconoscimento è stato attribuito dalla Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg, presieduta da Eduardo Eurnekian, e fondata da Baruch Tenembaum, in una cerimonia ufficiale, in presenza di padre Mauro Johri, maestro generale dei cappuccini.
   Nella Curia Generalizia dei Cappuccini ha abitato il sacerdote francese Pierre Péteul, più conosciuto con il suo nome di religioso, (1895-1990), anche se i romani lo chiamavano Maria Benedetto. Salvò 4.000 ebrei durante l'occupazione nazista in Francia e Italia, in buona parte offrendoli dei documenti falsi perché potessero rifugiarsi in Svizzera, Spagna e in altri paesi.
   Il frate cappuccino cominciò la sua opera di aiuto nel sud della Francia, a Nizza, ma dopo essere stato scoperto dalla Gestapo, ha dovuto fuggire a Roma, dove ha continuato i suoi sforzi a favore degli ebrei, con l'aiuto delle autorità del Vaticano.
   Entrò a far parte della direzione della sezione romana dell'organizzazione ebraica DELASEM (Delegazione per l'Assistenza degli Emigranti Ebrei), diretta da Settimio Sorani e Giuseppe Levi, trovandosi spesso da solo alla guida della stessa, quando i membri ebrei furono arrestati o costretti a nascondersi.
   Per sua iniziativa, la Casa Generalizia dei Padri Cappuccini, che allora si trovava a via Sicilia 159, divenne la centrale operativa delle operazioni di assistenza agli ebrei perseguitati a Roma e ai tanti profughi che cercavano di raggiungere le linee alleate nel sud dell'Italia.
   Padre Marie Benoît e i suoi collaboratori, frati, suore e laici, accoglievano i profughi e li indirizzavano nei molti luoghi di rifugio sparsi in tutta Roma.
   Da 400 assistiti del settembre 1943 si passò ai 4500 del giugno 1944 (2500 italiani e 1500 stranieri). Il suo ufficio fu più volte perquisito, finché agli inizi del 1944 lo stesso frate dovette darsi alla latitanza, senza che per questo venisse meno il suo impegno.
   Il suo rapporto con la comunità ebraica di Roma era così profondo che, durante le retate naziste a Roma, gli sono state consegnate le chiavi della sinagoga della capitale. Appena finita l'occupazione, a giugno 1944, lui stesso ha aperto la sinagoga.
   Per questo motivo, poco dopo, la comunità ebraica, presieduta dal rabbino Israel Zoller, ha organizzato una cerimonia ufficiale in quella stessa sinagoga per riconoscere l'aiuto di padre Marie Benoît.
   Anni dopo, il presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, ha pronunciato un discorso nel quale ha spiegato che "gli atti eroici di padre Marie Benoit nel salvare dalla Gestapo gli ebrei durante l'occupazione nazista di Roma, devono essere per noi statunitensi un esempio per la protezione e il rispetto dei diritti civili degli uomini senza discriminazione di razza, di colore o di religione".

(Aleteia, 5 dicembre 2014)


Quei "giornalisti" e "politici" al servizio del terrorismo palestinese

Col passare delle settimane si ridimensiona inevitabilmente il conteggio delle vittime civili del conflitto della scorsa estate a Gaza. Il numero complessivo dei moti rimane immutato; si modifica la composizione: prevalgono militari e militanti, si riducono i civili, fra cui purtroppo spiccano gli scudi umani adottati da Hamas in spregio alla Convenzione di Ginevra. Un crimine di guerra che sarà fatto pesare, quando finalmente i territori palestinesi saranno riconosciuti come stato....

(Il Borghesino, 5 dicembre 2014)


Ricostruzione in 3D per scoprire com'era il Ghetto di Roma

Al Museo ebraico, sotto la Sinagoga, rinascono le stradine scomparse con le demolizioni.

di Paolo Brogi

L'edificio delle Cinque Scole non c'è più, è stato abbattuto. Ma sul tavolo del Museo ebraico grazie ai miracoli della terza dimensione e delle ricostruzioni documentate a colpi di 3D, rieccolo lì. Nelle sale del Museo della comunità ebraica, sotto la Sinagoga, per la prima volta è ora possibile rivivere l'antico Ghetto di Roma prima di sventramenti e demolizioni che hanno ridi segnato l'intera area. TI Presidente Riccardo Pacifici e il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, insieme con la Direttrice del Museo, Alessandra Di Castro, hanno inaugurato il tavolo interattivo su cui è possibile proiettare la ricostruzione tridimensionale del Ghetto. La riproduzione è avvenuta sulla base di fonti documentarie e iconografiche: acquarello, dipinti, incisioni, fotografie d'epoca e documenti catastali e urbanistici. Il risultato? Torna un luogo che non esiste più con le sue stradine strette strette oggi sostituite dai grandi sventramenti con cui negli anni '80 dell'800 furono create via del Portico d'Ottavia, via Catalana, via del Tempio. Lo sventramento del 1888 portò alla formazione di quattro nuovi isolati. In precedenza con la costruzione dei Muraglioni sul Tevere era stato sottratto agli ebrei romani l'abbraccio diretto quanto pericoloso col fiume di Roma.
   Via della Reginetta è uno dei pochi angoli del Ghetto in cui ancor oggi si vive la dimensione angusta che dominava tutta l'area con stretti sentieri sotto palazzi alti cinque o sei piani. A tener banco erano piccole casupole, frutto anche di quella bolla di Papa Caraffa che istituendo il Ghetto nel 1555 aveva decretato che gli ebrei non possedessero immobili. Già, il 12 luglio del 1555 il papa Paolo IV, al secolo Giovanni Pietro Carafa, con la bolla «Cum nimis absurdum» aveva spazzato via tutti i diritti concessi agli ebrei romani e aveva ordinato la creazione del ghetto, «serraglio degli ebrei», un luogo chiuso da muri e dotato di porte (due all'inizio, otto alla fine) che venivano sbarrate a sera e riaperte all'alba.
   La bolla papale richiama da vicino le leggi razziali del fascismo: oltre all'obbligo di risiedere all'interno del ghetto, gli ebrei, come prescritto dal paragrafo tre, dovevano munirsi di un berretto di color glauco mentre le donne dovevano esibire qualcosa dello stesso colore. Agli ebrei veniva proibito poi di esercitare qualunque commercio ad eccezione di quello degli stracci e dei vestiti usati. La proibizione al possesso dei beni immobili da parte degli occupanti diminuì la cura per gli immobili stessi. Per questo motivo le case del ghetto erano malmesse. Nella ricostruzione in 3D si intravedono allora i segni che le piene del Tevere lasciavano sulle case «giudie». Poiché il ghetto era a ridosso del Tevere, a causa del fango, le facciate degli edifici assumevano una colorazione a livelli che corrispondeva alla cronologia delle ultime piene.
   Un viaggio nel tempo dunque, prima dell'arrivo liberatorio dei francesi nella Roma del 1798 e poi dei repubblicani romani del '49 con l'apertura del Ghetto completata poi nel 1870. Ma prima soprattutto di quel 1888 che vide col nuovo piano regolare scomparire buona parte delle antiche stradine e dei vecchi edifici del ghetto, malsani e privi di servizi igienici, demoliti per fare posto ai nuovi stradoni. C'era una volta via della Pescheria, sostituita da via del Portico d'Ottavia, e per rivederla bisogna assistere ai prodigi in 3D conservati al Museo Ebraico.

(la Repubblica, 5 dicembre 2014)


Eurovision 2015: l'EBU dice sì a Grecia e Israele

L'EBU ha deciso: Grecia e Israele faranno parte dell'edizione numero 60 dell'Eurovision Song Contest, in programma il 19, 21 e 23 maggio prossimi a Vienna, in Austria. L'ufficialità è arrivata ieri sera nel corso dell'assemblea generale dell'ente nella quale si è anche trattato fra gli altri temi, quello eurovisivo.
Non cambia il numero dei paesi in concorso, che per ora rimane 39 in attesa della lista ufficiale che sarà diramata ad inizio anno solare: i due paesi erano infatti stati inseriti nella lista subjudice, ovvero in attesa della decisione su di loro. Ieri sera dunque è stata di fatto ufficializzata la loro presenza.
Per entrambi, come è noto, erano in ballo questioni similiari riguardanti le rispettive tv: Nerit, il nuovo soggetto pubblico greco, iscritto l'anno scorso in deroga (fu di fatto inaugurato qualche giorno prima della rassegna), era in dubbio per via dei ritardi nella copertura del territorio nazionale, di una iscrizione all'EBU che ritardava e per via del mancato rispetto della promessa indipendenza dal Governo.
Israele invece ha dato il via al processo di riorganizzazione della tv pubblica e di fatto, quando sarà in gara, IBA avrà già chiuso i battenti, rimpiazzata anche in questo caso, come l'anno scorso per la Grecia, da un canale ponte oppure subito da una nuova tv pubblica se nel frattempo l'organizzazione della stessa sarà già stata completata.
Gli altissimi ascolti che l'evento fa in Grecia (soprattutto in termini di share) e l'enorme popolarità anche nel paese mediorientale, nonostante la clamorosa eliminazione in semifinale dell'anno scorso, hanno sicuramente favorito questa decisione, ma i più contenti, c'è da crederlo, saranno gli eurofan di questi paesi (e quelli in generale) che non saranno privati di entries solitamente molto apprezzate. Non resta ora che attendere per capire se si riuscirà o meno a fare cifra tonda.

(Eurofestival News, 5 dicembre 2014)


Si rompe un oleodotto, disastro ambientale in Israele

 
GERUSALEMME - Un fiume nero di greggio è fuoriuscito da un oleodotto nel sud di Israele, causando quello che il ministro dell'ambiente, citato dai media, ha definito «uno dei più gravi disastri nella storia del paese».
Uno dei responsabili della protezione civile ha detto che una scia di sette chilometri di petrolio, alimentato dalla perdita prodotta da un guasto a una tubatura, scorre ora attraverso la Riserva naturale desertica di Evrona, a 20 chilometri a nord di Eilat, punta estrema meridionale d'Israele.Fotogallery: Disastro ambientale in Israele, un fiume di petrolio nel deserto
La rottura dell'oleodotto è avvenuta duranti lavori di manutenzione, parte di quelli di preparazione per la costruzione dell'aeroporto internazionale di Tmna nel sud del paese.
L'oleodotto - che unisce il porto di Eilat sul Mar Rosso a quello di Ashkelon sulla costa del Mediterraneo - è stato costruito negli anni '60 per facilitare il trasporto del greggio iraniano dal Golfo Persico ai mercati europei. Dopo la rottura nel 1979 delle relazioni tra Israele e l'Iran è stato usato principalmente per portare greggio e suoi prodotti da Eilat verso altri parti del paese.
Le fotografie e i video trasmessi dai media mostrano gravi danni all'ambiente desertico del posto - uno dei più affascinanti del mondo - e gli esperti di disastri ambientali, entrati subito in azione, parlano di mesi se non anni per riportare tutto nella norma.
Tratti della rete stradale nella zona sono stati chiusi, ad intermittenza, al traffico. Il flusso di greggio - secondo Samet citato dalla radio - ha causato «gravi danni alla flora e alla fauna» nella Riserva naturale di Evrona, una delle più importanti della zona.
I media israeliani hanno sottolineato che non ci sono stati danni nella confinante parte giordana, anche se invece stampa giordana - riportata in Israele - ha segnalato che una larga massa di idrogeno di solfuro è stato riscontrato nell'aria intorno ad Aqaba, porto giordano a pochissima distanza da Eilat e alcuni rapporti indicano più di 80 persone ospedalizzate per difficoltà respiratorie.
Video

(Il Secolo XIX, 4 dicembre 2014)


Le madri di Gerusalemme

di Marina Corradi

GERUSALEMME, novembre - Nel cielo limpido del tramonto si staglia il profilo millenario della porta di Giaffa e delle Mura. La Città vecchia stasera è silenziosa: pochi turisti, e i commercianti seduti immobili davanti alle loro botteghe vuote. C'è una quiete strana, a pochi giorni dall'attentatoo nella sinagoga di Har Nof. La strage compiuta a colpi d'ascia nell'ora della preghiera del mattino ha segnato Gerusalemme, pure da tanto martoriata. Le camionette della polizia e dell'esercito percorrono ogni due minuti il perimetro interno delle Mura, lampeggiando con le loro luci intermittenti azzurrine.
A Gerusalemme Est invece c'è il traffico dell'ora di punta, e la gente che si affretta verso casa, come in ogni dttà. Ogni volta che passa un'ambulanza con la sirena accesa i passanti si bloccano, e la seguono con lo sguardo, inquieti, finché non è scomparsa. Pensi: potrebbe accadere di nuovo, e osservi le facce di chi ti viene incontro, e eviti la ressa dei grandi magazzini.
Ma poi vedi le madri di Gerusalemme che nell'Imbrunire spingono svelte e sicure i passeggini, la borsa della spesa al braccio e il bambino sul seggiolino che scalcia e ride, e capisci: la vita è comunque molto più forte della morte. La vita ordina ogni mattina, imperativa come un generale alle sue truppe, che si viva.

(Tempi, 4 dicembre 2014)


Visita tattile alla Sinagoga di Genova

La Sinagoga di Genova, realizzata su progetto dell'architetto Francesco Morandi, sarà la meta, domenica 7 dicembre, di: "Un viaggio nella Sinagoga" evento alle persone non vedenti. Un evento molto speciale organizzato da Lidia Schichter, con il presidente di UICI Genova, Eugenio Saltarel, a cura del Rabbino Capo Giuseppe Momigliano. Lidia Schichter, è inesauribile punto di riferimento per tutte le persone con disabilità del territorio ligure grazie alla sua dedizione ai progetti che coinvolgono le persone con diverse disabilità verso la conoscenza dell'arte e della cultura. In questo ambito ha saputo creare le condizioni per questa iniziativa.
Una visita durante la quale si potranno toccare e conoscere gli arredi sacri e gli oggetti significativi e storici che costituiscono il luogo sacro. La Sinagoga di Genova è particolarmente importante, essendo una delle quattro Sinagoghe monumentali esistenti in Italia con Roma, Trieste e Livorno. La comunità ebraica genovese contava all'epoca dell'inaugurazione, nel 1935 , oltre 2000 persone, in seguito con l'entrata in vigore delle leggi razziali del '38 ed i rastrellamenti avvenuti anche nella stessa Sinagoga nel '43 la comunità si è ridotta. Nel 2012 contava, nell'intera Liguria, 400 persone. Il Rabbino Capo, Giuseppe Momigliano, guiderà i visitatori tra gli arredi sacri dell'antico tempio di Malapaga, illustrando anche le donazioni ricevute dalle altre comunità ebraiche d'Europa. La comunità ebraica genovese mantiene inalterato il culto che si esprime attraverso la preghiera, l'alimentazione, le feste e le ricorrenze, i riti secondo il proprio calendario.
La visita tattile, che inizierà domenica alle ore 10.30 del mattino, rappresenta un'opportunità eccezionale riservata alle persone non vedenti, l'iscrizione è obbligatoria entro le ore 15 di venerdì 5 dicembre telefonando a UICI 010 2510049.

(Itali@Magazine, 4 dicembre 2014)


Urtisti e Ricordari a Roma, nel cuore di Trastevere la mostra dedicata ai peromanti

di Cristina Pantaleoni

ROMA - Una storia lunga secoli quella degli urtisti che parte dall'antico ghetto ebraico. Proprio gli ebrei costretti a svolgere solo alcune attività economiche, sono i primi ad intraprendere il mestiere definito dei ricordari, o madonnari o peromanti (quelli che vanno pè Roma). Ai primi del Novecento un'autorizzazzione del Vicariato di Roma
permise loro di poter vendere i rosari ai pellegrini cattolici. Gli ebrei romani diventano cosi ufficialmente urtisti. La professione passa attraverso il fascismo, che conferisce loro una divisa, e l'occupazione nazista anche se divenuti, con le leggi razziale del 1938, abusivi. I peromanti vendono in questi periodo ai soldati tedeschi cartoline, sigarette di contrabbando, lucido da scarpe, lacci.
Passano attraverso la guerra e si adeguano ai turisti americani e giapponesi in arrivo nella Capitale. Da mestiere per miserabili diventa una professione ambita. Una professione sempre sotto l'occhio del ciclone a causa delle poche licenze e della crisi economica. A rendere omaggio ai secoli di storia degli urtisti la mostra Urtisti e Ricordari a Roma, passato e presente di uno storico mestiere, che dal 3 al 7 dicembre sarà ospita al Museo di Roma in Trastevere e promossa da Roma Capitale, dalla sovrintendenza ai beni e attività culturali e dal centro di cultura ebraica di Roma. Per la prima volta dopo secoli di attività gli urtisti si racconteranno in una manifestazione culturale suggestiva ed affascinante.

(Meridiana, 3 dicembre 2014)


Il governo croato restituisce alla comunità ebraica una proprietà confiscata nel 1941

TRIESTE - Un ''passo lungamente atteso e importante'' per fare i conti ''con l'eredità dell'Olocausto'' e per ''assicurare alla comunità ebraica'' la possibilità di continuare a ''rigenerarsi in una Croazia democratica''. Così la World Jewish Restitution Organization (WJRO) ha dato il benvenuto al ''trasferimento da parte del governo croato alla locale comunità ebraica di un terreno di grande valore'' e di un adiacente ''condominio'' di sei piani occupato da uffici e localizzato nel centro di Zagabria, si legge in una nota del WJRO emessa ieri.
Il terreno e l'edificio, del valore di circa quattro milioni di dollari, andranno a risarcire la comunità per la confisca di un immobile decisa nel 1941 del regime filonazista ustascia e per la successiva nazionalizzazione approvata nel 1947 dalle autorità comuniste. La comunità ebraica zagrebese aveva presentato richiesta di restituzione nel 1997. ''Chiediamo al governo'' di continuare nel processo di ''restituzione delle proprietà'' un tempo possedute dagli ebrei croati, ha auspicato Gideon Taylor del Wjro. Secondo i dati forniti dalla stessa organizzazione, dei 25mila ebrei che risiedevano sul territorio dell'attuale Croazia solo 6mila sopravvissero al Secondo conflitto mondiale e alle persecuzioni degli ustascia. Duemila vivono ancora nel Paese membro Ue dal 2013, in gran parte concentrati a Zagabria.

(ANSA, 4 dicembre 2014)


Tra i padiglioni

Sabato e domenica scorsi, all'Expo Gate di Milano in via Beltrame, si è tenuta la presentazione del padiglione Israele a Expo Milano 2015, sotto il motto «la terra del latte e del miele» porta le sue tradizioni nella capitale lombarda. Obiettivo di Israele è proporsi fin da subito come protagonista sui temi Expo molto vicini alla storia del paese: tecnologia, agricoltura, sicurezza alimentare, gestione dell'acqua, sviluppo sostenibile.

Israele è la terra che la Bibbia benedice con sette tipi di prodotti speciali («Una terra di grano e orzo, di uva, di fichi e di melograni, una terra di ulivi e datteri» [Deut. 8:8]) e che oggi condivide le propria esperienza millenaria con la comunità internazionale nel contrasto a povertà e fame nel mondo.
Sviluppa il tema dello scrigno della biodiversità, forte del fatto che ospita nove delle 11 aree climatiche esistenti al mondo, il padiglione dell'Azerbaijan. Da secoli punto d'incontro geografico e simbolico fra Oriente e Occidente e oggi fra i paesi a più alto tasso di crescita, grazie all'innovazione, l'Azerbaijan ha scelto l'Expo Milano 2015 per realizzare il suo primo padiglione autonomo (in passato ha partecipato all'interno di cluster), investendo 15 mln euro. L'ideazione e progettazione è di Simmetrico, rete di creativi, project manager ed esperti in tecnologie multimediali al 100% italiana.
   La Coop, a cui aderiscono 8 milioni di consumatori e che vanta la più grande catena di distribuzione in Italia, sottoscrive il Protocollo di Milano. L'adesione è stata annunciata da Enrico Migliavacca vicepresidente vicario Ancc-Coop, nel corso dell'International Forum on Food and Nutrition, in programma ieri e oggi presso l'Università Bocconi di Milano. Obiettivo del documento affrontare i paradossi alimentari: mentre sono in aumento i bambini obesi rispetto ai denutriti; solo il 50% della produzione agricola è destinata alla produzione di cibo per gli uomini, il rimanente 50% è usato per nutrire animali e produrre biocarburante; mentre il cibo sprecato è sufficiente per nutrire le oltre 805 milioni di persone affamate su scala mondiale. Il Protocollo di Milano, promosso da Fondazione BCFN, fissa sulla carta impegni concreti per bilanciare queste cifre in vista di Expo. Il documento, nella sua versione finale «sarà consegnato alle istituzioni italiane e internazionali con l'obiettivo di promuovere il dibattito sui tavoli politici durante i prossimi mesi», ha spiegato Guido Barilla, presidente della fondazione. A riceverlo saranno Maurizio Martina, ministro delle politiche agricole con delega ad Expo 2015, Giancarlo Caratti, vice commissario generale per la partecipazione Ue a Expo, e Paolo De Castro, relatore permanente per Expo della commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Ue.

(Italia Oggi, 4 dicembre 2014)


L'innovazione secondo i rabbini: premiate le app per "riparare il mondo"

Ieri sera, nella cornice dell'Ara Pacis a Roma, sono stati premiati quattro talenti di imprese digitali, che con le loro invenzioni hanno dimostrato di voler creare qualcosa che fosse utile alla società, prima che al profitto personale.

di Andrea Andrei

Coltivare una generazione di imprenditori di talento e altruisti. È questo lo spirito del CER Internet Entrepreneurs Prize, Premio annuale della Conferenza dei Rabbini Europei all'innovazione digitale, che si tiene ogni anno in una diversa capitale europea.
   A vincere l'edizione di quest'anno, a cui hanno partecipato parlamentari, rappresentanti delle istituzioni locali, opinion makers e membri della CER (fra cui uno dei due vice presidenti, rav Riccardo Di Segni, rabbino capo della Comunità Ebraica di Roma), sono stati il giovane belga Sacha Nasan, l'ingegnere aereospaziale israeliano Meidad Pariente, e gli editori russi Ivar Kh. Maksutov ed Elena Verevkina.
   Nasan, a soli 16 anni, ha inventato insieme ai genitori "Get Talenty", un'app-social network che invita le persone di tutto il mondo a caricare video che mettano in mostra la propria abilità e il proprio talento. Proprio come se fosse un reality-show su scala globale, senza selezioni ma sottoposti all'insindacabile giudizio della rete. Sacha, quando aveva 14 anni, aveva già inventato un'applicazione mobile gratuita, che fu scaricata 83 mila volte in soli due giorni.
   L'israeliano Pariente invece, con l'aiuto della moglie Maya, ha sviluppato la "Mayday App", che consente di inviare un messaggio a un indirizzo email predeterminato o di generare fino a 50 sms ai propri cari in caso di incidente. L'applicazione permette anche di configurare la velocità di attivazione, evitando falsi allarmi quando il telefono, per esempio, cade. Infine, Maksutov e Verevkina sono i cofondatori della casa editrice "PostNauka", nata con l'obiettivo di fornire agli scienziati l'opportunità di parlare direttamente al pubblico. A questi ultimi è andato il riconoscimento per i siti web Serious-Science.org e postnauka.ru, che hanno lo scopo di divulgare le idee scientifiche in tutto il mondo.
   Una serata di gala (a cui erano presenti tra gli altri i rabbini Riccardo di Segni e Pinchas Goldsmith, il presidente dell'Ucei Renzo Gattegna, l'ambasciatore di Israele Gideon Meir, Alfio Marchini con la moglie, il cantante Raiz) che ha dimostrato come la religione possa essere non solo vicina, ma molto affine al progresso. Non è un caso che la Conferenza dei rabbini europei abbia voluto premiare le innovazioni tecnologiche e in particolare coloro che utilizzano gli strumenti della nuova generazione nel miglior modo possibile, in base al principio ebraico di "Tikkun Olam" (riparare il mondo). Perché oggi, per aiutare il mondo, può bastare uno smartphone.

(Il Messaggero, 4 dicembre 2014)


Fantoni, l'ultimo eroe dimenticato. "Così rischiò per salvare gli ebrei"

di Ernesto Ferrara

Renato Fantoni è un nome perso tra i fogli della rande storia della Resienza di Firenze. Intelttuale antifascista, partigiano e militante liberale, fu il primo assessore alla casa di Palazzo Vecchio negli anni del dopoguerra, del sindaco Pieraccini, della città finalmente liberata dai nazifascisti. Unastrada a Rifredi a lui intitolata ne conserva la memoria. E però, a sessant' anni dalla sua morte, una nuova storia potrebbe cominciare per lui. Uno dei capitoli più eroici eppure semi sconosciuti della sua vita viene oggi riscoperto grazie alla dedizione di suo figlio "adottivo" Piero Sarti Fantoni, e al lavoro di ricerca condotto da Adam Smulevich per conto della rivista dell'ebraismo italiano "Pagine ebraiche", che racconta la storia nel numero di questo mese.
   Dopo la promulgazione delle leggi razziali, negli anni delle deportazioni e delle uccisioni sommarie, quando la caceia all'ebreo era ormai dilagante e anche chi proteggeva i perseguitati rischiava la vita, Fantoni nel 1944 ospitò in casa sua a Pian del Mugnone gli amici Eugenio Artom e Giuliana Treves, sua moglie, insieme al maggiordomo Amedeo, ebrei fiorentini, salvandoli così dai nazifascisti. Subito dopo la guerra, in una dichiarazione ufficiale alla Comunità ebraica dell'immediato dopoguerra (10 maggio 1945), proprio Eugenio menzionò il grande impegno di Fantoni. E qualche anno dopo, il 26 febbraio 1951, Giuliana scrisse alla famiglia Fantoni in segno di gratitudine: «La vostra accoglienza così immediata, affettuosa e senza riserve, oltre alla salvezza materiale, ha ridato col vostro esempio anche la fede nella fratellanza umana».
   Ora quella lettera originale è stata ritrovata da Piero e insieme alla testimonianza di Fortunee Treves, nipote di Giuliana, entrerà a far parte del dossier già pronto per lo Yad Vashem di Gerusalemme, che concede il riconoscimento di Giusto tra le Nazioni a chi salvò ebrei durante gli anni bui.
   Storia di coraggio e umanità ignota ai più. Come del resto quella di Gino Bartali, campionissimo del ciclismo, uno che non le mandava a dire a nessuno, e che pure per decenni non parlò mai, nemmeno alla moglie, di quei dieci mesi tra il settembre del 1943 e il giugno del 1944, quando salvò decine di ebrei fiorentini portandogli documenti falsi, una missione eroica con la regia del cardinale Elia della Costa. Per 50 anni la missione di Gino Bartali rimase un segreto, fino ai primi anni 2000, quando qualcosa cominciò a trapelare, la comunità ebraica fiorentina intercettò la storia, rintracciò un testimone "salvato" e alla fine riuscì ad ottenere, l'anno scorso, il riconoscimento di Giusto per Bartali. Ora potrebbe essere il turno di Fantoni: «Sono pronta a scrivere allo YadVashem. A lasciar loro una testimonianza. Renato Fantoni ha nascosto e salvato i miei cari. È stata una persona straordinaria, un Giusto. E come tale deve essere onorato», dice oggi Fortunee Treves, che in famiglia ha sempre sentito parlare della storia dei suoi zii salvati.
   Racconta l'anziana donna a "Pagine Ebraiche"che proprio Eugenio Artom, in una lettera inviata ai parenti americani nell'autunno del '44 conservata nell'archivio Treves, parla genericamente di «amici liberali» che lo ospitavano con sua moglie. «Gli amici liberali erano i Fantoni», conferma oggi Fortunee. Renato e Artom, amici e compagni nel partito liberale, condividevano anche il lavoro nella compagnia di assicurazioni Fondiaria. «Mio padre Renato, il mio secondo padre, era un uomo straordinario, dette una mano a molte famiglie ebree, come i Campanella. Era una grande persona, si meriterebbe un riconoscimento», dice oggi Piero Sarti Fantoni. Domenica scorsa lui e Fortunee si sono incontrati per un tè e hanno condiviso memorie, foto e lettere che un giorno non troppo lontano potrebbero essere custodite tra le colline di Gerusalemme, nel memoriale dello Yad Vashem. Accanto a un albero in ricordo di Renato Fantonì, salvatore di perseguitati.

(la Repubblica, 4 dicembre 2014)


Lieberman presenta il suo piano

Il progetto viene annunciato oggi a Basilea: la definizione dei confini fra Israele e Palestina sarà frutto di uno scambio di terre e popolazioni che porterà i due Stati ad essere più omogenei.

di Maurizio Molinari

 
Il Ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman
Il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, è in arrivo a Basilea per partecipare ad una riunione dell'Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa (Osce) che lo vedrà illustrare un proprio "approccio" teso ad offrire un nuovo orizzonte allo stagnante negoziato con i palestinesi, per arrivare ad una fine concordata del conflitto con l'intero mondo arabo. E' il quotidiano "Yedioth Aharonot" ad anticipare gli elementi-chiave di "Nuotare contro la corrente", come recita il titolo del testo attribuito al leader del partito "Israel Beiteinu".
   La premessa di Lieberman è la disponibilità a "cedere terra allo Stato palestinese" spiegando di essere arrivato alla conclusione che "l'unità della nazione ebraica si impone sull'integrità della Terra di Israele perché non ci possono essere compromessi sulla coesione di un popolo". Da qui un approccio alla crisi "tridimensionale" ovvero tenendo presenti non solo i palestinesi nei Territori e gli Stati arabi ma anche gli arabi-israeliani che compongono circa il 20 per cento della popolazione dello Stato ebraico. "Un accordo con i palestinesi deve far parte di un'intesa che includerà accordo con gli Stati arabi e scambi di territori e di popolazione con gli arabi-israeliani" recita il testo.
   In concreto ciò significa che gli elementi della proposta di Lieberman sono due. Primo: la pace con i palestinesi avverrà nel quadro di intese analoghe con gli Stati arabi della regione, portando ad una fase di stabilizzazione regionale. Secondo: la definizione dei confini fra Israele e Palestina sarà frutto di uno scambio di terre e popolazioni che porterà i due Stati ad essere più omogenei, includendo dunque gli arabi-israeliani di aree oggi in Israele come Wadi Ara ed il "Triangolo" della Galilea, che avranno la possibilità di decidere se rimanere dove sono e diventare cittadini palestinesi oppure andare via e spostarsi in Israele. E' una visione che porta a suggerire che gli insediamenti ebraici più popolosi della Cisgiordania saranno accorpati a Israele così come i quartieri arabi di Gerusalemme Est alla Palestina. Con conseguenze assai concrete per lo stesso Lieberman perché dovrà lasciare la propria casa nell'insediamento di Nokdim, che non fa parte di quelli più popolosi. L'intento di Lieberman è di risolvere la disputa di Israele "non solo con i palestinesi ma con l'intero mondo arabo" affrontando "le sue tre dimensioni".
   Si tratta di un approccio carico di novità che lo stesso Lieberman esporrà anche a Washington davanti alla platea del "Saban Forum". La scelta di illustrarlo anzitutto nella cornice dell'Osce - dove Lieberman vedrà in un bilaterale il capo della Farnesina, Gentiloni - tradisce la fiducia in un'organizzazione internazionale che riunisce i Paesi degli ex blocchi dell'Est e dell'Ovest e che, terminata la Guerra Fredda, si è trasformata in più occasioni nella sede dove gestire con qualche successo delicati conflitti etnico-nazionali in Europa Orientale e nell'ex Urss. A ciò bisogna aggiungere che la coincidenza con la campagna elettorale in Israele - dove si voterà nel marzo 2015 per la Knesset - trasforma le idee del ministro degli Esteri in un terreno di possibile confronto con Stati arabi e leadership palestinese durante una fase di transizione che porterà ad un congelamento dei contatti formali fra Gerusalemme e Ramallah.

(La Stampa, 4 dicembre 2014)


Nel fortino israeliano dove gli hacker difendono le banche

di Marco Morello

TEL AVIV - Gabriel, ammesso che Gabriel sia davvero il suo nome, sfoggia uno sguardo furbo dietro una montatura trasparente, folti capelli neri chiusi in un codino e un ostinato riserbo sul suo passato. Dice malvolentieri di aver vissuto tra Sudamerica e Stati Uniti prima di arrivare in Israele per combattere i borseggiatori digitali. Il suo mestiere è intrufolarsi nei mercati neri delle carte di credito e in forum blindati, periferie di degrado del web alle quali si accede solo su invito di almeno cinque persone. Di regola predoni di credenziali dei nostri conti bancari, furfanti esperti e avidissimi di cui occorre carpire la fiducia, con pazienza e perizia. per poterli cogliere con le mani nel sacco. Gabriel lavora nell'Afcc, il centro di comando antifrode di Rsa, colosso della sicurezza informatica che tra i suoi clienti ha i principali istituti finanziari del mondo. È un fortino nascosto in un palazzo a vetri identico a molti altri in questo perenne cantiere sul mare che soffoca l'orizzonte dei sobborghi di TelAviv.
   All'interno le porte sono sbarrate da password e tessere magnetiche, la task force opera per 24 ore al giorno, 365 giorni l'anno. Finora, oltre a intercettare i traffici di denaro liquido rubato, ha sventato più di 800 mila attacchi di phishing, malware e affini evitando, solo nel 20l3, perdite complessive per 6 miliardi di dollari in tutto il mondo, Italia inclusa. Merito di un gruppo d'ingegneri ventenni o poco più, sentinelle lestissime con mouse e tastiera: se il grosso del lavoro lo fa un cervellone che scandaglia la rete, per richiedere il blocco di un sito sospetto serve sempre il via libera umano. Solo allora parte una segnalazione a Google, Microsoft e affini e già nel giro di mezz'ora le pagine compromesse diventano inaccessibili dal 95 per cento dei browser. O meglio, gli utenti possono scegliere se visualizzarle a loro rischio e pericolo oppure abbandonarle. L'83 per cento lascia perdere, il 17 per cento va avanti, esponendosi all'eventualità che qualcuno entri nel loro computer trafugando tutto ciò che trova. D'altronde, è una storia vecchissima: contro la nostra imprudenza e ingenuità non c'è super task force che tenga.
   
(Panorama, 4 dicembre 2014)


Attacco all'arma bianca in Cisgiordania. Feriti due israeliani

Due israeliani sono rimasti feriti in un attacco all'arma bianca, condotto da un giovane palestinese in un supermercato alle porte della colonia ebraica di Maale Adumim, in Cisgiordania. L'assalitore, un sedicenne in apparenza senza precedenti penali, è stato fermato insieme a un dipendente dello stesso negozio e a un'altra persona, ritenuti sospetti dalla polizia.
"Due persone sono rimaste gravemente ferite - racconta un soccorritore -. Con ogni probabilità stavano semplicemente facendo la spesa qui al centro commerciale e sono state raggiunte da una serie di colpi, probabilmente di coltello, all'addome e alle braccia. Hanno riportato gravi ferite. Il terrorista è stato messo in condizione di non nuocere. E' stato ferito con un colpo di pistola alla gamba".
Poco più di due settimane fa un violento attacco a una sinagoga di Gerusalemme aveva fatto quattro vittime. Alle crescenti tensioni fra israeliani e palestinesi ha fatto martedì eco il siluramento, da parte del premier israeliano Netanyahu, di due ministri centristi del suo governo.

(euronews, 3 dicembre 2014)


Naor Gilon sarà presente al 13o Raduno Nazionale di EDIPI

L'ambasciatore di Israele in Italia Naor Gilon ha confermato la sua partecipazione al 13o Raduno Nazionale EDIPI. che si terrà a Catania dal 6 all'8 dicembre.
Il suo intervento, previsto per lunedì mattina, verterà sull'attuale sitauzione politico-economica di Israele alla luce delle recenti decisioni di molte nazioni europee nel riconoscere lo stato della Palestina e sul ruolo che l'Italia potrà evere con una sua decisione a favore o meno. Parteciperà inoltre al Think Tank con i rappresentanti del mondo politico e culturale siciliano, tra cui il sindaco della città Enzo Bianco, unitamente al rappresentante di Keren Hayesod Carmel Luzzatto.
Moderatore sarà il past. Ivan Basana, che illustrerà anche le iniziative di EDIPI a favore dei gemellaggi tra chiese evangeliche italiane e congregazioni messianiche, i rapporti con Sar-El (sar-el.org) e le collaudate start-up bibliche (Operazione Carciofi).

(EDIPI, 3 dicembre 2014)


  Ignoranza e menzogna

  Nelle placide acque
  dell'ignoranza passiva
  si muove lo squalo aggressivo
  della menzogna attiva.


Jazz Club Ferrara - Cucina kasher e musica ashkenazita sulle note del Lechaim Ensemble

FERRARA - Venerdì 5 dicembre, a partire dalle ore 20.00, Somethin'Else dispensa prelibatezze della tradizione culinaria kasher per una notte dove protagonista sarà la musica ashkenazita del Lechaim Ensemble formato da Andrea Bartolomeo alla voce, Gianluca Fortini ai clarinetti, Salvatore Sansone alla fisarmonica e Giovanni Tufano alla chitarra e percussioni.
Il genere kletzmer designa la tradizione musicale degli ebrei dell'Europa dell'Est diffusa da piccole orchestre (kapelye) che, itinerando di villaggio in villaggio, hanno mantenuto uno stile inconfondibile pur mescolandosi a polche e mazurche dell'Europa orientale e al rag-time della "Golden Medine" (gli Stati Uniti). Uno stile caratterizzato da quello che gli ebrei ashkenaziti chiamano "il sorriso tra le lacrime" che si traduce nell'alternanza di nostalgici canti senza parole (nigun), danze frenetiche e ritmi orientaleggianti.
Si tratta di una musica presente in ogni attimo di vita: feste, matrimoni, funerali, ecc. Pura espressione di un popolo che si sentiva profondamente polacco, russo, tedesco o americano. Queste sono le atmosfere che ci riserverà il Lechaim (dall'Yiddish 'salute!') Ensamble tra fesenjan (spezzatino di pollo con melograno e noci), deliziosi hamantashen (dolcetti tipici legati alla festività di Purim) e altre portate di un menù che osserva con rigore la kasherut, ovvero l'insieme delle norme che insegnano quali sono i cibi permessi - kasher appunto - e le modalità di preparazione.
Programma

(informazione.it, 3 dicembre 2014)


Monastero francescano a Firenze dichiarato "Casa di vita"

Come riconoscimento all'eroismo delle religiose che rischiarono la vita durante i rastrellamenti del nazismo.

 
I suoi due figli furono accolti una notte e il giorno dopo furono nascosti in un altro monastero toscano perché in quello delle suore Francescane c'erano solo donne.
Le sorelle di Piazza del Carmine rischiavano la vita in ogni momento. Sapevano bene che i tedeschi non tolleravano chi aiutava gli ebrei, a cui erano destinate le camere a gas. Due mesi vissuti in punta di piedi. A volte nascosti nelle cantine. Con la paura di un'irruzione. Di una spiata. Di essere travolti dalla furia nazista.
Poi arrivò la notte della razzia. Quella notte del 27 novembre, verso le 3 del mattino, una pattuglia di circa trenta SS, coadiuvati dai miliziani fascisti, ispezionarono il convento. Stanza per stanza, gridando in tedesco: "Alzatevi!". La maggior parte di quelle donne e i loro figli vennero trovati e portati nel grande salone del teatro.
Una ragazza (Lea Lowenwirth-Reuveni) si offrì come interprete in tedesco e francese e riuscì a liberarne parecchie facendo credere ai nazi che erano donne ungheresi senza documenti. In totale, si salvarono una trentina di donne e bambine.
Nella confusione generale, una donna venne catturata da un SS. Lei stava con suo figlio, Isacco. In un gesto estremo, lasciò cadere il suo bambino ai piedi di una suora, senza che i tedeschi se ne rendessero conto. La suora prontamente nascose il bambino sotto le sue gonne, salvandogli la vita. Quel bambino, oggi è un padre di famiglia in Israele.
Le donne deportate furono prima recluse nelle carceri fiorentine e poi trasferite a Verona. Vennero infine istradate verso il campo di Auschwitz-Birkenau da dove non fecero più ritorno. In quel luogo di sterminio Wanda raggiunse suo marito, il rabbino Riccardo, dove i due persero la vita. Il loro nipote, figlio del bambino salvato dalle suore, si chiama Riccardo, ed è oggi il presidente della Comunità Ebraica di Roma.
Nella cerimonia di consegna della targa che ricorda l'opera delle Suore Francescane di Firenze, il 19 novembre hanno partecipato la religiosa che ha succeduto madre Ester, suor Vera Pandolfi, il rabbino capo di Firenze, Joseph Levi, e la presidente della Comunità ebraica fiorentina Sara Cividalli, i cui cari furono nascosti a poche decine di metri dall'istituto.
"Questa manifestazione è un monito che ci serve per il presente - ha spiegato il rabbino Levi -. Noi dobbiamo continuare a riflettere e divulgare una cultura che educa e che riesce a creare un altro tipo di umanità. Ci possono essere conflitti, disaccordi, ma non ci debbono mai portare a questa possibilità di andare oltre il limite dell'uomo. Questo è successo nella Shoah. La violenza è stata legittimata con mille motivi. Questo non deve accadere più. E noi stiamo qui a mandare questo messaggio all'umanità intera: tutti, credenti in tutte le religioni".

(Aleteia, 3 dicembre 2014)


2.564 profughi palestinesi uccisi in Siria dall'inizio della guerra

Sono 2.564 i profughi palestinesi morti in Siria dall'inizio della guerra al 30 novembre 2014. I dati sono stati forniti dal Gruppo di Azione per i palestinesi della Siria, vicino all'opposizione. Secondo l'organizzazione, sono 336 le donne e i bambini uccisi durante il conflitto, il sette per cento sul totale delle vittime.
In un comunicato stampa, il Gruppo di Azione per i palestinesi della Siria ha affermato che i residenti del campo profughi di Yarmouk, nella periferia di Damasco, sopportano condizioni di vita molto difficili. Manca l' assistenza sanitaria e la popolazione è costretta a subire continui tagli nella fornitura d'acqua, non ultimo quello durato ben 85 giorni.
I residenti del campo profughi non sono stati in grado di avere un regolare approvvigionamento di cibo, combustibili ed energia elettrica per riscaldare le case. I campi profughi in Siria, in particolare quello di Yarmouk, sono stati direttamente coinvolti nelle operazioni militari e nei combattimenti tra l'esercito governativo da un lato e i ribelli dall'altro.
Nel conflitto c'è stata anche una frattura tra le fazioni palestinesi attive nel campo, con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che si è schierato al fianco del governo di Damasco contro i ribelli del Esercito Libero Siriano e i miliziani jihadisti e salafiti.

(sponda sud news, 3 dicembre 2014)


Questi però non sono morti palestinesi interessanti, perché non sono stati uccisi da israeliani. Per questi non si creano associazioni di sostegno, contro i loro uccisori non si boicotta, per loro non si spediscono flottiglie di liberazione. "Voi non siete per il popolo palestinese, voi siete contro Israele", ha detto l'ambasciatore israeliano all'Onu. Che cosa c’è di più chiaro? L’ipocrisia è evidente. Solo gli ipocriti non la vedono. M.C.


La guerra di Gerusalemme
Seconda parte di un'inchiesta in tre puntate da Israele, alle prese con il fantasma della Terza Intifada.


Il capo della polizia ha chiesto ai turisti di tomare nella Città Vecchia., ma le strade sono deserte. La linea ferroviaria, un tempo simbolo di unità, si svuota d'improvviso di ebrei quando si arriva nei quartieri arabi. Nei "tunnel della santità" si scava in continuazione. Si arriva vicinissimi a dove si conservava l'Arca dell'Alleanza. La sinagoga della strage è piena anche di notte. Israele si prepara al voto in un clima di silenzio e paura.

di Giulio Meotti

Di notte, la sinagoga in via Agassi ad Har Nof è piena di insegnanti e di studenti. Gli sguardi degli ebrei ultraortodossi sono diffidenti. Non ci sono guardie all'ingresso dell'edificio. A memoria della strage di due settimane fa, costata la vita a quattro rabbini di Gerusalemme, ci sono soltanto tre fori di proiettile nella porta di ingresso. Si distribuiscono volantini per i memoriali. "Nella sedia dove lei è seduto ho studiato io per anni", racconta al Foglio il rabbino Nadler Avraham, originario di New York, come tre delle vittime. "La sera della strage sono scampato soltanto perché ero in un'altra sinagoga. Noi vediamo la mano di Dio ovunque. Nell'attentato in particolare: i rabbini uccisi sono stati chiamati da Dio a nome della comunità e del mondo intero. Erano persone elevate, perché cadono sempre i migliori di noi". E' stato un pogrom, come quello in Polonia a Kielce nel 1946. "Come i massacri di ebrei in Lituania e Polonia, con asce e coltelli. I terroristi hanno colpito noi religiosi perché siamo simboli di unità e fratellanza. Dobbiamo crescere dopo l'attacco, il terrorismo ci rafforzerà".
   E mentre monta quella che Nahum Barnea su Yedioth Ahronoth ha definito "la guerra per Gerusalemme", implode la coalizione di governo del premier Benjamin Netanyahu. Il paese potrebbe tornare a votare a marzo. Il primo ministro vaglia una nuova alleanza con gli ultraortodossi, esclusi dall'ultima compagine governativa a vantaggio dei laici di Yair Lapid, con cui il premier adesso è in rotta. La popolarità di "Bibi" è in declino e a destra l'astro in ascesa è quello di Naftali Bennett, leader di "Focolare Ebraico". A sinistra non c'è nessuno, a parte il pallido laburista Yitzhak Herzog.
   "lo vedo l'Intifada negli occhi dei gerusalemitani, nell'ansia con cui salutano i figli che vanno a scuola, nella scomparsa degli arabi dai quartieri ebraici e degli ebrei dai quartieri arabi", scrive Barnea. "La sento nella quiete depressiva discesa sulla città". Barnea ha ragione. A visitare Gerusalemme ci si accorge subito che se la parte occidentale è robusta, piena di vita e in smaniosa costruzione, nelle strade della vecchia Gerusalemme e dei quartieri misti resta impressa nella memoria la visione desolante delle scritte sui negozi, le stelle di Davide, "ebrei al gas", e poi gli occhi di militari, appena ragazzi che hanno accettato di vivere alla giornata, la tristezza di quei "good luck" pronunciati forse più per se stessi, in un'atmosfera
Il capo della polizia, Yohanan Danino, ha chiesto ai turisti di tornare nella Città Vecchia. Ma per le strade non c'è nessuno. Troppi accoltellamenti. Tutte le ultime vittime erano ebrei religiosi.
grave, quale non avevamo mai vissuto, nemmeno negli anni alla vigilia di eventi gravissimi. In questi giorni i quartieri più a rischio di Gerusalemme sono sorvolati da tre palloni aerostatici. Servono a monitorare le violenze palestinesi.
Il capo della polizia, Yohanan Danino, ha chiesto ai turisti di tornare nella Città Vecchia. Ma per le strade non c'è nessuno. Troppi accoltellamenti. Tutte le ultime vittime erano ebrei religiosi. Soltanto tre o quattro pellegrini che cercano la via giusta per raggiungere la chiesa del Santo Sepolcro che una volta non era necessario cercare perché ti ci portava il flusso della folla. Ogni tanto un gattino spaurito fruga nelle immondizie agli angoli delle viuzze, un tempo piene di mistica suggestione, e di colore. L'inquietudine più grande viene dai militari che pattugliano ogni isolato. L'esercito israeliano ne ha dislocati a centinaia in questo lento e periclitante inizio di Terza Intifada.
   In città capita di vedere militari israeliani in abiti civili e col volto coperto. Sono i membri della Duvdevan e della Yamas, le unità dell'esercito e della polizia israeliana che si servono di uomini mimetizzati nella società araba, al fine di catturare i terroristi "prima che possano colpire". La loro esistenza venne resa nota al mondo nel 1991, quando l'allora capo di stato maggiore dell'esercito, Ehud Barak, disse: "Sia chiaro ai palestinesi che partecipano al terrorismo contro Israele che nulla è sicuro, non l'automobile che vedono nella strada e non la persona che cammina accanto a loro". In ebraico sono noti come "mistaarvim", in arabo "rnusta'rabeen", Il motto dell'unità è preso dai Proverbi biblici 24:6, "E' con gli stratagemmi che andrai alla guerra". Duvdevan vuol dire ciliegia. Un tipo particolare di ciliegia, bella fuori ma velenosa dentro.
   L'unità venne fondata da Uri Bar Lev, che aveva perso la gamba sotto il ginocchio nella guerra del Libano degli anni Ottanta. Stava guidando verso casa con la moglie e i quattro figli, quando d'improvviso arrivò una telefonata. Una cellula di terroristi era in viaggio per colpire una sinagoga di Gerusalemme. L'ordine è chiaro: "Intercetta la macchina". Bar Lev va verso Gerusalemme, conoscendo soltanto il colore dell'auto e le ultime tre cifre della targa. Si ferma a un semaforo vicino alla sinagoga, che sa essere l'obiettivo dell'attentato. L'arresto dei tre palestinesi avviene con successo, c'era davvero una bomba nell'auto e Bar Lev salvò decine di persone quel giorno. Però gli venne una idea: perché non creare una unità speciale che si occupa di questo, di antiterrorismo ai livelli più alti e arditi? Rami Gershon testimoniò così pubblicamente dell'esistenza di questa unità. "Sì, liquidiamo. Sì, noi li liquidiamo. Se non liquidiamo, se io non elimino chiunque mi si chieda di liquidare attraverso l'unità Duvdevan, allora mi ritrovo con un
La linea ferroviaria che arriva a Gerusalemme, da simbolo di pace e fratellanza interreligiosa, è diventata una linea fantasma. Appena si arriva alla "Collina delle munizioni", gli ebrei scendono dal treno. Restano solo gli arabi. Nessuna confidenza, prego.
autobus che esplode e con diciassette ragazzini israeliani liquidati". Sono stati loro a liquidare i terroristi di Jabel Mukaber che hanno ucciso i quattro rabbini di Har Nof.
La linea ferroviaria che arriva a Gerusalemme, da simbolo di pace e fratellanza interreligiosa, è diventata una linea fantasma. Appena si arriva alla "Collina delle munizioni", gli ebrei scendono dal treno. Restano solo gli arabi. Nessuna confidenza, prego. Il convoglio è preso a sassate e molotov quasi ogni sera. In tutto, sono stati danneggiati 150 vagoni. C'è il venti per cento in meno di passeggeri rispetto a prima dell'estate, quando tre studenti israeliani furono uccisi e il paese discese nella paura. Tutti gli ultimi attentati sono stati compiuti da palestinesi con cittadinanza israeliana: avevano un lavoro, non dovevano chiedere permessi, né attraversare checkpoint. Nessuna organizzazione terroristica aveva loro chiesto di agire. "Soltanto" Allah.
   E' cupa l'atmosfera verso il muro "del Pianto". Quella che una volta era una bella piazza che si apriva agli occhi come uno spettacolo indimenticabile, ora è protetta come un aeroporto e a malapena ci sono venti fedeli alle quattro del pomeriggio. I palazzi attorno emanano il brusio di migliaia di radio e di televisioni: resteranno accese per ore. Non lontano c'è il Ternple Institute, l'organizzazione ebraica dell'ascesa alla Spianata delle Moschee, che gli ebrei chiamano Monte del Tempio. E' il fazzoletto di terra più conteso e santo del mondo. In questo istituto sono custoditi i corredi per il servizio rituale nel Monte. Ci sono le vesti del sommo sacerdote, il "tavolo del pani" (Esodo 25:30), gli strumenti musicali, un grande lampadario, e un piccolo altare.
   I vasi sono conservati in teche di vetro, insieme a dipinti a olio che raffigurano scene di vita del Tempio. Mancano l'Arca dell'Alleanza, che non può essere ricostruita perché conteneva la tavole di pietra del monte Sinai, e l'enorme altare esterno, su cui venivano eseguiti i sacrifici. Nel frattempo, l'istituto sta cercando di costruire un altare mobile. Ma il lavoro è complicato, perché l'altare deve essere fatto di pietre speciali e gli esperti dell'istituto stanno raschiando il mar Morto in cerca di materiale per il progetto. La ricostruzione dei vasi, alcuni dei quali sono fatti di oro, costa milioni di dollari. Il denaro arriva tutto da filantropi. In attesa del Tempio si accontenterebbero di poter pregare nel Monte. Un mese fa un rabbino di questa organizzazione, Yehuda Glick, stava per pagare con la vita per questo sogno. Un arabo di Gerusalemme lo ha quasi ucciso mentre Glick teneva una conferenza al Begin Center. Tre colpi di pistola. Glick era un ebreo tipicamente gerusalemitano, con la barba rossa, l'empatia personale e la passione fanatica per una singola idea. Salire al Monte. Dopo l'attentato sono uscite fotografie di Glick sulla Spianata delle Moschee mentre prega assieme ad alcuni imam. Poi la sera tornava dagli otto figli nell'insediamento di Otniel, presso Hebron, l'altra città santa contesa.
   Tempio? Nel XXI secolo? Un luogo talmente sacro che nel 1983 persino la compagnia di bandiera israeliana El Al diede ordine ai piloti di non sorvolare il Monte del Tempio perché la sacralità del luogo si proietta fino al cielo sovrastante. Ma i fatti per questi nuovi zeloti hanno l'indiscutibile consistenza della pietra. Anzi, sono pietra: la prima del Terzo Tempio, la pietra angolare della rinascita di Israele. Ogni anno salgono sempre più in alto, penetrando sempre più a fondo nella coscienza religiosa del paese. Ogni anno più vicini alla moschea della Roccia, costruita sulla cima del Monte Moriah, quello su cui Abramo stava per
;Nel 1967, durante la guerra dei Sei Giorni, Israele riconquistò la Spianata, sulla Moschea sventolava la bandiera bianca e blu di Israele. Elettrizzanti arrivarono le grida del comandante Motta Gur: "Il monte del Tempio è in mano nostra! " Ma Moshe Dayan la fece ammainare, e restituì ai musulmani le chiavi.
sacrificare Isacco prima che l'Altissimo lo fermasse. E fu proprio qui che nel 1951 un estremista islamico uccise il re di Giordania Abdallah, in un attentato cui sfuggì miracolosamente il figlio e successore re Hussein.
Nel 1967, durante la guerra dei Sei Giorni, dopo che la Legione Araba aveva piazzato sul Tempio le sue batterie, Israele riconquistò la Spianata, sulla Moschea sventolava la bandiera bianca e blu di Israele. Elettrizzanti arrivarono le grida del comandante Motta Gur: "Il monte del Tempio è in mano nostra! Il monte del Tempio è in mano nostra!". Ma Moshe Dayan la fece ammainare, e restituì ai musulmani le chiavi: "Se lascio la bandiera sul Monte, domani verranno a pregarci, poi ci sarà una sinagoga, poi i sacrifici e in futuro vorranno costruire il tempio, che il cielo non voglia". Dayan disse di averlo fatto per assicurare la libertà di culto: in realtà, con quella decisione deluse le aspettative dell'intero popolo ebraico. Abbandonò un obiettivo inseguito da milleottocento anni.
   Si impose quello che oggi è considerato lo "status quo": così che soltanto i musulmani possono pregare lassù e gli ebrei religiosi sono seguiti dalla polizia e arrestati anche se soltanto sillabano un Salmo a labbra socchiuse. Gli ebrei possono essere arrestati se sostano, se portano con sé libri religiosi, se piegano la testa in segno di umiltà di fronte a Dio, se tirano fuori un foglio di carta dal portafogli o persino se chiudono gli occhi, in segno di raccoglimento. Capostipite di questo movimento è un eroe delle teste di cuoio dell'esercito, Gershom Solomon. Per comprendere appieno la sua tenacia bisogna tornare a un episodio avvenuto nel 1958 alle pendici del Golan. Una piccola unità di Tsahal cadde in una imboscata siriana e Salomon rimase ferito gravemente. I compagni lo diedero per spacciato, ma i medici lo salvarono. Dopo un ricovero di un anno, chiese e ottenne di riprendere il servizio attivo. Tornò a guidare una unità di élite dopo aver scalato la rupe desertica della fortezza di Masada, puntandosi sulle sue stampelle. I giornali di allora gli dedicarono grandi titoli e sconfinata ammirazione.
   Il don Chisciotte dell'estrema destra israeliana avrebbe perso tutte le battaglie giuridiche per pregare sulla Spianata, eppure la sua battaglia ha dato frutti. Se negli anni Settanta sembrava infatti un personaggio eccentrico, oggi le sue idee hanno messo radici in importanti settori politici e religiosi israeliani. Così nel Council for the Prevention of Destruction of Antiquities on the Ternple Mount compaiono anche due icone della sinistra come gli scrittori Abraham B. Yehoshua e Amos Oz.
   Il professor Hillel Weiss della Bar Ilan University, a capo dei "Friends of the Temple'', ci spiega che "l'obiettivo oggi è la liberalizzazione della preghiera sul Monte del Tempio. La guerra del 1967 ha dato significato a questo movimento, attraverso il ritorno in Israele delle settanta nazioni. Il 1967 ha dimostrato che Hashem (il nome di Dio per gli ebrei, ndr) mantiene la sua promessa. L'umanità e Israele non possono negare che siamo nel mezzo di un processo storico".
   Secondo questi ebrei, l'acqua mescolata con la cenere di una giovenca rossa può purificare gli ebrei dell'impurità e possono ascendere al Monte. La tradizione vuole che ci siano state soltanto nove giovenche
 
Rabbi Chaim Richman, direttore del Temple Mount Institute
Esemplare di mucca rossa
rosse e che la decima apparirà alla venuta del Messia. Un grande esperto della mucca rossa è il rabbino Chaim Richman, che con la sua lunga barba oggi dirige il Temple Mount Institute. E' il leader del movimento del ritorno alla montagna incantata di Gerusalemme. "Dal tempo della distruzione del Tempio, attraverso la conquista islamica e fino al dominio crociato, gli ebrei hanno sempre visitato il Monte del Tempio per pregarvi'', spiega Richman al Foglio. "Non al Muro del Pianto. Dalla liberazione del Monte e dall'unificazione di Gerusalemme nella guerra dei Sei Giorni, generazioni di israeliani hanno appreso che il Monte era un luogo santo islamico. Oggi la preghiera è concentrata al Muro, che non ha in realtà legami con il Tempio. Ma da tempo rabbini di importante personalità e levatura sostengono la pratica dell'ascesa al Monte. Quello che ieri era considerato 'estremista' ed 'eccentrico', oggi è mainstrearn'',
   Appena vent'anni fa, era il 1993, il rabbino capo Mordechai Elyahu disse che era ridicolo pensare di ricostruire il tempio perché questo sarebbe "calato dal cielo". "Negli anni scorsi c'è stato un incremento del 30 per cento di visitatori ebraici al Monte", ci spiega Richman. "Perché il messaggio universale della Torah è ristabilire il Sacro Tempio sul Monte Moriah, è questo l'elemento decisivo di ogni profezia ebraica. Nel frattempo, il fine immediato e pratico è correggere il bando discriminatorio della preghiera non islamica sul Monte". Il rabbino Richman non vede questo come una provocazione incendiaria, ma come un messaggio di pace. "Il Monte del Tempio è l'àncora della storia e dell'identità ebraica. Sarebbe impensabile per Israele dare via questo luogo. Sarebbe come strappare il cuore di una nazione. Renderebbe privo di significato ogni sacrificio compiuto dal popolo ebraico. Da lì deve emanarsi il messaggio di compassione, speranza e unità di Israele al resto del mondo".
   Uno dei segreti di questa nuova guerra per Gerusalemme è custodito sotto terra. A pochi metri dal Muro del Pianto si scendono gli scalini dei "tunnel della santità", quelli che in attesa messianica del Terzo Tempio più si avvicinano al Sancta Sanctorum, al quale poteva accedere soltanto il sommo sacerdote il giorno di Kippur. Ai tunnel si lavora in continuazione sin da quando, vent'anni fa, l'inizio degli scavi causò una mini Intifada con morti da entrambe le parti. La nostra guida è un giovane ebreo di New York di nome Gili. E' arrivato in Israele quattro anni fa, ma sembra che sia di casa qui da sempre. Per impressionare i visitatori ogni tanto cantilena in ebraico, ispirato dalle Scritture.
   Fra tralicci di ferro e scale improvvisate, rocce squarciate in fretta e improbabili ponteggi, è come se l'ultima parte dello scavo fosse stata condotta in accelerazione. Finisce su un bagno rituale, serviva per purificarsi prima di ascendere. L'ultimo tratto, quello che ha scatenato la reazione musulmana, si allontana dalle fondamenta del Tempio, le trascura quasi, si avventura lungo un percorso che dall'interno e difficile decifrare ma sembra tracciato da un ragno impazzito. Decine di donne ebree pregano agli angoli dei tunnel, il volto immerso nei Tehillim, i Salmi di Davide. C'è chi chiede un figlio, chi protezione, chi una cura per i malati. Un cartello informa: "E' il posto più vicino al Sancta Sanctorum", ossia al luogo più segreto di Gerusalemme. Questi scavi sono stati finanziati da Elias ed Emilia Cojab.
Sotto tutto sembra impennarsi, dirigersi frettoloso verso l'alto, come se il peso di quei massi imponesse un sollievo, una dantesca rincorsa verso le stelle momentaneamente sostituite dal cielo color cobalto di Gerusalemme. Un cielo bellissimo. Arrampicatisi lungo l'ultima ripida scala, bisogna passare attraverso una porta girevole fatta a sbarre, che a ogni quarto di giro emette un gemito, come in un censimento dei sopravvissuti.
   Uscendo dal tunnel, avverti come una liberazione quasi fisica. Ma fuori c'è la guerra. Domani nuovo appuntamento a mezzogiorno per salire sulla montagna incantata di Israele. Il picco della metropoli della morte e della resurrezione.
(2. Continua)

(Il Foglio, 3 dicembre 2014)


Nel sud d'Israele, mentre a Gerusalemme si litiga
Prima parte di un'inchiesta in tre puntate da Israele, alle prese con il fantasma della Terza Intifada. Presentata martedì in forma incompleta


Dal confine sud dello stato ebraico si sperimenta il terrore, la sofisticata guerra agli israeliani: "I terroristi vogliono tutto e a noi ebrei cosa resta? Il mare".

di Giulio Meotti

 
La situazione d'Israele è tragica. Ottocento chilometri di confini terrestri, senza difese naturali. E in questa specie di Lombardia allungata, che è come se si estendesse dalle Alpi a Roma, la geografia della paura non ha risparmi da fare sulla mappa dello stato ebraico: dalla frontiera con il Libano, a nord, fino ai deserti del Sinai e Gaza, nell'ultimo sud, la vita di tutti, qui, si accompagna ogni giorno al fantasma dell'insicurezza. Il governo di Benjamin Netanyahu è diviso, fino al rischio di nuove elezioni, sulla legge che dovrebbe sancire che Israele è "lo Stato della Nazione ebraica". Una legge che giunge in mesi in cui in Israele le relazioni fra la maggioranza ebraica e la minoranza arabo-palestinese sono molto tese (scuole miste incendiate, attentati, caos nei Territori). Contro la legge si sono schierati due ministri, Yair Lapid (Finanze) e Tzipi Livni (Giustizia).
   L'esecutivo è diviso anche sulla legge che annullerà la residenza e gli assegni della previdenza sociale a quanti siano coinvolti "in attività terroristiche e in incitamenti alla violenza". Se c'è una regione che incarna più delle altre l'assedio a Israele è quella meridionale. E' fertile la pianura che conduce alla "Gaza Belt". Sono infinite le distese bruciate in una gamma di colori dal giallo, al marrone al grigio. Come smeraldi nella polvere rossastra, di tanto in tanto spiccano i riquadri verdi dei kibbutz, simboli dell'eroismo. Qui la distanza da Gaza gli israeliani la misurano col tempo, non in metri. E' il tempo che ti serve per trovare un riparo antimissile quando suona la sirena.
    Affacciata su Gaza è Sderot, una cittadina di 25 mila abitanti che nella mente degli israeliani è sinonimo di povertà e di pericolo. Sderot ha, infatti, il più alto numero al mondo pro capite di rifugi antimissile: duecento. Per questo la chiamano "Sderoket". Perché a oggi sono caduti sulla città 8.600 missili da Gaza. Nella stazione di polizia locale, i resti dei missili di Hamas sono contrassegnati in giallo, quelli del jihad islamico in grigio. Dal 2009 a oggi, dopo l'operazione Piombo Fuso, il governo israeliano ha investito 120 milioni di dollari a Sderot per fornire a ogni abitante un rifugio. La sicurezza drena il venti per cento del prodotto interno lordo d'Israele, persino più della sanità. La guerra costa. "I cieli a Sderot fanno pace fra di loro e cadono", recita una poesia di Shimon Adaf, uno scrittore di Sderot che ha appena vinto il premio Sapiro, il maggiore riconoscimento letterario israeliano.
    Affacciata su Gaza è Sderot, una cittadina di 25 mila abitanti che nella mente degli israeliani è sinonimo di povertà e di pericolo. Sderot ha, infatti, il più alto numero al mondo pro capite di rifugi antimissile: duecento. Per questo la chiamano "Sderoket". Perché a oggi sono caduti sulla città 8.600 missili da Gaza. Nella stazione di polizia locale, i resti dei missili di Hamas sono contrassegnati in giallo, quelli del jihad islamico in grigio. Dal 2009 a oggi, dopo l'operazione Piombo Fuso, il governo israeliano ha investito 120 milioni di dollari a Sderot per fornire a ogni abitante un rifugio. La sicurezza drena il venti per cento del prodotto interno lordo d'Israele, persino più della sanità. La guerra costa. "I cieli a Sderot fanno pace fra di loro e cadono", recita una poesia di Shimon Adaf, uno scrittore di Sderot che ha appena vinto il premio Sapiro, il maggiore riconoscimento letterario israeliano.
   "Sderot è la linea del fronte di Israele e Israele è la linea del fronte dell'Europa". Così parla al Foglio Avi Suleimani, che dirige il centro comunitario della "città più bombardata del mondo", come è stata ribattezzata Sderot. Visitiamo la città con una delegazione del ministero degli Esteri di Gerusalemme. Il centro di controllo della città è sotto un bunker antimissile e monitora con le videocamere quello che accade in ogni angolo della città. "Mai quanto oggi la vita è difficile a Sderot, e io lo dico perché sono nato qui", dice Suleimani. "Ogni casa ed edificio a Sderot sarà protetto da barriere antimissile. Ci siamo ritirati da Gaza con i coloni nel 2005 e Hamas l'ha interpretato come un gesto di debolezza. Mentre parliamo, nuovi missili arrivano da Iran e Russia per Hamas. Un tunnel di Hamas nell'ultima guerra venne scavato dai terroristi fino a duecento metri dai confini della città. Ma nonostante tutto, loro distruggono e noi ricostruiamo". Nel 1956 i fedayn di Gaza entrarono a Sderot e uccisero cinque israeliani in un parco. Per questo lo hanno chiamato "il parco dei cinque". "Oggi Hamas lancia missili su questo parco", dice Suleimani. Un altro parco in città porta il nome di Afik Zahavi-Ohayon, il bambino israeliano di quattro anni che divenne la prima vittima in città dei razzi di Hamas.
   A Sderot l'architetto Ami Shinar ha appena inaugurato la nuova stazione dei treni. E' tutta completamente a prova di missile. Ma si è cercato di non dare l'impressione di un bunker, così sembra un trapezio postmoderno. Il National Security Council israeliano ha appena presentato un progetto di linea
Di recente a Sderot è stato inaugurato un parco giochi per bambini dentro una struttura antimissile. Gran parte dei fondi è arrivata dal Jewish National Fund, ma anche dai cristiani evangelici americani di John Hagee.
ferroviaria che passa vicino al valico di Erez. Non appena il treno raggiunge l'area per servire i kibbutzim e i villaggi della zona, il convoglio viene scortato da un treno antimissile. Di recente a Sderot è stato inaugurato anche un parco giochi per bambini dentro una struttura antimissile. Gran parte dei fondi è arrivata dal Jewish National Fund, ma anche dai cristiani evangelici americani di John Hagee. A Sderot molti automobilisti non indossano la cintura così che possano uscire dalla macchina in caso di allarme. Perché chi vive in città ha soltanto quindici secondi per trovare riparo. Chi guida a Sderot deve farlo con il finestrino abbassato: così si sente bene l'allarme quando squilla. In questo caso l'automobilista deve scendere dall'auto e sdraiarsi a terra, anche se piove. Una generazione di bambini nati e cresciuti a Sderot è clinicamente considerata in "regressione", ovvero non vogliono dormire più da soli, vanno male a scuola, hanno il timore di lasciare le case.
   Un recente studio del vicino Sapir Academic College rivela che "il 75 per cento degli abitanti di Sderot soffre di stress post traumatico". Qui gli psicofarmaci sono importanti, aiutano la gente assediata a vivere meglio: Lorivan, Clonex e Valium, i tranquillanti di tipo benzodiazepine subito dopo un bombardamento; Seroxat, Cipralex e Cymbalta, gli antidepressivi per la terapia più lunga; e le autentiche psicosi sono trattate con neurolettici come Zyprexa, Geodon, Clopixol. Eppure, da Sderot in pochi se ne sono andati. Per motivi economici, come durante l'Olocausto: solo i ricchi se ne vanno. E poi, per andare dove?
   Israele è come Pompei, vive come alle pendici di un vulcano. E' nel sud ebraico che si tocca con mano l'insicurezza, l'accerchiamento e l'angoscia permanente di Israele. Una analista di alto profilo del ministero degli Esteri israeliano ci spiega che "la 'primavera araba' è stata come la caduta dell'Unione sovietica, ha messo in discussione tutto il vecchio medio oriente". Per Israele, questo ha significato una drammatica escalation per la sicurezza. "Il Sinai oggi è un hub mondiale del jihad. L'Isis è al confine meridionale di Israele. Negli anni Settanta fu smantellato tutto l'apparato di sicurezza di frontiere al confine egiziano. Oggi lo stiamo ricostruendo. E per la prima volta, al nord, con la Siria, abbiamo al Qaida a duecento metri dalle case israeliane".
   Intanto, a pochi chilometri da Sderot, al valico di Erez, i palestinesi hanno ripreso a varcare il confine. Erez, che assomiglia a un aeroporto solo che è senza passeggeri, è l'unico passaggio per i palestinesi che vogliono entrare da Gaza in Israele. Alla divisione economica di Tsahal, l'esercito israeliano, a pochi metri dalla Striscia, ci spiegano cosa stanno facendo dopo la guerra di questa estate: "Alcuni giorni fa cinquanta
I supermercati di Gaza oggi sono pieni di beni, non manca nulla. Ogni giorno pazienti palestinesi si curano in Israele. Dieci linee elettriche israeliane riforniscono Gaza di energia. Cinque milioni di metri cubi di acqua entrano ogni anno a Gaza.
commercianti agricoli di Gaza sono entrati in Israele per incontrare rappresentanti del ministero dell'Agricoltura israeliano e discutere di fertilizzanti. 350 camion ogni giorno passano da Israele a Gaza per portare cibo, materiale edile, tutto. I supermercati di Gaza oggi sono pieni di beni, non manca nulla. Ogni giorno pazienti palestinesi si curano in Israele. Dieci linee elettriche israeliane riforniscono Gaza di energia. Cinque milioni di metri cubi di acqua entrano ogni anno a Gaza. Sempre noi forniamo la linea di fibra ottica. Il cinquanta per cento delle case palestinesi oggi ha la connessione internet". Shlomo Zahan, direttore del valico di Erez, ci spiega che "700, 800 palestinesi ogni giorno passano da Erez, ma Hamas fa di tutto per impedirlo, sarebbe come ammettere che Israele è responsabile delle loro vite".
   Iron Dome, la muraglia d'acciaio, protegge il futuristico edificio del valico di Erez, ma non i kibbutz vicini. Durante l'ultima guerra, il settanta per cento dei trentamila israeliani che vivevano qui ha abbandonato le case. Sono fuggiti in auto, "ricollocati" dallo stato, ospitati da parenti nel nord. E' stato un assaggio di cosa intendono i nemici di Israele quando parlano di "fine dello stato ebraico". Nel kibbutz Nahal Oz non è rimasto nessuno. In tre giorni, quattrocento famiglie hanno chiesto di andarsene. Le strade israeliane a ridosso di Gaza sono state ridisegnate con delle curve per ingannare i missili al laser lanciati dai terroristi. Sono stati aggiunti alberi, anche alla linea ferroviaria. Le chiamano "foreste difensive". I colpi di mortaio sono così frequenti che in ebraico sono stati ribattezzati "tiftuf", pioggerellina. Oggi Nahal Oz sembra una fortificazione militare. L'asilo nido non è neppure visibile dietro al muro di cemento armato alto oltre dieci metri. Nel kibbutz, ogni barriera è stata decorata con fiori, alberi, disegni, per renderla meno angusta.
   Kobi Barkai è stato per vent'anni consulente agricolo dei kibbutz della regione di Gaza. Vive a un tiro di schioppo da Gaza, nel moshav Nir, fondato nel 1949 da ebrei cecoslovacchi. "Venni a vivere qui nel settembre 1986, con mia moglie e mio figlio di quattro anni", racconta Barkai al Foglio. "Mio figlio è cresciuto in un ambiente pastorale, nonostante due palestinesi avessero appena rapito e ucciso un soldato che aspettava l'autobus. Non c'era rabbia o paura per i palestinesi. Una coppia di Gaza veniva a lavorare nel nostro moshav, compreso un giardiniere che lavorava nell'asilo. lo ero un esperto di pesticidi e mi recavo ovunque, da Eilat a Sderot. In quel tempo andavo spesso a Gaza senza pensare che qualcosa di male potesse succedermi. Quattro anni dopo, è nata la mia figlia maggiore e poi un'altra. A quel tempo la vita era bellissima, la gente lavorava per rendere pacifico questo posto e verde. Tonnellate di prodotti agricoli da qui sono partiti per l'Europa e gli Stati Uniti".
   Un tempo in cui i kibbutznikim della zona pensavano che i palestinesi volessero concentrare i loro attacchi alle colonie di Gush Katif, a Gaza. "Poi però Hamas ha trovato un nuovo modo per fare la guerra agli israeliani, lanciando missili sui kibbutz attorno e sulle città, usando Gaza come scudo vivente contro l'esercito israeliano. Entrambe le mie figlie sono state esposte al lancio di missili, diventati una routine. La loro scuola è stata danneggiata dalle bombe, uno choc terribile. Cercavamo di convincerle che la gente a Gaza era buona e che soffriva i terroristi come noi. Ma la nostra capacità di influenzare le loro idee diventava sempre più debole". Kobi, nonostante tutto, non perde la speranza. "Qui pensiamo ancora che la pace un giorno verrà nella nostra regione e forse in tutto il medio oriente. Ci volteremo indietro a questi giorni e penseremo, 'che spreco di vite'''.
   Vicino c'è Ashdod, la biblica città scomparsa, rinata con un triplice scopo: rompere la dipendenza dell'intero paese dall'unico grande porto di Haifa all'estremo nord; in particolare, ricevere, essa, con ben più breve percorso, il petrolio dell'oleodotto da Eilat; assorbire direttamente il traffico della Giudea e della vicina Gerusalemme.
   Poi c'è Ashkelon. Durante l'ultima guerra di Hamas a Israele, Ashkelon è stata martellata giorno e notte dai missili. E' l'Ascalona dei Crociati e dei poemi cavallereschi, dove lo sviluppo industriale si urta non solo contro il deserto o il mare ma contro la più inconsueta delle difficoltà: un sottosuolo troppo ricco di tesori
"Credevo nell'accordo di pace fino a che i coloni di Gaza non hanno lasciato le loro case. I terroristi lanciavano missili anche prima, ma adesso è sempre più intenso. Siamo persi. Non vorrei mai oggi essere ebrea in Europa, non voglio sentire più quel 'voi'. Obama ci ha castrato e non abbiamo nessuno fra gli arabi con cui dialogare".
archeologici di ogni tempo appena coperti da un velo di sabbia. Per proteggere i ricordi di ieri, i costruttori di oggi hanno dovuto creare un immenso parco dove si accumulano mura e mosaici, colonne e capitelli.
La visitiamo con una dottoressa che vive in città, Adriana Katz, psichiatra dell'ospedale Barzilai e direttrice della clinica di Sderot, dove cura le vittime dei missili. "Non sono pessimista, sono realista. La pace non arriverà mai. Credevo nell'accordo di pace fino a che i coloni di Gaza non hanno lasciato le loro case. I terroristi lanciavano missili anche prima, ma adesso è sempre più intenso. Siamo persi. Non vorrei mai oggi essere ebrea in Europa, non voglio sentire più quel 'voi'. Obama ci ha castrato e non abbiamo nessuno fra gli arabi con cui dialogare". Passiamo al fianco di bellissime ville costruite di fronte alla spiaggia, di proprietà dell'alta borghesia israeliana e di alcuni oligarchi.
   "A cosa gli servono queste ville?", si domanda Katz. "Fra dieci, vent'anni al massimo Israele rischia di non esserci più. Non vedo molta gente disposta a morire per Israele. Alla gente qui interessano le ville, il benessere, il consumismo. E pensare che quando arrivai ad Ashkelon, quarant'anni fa, c'erano soltanto sabbia e patate. Dove sorgono ora questi grattacieli c'erano delle piantagioni di arance. Ed è strano, perché gli ebrei continuano ad arrivare in città, come se si fossero persi. Qui si costruisce in continuazione. Fa uno strano effetto. Intanto, nessuno ferma i terroristi, che vogliono tutto. Darei loro metà Gerusalemme se servisse per la pace, ma non serve, gli arabi vogliono Haifa, Jaffa, Ashkelon. Quando me lo dicevano ridevo, ma oggi sono d'accordo. E a noi cosa resta? Il mare".
   E' bello il mare ad Ashkelon, solcata da piccole barchette di israeliani che cercano un po' di svago nell'assedio permanente. "Adesso si prepara Hezbollah, che sappiamo ha 30-40 mila missili", ci spiega Katz. "Nell'ultima guerra Hamas ha lanciato missili anche di notte. Sono sempre più sofisticati nella guerra a Israele". Attraversiamo Majdal, l'antica Ashkelon araba, dove è nato lo sceicco fondatore di Hamas, Ahmed Yassin. "Non ho paura di morire, di morire chissenefrega", dice la psichiatra israeliana. "Ho paura di soffrire". C'è l'ospedale Barzilai. "Ecco, stanno costruendo adesso un gigantesco bunker sotto l'ospedale. Durante la prossima guerra, porteranno tutti i pazienti sotto terra". Poi si scorge Nitsan, su una collina. "E' il villaggio dove hanno messo tutti i coloni evacuati da Gaza nel 2005. Questo posto doveva essere 'provvisorio'. Sono trascorsi quasi dieci anni. Siamo tutti provvisori qui. E' Israele a essere un grande itnahalut". Un insediamento. Israele farà la fine di Gush Katif? Ma stavolta dove li metteranno i sei milioni di ebrei?
(1. Continua)

(Il Foglio, 2 dicembre 2014)


Israele - Decisa la data delle elezioni anticipate

Si terranno il 17 marzo le elezioni anticipate in Israele. Lo ha annunciato la radio israeliana all'indomani della crisi politica scaturita dalla decisione del primo ministro Benyamin Netanyahu di licenziare il ministro della giustizia Tzipi Livni e quello delle finanze Yair Lapid. La data, ha precisato il presidente della Knesset, Yuli Edelstein, è stata decisa nel corso di in un incontro tra i leader dei partiti in Parlamento e sarà riportata nel progetto di legge sulla dissoluzione del Parlamento il cui esame prenderà il via oggi.

(Adnkronos, 3 dicembre 2014)


Il garibaldino ebreo (osservante)

di Vittorio Pavoncello

Come è stato acutamente osservato, di solito l'ebraismo italiano dall'Ottocento in poi, almeno nei suoi personaggi più noti e rilevanti, è stato in larga parte soggetto al fenomeno dell'assimilazione. Il libro recentemente comparso, "Arturo Dalla Volta. Un garibaldino mantovano alla battaglia di Mentana", di cui sono autori Ugo G. Pacifici Noja, Agostino Pendola, Silvia Maiocchi, offre una visione diversa di un "piccolo artefice del Risorgimento", un "uomo perbene", in cui l'osservanza religiosa ebraica è coniugata con la militanza patriottica.
   La ricerca svolta per far conoscere la vicenda di un garibaldino ebreo da un punto di vista storico ha sia la scientificità dell'analisi dei documenti sia la commistione delle fonti orali di memoria, queste ultime dovute alla fortunata coincidenza che a scrivere il libro siano stati i diretti discendenti del personaggio di cui si narra. E se i discendenti sono anche studiosi del calibro di Giorgio Pacifici il libro oltre ad aneddoti e battute salaci ha il pregio di una metodologia accurata, pur trattandosi di ricordi di famiglia.
   Nel 1867 un ristretto gruppo di giovani mantovani raggiunge il Generale Garibaldi a Mentana per partecipare a quella che nei loro intenti avrebbe dovuto essere la campagna per la liberazione di Roma e il suo ricongiungimento all'Italia di recente formazione.
   Di questo piccolo gruppo di persone fa parte un giovanotto ebreo di 19 anni, proveniente da una famiglia del ceto imprenditoriale: Arturo Dalla Volta. Come tutti i ragazzi ebrei, anche Arturo Dalla Volta ha studiato, per prepararsi al bar mitzvah, ma insieme ha compiuto con successo gli studi ginnasiali superiori, un dato significativo in una Italia in cui l'analfabetismo è ancora molto diffuso.
Annita Garibaldi Jallet, nella sua introduzione al volume lo pensa così:
    "(…) possiamo immaginare che, ragazzo di una certa cultura, avido di conoscenza, di letture, fortemente immerso in un ambiente minoritario (…) a Mantova, che porterà tutta la sua Comunità ad essere particolarmente vicina all'eroe della libertà della tolleranza per antonomasia, abbia sentito l'impulso a passare dalla teoria alla pratica: espugnare Roma al Papato, darla all'Italia repubblicana (…)".
In un momento storico in cui molti comprano con il passaggio alla religione dominante il biglietto di ingresso nella buona società, Arturo Dalla Volta al contrario conserva e per tutta la vita trasmetterà con orgoglio ai suoi figli, Ugo e Zoe, il senso di appartenenza all'ebraismo italiano.
   Certo, nell'accampamento garibaldino, non deve essere stato facile per il soldato Arturo Dalla Volta rispettare i principi della kasherut. Il vitto nell'accampamento è scarso, eppure Arturo Dalla Volta evita i cibi che la religione ebraica non consente.
   L'atteggiamento suscita la preoccupata disapprovazione di un ufficiale ebreo, il colonnello Guastalla, che vuole soprattutto disciplina e rispetto dei regolamenti. Gli dice il colonnello Guastalla "se rifiuti il cibo, altro non ne avrai".
   Ma a questa osservazione, Arturo Dalla Volta oppone soltanto un'alzata di spalle.
   Dopo la battaglia, la prigionia a Civitavecchia nelle prigioni papali dove Arturo mangerà solo pane e berrà solo acqua per vivere osservando quei principi che ritiene superiori a qualsiasi norma politica e civile.
   La cultura repubblicana che lo accompagnerà tutta la vita si basa su quei fondamenti di uguaglianza tra gli uomini e di soggezione soltanto all'Eterno che gli vengono dalla famiglia, dalla scuola, dalle letture personali e dalle amicizie, prima fra tutte quella con la famiglia Finzi di cui sposerà la diciannovenne Adele.
   Nel volume, poi, risultano di particolare interesse alcune tabelle originali elaborate per la prima volta su una base di dati di circa 3000 nomi per offrire allo studioso un'idea più precisa dell'età dei garibaldini partecipanti, dei luoghi di provenienza e delle professioni esercitate prima di unirsi all'esercito garibaldino. E sono proprio queste tabelle a dare oltre che preziose informazioni anche spunti per riflessioni: la giovane età dei soldati che, oggi, farebbe sussultare di indignazione anche il più tiepido antagonista dei bambini soldato, o la quasi inspiegabile presenza fra i volontari dei calzolai, mestiere in assoluto maggiormente rappresentato su tutte le altre professioni e seguito di pari passo solo dagli studenti.
   Arturo Dalla Volta rientra in una delle fasce (i diciannovenni) che ricomprende quasi il 10 % della formazione garibaldina.
   Anna Maria Lazzarino Del Grosso nella postfazione al volume dà una spiegazione molto interessante del perché Arturo Dalla Volta abbia entusiasticamente raggiunto i soldati di Garibaldi.
   Rifacendosi alla Storia degli Ebrei in Italia di Attilio Milano, Lazzarino Del Grosso ritiene che
    "(…) emergono chiaramente le ragioni dell'entusiastica e generosa adesione di un numero proporzionalmente molto consistente di ebrei alle lotte per l'indipendenza e l'unità della penisola, laddove [le pagine di Attilio Milano, NdR] descrivono la penosissima situazione in cui erano ricaduti gli ebrei romani dopo la fine della Repubblica, situazione che perdurava ancora nel 1867 (…) mi ha fatto quantomeno immaginare che per il giovane mantovano, certo raggiunto attraverso la comunità di appartenenza dalle notizie delle sofferenze dei "fratelli" ancora chiusi nel ghetto ci fosse una motivazione in più per non stare alla finestra e unirsi agli uomini di Garibaldi (…)".
    Roma, 23 novembre 2014

Ugo G. Pacifici Noja, Agostino Pentola, Silvia Maiocchi, Arturo Dalla Volta. Un garibaldino mantovano alla battaglia di Mentana, Edizioni il Varco, Milano, 2014, pagg. 229, € 17,50

(Kolot, 3 dicembre, 2014)


"Sono ebrei": lui picchiato, lei stuprata. Francia sotto choc per il raid antisemita

Brutale aggressione "premeditata" alle porte di Parigi. Arrestati due dei tre aguzzini.

Francia sotto choc per una brutale aggressione a sfondo antisemita compiuta a Creteil, nella periferia di Parigi. Le vittime sono un giovane uomo di 21 anni e la sua fidanzata 19enne: lui è stato picchiato e derubato. Lei, invece, stuprata. Il motivo? La loro appartenenza alla religione ebraica. I fatti risalgono a lunedì mattina, quando tre uomini incappucciati e armati di pistole hanno fatto irruzione nell'appartamento dei genitori di lui. Dopo un'ora e mezza di efferate violenze, gli aggressori sono fuggiti portando via gioielli, carte di credito e telefoni cellulari. Due di loro sono stati fermati e arrestati poco tempo dopo, mentre il terzo complice è riuscito a fuggire ed è ancora ricercato. Secondo gli inquirenti si è trattato di un "attacco premeditato". Gli stessi aggressori hanno dichiarato "di conoscere le origini ebraiche della famiglia" e dunque, come dichiarato dal ministro dell'Interno transalpino Bernard Cazeneuve, "il carattere antisemita dell'aggressione sembra confermato".

(L'Unione Sarda, 3 dicembre 2014)


Il sistema missilistico iraniano e il "corto raggio" che preoccupa Israele

I sistemi missilistici a corto raggio dell'Iran consistono in una famiglia di razzi che completano le forze dell'artiglieria e ne aumentano la capacità sia per gittata che per volume di fuoco. Essi possono anche compensare in parte la capacità limitata del supporto aereo dell'Iran, in particolare in modalità difensiva.
Ci sono diversi tipi di razzi in dotazione all'artiglieria dell'Iran, ma i modelli principali consistono nel Fajr 1 (tipo 63-BM-12 , 8 km. di gitatta), nel H-20 (gitata sconosciuta), nel Falaq 1 (10 km.), nell'Oghab (tipo 83, 34-45 km.), nel Fajr 3 (43 km.), e nel Fajr 5 (75-80 km.).
Tali armi possono avere valore militare limitato, ma va tenuto presente che l'Iran dispone di razzi a lungo raggio che possono essere utilizzati sia in conflitti a fuoco che come armi di intimidazione verso obiettivi oltre i confini dell'Iraq e del Kuwait, e per quelli dotati di maggiore gittata contro gli altri Stati del Golfo Persico meridionale.
I sistemi missilistici a corto raggio dell'Iran includono una vasta gamma di modelli, ma esistono rapporti molto diversi tra loro che si riferiscono ai quantitativi ed alle prestazioni....

(Notizie Geopolitiche, 3 dicembre 2014)


Grothendieck, storia di un matematico ribelle

 
Alexander Grothendieck
La creatività è sempre eversiva. Comporta la messa in discussione delle tesi consolidate, l'esplorazione rischiosa di territori nuovi. Vale anche e soprattutto per la scienza: lo dimostra la figura geniale e indocile di Alexander Grothendieck, considerato l'«Einstein della matematica».
A lui, scomparso in Francia lo scorso 13 novembre, il «Corriere della Sera» ha dedicato un libro a più voci, con introduzione di Giulio Giorello, che va in edicola sabato 6 dicembre al prezzo di € 6,90 più il prezzo del quotidiano. Il titolo è Matematica ribelle. Le due vite di Alexander Grothendieck. Racconta la vicenda di un ragazzo ebreo profugo e perseguitato, il cui padre era stato ucciso ad Auschwitz, che diventa nel dopoguerra un eccezionale pioniere degli studi matematici.
Il genio di Grothendieck è universalmente riconosciuto, ma la gloria accademica non fa per lui: nel 1966 rifiuta la Medaglia Fields, il Nobel della matematica, e poi altri premi prestigiosi, rompe con i colleghi, si dedica alla militanza ecologista e pacifista, infine decide di vivere da eremita, votato alla meditazione spirituale.
Una rivolta di cui il libro del «Corriere» esplora le origini e ripercorre le tappe, gettando uno sguardo anche su altre figure di scienziati ribelli.

(Corriere della Sera, 3 dicembre 2014)

Dall'Assemblea francese "sì" alla Palestina

PARIGI - L'Assemblea nazionale francese ha approvato con una larga maggioranza una mozione che «invita il governo a riconoscere lo Stato della Palestina» come «uno strumento per ottenere una soluzione definitiva del conflitto» israelo-palestinese. Un provvedimento che non ha valore vincolante per il governo, ma il cui valore simbolico è indubbiamente elevato in una fase in cui in Europa si moltiplicano le iniziative in questo senso: dopo la decisione del governo svedese, sono arrivate le mozioni dei parlamenti di Gran Bretagna, Irlanda e Spagna. Immediata la reazione di Israele, che ha fortemente criticato il voto francese: «La decisione allontana la possibilità di raggiungere un accordo di pace».

(Il Secolo XIX, 3 dicembre 2014)


Movimento 5 Stelle: ora anche l'Italia riconosca la Palestina

ROMA - "Ora sia l'Italia a riconoscere pienamente e formalmente lo Stato della Palestina nei confini del 1967, secondo le risoluzioni delle Nazioni Unite". Lo affermano i deputati M5S della Commissione Esteri, nel giorno in cui l'Assemblea nazionale francese ha approvato una mozione non vincolante per il riconoscimento dello Stato di Palestina.
"Seguiamo l'esempio della Francia - continuano i 5 Stelle -. C'e' una nostra mozione gia' depositata, sia calendarizzata e accolta in tempi rapidi dalla maggioranza di governo. Si tratterebbe di un reale atto concreto verso la pace in Medio Oriente, a garanzia della sicurezza e della liberta' del popolo palestinese ed israeliano", concludono i parlamentari.

(Adnkronos, 2 dicembre 2014)


La tecnica degli scossoni

Due anni fa, dopo la decisione dell'Onu di accettare lo "stato palestinese" come membro osservatore, in un articoletto dal titolo "Un altro passo avanti, un altro scossone", concludemmo con queste parole:
    «Con i cosiddetti accordi di pace i nemici di Israele, non riuscendo ad abbatterlo subito con la violenza, sono riusciti a metterlo su un piano inclinato. Con piccoli, graduali scossoni provano ripetutamente, con pazienza e tenacia, a farlo scivolare dolcemente sempre più in basso. L'ultima decisione Onu è un altro scossone, per la felicità di coloro che aspettano soltanto il momento in cui Israele sarà arrivato così in basso da non esserci più bisogno di scossoni: una mazzata e via.
    E le nazioni buone che amano Israele continueranno ad amarlo, perché proporranno l'istituzione di un'altra Giornata della Memoria: la memoria del compianto Stato d'Israele, che - diranno - purtroppo non esiste più, ma aveva il diritto all'esistenza.»
Sono passati due anni e il procedimento continua con regolarità. Allo scossone Onu è seguita, ed è tuttora in corso, una serie di scossoni da parte dei governi di varie nazioni. Non tutti insieme, ma gradualmente, uno dopo l'altro, cominciando dai più assatanati contro Israele, per passare agli equidistanti e arrivare infine a quelli che si definiscono amici d'Israele. Un riconoscimento della Palestina che cos'è in fondo? Significa forse odiare Israele? Ma no, dicono gli amici: è un passo avanti verso la pace, un aiuto offerto al testardo Israele per il suo bene. La tecnica degli scossoni richiede infatti che lo scivolamento verso il basso di Israele non debba sembrare una spinta, ma apparire come un evento naturale o, meglio ancora, come un errore di manovra dell'incorregibile Israele. Perché alla fine si deve poter arrivare a dire, come si è sempre detto nei secoli: "Cari ebrei, se vi ammazzano è colpa vostra". M.C.

(Notizie su Israele, 2 dicembre 2014)


Expo2015: il padiglione israeliano punta su hitech e sostenibilità

Tra agricoltura e gestione delle risorse naturali, è l'innovazione a guidare le aziende su mercati di grande potenzialità.

di Marco Boscolo

 
Nel Deuteronomio, uno dei libri del Pentateuco alla base della cultura ebraica, la promessa che Dio fa al popolo di Israele è di una "terra di grano e orzo, di uva, di fichi e di melograni, una terra di ulivi e datteri". Rispetto alla Terra Promessa, però, il moderno stato israeliano ha dovuto fare i conti con una limitatezza di risorse che ha spinto verso un approccio innovativo e tecnologico applicato soprattutto all'agricoltura. E' questo rapporto i campi e la tecnologia che si sviluppa "Fields of Tomorrow", il padiglione dell'Expo targato Israele, presentato nei giorni scorsi a Milano.
   "La scarsità delle risorse naturali ha portato il paese a essere un pioniere nell'uso delle tecnologie innovative", ha dichiarato Elazar Cohen commissiario generale dell'Expo per Israele. "Oggi il comparto agricolo è interamente basato sulla tecnologia e riesce a tenere il passo grazie alla rapidità delle innovazioni".
   Realizzato interamente in materiali riciclati, il padiglione è caratterizzato dal giardino verticale progettato dall'architetto David Knafo e racconterà come in "soli 66 anni", riporta la presentazione, "[Israele] ha trasformato una terra arida con poche risorse naturali in un terreno fertile grazie alla spinta della ricerca".
   Tra i progetti in vetrina, alcune delle aziende innovative. AutoAgronom Ltd., fondata nel 2008, ha appena 7 dipendenti, ma ha già raccolto 1,5 milioni di capitali e ha vinto una della competizioni del CleanTech Open Global Ideas 2014 di San Francisco. La tecnologia sviluppata si chiama Sustainable Precision Agriculture (SPA) e permette irrigazione e fertilizzazione ottimali per i campi, riducendo del 50% l'impiego di acqua (l'oro blu, che l'agricoltura non sempre utilizza nel modo più efficiente) e del 70% quello di fertilizzanti. Come? Grazie a una serie di sensori che "ascoltano" le piante, analizzano i loro bisogni e permetto di decidere quanta acqua, quanti fertilizzanti erogare localmente in tempo reale.
   Lasciando l'agricoltura per come la intendiamo comunemente, TransAlgae si occupa di sviluppare e coltivare alghe con due scopi principali. Il primo è quello di mettere sul mercato prodotti alimentari che possano contribuire a soddisfare la crescente domanda di cibo a livello planetario, uno dei pilastri del motto di Expo 2015. L'altro motivo per concentrarsi sulle alghe è che potrebbero essere un vettore alternativo all'iniezione per vaccini e altri farmaci.
   Fondata nel 2006 Aquate, invece, si occupa di soluzioni integrate per il "nesso" acqua-energia-cibo. In pratica delle membrane per la ricopertura di bacini idrici per limitare lo spreco di acqua, fornendo al contempo acqua per l'irrigazione, ma anche per coprire le necessità di acqua potabile a livello locale. Una variante prevede anche l'impiego, sopra la membrana, di una copertura di pannelli solari per fornire anche energia elettrica. Il mercato per questo tipo di "nessi" è calcolato nell'impressionante cifra di 3 milioni di miliardi l'anno.

(Wired, 2 dicembre 2014)


Addio a Enzo Camerino, era uno degli ultimi due sopravvissuti al rastrellamento del Ghetto

Aveva 86 anni, oggi era il suo compleanno. A 14 anni fu deportato ad Auschwitz dopo la razzia nazista del 16 ottobre 1943 al Portico d'Ottavia. Fu deportato assieme ai genitori, i due fratelli e uno zio. Dopo la liberazione del campo, nel 1945, tornarono solo lui e un fratello. Una vita dedicata alla Memoria.

L'anno scorso raccontava: "Alle 5 e mezza sono venuti a bussare alla porta"
E' morto nella giornata in cui compiva 86 anni. Enzo Camerino, sopravvissuto ai campi di sterminio, era uno degli ultimi due reduci del rastrellamento del 16 ottobre 1943 che erano ancora in vita. Ne dà notizia il sito della Comunità Ebraica di Roma. Il presidente Riccardo Pacifici, il Rabbino Capo Riccardo Di Segni e tutto il Consiglio della Comunità piangono la morte di Enzo.
"Proprio oggi era il giorno del suo compleanno, ci stringiamo tutti attorno alla sua famiglia che con lui da anni viveva in Canada - fa sapere il portavoce della Comunità Fabio Perugia - Camerino è passato a Roma poche settimane fa e aveva celebrato con noi la ricorrenza del 16 ottobre. Spesso era in Italia dove passava le sue vacanze. Per tutti noi è una perdita incolmabile, non solo per gli ebrei di tutto il mondo ma anche per tutti quei cittadini che da sempre lavorano per tenere viva la memoria della Shoah''.
Camerino non aveva ancora 15 anni quando fu deportato ad Auschwitz assieme ai genitori, i due fratelli e uno zio, mandato subito a morire dai nazisti perché inabile al lavoro. Dopo la liberazione del campo, nel 1945, tornarono solo lui e un fratello. Dal 1957 viveva in Canada, dove si era trasferito per motivi economici e soprattutto perchè, come aveva spiegato più volte, "l'Italia non ha mai chiesto scusa per le leggi razziali". Ma ogni 16 ottobre era a Roma: poche settimane fa e l'anno scorso era stato ricevuto dal Papa, e anche il presidente della Repubblica Napolitano aveva voluto incontrarlo in Sinagoga.

(la Repubblica, 2 dicembre 2014)


Ripensiamo a Israele come partner strategico della nostra industria

di Marco Gay*

Che cosa pensereste se vi trovaste a camminare in una città dove il 50% della popolazione ha meno di 35 anni? Vi sembrerebbe di essere finiti in nuovo pianeta stile Interstellar? Oppure più semplicemente di essere stati catapultati in un campus universitario della Silicon Valley?
   È questa la sensazione che si prova camminando per le strade di Tel Aviv, che non è in un pianeta di una galassia lontana, né in un continente a 9000 chilometri di distanza, ma a due ore di volo da Fiumicino. Tel Aviv è l'epicentro culturale ed economico di una nazione unica e complessa, così vicina a noi - per storia, radici e soprattutto per prossimità geografica - eppure percepita come incredibilmente lontana, quando ne sentiamo parlare sui telegiornali, poco di economia e molto di guerra. Da diversi anni, invece, Israele è un luogo incredibilmente denso di opportunità per chi fa impresa, dove la voglia di crescere di una nazione con soli 70 anni di vita e la fame di innovazione di una popolazione giovanissima si mischiano con la necessità di andare di fretta, perché dietro l'angolo ci potrebbe essere l'ennesimo richiamo alle armi. In realtà anche i tre anni di leva, obbligatori per tutti, nella "Start-up nation" si trasformano in molto più che un addestramento militare. Sono una scuola di responsabilità. E anche di tecnologia, per chi ha accesso ai reparti di intelligence dove ci si addestra su strumenti all' avanguardia.
   È tutto questo e molto di più il vero volto che Israele ha voglia di mostrare al mondo. Lo abbiamo toccato con mano, io e altri tre italiani insieme a una quarantina di industriali, politici e amministratori locali di 18 Paesi invitati ad una missione organizzata dal Ministero degli Affari Israeliani. Abbiamo visto come possano convivere a pochi km di distanza - in un dialogo immaginario tra passato e futuro - il Muro del Pianto di Gerusalemme e gli incubatori dove sono cresciute buona parte delle 1200 imprese high-tech, 700 con pochi anni di attività, di Tel Aviv. Dati che non sono frutto di un caso, ma di politica industriale: il 4,4 del Pil investito ogni anno in ricerca e sviluppo, 450 milioni di dollari spesi in innovazione ogni anno dal Ministero dell' Economia, 85% dei finanziamenti alle startup incubate nei primi due anni di vita, che in caso di fallimento diventano a fondo perduto. Anche per le aziende israeliane però "scalare", cioè conquistare clienti e macinare utili, resta un problema. Molte delle tecnologie sviluppate nel Paese sono state acquisite "giovani" e fatte maturare all'estero, su mercati più ricchi come quello americano.
   E questa potrebbe essere la nostra opportunità. Shimon Peres ha spiegato come il Governo tenti di mettere insieme le aziende che "cercano l'acqua" con le start-up che "cercano il fuoco". Tradotto: serve un sistema industriale "maturo" che possa sfruttare il potenziale di innovazione delle imprese nate accanto alle spiagge di Tel Aviv. Quel sistema siamo noi: un Paese nel «club 100 miliardi» di surplus commerciale, con una manifattura in cerca di futuro e - soprattutto - geograficamente vicino. Ecco perché Israele è una meta da tenere in considerazione, anche per la nostra industria.

* Presidente Giovani Confindustria

(Libero, 2 dicembre 2014)


Selvino, la colonia che salvò i bimbi ebrei. In un video la storia di due profughi

A Selvino negli anni tra il 1945 e il 1948 vennero ospitati 800 bimbi ebrei sfuggiti ai campi di sterminio. L'ex colonia di Sciesopoli, attualmente abbandonata, è un simbolo della memoria: è in corso una petizione per salvarla. Da qui passarono anche i genitori di Miriam Bisk, che sta realizzando un documentario sul loro viaggio.

È online il trailer del documentario che ripercorre il viaggio dei suoi genitori, profughi ebrei dalla Polonia per raggiungere la Terra Promessa di Israele, dopo la persecuzione razziale e la deportazione nei lager nazisti. I genitori di Miriam, Lola e Salek Najman, profughi polacchi ebrei, già rifugiati a Grugliasco, erano arrivati a Sciesopoli come educatori. I due giovani innamorati si imbarcarono poi per la Palestina sull'HaTikva, partita da Bogliasco l'8 maggio del 1947. Quella nave fu intercettata dagli inglesi e costretta a Cipro, dove Miriam nacque al Famagusta British Military Hospital.
Miriam, che vive oggi a Ithaca, nello Stato di New York, ha ripercorso il viaggio da profughi dei suoi genitori, seguendo il diario di sua madre. Dopo avere peregrinato per Polonia e Austria, in Italia è stata a Grugliasco, a Selvino, in via Unione a Milano (allora sede del coordinamento delle operazioni dell'Alyah Beth e rifugio di profughi), a Genova, a Bogliasco, a Bocca di Magra dove l'HaTikva fece un secondo scalo prima di affrontare le acque con il carico dei suoi 1.414 profughi.
A Selvino, insieme all'ex Sindaco Vinicio Grigis, a Walter Mazzoleni, figlio di Angelo che era stato il custode di Sciesopoli, che di quel tempo ha conservato una memoria commossa, Miriam ha visitato la vecchia colonia. Poi ha proseguito il suo viaggio fino a Cipro e, finalmente, ha raggiunto Israele. Durante il suo viaggio, Miriam è stata seguita da un cameraman: questo è il trailer del documentario che sta realizzando.
Memoria» di Sciesopoli ebraica (1945-1948) ha preso le mosse nell'estate del 2012, quando Marco Cavallarin e Miriam Bisk hanno visitato Sciesopoli, scoprendola in stato di completo abbandono.

(L'Eco di Bergamo, 2 dicembre 2014)


La legge su "Israele stato ebraico": il ruolo giocato dall'Europa

La proposta di legge nasce come reazione ai continui attacchi contro l'identità ebraica e sionista dello stato d'Israele

Nella discussione suscitata dalla proposta di legge su "Israele come stato ebraico" molte critiche perdono di vista il contesto che ha portato la questione al centro del dibattito politico in questo periodo. Le accuse di "razzismo" e "discriminazione" riecheggiate sui mass-media e alla Knesset riducono a slogan semplicistici e fuorvianti una questione importante e complessa.
In realtà l'iniziativa non può essere compresa senza considerare le campagne in corso da anni per erodere e alla fine cancellare il carattere essenzialmente ebraico della realizzazione sionista Da diversi anni, gruppi politici e organizzazioni non governative (ONG) espressamente anti-sionisti cercano di abrogare la definizione di Israele come stato nazionale del popolo ebraico per sostituirla con l'ambigua definizione "stato di tutti i suoi cittadini" (nel senso di uno stato privo di ogni caratterizzazione ebraico-sionista). Molte di queste ONG ricevono importanti finanziamenti da governi stranieri, sia direttamente sia attraverso agenzie di assistenza soprattutto religiose, con lo scopo di promuovere questo obiettivo sotto la facciata della difesa dei diritti umani e della democrazia. Il più delle volte si tratta delle stesse organizzazioni impegnate nelle campagne di sistematica demonizzazione di Israele in tutto il mondo, che prendono di mira Israele e solo Israele con boicottaggi e altri attacchi politici....

(israele.net, 2 dicembre 2014)


Un volantino dell'Isis a Gaza minaccia diciotto scrittori

GAZA - Desta forte tensione a Gaza la distribuzione attraverso le reti sociali di un volantino dello Stato islamico che mette in guardia diciotto scrittori e poeti dal criticare la fede islamica e avverte che gli "apostati saranno puniti". Da Ramallah il governo Anp ha replicato condannando severamente ogni genere di intimidazione verso gli intellettuali palestinesi. "Quelle minacce rappresentano un grave precedente", afferma un comunicato. Ma Hamas per ora minimizza. Il portavoce del Ministero degli Interni a Gaza, Yiad Bazam, ha negato che nella Striscia l'Isis operi in alcuna forma. Le minacce, a suo avviso, sono semplici "ragazzate" e in ogni modo - ha assicurato - i servizi di sicurezza vegliano in maniera adeguata.
Il volantino di minaccia agli intellettuali segue la distribuzione di un testo analogo (pure firmato da sedicenti membri dell'Isis) diretto giorni fa alle donne di Gaza affinche' dalla settimana prossima non scendano in strada se non col capo rigorosamente coperto da veli islamici.

(ANSAmed, 2 dicembre 2014)


New York, il marchio kosher.it conquista nuovi orizzonti

"Tantissime persone si sono affacciate allo stand rivolgendoci domande, scambiando idee e impressioni, mostrando interesse per la nostra proposta. Un'esperienza stimolante, l'inizio di una serie di iniziative organizzate in sinergia con il ministero dello Sviluppo Economico per far sì che il marchio di kasherut nazionale possa al più presto passare dalla fase progettuale a quella operativa".
   A New York per partecipare a Kosherfest, rassegna internazionale tra le più quotate del settore, l'assessore alla kasherut Jacqueline Fellus si è fatta ambasciatrice del progetto che l'Unione delle Comunità Ebraiche italiane ha voluto lanciare con l'obiettivo di diffondere la certificazioni kasher fra le imprese agroalimentari italiane, organizzando e supportando i processi di certificazione sul territorio e la promozione/distribuzione degli alimenti certificati a livello internazionale. Il tutto attraverso la garanzia del marchio K.it, da intendersi come "simbolo di kasherut e italianità dei prodotti certificati". AI fianco dell'assessore UCEI, la cui missione è stata interamente coperta dal ministero, undici aziende che hanno aderito al progetto. Una prima avventura oltre confine cui seguiranno nuove iniziative per aumentare la consapevolezza sulle opportunità di un mercato che, spiega Fellus, è composto non solo dai consumatori che osservano la Legge ebraica ma anche da chi, in queste tipologia di prodotti, vede rispettati valori di salubrità e genuinità difficilmente riscontrabili altrove.
   "Dal Kosherfest, dall'intensità di queste giornate americane, ho appreso molte lezioni. La prima - sottolinea - è la formidabile capacità dei certificatori statunitensi di fidelizzare una clientela in larga parte non ebraica. I prodotti kosher hanno infatti un posizionamento molto alto e questo, in un mercato che premia la qualità, è un fattore imprescindibile per raggiungere il successo. La strada che dobbiamo abbracciare in Italia è la stessa".
   Il lavoro va avanti anche sul fronte interno attraverso la sensibilizzazione delle 21 Comunità territoriali. Una lettera di presentazione del progetto è stata indirizzata a tutti i presidenti e, a pochi giorni dall'invio della stessa, già si registrano le prime adesioni. "Su questo versante - spiega Fellus - l'obiettivo è di unire tutte e 21 le Comunità sotto un unico cappello che contribuisca a rafforzare la nostra immagine e la nostra forza contrattuale. È però necessario il supporto da parte dell'Assemblea rabbinica italiana, l'ente cui compete l'organizzazione della forza lavorativa a partire da shochatim e mashghichim.
   La cosa che ritengo prioritaria, più in generale, è il superamento dei personalismi che in passato hanno bloccato la crescita del marchio. Questo impegno, se portato a termine, avrà infatti ricadute positive per tutti: l'UCEI, i rabbini, le singole Comunità. Con la possibilità, inoltre, di dare un impiego a molti giovani che hanno difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro in ragione della stretta osservanza delle regole ebraiche".
   Cresce il progetto, crescono le ambizioni, crescono le forze messe in campo. Da alcune settimane l'UCEI ha infatti assunto una figura professionale dedicata allo sviluppo della fase operativa di K.it. "Si chiama Daniele Pavoncello. È un ragazzo preparato e disponibile e freme dalla voglia di ottenere dei risultati. Tutti aspetti - commenta Fellus - che trovo molto positivi e che fanno ben sperare per il futuro".
Tra le numerose idee in cantiere l'organizzazione di una Kosherfest italiana che costituisca un punto di riferimento per aziende nazionali e internazionali. L'assessore sorride: "È una bella sfida, ci stiamo pensando".

(Pagine ebraiche, dicembre 2014)


"Gill non è stata rapita, ma si addestra con noi"

La 'primula rossa' israelo-canadese si trova in una zona impervia, ma non è caduta nelle mani dell'Isis.

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DAMASCO - La 'primula rossa' israelo-canadese Gill Ghila Rosenberg (31 anni), determinata a combattere lo Stato islamico in prima linea, non è caduta prigioniera degli islamici - come sostenuto ieri da un blog dell'Isis - ma si sta ancora addestrando in una zona impervia, dove non può per il momento essere raggiunta. Lo sostengono, in una conversazione dalla zona dei combattimenti con una giornalista israeliana, fonti curde secondo cui le notizie divulgate ieri "sono solo un espediente propagandistico".
Secondo il blog Shoumoukh al-Islam, citato dai mass media internazionali, la Rosenberg è stata catturata nella zona di Kobani, al confine fra Siria e Turchia. Oggi un altro sito legato all'Islam radicale scrive che la sua sorte sarà adesso decisa da un tribunale militare.
Ma le fonti curde escludono che ci sia stata alcuna cattura perché, ben conoscendo l'interesse dell'Isis a prendere prigionieri occidentali, questi non vengono mai inviati in zone di combattimento. I volontari stranieri arruolati dalle forze curde sono utilizzati solo come personale di sostegno e non si trovano a tu per tu per tu con il nemico.
   Di carattere intraprendente, la Rosenberg ha alle spalle un servizio militare in Israele, e detiene un brevetto di pilota delle aviazione canadese. Ha anche trascorso un periodo di detenzione per essersi associata ad una truffa negli Stati Uniti. Nei curdi - afferma - vede un popolo tradizionalmente amico degli ebrei in generale e di Israele in particolare.
   In alcuni locali di Tel Aviv, negli ultimi mesi, viene eseguita musica curda e sono organizzati eventi in sostegno della indipendenza del Kurdistan. È possibile che frequentando quegli ambienti la Rosenberg abbia deciso di impugnare le armi per un popolo che da decenni lotta su più fronti per la indipendenza.
   All'inizio di novembre è partita per Amman e da là ha proseguito per Erbil, da dove ha rilasciato un'intervista dettagliata a radio Gerusalemme. Sulla sua pagina Facebook ha poi pubblicato immagini che la mostrano in divisa militare. Il 19 novembre ha ringraziato quanti le facevano gli auguri per il suo compleanno. Il giorno successivo ha preannunciato che per due settimane non avrebbe potuto inoltrare aggiornamenti. "A risentirci dopo l'8 dicembre", ha promesso.
In Israele né il ministero della difesa né il ministero degli esteri sanno intanto dire con precisione quale sia stata la sorte.
   Lo scorso settembre un altro israeliano con doppia cittadinanza (il giornalista Usa Steve Sotloff) è stato decapitato da un miliziano dell'Isis. Le immagini della sua brutale esecuzione hanno inorridito il mondo.
Secondo le fonti curde raggiunte da una giornalista di Maariv la giovane avventuriera dovrebbe "con tutta probabilità " trovarsi adesso nelle montagne di Qandil, nel Kurdistan iracheno, al confine con Turchia e Iran. È un'area isolata dal mondo dove le reclute straniere, secondo le fonti, sono addestrate anche per mesi.

(tio.ch, 1 dicembre 2014)


Antisemitismo in Europa, Milano città-modello

La comunità ebraica locale non si sente particolarmente minacciata. In aumento l'intolleranza sul web dopo l'attacco a Gaza.

di Silvia Galbiati, Alessandra Lanza

La Sinagoga di Milano in via Guastalla, come sempre presidiata dai militari
Nel 2014 trecento ebrei italiani sono emigrati in Israele. Si tratta dell'1% di tutta la comunità ebraica residente nel nostro Paese ed è il più alto numero registrato negli ultimi 40 anni.
È un dato significativo, sintomo di un crescente pregiudizio nei loro confronti, abbastanza potente da causare un disagio, ma non tale da sfociare in episodi di violenza. A differenza dell'Europa, dove nell'ultimo decennio gli episodi di antisemitismo sono aumentati in modo esponenziale. «C'è stata una crescita notevole dal 2000 in poi - spiega Stefano Gatti, dall'Osservatorio Antisemitismo di Milano - con la seconda intifada e gli attentati contro le sinagoghe in Francia».
E la Francia, anche oggi, si dimostra in Europa uno dei Paesi più caldi: dai fatti di Tolosa del marzo 2012 agli episodi della scorsa estate, gli atti di antisemitismo segnalati sono aumentati del 91% in un anno, raggiungendo quota 527 (comprese le minacce) nei primi sette mesi del 2014. La Francia non è un caso isolato: la bomba davanti al museo ebraico di Bruxelles è la prova che anche in Belgio l'intolleranza è alta, come in Canada e Regno Unito e persino l'Australia registra una grande crescita di episodi antisemiti negli ultimi anni. Ci sono inoltre Paesi in cui dominano gruppi neo-nazisti o fanatici, ma nei quali il pregiudizio non sfocia in episodi concreti: l'Ungheria, con Jobbi, e la Grecia, con Alba Dorata, sono solo alcuni esempi.
   I 25mila ebrei residenti in Italia non hanno avuto a che fare con violenze di questo tipo. Come racconta una sociologa ebrea nata e vissuta a Milano, «ci sono due tipi di antisemitismo: quello violento, che oggi, spesso, è di matrice islamica, e il pregiudizio, una serie di atteggiamenti, stereotipi, opinioni e credenze che spesso rimangono silenti».
   In Italia, il primo tipo sembra assente: i musulmani hanno una presenza minore rispetto al resto d'Europa e nelle seconde generazioni manca quella componente di frustrazione e aggressività tipicamente postcoloniale. Il pregiudizio, invece, è in crescita e assume tante sfumature: dall'idea di ebreo come parte di un'élite, a quella del commerciante ricco (capro espiatorio in tempo di crisi), dall'ebreo ultrareligioso e chiuso all'interno del proprio gruppo familiare, all'esperto di complotti. L'idea più diffusa è che questo popolo stia riversando gli effetti della violenza dello sterminio nazista sui palestinesi. «La maggior parte della gente non distingue l'essere ebreo dall'essere israeliano - spiega Nathalie, giovane ragazza ebrea di Milano - e fa fatica a comprendere che io sono italiana a tutti gli effetti, nonostante la mia religione».
   È evidente che in corrispondenza del riaccendersi del conflitto in Medioriente il pregiudizio internazionale si acuisce. «Anche in Italia - afferma la sociologa - si trovano parrocchie che pensano ancora ai "perfidi giudei", mentre in città grandi come Milano vengono accettati come "fratelli maggiori dei cristiani"».
   Molti rappresentanti della comunità ebraica di Milano parlano della città come di un'isola felice, in cui è possibile vivere sereni e dimentichi del pregiudizio. Ma, come afferma un giovane rabbino, milanese dalla nascita, «quello che spaventa non è l'italiano ignorante, bensì i musulmani aggressivi». «La Francia - continua - è un campanello d'allarme, ma anche una sveglia per tutti. Gli ebrei sono solo il primo capro espiatorio, ma il problema arriverà per tutti».
   La tutela da parte delle istituzioni italiane è massima e la sicurezza garantita: davanti alle sinagoghe, alle scuole e ai centri culturali ebraici l'esercito è sempre di guardia. Questa presenza da una parte rassicura la comunità, ma dall'altra ne allontana alcuni membri, ricordando una minaccia costante. Oggi, tuttavia, la minaccia si alimenta dell'odio che rimbalza sui social network. «La rete è l'habitat naturale dei cosiddetti "leoni da tastiera" - afferma Michael, un altro ragazzo della comunità milanese - che di persona non avrebbero il coraggio di ripetere gli insulti antisemiti pubblicati sul web». Da "Israele Stato nazista" a "voi ebrei siete la rovina del mondo", la lista di provocazioni digitali è infinita e si è gonfiata quando Israele, a luglio, ha attaccato Gaza.
   Proprio in quel periodo, Nathalie ha deciso di rispondere a questi insulti provando a spiegare la situazione dal suo punto di vista, non "israeliano", ma semplicemente ebraico. «La mia paura - racconta - era la facile influenza che questa falsa propaganda contro Israele potesse determinare; alla gente non importa davvero la causa palestinese, quanto piuttosto andare in tutti i modi contro gli ebrei e lo stato sionista». È a causa di una scorretta o parziale informazione che sempre più spesso l'antisionismo si tramuta in generale antisemitismo, secolare e difficile da estirpare. «L'unico modo per affrontarlo - conclude il rabbino - è essere positivi e portare la luce. Il buio non si combatte con il buio».

(La Stampa - Milano, 1 dicembre 2014)


«La maggior parte della gente non distingue l'essere ebreo dall'essere israeliano - si rammarica la giovane ebrea italiana -, e fa fatica a comprendere che io sono italiana a tutti gli effetti, nonostante la mia religione». E' una fatica che le nazioni hanno sempre fatto, ma dalla prima guerra mondiale in poi - e soprattutto dopo la seconda -, dovrebbe essere chiaro che le dichiarazioni di fedele e convinta appartenenza alla nazione in cui si vive non sono mai servite a garantire una piena accettazione degli ebrei da parte degli altri cittadini. Oggi le cose si complicano con la presenza di Israele. Prendere le distanze da quello Stato, ribadire che "noi siamo ebrei italiani, e non israeliani" dovrebbe essere sufficiente, secondo qualcuno, a non far travasare l'odio verso Israele e a farlo ricadere su ebrei di un altro paese. Ma questa è un'illusione. Se è vero - ed è vero - che l'antiapatia, l'astio, l'odio per la nazione di Israele dipendono non da quello che lo Stato fa, ma da quello che i suoi cittadini sono, cioè ebrei, è vano pensare che quell'odio si fermi alle azioni contro Israele. "La falsa propaganda contro Israele", come la chiama la giovane ebrea, non è altro che la forma con cui si presenta oggi l'avversione per il popolo ebraico. Le fini distinzioni tra "ebrei" e "israeliani" non servono, come non sono mai serviti, nel passato, tentativi analoghi di salvarsi con appropriati "distinguo". M.C.


'Heidegger era antisemita'. La filosofa Di Cesare commenta i Quaderni Neri

L'antisemitismo del grande filosofo tedesco fu sostanziale. Ecco la tesi della studiosa che ha letto le note, ancora inedite in Italia, da lui scritte negli anni Trenta e Quaranta. «I nazisti non volevano solo governare il mondo ma rimodellarlo. Estirpando ciò che era incompatibile con il loro progetto».

di Wlodek Goldkorn

 
Martin Heidegger, filosofo diversamente nazista

Parlare di Auschwitz non è possibile senza Martin Heidegger. Ma la filosofia di Heidegger fa parte del modo di vedere il mondo che ha portato all'esistenza di Auschwitz, alle camere a gas, ai forni crematori, all'idea di annientare quella parte dell'umanità, gli ebrei, che secondo i nazisti non era degna di abitare il pianeta Terra.
   In altre parole, il pensiero del filosofo tedesco nato a Messkirch nel 1889 e scomparso a Friburgo nel 1976, è indispensabile per chiunque voglia confrontarsi con la Shoah, ma nello stesso tempo la sua filosofia è stata funzionale perché si verificasse la catastrofe dell'Occidente.
   È questa la sconvolgente tesi di Donatella Di Cesare, filosofa (insegna a La Sapienza di Roma), allieva di Hans-Georg Gadamer, uno dei maggiori interpreti di Heidegger, e lei stessa vice presidente della Martin Heidegger-Gesellschaft, l'associazione dedicata al filosofo.
   Di Cesare ha da poco dato alle stampe un libro intitolato "Heidegger e gli ebrei" (Bollati Boringhieri). Sottotitolo: "I quaderni neri". "I quaderni neri" sono gli appunti personali del pensatore. La prima parte è stata resa pubblica in Germania solo qualche mese fa (in Italia uscirà per Bompiani a fine 2015). Per ora si
È stata la lettura di quei testi la molla che ha portato Di Cesare a fare i conti non solo e non tanto con Heidegger, ma con l'intera tradizione della filosofia tedesca e quindi con buona parte della filosofia occidentale.
tratta di 1.200 pagine che vanno dall'anno 1931 al 1941 (gli altri volumi arrivano fino al 1969). È stata la lettura di quei testi la molla che ha portato Di Cesare a fare i conti non solo e non tanto con Heidegger, ma con l'intera tradizione della filosofia tedesca e quindi con buona parte della filosofia occidentale. Filosofia, secondo Di Cesare, una mite signora di origini ebraiche, fondata in larga parte sul pregiudizio antisemita. Pregiudizio non razziale, ma metafisico e ontologico (e cioè radicale, all'origine delle cose). L'ebreo sarebbe stato percepito, raccontato e analizzato dai filosofi della "Terra del tramonto" in quanto entità estranea all'Occidente e alla sua storia. Per questo andava annientato.
   Ma procediamo con ordine. Che Heidegger, membro del partito nazional-socialista e per alcuni mesi rettore dell'Università di Friburgo, si fosse compromesso con il nazismo, lo sapevano tutti. Ma, salvo qualche polemica, era opinione comune che si trattasse di uno sbandamento (lo diceva Gadamer). Hannah Arendt, che fu sua allieva e amante, spiegava che spesso capita ai grandi filosofi di non capire molto di politica.
   Dell'antisemitismo hedeiggeriano ha certamente parlato Karl Jaspers, ma l'ostilità nei confronti degli ebrei e verso un certo spirito considerato ebraico ("cosmopolita", "borghese", "calcolatore") era comune a molti bravi intellettuali degli anni Venti e Trenta. Comunque non veniva messo in dubbio il fatto che (come osservò Habermas, anni fa) Heidegger avesse rinnovato la filosofia come nessuno dopo Hegel.
   La sua intuizione fondamentale: occorreva liberarsi dalla metafisica, smettere di cercare un'essenza eterna nelle cose e riscoprire invece "l'Essere": cioè la fonte autentica e dinamica del nostro "essere umani". Per farlo, bisognava tornare ai greci prima di Socrate, alla percezione del mondo precedente Platone, sbarazzarsi della dittatura della tecnica, delle macchine, del mondo degli oggetti che ci circonda. La fenomenologia di Heidegger del resto aveva molti adepti ebrei: Arendt, Herbert Marcuse, e via via fino a Jacques Derrida.
   «La lettura dei quaderni neri», dice ora a "L'Espresso" Di Cesare, «cambia il quadro». Di simile parere sembra essere Peter Trawny, il curatore tedesco delle opere del filosofo. Proprio in questi giorni esce in Italia un suo saggio nel libro "Metafisica e antisemitismo" (ETS) con interventi di vari autori sui "Quaderni neri" (a cura di Adriano Fabris). «Trawny però», prosegue Di Cesare, «non vede la continuità tra il
Ciò che accomuna il Führer Lutero, Kant, Hegel, Fichte e perfino Nietzsche è «l'idea che l'ebreo è un ingannatore, un mentitore, e che occorre sbarazzarsi dell'ebraismo».
pensiero filosofico tedesco e Heidegger. E del resto nessuno finora ha scritto la storia dell'antisemitismo nella filosofia occidentale, e forse sarebbe il caso di farlo. Per questo il mio libro parte da un excursus da Lutero e fino ad Adolf Hitler».
Alla domanda su che cosa accomuna al Führer Lutero, Kant, Hegel, Fichte e perfino Nietzsche (che si definiva come "anti antisemita"), la risposta è: «L'idea che l'ebreo è un ingannatore, un mentitore, e che occorre sbarazzarsi dell'ebraismo. Kant parla dell'eutanasia dell'ebraismo, per Hegel l'ebraismo non aveva posto nella storia dell'Occidente». La studiosa si è data la briga di leggere "Mein Kampf" di Hitler in chiave filosofica («nessuno lo fa, si dà per scontato che è un delirio razzista»). E invece lei trova che in quel testo il razzismo non è biologico, ma ha un suo fondamento teologico-politico:«Siccome l'ebreo è mentitore per natura, nei suoi confronti non valgono le regole normali, neanche in caso di guerra. Non è un nemico da combattere a viso aperto. È qualcuno da annientare con l'inganno: gli si dice che va a fare la doccia mentre lo si conduce alla camera a gas. Gli si nega perfino la dignità della morte, la sepoltura, fondamento del nostro vivere da umani, quando lo si trasforma nel fumo dei camini dei crematori».
   E qui entra in gioco Heidegger. Nei "Quaderni neri" finora resi pubblici gli ebrei vengono menzionati esplicitamente 14 volte. Molte? Poche? Di Cesare risponde così: «Poi ci sono innumerevoli accenni agli ebrei, usando altre parole e frasi, ma che riportano l'ebraismo appunto alla sua presunta essenza che secondo Heidegger è "Weltlos", priva del mondo e non appartenente al mondo. Ecco il fondamento ontologico e non certo razzista dell'antisemitismo del filosofo».
   Simile però, suggerisce Di Cesare tra le righe del suo libro, a quello dei nazisti. Per capire il concetto del Weltlos è utile tornare a una lezione dello stesso Heidegger in cui spiegava che l'elica dell'aereo è inanimata, è "Weltlos", non appartiene alla storia, a meno che su quell'aereo non ci sia il Führer che va a trovare il Duce. Ecco, gli ebrei sono come l'elica, non appartengono né alla storia né al mondo. «Anzi», sottolinea Di Cesare, «gli ebrei per Heidegger non hanno posto in quello che lui chiama "la storia dell'Essere"».
   Non sono questioni solo teoriche. Perché la prassi del Terzo Reich è legata a questo modo di pensare. Seguiamo ancora Di Cesare che in questa conversazione, come nel libro, cerca di evitare il gergo spesso oscuro degli heideggeriani, e quando non può farne a meno, lo spiega. «Per Heidegger», dice, «gli ebrei sono immersi negli "enti", cioè nel mondo degli oggetti e delle cose che ci circondano: un universo che preclude il contatto con l'Essere, con la fonte dell'autenticità, appunto». L'ebreo è una specie di artefatto, che «costituisce un impedimento alla storia dell'Essere». Tradotto in linguaggio comune, per la sua natura l'ebreo è un ostacolo a un futuro libero dal giogo della tecnica e di tutto ciò che ci rende prigionieri del presente e privi di un progetto dell'avvenire.
   E qui si arriva al cuore del ragionamento e pietra dello scandalo: «I nazisti non pensavano solo di governare il mondo, volevano rimodellarlo. Volevano estirpare ciò che ritenevano incompatibile con il loro progetto. Quell'entità incompatibile e di stampo metafisico, erano gli ebrei». Attenzione: sarebbe sciocco
Il pensiero di Heidegger sugli ebrei non è dissimile da quello del Führer, nelle sue conseguenze ultime. Che sono non solo il massacro, ma la scomparsa degli ebrei. In termini filosofici: gli ebrei sono un nulla, e allo stato del nulla debbono essere riportati. Su que- sta terra non devono rimanere neanche i loro cadaveri.
dire che Heidegger è l'ispiratore di Hitler («la sua colpa è stata casomai quella di non aver capito, dopo la guerra, che Auschwitz fosse una rottura radicale nella storia») ma il suo pensiero sugli ebrei non è dissimile da quello del Führer, nelle sue conseguenze ultime. Che sono non solo il massacro, ma la scomparsa degli ebrei. In termini filosofici: gli ebrei sono un nulla, e allo stato del nulla debbono essere riportati. In concreto (per Hitler, non per Heidegger): su questa terra non devono rimanere neanche i loro cadaveri.
E parlando del "nulla" in termini filosofici, Di Cesare spiega quanto Heidegger non avesse capito ciò che insegna l'ebraismo: il nulla non è assenza, ma è l'Altro. Tradotto: Heidegger non aveva capito che qualunque progetto del futuro debba essere collettivo e poggiare su un dialogo, una conversazione. «In fondo», dice la studiosa, «il Dio degli ebrei è un Dio che pone domande, si interroga e interroga, ascolta e si fa ascoltare».
   Aggiunge: «È un peccato che Heidegger non l'abbia compreso, perché per molti versi il suo pensiero corre parallelo a quello ebraico». Un ulteriore paradosso che lei articola così: «La sua idea di tempo non come fatto oggettivo misurabile ma come dimensione del futuro assomiglia all'idea che del tempo hanno gli ebrei». Spiegazione: gli ebrei vivono, oltre che nel presente, nel tempo messianico, nella speranza della redenzione. Quando celebrando a Pasqua la liberazione dalla cattività egizia, dicono «l'anno prossimo a Gerusalemme», intendono l'anno prossimo la Redenzione. Senza questa fede non c'è ebraismo, neppure quello laico.
   E per Heidegger invece la Redenzione non esiste? Di Cesare rimanda alla conclusione (da brividi) del suo libro. In un celebre frammento Walter Benjamin, filosofo ebreo tedesco, parla dell'"Angelo della storia" che, sospinto dal vento della bufera, ha lo sguardo volto all'indietro per contemplare il paesaggio delle macerie. Questa tempesta è il progresso. «Il "vento del paradiso" di Benjamin», spiega la studiosa, «per Heidegger è invece un vento gelido, che non solleva l'angelo in alto, ma lo lascia immerso nelle "brume della Foresta Nera"».
   Divinità infernali, pagani al posto del Messia messaggero di Dio. Apocalisse e Auschwitz come fine della filosofia. E allora cosa rimane? «Moltissimo», risponde Di Cesare. «Senza categorie heideggeriane come "fabbricazione di cadaveri", "dominio della tecnica" e simili non è possibile alcun approccio ad Auschwitz. E non si può nemmeno capire il mondo. Non a caso, per un poeta come Paul Celan o un intellettuale come Jean Améry (lui stesso sopravvissuto al lager), Heidegger era un punto di riferimento. «Resta da scrivere la fenomenologia dei campi di sterminio», conclude Di Cesare. Una sfida indicibile.

(L'Espresso, 1 dicembre 2014)


Milano - Israele verso Expo 2015

di Daniel Reichel

Ripensare la produzione alimentare, la gestione delle risorse per costruire economie eco-sostenibili.
È la sfida che si presenta al mondo nel prossimo futuro, sarà il tema centrale di Expo 2015, che aprirà i battenti a Milano il prossimo 1 maggio, ma soprattuto è il presente di Israele: la Start-up Nation è infatti tra i paesi più all'avanguardia nei settori dell'innovazione agricola, nella biotecnologia, della gestione delle risorse idriche. A Expo dunque Israele e il suo padiglione Fields of Tomorrow (i campi di domani) saranno sicuramente protagonisti come ha dimostrato il successo dell'evento organizzato questo weekend all'Expo Gate di Milano. Le idee innovative, il know how così come i sapori di Israele sono stati infatti al centro di una due giorni milanese intensa e partecipata. Attività per famiglie, proiezioni, un laboratorio culinario, musica e un workshop conclusivo hanno caratterizzato le due sessioni di appuntamenti in cui è stato presentato il padiglione israeliano e le eccellenze del paese. Ieri, in particolare, sono state presentate al pubblico milanese - con la presenza tra gli altri del presidente della Comunità ebraica milanese Walker Maghnagi e il vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Roberto Jarach - alcune aziende e start-up israeliane attive in Italia e altre iniziative di cooperazione tra Israele e il Bel Paese. Ad aprire l'evento, condotto da Cecchi Paone, l'economista e manager Roger Abravanel, che all'innovazione israeliana ha dedicato un libro e ha avuto modo di spiegare lo sviluppo economico e nella ricerca del paese.
Un paese con risorse naturali limitate come Israele - spiegava il presidente della commissione israeliana Expo Elazar Cohen- fin dalla sua nascita ha dovuto impostare la sua politica agricola sulla base di un approccio a lungo termine. La scarsità delle risorse naturali ha portato il paese ad essere un pioniere nell'uso di tecnologie innovative, al fine di compensare la carenza naturale di risorse. Pur con un'eredità di migliaia di anni in cui i cambiamenti nel corso del tempo sono stati lenti, oggi il comparto agricolo è interamente basato sulla tecnologia e riesce a tenere il passo grazie alla rapidità delle innovazioni".
Tra i protagonisti di ieri Noam Ilovich AutoAgronom Israel Ltd, azienda leader nell'innovazione legata alla tecnologia agricola, che ha spiegato l'importanza di massimizzare l'utilizzo di acqua e fertilizzanti per creare un settore primario sostenibile. Tra le presentazioni più apprezzate anche quella di Gideon Zohar di Transalgae che ha illustrato il brevetto per una vaccinazione su larga scala valida sia per l'uomo sia per gli animali. Un'iniziativa dalla portata rivoluzionaria, ha affermato Zohar. L'agricoltura a goccia, tecnica sviluppata soprattutto in Israele, è stata poi uno dei temi cardini dell'evento con la multinazionale israeliana Netafim - attiva anche in Italia - a spiegare l'importanza dell'utilizzo di questo sistema.

(moked, 1 dicembre 2014)


Israele punta sull'innovazione e le aziende baresi cercano scambi

Il presidente dei giovani imprenditori edili in missione a Tel Aviv. Luigi De Santis: è una grande occasione di business.

BARI - Opportunità di business con le innovative aziende israeliane. È l'auspicio coltivato al termine dell'evento «The common challenges of tomorrow» promosso a Tel Aviv dal ministero degli Esteri di Israele durante il quale giovani imprenditori, politici e amministratori locali di 17 Paesi europei hanno potuto conoscere e incontrare i loro omologhi israeliani per confrontarsi su sfide comuni e possibili collaborazioni tra le imprese dei due Paesi.
   Con i suoi trent'anni Luigi De Santis, presidente del Gruppo dei Giovani imprenditori edili dell'Ance Bari e Bat e a capo della delegazione barese dei giovani del Fai, era il più giovane dei quattro delegati italiani a Tel Aviv (presente anche il presidente dei Giovani di Confindustria Marco Gay) impegnati negli incontri che hanno toccato numerosi temi: ricerca e innovazione tecnologica, start-up, medicina, biotecnologia e ambiente.
   «Con una delle più alte densità di start up tecnologiche nel mondo - commenta De Santis - Israele può essere d'esempio per sviluppare anche nella nostra regione un numero sempre maggiore di incubatori specializzati che consentano ai giovani talenti di sviluppare nuove idee di business. Le idee innovative dei giovani imprenditori israeliani integrate con le capacità imprenditoriali italiane e pugliesi possono condurre a risultati fecondi per l'economia pugliese; è un'occasione che va colta. Tante le similitudini tra Puglia e Israele con cui è possibile avviare collaborazioni sia di carattere imprenditoriale che culturale-scientifico».
   De Santis e gli altri tre delegati italiani hanno visitato l'Università di Weizmann, incontrato i parlamentari della Knesset e scoperto le start-up presenti a Tel Aviv e dintorni.

(La Gazzetta di Bari, 1 dicembre 2014)


La Shoah dei bambini

Inghiottiti nei forni crematori, sfracellaìì contro i muri, centrati a colpi di pistola. Dagli atti del processo Eichmann tradotte le pagine relative alle vittime più giovani.

di Elena Loewenthal

 
                       Il Lager com'era ricordato subito dopo la guerra da Thomas Greve,
                       un bambino scampato ad Auschwitz

Che la memoria sia un valore e ricordare un dovere è cosa ormai assodata. Un dogma che non si discute, valido in assoluto.
   Ma non sempre è stato così, neppure a proposito di quella memoria divenuta tale per antonomasia, tanto da siglare una giornata apposita. La Shoah non è sempre stata l'oggetto di una commemorazione pubblica, non è sempre stata il simbolo del dovere morale di ricordare, per evitare che succeda di nuovo. Anzi.
   Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, di imperativo ne era in vigore un altro, di segno opposto: lasciarsi tutto alle spalle. Tornare a vivere. E per poterlo fare, per potersi svegliare ogni mattina e prendere sonno ogni sera senza lo sgomento di quel passato prossimo, sembrava necessario dimenticare. Quanto meno, tacere. Israele era allora il Paese con il più alto tasso di incubi notturni e urla dal sonno profondo. Ma i sopravvissuti tacevano, di giorno. Un po' per continuare a sopravvivere, per non farsi distruggere dalla disperazione. Un po' per l'indecifrabile vergogna di esserci ancora, mentre tutti gli altri erano morti.
   Poi ci fu un evento cruciale, senza il quale la memoria non sarebbe diventata quello che è oggi. Nel 1960 Adolf Eichmann, la mente della Soluzione finale, viene individuato e catturato dagli israeliani in Sud America, dove conduce una vita perfettamente tranquilla. L'anno successivo s'inizia a Gerusalemme il suo processo, in una sala costruita all'uopo. Centinaia di sopravvissuti prendono posto sul banco dei testimoni, sotto gli sguardi della corte e dell'impassibile imputato. Centinaia di giornalisti di tutto il mondo seguono le udienze. Molte sono trasmesse per radio. In Israele e nel mondo intero si ascoltano per la prima volta, da quelle vive ma straziate voci, i racconti della Shoah. In quei mesi, la memoria diventa qualcosa di diverso da ciò che era prima. Parole, sguardi, silenzi. Anche il tonfo del corpo svenuto di Yechiel De Nur, che ha voluto testimoniare con il nome di KaTzetnik (abbreviazione di «prigioniero del campo di concentramento») seguito dal numero che ha tatuato sul braccio, e non ce l'ha fatta.
   Livio Crescenzi, archeologo e traduttore di letteratura americana, sta da molti anni lavorando alla traduzione italiana di quel documento indispensabile che sono gli atti del processo. Inspiegabilmente, nella mole financo ridondante di letteratura intorno alla Shoah di cui dispone e in cui ancora si profonde la nostra editoria, mancava questo tassello fondamentale. Forse perché si tratta di un lavoro immenso e minuzioso, che esige passione e commozione nel senso più alto del termine, il desiderio cioè di sentire e inevitabilmente soffrire, lavorando su quelle parole. Più che mai quando il tema sono i bambini della Shoah, come in questo secondo volume degli atti, pubblicato come il precedente dal benemerito editore Mattioli 1885 con il titolo Un fiore mi chiama (pp. 207, € 21,90) e una prefazione di Ernesto Galli della Loggia.
   Sono pagine terribili. Non c'è altro modo per definirle. È una lettura che mette a dura prova, che ti provoca continuamente, che ti invita a ogni pagina a chiudere il libro, sbatterlo contro il primo muro, urlare che non è possibile. Eppure è così, Crescenzi ha metodicamente raggruppato le testimonianze per luoghi, momenti. Udienza per udienza. A partire dal ghetto di Varsavia dove più si era piccini più probabilità - per quanto scarsa - c'era di riuscire a contrabbandare un tozzo di pane di qua dal muro, sfuggendo alla sorveglianza. C'è la tacca su un altro muro, quello del dottor Mengele: sopra significava passare dai suoi esperimenti, sotto voleva dire essere troppo piccoli di statura, e finire immediatamente nelle camere a gas.
   C'è un'infinità intollerabile di neonati strappati alle braccia delle madri e sbattuti per terra per fracassargli il cranio. Ridendo. C'è quel bambino rimasto un anno nascosto in cantina con la consegna del silenzio, che a distanza di tanto tempo ancora sussurrava invece di parlare, per paura. C'è anche il sedicenne che Eichmann uccise perché aveva rubato due ciliegie dal suo albero. Era in una squadra di lavori forzati al servizio «domestico» e fu probabilmente l'unico caso in cui la bestia nazista ammazzò qualcuno direttamente, con le proprie mani. Il suo avvocato difensore si accanisce contro questa testimonianza, perché tutta la sua strategia è basata sul paradosso di un capo d'accusa fondato sulla responsabilità di più di sei milioni di morti, e nessun (o quasi nessun) omicidio compiuto in prima persona.
Eichmann venne giustiziato il 31 maggio 1962 perché ritenuto colpevole di crimini contro l'umanità, nella piena consapevolezza che la pena, per quanto capitale, non era commisurata all'immensità della colpa. Momento cruciale della storia di tutti noi, chiave di volta del nostro approccio alla memoria, il processo Eichmann è anche, forse soprattutto, la resa di ogni possibile giustizia di fronte a un milione e mezzo di bambini inghiottiti dal fumo dei forni crematori, sfracellati contro il muro, centrati da un colpo di pistola, sepolti dentro una fossa comune.

(La Stampa, 1 dicembre 2014)


Startup in Europa: ecosistema in Israele (prima puntata)

Un'analisi dell'ecosistema delle startup di sei ecosistemi europei. Sotto la lente pro e contro di investimenti in Regno Unito, Israele, Germania, Francia, Russia e Svezia.

di Paolo Anastasio

Un'analisi approfondita dell'ecosistema delle startup in sei paesi europei, dove il settore hitech è in spolvero. Sarà questo il tema al centro della conferenza LeWeb che si terrà l'11 dicembre a Parigi, un Forum Europeo delle startup per fare il punto della situazione nel Vecchio Continente. Sotto la lente i pro e i contro degli ecosistemi di Regno Unito, Israele, Germania, Francia, Russia e Svezia.

- Israele: vantaggi per gli imprenditori
  Israele può contare su un innato spirito imprenditoriale. Le dimensioni ridotte del mercato domestico costringono le imprese a guardare ad una dimensione internazionale, il che è è un grosso vantaggio per lo sviluppo di nuovi mercati tecnologici. Israele è un paese dove il know how tecnologico è molto sviluppato, anche grazie ad un settore militare che investe moltissimo nello sviluppo di nuove tecnologie. Per questo esperienza e competenze sono facilmente riscontrabili nel paese. Dal punto di vista finanziario, ottenere finanziamenti in venture capital soprattutto in fase di 'seed stage' non è troppo complicato. Infine, fatto non secondario per gli imprenditori del settore tecnologico, il fallimento di una startup non è considerato un dramma. Insomma, in Israele è concesso fallire.

- Israele: svantaggi per gli imprenditori
  Il gran fiorire di nuove startup rende piuttosto complessa la fase di reclutamento di nuovi talenti, tentati da offerte multiple da parte della concorrenza. Una tendenza degli investitori è quella di voler uscire rapidamente dal capitale, tentando molto spesso la via della 'quick exit'. La vocazione internazionale del paese aumenta il rischio di operazioni di carattere industriale e finanziario fin da subito.

  Il sostegno del governo al settore delle startup esiste, ma troppo spesso è male indirizzato e canalizzato in maniera inefficiente. Spesso le startup destinate ai consumatori fanno una brutta fine in Israele, mentre i fondatori delle nuove imprese spesso perdono molti soldi in fase di avviamento, durante i primi round di finanziamento, anche quando sostenuti da programmi governativi.
Di norma, le startup israeliane sono finanziate in dollari ma pagano i loro salari in Shekel. Il regolatore spesso e volentieri ostacola l'importazione di tecnologia hardware dall'estero. Lo spirito di gruppo e il fare squadra non sempre funzionano in Israele.

(key4biz, 1 dicembre 2014)


Oltremare - Se bruciano i libri
Della stessa serie:

“Primo: non paragonare”
“Secondo: resettare il calendario”
“Terzo: porzioni da dopoguerra”
“Quarto: l'ombra del semaforo”
“Quinto: l'upupa è tridimensionale”
“Sesto: da quattro a due stagioni”
“Settimo: nessuna Babele che tenga”
“Ottavo: Tzàbar si diventa”
“Nono: tutti in prima linea”
“Decimo: un castello sulla sabbia”
“Sei quel che mangi”
“Avventure templari”
“Il tempo a Tel Aviv”
“Il centro del mondo”
“Kaveret, significa alveare ma è una band”
“Shabbat & The City”
“Tempo di Festival”
“Rosh haShanah e i venti di guerra”
“Tashlich”
“Yom Kippur su due o più ruote”
“Benedetto autunno”
“Politiche del guardaroba”
“Suoni italiani”
“Autunno”
“Niente applausi per Bethlehem”
“La terra trema”
“Cartina in mano”
“Ode al navigatore”
“La bolla”
“Il verde”
“Il rosa”
“Il bianco”
“Il blu”
“Il rosso”
“L'arancione”
“Il nero”
“L'azzurro”
“Il giallo”
“Il grigio”
“Reality”
“Ivn Gviròl”
“Sheinkin”
“HaPalmach”
“Herbert Samuel”
“Derech Bethlechem”
“L'Herzelone”
“Tel Aviv prima di Tel Aviv”
“Tel Hai”
“Rehov Ben Yehuda”
“Da Pertini a Ben Gurion”
“Kikar Rabin”
“Sde Dov”
“Rehov HaArbaa”
“Hatikva”
“Mikveh Israel”
“London Ministor”
“Misto israeliano”
“Fuoco”
“I cancelli della speranza”
“Finali Mondiali”
“Paradiso in guerra”
“Fronte unico”
“64 ragazzi”
“In piazza e fuori”
“Dopoguerra”
“Scuola in guerra”
“Nuovo mese”
“Dafka adesso”
“Auguri dall'alto”
“Di corsa verso il 5775”
“Volo verso casa”
“La guerra del Kippur”
“Inverno, autunno”
“Ritorno a Berlino”
“Il posto della cucina”
“Fermi tutti”
“La merenda”
“Neve”



di Daniela Fubini, Tel Aviv

Ci son giorni che uno fa davvero fatica a mettere la cronaca da parte e andare al lavoro, a vivere il quotidiano. Quest'estate è stata tutta così, ma l'impegno bellico delle retrovie (cioè noi, fra le sirene e i rifugi) stava anche nel non smettere proprio il quotidiano, per non darla vinta alla guerra anche psicologica di Hamas. Ma quello era Hamas: il nemico esterno, che ci vuole distruggere. Vada se che non glielo lasciamo fare, non siamo arrivati fino a qui per farci ributtare a mare.
E un nemico interno, che usa metodi violenti nel tentativo di modificare la nostra società senza passare per il dialogo ed il confronto, come usa nei paesi civilizzati e democratici: questo nemico qui, come lo confrontiamo invece? Che va ad appiccare il fuoco ad una scuola mista a Gerusalemme dove studiano bambini ebrei ed arabi insieme, che lascia scritte piene d'odio sui muri, che mette minacciosi libri bruciati sul muretto fuori da un tempio Modern Orthodox della illuminata Tel Aviv.
Da incrollabile idealista e sionista, vivo nella consapevolezza che, anche se non ci siamo ancora arrivati, la vera realizzazione di Israele come stato sia di essere una società giusta, equilibrata, basata sul valore ebraico di Ztedaka (giustizia sociale). Questi atti vandalici a sfondo politico hanno in realtà poco valore nel quadro delle molte violenze presenti nella nostra, come in tutte le società moderne. Ma fanno suonare un campanello d'allarme che spero sentano tutti.
I vandali che ieri sera hanno messo un mucchietto ordinato di libri bruciati dove a volte vado a pregare, hanno scritto "In un posto in cui passa una 'legge nazionale ebraica', i libri verranno bruciati" - forse una citazione di Heine "Là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini."
Sarà bene che la società rifiuti sonoramente questi metodi violenti da qualunque lato politico arrivino, prima che si avveri nuovamente il monito di Heine.

(moked, 1 dicembre 2014)


Quando il negozio si portava in spalla, in mostra la storia degli ambulanti ebrei

L'esposizione raccontata in una trentina di foto d' epoca

di Gabriele Isman

Il negozio se lo portavano dietro. Chiuso in una cassetta portata a tracollo. E via a pedalare, e vendere, per le strade della Città Eterna. Sono i protagonisti della mostra documentaria "Urtisti e ricordari a Roma. Passato e presente di uno storico mestiere". "Loro sono parte del tessuto urbano di Roma da secoli: circa duecento famiglie fanno quel mestiere da 500 anni", spiega il rabbino capo della Capitale, Riccardo Di Segni, ricordando che la gran parte dei venditori di souvenir sono membri della comunità ebraica. L'esposizione con tante immagini d'antan, che ricostruiscono le loro vicende dall'Ottocento ai giorni nostri, aprirà al pubblico mercoledì al Museo In Trastevere e si potrà visitare fino a domenica.
   La mostra al Museo In Trastevere è organizzata dalla comunità ebraica capitolina e patrocinata da Roma Capitale. L'esposizione racconta, attraverso una trentina di foto d'epoca, la storia di questi particolari venditori ambulanti fino ai giorni nostri. "Avevano il banchetto addosso, e urtavano le persone. Da qui il termine urtisti", aggiunge il rabbino Di Segni. Tra i pezzi pregiati che si potranno vedere nell'esposizione, una lettera del maggio 1952 con cui l'allora comandante degli Alleati in Europa Dwight Eisenhower (destinato a diventare l'anno successivo presidente degli Usa) ringraziava l'urtista Leone Giovanni Spizzichino "per la sua cortesia durante la mia interessante e piacevole visita al Colosseo. Le sono particolarmente grato per la guida che mi ha dato alla mia partenza: sarà sempre un ricordo appropriato di quel grande monumento".
   Gli urtisti oggi sono 112 e nella loro associazione hanno un presidente, Fabio Gigli, che si definisce "l'unico cattolico della categoria". Fu un editto papale di fine Ottocento a spostarli dalle basiliche dove lavoravano in altre aree del centro. Ora il Comune pensa di farli muovere ancora, liberando le piazze storiche: contro questa eventualità l'associazione dei 112 urtisti ha anche manifestato a Trinità dei Monti. Di Segni ne ha discusso in diversi incontri e telefonate con il sindaco di Roma, Ignazio Marino. "Siamo preoccupati - dice ancora il rabbino - perché è giusta l'attenzione al decoro, ma non bisogna fare di tutta l'erba un fascio, confondendo piccole installazioni con realtà più strutturate". In base a quell'editto e alle consuetudini, gli urtisti ebrei vendono anche simboli di una religione diversa dalla loro: "Con loro su questo sono in discussione - conclude Di Segni - e li richiamo alla sobrietà".

(la Repubblica - Roma, 1 dicembre 2014)



Non ti preoccupare. Preoccupati

Non ti preoccupare
per le cose che leggi nella Bibbia
e non capisci.
Preoccupati
per quelle che capisci
e non metti in pratica.


Da Torino alla Puglia, propaganda e veleni

A Torino dopo le polemiche degli scorsi giorni è intanto arrivato un nuovo annuncio del Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà dove è allestita una discussa mostra Unrwa sui profughi palestinesi. "Per ragioni di ordine organizzativo", la tavola rotonda sull'attività dell'UNRWA e sull'assistenza ai rifugiati, prevista per il 2 dicembre, è stata rinviata sine die. Voci non ufficializzate vogliono che la decisione sia stata assunta dalla direzione del Museo con l'intento di rinunciare a un incontro, che lungi dall'essere un momento di confronto e approfondimento sulla realtà del conflitto mediorientale rischierebbe di trasformarsi in una nuova occasione di propaganda e di scontro.
   Nuove polemiche si aprono intanto in Puglia dove l'obiettivo, sotto il coordinamento del Keren Kayemeth LeIsrael, era quello di stabilire un rapporto di collaborazione e reciproco scambio tra il Comune di Massafra e la città Gerusalemme cementificando questo incontro attraverso la piantumazione di un ulivo giunto dalle colline sovrastanti la capitale dello Stato di Israele. Nell'imminenza dell'evento, in programma per la giornata di ieri assieme ad approfondimenti culturali e artistici sul tema, tutto è però saltato. Sono circolate varie versioni sull'accaduto. L'impressione che si ricava, in ambienti ebraici e non, è che le autorità abbiano ceduto alle pressioni di attivisti anti-israeliani che, nei giorni precedenti, avevano annunciato l'intenzione di disturbare il regolare svolgimento dell'evento.
   A farsi portavoce di questo malcontento Silvia Torsella Della Corte, iscritta alla Comunità ebraica di Napoli che avrebbe portato un saluto a nome dell'Adei Wizo e che racconta: "La questura e la prefettura, secondo quanto mi ha riferito l'organizzatrice (la professoressa Barbara Wojciechowska, ndr), hanno invitato con pressioni crescenti: prima a omettere l'apposizione della targa e la piantumazione dell'albero la mattina, poi a limitarsi all'evento del pomeriggio, poi ad annullare tutto".

(moked, 1 dicembre 2014)


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